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DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2016 NUMERO 577 Pe rché scrivo C REDO CHE LA VERA BIOGRAFIA DI UNO SCRITTORE sia la sua opera. Che vivano isolati come Emily Brontë o interven- gano continuamente nella vita pubblica come Victor Hu- go, le notizie più importanti sulla vita degli autori a cui ci appassioniamo (come sentono davvero se stessi, il mondo, i propri simili) le potete ricavare interrogando i loro libri. Lì si annida un io più profondo di quello utilizzato nella vita sociale. Dopo aver letto L’amica geniale di Elena Ferrante, ho provato il de- siderio di intervistarla sulla sua opera. Scrittori che parlano di libri. Se ci pensate è la cosa più naturale del mondo. Di fatto, ci interpella- no su tutto tranne su ciò che più ci sta a cuore. Elena Ferrante ha rac- colto il mio invito. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE La copertina. L’era del libro senza libro Straparlando. Giuseppe Sgarbi: “Io e i miei figli” I tabù del mondo. Il paradosso felice della fedeltà Cult NICOLA LAGIOIA L’attualità. Roberto Saviano, viaggio nel Califfato delle Mafie Spettacoli. I locali di New York e Giorgio Moroder, re della disco, che non ha mai ballato in discoteca Sapori. Mezzo secolo di Vinitaly L’incontro. Michele Riondino: “Senza Montalbano starei all’Ilva” Intervista a Elena Ferrante © ILLUSTRAZIONE DI GIPI PER “LA REPUBBLICA” Repubblica Nazionale 2016-04-03

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DIREPUBBLICADOMENICA 3 APRILE 2016NUMERO577

Perchéscrivo

CREDO CHE LA VERA BIOGRAFIA DI UNO SCRITTORE sia la sua opera. Che vivano isolati come Emily Brontë o interven-gano continuamente nella vita pubblica come Victor Hu-go, le notizie più importanti sulla vita degli autori a cui ci appassioniamo (come sentono davvero se stessi, il

mondo, i propri simili) le potete ricavare interrogando i loro libri. Lì si annida un io più profondo di quello utilizzato nella vita sociale.

Dopo aver letto L’amica geniale di Elena Ferrante, ho provato il de-siderio di intervistarla sulla sua opera. Scrittori che parlano di libri. Se ci pensate è la cosa più naturale del mondo. Di fatto, ci interpella-no su tutto tranne su ciò che più ci sta a cuore. Elena Ferrante ha rac-colto il mio invito.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

La copertina. L’era del libro senza libroStraparlando. Giuseppe Sgarbi: “Io e i miei figli”I tabù del mondo. Il paradosso felice della fedeltà Cult

N I C O L A L A G I O I A

L’attualità. Roberto Saviano, viaggio nel Califfato delle Mafie Spettacoli. I locali di New York e Giorgio Moroder, re della disco, che non ha mai ballato in discoteca Sapori. Mezzo secolo di Vinitaly L’incontro. Michele Riondino: “Senza Montalbano starei all’Ilva”

Intervistaa ElenaFerrante©

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laRepubblicaDOMENICA 3 APRILE 2016 26LADOMENICA

ElenaFerrante

N I C O L A L A G I O I A

sono io

L’ INTERVISTA

SCRITTA MESI FA E RICHIESTA

DA NICOLA LAGIOIA A ELENA FERRANTEPRIMA DEL PREMIO

STREGA 2015, L’INTERVISTA

QUI PUBBLICATA COMPARIRÀ

INTEGRALMENTE IN UNA EDIZIONE

AGGIORNATA DE “LA

FRANTUMAGLIA” A SETTEMBRE

IN GRAN BRETAGNA, AUSTRALIA ,STATI UNITI

E A NOVEMBRE IN ITALIA, SEMPRE

PER LA CASA EDITRICE E/O

La copertina. Perché scrivo

UNO DEGLI ASPETTI PIÙ POTENTI DE “L’AMICA GENIALE” riguarda il modo in cui viene resa l’interdipendenza tra i personaggi. È evidente nel rapporto tra Lila e Elena: ogni volta che Lila svanisce dall’orizzonte degli eventi di Elena, continua ad agire nell’a-mica e, si presume, accade anche il contrario. Leggere il suo romanzo è confortan-te, perché nella vita vera succede proprio così: le persone per noi importanti (quel-le a cui abbiamo dato l’opportunità di scassinarci interiormente) non cessano di in-terrogarci, perseguitarci, all’occorrenza guidarci. Anche se nel frattempo sono morte, o lontane, o se ci abbiamo litigato. Il che altera la costruzione dei ricordi. Il modo in cui rileggiamo il romanzo della nostra vita dipende anche da come agisco-no silenziosamente in noi le persone fondamentali. Tenendo conto di cosa sono fat-ti quei legami, potrebbe sembrare una maledizione. Eppure, non è da considerare anche una benedizione? L’alternativa non rischia di essere la solitudine assoluta?

«Certi ambienti napoletani poveri erano affollati, sì, e chiassosi. Raccogliersi in sé, come si dice, era materialmente impossibile. Si imparava prestissimo ad avere la massima concentrazione nel massimo disturbo. L’idea che ogni io è, in gran parte, fatto di altri e dall’altro non era una conquista teorica, ma una realtà. Essere vivi significava urtare di conti-nuo contro l’esistenza altrui ed esserne urtati, con esiti ora bonari, l’attimo dopo aggressivi. Nei litigi si tiravano in ballo i morti, non ci si accontentava di aggredire e insultare i vivi: si finiva per degradare con naturalezza anche zie, cuginet-te, nonni e bisnonni che non erano più al mondo. E poi c’era il dialetto e c’era l’italiano. Le due lingue rimandavano a co-munità diverse, entrambe gremite. Ciò che era comune all’una non era comune all’altra. I legami che stabilivi nelle due lingue non avevano mai la stessa sostanza. Variavano gli usi, le regole di comportamento, le tradizioni. E quando cerca-vi una via di mezzo ti veniva un dialetto finto che era contemporaneamente un italiano triviale. Tutto questo mi (ci) co-stituisce, ma tuttora senza un ordine e una gerarchia. Niente è tramontato, tutto è qui nel presente. Certo, oggi ho luo-ghi piccoli e tranquilli dove mi posso raccogliere in me, ma questa espressione la sento tuttora un po’ ridicola. Ho raccon-tato di donne in momenti in cui sono assolutamente sole. Ma nelle loro teste non c’è mai silenzio e nemmeno raccogli-mento. La solitudine più assoluta, almeno nella mia esperienza, e non solo narrativa, è sempre, come nel titolo di un li-bro molto bello, troppo rumorosa.

Per chi scrive non c’è persona rilevante che si rassegni a tacere definitivamente, anche se abbiamo interrotto ogni rapporto da tempo per rabbia, per caso o perché il suo tempo era finito. Io nemmeno riesco a pensarmi senza gli altri, men che meno a scrivere. E non parlo solo di parenti, di amiche, di nemici. Parlo delle altre, degli altri, che oggi, adesso, figurano soltanto nelle immagini: nelle immagini televisive o dei rotocalchi, a volte strazianti, a volte offensive per opu-lenza. E parlo di passato, di ciò che in senso lato chiamiamo tradizione, parlo di tutti gli altri che sono stati al mondo pri-ma e hanno agito e agiscono oggi attraverso di noi. L’intero nostro corpo, volente o nolente, realizza una folgorante re-surrezione dei morti proprio mentre avanziamo verso la nostra stessa morte. Dovremmo educarci a guardare a fondo

in questa interconnessione — io la chiamo garbuglio, o meglio frantumaglia — per darci strumenti adeguati e raccontarla. Nella più assoluta tranquillità o coinvolti in eventi tumultuosi, al sicuro o in pericolo, innocenti o cor-rotti, noi siamo la ressa degli altri. E questa ressa per la let-teratura è sicuramente una benedizione.

Ma quando andiamo alla materialità dei giorni, alla fa-tica quotidiana di vivere, stento a fare il gioco del rovescia-mento di senso: maledizione/benedizione, benedizio-ne/maledizione. Mi sento bugiarda se considero l’eredità del rione un fatto positivo. Capisco che le maglie molto strette e resistenti del mondo che ho raccontato possano dare l’idea di un antidoto. Ci sono molti momenti, ne L’a-mica geniale, dove l’ambiente in cui Lila ed Elena sono im-merse appare, malgrado tutto, bonario e accogliente. Ma non bisogna perdere d’occhio quel “malgrado tutto”. I le-gami col rione limitano, fanno male, corrompono o di-spongono alla corruzione. E il fatto che non si riesca a reci-derli, che si ripropongano oltre ogni loro apparente dissol-versi, non è un bene. L’insorgenza improvvisa delle catti-ve maniere dall’interno di quelle buone, salvo poi tornare al sorriso, a me sembra il sintomo di una comunità inaffi-dabile tenuta insieme da complicità opportunistiche, at-tenta a dosare furie e ipocrisie per non finire in una guer-ra aperta che comporterebbe scelte definitive: tu stai di qua, io di là. No, ciò che compatta la piccola folla del rione è, nei fatti, inevitabilmente guasto e, ai miei occhi, una maledizione.

Naturalmente, però, quella folla è fatta di persone e le persone hanno sempre, tra mille contraddizioni, una loro preziosissima umanità cui un racconto deve badare, se non vuole fallire. Tanto più che la gente si passa ciò che ha di buono e ciò che ha di cattivo quasi senza accorgersene. Il rione è immaginato così e anche Lila ed Elena sono fatte della sua materia, ma come se essa fosse allo stato fluido e trascinasse con sé di tutto. Volevo che, contro la fissità chiusa dell’ambiente, loro fossero mobili, che niente riu-scisse a stabilizzarle davvero e che soprattutto esse stes-se si attraversassero reciprocamente come se fossero d’a-ria. Ma senza mai liberarsi della forza d’attrazione del luo-go di nascita. Anche loro dovevano sentirla, loro special-mente, malgrado tutto. Ecco, è forse proprio quel “mal-grado tutto” che è tecnicamente difficile da raccontare. Bisogna badare a quel “tutto”, non dimenticarselo, rico-noscerlo sotto ogni suo travestimento, anche se i legami affettivi, le consuetudini acquisite con l’infanzia, gli odo-ri, i sapori, i suoni carichi di dialetto ci seducono, ci intene-riscono, ci fanno oscillare, ci rendono eticamente instabi-li. Forse ottenere sulla pagina la qualità cangiante delle esistenze significa sottrarsi ai racconti troppo rigidamen-te definiti.

Tutto, ne L’amica geniale, volevo che si formasse e si sformasse. Nello sforzo di raccontare Lila, la sua amica si vede costretta a raccontare tutti gli altri e se stessa tra lo-ro, incontri e scontri che lasciano le tracce più diverse. Gli altri nell’accezione più ampia, come dicevo, ci urtano di

continuo e noi facciamo lo stesso con loro. La nostra singo-larità, la nostra unicità, la nostra identità si crepano sen-za sosta. Quando alla fine di una giornata esclamiamo: mi sento a pezzi, non c’è niente di più letteralmente vero. A guardar bene, siamo le spinte destabilizzanti che subia-mo o che diamo, e la storia di quelle spinte è la nostra vera storia. Siamo frammenti eterogenei che, grazie a effetti di compattezza — le figure eleganti, la bella forma — stanno insieme malgrado la loro casualità e contradditto-rietà. La colla più a buon mercato è lo stereotipo. Gli ste-reotipi ci acquietano. Ma il problema è, come dice Lila, che anche solo per pochi secondi si smarginano sospin-gendoci nel panico. Nel romanzo, almeno nelle intenzio-ni, c’è un dosaggio meticoloso tra stereotipia e smargina-tura».

Ci sono critici che l’hanno accostata ad Anna Maria Or-tese e a Elsa Morante. Secondo me a ragione. Eppure la sua plebe è più simile alla terribile orda umana de-scritta da Curzio Malaparte ne “La pelle” che non a quella raccontata da “Il mare non bagna Napoli”. Que-sto tipo di plebe è davvero irredimibile?«Malaparte non so, dovrei rileggerlo. Non ho mai avver-

tito alcuna consapevole affinità con La pelle, una lettura che risale a molto tempo fa. È il capitolo de Il mare non ba-gna Napoli intitolato La città involontaria che, anche in fasi diverse della mia vita, mi è sembrato un punto di par-tenza necessario, se mai avessi provato a raccontare ciò che mi pareva di sapere sulla mia città. Ma delle sugge-stioni letterarie è sempre difficile parlare: un verso zoppi-cante, due righe dimenticate, una pagina bella che sul momento non abbiamo apprezzato, spesso, per vie tra-verse, fanno più dei blasoni letterari che in buona fede esi-biamo per darci importanza. Comunque cosa posso dirle? La città plebea che conosco io è fatta di gente comune che non ha soldi e ne cerca, che è subalterna e insieme violen-ta, che non ha il privilegio immateriale della buona cultu-ra, che sfotte chi pensa di salvarsi con lo studio e tuttavia allo studio attribuisce valore».

Per Lila e Elena lo studio è fondamentale. Farsi una cul-tura è l’unico percorso degno per uscire dallo stato di minorità. Anche quando studiare non porta a un risul-tato pratico, non mettono in discussione la sua impor-tanza nella costruzione di ogni individuo. Lei cosa pen-sa dell’Italia di oggi, così piena di laureati allo sbando? Tutto sommato, lo studio non mi sembra uno strumen-to d’emancipazione come un altro.«Non lo ridurrei a solo strumento di emancipazione. Lo

studio è stato soprattutto sentito come essenziale alla mo-bilità sociale. Nell’Italia del secondo dopoguerra l’istruzio-ne ha cementato vecchie gerarchie ma ha anche avviato una discreta cooptazione dei meritevoli, tanto che anche chi restava in basso poteva dirsi: sono finito così perché non ho voluto studiare. La storia di Lenù, ma anche di Ni-no, mostra questo uso dell’istruzione. Ma nel racconto c’è anche il segnale di una disfunzione: alcuni personaggi stu-diano e tuttavia il loro percorso si inceppa. Insomma c’è stata un’ideologia dell’istruzione che oggi non funziona più. Il suo cedimento è evidente: i laureati allo sbando te-stimoniano drammaticamente che la crisi ormai lunga della legittimazione delle gerarchie sociali sulla base dei titoli di studio è giunta a compimento. C’è però, nel rac-conto, un altro modo di intendere lo studio, quello di Lila. Privata dell’intero percorso scolastico, all’epoca fonda-mentale innanzitutto per le femmine, e per le femmine povere, smistate su Lenuccia le proprie ambizioni di asce-sa socioculturale, lo studio per Lila diventa la manifesta-zione di un’ansia permanente dell’intelligenza, una ne-cessità imposta dalle disordinatissime circostanze dell’e-sistenza, uno strumento di lotta quotidiana (funzione quest’ultima a cui Lila cerca di ridurre anche la sua amica “che ha studiato”). Mentre Lena è il tormentato punto d’arrivo del vecchio sistema, Lila ne mette in scena la cri-si e un possibile futuro.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

L’AUTORE

NICOLA LAGIOIA È NATO A BARI

NEL 1973. HA ESORDITO

NEL 2001 CON “TRE SISTEMI PER SBARAZZARSI

DI TOLSTOJ (SENZA RISPARMIARE

SE STESSI)” PER MINIMUM FAX.

NEL 2010 CON “RIPORTANDO

TUTTO A CASA” (EINAUDI)

SI AGGIUDICA IL PREMIO

VIAREGGIO.CON IL SUO ULTIMO

ROMANZO, “LA FEROCIA”

(EINAUDI), NEL 2015 HA VINTO IL PREMIO STREGA

Non ha mai voluto rivelare la sua identità lasciandoche a parlare fossero solo i suoi libri. Il perché l’autrice de “L’amica geniale” lo ha spiegato a Nicola Lagioia “Scrivere è di per sé già un atto di superbia...”

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laRepubblicaDOMENICA 3 APRILE 2016 28LADOMENICA

<SEGUE DALLE PAGINE PRECEDENTI

COME LA CRISI SI RICOMPORRÀ nel tumul-tuoso mondo cui apparteniamo è da vedere. Le contraddizioni del si-stema formativo diventeranno sempre più evidenti segnandone la decadenza? Avremo una buona cul-tura diffusa senza alcun nesso con il modo di guadagnarsi da vivere?

Avremo più diligenza colta e meno intelligenza? In gene-re io sono incantata da quelli che producono idee, non da quelli che le chiosano. Anche se un mondo di fantasiosi realizzatori di grandi idee mi sembra una meta formidabi-le. In esso mi sentirei meglio».

Se è vero, come ho letto in più di un pezzo, che “L’ami-ca geniale” non ha aperture verso il trascendente (al-meno per come il trascendente è stato reso letteraria-mente nel Novecento), ci sono le “smarginature” di Li-na. I momenti in cui il mondo si scolla davanti agli oc-chi di una delle due protagoniste, va fuori asse mo-strandosi nella sua insostenibile nudità: una massa caotica e informe, “una realtà pasticciata, collacea”, priva di senso... «Qui voglio passare a una dichiarazione di principio: a

partire dai quindici anni, non credo al regno di nessun dio né in cielo né in terra, anzi dovunque lo si dislochi mi sem-bra pericoloso. D’altra parte condivido l’opinione che la gran parte dei concetti che maneggiamo sia di origine teo-logica. La teologia aiuta a capire da dove sono scaturiti i fondi di caffè a cui tuttora ricorriamo. Mi consolano le sto-rie che dopo aver attraversato l’orrore impongono una svolta, quelle dove qualcuno si redime a riprova che pace e felicità sono possibili o che si può tornare in un privato o pubblico eden. Ma mi sono provata a scriverne, in passa-to, e ho scoperto che non ci credevo. Sono attratta invece dalle immagini di crisi, dai sigilli che si spezzano, e forse le smarginature vengono di lì. Lo smarginarsi delle forme è un affacciarsi sul tremendo, come nelle Metamorfosi di Ovidio, come in quella di Kafka e come nello straordinario Passione secondo GH di Clarice Lispector. Oltre non si va, bisogna fare un passo indietro e, per sopravvivere, rien-trare in una qualche buona finzione. Non credo però che tutte le finzioni che orchestriamo siano buone. Aderisco a quelle sofferte, quelle che nascono dopo una crisi profon-da di tutte le nostre illusioni. Amo le cose finte quando portano i segni di una conoscenza di prima mano del tre-mendo, e quindi la consapevolezza che sono finte, che agli urti non reggeranno a lungo. Gli esseri umani sono animali di grande violenza, e fa paura la rissa che sono sempre pronti a scatenare per imporre il proprio salvifico eterno salvagente e fare a pezzi quello degli altri».

Il romanzo è pieno di litigate memorabili. I miei nonni materni erano piccoli coltivatori diretti, mentre mio nonno paterno faceva il camionista. Il modo in cui li sentivo inveire gli uni contro gli altri e più spesso con-tro se stessi o il destino l’ho raramente ritrovato in al-tri ambienti. In certi casi addirittura mi manca. Capi-sco che lo spettacolo del turpiloquio possa risultare tri-ste e degradante, o addirittura bestiale. Tuttavia le do-mando: non è anche però un vagito di civiltà, la perce-zione istintiva della povertà come ingiustizia?«Qui torniamo ai litigi. E sì, diciamo che la lite tra pove-

ri è liminare. Il liminare è un artificio retorico interessan-te, rappresenta metaforicamente la sospensione tra due opposti ed è una procedura che rappresenta in modo effi-cace il tempo in cui viviamo. Disfatto il concetto di co-scienza di classe e di conflitto di classe, i poveri, i dispera-ti che sono ricchi solo di parole furiose, a parole li tenia-mo sulla soglia, tra l’esplosione degradante, che imbe-stialisce, e quella liberatoria, che umanizza e avvia una sorta di purificazione. Ma nella realtà la soglia è varcata di continuo, diventa guerra sanguinosa tra poveri, versa-mento di sangue. O approda alla riconciliazione, nel sen-so di ritorno all’acquiescenza, alla subalternità dei più de-boli ai più forti, all’opportunismo. Il vagito di civiltà, se vuole, è l’intuizione della propria dignità che si accompa-gna al bisogno di cambiare. Altrimenti i litigi tra poveri sono solo l’ennesima riproposizione dei capponi di Renzo Tramaglino».

“L’amica geniale” è anche un canto dolente alzato alle illusioni del secondo Novecento, o forse di tutta la no-stra modernità. Mi spaventano alcuni storici quando

La copertina. Intervista a Elena Ferrante

IL ROMANZO

“L’AMICA GENIALE” RACCONTALA STORIA

DI DUE AMICHE, ELENA ( LENÙ)

E RAFFAELLA (LILA) DALL’INFANZIA

ALL’ETÀ ADULTA. IL PRIMO VOLUME,

CHE DÀ IL TITOLO ALLA SERIE, USCÌ

NEL 2011 SEGUITO DA “STORIA DEL NUOVO

COGNOME” (2012), “STORIA DI CHI FUGGE E DI CHI

RESTA” (2013) E DAL CONCLUSIVO

“STORIA DELLA BAMBINA PERDUTA” (2014)

L’AUTRICE

DI ELENA FERRANTE (LA CUI IDENTITÀ

NON È MAI STATA RIVELATA

AL PUBBLICO) LA CASA EDITRICE

E/O NEL 1992 HA PUBBLICATO

“L’AMORE MOLESTO”,

NEL 2002 “I GIORNI DELL’ABBANDONO”

E DAL 2011I QUATTRO VOLUMI

DEL CICLO “L’AMICA GENIALE”.

IL PROSSIMO 14 APRILE SI SAPRÀ

SE IL SUO NOME VERRÀ INSERITO

NELLA SHORTLIST DEL MAN BOOKER

INTERNATIONAL PRIZE 2016

Repubblica Nazionale 2016-04-03

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”dichiarano che il quarantennio 1950/1990 (periodo in cui le sperequazioni si sono ridotte, la mobilità socia-le è diventata una realtà, le masse popolari sono state non di rado protagoniste) potrebbe essere letto come un piccolo momento di discontinuità in un quadro ge-nerale dove le grandi disuguaglianze rappresentano la regola. Il Ventunesimo secolo è iniziato col violentis-simo riallargarsi della forbice tra ricchi e poveri. A lei sembra davvero che la seconda metà del Novecento sia stata solo una parentesi? Non è invece addirittura realistico pensare che il futuro non sia mai scritto?«Sì, il futuro non è mai scritto. Ma la Storia e le storie so-

no scritte, e scritte guardando dal balcone del presente la tempesta elettrica del passato, vale a dire niente di più mobile. Il passato, nella sua indeterminatezza, si offre o attraverso il filtro della nostalgia o attraverso quello dell’istruttoria. Non amo la nostalgia, porta a non vedere le sofferenze individuali, le ampie sacche di miseria, la po-vertà culturale e civile, la corruzione capillare, il regresso dopo progressi minimi e illusori. Preferisco l’acquisizione agli atti. Il quarantennio che lei cita è stato faticosissimo e dolorosissimo per chiunque muovesse da una condizio-ne di svantaggio. E intendo per svantaggio anche e so-prattutto essere donna. Non solo. Le grandi masse che si sono sottoposte a sacrifici disumani per guadagnare qual-che gradino nella scala sociale, già a partire dagli anni Settanta hanno sperimentato i tormenti della sconfitta, loro e dei loro figli. Senza contare una sorta di guerra civi-le latente, la cosiddetta pace mondiale sempre a rischio e gli esordi di una delle più devastanti rivoluzioni tecnologi-che parallela a una delle più devastanti destrutturazioni del vecchio ordine politico ed economico. Il fatto nuovo non è che il millennio si inaugura con l’allargarsi della for-bice ricchi-poveri, questo è un dato diciamo di sistema. Il fatto nuovo è che i poveri non hanno più altro orizzonte di vita che il sistema capitalistico e altro orizzonte di reden-zione che quello religioso. È la religione a gestire sia la ras-segnazione in vista di un regno di dio nei cieli, che l’insur-rezione in nome di un regno di dio sulla terra. La teologia, cui accennavo prima, si sta prendendo la sua rivincita. Ma niente è scritto e ciò che accadrà non potrà che sor-prenderci. Non amo i tecnici della previsione. Lavorano sul passato, e nel passato vedono solo il passato che fa co-modo vedere. È meno progressiva e impetuosa, ma più sensata, la navigazione a vista, specialmente quando i gorghi abbondano. A me sembra inevitabile vivere sul bordo del caos, è ciò che tocca a chi sente — e chi scrive non può non sentirlo — l’equilibrio precario di tutte le esi-stenze e di tutto l’esistente. È giusto e stimolante avere sempre bene a mente che se lì, in quel determinato luo-go, le cose un po’ funzionano, altrove non funziona nien-te e lo squilibrio distante è il segno di un cedimento che presto ci investirà».

SEMBRA CHE LA FINE del romanzo coinci-da con la fine di una certa idea d’Ita-lia. Qualcosa che aveva ricominciato a vivere nell’immediato dopoguerra mostra la corda. Mi chiedo se sia dav-vero così, o se l’Italia sembri spesso spalancata su un qualche tipo di abis-so. Ci ritroviamo non di rado senza ter-

reno sotto i piedi. Oppure questa volta il nostro paese sta voltando (o sta finendo di voltare) pagina per sempre?

«Non mi piacciono né i pessimisti né gli ottimisti. Cer-co solo di guardarmi intorno. Se la meta deve essere una vita non dico felice ma agevole per tutti, non c’è capoli-nea, ma un continuo ripensare il percorso, che non riguar-da solo le singole vite, ma le generazioni. Io o lei — chiun-que — non siamo solo questo “tempo-adesso” e nemme-no “gli ultimi decenni”».

Siamo il paese del familismo amorale e ogni rito di pas-saggio ha un prezzo, d’accordo. Ma emanciparsi dalla famiglia in Italia è ancora oggi impossibile senza pas-sare per una parte di violenza (e sofferenza) assoluta-mente inutili?«La famiglia è di per sé violenta, lo è tutto ciò che si fon-

da su legami di sangue, legami non scelti, che ci impongo-no la responsabilità dell’altro anche se non c’è stato mai un momento in cui abbiamo deciso di assumercela. I buo-ni sentimenti e i cattivi sono sempre eccessivi, nella fami-glia: affermiamo esageratamente i primi e neghiamo esa-

geratamente i secondi. È eccessivo Dio padre. Abele è ec-cessivo quanto Caino. I cattivi sentimenti sono particolar-mente insopportabili quando è il consanguineo a suscitar-li. Caino alla fine uccide per recidere il legame di sangue. Non vuole essere il custode di suo fratello. Essere custode è un compito insopportabile, una responsabilità sfiancan-te. Non è facile accettare che i cattivi sentimenti siano su-scitati non solo dall’estraneo, il rivale — colui che è sull’al-tra riva del “nostro” corso d’acqua, che non sta sul nostro suolo e non ha il nostro sangue — ma forse, con maggiore cogenza, da chi ci è vicino, il nostro specchio, il prossimo che dovremmo amare, noi stessi. L’emancipazione senza traumi è possibile solo in un nucleo in cui l’autoreferenzia-lità è stata combattuta da subito e si è imparato ad amare l’altro non come noi stessi — formula rischiosa — , ma co-me l’unica modalità possibile del piacere di stare al mon-do. Ciò che ci corrompe è la passione per noi stessi, la ne-cessità e l’urgenza del nostro primato».

Chi è davvero conficcato nella vita non scrive romanzi. Il rapporto tra Elena e Lila mi sembra veramente ar-chetipico da questo punto di vista. Molte coppie di ami-ci/rivali funzionano così. È Lila a sentire le cose del mondo con maggiore radicalità. Eppure, proprio per questo, non è lei a poterne dare testimonianza. Ben-ché Elena tema che prima o poi la sua amica riesca a scrivere un libro meraviglioso, in grado di ristabilire oggettivamente le proporzioni tra loro due, questo non può accadere. L’implacabilità di una simile regola è talmente ricorrente che a me crea sgomento. È uno dei paradossi che mi sembra stringa Elena a Lila. Co-me si può provare a scioglierlo o a conviverci? Testimo-niare per chi non lo farà potrebbe sembrare un atto ge-neroso. O è al contrario una manifestazione di enorme arroganza. O ancora (questa l’ipotesi più dolorosa) di-venta l’arma per rendere innocue, fino a rischiare di schiacciarle, le persone che amiamo. Che rapporto ha con la scrittura da questo punto di vista?«Scrivere è un atto di superbia. L’ho sempre saputo e

perciò ho nascosto a lungo che scrivevo, soprattutto alle persone a cui volevo bene. Temevo di svelarmi ed essere disapprovata. Jane Austen si era organizzata in modo da occultare subito i suoi fogli, se qualcuno entrava nella stanza in cui si era rifugiata. È una reazione che conosco, ci si vergogna della propria presunzione, perché non c’è niente che riesca a giustificarla, nemmeno il successo. Co-munque io la metta, resta sempre il fatto che mi sono arro-gata il diritto di imprigionare gli altri dentro ciò che a me pare di vedere, sentire, pensare, immaginare, sapere. È un compito? È una missione? È una vocazione? Chi mi ha chiamato, chi mi ha assegnato quel compito e quella mis-sione ? Un dio? Un popolo? Una classe sociale? Un parti-to? L’industria culturale? Gli ultimi, i diseredati, le loro cause perse? L’intero genere umano? Quel soggetto im-previsto che sono le donne? Mia madre, le mie amiche? No, oggi tutto è diventato più spoglio ed è lampante che solo io stessa ho autorizzato me stessa. Io mi sono asse-gnata, per motivi oscuri anche a me, il compito di raccon-tare ciò che so del mio tempo, vale a dire, ridotto all’osso, ciò che mi è capitato sotto il naso, vale a dire la vita i sogni le fantasie i linguaggi di un ristretto gruppo di persone e di fatti dentro uno spazio ridotto, dentro una lingua di po-co rilievo resa ancor più di poco rilievo dall’uso che ne fac-cio. Si tende a dire: non esageriamo, è solo un lavoro. Può darsi che ormai sia così. Le cose cambiano e cambiano so-prattutto gli involucri verbali in cui le chiudiamo. Ma re-sta la superbia. Resto io che passo gran parte della mia giornata a leggere e a scrivere perché mi sono assegnata il compito di raccontare. E che non riesco ad acquietarmi dicendo: è un lavoro. Quando mai ho considerato scrivere un lavoro? Non ho mai scritto per guadagnarmi da vive-re. Scrivo per testimoniare che sono vissuta e che ho cer-cato una misura per me e per gli altri, visto che gli altri non potevano o non sapevano o non volevano farlo. Bene, questo cos’è se non superbia? E cosa significa se non: voi non sapete vedermi e vedervi, ma io mi vedo e vi vedo? No, non c’è via d’uscita. L’unica possibilità è imparare a ri-dimensionare il proprio io, a rovesciarlo nell’opera e tirar-sene via, a considerare la scrittura come ciò che si separa da noi non appena è compiuta: uno dei tanti effetti collate-rali della vita activa».

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“Bisognerebbe imparare ad amarel’altro non come noi stessi (formularischiosa) ma come l’unica modalità possibile del piacere di stare al mondo”

Repubblica Nazionale 2016-04-03

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laRepubblicaDOMENICA 3 APRILE 2016 30LADOMENICA

In comune i terroristi

di Parigi e di Bruxelles

non hanno solo il Jihad

Prima di fare i kamikaze

vivevano di criminalità

Ecco come hanno

varcato quel confine

BRAHIM ABDESLAM, il terrori-sta che la sera del 13 novem-bre si fece saltare in aria da-vanti alla brasserie di boule-vard Voltaire a Parigi, era noto alle forze dell’ordine per furto e traffico di droga, reati per i quali era già stato processato. Suo fratello Sa-lah, che era riuscito a scap-pare ed è stato arrestato quattro mesi dopo a Molen-

beek, l’ormai famoso quartiere “arabo” di Bruxelles, nel 2010 era finito in prigione in Belgio per rapina insieme ad Abdelhamid Abaaoud, considerato la mente degli atten-tati nella capitale francese e rimasto ucciso durante l’ope-razione di polizia a Saint-Denis a novembre. I fratelli Ab-deslam, nel 2013, a Molenbeek avevano preso in gestio-ne un bar diventato la loro base per lo spaccio di hashish, e il locale era stato poi chiuso per traffico di droga. Anche i fratelli Khalid e Ibrahim El Bakraoui, due dei kamikaze degli attentati di Bruxelles, avevano precedenti per spac-cio di droga e rapina. Ayoub El Khazzani, l’attentatore del treno Amsterdam-Parigi bloccato da alcuni passeggeri nell’agosto del 2015 prima di compiere una strage a colpi di kalashnikov, era stato invece condannato da un tribu-nale spagnolo: per traffico di droga. Chérif Kouachi, uno dei terroristi dell’attentato a Charlie Hebdo, aveva vissu-to nella periferia nord-est di Parigi, dove droga e piccoli crimini erano la sua occupazione principale prima di di-ventare jihadista insieme al fratello Saïd.

I terroristi islamisti hanno quasi sempre un passato da pusher o da criminali comuni, eppure questo non diventa tema di dibattito. Sembra che la cosa sia una pura casuali-tà. Passano da esperienze di criminalità organizzata a esperienze di prassi terroristica senza modificare i propri comportamenti, sfruttano l’esperienza criminale per con-tinuare a spacciare e riciclare danaro allo scopo di soste-nersi e per continuare ad approvvigionarsi di armi, prima usate nei conflitti tra bande, ora negli attentati. Tutto questo incredibilmente risulta secondario nel dibattito in-ternazionale sulle stragi. Come mai? È difficile individua-re la chiave giusta, perché forse neanche esiste, ma è do-veroso sgombrare il campo dai travisamenti che hanno vi-ziato il racconto degli attentati terroristici avvenuti in Bel-gio il 22 marzo 2016 e prima ancora in Francia il 13 no-vembre 2015, quelli per cui noi europei, utilizzando una metafora scacchistica, saremmo in una situazione di po-tenziale scacco al re. L’errore è quello di trattare i gruppi che progettano, preparano e compiono attentati esclusi-vamente come un’emanazione diretta del Califfato, co-me una sua declinazione, senza riflettere sullo specifico delle loro azioni. Lo sguardo di molti analisti si sofferma sulla dottrina fondamentalista, su come si diventa kami-kaze; e anche quando si approfondisce, a contare è essen-zialmente il dato militante, la pratica religiosa che diven-ta pratica terroristica e l’incidenza di tutti questi fattori nel contesto delle seconde generazioni di immigrati. Si stenta a comprendere che la strategia dell’Is nei territori occupati dal Califfato, e altrove, è ascrivibile a prassi che siamo di solito abituati ad analizzare e comprendere — e nei tribunali a processare — con riferimento alle organiz-zazioni criminali in senso stretto.

L’arresto di Salah Abdeslam costituisce, questo sì, un punto di non ritorno, poiché ci aiuta a leggere diversa-mente la storia di questi giorni. Il quartiere di Molenbeek a Bruxelles, dove Salah si nascondeva — pur essendo un quartiere con tante anime, dunque non ascrivibile all’i-dea di ghetto in senso stretto — non lo trattava come un corpo estraneo. Anzi, al suo arresto ha vissuto una sorta di ribellione, come accade nelle periferie del mondo quan-do a essere arrestati sono giovani affiliati ai clan locali. Ac-cade in Italia, in Serbia, in Messico e oggi, con forme e mo-dalità diverse, in Belgio. Molenbeek è un quartiere vicinis-simo al centro di Bruxelles, ci vivono moltissimi immigra-ti provenienti dal Nordafrica e dai paesi arabi, ospita ven-tidue moschee e il vicesindaco, Ahmed El Khannouss, ha dichiarato al Guardian che non è nei centri ufficiali che avviene il reclutamento, ma nei luoghi di preghiera clan-destini. Ciononostante, il quartiere ha risposto con fasti-dio all’arresto di Salah Abdeslam, lanciando salsa di po-modoro verso i militari. Su questo vale la pena soffermar-si, perché quando in un quartiere capita che ci sia chi si mantiene con spaccio di droga e ricettazione, quando un

quartiere è attraversato da immigrati, talvolta irregolari, ecco che un ricercato diventa un problema perché attira polizia e retate. Non è casuale che, negli anni Settanta, i brigatisti rossi, come i militanti di Action Directe o della Raf, spesso sparissero in quartieri borghesi, non solo per-ché loro luoghi di origine ma anche perché, se avessero cercato riparo in quartieri popolari che vivevano preva-lentemente di criminalità e fossero stati identificati, sa-rebbero stati immediatamente “invitati” ad andar via. Al contrario, quando capitava che venissero accolti, accade-va per autorizzazione dell’organizzazione criminale ege-mone. Qui c’è qualcosa di diverso: un quartiere (una par-te di esso) che sembra aver difeso e tutelato un ricercato considerandolo un pericolo ma non un corpo estraneo.

La pratica mafiosa è esattamente quella che utilizza

l’Is nella protezione dei suoi militanti; i quartieri a mag-gioranza islamica stanno con loro pur non condividendo-ne tattica e strategia di guerra, pur guardando con fasti-dio al loro universo di senso. E i militanti dell’Is, agli occhi dei ragazzi islamici — che non sono simpatizzanti del radi-calismo, che non ucciderebbero mai per motivi religiosi, né si farebbero mai saltare in aria, o che magari neppure frequentano moschee — diventano amici sventurati che hanno superato una linea di demarcazione. Non c’è con-senso, ma c’è empatia: sono compagni che sbagliano. «Questi giovani che si arruolano nell’Is sanno più di furti d’auto che di Corano», ha scritto lo scrittore belga David Van Reybrouck riferendosi ai terroristi. E allora cosa sta pagando l’Europa? E cosa stanno pagando Francia e Bel-gio? Il fallimento assoluto dell’aver considerato il crimine una sorta di male marginale, da tollerare fino a quando si fosse mantenuto dentro i confini della periferia: spaccia-no, si ammazzano tra di loro e vanno bloccati solo quando alzano il tiro, escono dal recinto e arrivano al centro delle città. È un fallimento che ha una radice anche negli errori commessi sul piano urbanistico negli anni Settanta, spes-so ascrivibili non a governi di destra, bensì a esecutivi so-cialisti o socialdemocratici. Progetti teoricamente affasci-nanti, figli di idee progressiste, ma che da soli non poteva-no evitare che i nodi venissero al pettine.

Il fallimento si è realizzato quando le nuove generazio-

R O B E R T O S A V I A N O

L’attualità. Stragisti d’Europa

LA PRATICA MAFIOSA È LA STESSA UTILIZZATA DALLO STATO ISLAMICO

NELLA PROTEZIONE DEI SUOI MILITANTI A MOLENBEEK LA MAGGIORANZA STA CON LORO PUR NON CONDIVIDENDONE NULLA. NON C’È CONSENSO, PERÒ C’È EMPATIA: COME NEGLI ANNI SETTANTA SONO COMPAGNI CHE SBAGLIANO

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laRepubblicaDOMENICA 3 APRILE 2016 31

ni cresciute ai margini dell’Europa hanno preso coscien-za del disinteresse di fondo per i loro destini da parte delle società che li ospitavano. Perditi pure, purché tu lo faccia lontano dai miei occhi. Quando hanno finito per conside-rare le loro vite già perdute poiché insignificanti — con l’u-nica opzione di far denaro con il crimine comune — alcuni hanno reagito ritenendo di essere nel giusto a combatte-re per una causa comune: uno Stato Islamico Globale. Un’idea grande, un’utopia che condivisa diventa l’unica possibilità di riscatto. Questa logica aiuta a entrare in una dialettica con la morte assolutamente quotidiana, ecco perché il salto tra il crimine comune e il fondamentalismo islamista non è affatto così improvviso: la linea di demar-cazione c’è, ma basta un passo per superarla.

La storia delle cellule fondamentaliste in Europa viene invece raccontata secondo l’interpretazione suggerita dallo stesso Califfato, che riesce agevolmente a farci cre-dere quanto a esso funzionale. E se chi sposa la causa, la vi-ta se la gioca come su una scacchiera per cercare emanci-pazione dal ghetto, per ribellarsi al ghetto, la scelta del fondamentalismo arriva in fondo come un salto quasi ob-bligato e non è diversa dalla scelta della pratica crimina-le. E se dai contrasti derivanti dalla lotta di classe l’Euro-pa credeva di essersi liberata, eccoli che rientrano dalla porta principale, nelle manifestazioni prima di crimine or-ganizzato e poi di fondamentalismo islamista, pratiche

che in determinate realtà finiscono per coincidere. Al di là degli addestramenti in Siria, chi si “arruola” sa

esattamente come muoversi perché ha ben presente la pratica criminale: riconosce poliziotti in borghese, sa co-me gestire l’ansia, sa dove acquistare armi, come farle cir-colare, sa come muoversi sui mercati clandestini. E in ulti-mo, sa come sfruttare le maglie, fin troppo larghe, attra-verso cui entrano i capitali che finanziano le cellule terro-ristiche. Sa riconoscere le incompetenze (e la corruzione) delle polizie in Francia e in Belgio, le misura da decenni at-traverso la competizione che ha con loro nel controllo del territorio. Il Belgio paga una strategia di assoluta tolleran-za del traffico criminale, lasciato proliferare entro i limiti della periferia, dove faide e conflitti venivano considerati utili per una sorta di autocontrollo, un “uccidersi tra loro”

in cui la polizia interveniva a tagliar le cime troppo alte delle piante criminali ma mai a estirpare la radice. Traffi-co di droga e di armi da un lato, riciclaggio ed evasione dall’altro sono state le debolezze del Belgio più di qualsia-si altra cosa. Ma come può un narcotrafficante diventare terrorista? Domanda ingenua.

Dal Messico all’Ucraina passando per l’Italia, le orga-nizzazioni mafiose vivono una sorta di semplicistica inter-pretazione da parte dell’opinione pubblica, ossia la con-vinzione che ammazzino solo coloro che rientrano nelle lo-ro logiche rivali e di opposizione. Nulla di più falso: le ma-fie uccidono da sempre innocenti, per errore, per caso, o per terrorizzare. Quindi formano persone in grado di per-petrare violenza. Ma il tema non è questo, è l’esistenza di generazioni europee — così come africane, sudamerica-ne e asiatiche — che vivono con l’idea che ogni migliora-mento economico coincida con il rischio del carcere, con la prospettiva di una vita meno che mediocre ma protetta o una vita con possibilità di crescita economica e di re-sponsabilità ma ottenuta uccidendo e mettendo in conto di poter essere uccisi. A Napoli come a Molenbeek il sogno di fare soldi significa giocarsi la vita. In molti quartieri eu-ropei non c’è per gran parte dei giovani altra strada di cre-scita che rischiare la vita, ammazzare, essere ammazzati o prendersi decenni di galera. E qui accade il cortocircui-to. Quando si decide di morire e di non fare la fine dei pro-pri compari in carcere. Quando si decide di morire non in una faida ma uccidendo e dandosi un senso maggiore, una fama maggiore, un riconoscimento. Quando si deci-de di morire per il Jihad. Ecco che, vista da questa pro-spettiva, la morte in un attentato suicida non è una scelta così distante dalle vite di una generazione che ha il pro-prio corpo come unico capitale e la violenza come moneta da spendere nel commercio quotidiano.

Dopo gli attentati di Parigi di novembre è apparso su Le Monde un editoriale a firma di Olivier Roy, politologo e profondo conoscitore dell’Islam, che ha fatto molto discu-tere. Riguardo agli attentatori kamikaze, Roy ha parlato di rivolta generazionale e nichilista — qualcuno potrebbe pensare a un ossimoro — che nasce non nel radicalismo religioso, ma come conseguenza degli aspetti più disuma-nizzanti della globalizzazione, tra cui la frustrazione e l’e-marginazione che vivono i figli delle seconde generazioni di immigrati. Per Roy non ci troviamo di fronte a una rivol-ta dell’Islam o dei musulmani, ma a una rivolta di giovani che hanno in comune l’isolamento dalla società in cui so-no cresciuti e la voglia di rivincita su questa. Che la loro battaglia abbia poco a che fare con l’ortodossia religiosa è opinione anche del professore belga Rik Coolsaet, che stu-diando i motivi che spingono i giovani occidentali a unirsi all’Is ha notato che il loro processo di reclutamento avvie-ne molto velocemente e non richiede una vera e profonda radicalizzazione: a differenza degli estremisti e dei terro-risti del passato, i foreign fighters che si arruolano oggi lo fanno spesso con una superficiale conoscenza sia della re-ligione sia della politica, e hanno molta più conoscenza della vita sulla strada che di quella in moschea.

L’Europa è disunita su tutto, lo è stata e lo è pericolosa-mente ancora, ma oggi al pettine è venuto il nodo degli er-rori commessi nel contrasto a realtà criminali che sono di-venute il brodo di coltura di un tentativo di eversione dei valori fondativi del secondo dopoguerra. La politica di molti governi, anche “progressisti”, si è limitata ad atten-dere che i criminali si sterminassero tra loro, risolvendo problemi che si è sempre evitato di affrontare. Non ha fun-zionato, e la cronaca di questi mesi ha presentato un con-to drammatico. La lotta europea all’Is sta fallendo anche sul piano della comunicazione. Intervistato dalla radio newyorchese Wnyc, Nicolas Henin, giornalista francese che nel 2013 venne rapito dall’Is e tenuto prigioniero per dieci mesi in Siria, ha spiegato che per combattere l’Is bi-sogna distruggere la sua narrazione, il mito che è riuscito a crearsi grazie a un’accurata opera di comunicazione. L’Is ha costruito una narrazione mitologica vincente che colpisce e cattura l’attenzione dei giovani musulmani oc-cidentali, i quali decidono di arruolarsi nelle sue file pri-ma di tutto perché vogliono diventare eroi, diventare fa-mosi, diventare qualcuno in una società che non gli ha da-to altre opportunità, proprio come la propaganda jihadi-sta gli prospetta. Per questo, secondo Henin, l’unico mo-do per contrastare tale meccanismo è costruire altri eroi, un altro film, una narrazione vincente da contrapporre a quella dell’Is. Per contrastare i terroristi, più che usare le bombe l’Occidente deve costruire una propria narrazio-ne che uccida la loro.

I pusherRoberto Saviano

dell’Is

IL FALLIMENTO SI È REALIZZATO QUANDO LE NUOVE GENERAZIONI

CRESCIUTE AI MARGINI DELL’EUROPA HANNO PRESO COSCIENZA DEL DISINTERESSE DI FONDO PER I LORO DESTINI DA PARTE DELLE SOCIETÀ CHE LI OSPITAVANOPERDITI PURE, PURCHÉ TU LO FACCIA LONTANO DAI MIEI OCCHI

TERRORISTI AL CENTRO, POLIZIA A MOLENBEEK (BRUXELLES). NELLA PAGINA DI SINISTRA, DALL’ALTO IN BASSO: CHÉRIF KOUACHI, UNO DEI TERRORISTI DI “CHARLIE HEBDO”, E SUO FRATELLO SAÏD, ENTRAMBI GIÀ PICCOLI CRIMINALI; SOTTO ABDELHAMID ABAAOUD, MENTE DEGLI ATTENTATI DI PARIGI E EX RAPINATORE. NELLA PAGINA DI DESTRA, SEMPRE DALL’ALTO VERSO IL BASSO: SALAH ABDESLAM, ARRESTATO A MOLENBEEK QUATTRO MESI DOPO GLI ATTENTATI DI PARIGI, ERA STATO IN PRIGIONE IN BELGIO PER RAPINA; KHALID EL BAKRAOUI E SUO FRATELLO IBRAHIM: I DUE KAMIKAZE DELLA STAZIONE DELLA METROPOLITANA E DELL’AEROPORTO DI BRUXELLES AVEVANO ENTRAMBI PRECEDENTI PER SPACCIO DI DROGA E PER RAPINA

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‘‘Repubblica Nazionale 2016-04-03

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laRepubblicaDOMENICA 3 APRILE 2016 32LADOMENICA

N.Y.Che finehanno fattoi

Spettacoli. Ieri e oggi

club

A N G E L O A Q U A R O

NEW YORK

“SPINGETEVI FINO alla Bowery al più presto”, “get down to the Bowery as soon as possible” supplicava il New York Times venerdì 28 marzo, anno del rock 1975. Che tempi. «Non è vero che la situazione in Viet-nam è critica» giurava (impru-dentemente) il titolo di prima pagina: molto critica appariva, invece, la situazione economi-ca, «con la disoccupazione sali-

ta al 9,6 per cento». E che ci dovevano allora andare a fare, i newyorchesi sull’orlo della bancarotta, laggiù sulla Bowery, il vialone che aveva ormai perso da un seco-lo il leggendario glamour di quand’era il cuore di teatri e concert hall? Che ci dove-vano andare a fare in quel luogo di malaffare? “The Bow’ry, the Bow’ry / I’ll never go there anymore!”, non ci tornerò mai più!, diceva la canzonetta che aveva incan-tato Broadway già alla fine dell’Ottocento. E invece no, proprio alla vecchia Bowe-ry consigliava di spingersi John Rockwell, il critico rock (nomen omen) della Si-gnora in Grigio: per sentire dal vivo Patti Smith, «la poetessa trasformatasi in rock’n’roller» che «sembra pronta al suo Gran Momento — Grande, perlomeno, nella misura in cui i poeti che si trasformano in rock’n’roller se lo possano aspetta-re». Sì, il buon John, che nella sua lunga e prestigiosa carriera avrebbe colleziona-to premi che non t’aspetteresti da un frequentatore della Bowery, compreso un Cavalierato dell’Ordine di Francia delle Arti e delle Lettere, aveva visto più che giusto. Quell’ex impiegata di libreria stava per farlo davvero il gran salto con il de-butto di Horses. E quindi chi voleva gustare «miss Smith nell’ambiente in cui è fin qui fiorita» avrebbe fatto meglio a «correre laggiù al CBGB, al 315 della Bowery all’incrocio con Bleecker»: in quel «piccolo club fatiscente» che per la prima volta

trovò l’onore del borghesissimo Times.E allora spingiamoci anche noi, ancora oggi, fino alla

Bowery. E poi su e giù per la città che non dorme mai, e fi-guriamoci nelle strade dove fiorivano i club: spingiamoci fino al Paradise Garage e allo Studio 54, all’Electric Cir-cus e al Copacabana, al Café Bohemia e al Café Society.

No: quarant’anni dopo Patti Smith non spunterà più al CBGB osannato allora dal New York Times e oggi celebra-to per fiction anche da Vinyl, l’ultimo serial Sky prodotto dalla strana coppia Mick Jagger & Martin Scorsese. Ades-so, quando è di scena dalle parti di casa, l’ex poetessa sverna qualche isolato più in là, sempre sulla Bowery per carità, ma alla omonima Ballroom, che in origine non era neppure un club ma un grande magazzino costruito poco prima del Grande Crollo del ’29 e rimasto vuoto per mez-zo secolo. Non che Patti non ami tornare sul luogo del de-litto: anzi. È il luogo del delitto che non c’è più. Meglio: co-me insegna appunto la storia del locale-erede, la Bowery Ballroom, anche il glorioso CBGB che fu tempio del punk ha cambiato destinazione d’uso. Diventando esso stesso — plastico esempio dell’eterogenesi dei fini urbanistici — un piccolo magazzino: di moda. Tutto merito del nuo-

vo proprietario, John Varvatos, lo stilista fattosi le ossa tra Calvin Klein e Ralph Lauren ma così innamorato della cultura rock d’aver fatto sfilare per i suoi spot pure Paul Weller, e trasformato quel mitico address, 315 Bowery, nell’indirizzo principe dei suoi store.

Scandalo? Profanazione? E perché mai. Lo diceva già Rem Khoolas nel suo fondamentalissimo Delirious New York. «Manhattan è la Stele di Rosetta del XX secolo. Non solo ampie parti della sua superficie sono occupate da mu-tazioni architettoniche (Central Park, il Grattacielo), frammenti utopici (il Rockefeller Center, il Palazzo delle Nazioni Unite) e fenomeni irrazionali (il Radio City Mu-sic Hall), ma ogni isolato è ricoperto inoltre da diversi li-velli di architettura-fantasma sotto forma di occupanti passati, progetti abortiti e fantasie popolari, che produco-no immagini alternative alla New York che esiste real-mente». Eccoci allora al dunque: quale sarebbe la vera New York? Quella del vecchio CBGB — “il piccolo club fati-scente” dove tra fatti & fattoni si nascondeva, via dai paz-zi paparazzi, perfino David Bowie — o quella del nuovo Varvatos Store che oggi offre, naturalmente via web, an-che il servizio d’appuntamento con un personal stylist?

«Cercando di carpire le ultime tracce della gloria svani-ta della città», come giurano nella prefazione, David Brun-Lambert, John Short e David Tanguy hanno «bussa-to per due anni alle tante porte» che custodiscono oggi l’accesso «a questi posti mitici»: cioè — come spiegano in Unforgotten New York — «i luoghi fisici che hanno ospita-to i momenti-chiave della cultura d’avanguardia di New York dagli anni Cinquanta fino alla fine degli Ottanta». Ma perché evocare una “gloria svanita”? Certo: fa impres-sione, oggi, vedere il Paradise Garage, all’84 di King Street, l’ex «paradiso multiculturale e musicale di Grace Jones, Gloria Gaynor, Sylvester e Madonna», tornato alla sua originaria funzione di garage, appunto, proprio lì nell’intreccio di strade dove il traffico di Manhattan si strozza prima di allungarsi nell’Holland Tunnel. O, anco-ra, colpisce rivedere quel Gymnasium che battezzò Lou Reed (“Opening Tonight! Andy Warhol presents The Vel-vet Underground!”) tornato anch’esso alle origini di pale-stra e basta, 420 East 71st Street, l’angolo meno snob del-lo snobbissimo Upper East Side, quel reticolato chiamato Yorkville che fu l’enclave degli immigrati tedeschi.

Ma ancora: davvero la gloria è svanita? Non sono pro-

VILLAGE VANGUARD

UNO DEI PIÙ FAMOSI JAZZ CLUB AL MONDO. NEL CUORE DEL GREENWICH DAL 1935, È TRA I POCHI A NON ESSERE CAMBIATO MOLTO: È ANCORA UNO SCANTINATO

Il tempio del punk adesso è un negozio

di vestiti. Quello della disco un teatro,

il più psichedelico di tutti è diventato

un supermercato e il Paradise è tornato

a essere un garage. Guida aggiornata

per amanti delle glorie perdute

E della solita, cara, vecchia musica

IL LIBRO

LE IMMAGINI A COLORI DEGLI STORICI LOCALI

NEWYORCHESI SONO TRATTE DA “UNFORGOTTEN NEW YORK”

DI DAVID BRUN-LAMBERT,JOHN SHORT E DAVID TANGUY

(PRESTEL, 192 PAGINE,190 ILLUSTRAZIONI,IN LINGUA INGLESE)

USCITO NEGLI STATI UNITI

Repubblica Nazionale 2016-04-03

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laRepubblicaDOMENICA 3 APRILE 2016 33

La mia prima(e ultima) voltaallo Studio 54

CBGB

IL TEMPIO DEL PUNK, APERTO NEL 1973, HA CHIUSO NEL 2006. OGGI È UN NEGOZIODI ABBIGLIAMENTO. DELL’ORIGINALE CONSERVA POSTER E PARTE DEL PALCO

©RIPRODUZIONE RISERVATA

PARADISE GARAGE

UNA DELLE DISCOTECHE NEWYORCHESI PIÙ FAMOSE TRA GLI ANNI ’70 E ’80. ERA DAVVERO UN GARAGE IN ORIGINE: DI QUI IL NOME. HA CHIUSO NEL 1987

prio le città invisibili — Calvino docet — a essere più reali di quelle vere? Non è il nostro sguardo a dare un senso alla storia che raccontano? La stessa ricerca di questa New York Indimenticata (Unforgotten) si spinge fino al 1342 di Lexington Avenue dove Andy Warhol visse con mam-mà, almeno finché il lavoro sulle gigantografie di Liz & Marilyn non lo spinse a cercare una casa-studio più am-pia. Ma l’eterogenesi dei fini urbanistici qui non si realiz-za più: lussuoso appartamento era e lussuoso apparta-mento resta questa bella casetta — solo, senza più l’aura dell’artistica presenza. Ecco perché lo store di Varvatos — che sulla Bowery ormai infighettata oggi scandalizza i vecchi fan del CBGB — all’improvviso ci appare il posto di New York più vero che c’è. Perché è qui, e non nelle vec-chie e preziose stanze del suo ex appartamento, oggi sbar-rate da nuova proprietà privata, che si realizza la profezia più celebre sempre di Mr. Warhol: quella secondo cui tut-ti, prima o poi, avremo i nostri quindici minuti di celebri-tà. E allora sì, spingiamoci sulla Bowery, spingiamoci an-cora, quarant’anni dopo, fin quaggiù: per provare a sentir-ci un po’ rockstar — e così tanto newyorchesi — pure noi.

G I O R G I O M O R O D E R

ALLO STUDIO 54 ci sono andato

una volta sola. Ero in testa

alle classifiche con “Love

To Love You Baby”

interpretato da Donna

Summer, ed era il 1975. Una sera passai

per caso lì davanti con la mia limousine.

Vedo una lunga fila e mi dico: “Cavolo, è

veramente assurdo che proprio io non ci

sia mai entrato”.

Lo Studio 54 era considerato il tempio

mondiale della disco music e in quel

periodo a New York non si parlava d’altro.

Nel bene e nel male, ovviamente, perché

c’erano anche quelli che la disco la

odiavano. In quel periodo i due fenomeni

contemporanei e tra loro “nemici” erano il

punk, nei locali come il CBGB e, appunto,

la disco nello Studio 54. La cosa davvero

interessante, però, era anche che il rock,

tanto amato dal pubblico più intellettuale,

nella realtà era molto macho e quindi

molto poco progressista, mentre l’odiata

disco vedeva per la prima volta

l’affermazione del pubblico gay: drag

queen, look estremi, sensualità. Per

paradosso lo Studio 54 era una sorta di

zona libera, dove poter essere se stessi

senza nascondersi. Anzi, esagerando.

E dunque, quel giorno, volli vedere con i

miei occhi. Chiesi al mio autista di

domandare se mi potevano far passare

saltando la fila e quelli mi accolsero con

grandi complimenti. Ma una volta

entrato, mentre mi aspettavo di trovare la

baraonda da girone infernale di cui

parlavano tutti i giornali, il locale era

vuoto! Cinquanta persone al massimo. Mi

spiegarono che era ancora presto, le

undici, e che facevano entrare la gente

con il contagocce proprio perché

all’esterno si creasse la fila. L’evento.

Quando, dopo mezz’ora, capii che prima

dell’una non sarebbe iniziato niente me

ne andai. Sono sempre stato uno a cui

piace svegliarsi presto.

Da quella volta non sono mai più

tornato allo Studio 54. Stavo sempre a

lavorare, non avevo tempo per le feste. A

dire la verità neanche mi piacevano le

feste. Io non ballo. Proprio così. Mai

ballato in vita mia.

(testo raccolto da Luca Valtorta)

COPACABANA

STORICO CLUB DI MANHATTAN DAL 1940, TRASFORMATO IN DISCOTECA NEGLI ANNI ’70. DOPO ESSERE STATO UN RISTORANTE, ADESSO L’EDIFICIO NON È OCCUPATO

©RIPRODUZIONE RISERVATA

STUDIO 54

APERTO TRA IL ’77 E L’86, ERA ALLESTITO ALL’INTERNO DI UN TEATRO, CHE PRIMA VENIVA USATO COME STUDIO TELEVISIVO. È TORNATO A ESSERE UN TEATRO

THE GYMNASIUM

CONOSCIUTA ANCHE COME SOKOL HALL, LA DISCOTECA DOVE NEL 1967 ANDY WARHOL PRESENTÒ I VELVET UNDERGROUND OGGI È UNA PALESTRA

ELECTRIC CIRCUS

IL NIGHT DOVE TRA IL 1967 E IL 1971 È STATO INVENTATO IL CONCETTO DI CLUB MODERNO È UN SUPERMERCATO APERTOVENTIQUATTR’ORE SU VENTIQUATTRO

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Repubblica Nazionale 2016-04-03

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laRepubblicaDOMENICA 3 APRILE 2016 34LADOMENICA

L’iniziativa

Giancarlo Carriero proprietario del Regina Isabella di Ischia, con il suo ristorante stellato Indaco, ha lanciato “Vigne

dell’Indaco” progetto di recupero di tre vitigni

autoctoni vinificati in purezza con ottimi risultati: S. Lunardo,

Guarnaccia e Cannamela

Sapori. Doc

L I C I A G R A N E L L O

L’appuntamento

Dal 6 al 25 maggio, Napoli ospita la nona edizione

di “Wine & The City”, contenitore di eventi

e degustazioni: cento location e altrettanti vini italiani

di settanta produttori in passerella, tra concerti,

balletti e visite ai musei

DOMENICA PROSSIMA SI APRE

LA CINQUANTESIMA EDIZIONE

DEL VINITALYTRA GLI OLTRE QUATTROMILA

PRODUTTORI PR0VENIENTI

DA CENTO PAESI ABBIAMO SCELTO OTTO TRA LE BEN

548 VARIETÀ DI UVE INDIGENE.

SPESSO ABBANDONATE O DIMENTICATE

PRESTO SARANNO (DI NUOVO)

FAMOSE

La ricerca

Tutti in positivo, gli indicatori della nuova ricerca

dell’Osservatorio del Vino di Nomisma su vendite, export (Usa e Germania

in primis) e successo del biologico. Secondo Wine Monitor, i consumi pro-capite in Italia sono fermi a 36,5 litri

Vitigni d’Italia.Nascetta, VitovskaFiano e Colorinoil ritrovato orgogliodegli autoctoni

CHE LA FESTA ABBIA INIZIO. Do-menica prossima si apre la cinquantesima edizione del Vinitaly, la fiera di vino più importante del pianeta, nato nel 1967 come “Le Giornate del Vino” al palaz-zo della Gran Guardia di Ve-rona. A supporto del nuovo evento, una base di consu-mo nazionale che a leggerla oggi dà i brividi, sopra i cen-

todieci litri a testa. Mezzo secolo più tardi, i numeri si sono abbondantemente capovolti, se è vero che a fronte degli or-mai quaranta litri scarsi pro-capite, gli espositori attesi al-la Fiera di Verona saranno oltre quattromila, in rappresen-tanza di più di cento nazioni. Un evento globale, con dira-mazioni nei cinque continenti, infinite possibilità di incon-tri, degustazioni, convegni dall’alba al tramonto (e oltre), e quasi duecentomila operatori coinvolti. Eppure, a margi-ne delle passerelle splendenti dei soliti noti, la sfida più in-trigante è scoprire e valorizzare le piccole produzioni, me-glio ancora se da uve sconosciute o quasi.

Il dato è impressionante: in Italia sono presenti almeno 548 vitigni autoctoni, numero che potrebbe addirittura raddoppiare se le indagini dei ricercatori universitari conti-nueranno a produrre recuperi di antiche varietà abbando-nate e dimenticate. Un’opera meritoria, che va a braccetto con la riscoperta di specie botaniche — dai cereali alle pian-te da frutto — e animali, colpevoli soprattutto di rese ridot-

te e scarsa docilità al giogo delle produzioni seriali. Sop-piantati negli anni dai cosiddetti vitigni internazionali — capaci di adattarsi in terroir anche lontanissimi tra loro, ac-quisendo nei migliori dei casi alcune peculiarità locali — molti autoctoni sono semplicemente scomparsi, mentre al-tri hanno rischiato di soccombere. A difendere il principio benedetto della biodiversità, viticultori indomiti e appas-sionati docenti di enologia, sommelier curiosi e intellettua-li del vino, impegnati a formare gruppi di lavoro legati da un filo sottile e resistente tra vigne e laboratori.

Così, negli anni sono tornati alla ribalta uve e vini magni-fici, dalla friulana Vitovska (bianca e floreale) al Fiano già apprezzato da Plinio il Vecchio, a cui forse si deve il nome, riferito alle api (da cui apiano) golose di quell’uva tanto zuccherina. E dietro i vitigni, gli uomini, pronti a scegliere la strada difficile della sperimentazione, per verificare la possibilità di restituire dignità enologica a tante uve d’an-tàn, da Luigi Moio, padre putativo degli autoctoni campa-ni, al valdostano Nicola Del Negro, che non si è voluto rasse-gnare alla desolazione della superficie vitata regionale, scesa in un secolo da quattromila a quattrocento ettari. A lui, e alle ottanta famiglie di vignaioli coinvolte nel proget-to, si devono alcune delle migliori etichette di “viticoltura estrema” del nuovo millennio.

Se Chardonnay e Merlot non vi divertono più, prenotate una gita a Verona e cercate i vini selezionati da Ian D’Aga-ta, direttore scientifico di Vinitaly International, per la su-per degustazione “Vini unici al mondo da vitigni autoctoni italiani”. Saranno famosi, meglio assaggiarli adesso.

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Repubblica Nazionale 2016-04-03

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laRepubblicaDOMENICA 3 APRILE 2016 35

Azienda Agricola Skerlj Località Sales 44 Sgonico (Ts) Tel. 040-229253

Poggiopiano Via Pisignano San Casciano in Val di Pesa (Fi) Tel. 055-8229629

Cave Mont Blanc Chemin des Iles 31 La Ruine - Morgex (Ao) Tel. 0165-800331

Agricola Macciocca Via Piagge 147 Piglio (Fr) Tel. 320-7638282

Taffetà 2011 Fattoria PoggiopianoDeriva dal rosso intenso della buccia, il nome — Colorino — di uno dei vitigni tradizionali del Chianti. Selezionato e vinificato in purezza, unisce opulenza e setosa eleganza. Con carni arrosto

Ansonica Passito ’Nantropò 2014 La Fontuccia Dai vigneti a terrazze che picchiano giù nel mare dell’Isola del Giglio, il vino da uve disidratate al sole e al vento. Sentori di mare e agrumi, morbido e fruttato al gusto. Con pecorino toscano stagionato

Marsiliano 2009 La SibillaDal cuore dei Campi Flegrei, un vitigno misterioso — il Marsigliese — supportato da Piedirosso e Olivella, per un rosso rubino dal profumo di pepe nero e ciliegia, tannico e avvolgente. Ottimo per il coniglio con patate

Ciù RoussouIl vitigno Bovale impiantato sulla sabbia di Carloforte si traduce in duemila bottiglie di un rosso (Più Rosso, in sardo) morbido, accattivante, che sa di frutta matura. Accompagna il porceddu arrosto

Anas-Cëtta 2015 CognoA vent’anni dalla prima micro-produzione dopo un secolo di abbandono, la Nascetta storico vitigno di Novello, nel cuore delle Langhe, è tornato a dare un bianco sapido e fiorito. Con frittelle d’erbe

Terrano 2012 SkerljSi richiama alla forza della ruvida terra carsica, il vitigno tutto mineralità, acidità e colore. Una piccola azienda lo declina al meglio in poche centinaia di litri. Ottimo con i salumi

La Sibilla Agricola Via Ottaviano Augusto 9 Bacoli (Na) Tel. 081-8688778

Azienda Agricola Elvio Cogno Via Ravera 2 1 Novello (Cn) Tel. 0173-744006

Cesanese del Piglio Superiore Docg Civitella 2014 Macciocca Conosciuto già dai Romanie tradizionalmente coltivato nell’area dei castelli romani, regala un rosso dal colore limpido, rubino, ben strutturato, profumato d’erbe e di bosco. Accompagna le fettuccine con il ragù

Azienda Agricola Fontuccia Via Provinciale 54 Isola del Giglio (Gr) Tel. 0564-809366

Tanca Gioia Società Agricola Isola di San Pietro (Ca) Tel 335-6359329

Glacier Metodo Classico BrutCresce solo in Val d’Aosta il Prié Blanc de Morgex, vitigno montano a bacca bianca dai sentori minerali, declinato come bollicina di grande freschezza, fine ed elegante.Perfetto come aperitivo

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QUANDO ABBIAMO iniziato,

per un periodo piuttosto

lungo non abbiamo

avuto un nome. Fummo

invitati a un festival rock

insieme a gruppi come Verdena e

Afterhours. Salimmo sul palco e

iniziammo a suonare senza dire una

parola. All’inizio fu anche divertente,

contribuiva a creare un alone di mistero.

Ma non poteva durare. Così ci

arrovellavamo finché un giorno

Ermanno Carlà, il nostro bassista e

grafico, ebbe un’idea. Pensò alle botti

che aveva in cantina. Contenevano un

vino che la sua famiglia produceva a

proprio uso e consumo. Il ceppo di uve si

chiamava Negroamaro.

Capimmo subito che ci saremmo

chiamati con quel nome. Erano quelle le

nostre radici. Quel vino dal colore scuro

e dal retrogusto amaro era il Salento,

era la nostra terra. Terra scura, dolce e

amara. Ed era anche un simbolo

perfetto per la nostra musica. Noi

volevamo cambiare il codice tematico

del rock italiano: non solo muscoli, forza,

violenza come usava la musica che

veniva dal punk. Volevamo amarezza e

dolcezza insieme. Quando andavamo a

suonare in giro per l’Italia con il furgone

scassato, a sessanta chilometri all’ora

per risparmiare benzina, il Salento

veniva identificato con la pizzica e con il

reggae dei Sud Sound System — a cui

abbiamo sempre tributato il massimo

rispetto. Ma noi volevamo esprimere

un’altra identità. Non volevamo che il

Salento fosse etichettato solo con la

“world music”, quella era solo una delle

sue tante facce. Negramaro, quindi,

diventò per noi anche un vessillo, una

bandiera del Salento e della sua varietà

musicale e culturale.

Quella battaglia oggi è vinta. Siamo

stati persino premiati dalla Camera di

commercio perché, a quanto pare,

abbiamo portato il Negroamaro a essere

uno vini dei più consumati in Italia

aumentandone la diffusione fino al

settantacinque per cento in più. Del

resto per me vino, cibo e musica stanno

su uno stesso piano, sono espressioni

artistiche. C’è un capitolo nel mio libro,

“Lo spacciatore di carne”, in cui il

protagonista fa cucinare i piatti ai dischi

che ama. Beh, un disco di Chet Baker al

tramonto, un buon piatto, un buon

bicchiere di vino non sono un’opera

d’arte? Di più: sono il senso della

bellezza della vita stessa.

Per finire, due piccoli misteri (buffi)

da svelare. Il primo. Solo una cosa non ci

piaceva del Negroamaro. Era il

dittongo.Toglieva musicalità. Fu per

questo che decidemmo di chiamarci

Negramaro, senza la “o” (e la cosa buffa

è che adesso molti scrivono proprio così

sulla bottiglia). Il secondo mistero

riguarda il titolo del nostro secondo

album attorno a cui ai tempi (era il

2004) si fecero molte congetture:

“000577”. Beh, era il codice

merceologico delle botti di Negroamaro.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Perchénon possiamonon dirciNegramaro

G I U L I A N O S A N G I O R G I

Repubblica Nazionale 2016-04-03

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laRepubblicaDOMENICA 3 APRILE 2016 36LADOMENICA

ROMA

FELPA NERA, CAPPUCCIO, SKINNY JEANS, Michele Riondino si mesco-la tra i ragazzi che affollano il bar del Pigneto, quartiere della movida romana dove ha fissato l’appuntamento. È l’ora della co-lazione: tra la radio, il teatro, il film che sta girando, quello che sta per uscire (Senza lasciare traccia di Gianclaudio Cappai) la

preparazione del concerto del Primo maggio a Taranto (di cui è direttore artistico da quattro anni, evento ideato e realizzato dal Comitato cittadi-no e lavoratori liberi e pensanti), è l’unico momento libero della giornata. Il cellulare continua a squillare: «Mi scusi, metto a punto l’ultima cosa e poi lo spengo». Quando qualcuno lo saluta risponde appena con un cenno, e poi abbassa subito lo sguardo. «Cappuccino?». Si alza e torna al tavolo con due tazze.

A trentasette anni l’attore che ha dato volto e ricci al commissario Mon-talbano versione giovane, successo che spopola anche sulla tv in-glese, racconta i suoi inizi: «Se nasci a Taranto, come me, il tuo destino è l’Ilva. Era lì che lavorava mio padre. Io facevo l’istitu-to tecnico e avevo perennemente in testa l’idea di andarmene, di fuggire. Cominciai con i laboratori teatrali, ma ero timidissi-mo. Se sono riuscito a farcela è stato grazie a Giorgio Pucciarel-lo, baritono, e padre di un mio amico: mi preparò lui per il provi-no all’Accademia Silvio D’Amico di Roma. La mia città non la

sopportavo e ancora oggi per i tarantini nutro senti-menti opposti. Poi si sa, stando lontano noi italiani riva-lutiamo tutto, è fuori dai confini nazionali che ci scopria-mo patrioti. Esattamente quello che succede a un meri-dionale come me. È solo stando lontano dalla mia città che arrivo a provare per lei un forte senso di apparte-nenza. Anche se poi mi fa soffrire...». Il sorriso gli torna quando racconta dei fratelli e della madre, grande cuo-ca. Da come si guarda intorno si capisce che non gli piace affatto essere riconosciuto. «Sono una persona schiva, è ve-ro. Quando avevo quattordici-quindici anni pensavo a come sarebbe potuta essere diversa la mia vita se fossi nato a Ro-ma o a Milano, alle possibilità che avrei avuto. Ecco, dai tren-ta in su ho cominciato a riflettere sul fatto, invece, che non sa-

rei stato un’altra persona. Io sono io perché è da lì che vengo…».Prima la tv (Distretto di polizia) poi il cinema, la grande occasione arri-

va grazie al regista Daniele Vicari che gli offre il ruolo da coprotagonista al fianco di Elio Germano nel film Il passato è una terra straniera dal roman-zo di Gianrico Carofiglio. «Ero uno sconosciuto, Daniele ha creduto in me. Gli sarò eternamente grato, mi ha dato la consapevolezza che potevo fare questo mestiere. Poi c’è stato l’altro incontro fondamentale, quello con Emma Dante con cui ho recitato in Cani di bancata, un processo creativo completamente nuovo che è diventato il mio modello ideale. Mi ha fatto capire che persona sono, ha tirato fuori anche la mia cattiveria. Ho biso-gno di qualcuno che mi violenti, la creazione per me ha sempre a che fare con una certa sofferenza».

Ma ovviamente la sfida più dura per Riondino è stata quella con Montal-bano, che per milioni di italiani è diventato un’icona grazie a Luca Zinga-retti. «Interpretare Il giovane Montalbano è stata una scelta sofferta, cer-to, ma felice, a dimostrazione del fatto che chi rischia porta a casa il risulta-to. Carlo Degli Esposti mi aveva scelto per Noi credevamo di Mario Marto-ne, e mi ha proposto lui per il ruolo del commissario da giovane. Ci ho pen-sato e ripensato, quando abbiamo girato la prima stagione, tre anni fa, te-mevo che i fan di Montalbano ci avrebbero picchiato. Invece ci hanno se-guito. Il giovane Montalbano è apparso dal nulla, ha sorpreso tutti, e il fat-to che possa continuare a sorprendere mi inorgoglisce. Per prima cosa ero andato a parlarne con Camilleri, dovevo confrontarmi con lui. Ma ne ero intimorito. Più tardi mi ha detto, ridendo, che le prime volte parlavo come una segreteria telefonica, che ero tutto impostato». Con lo scrittore sicilia-no è nato un rapporto di amicizia «anche se», confessa Riondino, «ancora oggi quando lo incontro ci vogliono venti minuti prima di acquisire una certa disinvoltura. Con Camilleri abbiamo affrontato il percorso umano di Salvo Montalbano, il rapporto mancato con la madre e di riflesso con Li-via. Ma in realtà con lui ho potuto parlare di tutto. Anche quando dovevo interpretare Ranieri nel film su Leopardi, Il giovane favoloso, ho chiesto consiglio a Camilleri. Ranieri è un personaggio ambiguo: se lo guardi con gli occhi dei napoletani è un eroe, visto con gli occhi dei recanatesi è un usurpatore. Io mi ero documentato nella Biblioteca di Napoli, avevo incon-trato un’esperta, Fabiana Cacciapuoti, ma ero lo stesso pieno di dubbi. So-no andato a trovare Andrea, che a novant’anni è ancora così curioso, così capace di ascoltare... Il confronto con un uomo come lui ti arricchisce sem-pre».

Con Il giovane Montalbano arriva anche la grande popolarità, l’assedio — soprattutto delle fan. Riondino con pudore dice: «È una cosa che mi met-te in difficoltà, cerco sempre di non essere scortese ma mi fa molto più pia-cere passare inosservato. La verità? Quando la gente fa finta di non ricono-scermi mi fa un regalo». Si mette e si toglie gli occhiali da vista con la mon-tatura nera e modaiola. «Il mio rapporto col narcisismo? Oddio non credo di essere narcisista. Mi piace il lavoro che faccio e assai meno tutto quello che c’è intorno, quello che ha a che fare con l’immagine e che in questi an-

ni certe volte sembra addirittura prevalere. I selfie, i servizi fotografici... io sto bene solo sul set. Adesso sto girando a Napoli Falchi di Toni D’Ange-lo con Fortunato Cerlino. È un film che indaga sulla comunità cinese, una storia interessante».

Inquieto, perfezionista — per interpretare in tv il Mennea di Ricky To-gnazzi si è allenato per davvero — Riondino in questi anni è diventato uno degli attori più richiesti. Ma non è vero che sta bene solo sul set. A parte la

recitazione ha anche altre passioni. La prima è sua figlia Frida: «Ha due anni e mi fa fare cose che non avrei mai pensato di fare». La se-

conda è la musica: «Sono cresciuto ascoltando i Pink Floyd e i Doors, ma mi piace tutto: dall’heavy metal al grunge, al punk, fino all’elettronica. Da bambino sognavo di diventare una rockstar». Si è limitato a suonare con una sua band, i Revol-ving Bridge, che riarrangia classici del rock, «poi con Lime-rick su Radio1, racconto la storia del frontman di una famo-sa rock band che all’apice del successo abbandona il grup-po, si ritira dalle scene e grazie a un vecchio impianto radio-fonico comunica col mondo dalla sua tana. In realtà è da un po’ che penso a uno spettacolo teatrale sulle dinamiche tra i componenti di una band chiusa in sala prove, ci sto lavo-rando con Diego Sepe e Marco Andreoli». E poi c’è la terza passione, la politica, ed è quella che più lo fa arrabbiare:

«Perché mi ha deluso, perché mi ha disarmato. Ed è ancora peggio quando a deluderti sono quelli più a sinistra, quelli in cui credevi. Prenda il caso dell’Ilva, perché poi sempre lì an-

diamo a finire. A Genova i sindacati hanno fermato l’area a cal-do degli stabilimenti perché era incompatibile con il quartiere

di Cornigliano. A Taranto invece, dove ancora si muore, quell’a-rea è aperta. Ma le pare possibile? A me no, a me sembra soltanto una guerra tra poveri».

PER PRIMA COSA SONO ANDATO A CONFRONTARMI CON CAMILLERI. ERO PIUTTOSTO INTIMORITO. TEMPO DOPO MI DISSE CHE LE PRIME VOLTE PARLAVO COME UNA SEGRETERIA TELEFONICA. ANCORA OGGI QUANDO LO VEDO CI METTO UN PO’ PRIMA DI ESSERE DISINVOLTO

Ora che tutti lo riconoscono perché ha vinto la sfida impossibile

dando volto e riccioli al commissario più amato dagli italiani

(“all’inizio temevo davvero che i fan di Zingaretti ci avrebbero pic-

chiato”) se per strada qualcuno lo ferma per un selfie ancora si im-

barazza: “Del mio lavoro mi piace soltanto il set, per tutto il resto

sono troppo timido”. Lo era già quando l’avventura incominciò:

“Fu grazie al padre di un mio amico se feci il provino per l’Accade-

mia e finalmente lasciai Taran-

to. Più che altro fu una fuga. Se

fossi restato sarei finito all’Ilva.

Come mio padre. Era quello il de-

stino riservato a chi nasceva nel-

la mia città”

Michele

©RIPRODUZIONE RISERVATA

QUANDO AVEVO QUATTORDICI

O QUINDICI ANNI PENSAVO A COME SAREBBE STATA

DIVERSA LA MIA VITA SE FOSSI NATO

A ROMA O A MILANO A TRENTA

HO PRESO ATTO CHE NON SAREI

STATO UN ALTRO

SONO CRESCIUTO ASCOLTANDO I PINK FLOYD E I DOORS, MA MI PIACE TUTTA LA MUSICA: L’HEAVY METAL, IL GRUNGE, L’ELETTRONICA.HO UN MIO GRUPPO, SUONIAMO. DA BAMBINO SOGNAVO DI DIVENTARE UNA ROCKSTAR

S I L V I A F U M A R O L A

Riondino

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L’incontro. Montalbani

Repubblica Nazionale 2016-04-03