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QUALE psicologia Semestrale dell’Istituto per lo Studio delle Psicoterapie fondato nel 1992

Organo della Società Italiana di Psicoterapia e della Società Italiana di Psicoterapia Strategica Anno 1 – Numero 2 – Marzo 2014 – Nuova Serie

Direttore scientifico Antonio Fusco

Comitato scientifico

Barbara D’Amario, Pierluigi Diotaiuti, Guglielmo Gulotta, Fausto Massimini, Luciano Mecacci, Patrizia Patrizi, Filippo Petruccelli, Irene Petruccelli, Valeria Schimmenti, Chiara Simonelli, Rosella Tomassoni,

Giulia Villone Betocchi, Valeria Verrastro

Direttore responsabile

Valeria Verrastro

Redazione

Rocco Chizzoniti, Cristina Colantuono, Alessandra Gherardini, Stefania Lancia, Anna Rizzuti, Maria Teresa Serranò, Giuditta Zammarrelli, Carolina Zegarelli

Grafico Renato De Marco

Direzione, Redazione e Amministrazione 00185 Roma – Via San Martino della Battaglia 31

Telefoni 06 44340019, 328 6068080 – Fax 06 44340017 www.qualepsicologia.it

Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 86 del 17 Aprile 2013

ISSN 1972-2338 È consentita la riproduzione dei testi citando la fonte

Finito di stampare in proprio il 7 Aprile 2014

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QUALE psicologia Numero 2 – Marzo 2014 – Nuova Serie

SOMMARIO La “terapia familiare breve evoluta orientata alla soluzione” nel trattamento delle proble-matiche adolescenziali Annunziata Rizzi, Valeria Verrastro

pag. 5

I Gruppi Balint come metodo formativo in ambito ospedaliero. Ilaria Caruso

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Recensioni

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Gestione e norme redazionali

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La “terapia familiare breve evoluta orientata alla soluzione” nel trat-tamento delle problematiche adolescenziali Evolving Solution-Oriented Brief Family Therapy Approach with dif-ficult adolescents Annunziata Rizzi1, Valeria Verrastro2 Riassunto L’articolo presenta l’approccio della “terapia familiare breve evoluta orientata alla soluzione” nel trattamento delle problematiche adolescenziali. Tale approccio nasce dall’integrazione di tre indirizzi di terapia breve strategica: la “terapia breve focalizzata sul problema” dei teorici del Mental Research Institute (MRI), la “te-rapia breve focalizzata sulla soluzione” sviluppata da de Shazer e dai suoi colleghi e l'”approccio narrativo” di White. Parole chiave Terapia familiare breve evoluta orientata alla soluzione; adolescenti difficili Abstract The paper presents an Evolving Solution-Oriented Brief Family Therapy Approach with difficult adoles-cents. This approach is born from integration of three Brief Strategic Therapy models: the “Brief Problem-Focused Therapy” approach of the Mental Research Institute (MRI) theorists, the “Solution- Focused Brief Therapy” approach developed by de Shazer and his colleagues and the “Narrative Therapy” approach de-veloped by Michael White. Keywords Evolving Solution-Oriented Brief Family Therapy Approach; difficult adolescents Premesse Gli adolescenti “difficili” rappresentano una sfida per qualsiasi operatore che, a vario titolo, si trova a dover rispondere ad esigenze trattamentali nei loro confronti. L’adolescenza si configura come un’età ricca di con-traddizioni, un’età di transizione in cui il ragazzo è impegnato a consolidare l’immagine di sé in una rinnova-ta identità che integri i cambiamenti evolutivi. Il rimaneggiamento psichico proprio dell’adolescenza ruota attorno ad alcuni assi: incremento pulsionale, modificazioni somatiche, lavoro del lutto, riassestamento di-fensivo, rielaborazione narcisistica, sistemi di idealizzazione, ricerca di identificazione, adesione al gruppo. Gli orientamenti teorici più attuali concordano nel proporre una concezione agentica dello sviluppo adole-scenziale. Secondo questa concezione, gli individui non sono meri organismi reattivi, plasmati dagli eventi ambientali o mossi da disposizioni innate. Sono piuttosto soggetti attivi in grado di autoregolarsi e riflettere su se stessi: la capacità di esercitare ampie forme di controllo sui processi di pensiero, sulle motivazioni, sull’affettività,

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sull’azione, consente loro di essere artefici attivi del proprio ambiente e non semplici “prodotti”; consente perciò di influenzare la natura e il corso della propria esistenza. La visione attiva dell’individuo è alla base dei modelli interazionisti e costruttivisti, in cui lo sviluppo non è spiegato né dall’accrescimento né dalle influenze ambientali, ma dall’interazione tra l’individuo e il suo am-biente: è il risultato dell’azione dell’individuo, intenzionale e diretta verso uno scopo, la quale ha l’obiettivo di adattare le mete e le potenzialità individuali alle richieste ed alle opportunità offerte dal contesto; tale azione non produce soltanto un cambiamento nell’individuo, ma anche nello stesso contesto di sviluppo. In questa più ampia prospettiva, i comportamenti problematici non sono giudicati come una categoria sostan-zialmente diversa da quella dei comportamenti “normali”, né come il frutto deterministico di negative in-fluenze ambientali inevitabili o di situazioni passate. Essi sono, al contrario, delle azioni che hanno un senso, vale a dire che svolgono delle funzioni precise nel processo di adattamento tra individuo e ambiente, in rela-zione sia ai compiti di sviluppo dell’adolescenza che alle diverse opportunità e richieste dei vari contesti di sviluppo. Azioni molto diverse, ad esempio comportamenti a rischio per la salute, da un lato, oppure com-portamenti positivi, come esprimere un’opinione propria, dall’altro lato, possono soggettivamente svolgere la stessa funzione, vale a dire mostrare la propria indipendenza, autonomia, adultità. La terapia strategica All’interno del famoso progetto sullo studio della comunicazione, J. Haley e J. Weakland studiarono a lungo il tipo di comunicazione terapeutica di Milton H. Erickson. Mentre Bateson può essere considerato il padre teorico della prospettiva interazionale-sistemica in psicologia e in psichiatria, Erickson è il maestro cui rifarsi per le strategie di applicazione clinica e per la modifica in tempi brevi delle situazioni disfunzionali. Dall’iniziale incontro tra il gruppo del MRI di Palo Alto e M. Erickson si sono evoluti modelli differenti di intervento terapeutico strategico. Il termine “terapia strategica” si deve a J. Haley: “Si parla di terapia strategica quando il terapeuta mantiene l’iniziativa su tutto quello che si verifica nel corso della terapia ed elabora una tecnica particolare per ogni singolo problema” (Haley, 1973: 1). Nel modo in cui Erickson lavorava era implicita l’idea che qualunque problema abbia una natura interpersonale: i modi in cui il paziente agisce con gli altri e questi agiscono con lui, producono il suo senso di difficoltà e le sue limitate modalità di comportamento. Data questa concezione, risolvere un problema della persona significa modificare le sue relazioni con gli altri e, in età evolutiva, all’interno della famiglia. Il cambiamento terapeutico non si produce come risultato di una maggiore consa-pevolezza (insight) delle “cause” del problema, della relazione tra il passato e il presente. Erickson creava una situazione che necessariamente richiedeva un nuovo comportamento, poiché l’uomo apprende solo tra-mite l’esperienza. La Terapia Breve Strategica, dalle prime esperienze di Erickson in poi, ha avuto una ramificata evoluzione connotata dalla maggiore enfasi data dagli autori dei tre fondamentali modelli ad alcune specifiche assunzio-ni o tecniche che ne hanno contraddistinto le caratteristiche. Il gruppo di Palo Alto ha posto la sua attenzione sul circolo vizioso di persistenza di un problema, alimentato dai tentativi di soluzione messi in atto dagli stessi portatori del disturbo, e, di conseguenza, sull’esigenza di intervenire con manovre tese a bloccare e ri-strutturare le tentate soluzioni disfunzionali. Haley ha lavorato sulla direttività comunicativa del terapeuta e su come basare l’intervento sulla riorganizzazione dei giochi di potere nelle dinamiche comunicative e gerar-chiche familiari. Il gruppo di Milwaukee di Steve de Shazer ha posto l’accento sulla costruzione di soluzioni attraverso le “eccezioni” al problema, indipendentemente dalle sue modalità di persistenza. La “terapia familiare breve evoluta” nel trattamento degli adolescenti “difficili” Il modello di terapia breve evoluta si focalizza sulle interazioni presenti tra i membri della famiglia e sulle loro storie attorno al problema, tralasciando le considerazioni sulla struttura familiare. Esso nasce dall’integrazione di tre indirizzi di terapia sistemica breve: l'approccio di “terapia breve focalizza-ta sul problema” del Mental Research Institute (MRI) di Palo Alto (Watzlawick et al., 1974), l'approccio di

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“terapia breve focalizzata sulla soluzione” sviluppata da de Shazer e dai suoi colleghi di Milwaukee (de Shazer, 1986) e l'approccio narrativo di White (White, 1992). Il modello evoluto-integrato consente di spostarsi liberamente dal “parlare del problema” al “parlare della soluzione” e viceversa, qualora questo modo di procedere si adatti meglio alle prospettive dei clienti. Uno dei testi più interessanti che mostrano l’utilità pratica di un modello integrato nel trattamento di svariate problematiche adolescenziali è l’opera di Matthew D. Selekman “Pathaways to Change – Brief Therapy with Difficult Adolescents” (2005). La terapia familiare breve, elaborata da Selekman, trae importanti contributi dalle teorie di Seligman (1998), dal modello di cambiamento di Prochaska e di Di Clemente (1982), dalla teoria delle intelligenze multiple di Gardner (1983). Gli adolescenti difficili e le loro famiglie possono costituire una sfida per ogni terapeuta per cui appare fon-damentale la consapevolezza della necessità di questi indirizzi: 1) evitare l'uso di etichette; 2) aspettarsi che il cliente abbia la forza e le risorse per cambiare; 3) considerare la terapia come un rapporto di cooperazione all'interno del quale i clienti fissano gli obiettivi del trattamento; 4) scoprire cosa è piaciuto e cosa non è piaciuto ai clienti nelle precedenti esperienze di terapia; 5) dare agli adolescenti lo spazio di una seduta individuale per valutare i propri bisogni, obiettivi e aspettative; 6) coin-volgere attivamente collaboratori appartenenti a sistemi più ampi; 7) essere flessibili dal punto di vista tera-peutico e improvvisare quando opportuno; 8) adeguare gli esperimenti terapeutici e gli interventi alla specifi-ca fase del processo di cambiamento in cui ogni membro della famiglia si trova; 9) in ogni sessione, suscitare impressioni e opinioni di ogni membro sulla qualità della relazione terapeutica. Nel corso della prima intervista con la famiglia il terapeuta deve svolgere quattro importanti attività terapeu-tiche. 1. Spiegare la configurazione della sessione: si chiariscono le fasi dell’intervista, l’utilità della videore-gistrazione e dello specchio unidirezionale, la funzione del team. 2. Stabilire l’alleanza terapeutica: si inizia l’intervista invitando ogni membro a presentarsi, a racconta-re riguardo lavoro, hobby, passioni, punti di forza. Questa indagine offre importanti informazioni riguardo l’area di intelligenza di ognuno (Gardner, 1983) ed eventuali risorse che potrebbero essere “irrigate” nel ter-ritorio del problema. In questa fase è importante utilizzare il linguaggio e il sistema di credenze del cliente. Se il livello di conflittualità è intenso, bisogna separare genitori e adolescente e lavorare separatamente con ogni sottogruppo. 3. Valutare la fase del processo di cambiamento in cui si trovano i vari membri della famiglia: i precon-templatori sono inviati in terapia da altri; si tratta di adolescenti trascinati dai loro genitori o di adolescenti e/o famiglie inviati dalle agenzie di controllo sociale. Con utenti precontemplatori, i cosiddetti “visitatori”, sono tre le strategie più utili: a) empatizzare con l’adolescente e/o la sua famiglia riguardo il fatto di essere costretto alla terapia; b) astenersi dal chiedere un cambiamento immediato; c) accettare di lavorare su qua-lunque obiettivo essi propongano, anche se diverso da quello definito dall’invio. Esempi di domande utiliz-zabili con questi utenti sono: “Quale pensa sia il motivo che ha fatto credere a X che lei abbia bisogno di una consulenza?”; “Cosa pensa che X dovrebbe vedere per convincersi che lei non ha più bisogno di venire qui?”; “Lei ha già incontrato molti terapeuti. In che cosa hanno fallito con lei che è importante che io sap-pia?”. Nel fare tali domande potrebbe essere strategico assumere una posizione one-down, usando il cosid-detto “approccio di Colombo”. E’ bene inoltre che il terapeuta si complimenti con i membri della famiglia per qualsiasi comportamento positivo reperisca, anche solo per il fatto di essere lì in quel momento. A volte appare opportuno per agganciare un adolescente particolarmente recalcitrante, che il terapeuta separi se stes-so dall’agenzia inviante e crei l’alleanza reperendo insieme a lui strategie per “togliersi di dosso” il controllo indesiderato. Gli utenti contemplatori, cosiddetti “richiedenti”, solitamente genitori o altri adulti coinvolti e raramente un adolescente, sono consapevoli dell’esistenza di un problema ma sono bloccati nel meccanismo delle tentate soluzioni e non si considerano parte del processo di cambiamento. Due strategie molto utili in questo caso sono i compiti di osservazione (de Shazer, 1988) e la scala di bilanciamento decisionale (Pro-chaska et al., 1994). La prima strategia prevede che i genitori osservino attentamente su base quotidiana nel corso di una settimana alcuni passi incoraggianti compiuti dall’adolescente verso la soluzione del problema. Un esempio di consegna del compito potrebbe essere: ”Mi piacerebbe che lei tirasse fuori la sua lente di in-grandimento immaginaria per avere un quadro più completo della situazione in casa. Nel corso della settima-na prossima lei dovrebbe notare tutte quelle volte che suo figlio sta facendo qualcosa che lei vorrebbe lui fa-

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cesse. Osservi tutte quelle cose positive e ne prenda nota”. Dopodiché il terapeuta potrebbe usare una meta-fora e dire: “Sa, i problemi sono come le sabbie mobili, più pensiamo a loro, più ci lagniamo e più ci agitia-mo per loro e più ne siamo ingoiati. Adesso bisogna uscire dalle sabbie mobili e osservare cosa c’è fuori”. La scala di bilanciamento decisionale consiste nel far compilare ai genitori un elenco dei vantaggi e degli svan-taggi di continuare ad assumere le soluzioni tentate. Se è l’adolescente contemplatore a compilarlo, bilancerà costi e benefici del comportamento problematico. Gli utenti nella fase di determinazione hanno piena consapevolezza del problema e sono pronti a mettere in atto comportamenti finalizzati alla soluzione. Anche in questo caso si tratta più spesso di genitori ma può trattarsi anche di adolescenti soprattutto se il terapeuta ha negoziato un’interessante meta di trattamento. Altri utenti infine si trovano già nella fase di mantenimento e possono essere aiutati a consolidare il cambia-mento ed evitare eventuali ricadute. E’ importante tenere a mente che i singoli membri della famiglia posso-no trovarsi in fasi diverse del processo di cambiamento per cui può essere necessario adattare individualmen-te gli interventi. 4. Porre domande che si adattino progressivamente agli stili di risposta della famiglia: • Le pretreatment change questions mirano ad individuare eventuali miglioramenti del problema avvenuti nell’intervallo tra la prima telefonata per l’appuntamento e la prima sessione di terapia. Un esempio è: “Ha notato che cosa è migliorato da quando ha telefonato?”. Queste domande possono indurre l’idea che qualcosa di positivo sia già avvenuto e possono generare una positiva profezia che si autoavvera. • Le why now? questions sono utilizzabili se la famiglia non riporta cambiamenti di pretrattamento. In questo caso il terapeuta non chiederà qual è il problema bensì “Cosa gradirebbe cambiare ora?” oppure “che cosa la porta qui proprio ora?”. Se la risposta porta alla luce un lungo elenco di cose negative, il terapeuta deve parcellizzare il problema chiedendo “Cosa gradirebbe cambiare per primo?”. • Le solution building questions orientano sul reperimento di eccezioni intese come modelli utili di com-portamento, credenze, sentimenti che hanno aiutato il cliente a contrastare in qualche circostanza il proble-ma. Un esempio può essere: “Mi ha dato un quadro abbastanza buono del problema ma, per avere un quadro più completo riguardo quello che bisogna fare, ho bisogno di sapere: quando non accade il problema, cosa accade invece?”. • Le unique account questions e le redescription questions sono state elaborate da White per aiutare le fa-miglie a riscrivere nuove storie su di loro e sulle relazioni che contraddicono le storie dominanti saturate dal problema. • Le presuppositional questions sono utilizzate per amplificare le eccezioni e i cambiamenti di pretratta-mento. Esempi sono: “Come saprà quando non dovrà venire più qui?”; “Se dovesse mostrarmi una videore-gistrazione di come le cose saranno la settimana prossima, cosa vedremmo?”; “Se dovesse guardare nella mia palla di cristallo immaginaria, cosa vedrebbe accadere di diverso da qui ad una settimana?”. • La miracle question sequence è stata sviluppata da de Shazer ed è particolarmente utile per suscitare le mete di trattamento ed una descrizione particolareggiata della situazione senza il problema: “Supponiamo che stanotte, mentre siete a casa addormentati, accada un miracolo e questo problema sia risolto. Come sa-preste che il miracolo è accaduto? Che cosa sarebbe diverso?”. Il terapeuta chiederà poi: “Sono curioso: qualche pezzo del miracolo accade già?”. • Le coping sequence mirano ad affrontare il pessimismo di alcune famiglie che non rispondono bene alla miracle question. Il terapeuta chiederà: “Come mai le cose non sono peggiori?”; “Cosa fate per non permet-tere a questa situazione di essere peggiore?”; “Cosa si potrà fare perché ciò accada più spesso?”. • Le scaling questions sono utili per assicurare una misurazione quantitativa del problema della famiglia al momento e del livello al quale vorrebbero trovarsi la settimana successiva. Una volta che la famiglia ha identificato la situazione del problema su una scala da 1 a 10 (essendo 10 la situazione migliore), il terapeuta negozia con i genitori e l’adolescente cosa dovranno fare nella settimana successiva per ottenere un punto in più sulla scala. Quindi, tramite queste domande, si possono stabilire mete iniziali e realistiche per la terapia. Nel caso in cui l’adolescente e i genitori non siano d’accordo sulla meta di trattamento reciproca, bisogna stabilire mete separate e diversi progetti di lavoro. Le scaling questions possono essere usate anche per otte-nere la cooperazione dell’adolescente: egli potrà scalare un comportamento fastidioso dei genitori nei suoi confronti e negoziare sui comportamenti che potrebbero far ottenere un punto in più sulla scala. Con situa-

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zioni più croniche e famiglie particolarmente pessimiste si può usare una scala completamente negativa da -10 (situazione peggiore) a -1 (situazione migliore). • Le percentage questions aiutano, come le precedenti a misurare quantitativamente la percentuale di in-fluenza del problema e il progresso attraverso il corso della terapia. • La pessimistic sequence viene utilizzata quando la famiglia reagisce in maniera ancora pessimistica alla coping sequence. In questo caso il terapeuta potrà chiedere: “Cosa pensa accadrà se le cose non miglioreran-no?” – “E poi cosa?” – “Chi soffrirà di più?” – “Alcuni genitori al vostro posto avrebbero gettato la spugna da molto tempo. Cosa vi trattiene dal farlo?”. • Le externalizing questions (White, 1992) aiutano con le famiglie che non rispondono alle domande orientate alla soluzione; esse spostano il focus dall’adolescente, ristrutturando e oggettivando il problema. • Le future-oriented questions aiutano a costruire un futuro di padronanza (mastery) e di successo. Ad esempio si potrà chiedere: “Se dovesse mostrarmi una videoregistrazione della sua famiglia dopo aver com-pletato la terapia con successo, che cambiamenti osserveremmo sul video?” • La problem-tracking sequence si usa quando il terapeuta ha esaurito le possibilità col modello soluzione-diretto. Il focus dell’intervista si sposta sul problema e l’obiettivo diviene alterare la percezione della fami-glia riguardo il problema stesso (ristrutturazione) e disgregare le sequenze di interazione che lo mantengono. Le domande che localizzano il problema suscitano una descrizione particolareggiata dei modelli circolari d’interazione che perpetuano il problema, attraverso l’utilizzo della metafora della videoregistrazione. Un esempio può essere: “Se lei dovesse mostrarmi una videoregistrazione di come si svolgono le cose quando si presenta il problema, cosa vedremmo?”. Dopo aver individuato il modello ricorsivo, il terapeuta utilizza lo schema del disegno-intervento per disgregarlo immaginando una versione modificata. • Le conversational questions sono domande aperte poste da un terapeuta in posizione one-down. Esse possono aiutare a svelare segreti di famiglia o cose non ancora dette. Esempi sono: “Se io lavorassi con un’altra famiglia come la sua, che consiglio mi darebbe per aiutarla?”; “Se ci fosse una domanda che sperava io facessi, quale sarebbe?”; “Prima che lei entrasse qui per la prima volta, c’era qualcosa di cui lei non avrebbe voluto parlare?”. • Le consolidating questions sono utili per amplificare i cambiamenti di pre-trattamento e per rinforzare i cambiamenti che accadono nella seconda sessione e nelle successiva. Esempi sono: “Cosa dovrà continuare a fare per mantenere questo cambiamento?”; “Cosa dovrebbe fare per tornare indietro?”; ”Cosa ha imparato dalla sua ricaduta che si propone di usare la prossima volta che si scontrerà con una situazione stressante si-mile?”; “Se io la invitassi al mio prossimo parent-group come ospite relatore, che consiglio darebbe ai geni-tori?” Quando è necessario separare i genitori dall’adolescente si possono usare strategie diverse nei due sottogrup-pi. Nel corso dell’incontro con i genitori si esplorano le passate e le presenti tentate soluzioni, si negozia una meta di trattamento separata e si indirizzano alcune loro aspettative o preoccupazioni. Mentre si esplorano le soluzioni tentate si può chiedere: “C’è stata una cosa qualunque che lei ha sperimentato in passato con suo figlio e che ha funzionato con un altro problema, che possiamo usare ora?”; “C’è stato qualcosa che lei ha pensato di sperimentare con suo figlio ma che secondo lei non avrebbe funzionato?”; “C’è stato qualcosa che lei ha sperimentato in passato con i suoi altri figli, quando stavano avendo difficoltà simili, che sembrò fun-zionare?”. Queste domande stimolano la creatività dei genitori attraverso un processo di brainstorming. Nel corso dell’incontro con l’adolescente, si agisce per aumentare l’alleanza, stabilire mete di trattamento separa-te, negoziare la meta di trattamento proposta dai genitori, offrire spazio per il racconto delle esperienze vis-sute in famiglia. Tuttavia l’obiettivo principale è scoprire ciò che l’adolescente vorrebbe cambiare dei suoi genitori tramite il terapeuta. Questi gli chiederà se c’è qualche diritto che potrebbe difendere per lui davanti ai suoi genitori o se c’è qualche comportamento fastidioso dei genitori che lui vorrebbe cambiare. La do-manda conversazionale “Come posso esserti utile?”, può aprire la porta dell’adolescente affinché identifichi proprie mete ed aspettative. Dopo circa 40 minuti di intervista il terapeuta e la famiglia si spostano nella stanza al di là dello specchio, mentre il team si trasferisce nella stanza di consultazione per avviare le sue riflessioni su ciò che è emerso. La famiglia riceve così un importante feedback e, successivamente, discute assieme al terapeuta su ciò che è stato detto dal team. Nell’ultima fase il terapeuta si unisce al team per “confezionare” i complimenti da por-

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gere in ogni caso alla famiglia e gli esperimenti terapeutici da svolgere nella settimana successiva, eccezion fatta per gli utenti ancora precontemplatori. Gli esperimenti della prima sessione di terapia sono: • Compito a formula fissa: consiste nel chiedere al cliente di osservare fino alla prossima seduta tutto quello che accadrà di positivo che vorrebbe diventasse persistente. • Compito del “come se”: se la famiglia non reperisce eccezioni si raccomanda di far finta che il mira-colo sia accaduto. I genitori vengono invitati a scegliere due giorni alla settimana in cui comportarsi come se il miracolo immaginato dal loro figlio adolescente fosse accaduto e poi notare la sua reazione. • Fare qualcosa di diverso: il terapeuta spiega ai genitori che il loro figlio può ormai prevedere tutte le loro mosse, per cui hanno bisogno di essere meno prevedibili. Poi dirà loro: ”Da qui alla prossima volta che ci vedremo, vorrei che ognuno di voi facesse qualcosa di diverso, non importa se sarà strano, basta che sia diverso”. • Compito di predizione: si utilizza nel caso in cui le eccezioni riportate accadono spontaneamente e non sono intenzionali. Il cliente viene invitato a predire la sera prima se l’indomani si verificherà il proble-ma, oppure a che livello esso sarà nella scala. Questo compito può indurre una profezia positiva che si au-toavvera. • Quello che funziona usalo di più: si usa quando la famiglia riporta eccezioni intenzionali. Alla seconda sessione di terapia, la famiglia potrà riferire quattro situazioni differenti come esiti del primo incontro: la situazione è migliorata, esistono opinioni diverse riguardo i risultati, la situazione è rimasta inva-riata, la situazione è peggiorata. In questi casi il terapeuta utilizza le tipologie di domande più adatte e pre-scrive diversi esercizi terapeutici da svolgere nella settimana successiva. Selekman (2005) propone 17 diversi esperimenti e strategie di team utilizzabili nella seconda e nelle succes-sive sessioni di terapia. 1. Secret surprise: l’adolescente sceglie due comportamenti, da mettere in atto nella settimana succes-siva, che possano sorprendere positivamente i genitori. Questi ultimi, d’altro canto, sono invitati ad utilizzare le loro lenti di ingrandimento immaginarie e provare a identificare quali siano le sorprese messe in atto dal figlio. Questo esperimento è utilizzabile nelle famiglie che si presentano in sessione con opinioni diverse ri-guardo ai risultati ottenuti e con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza interpersonale. 2. Solution enhancement experiment: l’adolescente viene istruito dal terapeuta come segue: “Vorrei che nella prossima settimana tu facessi attenzione a tutte quelle cose diverse che farai per evitare la tentazione di [usando il linguaggio del paziente si fa riferimento al problema]”. E’ opportuno che alcuni adolescenti siano motivati ad appuntare quotidianamente tali comportamenti. Questo esperimento può essere usato nelle fami-glie che hanno opinioni diverse riguardo ai risultati ottenuti e con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza logico-matematica (questi possono anche fare dei grafici sull’andamento settimanale del problema). 3. Creating your own superhero cartoon character”: l’adolescente è invitato a disegnare il proprio problema come un supercattivo dei fumetti, a dargli un nome, a spiegare quali siano i suoi superpoteri e armi magiche. Dopodiché l’adolescente disegna se stesso come un supereroe dotato di armi magiche straordinarie per combattere il supercattivo. L’adolescente scrive poi i dialoghi tra il fumetto supercattivo e il fumetto su-pereroe. Questo esperimento può essere usato con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza visuo-spaziale e in famiglie che riferiscono una situazione immutata o peggiorata. 4. Strengths-in-action project”: l’adolescente individua le sue maggiori risorse o punti di forza e, nel corso della settimana successiva, li mette in pratica a scuola e nei suoi contesti primari di socializzazione. Questo esperimento può essere usato con adolescenti dotati nelle aree d’intelligenza interpersonale, linguisti-ca, fisico-cinestesica e logico-matematica e con famiglie che riferiscono una situazione immutata od opinioni diverse sui risultati ottenuti. 5. Habit control ritual: i membri della famiglia sono istruiti a continuare le cose diverse che possono fare per resistere al problema e impedire che aumenti ma non sono autorizzati a fare di più. Questo esperi-mento è usato con le famiglie che riportano una situazione invariata o un peggioramento e con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza visuo-spaziale e interpersonale. 6. Imaginary time machine: si invita l’adolescente e gli altri membri della famiglia ad intraprendere un viaggio su una macchina del tempo immaginaria che può condurre in qualunque luogo e tempo desiderato.

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Una volta arrivati a destinazione descrivono dettagliatamente tutto ciò che vedono, sentono, percepiscono e le persone che incontrano. Se qualcuno incontra un personaggio ammirato, deve invitarlo a salire sulla mac-china del tempo per discutere con gli altri membri riguardo possibili soluzioni del problema. Questo esperi-mento può essere usato con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza visuo-spaziale e con famiglie che riportano una situazione invariata, peggiorata od opinioni diverse riguardo i risultati ottenuti. 7. Invisibile family invention”: l’adolescente è invitato a pensare e descrivere un attrezzo o una mac-china dalla quale possano trarre beneficio i membri della famiglia. Questo esperimento può essere usato con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza visuo-spaziale e logico-matematica e con famiglie che riportano una situazione invariata, peggiorata od opinioni diverse riguardo i risultati ottenuti. 8. Famous guest consultant experiment: si invita ogni membro della famiglia a scrivere su un foglio due o tre nomi di personaggi famosi particolarmente ammirati. Ogni componente immagina poi quali possa-no essere le idee creative proposte da questi personaggi riguardo il problema. Questo esperimento può essere usato con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza visuo-spaziale e interpersonale e con famiglie che ri-portano una situazione immutata o peggiorata. 9. My family story mural: l’adolescente è invitato a disegnare su un cartellone la storia della propria famiglia e la situazione attuale. Dopodiché l’adolescente individua quali cambiamenti ritiene opportuno rea-lizzare. La famiglia è invitata a riflettere sul disegno del ragazzo. Questo esperimento può essere usato con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza visuo-spaziale e intrapersonale e con famiglie che riportano una situazione invariata, peggiorata oppure opinioni diverse riguardo i risultati ottenuti. 10. Imaginary feelings X-ray machine”: l’adolescente si sdraia in terra su un grande foglio bianco e poi sceglie un membro della famiglia che tracci il bordo del suo corpo. Dopodiché il terapeuta invita l’adolescente ad immaginare di possedere una macchina a raggi X capace di radiografare i sentimenti conte-nuti nel suo corpo. L’adolescente disegna quindi, dentro il bordo già tracciato, le sue emozioni e la zona dove sono situate. Quando la radiografia dei sentimenti è completata l’adolescente racconta la loro storia. Questo esperimento è utile con adolescenti sofferenti per disturbi psicosomatici e che incontrano notevole difficoltà nell’espressione dei sentimenti. E’ indicato per coloro i quali appaiono dotati nell’area dell’intelligenza vi-suo-spaziale e intrapersonale e riportano una situazione invariata o peggiorata. 11. My extraordinary newspaper headline: l’adolescente è invitato a chiudere gli occhi e a immaginare di leggere tre anni dopo la prima pagina di un importante giornale nel quale compare un titolo riguardante un’azione straordinaria da lui compiuta. L’adolescente scrive su un foglio il titolo e un breve articolo, descri-vendo nei particolari il suo gesto eroico, i passi compiuti per attuarlo, le capacità utilizzate. Questo esperi-mento è utile nei casi di adolescenti gravemente depressi o traumatizzati, dotati nell’area dell’intelligenza linguistica, visuo-spaziale e interpersonale e con famiglie che riportano una situazione invariata o peggiorata. 12. Adolescent’s mentoring their parents: l’adolescente è motivato ad utilizzare la sua abilità in una par-ticolare area, insegnando qualcosa ad uno o entrambi i suoi genitori. Questo esperimento può essere usato con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza interpersonale e con famiglie che riportano una situazione invariata, peggiorata oppure opinioni diverse riguardo i risultati ottenuti. 13. Interviewing the problem: in questo esperimento il terapeuta interpreta il ruolo di un repoter che in-tervista il problema, interpretato dall’adolescente. Quest’ultimo si sforza di guardare il mondo con gli occhi del problema, riportando la sua storia e le sue motivazioni. Questo esperimento può essere usato con adole-scenti dotati nell’area dell’intelligenza visuo-spaziale e fisico-cinestesica e con famiglie che riportano una situazione invariata o peggiorata. 14. Visualizing movies of success: l’adolescente è invitato a chiudere gli occhi e a cercare nel suo passa-to una situazione in cui ha svolto con particolare efficacia qualche compito o attività. Questa visualizzazione motivante può essere usata come strategia di coping di fronte alla tentazione del problema. Questo esperi-mento può essere usato con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza visuo-spaziale e fisico-cinestesica e con famiglie che riportano una situazione invariata, peggiorata oppure opinioni diverse riguardo i risultati ot-tenuti. 15. Therapeutic letter: in aggiunta alla lettera di gratitudine (Seligman, 2002, 2003) può essere usata la lettera terapeutica per agganciare un importante membro della famiglia o per effettuare cambiamenti nei si-stemi allargati in cui si manifesta il problema. Questo esperimento può essere utilizzato con le famiglie che riferiscono una situazione invariata o peggiorata.

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16. Therapeutic debite and splitting the team: nella stanza di terapia il terapeuta si posiziona dalla parte di tutta la famiglia, un membro del team si posiziona dalla parte dell’adolescente, un altro dalla parte dei ge-nitori e l’ultimo dalla parte del problema. I vari sottogruppi iniziano un dibattito in cui discutono i pro e i contro del cambiamento. Questo esperimento può essere usato con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza fisico-cinestesica e con famiglie che riportano una situazione invariata o peggiorata. 17. Peer reflecting team: il terapeuta chiede ai genitori di ragazzi che hanno già risolto problemi simili a quello del cliente adolescente, l’autorizzazione alla loro partecipazione alla terapia. Dopo aver assistito da dietro lo specchio unidirezionale alla prima parte dell’intervista con la famiglia dell’adolescente, il team di pari si sposta nella stanza di consultazione e comincia a discutere su ciò che ha visto e ascoltato, proponendo delle idee di soluzione mentre la famiglia osserva e ascolta le loro riflessioni dall’altra parte dello specchio. Questo esperimento può essere usato con adolescenti dotati nell’area dell’intelligenza interpersonale e con famiglie che riportano una situazione invariata o peggiorata. Selekman (2005) indica 10 strategie effettive di lavoro con adolescenti difficili utili per instaurare una rela-zione terapeutica cooperativa: • Humor e sorpresa: gli adolescenti preferiscono terapeuti che hanno un buon senso dello humor, che sono scherzosi e che creano un clima terapeutico vivace. Spesso appare umoristico rispecchiare l’atteggiamento non verbale dell’adolescente. Altre volte il terapeuta può svelare esperienze simpatiche della propria adolescenza per normalizzare gli attuali conflitti del cliente adolescente. • Utilizzazione: la strategia di relazione dell’utilizzazione fu sviluppata da Milton H. Erickson. Mentre stabiliva un rapporto con i suoi clienti Erickson ascoltava con attenzione per trovare specifici punti di forza e risorse, parole chiave del cliente, opinioni, temi e metafore che poteva utilizzare nelle conversazioni terapeu-tiche ed incanalare nelle aree del problema. Erickson credeva che i terapeuti dovessero permettere ai loro clienti di fare ciò che meglio sapevano fare, focalizzandosi sulle loro risorse e punti di forza. • Lavorando dall’altro lato della barricata: è importante fornire all’adolescente una o più sessioni di terapia individuale. La sessione individuale può essere usata per avvicinarsi ulteriormente all’adolescente, negoziare sugli obiettivi dei genitori, stabilire un obiettivo separato, scoprire cosa lui o lei vorrebbero cam-biare nell’atteggiamento dei genitori e mettere in luce i privilegi che lui o lei vorrebbero dai genitori. Il tera-peuta può fare domande come: “Come posso esserti utile?”; “Cosa vorresti che cambiassi dei tuoi genitori?”; “C’è qualcosa per cui vorresti che io andassi a battermi con i tuoi genitori?”. Questi tipi di domande aperte possono fornire al terapeuta preziose informazioni che possono essere utilizzate per negoziare un contratto quid pro quo con i genitori dell’adolescente. Lavorando dall’altro lato della barricata il terapeuta può raffor-zare la sua alleanza terapeutica con l’adolescente e può essere un efficace negoziatore intergenerazionale per la famiglia. Quando si utilizza questa strategia è importante che il terapeuta si avvicini altrettanto ai genitori e dimostri il suo impegno nell’aiutarli a raggiungere i loro obiettivi con gli adolescenti. • Portare un amico: alcuni adolescenti, sono più disposti ad aprirsi se uno dei loro migliori amici può accompagnarli alla seduta. Oggi, poiché il gruppo e gli amici intimi sono diventati in alcuni casi molto più importanti della loro stessa famiglia, per gli obiettivi del risultato e della relazione terapeutica può essere ab-bastanza vantaggioso cercare di assicurarsi un consenso scritto per coinvolgere gli amici più stretti dell’adolescente nelle sue sedute di terapia individuale o familiare. Oltre ad essere interessati e affezionati al cliente, questi amici possono offrire alcune idee nuove e alcune strategie creative di risoluzione del proble-ma. • Usare l’adolescente come un consulente esperto: gli adolescenti difficili che hanno avuto esperienze multiple di terapia sanno bene cosa i terapeuti dovrebbero e non dovrebbero fare con loro e con i loro genito-ri. Il terapeuta può chiedere all’adolescente individualmente o alla famiglia: “Hai visto molti terapeuti prima di me, cosa credi che abbiano frainteso, sottovalutato o sopravvalutato di te?”; “Cosa dovrebbe fare con te un nuovo terapeuta per fare la differenza?”; “Se io lavorassi con un adolescente proprio come te che consiglio mi daresti per aiutarlo?”. Queste domande aperte invitano l’adolescente a raccontare la storia delle esperien-ze di terapia passate e trasmettono l’idea che la terapia è collaborativa. • Validazione ed empatia: essere un buon ascoltatore, in sostanza validare i pensieri e i sentimenti ed essere vicino all’adolescente in maniera incondizionata, può aiutare il processo di guarigione. • Autosvelamento (self-disclosure): è stato dimostrato che l’uso dell’autosvelamento è uno strumento terapeutico utile con gli adolescenti difficili. E’ importantissimo che il materiale svelato da parte del terapeu-

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ta si adatti al problema attuale del cliente adolescente. E’ stato riportato che gli adolescenti preferiscono dei consulenti che hanno avuto esperienza da giovani con conflitti simili ai loro. Non tutti i terapeuti hanno vis-suto periodi adolescenziali turbolenti nelle loro vite né hanno familiarità con i problemi di strada. Questi te-rapeuti possono usare se stessi in altri modi, facendo ricorso allo humor, raccontando storie, condividendo le loro reazioni strane o le loro idee assurde nel processo di interscambio con l’adolescente. • L’approccio di Colombo: il detective della Tv Colombo può insegnare alcune abilità di relazione con alcuni dei clienti adolescenti più rudi. Colombo non ha difficoltà a far si che il suo stile incompetente e un po’ goffo venga mostrato ai potenziali sospetti. Gli piace fare riferimenti liberi a sua moglie mentre gli altri gli fanno capire che persona difficile da sopportare egli possa essere. Dunque, mentre si avvicina ad un po-tenziale sospetto, Colombo usa dei complimenti per ammorbidirlo ed empatizza con lui. Nel corso dell’intero processo di investigazione Colombo fa delle domande dalla posizione di uno che non sa e si presenta come una persona confusa su chi abbia commissionato l’omicidio e su come esso sia avvenuto. Questo atteggia-mento mantiene i potenziali sospetti in bilico e qualche volta li porta ad aiutare Colombo a risolvere il crimi-ne fornendogli elementi importanti o incriminandosi da soli in qualche modo. • Il tango a due passi: molti degli adolescenti con problemi non sono neanche lontanamente interessati a dei consigli perché loro non credono di avere un problema. In ogni caso gli adulti che si relazionano con loro hanno problemi con il loro comportamento. Quindi, piuttosto che cercare di spingere l’adolescente a cambiare, è importante fare un tango a due passi: da un lato bisogna non infastidire l’adolescente con la spin-ta al cambiamento; dall’altro lato bisogna cominciare a far germogliare delle idee utili nella sua testa sui be-nefici del cambiamento. • Onorare e rispettare il silenzio: i clienti silenziosi non sono recipienti passivi degli sforzi di aiutarli né tantomeno sono resistenti. Al contrario stanno valutando e decidendo con attenzione se possono o non possono fidarsi del terapeuta. L’atteggiamento silenzioso dell’adolescente ha bisogno dunque di essere com-preso e rispettato. Conclusioni L’approccio strategico appare particolarmente indicato nel trattamento di adolescenti “difficili” e delle loro famiglie: “di fronte a pazienti non collaborativi o dichiaratamente oppositivi, i quali squalificano il terapeuta e non osservano deliberatamente le sue indicazioni, la modalità retorico-persuasoria dimostratasi efficace è quella che si basa sull’utilizzo della resistenza e sul ricorso a manovre e prescrizioni paradossali” (Nardone, 1997: 82). L’approccio strategico consente, quindi, di utilizzare la forza della resistenza tipica di questi clienti contro il comportamento problematico. Inoltre, per la rilevanza assegnata all’azione, alla “esperienza emotiva corret-tiva” come strada maestra per il cambiamento, l’approccio strategico appare perfettamente compatibile con la tendenza all’azione tipica di ogni adolescente. L’approccio strategico consente, anzi prescrive, l’estrema flessibilità del terapeuta; sottolinea l’esigenza che egli sia in grado di compiere una complessa attività di sar-toring nell’intervento, cucendo le tecniche terapeutiche come un abito addosso al paziente; evita irrigidimen-ti di setting, rendendo possibili interventi di cambiamento anche senza che il soggetto si accorga di stare cambiando (così come recita il detto cinese “solcare il mare all’insaputa del cielo”); evita l’etichettamento diagnostico, privilegiando le risorse dell’individuo in un’ottica di amplificazione di ciò che egli già fa di po-sitivo per se stesso. Questi presupposti metodologici appaiono tutti imprescindibili nella relazione terapeutica con l’adolescente. Infine l’ottica sistemica fondante l’approccio strategico consente di intervenire all’interno dei sistemi vitali dell’individuo, la scuola, il gruppo dei pari e soprattutto la famiglia. Quest’ultima appare il contesto privile-giato non solo della formazione e del mantenimento delle problematiche adolescenziali, ma anche del cam-biamento.

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Bibliografia de Shazer, S., 1986, Chiavi per la soluzione in terapia breve, Astrolabio, Roma. Gardner, H., 1983, Multiple intelligences: the theory in practice, Basic Books, New York. Haley, J.,1978, Terapie non comuni, Astrolabio, Roma. Nardone, G., Giannotti, E., Rocchi, R., 2001, Modelli di famiglia. Conoscere e risolvere i problemi tra genitori e figli, Ponte alle Grazie, Milano. Prochaska, J. O., DiClemente, C. C., 1982, “Transtheoretical therapy : toward a more integrative model of change”, Psychoterapy: Theory, Research and Practice, 19. Selekman, M. D., 2005, Pathways to Change: Brief Therapy Solutions with Difficult Adolescents, Guilford Press, New York. Seligman, M. E. P., 2002, Authentic happiness, Free Press, New York. Seligman, M. E. P., 1998, Learned optimism: How to change your mind and your life, Pocket Books, New York. Watzlawick, P., Weakland, J., Fisch, R., 1974, Change: sulla formazione e la soluzione dei problemi, Astro-labio, Roma. White, M., 1992, La terapia come narrazione, Astrolabio, Roma. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!1!Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma 2!Università di Cassino e del Lazio Meridionale

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I Gruppi Balint come metodo formativo in ambito ospedaliero. Balint Groups as training method in hospital setting. Ilaria Caruso1 Riassunto Nell’assistenza sanitaria, gli operatori con competenze, conoscenze e potenzialità specifiche, si trovano im-pegnati in un continuo lavoro di coordinamento finalizzato alla cura del paziente. Lo svolgimento di queste mansioni richiedono un quantitativo di energie e notevoli carichi di stress, che non trovano possibilità di sfogo. La maggior parte delle strutture socio-sanitarie risultano essere carenti di luo-ghi e momenti appositamente ritagliati per un confronto tra colleghi, che potrebbe rivelarsi utile per affron-tare le problematiche legate all’assistenza e alla relazione d’aiuto. A questo scopo, da diversi anni vengono organizzati cicli formativi dedicati alle professioni sanitarie, che si propongono di dotare gli operatori di strumenti che possano migliorare il loro lavoro e il loro benessere psico-fisico. In questo senso, si rivela molto utile il dispositivo gruppo all’interno dell’istituzione, in quanto scenario di vissuti, elaborati o meno in sogni e miti, di cui gli operatori sanitari e i pazienti si fanno spesso portatori. La formazione alla relazione d’aiuto ed i suoi benefici, vengono qui presentati attraverso una me-todologia particolare, i Gruppi Balint, descrivendo un’esperienza formativa condotta nell’ambito di un re-parto ospedaliero. Parole chiave Assistenza sanitaria, relazione d'aiuto, benessere psico fisico, Gruppi Balint. Abstract In health care, workers, with skills, knowledge and specific potential are constantly involved in the coordina-tion of their work activities aimed at the treatment of the patient. The completion of these tasks require a considerable amount of energy and stress, which are not possible to vent. Most of the socio-sanitary structures appear to be lacking in places and time specially tailored for a comparison between colleagues, which could prove useful in addressing issues related to assistance and help relationship. For this purpose, since many years training programs have been organized specifically for health care pro-fessions. These programs which are intended to provide operators with tools by which they can improve their work and their physical and mental wellbeing. Therefore, a group within the institution is a very useful de-vice, as it represents the ultimate setting of past experiences, processed or not in dreams and myths, that both health professionals and patients can have. The training programs for the help relationship and their benefits are presented here through a particular methodology, that is the Balint Groups. I will describe an educational experience conducted in the context of a hospital ward. Keywords Health care, help relationship, physical and mental wellbeing, Balint Groups. L’importanza della formazione degli operatori socio-sanitari

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Negli ultimi anni il rapporto dell’individuo con la malattia si è profondamente modificato, a causa della dif-fusione di maggiori conoscenze che possano guidare nella prevenzione della propria salute. Ciò ha comporta-to anche un diverso rapporto con le figure di riferimento, che tradizionalmente detengono questo sapere. Ac-cade che la malattia viene vissuta con maggiore consapevolezza dal paziente che, nei casi più gravi, si affida ad una sorta di potere salvifico, caratterizzante la figura del medico. Ma spesso si viene ad instaurare un rapporto più personale, in cui condividere sofferenze, preoccupazioni, gioie e paure, con le figure curanti. Emergono, così, per l’operatore sanitario nuovi bisogni, i quali, se inespressi, possono diventare nel tempo elementi frustranti, a discapito della professione medica e ospedaliera. Questo è vero soprattutto per alcuni settori, legati alla cura di malattie particolarmente gravi e invalidanti, che “attraggono per il loro bisogno e le loro speranze molte nuove forze, ma al contempo le misurano con tensioni estreme” (Marinelli, 2008). Nell’ottica comune, l’ospedale è diventato la struttura dove si possono rinchiudere il degrado fisico, le malat-tie, il dolore e la morte, garantendo alla società l’illusione di non dover mai soffrire, di oltrepassare, o alme-no ignorare, i propri limiti. A questo punto, ci si chiede come si sentono gli operatori sanitari, quali medici ed infermieri, ad assecondare, con le loro competenze professionali, la necessità di “collocare la sofferenza” in luoghi appositi (Troglia, Gualco, 1999). All’interno di un costante conflitto tra senso di onnipotenza e fallimento, nelle professioni d’aiuto spesso agiscono meccanismi di identificazione-distanziamento, che diventano difficili da gestire ed equilibrare con il paziente, soprattutto se cronico. Si alternano così sentimenti di sconfitta e perdita: quando gli investimenti, professionali ed emotivi, sul paziente falliscono, l’operatore può essere assalito da stati depressivi e attacchi di rabbia, spesso rivolti contro il paziente, bersaglio di fantasie di tradimento, di onnipotenza ferita, di mi-naccia alla propria capacità professionale. Tutti questi meccanismi agiscono in modo inconsapevole e quindi non possono essere facilmente mentalizzati ed elaborati. Essi contribuiscono a creare una condizione di esau-rimento psicofisico, che rende le professioni sanitarie le categorie più a rischio di burn-out. Non basta la consapevolezza della necessità di un cambiamento, ma per attuarlo è necessario uno sforzo formativo considerevole, per adeguare il sistema sanitario alle nuove esigenze degli utenti e degli operatori (Caruso, Bongiorno, 2005). In generale, un’organizzazione del lavoro attenta alla salute e sicurezza dei lavo-ratori può contribuire in modo significativo alla riduzione del malessere fisico e mentale, attraverso interven-ti di tipo ergonomico (dotazione di ausili e attrezzature, adeguamento di ambienti) e amministrativo (aggior-namento, formazione, aggiornamento) (Trinkoff et al., 2004). Ma altrettanto importante è una maggiore at-tenzione verso gli aspetti umani (turnazione adeguata, considerazione delle necessità familiari dei soggetti, clima supportivo, equità nei compensi, giuste opportunità di carriera), soprattutto in questo ambito lavorati-vo, dove le risorse e le energie richieste all’individuo risultano molto ingenti (Capodaglio, Di Liddo, 2007). Ciò diventa ancora più importante quando si ha a che fare con malati terminali e patologie gravi, quale il cancro. Occorre evidenziare la necessità e la possibilità di integrare gli aspetti tecnici della cura e il bisogno psichico di dare senso all'esperienza. Sono molte le reazioni controtransferali negli operatori, spesso primiti-ve e difficili da percepire ed elaborare senza una adeguata formazione. Essa appare indispensabile per con-sentire la mentalizzazione di una esperienza come il cancro che, con la sua schiacciante concretezza e il vis-suto d'allarme che evoca, favorisce scissioni e negazioni massicce, non economiche dal punto di vista biolo-gico e psicologico (De Luca, 2001). Gli operatori sanitari sono ben consapevoli dell’importanza del contatto umano con il malato, ma, pressati dai compiti di cura, sentono di non sapere che fare, di non avere strumenti adeguati per gestire il contatto con il paziente, con la sua famiglia e con gli stessi colleghi. La formazione alla relazione in ambito ospedaliero è, innanzitutto, una formazione psicologica individuale. L’aspetto principale riguarda un addestramento a pre-stare attenzione al proprio mondo interno: alle proprie emozioni o, meglio, alla risonanza emotiva suscitata dalla relazione con l’altro. È molto importante riconoscere queste emozioni per comprenderne il significato e trarne delle informazioni su ciò che succede all’altro e a se stessi. Spesso, ai corsi di formazione gli operatori si aspettano di trovare “risposte giuste”, indicazioni chiare su cosa dire al paziente e ai familiari, convinti che esistano degli “esperti” capaci di fornirgliele. Il comprensibile bisogno dell’operatore di possedere “regole certe” che gli indichino con precisione cosa fare rischia, però, di trasformarsi in una difesa che impedisce la relazione.

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Una delle difficoltà maggiori che l’operatore sanitario può incontrare in questo tipo di formazione è proprio quella di dover rinunciare alle “certezze terapeutiche”: se per curare un organo malato si possono seguire delle indicazioni abbastanza precise, non esistono invece modalità standardizzate per stabilire una relazione d’aiuto con un’altra persona. Non c’è un paziente uguale ad un altro, così come non c’è un operatore uguale ad un altro (Caruso, Bongiorno, 2005). Nell’ambito ospedaliero vi è poi l’idea che fermarsi fa perdere tempo, fermarsi per pensare toglie tempo al fare. In un gruppo di supervisione per infermieri di un D.H.O., un tema che si è imposto con forza è che il tempo dedicato alla formazione è vissuto, soprattutto all’inizio, come un tempo sottratto al lavoro, tempo che non è mai abbastanza (Salis, 2004). E’ importante prendere in considerazione anche lo sviluppo di una competenza al lavoro di équipe integrata, perché offre la possibilità all’operatore di usare l’équipe come strumento terapeutico per gestire il rischio di burn-out ed è garanzia di una buona qualità del servizio. Così le riunioni d’équipe rappresentano uno stru-mento prezioso per gli operatori, ma spesso teatri di polemica e frustrazione. È importante, invece, che esse rappresentino un’occasione per creare un clima di ascolto e collaborazione, un luogo per la condivisione di esperienze, problemi e angosce, oltre ad essere un momento di arricchimento e formazione sul campo (Caru-so, Bongiorno, 2005). Coinvolto in interazioni e relazioni molto diverse tra loro (con i colleghi, i medici, i pazienti ed i familiari), l’operatore sanitario va formato soprattutto sulla comunicazione. In particolare, Alexander et al. (2006) hanno dimostrato come l’efficacia della comunicazione con i pazienti si traduca in un miglioramento clinico di tali malati e favorisca un miglior lavoro di équipe integrata. I Gruppi Balint Uno strumento molto utile ai fini di tale formazione è il dispositivo gruppo. Il gruppo rappresenta in piccolo la società in cui si vive e si opera, poiché in esso si costituiscono tutte le dinamiche che si possono instaurare nella vita di tutti i giorni. Ecco perché viene considerato il campo ideale per la formazione al rapporto inter-personale, permettendo di convogliare in un luogo e in uno spazio definiti, il gruppo appunto, tutte le forze, le dinamiche, i vissuti, le risposte affettive/emotive derivate dal rapporto con il paziente, e di prendere co-scienza del come e perché di certi comportamenti, rappresentazioni, vissuti relativi alla propria professione, ponendo a confronto la propria e l’altrui esperienza (Agresta, 2004). Il Gruppo Balint (GB) è il metodo più diffuso per la formazione e l’addestramento al rapporto interpersona-le per tutti gli operatori “psi” e non (medici, infermieri, assistenti sociali e insegnanti). Esso permette lo stu-dio del controtransfert manifesto (Balint 1957; Balint e Balint 1961) dell’operatore, del modo cioè, in cui egli utilizza la sua personalità, la sua cultura, le sue convinzioni scientifiche, i suoi moduli di reazioni auto-matica. Non è un gruppo di terapia, tantomeno un gruppo di supervisione. È un gruppo che promuove e/o predispone, piuttosto, l’operatore a non agire senza ascoltare e senza riflettere sulla relazione e sulle emozio-ni che prova nel momento in cui il paziente chiede aiuto. È il luogo in cui l’operatore viene aiutato a focaliz-zare con la tecnica del “flash” la richiesta d’aiuto del paziente e la problematica profonda che sottende tale domanda (Agresta, 2004). In questo modo, l’operatore così formato acquisisce un’arma terapeutica in più (Trenkel 1974, 1995). Cer-cherà, infatti, di conoscere se stesso per meglio conoscere l’altro ed eviterà di creare quella confusione delle lingue che, nella relazione/comunicazione, non facilitano la comprensione della domanda e l’accoglienza/alleanza terapeutica con il paziente e la sua malattia. I Gruppi Balint (GB) prendono il nome dallo psicoanalista ungherese M. Balint (1896 – 1970) e, nella loro forma classica, sono composti da medici (generici e specialisti vari) che, con la conduzione di uno psichiatra di formazione psicoanalitica, discutono di quei casi della loro pratica professionale che sono stati causa di difficoltà sul piano della relazione col paziente. Il GB è così caratterizzato: - Numero di partecipanti. La presenza ottimale di 10-15 partecipanti permette agli stessi di sedere in circo-lo e parlare avendo ciascuno la possibilità di osservare tutti gli altri. Tale caratteristica permette di definire il GB come "piccolo gruppo" o "gruppo vis-à-vis".

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- Finalità perseguita. Il GB persegue l'obiettivo della formazione psicologica e dell'addestramento al rap-porto professionale col paziente sul piano della relazione, distinguendosi da quei gruppi che, avendo finalità terapeutiche, si qualificano appunto come "gruppi di terapia". - Conduzione. Il GB lavora guidato da un conduttore, il quale, attento alle interazioni tra i partecipanti e tra lui ed il gruppo stesso, svolge la funzione di centrare il lavoro sulla relazione. - Frequenza. Poiché il lavoro del gruppo è articolato attraverso una serie di incontri scaglionati nel tempo con periodicità prefissata, il GB fa parte dei gruppi di tipo "continuo", evidenziando con ciò la struttura pro-cessuale e non occasionale del lavoro. La frequenza degli incontri è preferibilmente settimanale o quindicina-le e la durata nel tempo dell'esperienza è di almeno un paio di anni. - Centratura del lavoro. Il gruppo lavora su un'esperienza professionale raccontata da uno dei partecipanti ("il caso"). Terminata la presentazione, gli altri membri del gruppo che lo desiderano possono intervenire ponendo domande, formulando ipotesi, esprimendo pareri e considerazioni. La discussione del caso dura 90'. - Orientamento. Il GB è di derivazione psicoanalitica, centrando la propria attività sugli elementi affettivi della relazione (Minervino e Parietti, 2008, 2011). Nel suo compito formativo, Balint indirizza i medici a scoprire nella pratica quotidiana, come essi stessi sia-no vissuti dal paziente, soprattutto come oggetto di soddisfazione dei propri bisogni di cura. Inoltre, li invita ad analizzare quanto lo stato di malattia possa riacutizzare antichi sentimenti, richieste infantili e dipendenza da figure parentali arcaiche e pertanto onnipotenti, alle quali il paziente vorrebbe affidare, per l’interposta persona del medico, la propria salute, se non la stessa vita. Balint si focalizza molto sulle comunicazioni del paziente, specie quelle non verbali, peraltro assai simili a quelle che un tempo connotavano le relazioni pri-marie e che si esprimono nel linguaggio del corpo, un “metalinguaggio” che trasmette importanti significati. Pertanto si osserva, come espressione del linguaggio inconscio, la mimica facciale, la postura, la modulazio-ne della voce, il “come” il paziente racconta di sé, della sua malattia. Ha ideato così un metodo di formazio-ne in gruppo che potesse aiutare il medico a prendere coscienza dei propri processi inconsci, attraverso la li-bera espressione delle difficoltà professionali incontrate nel rapporto con il malato ed incidere favorevolmen-te sul decorso della malattia. Invita i conduttori di gruppo a creare un atmosfera intrisa di spontaneità di fron-te ad un leader non onnipotente: “..un’atmosfera in cui ognuno possa parlare senza fretta, mentre gli altri ascoltano con spirito libero e fluttuante, un’atmosfera che permetta certi silenzi e dia ad ognuno il tempo di scoprire ciò che egli intende o vuole veramente dire… una volta che il medico è abbastanza libero di osser-vare, di sperimentare ed infine di ascoltare le discussioni di gruppo, invece di cercare di capire la psicodi-namica dei suoi pazienti, egli può incominciare a seguire nella sua pratica i fenomeni di transfert e contro-transfert tra il paziente e se stesso” (Balint, 1976). I primi gruppi di discussione sono stati realizzati con me-dici e, successivamente, applicando la stessa metodologia, sono stati estesi ad operatori sociali, quali infer-mieri, assistenti sociali, insegnanti, genitori, anch’essi coinvolti nei loro specifici compiti quotidiani, nelle relazioni affettive e negli scambi personali che connotano sempre ogni rapporto umano (Lamertico, 2001). Nello svolgimento del gruppo, di norma, viene presentato un paziente che ha messo in difficoltà il curante. I primi interventi dei partecipanti, dopo e durante l’esposizione del caso clinico, sono di chiarificazione o ten-denti a ottenere ulteriori informazioni; oppure esprimono disagio, ambivalenza delle risposte emotive e rifiu-to per il paziente che mette a dura prova il medico e con il quale il gruppo si identifica; o ancora imbarazzo che si può esprimere anche con qualche commento ironico. Si tratta ,comunque, di interventi poco coerenti e slegati tra loro, indice del fatto che il gruppo prova le stesse difficoltà del curante. Situazione che va poi a ri-solversi quando viene favorita, da parte del conduttore e del gruppo stesso, la spontaneità espositiva e tolle-rata la confusione degli interventi. Allora, il gruppo comincia a fare un lavoro di elaborazione dei dati e cerca di effettuare una lettura del materiale, magari a più voci, e il profilo del paziente comincia a prendere forma. In questo modo, procedendo con gli incontri, attraverso ripetute esperienze di casi riferiti, il medico sviluppa una maggiore capacità di osservazione che va oltre l’orizzonte del dato somatico, per aprirsi nel più ampio campo dell’osservazione della personalità del paziente e delle sue relazioni interpersonali e sociali, senza confondere il proprio ruolo con quello dello psicoterapeuta. Nel momento in cui riferisce al gruppo le proprie difficoltà sente che i problemi, certe ingenuità o certi errori, sono condivisi da altri, i quali forniscono un ap-poggio che lo rende più sicuro nei propri interventi. Nel tempo il medico individua meglio la propria capacità di operare, il proprio stile, con il quale esercita la professione e diviene consapevole dei cambiamenti che so-no avvenuti in lui/lei (Suman, 2013).

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La finalità del gruppo è di usare il materiale presentato in discussione per un addestramento pratico alla rela-zione, cioè all’uso della propria personalità come valido e insostituibile strumento di lavoro, offrendo la pos-sibilità di osservare ed osservarsi attraverso una serie di processi di identificazione e di distanziamento. Chi espone il caso può vedere la situazione vissuta con minor coinvolgimento emotivo, mentre gli altri parteci-panti, identificandosi ora con l’assistito, ora con l’operatore, intervengono nella discussione e divengono essi stessi più consapevoli del proprio modo di sentire e di pensare quando esercitano la loro attività professiona-le. Il gruppo, in tal modo, si colloca come osservatore esterno, cioè un osservatore dell’osservatore (meta-osservazione), in cui si procede a trasformare le richieste improntate sul “che fare?” in altre come “anzitutto, prima capire!”, e il lavoro centrato “sull’altro” in un lavoro “con l’altro” (Ferrari,2001). Nelle attività formative del personale sanitario si è sottolineata con sempre più forza l'importanza di racco-gliere ed utilizzare nei processi educativi le storie di malattia, non intese nel senso di "casi clinici", ma nel senso di "esperienze" di malattia, descritte non solo in termini biologici, ma anche psicosociali e valoriali. L'uso di vere e proprie storie di malattia non è funzionale solo allo sviluppo di capacità di ragionamento pra-tico, che permette di effettuare le scelte migliori per il singolo paziente, e quindi di sviluppare una pratica clinica più efficace, ma è anche funzionale all'elaborazione da parte dei professionisti di risposte adeguate alla malattia e alla sofferenza. Il contatto con la sofferenza e con la morte così continuativo alla lunga diven-ta insostenibile e può comportare un certo distacco cinico da una realtà che irrimediabilmente viene vissuta come emotivamente insopportabile (Di Barbierato, Baretto, Pepoli, 2014). In Italia i GB nascono a Milano, grazie alle attività promozionali di psicologia in ambito clinico medico con-dotti dal Prof. A. Selvini, cardiologo, direttore della divisione di medicina dell’Ospedale Maggiore. Era il 31 gennaio 1966 quando Selvini ed altri nove colleghi medici partecipanti svolsero la prima seduta di Gruppo Balint, esperienza che durò 5 anni, ricevendo anche una visita dello stesso Michael Balint, che tenne una conferenza presso la stessa sede su “Experience with the Training…”. Nel 1970 fu creata l’Associazione Medica Italiana Gruppi Balint, con lo scopo di formare i medici che ave-vano almeno due anni di esperienza. Nello stesso anno, il Dr. Cazzullo, uno psichiatra che fin dall’inizio ha promosso dal versante psichiatrico la prospettiva psicosomatica, condividendone i principi, organizza a livel-lo universitario i primi Gruppi Balint per studenti in medicina del 5° e 6° anno, definiti “Balint junior”. Dal ’73 e nel decennio successivo, mentre la diffusione di Gruppi Balint classici per medici, pur proseguendo in varie realtà locali, risultava comunque limitata, iniziò ad interessare anche altre figure, quali psicologi, psi-chiatri e altri operatori sanitari. Inoltre, il gruppo definito “alla Balint” trovava una nuova espressione anche nell’alternanza di piccolo e grande gruppo e nelle modalità temporali, assumendo caratteristiche seminariali residenziali di tre giorni, a periodicità semestrale. Nasceva così un modulo nuovo di formazione “intensiva e discontinua” che trovò nello psicoanalista e psichiatra francese Michel Sapir il massimo riferimento in Italia. Sapir, legato da un’attività di collaborazione ai coniugi Balint, lavorava in co-conduzione con Simone Co-hen, anch’essa psicoanalista, sua partner nella vita e nel lavoro, anche nelle esperienze di Relaxation di stampo psicoanalitico, metodo da lui fondato e abbinato al lavoro di Gruppo Balint nei seminari. Il lavoro, in questo caso, univa l’esperienza del rilassamento, con la sua particolare metodologia di contatto corporeo e di libertà fantasmatica ad essa collegata, rendendo i Gruppi Balint così condotti ricchi di una particolare colo-ritura affettiva. Infatti, ciò che si verificava era un accesso più libero e fluido ai vissuti emotivi e un maggiore spazio alle fantasie nella discussione del caso. L’abbinamento dei due metodi formativi permetteva un arric-chimento di entrambi e allo stesso tempo ,come a Sapir piaceva ricordare, quella regressione limitata e di breve durata nel gruppo Balint che promuoveva il “diritto alla stupidità”, ovvero anche ai fantasmi e alle fan-tasie da parte dei partecipanti. Tuttavia, a partire dagli anni ‘80 per circa un ventennio, si è osservato un calo di questo interesse e fervore formativo. Solamente all’inizio degli anni 2000 si è assistito ad una sorta di risveglio, di rinascita di interesse per la formazione psicologica dei medici e degli altri operatori, pur persistendo un sostanziale disinteresse per questo tema da parte delle istituzioni accademiche (Martellucci, Rosselli, 2013) . La formazione nei Gruppi Balint non significa imparare una teoria, bensì di "liberarsene", come diceva Enid Balint, "per fare esperienza", in una situazione creata ad hoc e quindi da tutti accettata e lavorata, della poli-fonia emozionale che lo stesso fatto evoca in ciascuno dei partecipanti (in quanto ciascuno è portatore della sua storia e delle sue identificazioni che si riattivano). Le storie dell’uno si intrecciano con quelle dell’altro non sommandole (1 più 1) ma appunto permeando ciascuno in modo differente; ogni storia-situazione narra-ta diventa del gruppo e ognuno se ne fa carico, secondo le proprie modalità (gruppalità interne ed esperien-

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ze), aggiungendo il proprio sguardo, il proprio punto di vista, a quello degli altri (Stoccoro, 2005). "La pre-senza, la regolarità e la ciclicità degli incontri si inscrivono nella mente dei partecipanti come un rassicu-rante contenitore ed elaboratore di ansie che permette di evitare la fuga nella routine, che protegge dall’ansia in modo disfunzionale eliminando la possibilità di ricevere la soddisfazione insita solo nel risol-vere i problemi senza negarli od esserne travolti" (Balint E., 1961). Un’esperienza Presso l’ospedale di Roma “San Filippo Neri” è stato organizzato un gruppo di formazione per medici e in-fermieri del reparto di oncologia. Il gruppo, ispirandosi ai principi dei Gruppi Balint, è stato condotto unita-mente dalla psichiatra del Servizio, responsabile per le consulenze presso i reparti, Dr.ssa Bruni e dal super-visore esterno, psicoanalista di gruppo, Prof.ssa Marinelli. Hanno collaborato il Dott. Ducci, primario del Servizio di Psichiatria e il Prof. Grassi, dirigente del Dipartimento di Chirurgia Oncologica e d'Urgenza A.C.O. del San Filippo Neri, con l'apporto del Prof. Neri, titolare della cattedra di Teoria e Tecnica della Di-namica di Gruppo, (Facoltà di Psicologia, Università La Sapienza) e delle attività di ricerca della Associa-zione A.R.G.O. Onlus (Associazione per la ricerca sul gruppo omogeneo). È stata prevista anche la presenza di due psicologhe, tirocinanti presso il Servizio, Maura Ianni e Sara Cazzaniga, nel ruolo di osservatrici si-lenziose. La formazione è stata svolta per tre mesi, con cadenza settimanale ed ha coinvolto un gruppo misto, di 7 in-fermieri e 5 medici. “L'esperienza si è basata soprattutto sull'ipotesi che un ascolto e una conduzione dinamica in gruppo delle esperienze riportate dagli operatori medici di diversi reparti, potesse facilitare anche molto velocemente l'emergere di una cultura di gruppo e di una appartenenza comune. Si trattava di creare uno spazio per con-dividere aspetti sentiti come simili, basati sull'esperienza comune della cura, della malattia e della morte, e per lo più rimasti inascoltati o introversi, nella pratica quotidiana; e di riuscire a dare loro un contesto ap-propriato per esprimerli e dotarli di significato” (Marinelli, 2008). Sono state svolte nove sedute, divise in un gruppo di cinque incontri prima della pausa di Pasqua e un altro, successivo, di quattro. Durante i primi incontri, il principale tema discusso è stato la comunicazione della diagnosi al malato e ai familiari, aspetto analizzato da vari punti di vista, inizialmente in modo confuso, poi sempre più chiaro e ordinato. Focalizzandosi sugli aspetti, i limiti e le funzioni della professione medica, il gruppo ha cercato di capire il motivo per il quale si trovava riunito. Grazie alla presenza e alla funzione delle due conduttrici, in cui il gruppo si è rispecchiato, esso ha elaborato la negazione e la paura. Sono stati affron-tati diversi temi: l'esperienza ospedaliera, la relazione con i pazienti, le differenze fra le varie mansioni tera-peutiche, il rapporto istituzionale e il contesto socio-sanitario più generale. Una peculiarità del gruppo è stata la sua capacità di manifestare il limite della propria tolleranza nei confronti dell’esperienza a cui stava partecipando, segnalando una serie di necessità, talvolta agite (assenze per servi-zio; ritardi; chiamate per urgenza; ecc.). Dopo la pausa Pasquale, nel gruppo si è avvertito un cambiamento sensibile: rispetto ai primi incontri, è sembrato che il timore fosse diminuito e avesse lasciato il posto ad una maggiore presa di responsabilità. Il gruppo ha acquisito una maggiore consapevolezza del ruolo svolto nella lotta contro la malattia, delle con-suetudini e competenze richieste da questo compito, caratterizzate da una certa “sensorialità”, derivata dal rapporto con il dolore. Questa conquista è stata favorita anche dalla necessità, ora avvertita con maggior for-za, di prepararsi alla conclusione del percorso formativo, sentito come molto prezioso. Si è diffusa l’esigenza di confidare i timori più intimi e la speranza che i bisogni emersi nel gruppo potessero continuare ad essere accolti. In tal modo, il gruppo “ha voluto manifestare la paura iniziale di essere andati ad un corso «psicologico» proprio come fanno i pazzi, e al timore di aver sviluppato una condizione di dipendenza im-prevista. Ma alla fine, è riuscito, nell'atto di liberarsi e di accingersi a ricordare, a svincolarsi da questo ti-more e a pensare di avere acquisito e maturato una esperienza trasformativa e feconda” (ibidem). Le sedute si sono caratterizzate non soltanto per contenuti propriamente medici e ospedalieri, ma anche di argomenti più generali e derivati da altri settori (sociali, politici ed economici, antropologici, religiosi, bioe-tici). Questi elementi hanno avuto forte valenza metaforica, avvertiti dal gruppo come inerenti alle tematiche affrontate, contribuendo a creare una cornice espressiva e facilitando l’emergere di nuclei di pensiero, di

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memoria e di affetti, che potevano essere raccolti solo nel corso di una lunga analisi. Questi temi, pur trattati in una breve ma intensa esperienza, sono stati accolti in una scena ampliata e condivisa (Chianese, 1997), in grado di accettare la ripetizione personale, spesso mai ascoltata. “La sensazione diffusa è stata che tutti que-sti scambi potessero aiutare un processo di fluidificazione e dicibilità di ansie segrete e che la sensazione feconda di poterle esprimere e condividere ad un piano che conteneva una valorizzazione professionale (il gruppo faceva una esperienza di corso formativo e avrebbe anche ottenuto un attestato di frequenza) ripa-gasse il gruppo della notevole pena di vivere una serie di stimolazioni e di lutti sovra espansi ad ogni seduta. Questo ha indotto una riflessione efficace e liberatoria e ha segnato l'inizio di una fase nella quale diventava più pensabile l'idea di contemperare il bisogno di mantenere l'assetto professionale con quello di esplorarne più liberamente aspetti problematici e simbolici” (Marinelli, 2008). Conclusioni Al fine di poter raccogliere un feedback dell’esperienza formativa svolta, a distanza da un anno dalla sua conclusione, sono stati intervistati due partecipanti del gruppo, un’infermiera ed un medico del Day Hospital di Pneumologia, che si sono distinti per la loro maggiore presenza agli incontri ed il loro entusiasmo nel te-stimoniare gli effetti della formazione sui vissuti della loro professione, offrendo anche la possibilità di con-frontare due punti di vista professionali diversi. Dalle interviste si possono desumere alcuni nodi centrali che hanno caratterizzato l’esperienza di formazione, che si rivelano essere anche utili riflessioni sul rapporto con i pazienti gravi, i colleghi, la propria professio-ne. Un primo argomento affrontato riguarda le motivazioni a partecipare ad un gruppo di formazione, che viene descritto come momento in cui poter affrontare lo smarrimento provato di fronte a pazienti in fin di vita, il non saper cosa fare e come comportarsi, ma anche un’occasione di confronto e arricchimento personale. I bi-sogni e le aspettative portati durante il corso riguardavano, appunto, il rapporto con il paziente neoplastico e la necessità di ascoltare le esperienze di altri colleghi che, quotidianamente, si trovano a dover gestire una situazione non facile. Il tema centrale del corso risulta essere la morte dei propri pazienti, in particolare di quelli giovani, mancando spesso gli strumenti adatti per affrontare questa esperienza. Emerge, però, dalle pa-role dell’infermiera, il tema della scarsa considerazione spesso riservata alla sua categoria professionale. Quasi con rassegnazione, ella precisa che la maggior parte dei pazienti si rivolge agli infermieri per chiedere continue informazioni, le stesse richieste nuovamente al medico, quasi come se la preparazione di quest’ultimo, la sua autorità in materia, fossero di gran lunga superiori o comunque più affidabili. Tuttavia, nota ancora l’infermiera, il paziente che ha davvero bisogno sembra provare un certo timore nei confronti del medico, preferendo affidarsi così alle cure degli operatori. Queste osservazioni potrebbero far supporre un rapporto quasi più materno con la figura dell’infermiere, soprattutto donna, e un rapporto più freddo e distac-cato nei confronti del medico, alla stregua di una padre autoritario. L’infermiera poi aggiunge un aspetto ca-ratteristico del rapporto con i pazienti, cioè quello di dover essere sempre disponibili, star loro vicino, otte-nendo in cambio molte gratificazioni, che non derivano ugualmente dal rapporto con i colleghi. Inoltre, allu-de ai rapporti gerarchici con i colleghi infermieri con un ruolo superiore (come la caposala) e con i medici, rapporti di potere spesso sbilanciati che da sempre caratterizzano il lavoro nelle strutture ospedaliere. Su questo tema il medico non è in grado di esprimere un parere, giustificandosi per il fatto di lavorare da solo, aggiungendo però “.. purtroppo per me .. o forse per fortuna , non lo so”. Di conseguenza, anche il rapporto con il paziente è diverso, in quanto è più individuale e le sue maggiori aspettative nei confronti del corso ri-guardavano proprio la relazione con il malato. Il rapporto con i colleghi ritorna quando viene affrontato il tema degli aspetti maggiormente coinvolgenti del corso. Entrambi esprimono grande soddisfazione sull’organizzazione del corso, ma pongono l’accento su aspetti diversi. L’infermiera ribadisce l’importanza del confronto e, soprattutto, quasi sorpresa sottolinea lo scambio paritario a cui partecipava durante il corso. La stessa parità che afferma essere mancante nel lavoro quotidiano. Appare evidente il tono polemico dell’infermiera e nello stesso tempo l’entusiasmo nell’aver avuto una possibilità per poter parlare, liberamente, senza essere interrotta o giudicata. Di possibilità ne parla anche il dottore, riferendosi al corso come ad una “tavola rotonda”, un momento utile in cui dar spazio alle proprie emozioni, idee, esigenze. Un’occasione che spesso non si riesce a ricavare per via del poco tempo a

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disposizione. Torna nelle sue parole l’idea dell’urgenza, del non tempo, che spesso si respira nei reparti per malattie croniche. Sull’utilità del corso, ritornano le differenze tra le due professioni. Il dottore rimane cen-trato ancora sul rapporto con il paziente, affermando che il corso ha chiarito ulteriormente le dinamiche tra curante e paziente, in particolare il paziente neoplastico. L’infermiera, invece, sostiene di aver ricavato un contributo più personale, sia nel lavoro che nella vita. Il corso le ha permesso di recuperare un po’ di fiducia in sé, come professionista ma anche come persona. Parla di un “risveglio”, una metafora abbastanza signifi-cativa, con cui descrive un lavoro di routine, svolto in modo automatico, centrato sul fare. Ma attraverso il corso ha potuto recuperare un po’ più di fiducia in se stessa, come professionista, ma soprattutto come perso-na. A questo punto affronta un tema molto importante: portarsi il lavoro a casa. Ammette, infatti, che è diffi-cile tenere separati il piano professionale da quello privato, ma è comunque necessario farlo. Quella stessa forza che l’aiuta a sentirsi viva, le permette anche di relazionarsi in modo più efficace con gli altri. Non crede che il corso abbia molto migliorato i rapporti con i colleghi, ma le ha infondato maggior autostima, la sensa-zione di aver sempre svolto bene il proprio lavoro e che continuare su questa strada sia la scelta migliore. Il dottore afferma la necessità di gruppi psicologici rivolti anche ai pazienti, che possa aiutarli ad affrontare meglio la loro condizione. Aggiunge poi che questi corsi dovrebbero essere più frequenti, aperti a tutti e coinvolgere maggiormente il personale medico, non solo chi vuole partecipare. Infatti nota come in qualità di pneumologo sia stato più “sfortunato” rispetto ai suoi colleghi oncologi. Quest’ultimi, infatti, occupandosi delle terapie, anche molto dolorose per il paziente, come la chemioterapia, rappresentano di diritto una cate-goria più bisognosa degli strumenti che un corso di formazione può offrire. Tuttavia, anche la sua categoria professionale, per quanto deputata solo alla diagnosi, non deve essere lasciata a se stessa. Infatti osserva co-me comunicare una diagnosi al paziente, soprattutto di cancro, è forse più difficile e doloroso di quanto non lo sia la terapia stessa. In quanto partecipanti, viene loro chiesto di dare un consiglio per migliorare la qualità dei corsi di formazione, secondo il loro punto di vista, di dottore e infermiera. Il dottore avanza la proposta di un corso misto, che coinvolga medici, infermieri e anche pazienti, per quanto consapevole che un gruppo si-mile potrebbe generare situazioni molto delicate. L’infermiera, invece, si sofferma sull’importanza di garantire la libertà di parola, a tutti: il confronto con gli altri, la possibilità di esprimersi e di poter sbagliare, hanno un’azione liberatoria, ma anche chiarificatrice. Parlare liberamente, ascoltare gli altri e le loro esperienze è di per sé molto utile. Parla poi di un paziente molto grave, che aveva assistito per molto tempo, anche nel momento della sua morte. Emerge tutto il coin-volgimento affettivo che la relazione con una persona malata può generare. Ma l’aspetto più importante è il modo in cui il paziente stesso alla fine, quasi per ricambiare le sue cure e le sue attenzioni, cerca di consolar-la e rassicurarla, come a volerla liberare dal sentirsi inerme, dal non poter più fare nulla per salvarlo. La commozione provata nel ricordare questa storia mostra la vulnerabilità di un’infermiera che, prima di essere una professionista al lavoro, è soprattutto una persona, con le sue emozioni e i suoi sentimenti nei confronti non di una caso clinico, ma di un’altra persona. In queste situazioni, come affermava Rogers (1951), il saper fare, le tecniche, le conoscenze mediche, non servono a molto, se non ben integrate con il saper essere, con tutte le qualità umane di una persona. Altro tema discusso ha riguardato l’organizzazione di un gruppo di formazione misto, di medici e infermieri insieme. Entrambi hanno affermato l’utilità della compresenza delle due professioni, in quanto possibilità di rivedere il proprio lavoro dal punto di vista dell’altro. Nella cura e nell’assistenza dei pazienti, medici e infermieri lavorano spesso fianco a fianco. Un confronto di come tale lavoro viene vissuto dal medico e dall’infermiere è un’utile fonte di arricchimento professionale, ma anche personale, nonostante entrambi sottolineino la differenza delle due professioni. Il dottore e l’infermiera indicano il loro accordo nel fare altri corsi. L’infermiera li definisce come una sorta di terapia, da fare una volta a settimana. Il dottore invece ribadisce l’importanza di aprire il corso a tutti, ma-gari facendo dei turni. Rispetto alla loro formazione specifica, medica ed infermieristica, entrambi affermano che il corso ha affron-tato aspetti diversi della loro professione, ma si è focalizzato maggiormente sul rapporto con i pazienti. In conclusione, sia il dottore che l’infermiera si dicono molto entusiasti e soddisfatti dell’esperienza fatta e ritengono necessario organizzare altri corsi di formazione.

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RECENSIONI

La relazione d’aiuto nella psicoterapia strategica, Filippo Petruccelli, Valeria Verrastro, Franco Angeli, Milano, 2012, pp. 176

Anna Rizzuti1 Quando si completa la lettura de “La relazione d’aiuto nella psicoterapia strategica”, l’impressione non è so-lo di avere ascoltato un discorso finalmente chiaro e organizzato sul tema dell’approccio strategico alla psi-coterapia, ma è soprattutto di avere osservato una bella fotografia, una immagine nitida e ricca di particolari, di quanto avviene nel dialogo fra paziente e terapeuta e dei principali strumenti di cui quest’ultimo dispone per essere efficace. Non sorprende, se si considera che Filippo Petruccelli e Valeria Verrastro, nonostante i tanti impegni accademici e professionali, da molti anni dirigono con successo un istituto che si occupa pro-prio di studiare il complesso mondo delle relazioni umane in un’ottica strategica. E così il libro procede fitto attraversando con attenzione e cura, un capitolo dopo l’altro, i riferimenti relativi agli autori più significativi – Bateson, Haley, Watzlawick, Erickson -, le fasi e la modalità con cui si realizza il percorso psicoterapico, le tecniche che rendono efficace la comunicazione, fino ad arrivare ad una detta-gliata descrizione degli strumenti più utilizzati nell’intervento clinico. Elementi che da soli basterebbero a rendere piacevole e utile un testo che invece offre uno spunto in più, a coronamento di una analisi certamente completa. Mi riferisco al ruolo centrale che assume la suggestione nel processo di cambiamento e al contri-buto, sicuramente determinante, di Milton Erickson nella realizzazione di tale obiettivo. Nel primo dei cinque capitoli di cui è composta l’opera, gli autori accennano infatti a come i principi costrut-tivisti e costruzionisti hanno contribuito non solo allo sviluppo di un approccio il cui fine è “analizzare i mo-delli di interazione che il paziente mette in atto e crearne di nuovi” (Petruccelli, Verrastro, 2012, p.10), ma soprattutto pongono l’accento sull’importanza del linguaggio di tipo “suggestivo e ingiuntivo poiché esso permette di utilizzare le resistenze piuttosto che rimanere invischiati nelle interpretazioni che di esse danno le altre psicoterapie” (Petruccelli, Verrastro, 2012, p.16). L’obiettivo è dunque raggiunto “’manipolando’ la realtà attraverso l’utilizzo di metafore, suggestioni, ristrutturazioni, paradossi, doppi legami terapeutici e pre-scrizioni dirette e indirette” (Verrastro, 2007), ed in questo senso è fondamentale l’eredità ericksoniana e la sua attenzione per il paziente come essere unico che percepisce ed elabora la realtà con una propria modalità, unica anch’essa (Erickson, 1983). Nel capitolo successivo, il secondo, l’attenzione è quindi rivolta interamente al fenomeno ipnotico e a Milton Erickson, che ha dimostrato come l’utilizzo dell’ipnosi sia determinante in quanto sollecita proprio le risorse in grado di attivare il cambiamento insite in ogni individuo. “Lo stato di trance può aiutare a destrutturare schemi cognitivi-comportamentali rigidi e permette una più facile ristrutturazione della realtà del paziente” (Petruccelli, Verrastro, 2012, p.42). La trance è intesa come una esperienza “caratterizzata da particolari li-velli di vigilanza e responsività, suscettibile ad essere sviluppata naturalmente da ciascun soggetto” (Petruc-celli, Verrastro, 2012, p.43). Non uno stato di completa incoscienza, così come spesso rappresentato, bensì una modalità di percepire ed esperire che è frequente nella vita quotidiana, “uno stato naturale che attiva un’esperienza in grado di potenziare significativamente l’identificazione, l’estrazione, la ristrutturazione e l’attivazione delle risorse presenti nell’individuo” (Petruccelli, Verrastro, 2012, p.42). Ipnosi è dunque sug-gestione nella forma di doppi legami, aneddoti, metafore, e di ogni strumento che “accede al potenziale in-

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conscio e alla capacità naturale di apprendere del cliente, depotenziando al contempo i suoi schemi limitanti” (Erickson, Rossi, 1982). E si entra così nel pieno del discorso nonché nella parte centrale del testo, dove è osservata da vicino la rela-zione d’aiuto e la comunicazione in psicoterapia strategica. Due capitoli densi di spunti in cui si coglie conti-nuamente l’importanza di quanto detto finora, proprio perché il presupposto dell’efficacia e dell’efficienza di tale approccio è che il linguaggio adoperato sia ingiuntivo ma soprattutto suggestivo, in grado di aggirare la resistenza al cambiamento ossia quella “modalità di relazione con il contesto che comprende l’universo di tutte le ‘tentate soluzioni’ che caratterizzano il problema” (Petruccelli, Verrastro, 2012, p.96). Il terapeuta strategico comunica attraverso il canale verbale e non verbale in un modo che persuade, che in-duce le persone a correggere o rinforzare un comportamento, che le motiva ad agire nel verso desiderato. Una modalità di relazionarsi che affonda le radici nell’antichità, quando la retorica era il veicolo per condur-re le masse. “L’evoluzione della moderna psichiatria e psicoterapia, al contrario, ha lasciato fuori per quasi un secolo tutto ciò che poteva essere inteso come persuasione o manipolazione dall’ambito degli interventi sulla psiche e sul comportamento umano” (Verrastro, Petruccelli, 2006). Persuadere, dunque, attraverso tecniche che sollecitano direttamente o indirettamente il comportamento desi-derato. Tecniche relative al linguaggio, come quella che Bandler e Grinder (1975) definiscono “ricalco” e che è di matrice ericksoniana, fino ad arrivare a vere e proprie prescrizioni di comportamento, tutte raccolte ed illustrate nell’ultimo capitolo de “La relazione d’aiuto nella psicoterapia strategica”, che costituisce un ve-ro e proprio memorandum per i professionisti del campo. Non c’è dubbio che questo libro sia utile a sapere, a capire. Ma la cosa ancora più interessante è che il testo di Filippo Petruccelli e Valeria Verrastro è utile ad operare con efficacia nel campo della psicoterapia strate-gica, e per questo ancora più preziosa. Bibliografia Bandler, R., Grinder, J., 1975, La struttura della magia, Astrolabio, Roma, 1981. Erickson, M.H., 1983, Opere, vol.3: L’indagine ipnotica dei processi psicodinamici, tr.it., Astrolabio, Roma. Erickson, M.H., Rossi, E.L., 1982, The collected papers of Milton H. Erickson of bypnosis, voll.I, II, III, IV: Hypnotic investigation of psychodynamic process, Irvington, New York. Verrastro, V., Petruccelli, F., 2006, Psicologia clinica, Franco Angeli, Milano. Verrastro, V., 2007, sec. ed. ampliata, Psicologia della comunicazione, Franco Angeli, Milano. Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fisch, R. (1974). Change: Principles of problem formation and problem so-lution. New York: Norton. (trad.it. Change: Sulla formazione e la soluzione dei problemi, Astrolabio, Roma, 1974) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!1!Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma

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Esemplare  fuori  commercio  per  il  deposito  legale  agli  effetti  della  Legge  15  aprile  2004,  n.

106  (Art.  10,  DPR  252/2006)