2015 10 16 | Il Venerdi' - Repubblica | d'Alessandro

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16 OTTOBRE 2015 66 isogna essere, non fingere». Que- sta è stata la prima frase. La se- conda: «Non simulare quel che non sei, perché sul lungo periodo non funziona». Alla terza arriva lo spaesa- mento per chi ascolta: «È necessario avere consapevolezza dei propri pensieri. È un con- cetto derivato dalla meditazione vipassa- na buddista. In inglese viene chiamata mindfulness ed è molto in voga». Dove? Nell’addestramento di manager e dirigenti. Almeno in quelle aziende dove si crede che l’organizzazione del lavoro sia un nodo essen- « B di Jaime d’Alessandro YOGA E INCONTRI CON PSICOLOGI: PER FAR CRESCERE IL «QUOZIENTE EMOTIVO» E LA CONSAPEVOLEZZA DI QUADRI E DIRIGENTI D’AZIENDA. CHE COSÌ CAPISCONO MEGLIO SE STESSI E, SOPRATTUTTO, I DIPENDENTI. È L’ULTIMA FRONTIERA DELLO smart working . MA PER L’ITALIA RESTA LONTANA ziale per stare sul mercato e che, di conse- guenza, la gestione delle risorse umane sia una scienza che deve diventare esatta. Le frasi sopra riportate non sono di una terapeu- ta, ma di Francesca Manili Pessina, vicepre- sidente e responsabile delle risorse umane di Sky Italia. Espressione di una corrente di pensiero che tenta di coniugare soddisfazio- ne personale e produttività, trasparenza e meritocrazia. Andando a pescare lì dove nes- suno si era spinto finora. E viene da pensare che prima o poi arriveranno ai sogni e, scor- rendo le immagini dell’inconscio come foto scienze UFFICI FELICI ALE+ALE La proprietà intellettuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato 16/10/2015 Pag. 66 N.1439 - 16 ottobre 2015 diffusione:333114 tiratura:453532

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Meditate manager, meditate

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isogna essere, non fingere». Que-sta è stata la prima frase. La se-conda: «Non simulare quel che non sei, perché sul lungo periodo

non funziona». Alla terza arriva lo spaesa-mento per chi ascolta: «È necessario avere consapevolezza dei propri pensieri. È un con-cetto derivato dalla meditazione vipassa-na buddista. In inglese viene chiamata mindfulness ed è molto in voga». Dove? Nell’addestramento di manager e dirigenti. Almeno in quelle aziende dove si crede che l’organizzazione del lavoro sia un nodo essen-

«B

di Jaime d’Alessandro

YOGA E INCONTRI CON PSICOLOGI:

PER FAR CRESCERE IL «QUOZIENTE

EMOTIVO» E LA CONSAPEVOLEZZA

DI QUADRI E DIRIGENTI D’AZIENDA.

CHE COSÌ CAPISCONO MEGLIO

SE STESSI E, SOPRATTUTTO,

I DIPENDENTI. È L’ULTIMA FRONTIERA

DELLO smart working.

MA PER L’ITALIA RESTA LONTANA

ziale per stare sul mercato e che, di conse-guenza, la gestione delle risorse umane sia una scienza che deve diventare esatta. Le frasi sopra riportate non sono di una terapeu-ta, ma di Francesca Manili Pessina, vicepre-sidente e responsabile delle risorse umane di Sky Italia. Espressione di una corrente di pensiero che tenta di coniugare soddisfazio-ne personale e produttività, trasparenza e meritocrazia. Andando a pescare lì dove nes-suno si era spinto finora. E viene da pensare che prima o poi arriveranno ai sogni e, scor-rendo le immagini dell’inconscio come foto

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su un tablet, diranno se siamo compatibili con le mansioni che svolgiamo o meno.

Quando si parla di lavoro organizzato in maniera intelligente, smart working, in gene-re ci si riferisce al concentrarsi sugli obiet-tivi e non più sul tempo che si passa in uf-cio, alla riduzione dei gradi gerarchici, alla possibilità di collaborare anche da fuori, dove è necessario, utile o più semplicemen-te piacevole stare, invece di dover per forza occupare una scrivania in uno spazio solo lavorativo. Stavolta però si tratta di compie-re un passo a monte: cambiare la mentalità

di chi il lavoro degli altri lo organizza. Secon-do il rapporto dell’Osservatorio smart wor-king del Politecnico di Milano, che sarà presentato il 20 ottobre, soluzioni di lavoro intelligente sono state adottate da circa due aziende su dieci in Italia e il risparmio sui costi arriva spesso al 30 per cento.

«Il pregiudizio, da noi, è che in questo modo si lavori meno», racconta Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osser-vatorio. «In realtà, semmai, il rischio è op-posto: visto che lo puoi fare ovunque e a qualunque orario, lavori sempre perché è

quel che ti viene richiesto. Con un crollo conseguente della produttività».

Ma, stando al Politecnico, in otto aziende su dieci non arrivano nemmeno a porsi que-sti problemi. Gestite da dirigenti inadeguati, vivono solo di emergenze. «L’inadeguatezza nel programmare si trasforma nella necessi-tà di avere sempre tutti a portata di mano» continua Corso. «È un’attitudine accompa-gnata dall’incapacità di valutare i risultati, giudicando gli altri solo in base ad aspetti secondari come il tempo che passano in uf-cio. Ma sarebbe un errore pensare che

Meditate manager,meditate

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questo sia un difetto degli amministratori delegati, perché quelli in genere già lavorano per obiettivi e sono ben contenti di rispar-miare e aumentare la produttività. No, il pro-blema è nei quadri medio-alti».

Oltreoceano si sono spinti sufciente-mente in avanti da iniziare a criticare anche il modello della compagnia solare tipica della Silicon Valley, da Google a Facebook. Quelle dove la felicità del dipendente è fra le priorità perché si traduce in entusiasmo nel lavoro. Il sociologo inglese William Davies recente-mente ha pubblicato The Happiness Industry:

How the Government and Big Business Sold us

Well-being (Verso), che potremmo tradurre con L’industria della felicità: ecco come governo

e grandi aziende ci hanno venduto il benessere, dove si sostiene che certe compagnie stanno investendo così tante risorse per rendere contenti i dipendenti che chi non aderisce a questo nuovo modello di armonia viene visto con sospetto. È lo stesso sguardo dello scrit-tore americano Dave Eggers, che già nel 2013 in Il cerchio (Mondadori) aveva dipinto la feli-cità senza ritorno (e senza privacy) degli impiegati di un gigantesco colosso del web del prossimo futuro. E poi c’è il caso Amazon, dove chi lavora non ha un vero orario né tre-gua e, stando al New York Times, viene lette-ralmente fatto a pezzi. Molti pensano però che sia sempre meglio correre questi rischi che andare incontro all’infelicità certa del salariato tradizionale. Anche perché i rischi si riducono avendo un gruppo di dirigenti capaci, che sanno quel che fanno.

L’azienda di Rupert Murdoch ha scelto di rivolgersi allo psicologo Martyn Newman programmando negli Stati Uniti come in Italia una serie di incontri con tutti i mana-ger importanti. E non erano appuntamenti facoltativi. Così vicepresidenti e dirigenti si sono dovuti mettere in discussione su ter-ritori che fino a quel momento non pensa-vano facessero parte della sfera professio-nale. Seminari, test e confronti individuali per arrivare a mettere in luce i punti debo-li, quei lati caratteriali che vengono giudi-cati d’ostacolo per gli stessi manager e, so-prattutto, per chi lavora per loro.

Newman è tra gli psicologi impegnati a mettere in pratica le teorie sull’intelligenza emotiva. Di questa avevano scritto, nel 1989, altri due psicologi: Peter Salovey e John D.

Mayer. Il primo è preside dell’Università di Yale, il secondo insegna all’Università del New Hampshire, ed entrambi applicano le loro idee al campo sociale. Ma il concetto di intelligenza emotiva si è difuso soprattutto grazie a Daniel Goleman, anche lui psicologo, a partire dalla metà degli anni Novanta. L’in-telligenza emotiva è legata alla capacità di riconoscere, comprendere in modo consape-vole e usare le proprie emozioni e quelle al-trui. Serve a sapere non solo chi si è, ma an-che ad avere coscienza dei propri pensieri, a saper decidere e valorizzare gli altri ricono-scendone la sfera emotiva.

«È un cambiamento netto» racconta Da-vid Bevilacqua, vicepresidente di Cisco Eu-ropa, azienda da anni nella classifica di For-

tune delle migliori dove lavorare. «Il mondo è pieno di persone che fanno i manager per il motivo sbagliato e vengono promosse per caratteristiche errate. Si cerca di far carrie-ra per guadagnare di più e per esser ricono-sciuti socialmente. E ci si circonda di sim-boli del potere inutili: la scrivania più gran-de, il posto macchina riservato, il computer più potente. Fare il manager invece è gestire risorse ed esser capaci di valorizzarle.

Quando dico queste cose mi danno dell’e-stremista. Ma non si tratta di ideologia, solo di riconoscere che le conoscenze oggi sono distribuite in maniera orizzontale. Chiun-que pensi di saperla più lunga a priori ri-schia un brutto risveglio e di sicuro come manager fa un pessimo lavoro».

Quando invece una persona riesce a tra-scinare il suo team i risultati sono evidenti. «La felicità di un dipendente conta molto e costa anche» prosegue Francesca Manili Pessina. «Ma io lo vedo come un investimen-to: ogni persona ha una parte di energia che può impiegare nel lavoro se è motivata ed è contenta. A patto di avere dei manager che sanno mettere in pratica questa filosofia».

Viene da pensare alla Olivetti degli an-ni Cinquanta o alle scuole manageriali della Pirelli degli anni Settanta e Ottanta. Ma è l’ingresso della psicologia nella for-mazione a fare ora la diferenza. «Si tratta di sviluppare se stessi, conclude dal Cana-da Gershon Mader, presidente della Quan-tum Performance, che come Newman opera a stretto contatto con grandi multi-nazionali. «Trent’anni fa, al tempo degli yuppie, l’unica cosa che importava erano i margini di guadagno e la soddisfazione degli azionisti. Poi sono arrivati i valori dei clienti, in seguito quello degli impiegati e ora si guarda allo stato mentale dei mana-ger. Con una certezza: non è la tecnologia a liberare il potenziale delle persone, ma le persone stesse. È il passaggio dalla ditta-tura del Qi, il quoziente di intelligenza, all’emergere del Qe, il quoziente emotivo. Che nel lavoro è essenziale». Facile a dirsi più che a farsi, specialmente in Italia. Ma guardiamo al lato positivo: siamo talmente indietro che possiamo solo migliorare. Jaime d’Alessandro

Sopra a sinistra, lo psicologo Martyn Newman: applica alla pratica le teorie dell’intelligenza emotiva, che, negli anni 90, si sono difuse

soprattutto grazie a Daniel Goleman (a destra). In alto, gli ufci di Google a New York

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