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Porta il tuo cuore in Africa Anno XIII, n. 1 – Maggio 2013 Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 2, LO/MI www.amaniforafrica.it AMANI C’era una volta una generazione senza troppa ansia del futuro era una volta una generazione senza troppa ansia del futuro. Circondata da diversi pun- ti di riferimento, forse a trent’anni lavorava già da un po’, aveva addirittura una famiglia, una casa dove vivere e i piedi ben piantati per terra. La mia generazione, invece, a trent’anni non ha un posto fis- so, a stento forse firma un contratto, non ha certamente una casa tutta sua e una famiglia… chissà. Tutto attorno a noi sembra fragile, come funamboli in equilibrio precario cer- chiamo di non cadere in questo mondo che ci offre ormai tut- to e niente allo stesso tempo, dove ogni cosa sembra immo- bile ma sfuggente. Una buona parte di noi vaga in giro per il mondo, in cerca di obiettivi e possibilità. Io ad esempio sono a Londra da qual- che mese, con in mano la mia laurea magistrale in coopera- zione internazionale, un servizio civile in Tanzania, dieci an- ni di esperienze di volontariato brevi ma costanti in Kenya e ancora tanta voglia di imparare. La spinta a partire me l’ha data il desiderio di non farmi immobilizzare dalla condizione d’incertezza generale che sembra colpirci tutti – partendo dal- la nostra politica, passando per i nostri posti di lavoro, arri- vando al nostro futuro. In questa grande capitale europea tut- to si muove, tutto sembra avere uno scopo. Mi è sembrata fin da subito un concentrato di mondo, entri in autobus e alme- no la metà delle persone sono straniere. Per me, tuttavia, ha l’aspetto di un luogo temporaneo, affollato di persone incerte, tutte in cerca di qualcosa. Per le sue strade incontro tanti gio- vani. Alcuni sono in attesa, di tempi migliori, di possibilità. di Chiara Avezzano* Vivere l’incertezza Eri appassionato e aperto al dialogo con chiunque, sempre pronto a stupirti e capace di commuoverti anche per qualcuno conosciuto da poco. Eri il nostro eroe d'altri tempi e più che mai contemporaneo. Eri un uomo straordinario. Sei arrivato al traguardo del tuo percorso terreno. Non siamo più insieme ma continuerai a darci gioia e spunti su cui riflettere. Ciao Dani. Daniele Parolini, atleta, giornalista, volontario, direttore della rivista "Amani". Cremona, 1936-2013 ciao Dani C’ © 2008 Shobha, Contrasto segue a pag 4 Aiuto, che fatica Un libro recente denuncia il sistema degli aiuti. Accuse che non sono una novità. E che devono aiutarci a fare bene il bene di Pier Maria Mazzola Lo spunto pag 2 L’Africa nell’arte La pittura di Colombaioni distrugge gli stereotipi e crea nuove alchimie di Emiliana Sabiu e Matteo Rubbi News pag 5

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Porta il tuo cuore in Africa, pubblicazione di Amani, numero di maggio 2013

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Porta il tuo cuore in Africa

Anno XIII, n. 1 – Maggio 2013Spedizione in A.P.

D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)

Art. 1 comma 2, LO/MIwww.amaniforafrica.it

AMANI

C’era una volta una generazione senza troppa ansia del futuro

era una volta una generazione senza troppaansia del futuro. Circondata da diversi pun-ti di riferimento, forse a trent’anni lavoravagià da un po’, aveva addirittura una famiglia,

una casa dove vivere e i piedi ben piantati per terra.La mia generazione, invece, a trent’anni non ha un posto fis-so, a stento forse firma un contratto, non ha certamente unacasa tutta sua e una famiglia… chissà. Tutto attorno a noi

sembra fragile, come funamboli in equilibrio precario cer-chiamo di non cadere in questo mondo che ci offre ormai tut-to e niente allo stesso tempo, dove ogni cosa sembra immo-bile ma sfuggente.Una buona parte di noi vaga in giro per il mondo, in cerca diobiettivi e possibilità. Io ad esempio sono a Londra da qual-che mese, con in mano la mia laurea magistrale in coopera-zione internazionale, un servizio civile in Tanzania, dieci an-ni di esperienze di volontariato brevi ma costanti in Kenya eancora tanta voglia di imparare. La spinta a partire me l’ha

data il desiderio di non farmi immobilizzare dalla condizioned’incertezza generale che sembra colpirci tutti – partendo dal-la nostra politica, passando per i nostri posti di lavoro, arri-vando al nostro futuro. In questa grande capitale europea tut-to si muove, tutto sembra avere uno scopo. Mi è sembrata finda subito un concentrato di mondo, entri in autobus e alme-no la metà delle persone sono straniere. Per me, tuttavia, hal’aspetto di un luogo temporaneo, affollato di persone incerte,tutte in cerca di qualcosa. Per le sue strade incontro tanti gio-vani. Alcuni sono in attesa, di tempi migliori, di possibilità.

di Chiara Avezzano*

Vivere l’incertezza

Eri appassionato e aperto al dialogo con chiunque,sempre pronto a stupirti e capace di commuoverti anche per qualcuno conosciuto da poco.

Eri il nostro eroe d'altri tempi e più che mai contemporaneo.Eri un uomo straordinario.

Sei arrivato al traguardo del tuo percorso terreno.Non siamo più insieme ma continuerai a darci gioia e spunti su cui riflettere.

Ciao Dani.

Daniele Parolini, atleta, giornalista, volontario, direttore della rivista "Amani".Cremona, 1936-2013ciao Dani

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Aiuto, che faticaUn libro recente denuncia il sistema degli aiuti.Accuse che non sono una novità. E che devono aiutarci a fare bene il benedi Pier Maria Mazzola

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Lo Spunto

l dibattito sugli aiuti umanitari non è nuovo, masi è ringalluzzito all’inizio dell’anno con una novità edi-toriale, L’industria della carità (Chiarelettere). Il librodi Valentina Furlanetto, lungi dall’affrontare tutte le pie-ghe della problematica, riapre soprattutto un fronte “ita-liano”: quello della trasparenza. Benché le ong non visiano tenute per legge, la giornalista di Radio 24 lesferza perché rendano comunque di facile accesso i bi-lanci, anche sui loro siti web. Affinché si capisca, tra l’al-tro, la reale suddivisione dei capitoli di spesa: stipen-di, funzionamento interno, comunicazione e progettisul campo. In apertura di volume, inoltre, alcune testi-monianze di operatori umanitari rivelano stili di vitadi volontari e cooperanti davvero scandalosi per lussoe atteggiamenti, fotografati in isole felici a due passi daidannati della terra che sono lì a soccorrere.L’autrice si difende da chi l’accusa di fare di ogni erbaun fascio sostenendo che il suo intento non è gettar fan-go sul mondo della solidarietà (compresa quella italiana,vedi terremoto in Abruzzo), ma luce. Permane comun-que qualche impressione di «confusione», per esempioquando imputa a organizzazioni come Amnesty In-ternational o Greenpeace di spendere troppo in co-municazione, quando è questa la loro mission. O quan-do denuncia l’esistenza di un organismo di autocontrolloespressione degli stessi controllati. «Può essere colpanostra? – ha reagito in un dibattito una voce autore-vole come Gianni Rufini –. Che si costituisca una isti-tuzione pubblica di verifica dell’operato delle ong. E sifaccia presto. Siamo i primi a volerlo».

Il discorso, in ogni caso, non è per niente nuovo. In Ita-lia è vivo nel mondo missionario e del volontariato in-ternazionale fin dagli anni Settanta quando, ben più dioggi, ribolliva la diatriba fra una visione degli aiuti as-sistenziale e un’altra “politica” (la storia del dare il pe-sce o la canna per pescare, insomma). Era il 1981 quan-do la Nigrizia di Alex Zanotelli (che oggi firma la prefa-zione a Furlanetto) dava una copertina all’«arma delgrano». Una giornalista tunisina di Jeune Afrique con-densava il suo libro L’arme alimentaire (Maspero) per mostrare come gli aiuti “agli affamati”fossero uno strumento in mano a gruppi di potere, che permetteva il controllo di intere nazio-ni e con pesanti conseguenze: accrescimento della dipendenza strutturale dai paesi del Nord,soffocamento dei mercati locali, garanzia di manodopera a buon mercato nei paesi verso cui siiniziava a delocalizzare, esodo rurale e altro ancora. Eppure, «perfino buona parte delle sini-stre europee continua a credere nelle virtù» di questi aiuti, lamentava Sophie Bessis, l’autrice.Nei primi anni Ottanta in Italia si sta montando la macchina della cooperazione internazionalegovernativa, con stanziamenti di non poco conto. Ma già a fine 1983 padre Alex comincia adenunciare che è solo un «carrozzone» per far campare grandi imprese italiane, «perfino nelgiro delle armi», tra sprechi e progetti “di sviluppo” assurdi, con i loro sedicenti “esperti”, epoi Dc, Pci e Psi a spartirsi i pezzi d’Africa da “aiutare”. E per i poveri? Sì e no le briciole. Anni Novanta. Di cooperazione internazionale si parla, nella pratica, sempre di meno, anchese le ong aumentano di numero (diventando sempre meno “non governative”). Si approfon-disce la riflessione sul senso dello sviluppo, ma ci si impegna di più nell’emergenza. Nell’u-manitario. Fronti di guerra e aree di crisi si moltiplicano, dopo il muro di Berlino. Servonoéquipe mediche pronte a scattare da un meridiano all’altro, tende per i profughi, alimenti,specialisti nell’assistenza alle vittime traumatizzate… Si moltiplicano anche le tivù e i me-dia globali: lo spettatore vede, s’indigna, si commuove, partecipa. Come può, spesso metten-do mano al portafoglio. Molti si fidelizzano all’una o all’altra associazione. L’umanitario siprofessionalizza sempre più, o almeno questa è l’impressione.

Chi rifletteva continua a farlo, e a maggior ragione da quando “umanitaria” è diventato ag-gettivo anche di “ingerenza” (eufemismo per “guerra”). Nel 2000, Nigrizia riunisce attorno aun tavolo un piccolo e qualificato gruppo di operatori e osservatori. Ne verrà fuori un dossierdal titolo “Vivere di emergenze”, un tema che ritroveremo presto anche in nuovi libri e arti-coli di riviste. Che cos’è, davvero, l’emergenza? Sono ancora tali le situazioni croniche di in-digenza, enfatizzate come apocalissi dai mass media ma che andrebbero affrontate per quel-lo che sono, quindi con interventi di lungo respiro e non con un cerotto dopo l’altro?Un’altra questione davvero scottante è quella dell’umanitario che, partito per soccorrere levittime, deve scendere a patti con i carnefici, i quali continueranno con mezzi rinnovati (sì,quelli forniti, pur a malincuore, dalle ong) a mietere nuove vittime. È di quel periodo la deci-

sione di Medici senza frontiere ed altre dieci agenzie dilasciare il Sud Sudan per non sottomettersi a un «im-barazzante accordo» imposto dal locale esercito di libe-razione. «Qui il rimedio è divenuto – diceva NicolettaDentico, all’epoca direttrice di Msf Italia – parte del pro-blema: gli aiuti di emergenza sono oggi un’autisticacomponente di perpetuazione di una guerra infinita».

A ruota usciva quello che è forse il primo libro tutto ita-liano sull’argomento, L’illusione umanitaria (Emi, 2001),scritto da Marco Deriu e compagni. Riletto oggi, appa-re ancora attuale, e con il vantaggio di portare unosguardo sul problema a 360 gradi. Nel 1999 era statotradotto dal francese il durissimo L’ideologia umanita-ria di un antropologo, Bernard Hours (L’HarmattanItalia); Giulio Marcon nel 2002 porterà un nuovo con-tributo italiano con Le ambiguità degli aiuti umanita-ri (Feltrinelli); l’anno seguente, “Il paradosso umanita-rio” è il sottotitolo dell’amaro Un giaciglio per la notte(Carocci) dell’inviato di guerra David Rieff. Saltiamo al 2007. I disastri dell’uomo bianco.Perché gliaiuti dell’Occidente al resto del mondo hanno fatto piùmale che bene (si noti la drasticità dei titoli di questoscaffale) è uno studio fondamentale. La grande do-manda è: c’è correlazione tra la quantità di aiuti – a con-ti fatti, ingenti – riversati nel Sud del mondo, Africa inparticolare, e la loro crescita? No. William Easterly è ad-dirittura tentato di leggere il mancato sviluppo come con-seguenza degli aiuti; si ferma però un passo prima. Cer-to rimane, oltre alla cura con cui analizza le cifre, la chia-rezza con cui presenta la complessità della lotta alla po-vertà rispetto alla vulgata del “basta un euro per sal-vare un bambino”.Ancora libri tradotti. Paul Collier si dedica con L’ultimomiliardo (Laterza, 2008) a sondare «perché i paesi piùpoveri diventano sempre più poveri e cosa si può fareper aiutarli». La sua è una prospettiva eminentementeeconomica ed è più moderato di altri autori: gli aiuti «di-rei che formano parte della soluzione più che del pro-blema. La sfida sta nell’associarli ad altre azioni».Nel 2009 L’industria della solidarietà (per Bruno Mon-dadori, come il titolo di Easterly) si concentra sugli aiu-ti umanitari nelle zone di guerra. Linda Polman, gior-nalista di guerra nonché esperta di missioni di paceOnu, punta sulle sue personali testimonianze, Af-

ghanistan in particolare, e denuncia le ong embedded come i giornalisti. Anche il diretto-re scientifico di una grande agenzia come Oxfam esce, quasi simultaneamente, con un suostudio. In Dalla povertà al potere Duncan Green consacra al «sistema degli aiuti interna-zionali» solo una parte del volume, ma lo fa con un’ampiezza critica se possibile maggioredi Polman, anche se con toni più pacati. Umanizzare l’umanitarismo? (Utet, 2009) è un nuovo titolo italiano a più mani, a cura diMarina Calloni, che si caratterizza per l’interdisciplinarietà. Fra gli interventi si segnala-no quelli dei missionari. Padre Kizito sottolinea come sia paradossalmente facile “dimenti-care” proprio le persone cui gli aiuti si rivolgono; altri comboniani, suor Maria Teresa Rat-ti e padre Francesco Pierli, avvertono come l’umanitarismo si sia «andato trasformando inun modo di vivere e di governo per tenere stagnanti e immobili problemi che esigerebberoun cambio politico e commerciale radicale, di governance e di management. L’umanitarismoè quindi profondamente antiumano; è un’invenzione cinica del neoliberismo».

Ed eccoci, nel 2010, al titolo che ha forse fatto più rumore. Per la prima volta è un africano aesprimersi autonomamente. Anzi, una donna africana, una brillante economista quaranten-ne dello Zambia che dichiara che «gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mon-do», come recita il sottotitolo di La carità che uccide (Rizzoli). Un libro che ha tra i suoi pre-gi la chiarezza – tra cui la delimitazione del campo: gli aiuti di cui parla sono essenzialmen-te quelli da governo a governo – anche se non è sempre necessariamente condivisibile. Dam-bisa Moyo, che ha lavorato nella Banca Mondiale e nella Goldman Sachs, nell’ultima paginaha elogi per donatori e organizzazioni internazionali che hanno «spostato l’ideologia dello svi-luppo dalle cattive politiche economiche degli anni Settanta (soprattutto stataliste) alle buo-ne politiche di mercato in agenda oggi (introdotte sulla scorta del Washington Consensus)»… Arriviamo così all’Industria della carità, un’inchiesta che, inquadrata in questa storia diattenzione critica, è, a conti fatti, anche meno “cattiva”.In conclusione: aiuti sì?... aiuti no? La risposta forse è: aiuti “come”. E per determinare ilcome, tutto questo filone più che trentennale di studi e di interrogativi dettati dall’espe-rienza andrebbe preso sul serio.

*Pier Maria Mazzola è direttore editoriale dell’Emi e autore di Sulle strade dell’utopia (Emi, 2011).

AMANI

di Pier Maria Mazzola*

Aiuto, che faticaUn libro recente denuncia il sistema degli aiuti.

Accuse che non sono una novità. E che devono aiutarci a fare bene il bene

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huru Kenyatta, 51 anni, fi-glio del primo presidente del Kenya, eil suo socio William Ruto hanno vintole elezioni che si sono svolte in Kenyalunedì 4 marzo.

Per tentare di capire il significato diquesta vittoria bisogna richiamare al-cuni fatti. A fine dicembre 2007, vigen-te un’altra costituzione, correvano perla presidenza Mwai Kibaki, sostenutofra gli altri da Uhuru Kenyatta, e Rai-la Odinga, con William Ruto come brac-cio destro. Ci furono molti brogli da en-trambe le parti, come ebbero modo di ap-purare in seguito commissioni nazio-nali e internazionali. Alla fine, per unamanciata di voti, prevalse Kibaki, cheaveva già guidato il Kenya nei cinqueanni precedenti e che aveva, quindi, ilvantaggio di occupare già la residenzapresidenziale. Raila protestò, parlò dielezioni rubate, e immediatamente siscatenarono due mesi di violenze, cheprovocarono, secondo le stime più cre-dibili, almeno mille e cinquecento mor-ti e trecentomila sfollati, la maggio-ranza dei quali contadini kikuyu co-stretti ad abbandonare le terre dellaRift Valley. Molti degli sfollati non so-no stati mai risarciti e non hanno po-tuto rientrare nelle loro case.

Un altro punto focale delle violenze fuKibera, il più grande slum di Nairobi,dove Koinonia aveva appena apertoun centro di prima accoglienza perbambini di strada. Ricordo le telefonatenotturne di Jack, l’educatore, rimastoil solo adulto con una quindicina dibambini: «Padre, stanno sparando vi-cino a casa. Cosa faccio? Forse doma-ni sarebbe meglio spostare i bambiniin un’altra struttura».

Gli scontri avvennero solo fra poveri, peril controllo delle terre e in nome del-l’appartenenza etnica. I quartieri ricchidi Nairobi, le proprietà terriere e leaziende agricole appartenenti all’élitepolitica di entrambe le parti non ne fu-rono minimamente toccate.

La posizione geopolitica del Kenya fe-ce sì che la “comunità internazionale”intervenisse con sollecitudine. Le eco-nomie di Sudan, Uganda, Rwanda eBurundi che dipendono dal porto diMombasa per tutte le loro importazio-ni, carburante incluso, stavano per crol-lare. La comunità internazionale con-vinse – in particolare gli americani usa-rono tutti i loro mezzi di “convinzione”– le due parti a formare un governo dicoalizione, creando per Raila il posto diprimo ministro.

Nei mesi successivi nella grande coali-

zione si crearono nuove alleanze e nac-quero nuovi partiti. Nell’agosto del 2010veniva approvata con un referendum po-polare la nuova costituzione, sul mo-dello americano, con un presidente eun vicepresidente; la carica di primoministro veniva abolita. Intanto si af-fermava, localmente e internazional-mente, la volontà di punire i responsa-bili delle violenze post-elettorali del2007, per assicurarsi che fatti similinon si sarebbero più ripetuti, e farla fi-nita con l’impunità di cui avevano go-duto tutti i potenti keniani sin dall’in-dipendenza. Si ripeteva inoltre all’infi-nito che si doveva affrontare il proble-ma della terra, o della ridistribuzionedelle terre, che è alla radice di tutti i con-flitti in Kenya, e inestricabilmente le-gato all’identità tribale.

Ma ogni tentativo di investigare i cri-mini in Kenya fallì, e così, sotto la spin-ta dell’opinione pubblica, intervenne laCorte penale internazionale (Cpi) del-l’Aja. La Corte incriminò inizialmentesei persone, tre di ogni campo, indicatecome i maggiori responsabili delle vio-lenze. In seguito però, le accuse controdue di loro non furono confermate. Deiquattro rimasti, che tra poche setti-mane dovrebbero presentarsi all’Aja, ipiù importanti per la posizione che de-tenevano al momento dei fatti sono ap-punto Uhuru Kenyatta e William Ru-to. Che nel frattempo, da acerrimi ne-mici che erano sono diventati alleati, erispettivamente presidente e vicepre-sidente…

La procedura seguita dalla Cpi non èesente da critiche ed è stata certamen-te influenzata da criteri politici. Comemai prima tre e tre accusati, e poi duee due? Forse un tentativo di equilibri-smo per non aumentare l’animosità e da-re l’impressione d’imparzialità. È unasfida al buon senso pensare che Uhurue Ruto siano responsabili di crimini con-tro l’umanità e che i loro capi, Kibaki eRaila, non ne sapessero niente. E que-sto soprattutto nel caso di Raila, che hala reputazione di controllare il suo par-tito nei minimi dettagli e dove non c’èpromozione o rimozione, anche ai livel-li più bassi, senza il suo accordo. I fattie la logica avrebbero voluto che i primiaccusati fossero Kibaki e Raila. Tutti inKenya immaginano che Ruto abbia do-cumenti che provano il coinvolgimentodi Raila nel programmare le violenze dicinque anni fa, e che sarebbe pronto asvelarli se la sua posizione dovesse peg-giorare. A maggior ragione potrebbefarlo ora, che Raila ha perso ogni cari-ca istituzionale. Insomma, i quattro per-sonaggi sono irrimediabilmente legatida scomode complicità.

Nel frattempo, in cinque anni, nulla disostanziale è stato fatto per risolvere lequestioni della terra e della crescente“negative ethnicity” – termine politi-cally correct inventato per evitare diparlare di “tribalismo”. Non è stato nep-pure completamente risolto il drammadegli sfollati, considerati quasi fasti-diosi testimoni piuttosto che vittime diuna situazione non creata da loro. Iltribalismo è cresciuto in maniera espo-nenziale: più ci si sente minacciati dal-le rivendicazioni degli altri, più ci sichiude nella propria comunità etnica. Èun processo che ho visto crescere negliultimi 20 anni, da quando il presiden-te Moi ha cominciato a mettere kalenjincontro kikuyu per controllare il cre-scente potere economico e politico diquesti ultimi. Conosco molte personeragionevoli che non erano tribaliste, mache lo sono diventate o che comunquealle scorse elezioni hanno votato se-condo linee tribali.

Mi diceva un professore di filosofia conesperienza di insegnamento anche inuniversità estere: «Come posso votareper un presidente luo che cinque anni

fa ha scatenato la caccia alla mia gen-te nella città che lui controllava con lesue squadracce?». D’altro canto Otie-no, un ragazzo di Kibera, protesta: «Quisiamo in maggioranza luoma viviamoin una città controllata da avidi kikuyu».Sono affermazioni che vent’anni fa nonsi sentivano. Gli stereotipi si consolidanoin generalizzazioni tanto ingiuste quan-to inoppugnabili per chi le pronuncia.

Purtroppo la geografia del voto e la ma-tematica confermano. Il calcolo è sem-plice; Uhuru e Ruto rappresentano idue gruppi etnici che in termini di nu-meri sono il primo (kikuyu) e il terzo (ka-lenjin). Raila (luo) e il suo socio Kalon-zo Musyoka (kamba) rappresentano ilquarto e il quinto gruppo etnico, e si era-no assicurati una certa forza sulla co-sta, presentandosi come difensori dei di-ritti della comunità musulmana. I luhya,numericamente secondo gruppo etni-co, non avevano un rappresentante for-te e i loro voti sono andati dispersi. Glialtri sei candidati venivano percepiticome troppo deboli e senza possibilitàdi vittoria. È un’analisi brutalmentetribale, ma difficile provare il contrario.

E adesso?

Raila ha impugnato i risultati, ma laCorte Suprema, così come avevano giàdichiarato gli osservatiori internazio-nali, ha decretato che le elezioni sono sta-te sostanzialmente libere e giuste. Nes-suno vuol vedere il Kenya diventare in-stabile e magari precipitare nel caos. Ilfragile processo di pacificazione in So-malia, la ricostruzione nazionale in SudSudan, le tensioni in Uganda, Rwanda,Burundi, la parte orientale della RdCongo, mancando il perno di un Kenyastabile, potrebbero esplodere e precipi-tare tutta l’Africa orientale nel caos.

Per le stesse ragioni la comunità inter-nazionale sarà molto cauta nel sostenerei processi in corso alla Cpi dell’Aja. Usa,Gran Bretagna e Francia, che avevanofatto sapere che avrebbero limitato al-l’essenziale i contatti con Kenyatta incaso di sua vittoria alle presidenziali,hanno già assunto atteggiamenti mol-to più concilianti. L’impressione è che sitroverà il modo per fare marcia indie-tro completa e svuotare di sostanza ilprocesso dell’Aja. Non solo il Kenya è unalleato fondamentale nelle guerra con-tro il terrorismo di Al-Qaeda – come hadimostrato vincendo contro Al-Shabaabin Somalia – ma compagnie multina-zionali hanno investito pesantemente inKenya nei settori bancari, delle costru-zioni, turismo, agricoltura, sicurezza,telecomunicazioni, informatica.

Certo, Raila non si darà facilmente pervinto, perché l’alternativa è sparire com-pletamente dalla scena politica ed eco-nomica del Kenya. La costituzione, in-fatti, prevede che una persona può can-didarsi a una sola carica. Se perde, inquesto caso la presidenza, non può ac-cedere nè al Senato nè al Parlamento,e non gli resta altro che aspettare un’al-tra opportunità, ma fra cinque anni.Ha detto che comunque guiderà l’op-posizione, ma potrà farlo solo come lea-der del suo partito, al di fuori da ognicarica istituzionale.

Così il 9 Aprile i due indiziati per cri-mini contro l’umanità hanno assunto laPresidenza e la Vicepresidenza delKenya. Qualcuno dice che alleandosi,Uhuru e Ruto hanno superato la riva-lità fra Kikuyu e Kalenjin e posto le ba-si per il superamento di altri tribali-smi. Ce lo auguriamo tutti, anche se ri-mane il timore che due personaggi co-sì complicati e ambiziosi non possanocooperare molto a lungo.

*Renato Kizito Sesana, giornalista emissionario comboniano, è socio fondato-re di Amani.

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DossierDemocrazia e tribù

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Elezioni inKenya:

vincitori,perdenti

e scomodecomplicità

di Renato Kizito Sesana*

Uhuru Kenyatta, a sinistra, e il suo alleato William Ruto, a destra, insieme durante l’ultima tappa del tour elettorale del National Alliance Partyall’Uhuru Park di Nairobi, il 2 marzo 2013

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Il nuovo presidente e il suovice eletti nonostante leaccuse della Corte penale

internazionale

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Al centro della foto, circondata da giovani musicisti di tutto il mondo, Marisa Baldoni, amica di Amani e ispiratrice del progetto “Orchestra dei Popoli”

News

Si usa spesso la parola “caso”, per raccontare le combinazioni anche me-ravigliose che capitano nella nostra vita. Forse è un termine utile per ce-lare la bellezza che si nasconde nel caso. Ecco, per “caso” ho incontrato Ma-risa Baldoni, che una sera guardava una trasmissione televisiva dov’era-vamo ospiti padre Kizito e io, per presentare il progetto Piccolo Fratello diAmani. Ricordo che il giorno dopo ricevetti una telefonata e una voce giàfamiliare mi diceva «vorrei fare una donazione ad Amani, se vuole può ve-nire a trovarmi». In quella voce c’era una gioia profonda: ecco che la Vitati chiama, ti telefona.Risposi all’appello andando da Marisa. D’ora in poi l’avrei chiamata per sem-pre Marisa, perché nel suo sguardo c’era un intero universo. Mi disse cheera appena mancato Vittorio, suo marito, e che avrebbe donato per la con-tinuità dei progetti in Africa la sua casa di Ponte di Legno, una casa a trepiani, e in poco tempo così è stato. Ora la casa di Ponte di Legno è un pun-to di riferimento importante per Amani.Ma questo è solo l’inizio, perché poco tempo dopo, nel 2010, nacque con Ma-risa l’idea di offrire ai bambini e ragazzi rom – che a Milano venivano sgom-berati quotidianamente dal Comune senza che venisse offerta loro nessu-na possibilità di integrazione – dei corsi di violino e fisarmonica. Sì, apri-re le aule del Conservatorio e proporre un percorso serio di didattica mu-sicale ma anche sociale, con l’aiuto della Casa della Carità e dei suoi ope-ratori. Dopo due anni è nato il primo organico orchestrale: i maestri delConservatorio avevano formato 24 bambini e ragazzi rom e 4 di essi eranoriusciti a superare gli esami di ammissione. Non so come ma poi, grazie adalcune chiacchierate, abbiamo pensato di allargare il progetto a tutte le et-nie e di coinvolgere anche gli studenti del Conservatorio. Pensare cioè ad

un’orchestra che potesse, con l’arte e la musica, parlare di integrazione, sen-za tanti discorsi, ma attraverso emozioni universali. A partire dal 2012 ab-biamo coinvolto anche i detenuti del carcere di Opera che lavorano nel la-boratorio di liuteria, perché costruissero i violini per l’orchestra.

È nata così la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, per sostenerel’orchestra e il lavoro dei detenuti (in questi due anni hanno costruito ventiviolini), una Fondazione dedicata a Vittorio, ed è nata l’Orchestra dei Popo-li Vittorio Baldoni, che il 23 aprile ha debuttato in Conservatorio con Fran-co Battiato, Franco Cerri, Roberto Cacciapaglia e altri grandi artisti. Ora nel-l’orchestra, con i bambini e i ragazzi rom, ci sono giovani senegalesi, brasi-liani, iraniani, cinesi, peruviani, armeni, insieme ai giovani studenti del Con-servatorio italiani e stranieri. Un organico di sessanta elementi. Ma il belloè che seguendo lo sguardo di Marisa il progetto prende nuove forme. Con po-che parole Marisa ci indica la rotta: «Fate suonare in una parte del concertosolo i bambini del Senegal insieme ai ragazzi iranani, così avrà più spazio lamusica etnica...». E noi dietro ai sogni di Marisa, naturalmente, come fosseacqua in cui navigare. Ora ci sono tante tappe, il progetto di suonare con WoodyAllen, di continuare a sostenere con sempre maggiore attenzione e risorseeconomiche i bambini e le loro famiglie, di trovare nuovi talenti. Come lo sguar-do di Marisa anche l’orchestra si allarga.È forse questa orchestra ancora l’amore tra Vittorio e Marisa che continuaa svilupparsi? È forse la loro musica?

*Arnoldo Mosca Mondadori, socio di Amani, dal 2010 al 2013 presidente del Conser-vatorio di Milano.

da pag 1 Vivere l’incertezza

di Arnoldo Mosca Mondadori*

La musica del mondo nuovo

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KENYAKivuli Centre: progetto educativo che accoglie in forma residenziale 60 ex bambini di strada,copre le spese scolastiche di altri 70 bambini ed è aperto a tutti, proponendo diverse attività.Kivuli è diventato un punto di riferimento per i giovani del quartiere circostante, con laboratoriartigianali di avviamento professionale, una biblioteca, un dispensario medico, un progetto sportivo,un laboratorio teatrale, una sartoria, un pozzo che vende acqua a prezzi calmierati, una scuoladi lingue, una scuola di computer e uno spazio sede di varie associazioni, per momenti di dibattitoe confronto.

Casa di Anita: casa di accoglienza a Ngong (20 km da Nairobi) curata da due famiglie keniane.La Casa di Anita accoglie 33 ex bambine e ragazze di strada vittime di violenze di ogni genere,inserendole in una struttura familiare e protetta, permettendo una crescita affettivamentetranquilla e sicura, e continua a seguire le ragazze più grandi che sono rientrate in famiglia.

Ndugu Mdogo (Piccolo Fratello): progetto socio-educativo, è un punto di riferimento per i 200ragazzi che, con le loro famiglie, sono stati accolti nel programma di assistenza e riabilitazionedal 2006 ad oggi.

Kivuli Ndogo e Ndugu Mdogo Rescue Centers: sono centri di prima accoglienza e soccorsoper i bambini e i ragazzi che negli immensi quartieri di Kibera e Kawangware sono ancora costrettia sopravvivere per strada senza la cura e l'affetto di un adulto. Questi centri sono il primo passodi un percorso di recupero che potrà portarli poi a Kivuli, Ndugu Mdogo o alla Casa di Anita.

Borse di Studio don Giorgio Basadonna: permettono a studenti meritevoli privi di possibilitàeconomiche di proseguire nel percorso di studi superiore e acquisire una preparazionequalificata per il loro futuro: un modo concreto per ricordare l’impegno di tutta una vita spesada don Giorgio per la crescita dei giovani.

Riruta Health Project: programma di prevenzione e cura dell'Aids, nato in collaborazione conCaritas Italiana, offre assistenza a domicilio a malati terminali e a pazienti sieropositivi nelleperiferie di Nairobi.

Families to Families: programma di sviluppo comunitario nato da un gruppo di famiglieitaliane per sostenere gli ex ospiti dei centri nel percorso di reinserimento familiare e nella comunitàlocale.

Geremia School: una scuola di informatica che fornisce una formazione professionale di altaqualità, per contribuire a colmare il digital divide Nord-Sud.

Diakonia Institute: offre corsi universitari in Scienze Sociali e Sviluppo Comunitario (microcredito,impresa sociale) per formare a livello accademico figure in grado di lavorare nelle baraccopolicon professionalità.

ZAMBIAMthunzi Centre: progetto educativo realizzato dalle famiglie della comunità di Koinonia di Lusaka.Oltre ad accogliere in forma residenziale 60 ex bambini di strada curandone la crescita el’educazione, è un punto di riferimento per gli altri abitanti dei centri rurali circostanti, con ilsuo dispensario medico e con i suoi laboratori di falegnameria e di sartoria per l’avviamentoprofessionale.

SUDANCentro Educativo Koinonia: due scuole sui Monti Nuba che garantiscono l’educazione primariaa circa 1200 ragazzi ed una scuola magistrale per selezionare e formare giovani insegnantiNuba per riattivare la rete scolastica gestita dalle popolazioni della zona.

Progetti

Si legge nei loro occhi l’amarezza peressere stati in un certo senso costrettia lasciare casa. Non a causa di guerre,non a causa di persecuzioni, ma a cau-sa di un non-futuro. Perché è vero chel’Italia – come tanti altri Paesi medi-terranei – in questo momento non èun Paese per giovani. In questo con-centrato di mondo sento forte l’impre-vedibilità della vita, che non ti dà si-curezze, come una corrente che ti tra-scina senza offrirti appigli sicuri. Saiquel che fai oggi ma non puoi scom-mettere troppo su quel che farai do-mani. La gente a volte appare disillu-sa e pessimista.Io, da parte mia, ho trovato un lavorotemporaneo, guadagnato il mio certifi-cato di lingua, ma non so ancora cosafarò nel mio futuro. In certi momentimi sento così confusa che non so più co-sa stavo cercando. Però non mi sentouna disillusa. Mi porto dentro una po-sitività di fondo, e comincio a crederedi doverla in parte ad un mondo in-certo come il mio, ma dal mio profon-damente diverso, che negli ultimi an-ni ho incontrato spesso e che con il tem-po mi ha insegnato a non arrendermimai. A Nairobi, più precisamente nel-la baraccopoli di Kibera, c’è una cosa chemi ha sempre colpito, più del fango,più delle fogne a cielo aperto, più del-le baracche in lamiera: la voglia di vi-ta che respiri tra le sue strade. La ve-di nella gente che si industria, che fa,che si inventa un’attività qualsiasi purdi non stare con le mani in mano ad at-tendere chissà quale futuro. A Kiberasi vive di lavori temporanei: “kibarua”è la parola swahili che indica il lavorooccasionale. In Kenya tantissime fa-miglie si sostengono con lavoretti diquesto tipo, vendono noccioline all’an-golo di una strada, frittelle calde, gior-nali, roba usata. Ma il lavoro è così oc-casionale che a volte capita che non lotrovi, un giorno ce l’hai ma il giorno do-po no, e a sera torni a casa senza averguadagnato nemmeno un centesimo,con niente da offrire alle bocche che tichiedono cibo. Lì sì che le persone vi-vono una condizione di incertezza con-creta, che non riguarda solo il loro fu-turo e i loro sogni, riguarda la loro stes-sa vita. Eppure proprio loro mi hannoinsegnato che a volte questa incertez-za può darti una spinta meravigliosa,che in alcuni si traduce nella capacitàdi ingegnarsi nel cercare nuove stradeed inventarsi sempre nuovi modi per vi-vere serenamente e con il giusto entu-siasmo; in altri si trasforma nel corag-gio di partire, di rischiare, di buttarsisenza paracadute in un luogo scono-sciuto, solo per la voglia di tentare.Da qualche parte ho letto che l’incer-tezza può creare angoscia solo se nonsi comprende il suo significato creati-vo. Forse se provassimo a vedere que-sto mondo fluido non come una cor-rente che ci trascina chissà dove, ma co-me possibilità di scelte infinite che cirende liberi e sempre in movimento, al-lora forse ogni cosa ci apparirebbe sot-to una luce diversa. Così in questo mon-do incerto forse l’unica cosa saggia dafare è continuare a camminare, conti-nuare a provarci, senza dimenticarechi ci aiuta a guardare le nostre sfidequotidiane secondo la giusta prospet-tiva. Io ad esempio ringrazio costante-mente dentro di me il Kenya e certiposti dell’Africa. Se mi dimenticassi diloro, tutto ciò che mi circonda mi ap-parirebbe molto diverso. Forse tuttomolto più pesante.

*Chiara Avezzano è laureata in coope-razione internazionale all’Università L’O-rientale di Napoli, ha svolto un anno diservizio civile in Tanzania ed è volontariadi Amani dal 2003.

Marisa Baldoni ci ha regalato queste parole per descrivere un incontro da cui sono nate riflessioni e azioni concreteLa vita è meravigliosa - 4 anni fa il Signore mi catapulta dal cielo un ragazzo - Arnoldo -un essere diverso dai tanti individui che avevo conosciuto - mi spalanca le porte dell'im-menso tesoro che è in ognuno di noi - la spiritualità - l'amore per chi soffre - la possibi-lità tua - di chiunque - di poter far sorridere chi è costretto dal destino solo a piangere -i naufraghi che arrivano dall'Africa - i rom che vivono nelle baracche - i tanti schiacciatidagli eventi della vita tanto da rimanere immobili - senza la possibilità di fare un passo -tu con un poco li puoi aiutare - basta poco - basta far sentire loro che li capisci - bastaallungare la mano -

Con l'aiuto di molti abbiamo iniziato a dare la possibilità di studiare ai ragazzi rom predi-sposti allo studio della musica - e poi - e poi - siamo arrivati alla "Fondazione Casa del-lo Spirito e delle Arti" che il 23 aprile 2013 ha dato con l'Orchestra dei Popoli il suo pri-mo concerto - ero in poltrona con amici - ma non ero lì - ero su in alto - vedevo quellecentinaia di persone che riempivano la Sala Verdi del Conservatorio - silenti fissavano quelrettangolo di musica di luci di suoni - di visi splendenti di felicità di tutti quei ragazzi -eravamo tutti una cosa sola - eravamo musica - eravamo umanità - eravamo tutti ugua-li - rom - studenti del Conservatorio - maestri - i piccoli senegalesi - la bambina cinese- filippini - iraniani - brasiliani -

L'anno prossimo chi arriverà? li aspetto con ansia - aspetto voi - tanti altri - non solo peril bene di questi ragazzi - per il bene di chi li ascolterà - proverà quello che provo io nel-l'ascoltarli - nel guardarli.

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Marco Colombaioni ha studiato a Milano, al-l’Accademia di Belle Arti di Brera. Era un pit-tore, soprattutto, innamorato della pittura. L’in-contro con l’Africa, avvenuto nel 2004 duranteun campo di incontro organizzato da Amani, hacambiato profondamente il suo lavoro. L’espe-rienza di Nairobi, delle sue baraccopoli, dei ra-gazzi che ha incontrato e di cui è diventato ami-co, gli ha fatto scoprire un mondo nuovo. Dauna parte c’era l’Accademia, la scuola, il desi-derio di confrontarsi con l’arte, con la sua pas-sione più grande fin da quando era piccolo: lapittura. E poi c’era questa cosa nuova, grandis-sima: l’Africa.Questi due mondi si sarebbero incontrati al-l’improvviso, anzi scontrati, nella prima serie dicinque quadri che chiamiamo “Africani” e il si-gillo dell’incontro avvenne in Accademia, nel-l’aula di Alberto Garutti, dove quei quadri sa-rebbero diventati oggetto di confronto per unadiscussione allargata. Portare l’energia prove-niente dall’Africa nell’arte distruggeva tutte lealchimie, le riflessioni, tutti i “rendere conto a”.Tutto traballava sotto i colpi di inaudite corni-ci zebrate, di animali e persone deformate, mo-struose, venute al mondo di getto, dalla fanta-sia di Colombaioni, ma che in realtà erano den-tro di lui da un pezzo. Tetti come onde di un fiu-me, come squame di un pesce gigantesco e maifermo. E in mezzo l’umanità e il creato, con-giunti di nuovo, deformati, perché inseriti in unmondo dove spazio e tempo non possono esseregli stessi, senza muri oltrepassabili, ondivaghi,persi nel flusso. Quel quadro è Slum, anno 2006,il manifesto di quella tempesta perfetta che ave-va sorpreso Marco Colombaioni nel 2004. Gli al-tri quadri delineano i contorni di un mondo in-tero, nuovo di zecca, appena originato, senzachiare leggi fisiche in grado di regolarlo. Animali,senza vincoli di proporzioni, di grandezza, dipiani, sono i tanti pezzi di un puzzle impossibi-le. È il caso del quadro Animals, dove un cam-pionario di animali africani coloratissimi coesi-stono nella tela, circondati da una cintura ze-brata, irregolare come la pelle di un animale. Isogni ci guidano ma bisogna agire è una te-la alta, una pala che ha una solennità propria,che nasce in questo caso dalla sintesi di pochielementi, simbolici, leggeri, meravigliosi. Non c’è

più una giungla informe, ma una geometriasemplice, ai minimi termini. Due uccellini sopraun fiore nel pieno del suo splendore. Uno volaverso l’alto, l’altro verso il centro del fiore, percoglierne il polline e quindi il nutrimento. In ci-ma a questa scena campeggia la frase in swahi-li: I sogni ci guidano ma bisogna agire. Uno sta-tement breve ma importante, che diventerà par-te del modo di essere artista di Marco Colom-baioni. In questa breve serie di opere appare poi, ina-spettato, un ritratto. Un keniano immerso in unaserie di motivi decorativi è circondato da una cor-nice zebrata e da rami d’albero: tutto intorno inun fondo giallo compatto, due uccelli fantastici,uno di fronte all’altro. Le lunghe code di questecreature mitiche incorniciano ulteriormente ilvolto dell’uomo che guarda dritto negli occhi gliosservatori. Lo sguardo è severo, il volto ta-gliente, asciutto e affatto rassicurante, la boccachiusa. In mezzo a questo paradiso cromatico c’èqualcosa che confligge. Non è un semplice ri-tratto. Non è importante se si tratti o meno diuna persona reale: è quasi una trappola, che at-tira lo spettatore per metterlo davanti a quegliocchi puntati.

L’ultimo quadro della serie si chiama HakunaMatata Isola. Hakuna matata significa “sen-za pensieri”, e nasce dalla collaborazione di Co-lombaioni con l’artista lussemburghese BertTheis, durante il progetto “Isola Art Center” al-la Stecca degli Artigiani di Milano, che si pro-poneva di realizzare una trasformazione delquartiere Isola come espressione degli abitantie dagli artisti. Hakuna Matata Isola coniuga leistanze della lotta del quartiere con l’energia in-controllata di Slum e Animals. Il risultato èun’immagine nuova della città di Milano. Ledue torri della Stazione Garibaldi, landmarkprincipale del quartiere, sono immerse in unagiungla lussureggiante, dove l’assenza dell’uomoè compensata da un brulicare di animali. Come nel quadro I sogni ci guidano ma bi-sogna agire, la composizione della tela è libe-ramente ispirata a quella dei kanga, tessuti pre-senti in ogni aspetto della vita quotidiana del-l’Africa orientale, e che sono appunto caratte-rizzati da una grande cornice decorata e daun’immagine che molto spesso si riferisce ad unevento, o comunque dotata di un contenuto pre-ciso; il kanga è poi completato da una frase inswahili, un motto, una preghiera, un augurio.

Nel 2011 in Via Farini, in un importante spaziono profit di Milano, Colombaioni aveva realizzatoun’opera che prevedeva l’ideazione e la diffusio-ne nel mercato tanzaniano di kanga che conte-nessero delle scritte contro l’omofobia. Proprioquesto lavoro è stato fonte di ispirazione permolti artisti che già avevano collaborato con lui,che partendo dalla sua idea hanno realizzatonuovi kanga che sono stati poi esposti nella suapersonale a Piacenza lo scorso marzo. Inoltre iragazzi del liceo artistico Cassinari di Piacenzasi sono fatti a tal punto coinvolgere dalla perso-nalità e dall’opera di Colombaioni, che loro stes-si hanno realizzato disegni ad essa ispirati, e cheil Museo di Storia Naturale di Piacenza ha de-ciso poi di esporre. Questa inaspettata dirama-zione della mostra si pone in perfetta sintoniacon il lavoro di Marco, che amava lavorare e pro-durre arte con i bambini e i ragazzi, in gradocom’era di comunicare con loro e di stimolarnela creatività e il lato spontaneo.

*Emiliana Sabiu e Matteo Rubbihanno fondato nel2007, insieme a Marco Colombaioni, l’associazioneCherimus, con l’obiettivo di innescare un rapporto nuo-vo fra arte, cultura e piccole realtà locali.

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NewsMarco Colombaioni

di Emiliana Sabiu e Matteo Rubbi*

L’AFRICA

NELL’ARTE

La pittura di Colombaioni distrugge gli stereotipi e crea nuove alchimie

Le opere di Marco Colombaioni sono state esposte al Museo civico di

Storia Naturale di Piacenza, dal 10 marzo al 7 aprile, in una personale

intitolata Marco Colombaioni - Quadri Africani e Kanga.

Il 9 marzo, durante l’inaugurazione – un vero e proprio party ribattez-zato Friends for Kokomanga – il sindaco di Piacenza Paolo Dosi ha con-segnato due borse di studio stanziate dal comune in memoria di Mar-co Colombaioni e George Munyua Gathuru, giovanissimo performing ar-tist del Koinonia Children Team di Nairobi, deceduti nelle acque di Ma-rina di Ravenna il 2 luglio 2011.

In alto: Animals, 2006, acrilico su tela,180 x 160 cm

A sinista: Hakuna Matata Isola, 2007, olio su tela, 210 x 300 cm

UNA MOSTRA A PIACENZA

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6 AMANI

Adolescenti in viaggio Iniziative

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Libia Egitto

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Comore

Seicelle

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Kenya

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Ciad

Somalia

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L’attività dei pirati provenienti dalle coste so-male rischia di costare all’economia mondia-le 18 milioni di dollari l’anno. A renderlo notoè un rapporto della Banca Mondiale che evi-denzia la necessità di tagliare le rete di con-nessioni e supporto, anche a livello politico, dicui i pirati godono sulla terraferma, nelle regionisettentrionali del paese in cui trovano riparo eprotezione. La regione somala considerata la patria dei pi-rati è il Puntland, cioè quella fetta di territorioa nord di Mogadiscio e a sud del Somaliland,la cosiddetta Somalia britannica. Le coste fra-stagliate e la zona senza strade costituita dauna savana semi desertica e poco ospitale han-no favorito l'installarsi di organizzazioni cri-minali che hanno fatto della pirateria una ve-ra e propria economia.Recenti foto da satellite, infatti, mostrano ag-glomerati molto simili a centri urbani, con qual-che strada asfaltata (una rarità in queste re-gioni) e con edifici in muratura. Le stesse fotosatellitari di una quindicina di anni fa mostra-vano una regione depressa, con qualche inse-diamento di povere capanne e senza strade. Èl'economia dei pirati che, probabilmente, haimpiegato i proventi dei sequestri di navi perquesto inaspettato “sviluppo”.

L'economia dei pirati

I cinesi amano fare regali ai dittatori africani. Qua-si sempre sono regali consistenti e spesso per-sonali. In Niger l'ambasciatore di Pechino ha donato ben25 limousine al governo per fare viaggiare i piùalti funzionari dello stato nelle stesse auto usa-te dalla presidenza cinese. Si tratta di limousi-ne fabbricate in Cina e dotate di tutti i comfort. Pechino non ha la necessità di giustificare que-sto tipo di comportamenti alla stampa o all'opi-nione pubblica. Del resto tutti sanno bene chequesto regalo aprirà ad imprese pubbliche e pri-vate molte porte, così i cinesi si guardano benedal criticare il proprio governo. Sanno che i fun-zionari o i ministri nigerini che sfrecceranno perle strade di Niamey a bordo di questi salottiviaggianti saranno quelli che poi decideranno achi assegnare o meno commesse miliardarie. La Cina ha comunque cercato di far passare ildono come un aiuto disinteressato al Niger permigliorare performance diplomatiche, per au-mentare il risparmio energetico e la protezionedell’ambiente. Le limousine, secondo Pechino,avranno un ruolo importante nel miglioramen-to delle condizioni di spostamento dei funzionaria Niamey e aumenteranno le capacità di acco-glienza del governo nigerino.

Un regalo disinteressato?

Il governo di Dakar ha bloccato l’importazione dicipolle dall’estero per favorire la produzione locale.Secondo il Ministero del Commercio, pattuglie dicontrollo sono state posizionate nel porto di Dakarper evitarne il contrabbando. Quest’anno il paeseconta di raggiungere una produzione record di250.000 tonnellate. La domanda di un curioso è inevitabile: ma qualisono i paesi che cercano di conquistare il merca-to delle cipolle del Senegal? Non è dato sapere. Dicerto c'è che i senegalesi sono grandi consuma-tori di cipolle. Questo tubero è presente – e in quan-tità importanti – in tutte le ricette di piatti senega-lesi. Il governo ha tutte le ragioni per cercare di evi-tare l'importazione di cipolle dall'estero ma la pro-duzione interna deve essere sufficiente a soddisfarela domanda. Il Senegal, paese pacifico, con un si-stema democratico funzionante e un multipartiti-smo di vecchia data, senza le cipolle potrebbe ve-ramente rischiare proteste e accaparramenti.

Contrabbando di... cipolle

In Breve

Sud Sudan

S.Tomée Principe

Guinea Eq.

unque: perché lo facciamo?» mi domandò la miaamica Daniela quando le presentai il progetto (oltre ad una espli-cita richiesta di aiuto). La domanda non era per niente scontata.Ci demmo qualche giorno per pensarci e poi, rivedendoci, snoccio-lammo le motivazioni: vorremmo aiutare i giovani a conoscere unafetta di realtà africana “genuina”, trasversale e più completa di quel-la generalmente presentata ai turisti. Vorremmo aiutare Amani.Vorremmo che i ragazzi facessero esperienza delle grandi ricchez-ze africane, che vanno ben oltre lo splendore della natura. Vorremmocontribuire a creare un’idea di Africa che non sia più quella obso-leta e piena di stereotipi che troppi europei ancora hanno. E non èun caso se, quando proponevamo questo tipo di esperienza, in tan-ti ci rispondevano: «studiare inglese in Africa?! In Africa non si vaper studiare inglese, ma per rendersi utili: scavare pozzi, costrui-re scuole…». Ed invece no, andiamo in Africa per imparare, molto più dell’inglese,ma iniziamo da quello. Un programma scolastico di apprendimentodella lingua inglese disegnato sulle proposte dei nostri studenti-viaggiatori. Perché non si possono proporre due settimane di scuo-la canonica alla fine di un anno scolastico italiano: scoraggerebbequalsiasi studente!Così i professori hanno preparato lezioni raccogliendo le nostre esi-genze, domande e curiosità di ogni genere. Il programma ha spa-ziato attraverso usi e costumi, usanze tribali, storia africana, eco-sistema, catena alimentare, economia e lezioni di kiswahili (che fat-te in inglese sono un gran bell’esercizio mentale!). Curiosità di ognitipo sono riuscite a tenere viva l’attenzione in aula. E poi, il po-meriggio, in visita per conoscere realtà diverse: la Casa di Anita,Bomas of Kenya, gli elefanti cuccioli al parco Sheldrick, il GiraffeCenter ma anche il Masai Market e due giorni di safari a Nakuru,sempre coadiuvati dai nostri professori che hanno arricchito con iloro contributi le lezioni nate in aula. Abbiamo conosciuto un pez-zettino di Kibera con il suo degrado, ma anche la ricchezza di per-

sonaggi straordinari, come Jack e i suoi bambini strappati alla stra-da, o Grace che ha puntato la sua vita sul riscatto delle ragazze diGtoG. E poi due pomeriggi di “riposo” in cui ci veniva insegnato pa-zientemente a suonare i tamburi, a cucinare ricette africane ed acreare stampe Batik. Abbiamo giocato con le ragazze di Anita, e cisiamo confrontati con i ragazzi della Domus Mariae, che dopo aver-ci meravigliato con le loro danze tribali, ci hanno raccontato cosaintendono loro per “education” ed il valore altissimo che attribui-scono alla loro istruzione come unica via di riscatto e futuro. Ed an-che questa è una grande scuola per chi viene da un paese dove l’i-struzione obbligatoria è diventata scontata. Abbiamo appreso unafilosofia di vita che ha arricchito tanto la nostra. È chiaro che alla fine del viaggio, se chiedi ad un ragazzo cosa haimparato in queste due settimane, nessuno ti risponde per primacosa “ho migliorato il mio inglese”.Seppur vero, questo è nulla in confronto ai doni che ci ha fatto ilKenya. Ci ha insegnato la dignità e la fierezza, la tenacia, il riscattoe la felicità che prescinde dai mezzi. E quanta differenza può farel’uomo nel suo ambiente; quanto è determinante l’atteggiamentoche riesce a mantenere di fronte a grandi problemi. Cosa alimen-ta la speranza e da cosa viene alimentata. Qualche genitore, pri-ma della partenza, si era raccomandato specificando che la propriafamiglia era atea e temeva che al ragazzo venissero proposte espe-

rienze troppo “cattoliche”. Abbiamo risposto che per noi non era in-teressante la professione di fede. Ed anche questo faceva parte del-la “trasversalità” della nostra proposta. Rispettando per ognuno ilproprio Credo, ci siamo avvicinati a valori universali. I ragazzi chehanno partecipato a questi viaggi sono ragazzi speciali, quasi tut-ti minorenni, hanno vissuto attivamente le proposte con la matu-rità di un adulto che si avvicina ad una realtà sconosciuta. Osser-vando inizialmente in timido silenzio, e rispettando il luogo e la cul-tura in cui si trovavano, si sono dolcemente inseriti nel contesto fa-cendo emergere una curiosità spoglia di pregiudizi. Anch’essi figlidi genitori speciali, animati dalla consapevolezza di quanto possaessere arricchente un’esperienza simile rispetto a tutte le paure cheun viaggio di questo tipo può generare. Al ritorno, in aereo, mi sof-fermo spesso ad osservarli ed ascoltare i loro discorsi: tornano piùgrandi, più sicuri e più ricchi. Ognuno di loro ha dovuto spingersioltre un proprio limite, ha vinto qualche paura, ha ottenuto rispo-ste ed ha la testa piena di nuove domande. Ed io mi sono trovatanella posizione privilegiata di chi, circondata da persone speciali,viveva una esperienza bella e importante.Anche questo lo considero un dono africano.

*Silvy Giulietti è una mamma, una professionista e una volontaria di Amani.Ha accompagnato il gruppo della English Summer School nel 2010 e 2012.

di Silvy Giulietti*

Studiare inglese in AfricaUna English Summer School tra baraccopoli, safari in tenda e cuccioli di elefante

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a cura di Raffaele Masto

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Get Together Girls

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Adozioni a distanza

Perché tutti insiemeL'adozione proposta da Amani non è in-dividuale, cioè di un solo bambino, ma èrivolta all'intero progetto di Kivuli, della Ca-sa di Anita, di Ndugu Mdogo, di Mthunzio delle Scuole Nuba. In questo modo nessuno di loro correràil rischio di rimanere escluso. Insomma"adottare" il progetto di Amani vuol direadottare un gruppo di bambini, garan-tendo loro la possibilità di mangiare, stu-diare e fare scelte costruttive per il futu-ro, sperimentando la sicurezza e l'affet-to di un adulto. E soprattutto adottare unintero progetto vuol dire consentirci dinon limitare l’aiuto ai bambini che vivo-no nel centro di Kivuli, della Casa di Ani-ta, di Ndugu Mdogo, del Mthunzi o che fre-quentano le scuole di Kerker e Kujur Sha-bia, ma di estenderlo anche ad altri pic-coli che chiedono aiuto, o a famiglie in dif-ficoltà, e di spezzare così il percorso cheporta i bambini a diventare bambini di stra-da o, nel caso dei bambini Nuba, di ga-rantire loro il fondamentale diritto all’e-ducazione. Anche un piccolo sostegno economicopermette ai genitori di continuare a far cre-scere i piccoli nell’ambiente più adatto,e cioè la famiglia di origine.In questo modo, inoltre, rispettiamo laprivacy dei bambini evitando di diffondereinformazioni troppo personali sulla sto-ria, a volte terribile, dei nostri piccoli ospi-ti. Pertanto, all'atto dell'adozione, non in-viamo al sostenitore informazioni relati-ve ad un solo bambino, ma materialestampato o video concernente tutti i bam-bini del progetto che si è scelto di so-stenere. Una caratteristica di Amani è quella di af-fidare ogni progetto ed ogni iniziativa sulterritorio africano solo ed esclusivamen-te a persone del luogo. Per questo i re-sponsabili dei progetti di Amani in favoredei bambini di strada sono keniani, zam-biani e sudanesi.

Con l'aiuto di chi sostiene il progetto del-le Adozioni a distanza, annualmente riu-sciamo a coprire le spese di gestione, pa-gando la scuola, i vestiti, gli alimenti e lecure mediche a tutti i bambini.

Info: [email protected]

Come aiutarciPuoi "adottare" i progetti realizzati daAmani con una somma di 30 euro almese (360 euro all'anno): contri-buirai al mantenimento e alla cura ditutti i ragazzi accolti da Kivuli, dallaCasa di Anita, da Ndugu Mdogo, dalMthunzi o dalle Scuole Nuba.

Per effettuare un'adozione a distanzabasta versare una somma sul c/c postale n. 37799202 intestato adAmani Ong - Onlus via Tortona 86 – 20144 Milanoo sul c/c bancario pressoBanca Popolare Etica IBAN IT91 F050 1801 6000 0000 0503010BIC/SWIFT: CCRTIT2T84A

Ti ricordiamo di indicare, oltre al tuo no-me e indirizzo, la causale del versa-mento: "adozione a distanza".Ci consentirai così di inviarti il mate-riale informativo.

AMANI

ontinuando a sognare, credere, fare, siamogià arrivate a festeggiare il terzo compleanno: una tap-pa importante per questo gruppo tutto al femminile!Auguri Get Together Girls: auguri a Grazia “Grace”Orsolato, Monicah, Mary, Esther, Hellen, Irine e a tut-ti coloro che sanno che qualcosa può davvero cambiaree quindi riescono a continuare a sperare.

«La differenza tra un capo bello e uno brutto sta nel-la perfezione delle sue cuciture», così ricorda il mot-to appeso sul muro della sartoria, e nel primo annodi lavoro, tenendo sempre a mente queste parole, leragazze avevano già imparato tanto e in fretta, rag-giunto le passerelle di Westgate e le vetrine di Spin-ners Web nel centro di Nairobi. Oggi, con tre anni dilavoro e perfezionamento, la storia di GtoG, i loro ve-stiti e la speranza di crescere ancora arrivano sino anoi, e le donne italiane possono indossare abiti e accessori che portano in sémolto più di un tessuto africano dai colori inconfondibili, ma anche saporedi sogni, di futuro, di una comunità che vuole cambiare e migliorare.

Dopo alcuni passaggi sulle passerelle di Nairobi, aspettavamo l’arrivo del-le ragazze in Italia per presentarci di persona i loro progressi. Questo viag-gio avrebbe avuto il senso di un trampolino di lancio, le tappe erano già fis-sate, ma i visti d’ingresso non sono stati concessi dall’Ambasciata. Così, anome loro, abbiamo fatto sfilare i colori dell’Africa: prima Bologna e poi Pia-cenza, e dal luglio 2012 i vestiti sono ufficialmente in vendita a Milano nelnegozio Self Made di Roberta Vincenzi (la stilista che ha affiancato Graceall’avvio del progetto). Questa primavera la loro storia è stata raccontata al

vasto pubblico milanese, prima alla fiera Fa’ La Co-sa Giusta e poi alla serata per ricordare Giulio Bian-chi, attraverso la proiezione del documentario di Va-nessa Crocini “Get Together Girls”, che all’Indipen-dent Woman Film Festival di Los Angeles, come a nu-merosi altri festival negli Usa, sta ricevendo premie grande apprezzamento. La loro storia non si ferma:GtoG è stato portato come esempio di speranza nelfuturo e storia concreta di un cambiamento possibi-le a un gruppo di donne rifugiate in Nuova Zelanda.

Io sono stata al fianco di Grace e delle ragazze perquattro mesi, cercando di trasmettere loro le mie co-noscenze sartoriali, condividendo le difficoltà di tut-ti i giorni e riconoscendo insieme i miglioramentifatti e quelli ancora da fare.

Credere in sé stesse prima di tutto e poi nelle capa-cità del gruppo: è stato questo il messaggio più diffi-cile da trasmettere. I primi passi, tenute per mano,li hanno fatti, ma la strada è ripida e sulle colline diNgong s’incontrano salite faticose.

E la vetta, qualunque sia e per quanto faticosa possa essere, sarà comun-que un riscatto per se stesse, per la loro vita e per il loro passato. Così con-tinuo a credere che se i fiori che sono nati in questi tre anni per adesso sem-brano avere ancora steli fragili, col tempo si fortificheranno e diventerannoalberi dal fusto robusto.L’inverno non è finito, i temporali sono sempre improvvisi e in Africa la sta-gione delle piogge è talmente incessante che talvolta scoraggia profondamente;ma poi finisce e le nubi se ne vanno, torna il sereno e la natura rifiorisce piùbella, più ricca e più forte di prima.

*Teresa Giorgi, costumista, è volontaria di Amani dal 2009.

di Teresa Giorgi*

GtoG, cȏ stoffa da vendere

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MARGHERITA CHE GUARDAVA IL MONDO DALLA LUNA

MARGHERITA FERRARIONATA A MILANO L'11 AGOSTO 1982,LAUREATA IN PSICOLOGIA A PADOVA, ERA PARTITAPER LA PRIMA VOLTA PER L'AFRICA CON AMANINEL 2004, DESTINAZIONE IL KIVULI CENTRE DI NAIROBI.NEL 2005 ERA TORNATA IN KENYA ALLA CASA DI ANITA E NEL 2007 IN ZAMBIA, AL MTHUNZI. PER MOLTI ANNI HA COLLABORATO ALLA SELEZIONE E ALLA FORMAZIONE DEI VOLONTARI IN PARTENZA PER I CAMPI DI INCONTRO IN AFRICA.AVEVA 30 ANNI QUANDO CI È STATA STRAPPATA DA UNA MALATTIA, CON LA QUALE HACOMBATTUTO PER UN ANNO E MEZZO, SENZA MAI PERDERE L'ENERGIA DEL SUO SORRISO E LA LUCIDITÀ DEL SUO PENSIERO.

«Eppure guardando il mondo dalla Luna ho im-parato molte cose. Ho imparato che delimitare ilcampo delle possibilità può anche essere un sollievo,che la felicità abita nel presente e nella capacitàdi godere dei momenti preziosi che la vita offre, piùche nel sognare mirabolanti futuri. Ho imparato cheBerlino, Parigi, Barcellona sono senz’altro belle eaffascinanti ma non sono indispensabili, perchél’importante non è dove vivi ma con chi». Marghe-rita ha scritto queste righe l’autunno scorso, e il suoracconto Guardando il mondo dalla Luna si è clas-sificato al terzo posto in un concorso di scrittura.Oggi sta lì, sullo schermo del computer per chi cer-ca le sue tracce on line, insieme al profilo di Face-book, alle mille mail scambiate con gli amici e i com-pagni di viaggio di Amani, e insieme alla foto bel-lissima della sua pagina su Flickr (un portale pergli appassionati di fotografia) in cui Marghe si pre-

sentava così: «Quello che mi piace è avere semprenuovi stimoli. Conoscere il mondo. Per cambiarequalcosa nel mondo eliminerei le disuguaglianzee i pregiudizi». Aveva 24 anni quando si descrive-va con queste parole. Ne aveva soltanto 30 quan-do ci ha lasciati, e sei anni di vita, lavoro, routine,quotidianità non l’avevano cambiata, non erano an-cora riusciti a scalfire (e con persone come lei sia-mo convinti che non ci sarebbero riusciti mai) quel-la magia di trasparenza, entusiasmo e fiducia nelprossimo che troppo spesso rischia di essere fret-tolosamente etichettata come ingenuità. Bastavaavere la fortuna di approfondire un poco la cono-scenza di Margherita Ferrario per capire quantasolidità e quanta maturità potessero stare in un sor-riso così aperto e contagioso. Di lei vogliamo conservare indelebile il ricordo diuno sguardo limpido, curioso sul mondo, attento al-le sfumature, che probabilmente era il risultato diuna predisposizione naturale all’empatia e alla co-struzione di rapporti profondi con gli altri, oltre chedi anni di studi in psicologia. E poi… E poi c’è Mar-ghe in piedi su un water, in Zambia al Mthunzi, cheurla di paura davanti a un topolino. E Marghe chesi presenta a un gruppo di ragazzini africani conun candido e improbabile: «My name is Margheri-ta, the most famous pizza in Italy». E ancora c’è l’im-magine di lei in guantoni da boxe, con le guancearrossate dalla fatica, dal divertimento e forse an-che un po’ dalla vergogna, mentre cerca di tirareun destro e un sinistro sotto un albero di jacaran-da. Il destro non era poi male, ma su un ring pro-prio non ce la si poteva immaginare. Alzi la manochi non ha un ricordo buffo di Marghe. E poi alzila mano chi non si è mai ritrovato impegnato in undiscorso serissimo con lei, magari all’una di notte,quando gli altri campisti dormono, o alle tre del po-meriggio sotto il sole a picco davanti a una parti-ta di calcio in puro african style, o ancora tra Mi-

lano e Pavia dove Marghe, sempre curiosa, batta-gliera e innamorata della vita, si impegnava per ilreferendum contro la privatizzazione dell’acqua, perpromuovere la petizione per rendere ciclabili gli ar-gini del Po o per qualche nuova azione destruttu-rante contro la discriminazione. Tra tutti i fiori leinon poteva che chiamarsi così, Margherita. Un pe-talo per ciascuno di noi, da portare nel cuore persempre.

*Raffaella Ciceri, giornalista di Lodi, è volontaria diAmani dal 2007, quando ha passato l’estate al Mthunzi Cen-tre insieme a Margherita.

IN RICORDO DI UNA NOSTRA AMICA

di Raffaella Ciceri*

Margherita con Joseph, detto “Manona”, al MthunziCentre durante il campo di incontro 2007

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Page 8: 2013 maggio

Chi siamoAmani è un’associazione non profit che si impegna per affermare il dirittodei bambini e dei giovani ad avere un’identità, una casa protetta, cibo, istru-zione, salute e l’affetto di un adulto.

Dal 1995 abbiamo istituito e sosteniamo case di accoglienza, centri educati-vi, scolastici e professionali in Kenya, Zambia e Sudan. Da allora offriamoogni giorno opportunità e alternative concrete a migliaia di bambini e bam-bine costretti a vivere sulla strada nelle grandi metropoli, nelle zone ruralie di guerra.

Amani ha carattere laico, apolitico e indipendente. Organizzazione non Go-vernativa riconosciuta dal Ministero degli Affari Esteri, ha sede legale a Mi-lano e gruppi locali attivi in diverse città italiane.

Collaboriamo con scuole, associazioni, enti pubblici e privati, parrocchie, am-ministrazioni locali, fondazioni e imprese.

In Italia Amani organizza iniziative e incontri culturali, di informazione eapprofondimento. Ogni anno offriamo la possibilità di partecipare a campidi incontro in Kenya e in Zambia a gruppi organizzati, giovani volontari efamiglie che desiderano conoscere in prima persona la realtà africana e vi-vere un periodo di condivisione con la comunità locale.

Come contattarciAmani Ong - OnlusOrganizzazione non governativa e Organizzazione non lucrativa di uti-lità sociale

Via Tortona, 86 - 20144 Milano - ItaliaTel. +39 02 48951149 - Fax +39 02 [email protected] - www.amaniforafrica.it

Come aiutarciBasta versare una somma sul c/c postale n. 37799202 intestato ad Amani Ong - Onlus - Via Tortona 86 - 20144 Milano, o sul c/c bancario presso Banca Popolare Etica IBAN IT91 F050 1801 6000 0000 0503 010BIC/SWIFT: CCRTIT2T84ANel caso dell'adozione a distanza è previsto un versamento di 30 euro almese per almeno un anno. Ricordiamo inoltre di scrivere sempre la causale del versamento e il vostroindirizzo completo.

Dona il 5x1000 ad Amani: basta la tua firma e il codicefiscale di Amani (97179120155)

Le offerte ad Amani sono deducibiliI benefici fiscali per erogazioni a favore di Amani possono essereconseguiti con le seguenti possibilità:

1. Deducibilità ai sensi della legge 80/2005 dell’importo delle donazioni (so-lo per quelle effettuate successivamente al 16.03.2005) con un massimodi 70.000 euro oppure del 10% del reddito imponibile fino ad un massimodi 70.000 euro sia per le imprese che per le persone fisiche.in alternativa:2. Deducibilità ai sensi del DPR 917/86 a favore di ONG per donazioni de-stinate a Paesi in via di Sviluppo. Deduzione nella misura massima del2% del reddito imponibile sia per le imprese che per le persone fisiche.3. Detraibilità ai sensi del D.Lgs. 460/97 per erogazioni liberali a favoredi ONLUS, nella misura del 24% per un importo non superiore a euro2.065,83 per le persone fisiche; per le imprese per un importo massimo dieuro 2.065,83 o del 2% del reddito di impresa dichiarato.Ai fini della dichiarazione fiscale è necessario scrivere sempre ONG - ONLUSdopo AMANI nell'intestazione e conservare:- per i versamenti con bollettino postale: ricevuta di versamento;- per i bonifici o assegni bancari: estratto conto della banca ed eventualinote contabili.

Iscriviti ad Amaninews Amaninews è la newsletter di informazione e approfondimento di Amani:tiene informati gli iscritti sulle nostre iniziative, diffonde i nostri comu-nicati stampa, rende pubbliche le nostre attività. Per iscriverti ad Amaninews invia un messaggio a:[email protected]

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Iniziative

Editore: Associazione Amani Ong-Onlus, via Tortona 86 - 20144 MilanoDirettore responsabile: Pietro Veronese Coordinatore: Gloria FragaliProgetto grafico e impaginazione: Ergonarte, MilanoStampa: Grafiche Riga srl, via Repubblica 9, 23841 Annone Brianza (LC)Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale Civile e Penale di Milanon. 596 in data 22.10.2001

AMANI

Porta il tuo cuore in AfricaAMANI

DONA IL TUO 5x1000 AD AMANIbasta la tua firma e il nostro codice fiscale:

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Un viaggio che non ti aspetti nel futuro dell’AfricaParti con noi. Ti aspettiamo all’aeroporto di Nairobi per accompagnarti passo dopo passo neiluoghi in cui, grazie al tuo aiuto, manteniamo la promessa di futuro fatta a moltissime persone.E poi alla scoperta di luoghi unici e attraenti: i parchi nazionali, il Monte Kenya, il Kilimangia-ro, le spiagge bianche dell’Oceano Indiano. Sempre in contatto diretto con la comunità locale.

Info: Gloria Fragali - Manuela Scalera - 02 48951149 - [email protected]

BUONI MOTIVI PER FIRMAREI è un gesto che non ti costa nulla: non modifica l’importo dell’Irpef dovuta

I è semplice: basta apporre una firma nell’apposito riquadro del modello integrativo del CUD,del 730 o del Modello Unico e scrivere il codice fiscale di AMANI 97179120155

I è una libera scelta che non esclude la possibilità di donare l’8x1000 alla Chiesa Cattolicao ad altre confessioni religiose

I è un’opportunità concreta ed efficace: la tua firma genera un aiuto che arriverà lontano

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