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Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 51 del 20/11/2013 Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 0 Edizione nr. 51 del 20/11/2013 Iscrizione presso il Tribunale di Padova n. 2187 del 17/08/2009 www.riflessionline.it

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Edizione nr. 51 del 20/11/2013

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I N D I C E

CARLO E IRENE pag. 2

Luigi la Gloria

A PADOVA L’ORTO DEI SEMPLICI DEL FUTURO: LA BIODIVERSITÀ VEGETALE COME DIKTAT PER LA SALVEZZA DELLA TERRA

pag. 6

Anna Valerio

QUANDO LA VITA NON BASTA: LE FINZIONI LETTERARIE DI FERNANDO PESSOA

pag. 11

Piera Melone

“TIPI DA NON FREQUENTARE” UN LIBRO DI ANNALISA BRUNI pag. 16

Cesare Granati

DESIGN DAL CARATTERE ITALIANO: I “PERSONAGGI D’ARREDO” DI VICO MAGISTRETTI

pag. 18

Alice Fasano

INCONTRI CON L’ARTE. QUATTRO OPERE NARRATE: GIANFRANCO MORELLO

pag. 27

Luigi la Gloria

PAOLO CAMPORESE: IL PLASTICISMO IRONICO-DINAMICO DEI PENSIERI pag. 32

Maria Palladino

LA CRISI ECONOMICA E LA MANCANZA DI LIQUIDITÀ pag. 34

Luca Caffa

VERSO MONET: STORIA DEL PAESAGGIO DAL SEICENTO AL NOVECENTO pag. 37

L’ENIGMA ESCHER. PARADOSSI GRAFICI TRA ARTE E GEOMETRIA pag. 40

IL MAPPAMONDO DI FRÀ MAURO pag. 43

A FERRARA ZURBARAN E IL GRANDE SEICENTO FERRARESE pag. 45

LE IMMAGINI DELLA FANTASIA 31 MOSTRA INTERNAZIONALE D’ILLUSTRAZIONE PER L’INFANZIA

pag. 47

SANGUE DI DRAGO SQUAME DI SERPENTE pag. 49

MIRA CUBA pag. 51

GERO QUA CANALETTO pag. 53

Direttore Responsabile Luigi la Gloria

[email protected]

Vice Direttore Anna Valerio

[email protected]

Grafica e Impaginazione Claudio Gori [email protected]

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C A R L O E I R E N E

Luigi la Gloria

La lunga storia di Carlo e Irene era cominciata con il progetto di nozze tra i loro due figli. E certamente non c’è da stupirsi se, in tanta tempesta, quel matrimonio naufragasse già ai primi soffi di vento contrario e cioè quando Irene tentò di dare man forte alle ultime resistenze longobarde in Italia e contemporaneamente brigò per mettere in moto l’apparato di Nicea. Vi chiederete di chi stiamo parlando… Ma di Irene, imperatrice di Bisanzio, e di Carlo Magno, re dei Franchi. Correva l’anno 780 quando Leone IV, imperatore d’Oriente, venne a morte. La sua vedova, Irene, gli

succedette come reggente e, temendo una qualche congiura, evento non certo raro in quella corte d’Oriente, pensò di procurarsi un alleato forte al quale ricorrere in caso di necessità. Il re dei Franchi possedeva un esercito invitto e si avviava a completare la conquista dell’Europa. Insomma era l’uomo più potente del mondo occidentale. L’idea di maritare la figlia con il futuro imperatore d’Oriente dovette in qualche modo allettare il re dei Franchi benché fosse notoria la sua forte gelosia per le figlie alle quali negava puntualmente il permesso di matrimonio ad ogni richiesta da parte dei pretendenti. Le trattative, benché fossero, nel contenuto, semplici affari diplomatici che nella maggior parte dei casi servivano solo a prendere tempo, furono comunque motivo di avvicinamento tra due potenti imperi. Questa sorta di alleanza prematrimoniale serviva infatti ad Irene come deterrente verso i fratelli del marito che tramavano nell’ombra per usurpare il trono al nipote Costantino e, allo stesso tempo, dava prestigio all’immagine di Carlo che in quegli anni era in piena ascesa politico-militare. Ma i contrasti scaturiti dal concilio di Nicea crearono una brusca sterzata nella politica estera di Irene, producendo una frattura apparentemente insanabile. I dignitari bizantini, che avevano avuto l’incarico di istruire la giovane Rotruda ai suoi doveri di imperatrice, batterono rapidamente in ritirata alle prime avvisaglie dell’uragano. Erano stati ospiti della corte franca per sei anni: tanto era durata la fragile armonia tra Carlo e Irene così come impalpabile fu anche il conflitto tra di loro che durò su per giù altrettanto prima di placarsi. Le linee di quel rapporto rimasero sempre capricciose e incostanti, potremo dire di natura femminile non soltanto per il temperamento di donna Irene, ma anche per l’animo con cui Carlo stesso intendeva quel singolare duello di poteri, durante il quale, anche nei momenti di contrasto più accaniti, non riusciva a dimenticare che aveva per avversario una femmina bella e astuta. Si pensi che a quel tempo la donna, se non era madre amorevole e preveggente di un santo oppure monaca, era considerata tendenzialmente una figura subdola, preda costante dei sensi e di una scatenata emotività, destinata a corrompere gli uomini allettandoli con i piaceri della carne. Dunque attrazione e odio, ira e accondiscendenza, desiderio di vendetta e di pace; i medesimi passaggi, gli stessi contrasti di una relazione sentimentale. Relazione che in realtà non ci fu, anche perché i due non si incontrarono mai, nè Carlo vide mai il volto di questa rivale tanto sospirata. Relazione che restò librata sulle ali del tempo, senza

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giungere a coronamento ma neppure scomparire, come il volo di un uccello volubile ed esitante incerto se gettarsi sulla preda e, allo stesso tempo, timoroso di esserne a sua volta ghermito. Sono assai strane le vie di sentimenti così inafferrabili che percorrono l’esistenza di chi li vive come l’alito di vento che entra in una vallata. Fu la tragedia del potere a riavvicinare Carlo e Irene, la lotta che entrambi dovettero affrontare per non essere cacciati dal trono proprio dalle creature che avevano generato. Due storie parallele, anche se assai diverse nella ragione dell’usurpazione, poiché, nel caso di Irene, la legittimità stava dalla parte del figlio mentre, nel caso di Carlo, stava dalla sua. Ma dissimili riguardo al loro corso e alla durezza della repressione, che fu esercitata in modo molto più crudele dalla Signora di Bisanzio mentre da Carlo fu vissuta con senso d’amarezza e in forma più umana. Le due sventurate vicende cominciarono nella famiglia franca ed ebbero per protagonista il primo degli ormai numerosi figli di Carlo Magno, quell’infermo e sgraziato erede che egli ebbe dalla sposa dei suoi anni giovanili, Imiltrude, quando ancora la corona reale cingeva la testa di suo padre, Pipino il Breve. E proprio di suo padre gli aveva dato il nome in omaggio alla continuità delle generazioni. Ma il bimbo era afflitto dalla deformità con la quale era nato tanto che tutti lo chiamavano Pipino il Gobbo. Nonostante fosse il primogenito, e la primogenitura venisse considerata una scelta di

Dio, l’anormalità fisica lo escluse dalla successione. Il giovane visse sempre a corte come un isolato, confinato nelle stanze più lontane, senza onori nè speranze. Quando vennero al mondo gli altri fratelli, in realtà fratellastri perché figli di altre madri, i favori e le attenzioni si riversarono su di loro e da lui ci si allontanò ancora di più. Ad uno dei figli di Ildegarda, terza moglie di Carlo, fu dato persino il suo nome infatti fu battezzato in Laterano dal Papa Adriano IV con il nome di Pipino e nominato re dell’Italia longobarda fin dai suoi primi anni di vita. E agli altri maschi, nati da quel matrimonio, toccarono i titoli più insigni, corone di re e di duchi con onori e benefici. Mentre Pipino il Gobbo, più anziano di tutti loro, non aveva ricevuto nemmeno la distinzione di conte. La sua era una vita in ombra, tormentata da scherni e da umiliazioni. A parte la deformità, egli era assai bello di viso e, dicono i cronisti, anche molto avveduto, sveglio di mente, con l’acutezza e la sensibilità di chi è condannato dalla sorte e porta in sè lo spirito di rivolta contro le iniquità della vita che facilmente si tramutano in sentimento di ingiustizia verso chi gli nega diritti forse impossibili da ottenere. Carlo era un sovrano potente, certamente amato, anche se non sempre da tutti con la stessa fedeltà. In particolare non dalla nobiltà del suo vasto dominio, nella quale era rimasta la nostalgia della spartizione, quando una parte del regno franco era governata dal fratello di Carlo, Carlomanno, i cui territori alla sua morte prematura Carlo Magno si annesse. Carlo aveva in quella occasione annientato rapidamente ogni opposizione, imponendosi con autorità come unico detentore del potere. Indubbiamente vi era molto dispotismo il lui in quanto quello, considerando la legittimità dei diritti, poteva essere considerato un atto di usurpazione nei confronti degli eredi del fratello difficile da cancellare nell’animo di coloro che si erano sentiti privati della speranza di privilegi e ricchezze. Gli storici più attenti e meno trasportati dai tratti mitici e celebrativi della vita di Carlo hanno messo l’accento sul dispotismo, spesso pesante e spregiudicato, del suo governo. Nel 785 e 788 vi erano già state congiure contro di lui. La prima nelle regioni orientali della Germania, proprio nei territori che, al tempo della divisione, erano toccati al fratello e l’altra in Baviera, entrambe soffocate nel sangue.

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Proprio mentre, nel 792, sedava altri disordini nelle steppe danubiane scoppiò il dramma del figlio deforme. Questa volta non era soltanto un problema della periferia che cercava di scrollarsi di dosso il peso del potere centrale. Pipino il Gobbo portava la minaccia direttamente contro il trono anche se lui rappresentava soltanto lo strumento di ambizioni e vendette che serpeggiavano alla corte di Carlo che avevano trovato, nei rancori di quel figlio insoddisfatto, il punto di aggancio più avanzato. L’anima del complotto era infatti il conte Teodaldo, nobile palatino, che in verità aveva intrigato con molta scaltrezza e senza sollevare sospetti mentre Carlo Magno era lontano, nelle pianure della Pannonia. Ma un monaco, saputo della congiura, si recò da Carlo a riferire ciò che accadeva a corte. Carlo Magno ne rimase impietrito: il tradimento di un figlio era una grave sciagura; per lui, che si considerava il paldino della cristianità, quella triste storia rappresentava qualcosa di deprecabile e funesto che spezzava perfino la solidità della sua morale. Tuttavia non ebbe il coraggio di decretare la morte del figlio. Lo fece relegare nell’abbazia di Prüm, monaco per forza tra le selve dell’Eifel, come in una lunga sepoltura. La parallela tragedia del figlio di Irene, che sopravvenne in quegli stessi anni, fu invece a ruoli rovesciati. Era Costantino, il figlio, ad avere diritto al trono ed era la madre, Irene, l’usurpatrice che si rifiutò di cedere le insegne del comando quando Costantino ebbe raggiunto la maggiore età. Anche a Bisanzio si formarono due partiti in favore dell’uno e dell’altra, acerrimi e spietati nemici tra loro. Era in gioco la carica di Imperatore che significava un potere immenso. Le fazioni erano scatenate più per interesse che per fedeltà. I fratelli del defunto Imperatore, che aveva lasciato vedova Irene, questa volta si schierarono con lei, mentre i generali dell’esercito, in Asia Minore, proclamarono sovrano Costantino. Il figlio cacciò la madre da Bisanzio e fece mozzare la lingua ai fratelli del padre. Molta crudeltà e molto sangue segnarono la violenza delle vendette. Gli animi erano ottenebrati dall’odio e, poiché Irene era più fredda, più risoluta e più spietata, la vittoria finale fu sua. Il 15 di agosto del 797, quando il sole d’estate era più alto, Costantino fu trascinato in catene nel palazzo sul Bosforo, portato al cospetto della madre e, per suo ordine, privato della vista poiché negli occhi gli furono conficcati due ferri roventi. Un’altra eterna sepoltura, assai più feroce di quella che Carlo aveva inflitto a suo figlio. Bisanzio aveva molti secoli di civiltà alle spalle e la raffinatezza, si sa, può raggiungere livelli di spietatezza molto maggiori della barbarie. Quando Carlo Magno ebbe notizia di quel delitto rimase turbato. Il principe, accecato dalla propria madre, era stato lo sposo promesso di sua figlia Rotruda. La ruota del mondo, la sorte degli uomini, gira di continuo e imbocca svolte sempre nuove e imprevedibili congenerando grande instabilità per il futuro. Solo le leggi del potere restavano ferme come ancore nel mare tempestoso. C’era chi doveva inesorabilmente applicarle e chi doveva altrettanto inesorabilmente subirle. Carlo e Irene appartenevano alla prima esigua schiera. E la loro vita, accanto ai brividi del comando, non poteva non essere piena di mestizia, violenze, tradimenti e di ineluttabili vendette. Carlo comparava il dramma di Irene al suo, all’animo con cui aveva dovuto decidere la clausura perpetua del figlio; il suo non doveva essere stato molto dissimile da quello che aveva portato Irene a far accecare Costantino. Carlo tendeva più a soffermarsi sull’eguaglianza di entrambi nella sventura che non su sentimenti di pietà nei confronti del destino dei figli. E poiché, grazie a quei crudeli travagli, sia il potere di Carlo che quello di Irene si erano rafforzati, egli si sentiva più portato a tenere in considerazione questa ultima realtà, così come gli scampati da un naufragio non pensano più a coloro che sono periti e all’orrore della loro morte ma al miglior modo di riprendere la navigazione, se possibile, con maggior sicurezza.

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Anche lo sguardo all’orizzonte di Irene, dopo la tempesta, doveva essere il medesimo, se subito cercò di ristabilire buoni rapporti con Carlo. Si sa… la politica è l’arte del dimenticare, un dimenticare scambievole poiché presuppone che anche gli altri dimentichino. Ecco che gli ambasciatori ricominciarono a fare la spola tra Bisanzio e il Reno con doni e proposte. Da entrambi desiderata e necessaria, la nuova pace fu sottoscritta nel 798. La parte più debole, che era quella di Irene, accettò senza troppo discutere le condizioni più dure che, in pratica, si riducevano a riconoscere lo status quo per la semplice ragione che non si era in grado di mutarlo. Con quali forze Bisanzio avrebbe potuto mai scacciare i Franchi dal principato di Benevento o dall’Istria? Nel nuovo trattato quei territori erano dichiarati parte del Regno d’Italia sotto la sovranità di Carlo Magno. Ed egli, dal canto suo, si impegnava a rispettare il dominio bizantino in Croazia, in Sicilia e in Calabria, nella terra d’Otranto, a Napoli ed Amalfi; a tanto si era ridotto il potere bizantino in occidente! Era il trionfo di Carlo Magno, l’onore delle armi reso alla sua vittoria, alla sua ostinata volontà, alla fiducia che aveva nei valori anche morali della conquista e, al di sopra di ogni altra cosa, in se stesso. Era questo il momento della tregua, quell’interludio un po’ svagato nella pausa che segue tanto le ore del conflitto quanto quelle dell’amore. Due stati d’animo che continuavano a procedere intrecciati nell’atteggiamento di Carlo verso la rivale di Bisanzio. La donna vinta era diventata più dolce, come è sempre accaduto e come sarebbe stato sempre. Ci sorprenderemmo forse quando, un poco più avanti in questa storia, si parlerà di matrimonio tra il Re dalla spada invincibile e l’Imperatrice dalle vesti color pesca? Anche il passato ha il suo passato. Carlo e Irene invecchiavano. Il tempo passò e Carlo, in quel fatidico Natale dell’anno 800, venne incoronato Imperatore dei romani dal papa Leone III e ricominciò l’intreccio. Nei primissimi anni del nuovo secolo, vi fu un continuo andirivieni di messi e ambasciatori tra Bisanzio e Aquisgrana. Bisanzio temeva la frattura con l’Occidente, una separazione troppo somigliante ad un isolamento mentre le sue fragili forze erano assediate dagli Arabi e dagli Slavi. Irene, scaltra e flessibile nelle tempeste, tentava ora di ricavare il consolidamento di un’alleanza. L’avversario, troppo potente per contare di sconfiggerlo, può essere catturato con le arti dell’amicizia e così la sua forza, non più minaccia, diventare sostegno. Non sappiamo questa esca quanto fosse invitante ma Irene certamente lo doveva sapere. I suoi doni riempivano Aquisgrana: i damaschi, gli incensi, gli argenti traforati e leggeri come piuma. E da queste lievi intimità ecco spuntare una domanda, sussurrata da bocca a orecchio nei colloqui privati: perché non pensare a Carlo ed Irene come consorti? Carlo era vedovo da qualche anno. Irene era sola. Avevano entrambi l’età dell’autunno, ma ancora il calore del tramonto. Carlo di poco oltre i sessanta, Irene appena al di qua dei cinquanta. L’amore, se anche di questo si fosse voluto parlare, poteva non essere condannato dalla politica. Sarebbe venuto meno il pericolo di conflitti tra occidente ed oriente e l’unità dell’Impero, che l’incoronazione di San Pietro aveva spezzato, si sarebbe così ricomposta nell’unione di due sposi con qualche filo d’avorio nelle chiome. Ma il destino non volle questo. Poco dopo l’arrivo dei messi di Carlo nel palazzo d’Oriente sul Bosforo, dove dimoravano Irene e la sua corte, scoppiò una rivolta sanguinosa. Irene fu deposta e relegata in un convento nell’isola di Lesbo. Non era donna da sopportare la sconfitta e, dopo breve tempo, morì nella sua prigione. Carlo dunque era giunto assai vicino al frutto dei suoi segreti desideri ma il destino gli fece mancare la sposa all’appuntamento e questa volta fu per sempre. L’imperatore restava solo.

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A P A D O V A L ’ O R T O D E I S E M P L I C I D E L F U T U R O : L A

B I O D I V E R S I T À V E G E T A L E C O M E D I K T A T P E R L A

S A L V E Z Z A D E L L A T E R R A Anna Valerio

“L'Orto botanico di Padova è all'origine di tutti gli orti botanici del mondo e rappresenta la culla della scienza, degli scambi scientifici e della comprensione delle relazioni tra natura e cultura. Ha largamente contribuito al progresso di numerose discipline scientifiche moderne, in particolare la botanica, la medicina, la chimica, l'ecologia e la farmacia”. Questa la motivazione con la quale, nel 1997, l’Orto è stato inserito dall'UNESCO nella lista dei Patrimoni dell'umanità. Era nato nel 1545 su richiesta di Francesco Bonafede, incaricato nel 1543 di insegnare "lectura simplicium " all'Università di Padova. La sua ragion d’essere era quella appunto di un "giardino dei semplici", quindi un luogo dove coltivare, con fini sia terapeutici che di studio, quante più piante medicinali possibile che all’epoca costituivano la grande maggioranza dei “semplici”, cioè quei medicamenti che provenivano direttamente dalla natura. Nell’ambito dello Studio Patavino si prefiggeva anche il nobile scopo di facilitare l'apprendimento ed il riconoscimento delle piante da parte dei suoi studenti; allora infatti sussistevano ancora molte incertezze sull’identificazione di varie piante descritte dagli antichi medici greci, latini e arabi pertanto erano frequenti gli errori in buonafede per impiego terapeutico scorretto con il conseguente mancato risultato o addirittura il danno. La Serenissima, sempre lungimirante nelle sue scelte, ne approvava la costituzione per decreto e dava subito inizio ai lavori che vedevano già soli due anni dopo, grazie alla direzione del primo custode dell’Orto, il Prefetto Luigi Squalermo, detto Anguillara, la presenza di quasi 2000 specie officinali. In seguito verranno aggiunte specie arboree e ornamentali nonché erbari di cui il più illustre risale al 1551 ad opera di Pier Antonio Michiel che contribuirà anche a modificare il progetto iniziale di Daniele Barbaro della struttura architettonica dell’orto.

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Ciò che noi oggi possiamo ammirare è sostanzialmente la disposizione originaria: un quadrato inscritto in un cerchio che ricorda la tipica forma del giardino medievale di monasteri e conventi: l’hortus conclusus, un luogo protetto e lontano dal mondo dove gli asceti potevano meditare e raggiungere la conoscenza contemplativa. Una zona verde, di solito non molto vasta, circondata da mura piuttosto alte, dove i monaci coltivavano piante e alberi a scopo alimentare e medicinale ma era anche un luogo di conforto per vivere la propria interiorità e cercare la pace. La forma quadrangolare simboleggiava i quattro angoli dell'Universo, il cerchio la continuità della Vita mentre al centro si trovava spesso un pozzo o una fonte a ricordare la sorgente della Conoscenza.

Attualmente l’Orto di Padova copre una superficie di quasi 22 000 metri quadrati e contiene oltre 6000 piante coltivate. La struttura fu presto circondata da un muro circolare che, all’epoca, aveva anche la funzione, per la rarità delle specie contenute e il prezzo dei medicamenti da esse ricavati, di proteggere le piante officinali da furti. Ecco la ragione delle altre denominazioni con le quali è conosciuto: Hortus Sphaericus, Cinctus, Conclusus. All'interno della cinta, lo spazio del quadrato inscritto nel cerchio è suddiviso in quattro spalti (detti così perché originariamente sopraelevati di circa 70 cm rispetto ai viali) a loro volta frazionati in aiuole disposte in modo da formare eleganti disegni geometrici, tutti diversi, dove trovano posto piante officinali e velenose, carnivore, succulente, acquatiche, alpine, mediterranee e tipiche del triveneto. Ogni zona è tematica e, al centro della struttura, c’è una vasca per le piante acquatiche alimentata da una vena d'acqua calda proveniente da una falda posta a quasi trecento metri sotto il livello dell'orto. Da allora, dalla sua fondazione, l'Orto di Padova ha sempre rappresentato per la città e per la sua Università, un luogo di riferimento.

Oggi, al giardino botanico più antico del mondo, è stata aggiunta una componente nuova: una sezione giovane che vuole essere altrettanto innovativa almeno quanto lo è stata, 500 anni fa, l’idea che ispirò Bonafede. Ha l’aspetto di un’enorme scatola di vetro, alimentata da sole energie rinnovabili, che si eleva da una spianata verde inframmezzata da vasche con splendide ninfee.

Tutto ha inizio nel maggio 2002 quando il vicino Collegio Antonianum decide di vendere gran parte dei suoi terreni che vengono acquistati dall'Università allo scopo di ampliare gli spazi dell’antico orto botanico. Si parla di circa 15 000 metri quadri dove appunto trova spazio il nuovo progetto che, in qualche modo, soprattutto per contrasto, cercherà di armonizzarsi con la vecchia struttura. Come spesso accade negli antichi giardini, è l’acqua che unisce e divide infatti, oltre la porta sud della parte antica, di là di un ponticello che oltrepassa il canale Alicorno, si apre la spianata che subito offre una nuova prospettiva sulle vicine basiliche di Sant'Antonio e Santa Giustina, recuperando la funzione originale della struttura che, nel rinascimento, era del tutto integrata nel tessuto urbano.

Sulla sinistra, come una quinta d’eccezione, la grande struttura in acciaio e vetro nella quale un sistema computerizzato regola temperatura, umidità e luce. Ci sono voluti 3 anni di progettazione e 8 per realizzare questo edificio avveniristico con pannelli fotovoltaici che lasciano anche passare la luce, posti sul tetto che si estende per ben 4000 metri quadri per il quale è stato usato un materiale assolutamente rivoluzionario: l’ETFE (Etilene Tetrafluoro Etilene), materiale plastico polimerico parzialmente florurato, ben noto alla Nasa, progettato per avere un'alta resistenza alla corrosione in un ampio spettro di temperature, usato anche, per esempio, per la copertura del Centro Acquatico Nazionale di Pechino che abbiamo visto in occasione delle recenti olimpiadi. Si mostra come una plastica trasparente, più leggera e più resistente del vetro ma, rispetto al vetro, più isolante e più semplice ed

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economica da installare; inoltre è leggerissima (4 kg ogni mq) e, a guardarla, sembra che il tetto non ci sia.

Oggi come allora: armonia, innovazione, perfezione.

E all’interno, in un’ideale sezione del globo terrestre, collegate da un corridoio a pettine lungo 100 metri e alto 18, si susseguono 5 serre: cinque diversi ambienti terrestri, da quello tropicale all’artico. Un viaggio tra esemplari di piante rare raccolte qui per essere studiate e salvate dal rischio di estinzione. Piante arrivate da tutto il mondo. Così, a fianco della parte storica voluta nel 1545 per studiare i principi curativi delle piante che vanta oltre 6000 specie presenti, oggi 1300 nuove specie nel giardino delle biodiversità sorto dove un tempo si estendevano gli orti dei monaci benedettini di Santa Giustina. L’ambizione del progettista, l’architetto Giorgio Strappazzon “è di educare il pubblico diventando vetrina delle biodiversità, riproponendo in chiave moderna la forma di orto antico nella sua essenza rinascimentale”.

Allora fu senz’altro un lampo di genio ideare l’orto dei semplici per conservare le specie vegetali usate in medicina, unici rimedi del tempo. Oggi la spinta si tinge di connotazioni più umanistiche e allo stesso tempo futuristiche. Lo scopo nobile di questa idea, al di là dell’aspetto didattico ed educativo per le generazioni future così come per noi tutti, è infatti la conservazione della biodiversità non solo attraverso la banca dei semi (germoplasma) delle varie specie, ma anche con il ricreare gli ambienti idonei alla loro sopravvivenza. Biodiversità che è intesa come varietà di forme di vita e diversità delle specie, dei loro patrimoni genetici e degli habitat di cui fanno parte. Un’esigenza, questa, che, fortunatamente, si sente con sempre maggiore forza fino da quel lontano 1992 quando a Rio de Janeiro fu firmata la “Convenzione sulla diversità biologica”, con lo scopo di preservare e tutelare la biodiversità del nostro pianeta. Allora i Paesi firmatari furono 192, mancano infatti all’appello alcuni come gli Stati Uniti d'America, Andorra, Vaticano e Somalia.

Quando si parla di biodiversità con che numeri si ha a che fare? Ad una domanda apparentemente così semplice oggi non siamo in grado di dare una risposta. Addirittura non è nemmeno noto con esattezza il numero di specie vegetali conosciute, cioè quelle a cui è stato assegnato un nome e che sono state catalogate e registrate, poiché non esiste una lista standardizzata e riconosciuta a livello mondiale. Secondo le migliori stime tale numero risulta essere pari a circa 370.000. Questa varietà così grande non è distribuita equamente sul pianeta ma è notevolmente più ricca ai tropici e più povera ai poli in quanto è indiscutibilmente legata a fattori come il clima, l’altitudine, la tipologia dei terreni e la copresenza di altre specie. Sul nostro pianeta sono stati individuati 34 luoghi nei quali si concentra la maggior ricchezza di specie viventi; vengono chiamati hotspot (punti caldi) di biodiversità e lì è concentrato, oltre al 44% di tutti i vertebrati terrestri, ben il 35% della flora su una superficie pari ad appena l'1,4% delle terre emerse. Inaspettatamente per i più, la nostra Italia è una zona notevolmente ricca di biodiversità. Noi sappiamo dai fossili come la varietà delle specie oggi presenti sia il risultato di una lunga catena evolutiva che possiamo far partire da 3,5 miliardi di anni con l’attività di organismi unicellulari capaci di fotosintesi (soprattutto ciano batteri) che portò all’incremento di ossigeno nell’atmosfera e si tradusse in una spinta evolutiva enorme a favore di forme di vita più complesse. Poi nel lungo periodo geologico chiamato Fanerozoico, circa 540 milioni di anni fa, a causa delle continue radiazioni in una Terra non ancora del tutto

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schermata dalla biosfera ci fu ciò che viene chiamata esplosione di biodiversità o esplosione cambriana, cioè la comparsa e la successiva evoluzione di un gran parte dei di phyla(*) vegetali oggi conosciuti, anche di specie complesse. Ma, nel nostro pianeta primordiale, i ritmi di vita erano scanditi anche da estinzioni di massa la più drammatica delle quali, alla fine del Permiano, portò alla scomparsa di circa il 90% delle forme viventi di allora. Le terre emerse costituivano allora il supercontinente Pangea nel quale la flora, dapprincipio composta per quasi solo da felci e ginko, fu sostituita da gimnosperme (conifere) e poi dalle angiosperme (piante con i fiori) che successivamente prevarranno sulle prime grazie anche alla diffusione degli insetti impollinatori. Circa 11700 anni fa, dopo l’ultima fase glaciale, ebbe inizio l’attuale epoca geologica con la retrazione progressiva dei ghiacciai, l’innalzamento dei mari e il progressivo addolcirsi del clima. Naturalmente questi cambiamenti geografici e climatici ebbero ripercussioni sull’intera biosfera e molto probabilmente sono stati lo stimolo principale allo sviluppo, circa 10000 anni fa, dell’agricoltura, delle civiltà organizzate e della pianificazione in nuclei abitativi, strategie che hanno consentito all’umanità di sostenere una popolazione in progressiva crescita. E il successo dei sistemi di sopravvivenza di Homo sapiens è stato così vasto che oggi le nostre azioni hanno un impatto globale di peso paragonabile a quello dei processi geologici. L’azione dell’uomo infatti, attraverso l’emissione di gas serra e la distruzione o la trasformazione degli ecosistemi, sta modificando la chimica dell’atmosfera su scala mondiale tale da sconvolgere l’intero sistema climatico. Nel 2000 il premio Nobel per la Chimica Paul Crutzen ha per la prima volta parlato di Antropocene, una nuova epoca geologica a inizio con la rivoluzione industriale (fine XVIII secolo) nella quale l’uomo e le sue attività svolgono un ruolo chiave nella modificazione dell’ambiente mondiale. Se la distribuzione delle specie viventi tende spontaneamente a variare nelle diverse zone della Terra, è pur vero che l’impatto dell’uomo sull’ambiente porta a trasformazioni repentine e drastiche, capaci di produrre alterazioni pari a quelle osservate per il passato alla fine delle grandi ere geologiche. L’uomo sta causando, con le sue attività, una sensibile riduzione del numero di specie a causa dell’aumento del tasso d’estinzione di piante e animali che oggi è molto maggiore di quello naturale, tanto che alcuni studiosi parlano di “sesta estinzione di massa”. Estinzione che, come abbiamo detto, è ritenuta un processo naturale ma che ora, a causa dell’antropizzazione, sta avvenendo molto più rapidamente che in passato. Sebbene sia difficile valutare la velocità con cui ha luogo, la comunità scientifica è in accordo nell'affermare che il tasso attuale di estinzione è 100-1000 volte superiore a quello precedente la comparsa dell'uomo. Moltissime sono le specie minacciate tanto che alcuni scienziati sostengono che il 10-20% di quelle attualmente viventi sul pianeta si estingueranno nei prossimi 20-50 anni. A questo va aggiunta l’intensa deforestazione (ogni anno la stima parla di un territorio grande quanto l’Italia nord-orientale) per conquistare nuove aree da antropizzare. Inoltre le diverse attività umane, soprattutto se legate all’utilizzo di energie non rinnovabili, stanno causando un rapido aumento dei gas a effetto serra, come l’anidride carbonica. La conseguenza di ciò è il riscaldamento globale che prevede, secondo le stime più pessimistiche, il collasso, in poco più di 50 anni, della più grande riserva di ossigeno del pianeta, la foresta amazzonica. Naturalmente a tutto questo si accompagna la perdita di biodiversità per la compromissione dei diversi ambienti e anche, non ci si pensa spesso, per l’introduzione da parte dell’uomo, di specie animali e vegetali esotiche (alloctone) in ambienti diversi da quelli originari. Spesso infatti queste entrano in competizione con quelle autoctone, fino a comprometterne

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seriamente la sopravvivenza o addirittura causarne l’estinzione. Qualche esempio? Il papavero, l’amaranto, l’eucalipto, per non citare che le più note. Oggi le specie a rischio di estinzione sono circa 50000. Ed è la perdita dell’habitat di gran lunga il maggior pericolo per le specie a rischio insieme alla sua frammentazione che ha ridotto la dimensione e allontanato tra loro le aree di sopravvivenza oggi date da sottopopolazioni numericamente poco consistenti e in scarso contatto fra loro quindi più vulnerabili alle fluttuazioni climatiche naturali, ai fattori di disturbo antropico, a possibili epidemie e al deterioramento genetico. Perdendo queste specie, non solo avremo perso ricchezza e varietà antiche ma avremo ridotto anche la resilienza che è la capacità che solo un ambiente ricco di specie ha di rimettersi a posto da solo, guarendo le ferite ambientali e riportando l’habitat a com’era prima dello stress subito a causa di eventi estremi quali siccità, gelate, alluvioni. Non solo, gli ecosistemi forniscono prestazioni vitali anche per l’essere umano. In termini numerici, i diversi ecosistemi della Terra generano ogni anno un valore economico stimato tra i 16000 e i 54000 miliardi di dollari. La loro alterazione ha quindi anche un impatto economico: variazioni della diversità biologica possono direttamente ridurre le risorse di cibo, di acqua e anche di risorse genetiche o di medicinali. Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che la biodiversità riguardi solo il biologo appassionato di specie rare o il ricercatore. Di qui l’esigenza fondamentale della salvaguardia in situ degli ecosistemi e degli habitat naturali. Garantire un'elevata biodiversità è problema che interessa la qualità della vita e la sopravvivenza di ciascuno di noi. Come conservare la biodiversità è complesso non solo perché spesso non sono molte le nostre specifiche conoscenze su biologia, ecologia e interazioni tra le varie specie ma anche per i molteplici interessi economici che gravano su questo problema. Ma oggi si richiede all’umanità un passo avanti nel comprendere il vero significato della vita sul nostro pianeta. Così come ci ricorda un antico proverbio Masai: “La Terra non ci è stata donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli”. Oggi a Padova si è fatto un passo in avanti a protezione di ciò che abbiamo di più importante sulla Terra: la biodiversità che consentirà la sopravvivenza della vita in qualunque situazione e a qualsiasi costo. **Il phylum (plurale phyla) è il gruppo tassonomico gerarchicamente inferiore al regno e superiore alla classe si fa ricorso al greco-latinismo phylum (dal greco φυλόν, "nazione", "tribù", "gente") che "dovrebbe" andar bene per tutti i regni.

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Q U A N D O L A V I T A N O N B A S T A : L E F I N Z I O N I

L E T T E R A R I E D I F E R N A N D O P E S S O A Piera Melone

E’ durante una sera del 1913, in una modesta osteria di Lisbona della quale è cliente abitudinario, che Fernando Pessoa (Lisbona, 1888 – 30 novembre 1935), oramai riconosciuto come una delle figure capitali della letteratura novecentesca, allora impiegato come traduttore di lettere commerciali presso una ditta di import-export, incontra per la prima volta Bernardo Soares,

aiutante contabile presso una ditta in città. Non fin dal primo istante questo tale dalla fisionomia impenetrabile, dall’aria sofferente, angosciata, patita, «magro, piuttosto alto, esageratamente curvo quando stava seduto ma un po’ meno quando era in piedi, vestito con una certa ma non totale trascuratezza» attrae l’attenzione del poeta e scrittore portoghese. I due si rivedranno nello stesso luogo ripetutamente, costantemente e del tutto casualmente, fino a quando non inizieranno a conversare e allora Fernando scoprirà in quell’impiegato umile e silenzioso che vive solo in una camera d’affitto nella “Baixa”, fra Praça de Rossio e il Tago, un personaggio talmente profondo da disconoscere se stesso, talmente presente nella vita da non poterla esperire in altri termini se non quelli della coscienza, custode di abissi esistenziali

inaspettati, ma anche e soprattutto, alla stregua di Pessoa, uno scrittore. Da Soares Fernando Pessoa riceve in lettura il diario incompiuto di un’anima, un antiromanzo rivoluzionario e inconsueto, un denso nucleo sensoriale che racconta

dell’esistenza filtrata dalla lente dell’Io che per ricevere la verità pare spogliarsi di se stesso: il Livro do Desassossego [Libro dell’inquietudine], pubblicato per la prima volta in Portogallo solo nel 1982. Desassossego è in lingua portoghese perdita, privazione, mancanza di “quiete” che diviene, in questo caso, l’assenza di pace dell’uomo proiettato nel mondo e lì abbandonato, solo, privo di ogni scusa, sartrianamente, seppure mai fino in fondo, responsabile per se stesso. Desassossego è quell’inquietudine raccontata per la prima volta da un anonimo impiegato di concetto, curvo sul registro contabile in una stanza d’ufficio o affacciato dalla finestra di una camera a ridosso di Rua dos Douradores, la via dei Doratori affollata di merciai, conciatori e calzolai, lontana dai salotti borghesi del grande Novecento e dalla sua élite culturale: «Pieno di tristezza scrivo, nella mia stanza tranquilla, solo come sono sempre

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stato, solo come sempre sarò. E penso se la mia voce, apparentemente così

incolore, non possa incarnare la sostanza di migliaia di voci, la fame di

raccontarsi di migliaia di vite, la pazienza di milioni di anime sottomesse come la

mia, nel destino quotidiano, al sogno inutile, alla speranza senza memoria. In

questi momenti il mio cuore batte più forte per la consapevolezza che ho di esso.

Vivo di più perché vivo più grande. Sento nella mia persona una forza religiosa,

una specie di preghiera, qualcosa di simile ad un clamore».

Desassossego è, in Soares, percezione e alterazione dell’esistenza, mondo che si fa coscienza, inconscio, Io, Sein (Essere) e Dasein (Esser-ci) nel dimesso bisbigliare divenuto parola impressa sul foglio che pare rimanere angosciosamente bianco nell’affanno di descrivere ciò che sta al di là del reale, per definizione è inenarrabile: «Non ho neppure recitato. Sono stato

recitato. Non sono l’attore, ma i suoi gesti.

[…] in questo momento del vedere, sono un

solitario immediato che si riconosce esiliato

in un luogo in cui si è sempre creduto

cittadino. Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io. […] Tutto

quanto ho fatto, ho pensato e sono stato, è una somma di subordinazioni […] Mi

sopravviene allora un terrore sarcastico della vita, uno sconforto […] so […] che

sono esistito soltanto perché ho riempito il tempo con coscienza e pensiero. [..]

Mi pesa, mi pesa veramente, come una condanna a conoscere, questa nozione

improvvisa della mia vera individualità, di quella che ha sempre viaggiato in

maniera sonnolenta tra ciò che sente e ciò che vede. E’ così difficile descrivere ciò

che si sente quando si sente che si esiste veramente, e che l’anima è un’entità

reale, che non so quali sono le parole umane per definirlo. […] mi sveglio ora in

mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui

ch esono stato fin’ora. [..] Aspetto dunque affacciato al ponte, che passi la verità,

e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale. […] ho visto la verità

per un attimo. Sono stato, per un attimo, coscientemente, ciò che i grandi uomini

sono verso la vita. [..] non so se sono stati anche loro tentati vittoriosamente dal

Demone della Realtà. Non sapere di sé vuol dire vivere. Sapere poco di sé vuol

dire pensare. Sapere di sé, all’improvviso, come in questo momento lustrale, vuol

dire avere subitaneamente la nozione della monade intima, della parola magica

dell’anima. Ma una luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi

persino di noi stessi. E’ stato solo un attimo e mi sono visto. Poi, non so più dire

ciò che sono stato. E alla fine, ho sonno, perché, non so perché, il senso è

dormire». Eppure, proprio vivendo nella dimensione di coscienza libera che precede il sonno, Soares non sogna, ma «sdorme», in quella che pare l’eterna attesa di una sospensione, di un sonno, di un “dimenticare” con le membra, di un abbandono agognato del corpo e della mente, che non arriva mai e così la Desassossego diviene pure, come Antonio Tabucchi definisce l’intero “Libro dell’inquietudine”, una “poetica dell’insonnia”, il silenzio di un’attesa che nel suo stesso atto si pone al centro dell’infinito e ad esso tende, in un pensiero unico che ha il colore e la consistenza di un blu scuro denso, forte, intenso e

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profondo quanto la notte: «Oltrepasso i tempi, oltrepasso i silenzi; e mondi

senza forma passano vicino a me. All’improvviso, come un bambino misterioso,

un gallo canta ignaro della notte. Posso dormire perché in me è mattino [..] posso

abbandonarmi alla vita, posso dormire, posso ignorarmi»; «Con l’inizio della luce

di tenebre che riempie di dubbi grigi le fessure delle imposte delle finestre sento

poco a poco che non potrò più conservare il mio rifugio dello stare coricato, di non

dormire potendo dormire, di non sognare […]Sento a poco a poco che mi

svaniscono i privilegi della penombra, e i fiumi lenti sotto gli alberi delle ciglia

intraviste, e il sussurrare delle cascate perdute tra il rumore del sangue lento

negli orecchi e il vago persistere della pioggia. A poco a poco mi perdo fino ad

essere vivo. […] il rumore del giorno umano aumenta all’improvviso, come il

suono di un campanello che chiama. […]piego il collo alla vita come ad un giogo

immenso». Poco o nulla si sa della biografia di Bernardo Soares; è certo però che con un unica opera postuma, per giunta in prosa, egli sia riuscito a ritagliare per sè uno spazio ideale nel contesto di quella “bizzarra età di Pericle della poesia” portoghese, il ventennio 1914-1935, in cui quattro personalità letterarie danno contemporaneamente alla luce altrettante affascinanti opere poetiche distinte eppure riconducibili l’una all’altra. Alberto Caeiro, Alvaro de Campos, Ricardo Reis e Ferdinando Pessoa invadono (seppure, in parte, virtualmente: i loro scritti inizieranno ad essere pubblicati interamente solo a partire dal 1942) il panorama letterario portoghese, polemizzando epistolarmente, collaborando e redigendo a vicenda prefazioni, scrivendo contemporaneamente e infine scomparendo, nel paradosso, nel medesimo anno, il 1935, in un silenzio improvviso che pare concertato, iniziato nello stesso momento per tutti. Di Alberto Caeiro de Silva (Lisbona, 1899- 1915), maestro di Fernando Pessoa e Alvaro de Campos, si ricordano i poemetti che compongono il Guardador de Rebanhos, gli ultimi versi prima della morte sopraggiunta per tubercolosi e raccolti da Pessoa sotto il titolo di Poemas Inconjuntos e il breve diario, Pastor Amoroso; schivo e solitario, passa tutta la sua vita in un villaggio del Ribatejo («la mia anima è

come un pastore/ conosce il vento e il sole/e va per mano alle stagioni/ a seguire e

guardare./ Tutta la pace dalla Natura senza persone/ viene a sedermisi

accanto»), dove scrive l’intera sua opera. Grandissimo amico gli è Alvaro de Campos (Tavira, 1890- Lisbona, 30 novembre 1935), autore di Opiàrio, un poemetto intriso di dandysmo, eco di un viaggio in Oriente via mare; nel 1914 scrive Ode Triunfal, che diventerà il manifesto del Modernismo portoghese, pubblicato nel 1915 sul primo numero di “Orpheu”, rivista dell’avanguardia diretta da Pessoa. A partire dal 1929 collabora (attraverso la pubblicazione di poesie dell’assenza e del nichilismo come Apontamento, Aniversario, Tabacaria), come Pessoa, Caeiro e Soares, con la rivista “Presença”, grande incubatore di idee letterarie e filosofiche provenienti dall’Europa e dal Portogallo stesso. Vive invece in autoesilio (per via delle sue idee monarchiche) in terra brasiliana fin dal 1919, dopo l’avvento della prima Repubblica portoghese, Ricado Reis (Oporto, 1887- Brasile, 30 novembre 1935) medico e poeta imbevuto di classicismo ed ellenismo che si riflettono nella geometrica struttura dell’ode oraziana; colto e raffinato, avrà un’accesa polemica sull’arte con Campos e redigerà una critica assai riduttiva dei Poemas di Caeiro. C’è da stupirsi nel constatare che, come gli astri maggiori di una grande costellazione, Caeiro, Campos, Reis, Soares non sono gli unici volti

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della poesia e letteratura portoghese a svanire senza lasciare traccia a partire dal 30 novembre 1935; con loro ci sono i nomi di Federico Reis (cugino del più celebre Ricardo), Alexander Search, corrispondente di Pessoa fin dal 1899 e autore di racconti in lingua inglese; Charles Search, fratello di Alexander; il Barone di Teive; i filosofi Antonio Mora e Raphael Baldaya; Charles Robert Anon, autore di testi ancora inediti, un sonetto e un progetto letterario redatti in inglese, nonché di una commedia intitolata Marino; A.A. Crosse, legato a Pessoa da un’amicizia profonda; Thomas Crosse; Jean Seul, autore di svariate poesie redatte in francese e di un progetto letterario; Abilio Quaresima. Una moltitudine di vite talmente ricche da sembrare vere (persino allo stesso poeta), conservate in un baule e scoperte interamente solo un giorno del 1942, quando la casa editrice Atica di Lisbona decide di iniziare la pubblicazione delle Obras Completas di quel Fernando Pessoa che, foglio dopo foglio, manoscritto dopo manoscritto, inizia oramai troppo tardi a materializzarsi dinnanzi agli occhi stupefatti degli studiosi come “una delle personalità

letterarie più mostruose del Novecento”. In vita già impiegato traduttore fra le vie della medesima Baixa percorsa dal suo semieteronimo Bernardo Soares (spiegherà, in una lettera datata 1935 all’editore Adolfo Casais Monteiro: «E’

un semieteronimo perché, pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia

non è diversa, ma ne è una semplice mutilazione. Sono io senza il raziocinio e

l’affettività»), Fernando Pessoa, come quest’ultimo pubblicato integralmente in vita solo una volta (con Mensagem, raccolta di poesie con tema i grandi personaggi storici portoghesi), imperversa sulle migliori riviste dell’epoca, ne crea lui stesso almeno due (“Orpheu”, “Athena”), introduce e diffonde in Portogallo le avanguardie letterarie europee ( orfismo, futurismo, cubismo surrealismo) e dà vita al paulismo, al sensazionismo, all’intersezionismo; importa il meglio della cultura europea di quegli anni, dalla psicoanalisi alla fenomenologia. Sorge il sospetto che entro la galassia eteronimica così frequentata eppure per nulla caotica, lo stesso autore dei volti che la popolano abbia sentito la necessità di annullarsi del tutto per dare ad ogni suo personaggio una voce sola. Addirittura quel Ferdinando Pessoa che scrive con il suo ortonimo (il patriota con uno sguardo sempre volto all’esoterismo; il massone; il razionalista) potrebbe essere finzione, parte integrante e separata del Tutto-Pessoa, ove l’Io irrompe sul palcoscenico letterario e parla di sé, ma lo fa attraverso una solitudine che è parte di un panorama sincronico in cui è stata svelata la presenza di più di una soggettività che contemporaneamente impone lo spazio e il tempo come rigorosamente interiori, nell’assoluta non-aderenza tra “il dentro” e il “fuori”. Se, come ammette Bernardo Soares, «vivere è essere un altro», se addirittura «sentire oggi come si è sentito ieri non è

sentire, ma ricordare», quello stesso Io che si proietta in se stesso e di se stesso diviene l’oggetto, si tramuta in altro da sé. Di qui all’alter ego, all’eteronimia, quella moltitudine “sola” che finisce per assumere dimensioni metafisiche, la linea è sottilissima. Scrive Alvaro de Campos in Passagem das Horas (1917): «mi sono moltiplicato per sentire/ per sentirmi, ho dovuto sentire tutto,/ sono

straripato, non ho fatto altro che traboccarmi, / e in ogni angolo della mia anima

c’è un altare a un dio differente». Non si tratta (per lo meno, non solo) di follia, che pure sembra essere un tema molto presente nella vita di Pessoa, sin dall’infanzia, quando egli crea i primi personaggi immaginari con i quali già, così come in età matura, corrisponde, o malattia autodiagnosticata come histero-nevrastenia e delineata freddamente in una lettera inviata a due noti

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psichiatri dell’epoca (a Monteiro, 1935: «l’origine dei miei eteronimi è il tratto

profondo di isteria che esiste in me. Questi fenomeni […]esplodono verso

l’interno e io li vivo da solo con me stesso»). Se nella vita privata non può evitare di mostrare le sue debolezze (si pensi alla corrispondenza con il suo unico amore, Ophelia Queiroz, costellato di riferimenti agli alter-ego che a volte scrivono in prima persona), nella sua evoluzione letteraria la dissociazione eteronimica si realizza con una coerenza e una lucidità stupefacenti che la razionalizzano e la risolvono. Scrive nell’ abbozzo di prefazione per una progettata edizione della sua opera: «Nella mia visione che definisco interna,

solo perché definisco esterno un determinato “mondo”, ho ben fissi, nitidi, noti e

distinti, a fisionomia, il carattere, la vita, l’origine, in certi casi la morte di questi

personaggi». E ancora, nella lettera a Monteiro: «Fissai tutto questo in forme di

realtà. Graduai le influenze, conobbi le amicizie, udii dentro si me le discussioni e

le divergenze di opinioni, e in tutto ciò mi sembra che io, creatore di tutto, fossi

quello che era meno presente. Direi che tutto accade indipendentemente da me.

[…] se un giorno potrò pubblicare la discussione estetica tra Ricardo Reis e Alvaro

de Campos, vedrà come questi due sono diversi tra loro e come io sono niente in

materia». Ferdinando Pessoa rende la sua esistenza, già di per sé duplice - tesa com’è tra la vita impiegatizia e l’avanguardia portoghese - una solitudine intellettuale che si è riflessa in una moltitudine di volti soli proprio perché «la letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta». Quella grande, rivoluzionaria finzione letteraria, che è eterna sincronia di tutti gli “io” che coesistono nell’uomo e anti-ragione nel suo completo abbandono alla dimensione onirica e all’inconscio, non cessa di stupire, eppure lo stesso poeta, già nel 1931 ci fornisce il paradosso chiave e ragione di tutto: «Il poeta è

un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il

dolore che davvero sente».

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“ T I P I D A N O N F R E Q U E N T A R E ” U N L I B R O D I

A N N A L I S A B R U N I Cesare Granati

“Entrare nella mentalità dell’altro,

ascoltarne le ragioni, tentare di comprenderle, sperimentarne la quotidianità senza falso ecumenismo, …, ti sembra utile, importante.” Come un film di Loach permette a una delle protagoniste dei venti racconti che compongono l’opera di Annalisa Bruni di entrare nella vita dell’altro, così “Tipi da non frequentare” ha permesso al sottoscritto di esplorare un mondo sconosciuto. Le donne single, o zitelle di ritorno, sono mostrate durante l’attività che, leggendo il libro, appare la più indispensabile e la più dolorosa: conoscere uomini altrettanto single, o presunti tali, e restare inevitabilmente deluse. A volte, devo ammetterlo, mi hanno irritato. Ma come?

Non ne va bene neanche uno di questi tipi poco raccomandabili? Per lo più si parla di uomini soli, come le signore protagoniste, decisamente insicuri e tristi. Giunti ai 50 o 60 anni, dopo una vita travagliata, fatta di successi e fallimenti, non è una compagnia piacevole e rassicurante quello che serve? È davvero possibile ritrovare il grande amore, tornare adolescenti non solo nelle speranze ma anche nei sentimenti? Io ho ancora tempo per scoprirlo, prima devo sposarmi, fare figli e separarmi, ovviamente per colpa mia, e diventare un tipo da non frequentare per sperimentare sulla mia pelle il dubbio amletico dell’amore romantico over 50. Per ora, prendo umilmente atto che essere donna è una faticaccia: primo per colpa degli uomini, secondo per colpa delle donne. Che siano giornalisti sovrappeso e maleducati, o baristi palestrati e ammiccanti, la popolazione femminile deve difendersi di continuo. Nulla è come sembra, di fronte alle protagoniste del libro si susseguono personaggi grotteschi e, quando invece sembrano quelli giusti, si rivelano anche peggio. Molto, troppo fumo a coprire portate di qualità scadente e spesso avariata. Ma anche le donne hanno le loro colpe, non solo quella di non accontentarsi mai che, mi rendo conto, è una semplificazione banale (ma non per questo del tutto inesatta). Frequentare uomini sposati perché sono gentili e sessualmente stimolanti, attraversare il mondo per vacanze di piacere con qualche “guida” esotica, farsi una sveltina con un collega per placare la noia… comportamenti poco edificanti, maschili per certi versi e meschini. Comportamenti che non danno vero piacere, ma che scaraventano il genere femminile in un’esistenza banale e, concedetemelo, non all’altezza della grazia, bellezza, intelligenza che la maggior parte delle donne che conosco mi dimostrano ogni giorno. Annalisa Bruni ci presenta venti racconti brevi, ognuno dei quali prende il

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titolo in base alla tipologia dell’uomo sbagliato che la protagonista dovrà sopportare. Le controparti maschili sono tipi. Mancano spesso di spessore. D’altronde, oltre che un modo per conoscere le protagoniste, questo libro si presenta anche come un catalogo. Gli uomini dunque diventano simboli, rappresentanti di una categoria. “Artista fallito”, “Compagno di università”, “Sconosciuto”… Un modo per mettere in guardia le signore sui rischi di un’avventura con un certo tipo di uomini (o con gli uomini in generale). Le protagoniste sono più sostanziose. Hanno una personalità ben definita, hanno quasi tutte idee politiche di sinistra, amano la cultura, il buon vino e prendersi cura del proprio corpo. Come le descrizioni dei luoghi, particolareggiate e realizzate con una prosa visiva, pungente e brillante, così la presentazione delle protagoniste riesce alla perfezione all’autrice, donna che ha vissuto gli anni della speranza politica e sociale, le lotte femministe e oggi è funzionaria della Biblioteca Nazionale Marciana. L’arma più potente della Bruni è l’ironia. È grazie all’ironia che riesce a mantenere l’attenzione del lettore sempre alta, passando da una situazione a un’altra completamente diversa, parlando di futilità e gravi problemi esistenziali. E forse è l’ironia anche l’unica arma che le donne hanno per difendersi dai colpi inferti loro dalla vita. Non si spezzano mai queste signore di età variabile, di ceto variabile, ma tutte con caratteri forti, pur essendo creature sensibili. La forma del libro, una raccolta di racconti, lo stile della prosa, incalzante senza mai risultare frettolosa, richiamano il contenuto e il messaggio dell’autrice. Le donne, come i racconti, sono tutte diverse pur essendo simili; sono uniche. La loro vita è sempre più frenetica ma non smettono di dare attenzione ai propri sentimenti, ai propri sogni. E se le troviamo sconsolate o prive di speranza, è solo per difendersi dal mondo, e basta un particolare, uno sguardo, una voce, per riaccendere il desiderio così come il ritmo narrativo. In conclusione Annalisa Bruni si dimostra scrittrice sapiente, domina la forma narrativa del racconto, riesce a essere divertente e non diventa mai banale. “Tipi da non frequentare” è un libro da leggere, per ridere, riflettere e capire meglio la vita di donne che nelle classiche ripartizioni della società sono spesso ignorate. Alla televisione, quando vengono snocciolati i preoccupanti dati di questo periodo di crisi, sentiamo parlare di giovani, studenti, famiglie, anziani… ma mai di donne sole. Ci sono e sono tante. Dopo aver letto questo libro ne saprete qualcosa di più: se siete uomini, non potrete dire di averle capite, ma almeno farete qualche passo avanti (perdonateci signore, ma il cromosoma Y è un brutta bestia). Se siete donne, oltre a vedere i difetti di decine di conoscenti messi nero su bianco, oltre a consolarvi perché non siete sole come credevate, avrete anche modo di constatare che il tipo giusto esiste. Infatti il libro si apre con una dedica alla mamma dell’autrice e si chiude con un ringraziamento a quello che pensiamo esserne il compagno. La madre della Bruni ha frequentato un solo tipo per tutta la vita e la scrittrice ne ha trovato uno anche per sé. Le uniche due donne reali al cento per cento di cui conosciamo i tipi, quello giusto lo hanno trovato. Quindi “ognuno è artefice del proprio destino” e questa è una fortuna non da poco, per gli uomini e per le donne.

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Alice Fasano

L’attività di Magistretti nel campo del design comincia a metà degli anni Quaranta e procede parallelamente a quella di architetto fino alla conclusione della sua carriera. Non è questo un dato puramente biografico, ma possiede un preciso significato perché la cultura del design italiano è tradizionalmente coincisa con quella dell’architettura, almeno fino agli ultimi anni del XX secolo. La maggior parte dei designers di nuova generazione, invece, non proviene dalle facoltà di architettura ma da scuole specifiche, appositamente create per formare professionisti nel campo del design. Non sono i giovani ad aver fatto dell’arredamento Made in Italy una classe di oggetti unici e ricercati in tutto il mondo, amati da ogni esperto arredatore e diffusi nelle riviste di architettura e di moda più sofisticate; è stata invece la retroguardia, la vecchia generazione di architetti-designers, di cui Magistretti rappresenta il tipico esempio, a inaugurare questa felice tradizione, facendo guadagnare e mantenere per diversi decenni all’Italia, e al capoluogo lombardo sopratutto, uno dei primi posti nella classifica dei paesi più alla moda e con il miglior gusto in fatto di design. Ripercorrendo brevemente la carriera di Magistretti designer, personaggio eminente nella scena italiana del secondo dopoguerra, è facile individuare un filo rosso che lega l’esperienza di molti fra i più noti professionisti di quel periodo. Giò Ponti, Achille Castiglioni, Marco Zanuso, Ignazio Gardella, Franco Albini, Joe Colombo, Luigi Caccia Dominioni, sono solo alcuni dei celebri protagonisti di quella che si può certamente considerare l’età aurea del design italiano. Prima di tutto Magistretti aderisce, come molti altri, alla cultura di quel razionalismo revisionista che ha caratterizzato il dibattito sull’architettura dei primi anni Cinquanta. Da questa tendenza deriva l’interesse per la produzione seriale, sentita come fattore necessario e determinante nello studio dei suoi progetti. Il suo approccio, inoltre, si sviluppa nella direzione di un razionalismo stemperato nel rigore dei suoi precetti, con formulazioni dove adesione alla modernità e attenzione alla tradizione delle forme e delle tipologie dell’oggetto domestico trovano un elegante equilibrio. Magistretti è poi convinto che il buon design nasca «a metà strada tra chi progetta e chi fa»; la sua prassi progettuale prevede, infatti, un rapporto di necessaria collaborazione con le aziende. Esaminando il portfolio del designer milanese, si resta colpiti dal fatto che non vi trovano spazio progetti non realizzati o diversi da quelli entrarti in produzione. Questo perché il lavoro di Magistretti, sviluppandosi con la costante collaborazione delle realtà industriali cui spetterà la produzione dei pezzi, esclude l’esistenza di progetti scartati o radicalmente modificati dalle aziende. Non si trovano, inoltre, disegni tecnici definitivi di mano del maestro, secondo il quale è compito del progettista «fornire il concept design ovvero il senso profondo di uso e immagine di un

progetto, avvalendosi, nella realizzazione, della raffinata capacità del

produttore. […]. Questo è per me design e viene espresso dallo sketching». Il progettista ha quindi il compito di fornire un’idea, il concept, non di elaborare soluzioni tecniche definitive. Lo schizzo di progetto è il vero strumento concettuale di Magistretti. Emerge inoltre una continuità nel suo

D E S I G N D A L C A R A T T E R E I T A L I A N O : I “ P E R S O N A G G I

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atteggiamento progettuale: ciò non significa che egli non sia attento all’evoluzione dei gusti, dei comportamenti sociali e delle ricerche tecniche; al contrario, è innegabile la sua capacità di proporre soluzioni geniali legate alle caratteristiche dei nuovi materiali, alle diverse esigenze degli utenti, ai rinnovati contesti del dibattito culturale. La vera questione è che, nel suo percorso, non si possono rintracciare sostanziali cambiamenti teorici. I dati culturali, tecnici e comportamentali, diversi di fase in fase, sono sempre adoperati come materiale del progetto, che non diventa mai rappresentazione o esaltazione di un singolo fattore. Dal 1946, a pochi mesi dalla fine della guerra, le due principali riviste del settore, Stile guidata da Ponti e Domus da Rogers, sono impegnate nella

mobilitazione della cultura architettonica verso il tema della ricostruzione. I primi oggetti disegnati da Magistretti, in collaborazione con Paolo Chessa, sono pubblicati nel numero di Domus del febbraio 1946. Si riferiscono alla trasformazione in abitazione autonoma, per una coppia di giovani sposi, della zona servizi di un appartamento composto da dodici locali. Tre soluzioni sono proposte in quelle pagine, ciascuna con il relativo preventivo di costi, dal più economico al più dispendioso. Per l’occasione i due architetti disegnano anche alcuni mobili: un tavolo ampliabile in tubo metallico, verniciato di nero e di rosso fuoco, e un singolare “porta mensola”, fatto da una sagoma triangolare in tubo metallico bianco, estraibile dal letto in funzione di comodino. In questo clima, dove la cultura dell’abitare è chiamata a misurarsi con l’impellenza della

ricostruzione, hanno luogo alcune iniziative particolarmente significative. Sempre nel 1946 Magistretti partecipa alla mostra della RIMA (Riunione Italiana per le Mostre di Arredamento), che prevede un’esposizione sul tema dell’arredamento popolare, organizzata nel palazzo della storica Triennale di Milano. Tra gli oggetti presentati in questo contesto, quelli firmati da Magistretti sono una libreria con ripiani spostabili lungo due montanti in tubo metallico vincolati a pressione al pavimento e al soffitto, e una semplice sedia a sdraio in legno, redesign ingentilito nelle proporzioni di un modello tradizionale. Nel 1948 ha luogo una mostra organizzata da Fede Cheti, celebre azienda milanese specializzata nella creazione di tessuti per l’arredamento, cui Magistretti partecipa con dei piccoli tavolini di legno sovrapponibili per formare un fantasioso mobile a ripiani, e una singolare libreria, che è in realtà una scaletta da poggiare alla parete. Nei

Allestimento per la mostra organizzata dalla RIMA nel 1946, con la sedia a sdraio e la libreria in tubo metallico disegnate da Magistretti

Libreria a scaletta disegnata da Magistretti nel 1948 ed esposta alla mostra di Fede Cheti

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progetti di questi anni è dunque riscontrabile una diffusa adesione al razionalismo, ma il designer aggiunge l’interessante valore estetico della tradizione artigianale, anonima, non viziata da “stilismi”. Il suo esperimento consiste nel rielaborare semplici oggetti d’uso comune, donando loro una funzione inedita. Decontestualizzando mobili e utensili tradizionali, Magistretti reinventa la pratica duchampiana del ready-made e regala ai suoi progetti la freschezza e la simpatia di un sorriso. Insieme all’ironia, in questi oggetti si può leggere una dichiarazione di quasi ostentata modestia, la sicura scelta di sobrietà e semplicità che contraddistinguerà sempre il suo stile. Nel decennio successivo Magistretti lavora poco come designer. È, infatti, del tutto assorbito nell’attività di architetto e non ha molto tempo da dedicare al design che, tra le altre cose, non si autofinanzia. In questi anni il suo studio riceve innumerevoli richieste per la realizzazione di abitazioni private di lusso dalle più facoltose personalità italiane, che mettono a disposizione del progettista ingenti somme di denaro per la realizzazione di queste prestigiose dimore. Nonostante ciò, Azucena, una piccola azienda fondata nel 1949 dagli architetti Caccia Dominioni e Gardella, sceglie di produrre i tavolini impilabili che Magistretti aveva presentato l’anno precedente alla Mostra di Fede Cheti. Questo progetto riceve una segnalazione durante la prima edizione del Compasso d’Oro che si svolge nel 1954 anno in cui, inoltre, Magistretti organizza insieme a Caccia Dominioni, Gardella ed altri la Mostra dello

standard per la X edizione della Triennale. Nel 1956 fa invece parte del comitato organizzatore che raccoglie le adesioni, cura lo statuto e realizza il primo evento ufficiale dell’ADI, Associazione per il Disegno Industriale. Infine, nel 1960, è scelto come membro della Giunta che cura la XII edizione della Triennale dove sono esposti oggetti disegnati da Castiglioni, Zanuso, Tobia

Scarpa e dallo stesso Magistretti. Alla fine degli anni Cinquanta matura in Italia una situazione nuova, che richiede professionisti in grado di tradurre l’elaborazione teorica e le sperimentazioni degli anni precedenti in risposte concrete. Con il boom economico prende avvio uno sviluppo che modifica profondamente gli assetti socio-economici del paese di pari passo all’industrializzazione, all’urbanesimo, all’aumento del reddito medio, al miglioramento del tenore di vita e all’espansione dei consumi. Il panorama

quotidiano degli italiani cambia con la motorizzazione di massa e con la diffusione dei cinema di quartiere e della televisione. Conseguentemente muta la casa con la sua organizzazione domestica: dal bagno alla cucina, ogni ambiente deve essere aggiornato per fare spazio ai nuovi elettrodomestici e all’arredamento moderno (per fare un esempio, l’uso della doccia permette di lavarsi più velocemente, utilizzando meno acqua ed è meno ingombrante). Inoltre, il design d’arredamento è sempre più studiato in modo da permettere la produzione industriale, riducendo i costi e aumentando notevolmente i guadagni rispetto alle manifatture artigianali. Questo avviene grazie all’impegno di alcune piccole e medie imprese, articolate in distretti sul

Sedia Carimate per Cassina, 1962

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territorio italiano e guidate da imprenditori al passo con i tempi. Questi intuiscono immediatamente l’opportunità degli alti guadagni che comporterebbe la diffusione di un mercato reale per il mobile moderno, prodotto con i macchinari in serie più o meno numerose. Specialmente nelle zone che gravitano intorno alla Milano delle Triennali, del grattacielo Pirelli, della Facoltà di architettura, questi imprenditori entrano in rapporto con gli architetti-designers che, oltre ad occuparsi della fase progettuale, assumono il ruolo di consulenti, un po’ esperti di marketing e un po’ art directors. Si instaura così un particolare rapporto tra il progettista e gli operai interni alla fabbrica i quali, sebbene possiedano una preparazione tecnica adeguata allo sviluppo delle nuove tipologie di arredamento, custodiscono ancora il rapporto con la tradizione artigianale, memoria dell’apprendistato svolto nei sofisticati laboratori di falegnameria e carpenteria metallica dell’anteguerra. Un altro aspetto della questione sul design italiano, riguarda la straordinaria capacità dell’industria e dei progettisti di promuovere il mobile moderno. La diffusione avviene attraverso una serie di iniziative articolate in una massiccia attività di comunicazione, che comprende le cerimonie per il conferimento dei più alti riconoscimenti nel settore (il Compasso d’Oro), l’organizzazione e la cura delle manifestazioni più importanti come il Salone Internazionale del Mobile e le mostre alla Triennale, il coordinamento nella direzione delle riviste e il ruolo espositivo dei negozi. Dall’incontro dei quattro aspetti di cui si è parlato (modernizzazione del paese, trasformazione in senso industriale nella produzione dei pezzi, ruolo degli architetti-designer e della comunicazione) prende avvio lo sviluppo del design italiano. Nel 1959 Magistretti progetta la Club House di Carimate. Per questo complesso egli organizza anche l’arredamento, disegnando una seduta che deve essere prodotta in molti esemplari per il ristorante interno al circolo: è la Carimate, di legno tornito con sedile in paglia. Nel sobrio redesign di una sedia paesana tradizionale è forse possibile avvertire anche l’influenza di un certo

gusto scandinavo, che nell’Italia di quegli anni ha molta fortuna. La Carimate, però, è attualizzata con una vivace tintura all’anilina rossa che ne fa slittare l’immagine nella direzione di una nuova modernità. Nel 1960 Magistretti incontra Cesare Cassina, uno dei più dinamici tra gli imprenditori della Brianza. Nel 1962, con la messa in produzione della Carimate per Cassina, ha inizio un lungo periodo di collaborazione tra il designer e l’azienda.

Tavolino Demetrio per Artemide, 1966

Sedia Selene per Artemide, 1969

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Negli stessi anni Magistretti comincia ad affrontare il tema della plastica. Questo materiale, all’epoca, appare molto innovativo, uno di quelli che, come il poliuretano e i truciolati, renderanno possibile la produzione industriale dell’arredamento italiano. Con il progetto Demetrio (1966), in resina stampata e rinforzata, il designer riprende la tipologia dei tavolini sovrapponibili di legno studiata per Azucena. Nel 1969 invece, progetta una sedia stampata in un unico pezzo di resina rinforzata, la Selene. In questo caso, Magistretti non è interessato alla definizione di una forma plastica, una scultura utile anche per sedersi, come fa Verner Panton, ma intende disegnare un oggetto riconoscibile e tipologicamente familiare. In quegli anni Marco Zanuso e Joe Colombo disegnano due sedie di plastica molto interessanti: entrambe hanno le gambe sfilabili, molto corpose per garantire momenti d’inerzia adeguati nelle zone maggiormente sollecitate. Magistretti, invece, risolve il problema “per forma”, configurando le gambe secondo una sezione ad S. Si tratta dello sviluppo di una soluzione già adottata in precedenza, nel 1966, per le gambe del tavolo in plastica Stadio e in una lampada da terra, Chimera, dove rende autoportante una lastra di metacrilato con una forma serpentina. Nel caso di Selene, il risultato è impeccabile: la sedia possiede un’eleganza disinvolta, ha gambe sottili ed è monoblocco, nella piena correttezza d’uso del materiale impiegato. Com’è solito fare, Magistretti esalta il ruolo del tecnico, in questo caso il modellista della fabbrica che ha prodotto la sedia, dicendo: «L’ho fatta con il modellista. Si vede che non è disegnabile. Per disegnarla avrei dovuto fare almeno cento sezioni. Ma c’era questo modellista sublime, andavo da lui, gli parlavo... e il progetto prendeva forma esattamente come l’avevo immaginato!». Negli stessi termini parla anche

delle poltroncine di plastica Gaudì e Vicario, del 1970, dove la gamba rimane la stessa, la soluzione per i braccioli è ottenuta forando la scocca e i punti critici sono risolti mediante ispessimenti del materiale. Nel 1973 nasce uno tra i progetti più famosi del design italiano, la sedia Maralunga. L’innovazione del poggiatesta reclinabile sullo schienale, che non risulta esibita ma rimane nascosta nella

configurazione complessiva, trasforma un modello dalla fisionomia consueta assecondando i rinnovati comportamenti, in particolare quelli legati ai nuovi riti televisivi. La versatilità costituisce il punto di forza anche in Veranda, che da poltrona può diventare chaise longue regolabile grazie al sedile-poggiagambe e allo schienale-poggiatesta. In una versione ulteriore ha persino una base ruotante che permette di disporsi in curva per facilitare la conversazione. La poltrona Sinbad, invece, nasce da un concept molto diverso.

Sedia Selene per Artemide, profilo, 1969

Poltrona Maralunga per Cassina, 1973

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Il design è qui risolto con un gesto quasi casuale, come quello di gettare una morbida coperta sopra una poltrona per renderla più calda e accogliente. La sovrapposizione sulla struttura imbottita di un rivestimento dal bordo colorato, simile alle coperte da cavallo usate in Inghilterra, sembra giocare sul prolifico rapporto tra moda e design. Distacco autoironico e gusto per i dettagli raffinati fanno di questo progetto un’idea che si traduce senza sforzo apparente nel mobile, quasi come un gesto elegante. Dall’analisi di questo primo gruppo di progetti emergono tre caratteristiche fondamentali nel lavoro di Magistretti: l’importanza dell’innovazione, nei materiali come nelle risposte ai nuovi comportamenti sociali, ma insieme il rispetto delle tipologie consolidate dall’uso, nel rifiuto della forma fine a se stessa; infine l’uso attento, ma non ostentato né ideologicamente esibito, della tecnica. Passando ad un'altra classe di oggetti, è doveroso iniziare parlando di uno tra i più celebri e fortunati progetti di Magistretti, la lampada Atollo, che entra in produzione per O-Luce nel 1977 valendo al maestro il secondo Compasso d’Oro della sua carriera (del primo si parlerà più avanti, mentre il terzo arriverà nel 1979, premiando in ritardo la genialità di Maralunga). Questo pezzo è ormai diventato un classico, a tal punto da essere riprodotto nel calendario che il MOMA ha realizzato per il proprio cinquantenario, presentato come uno degli oggetti più rappresentativi delle sue collezioni, non solo di design. Atollo è una lampada da tavolo, interpretazione dell’abat-jour, operata tenendo conto del materiale usato, l’alluminio verniciato. La composizione formale è molto semplice: una calotta sferica con un sostegno cilindrico che diventa conico nella parte superiore. La calotta sembra quasi staccata dal basamento, cui è collegata da un elemento molto sottile, ottenendo un effetto luminoso molto suggestivo poiché, illuminata, sembra galleggiare a mezz’aria. A proposito del gioco luminoso di

questa lampada Magistretti dice: «è bello perché ci sono tre luci diverse: il nero, sopra, dove non riceve mai la luce, il bianco all’interno del riflettore e sul cono, e il grigio sul cilindro della base dove la luce arriva sempre parallela come sfiorandolo». La lampada ha superfici esterne levigatissime e le sue forme sono assolutamente armoniose, mai disturbate da elementi sovrapposti. Questo livello di rifinitura ha comportato un vero tour de force per l’industria che l’ha realizzata, con la messa a punto di un involucro per il fissaggio del portalampade e di un sistema per il

Lampada Atollo per O-Luce, 1977

Lampada Eclisse per Artemide, 1965

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sostegno della calotta del tutto invisibili. La complessità tecnica di Atollo

appare completamente nascosta nel risultato finale. Magistretti, infatti, adopera gli espedienti meccanici senza farne uso manifesto, riassorbendoli nel progetto con disinvoltura e distacco. Spesso, nelle sue lampade, compare il concept del gioco di luci. Ad esempio Eclisse, Compasso d’Oro nel 1965, permette di regolare il flusso di luce con la semplice rotazione di due semisfere coassiali; in Nemea (1979) il rapporto tra lo schermo e la base è capovolto e il grande piatto orizzontale si trova, così, investito dalla luce direzionata verso il basso da una piccola calotta di porcellana. Quasi sempre, Magistretti risolve la varietà dei casi nei suoi oggetti luminosi con una struttura formale data dalla composizione di forme geometriche primarie: dalle due semicalotte sferiche concentriche della Mania (1963) all’assemblaggio di tre semisfere in Eclisse, ai due coni capovolti di Pascal (1979). Successivamente, invece, sembra tendere verso una semplificazione formale ulteriore poiché dalle composizioni di volumi passa alle forme geometriche piane, riducendo gli oggetti al nitore di un segno grafico. Nella già citata Nemea, la base perfettamente circolare regge, mediante un sottile montante, la cupoletta in porcellana; in Kuta, del 1978, è lo schermo a forma di cerchio verticale che diventa dominante, mentre il sostegno si riduce ad una linea, e la cupoletta, questa volta, si fa base. Questa ricerca di leggerezza e semplificazione torna in vari progetti degli anni Ottanta, come la sedia Simi (1984), dove un’unica linea curva sorregge la lieve conchiglia in plastica del sedile, o la poltrona Veranda il cui profilo, quando è aperta, disegna una traccia grafica nello spazio. L’amore per le forme geometriche pure si esprime anche nel fatto che i particolari, i giunti, gli attacchi, sono sempre sottaciuti, ridotti al minimo, nascosti e mai adoperati o esaltati in funzione espressiva. Le composizioni di volumi, spesso sezionati e giustapposti, tipiche di molte lampade di Magistretti, appartengono a quel filone di ricerca che connette geometria e produzione industriale, dal De Stijl olandese al Costruttivismo russo, dal Bauhaus a certa scultura astratta. Nel 1978 Magistretti progetta per una nuova azienda, Flou, un letto fortunatissimo, che sarà seguito da molti altri: Nathalie, che nella testata riprende il disegno di Maralunga, inaugurando la moda dei letti tutti imbottiti. Qualche anno dopo Ermellino avrà anche la testata e il bracciolo modificabili. Questi letti si caratterizzano per l’assenza di ogni elemento strutturale visibile. L’immagine regala una sensazione di assoluta morbidezza, cui contribuisce l’uso del piumone e dei cuscini reclinabili poggiaschiena.

Letto Nathalie per Fluo, 1978

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Negli ultimi vent’anni della sua carriera, dal 1986 al 2006, anno in cui è scomparso, Magistretti intraprende una collaborazione molto prolifica con l’azienda De Padova. Dedicandosi nuovamente all’osservazione degli oggetti della tradizione anonima, crea una collezione di complementi d’arredo che esprimono in modo completo quell’idea di un abitare elegantemente sobrio e

disinvolto. Questa fase progettuale inizia con Vindun (1986), un tavolino dove il piano si sposta in altezza grazie ad un sistema a vite, ripreso dai tradizionali tavoli da lavoro (vindun, in milanese, significa grossa vite), e con Marocca (1987), altro redesign ingentilito di un’antica sedia da osteria veneta. Alla stessa filosofia progettuale si lega la ricerca sulle potenzialità degli oggetti pieghevoli, da cui nasce una

serie di mobili per Campeggi, disegnati negli anni Novanta. La collaborazione con De Padova, inoltre, porta alla creazione di due sedie molto interessanti. Silver (1989) è la rielaborazione in alluminio di una sedia di legno, la 811 disegnata nel 1925 da Breuer per Thonet; alcuni anni dopo, la segue Maui (1996), in cui viene riproposto, con gambe d’acciaio e monoscocca di plastica, lo schema che Arne Jacobsen aveva risolto con il multistrato. In entrambi in casi, Magistretti compie la rilettura di due progetti di rilievo tipologico pressoché definitivo, modificati sulla base delle possibilità offerte dalle alte prestazioni dei nuovi materiali. Nella Maui, ad esempio, la scocca è rinforzata senza nervature o costolature, mediante una doppia curva di piegatura all’attacco tra schienale e sedile, soluzione che in compensato sarebbe irrealizzabile. Un altro gruppo di tre sedute, realizzate tra il 1994 e il 1999, merita di essere citato per la grande precisione formale e tecnologica della loro fattura, che ne fa, secondo la simpatica definizione di Gillo Dorfles, dei “personaggi d’arredo” nitidi ed essenziali: sono la Vico (1994), la Vicoduo (1997) e la Vicosolo (1999). La prima è di betulla stampata ad elementi separati, legati alla struttura d’acciaio da giunti speciali che consentono, con la

loro flessibilità, estrema libertà di movimento; la seconda è una monoscocca di betulla che poggia su una piastra di alluminio in cui si inseriscono le gambe metalliche; la terza è un’ulteriore versione del disegno iniziale, ridotta all’essenziale per diminuire i costi e rendere così possibile la diffusione dell’oggetto ad aree diverse da quella domestica. Nel 1996 il Compasso d’Oro per la carriera è assegnato a Magistretti, riconoscimento quasi ovvio per un’attività che, come la sua, è stata

Tavolino Vindun per De Padova, 1986

Sedie Vicosolo per Fritz Hansen, 1999

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tanto lunga e importante nella storia del design italiano. Il grande talento di questo professionista è sempre stato quello di esibire modestamente i suoi valori etici ed estetici. La sobrietà, l’orrore per l’ostentazione e per l’aggressività formale, il rifiuto della ridondanza vista come perdita di contenuto nella comunicazione del pezzo, la tecnica dell’understatement per evitare chiavi interpretative inutilmente ambiziose, l’eleganza come disinvoltura e naturalezza, la padronanza delle tecniche e l’apertura all’innovazione senza che ciò comporti l’abbandono della tradizione: queste sono le principali caratteristiche del design firmato Magistretti.

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I N C O N T R I C O N L ’ A R T E . Q U A T T R O O P E R E N A R R A T E :

G I A N F R A N C O M O R E L L O Luigi la Gloria

Gianfranco Morello è un artista che, per la sua particolare storia, potremmo senz’altro definire sui generis.

Perchè sui generis? Innanzi tutto perché appartiene a una famiglia di pittori: il padre, lo zio Vittorio, i suoi cugini… una vera genia di artisti. Sui generis perché, dopo aver iniziato giovanissimo una promettente produzione pittorica che denotava già un raffinato tratto impressionistico, la interrompe bruscamente, abbandonandola per più di quarant’anni. In seguito, dopo un tempo nel quale si sono succedute ben due generazioni, decide di riprendere ciò che aveva lasciato così tanto tempo prima. Ancora, sui generis perché gli è bastata una breve presa di coscienza per tornare a dipingere con straordinaria efficacia e non solo dal punto di vista della struttura dell’opera. Egli, con verginale maturità, rovescia nella sua figurazione quasi mezzo secolo di pensiero, di esperienze, di riflessioni per giungere poi a una presa di coscienza che, con chiarezza estrema, trasfonde nelle sue opere. E’ indispensabile, prima di passare alla presentazione dei quattro dipinti che ho scelto per farvi conoscere questo artista, fare una breve premessa per inquadrare meglio il contesto della sua produzione nonché i suoi ascendenti tematici e stilistici nello scenario della storia dell’arte contemporanea. Come è noto, le avanguardie storiche, nei primi due decenni del novecento, hanno totalmente, nei fatti, rivoluzionato il panorama artistico europeo giungendo, in nome di una sperimentazione continua, praticamente agli antipodi di qualsiasi tradizione artistica precedente. La rottura con il passato è stata dunque definitiva e inevitabile. Quando, nel 1937, Picasso compone la grande opera sul bombardamento di Guernica, il suo linguaggio figurativo ritorna improvvisamente alle scomposizioni e alle sintesi cubiste. Ma ciò passa in secondo piano rispetto al grande significato politico e umano dell’opera: ossia l’impegno dell’artista nel denunciare una grande tragedia dell’umanità. Il significato di Guernica viene quindi letto principalmente come una sorta di monito per gli artisti ad impegnarsi nella lotta ideologica e sociale. Le tecniche, i contenuti e la poetica prodotte da questo rinnovamento sembrano scaturire da una sorta di evoluzione del sapere comune, quello che Jung definisce “inconscio collettivo”. La nascita di questo modello, al quale si ispirerà una parte delle generazioni future, e che certamente ha influenzato la concezione della narrazione figurativa di Gianfranco Morello, si contraddistingue per due sostanziali componenti del tutto speculari che ne andranno a stigmatizzare il prodotto artistico: l’essere un documento contemporaneo alla vita dell’autore per poi trasformarsi in un solido elemento storico-letterario. La pittura di Gianfranco Morello è dunque il frutto di un’interazione fra opera,

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tempo e sentire in quanto essa si fa strumento del pensiero della sua contemporaneità. C’è inoltre da evidenziare un dato assai importante nella breve ma intensa vicenda artistica di Morello, un elemento che forse spiega la ragione della componente così poderosamente drammatica presente in ogni sua opera. Egli, a differenza di altri pittori suoi contemporanei che negli anni hanno sperimentato tecniche, mutato tendenze, dato vita a cambiamenti espressivi talvolta operato, finanche, rivoluzioni stilistiche, egli dicevo, il nostro Gianfranco, mettendosi all’opera dopo quarantatre anni di interruzione, ha riversato nei suoi dipinti il frutto di un’intera vita passata ad osservare il suo mondo. Cosi come se, al termine di un lungo viaggio attraverso le vicende della vita, avesse deciso di raccontare i sentimenti provati usando il linguaggio della pittura. Ecco perché nelle opere di Gianfranco si respira un’aria intrisa di drammaticità. Vi è in lui un richiamo all’antica tragicità, una tragicità tutta apollinea, mediata dall’intelletto dalla quale emerge preponderante un profondo senso di pietas. Perché in ogni sua rappresentazione non vi è solo il racconto tragico ma anche la sua grande compassione per un’umanità protesa verso un insensato egoismo che è causa di sofferenza. Tuttavia il proprio tempo Gianfranco non sempre lo esprime con palese figurazione, fissando sulla tela attimi di vita del suo pensiero tragico. Per un’intima singolarità, che in verità non saprei dire se espressa con totale consapevolezza, il suo raccontare della vita si trasferisce in composizioni metafisiche, a volte misteriose e indecifrabili, nelle quali, costruendo intorno alla sua storia una dimensione spazio-temporale dilatata, come una sorta di curvatura cosmica, tratteggia con inquietante efficacia la sua personale visione della solitudine.

Turno di notte

In questa tela troviamo espressa, nel suo più vivido significato, la perfetta interazione tra l’opera, la contemporaneità di cui parlavamo e il sentire

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dell’autore. In questo dipinto nulla è celato tra le pieghe della figura che vedete. Essa, volutamente confusa tra i fumi tossici del metallo fuso, esprime, più di ogni altro esempio di narrazione, la dura condizione dell’operaio costretto a vivere, a volte privo di qualsiasi tutela per la sua salute, a contatto con sostanze letali. Eppure, a questo lavoro è legato anima e corpo perché, sebbene consapevole che il solo respirare lo porterà ad una morte prematura, sceglie ciò che per lui è il male minore. Questo nuovo modello di eroismo, che Morello ci mostra in questo dipinto, non è frutto della sua immaginazione e nemmeno di letture tratte da cronache giornalistiche; egli tutto questo lo ha visto con i propri occhi e ce lo racconta a suo modo. Si fa latore di una denuncia indirizzata a una società impietosa ed egoista che guarda solo al presente.

Solo con la mia ombra

Se nella precedente tela Gianfranco Morello si presenta a noi come un cronista che denuncia l’oggettiva condizione di persone costrette a pagare un prezzo altissimo per evitare l’umiliazione della povertà, in questa sembra invece addentrarsi nel grigio e imperscrutabile labirinto della solitudine. Sembra quasi di udire la sua voce parlare ad un immaginario interlocutore che osserva la sua opera con espressione incerta: … a volte, in un qualche momento, nel

corso della vita, accade qualcosa … C’e in Gianfranco Morello un’indubbia predilezione per il mondo instabile dell’emotività. E’ proprio grazie a questa sua naturale inclinazione ad approfondire ambiti che appartengono alla sfera della psicologia del profondo, che il suo pensiero spesso indugia libero in quella remota parte della mente nella quale sono custoditi i delicati meccanismi che sostengono il fragile equilibrio della vita. Egli è ben consapevole che la solitudine, nella sua più ampia accezione, è quel

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terribile dirupo nel quale precipitano le speranze, le illusioni, i sogni di coloro che soffrono le privazioni della miseria, il disagio della malattia, l’abbandono. Creature, nella maggior parte dei casi, respinte dalla stessa umanità che li ha dati alla luce, emarginati senza un destino, in balia di contrastanti correnti che li obbligano a vagare come relitti senza una direzione oppure che, rinunciando a un sempre più impossibile affrancamento dalle loro miserabili condizioni, si alienano tragicamente dalla vita. La vita… questa straordinaria e irripetibile opportunità che qualcosa nell’universo

ci ha concesso di sperimentare e che, benché resti un attimo fuggente,

rappresenta una straordinaria e allo stesso tempo prodigiosa parentesi di

conoscenza.

Inferno

Per moltissimo tempo, con precisione 692 anni, lo spettro di un brutale castigo ha turbato le coscienze e i sogni di coloro che hanno vissuto le suggestioni dello spaventevole Inferno immaginato da Dante. Nell’ultima decade del ‘400, Sandro Botticelli ne ha realizzato alcune illustrazioni. Una, in particolare, è davvero un’eloquente rappresentazione, perfettamente impregnata della poetica dantesca. Ora qui abbiamo soltanto il titolo che si riferisce all’opera del Poeta perché Morello questo luogo di tormentosa sofferenza non lo ubica oltre la soglia della vita ma nel mondo reale.

L’intenso rosso che accende tutta la tela, le figure oscure, indistinte che risaltano in primo piano e che, nel significato che Morello attribuisce loro,

sono uomini dannati da una sorte malevola che vagano immersi nelle tristi acque della disperazione mentre l’umanità sta a guardare con incomprensibile distacco.

Tutto ciò richiama alla memoria i contesti ideologici che animarono i primi decenni del novecento. Vi è certo affinità tra le utopie di quel tempo e il grido inascoltato di un novello Adamo che accusa questa comunità di uomini di essere avara di solidarietà. Una sorta di romantica ribellione questa di Morello, che fa capolino da una lontana finestra del tempo e guarda con un certo

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rimpianto a quegli uomini che sognavano un cambiamento che mettesse fine alle sofferenze che l’umanità infligge a se stessa.

La Strada

Da questo dipinto erompe una malinconia indescrivibile. I nostri occhi si fissano su di esso ghermiti da un senso di inafferrabile inquietudine che sprizza da ogni singolo filo che compone la tela sulla quale questo artista, dall’ineffabile sentimento tragico, ci racconta con una pietas fuori dal comune un dramma consumato chissà dove, in questo vasto mondo traboccante di ingiustizia e violenza. Il desolato paesaggio che fa da cornice alle due figure, concepito magistralmente dall’artista con tinte di un grigio struggente in cui la luce accentua il senso della solitudine che permea l’intera superficie del dipinto, sembra accompagnare, con un sentimento di mesto cordoglio, il duro andare di queste due persone: un padre che stringe a sè la disperazione del figlio in un abbraccio consolatorio, la sola cosa che è in grado di offrirgli. Un insieme, questo, in perfetta sintonia con la coscienza dell’artista che sceglie, consapevole dello straordinario valore della compassione, di immergere nel colore dell’ineluttabilità il dramma di quest’uomo. Un uomo che non ha scelta, per il quale il domani non ha colore.

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P A O L O C A M P O R E S E : I L P L A S T I C I S M O I R O N I C O -

D I N A M I C O D E I P E N S I E R I Maria Palladino

L’opera e la personalità artistica dello scultore Paolo Camporese riflettono l’assoluta necessità del “creare”, che nel suo caso s’intende nell’accezione primigenia e ancestrale del “plasmare” la materia informe, ovvero l’argilla – fra i più semplici materiali esistenti -, per infonderle nuova forma e significato. Questo “plasticismo innato” alla sua indole creativa, lo scultore lo deriva fin dagli anni giovanili delle prime esperienze artistiche, da una predisposizione a sé intrinseca all’indagine speculativa sull’esistente interno-esterno all’uomo. E’ infatti l’essere umano e il suo mondo, l’universo che lo circonda, così immenso e

straniante, incommensurabile e intimamente inconoscibile, il motivo di fondo che si evince latente in tutta l’opera di Paolo Camporese, e che con reticenza, quasi con timidezza, si ritrae e sfugge ad uno sguardo in prima istanza meno attento. La figura umana, rappresentata integralmente o nella forma e nelle grandezze diverse del busto, della testa, del gruppo - ritratto o invenzione fantastica che sia -, costituisce l’elemento cardine della sua poetica. L’uomo, nella sua dimensione più concreta e tangibile – perché tutta l’arte di Paolo Camporese parte da una visione completamente effettiva e pratica, sperimentabile, della realtà -, col suo bagaglio completo di sentimenti, espressioni, questioni vitali primarie, ci descrive sé e si lascia volentieri ammirare nei personaggi raffigurati, inducendoci per via spontanea e piacevole all’introspezione riflessiva e alla meditazione. L’artista ci parla di sentimenti in maniera completamente, immediatamente comprensibile e condivisibile: perché si tratta di sentimenti fondamentali nella vita di ogni individuo: l’amore nelle sue diverse declinazioni, compresi gli affetti familiari, le cure di ogni giorno, il senso della diversità e l’importanza delle differenze, lo spaeasamento che si prova al confronto con l’infinito, sia esso infinitamente piccolo o grande, infinito mentale o fisico. E inoltre il tempo, con le sue inevitabili implicazioni presenti, passate e future, che costruiscono un dialogo incessante ed essenziale, assolutamente consolante, verso un fine di cui non possiamo o in ultima analisi non è indispensabile avere certezza. Sopra tutto questo aleggia, volendo rivolgere uno sguardo globale alla produzione dello scultore, una delicata atmosfera d’ironica malinconia, o d’ironia malinconica – ben evidente nei volti dei suoi personaggi – che costituisce poi la faccia di una stessa medaglia con effige umana. Altro elemento principe della sua visione artistica è per l’autore appunto il

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modellare, che allunga foggiandole le forme, conquistando l’anatomia dei corpi, in un costante oscillare fra addizione e sintesi, gusto raffinatamente barocco e più contemporanea semplificazione formale, perizia descrittiva e abile astrazione. Alla base di tutta la produzione di Paolo Camporese vi è infatti una profonda e ricercata cultura artistica, che egli media con l’ausilio di una pregevole maestria tecnica - conquistata in anni di paziente lavoro e studio -, e di una particolare inventiva, che colora e trasfigura anche le fattezze di più evidente derivazione classica.

Si tratta di sculture, figurative o astratte, perlopiù organiche, cui sembra essere connaturato il movimento: rotazioni, torsioni, scorrimenti, piegarsi delle membra al limite delle loro possibilità, quasi arrivando al confine con l’ascetismo e la trascendenza. Le sculture di questo artista riempiono appieno e gradevolmente lo spazio intorno, conquistando attenzione, invitandoci ad esplorarle da ogni lato e angolazione: perché possono rivelarci sorprese e simboli inaspettati, come anche una finitezza esteriore del tutto apprezzabile, una visuale d’insieme che non stanca mai di farsi

ammirare. Il colore aggiunto ai corpi in diverse modalità e composizioni, arricchisce, evidenzia e conferisce carattere, e insieme apre alla mente ulteriori campi d’indagine. L’arte di Paolo Camporese procede sollecita verso il superamento delle sue stesse premesse, culturali e pratiche, verso la realizzazione del concetto, che si concretizza nel fare e che è poi il compimento più esauriente della personalità dell’artista, l’adempimento più soddisfacente delle sue possibilità, sempre passibili di prossimi, sorprendenti sviluppi.

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L A C R I S I E C O N O M I C A E L A M A N C A N Z A D I L I Q U I D I T À

Luca Caffa

L’attività imprenditoriale nel nostro paese è sempre stata costellata da una moltitudine di ostacoli, primo fra tutti l’intricato sistema burocratico che avvolge e complica qualunque tipo di attività, dalla costituzione di una società alla semplice assunzione di manovalanza. Spesso si dice che il miglior socio di un imprenditore è lo Stato, non

tanto per un’effettiva partecipazione all’alea intrinseca in tale attività, quanto perché, a causa dell’elevatissima pressione fiscale, gran parte del denaro guadagnato finisce nella casse dell’Erario. Ma a tanta solerzia nel prelevare non sempre corrisponde la stessa propensione ad individuare una qualche soluzione quando, per cause proprie o per cause imprevedibili, l’imprenditore venga a trovarsi in difficoltà. In questi ultimi anni la difficile congiuntura economica che ha colpito il nostro Paese ha generato una forte contrazione dei consumi che, sommata ad una difficoltà diffusa e crescente nell’accesso al credito, ha fatto sì che molte aziende si siano trovate in carenza di liquidità e si siano avviate verso il fallimento. Spesso succede che l’imprenditore, oltre a dover assistere impotente al fallimento della propria azienda, si ritrovi anche invischiato in ulteriori problematiche con strascichi giudiziari. Infatti sovente accade che, trovandosi in crisi di liquidità, l’imprenditore decida di privilegiare gli stipendi dei dipendenti a scapito delle ritenute fiscali che avrebbe dovuto versare all’erario, con la conseguenza di ritrovarsi con un procedimento penale a carico. Prendendo in esame la normativa sul versamento dell’IVA, è soggetto a sanzione penale l’imprenditore, per il fisco il sostituto d’imposta, che omette di versare le ritenute dovute entro il termine fissato per legge. Ma cosa accade se l’imprenditore non vuole evadere le tasse e semplicemente si trova in mancanza di liquidità? Semplicemente dovrà sottostare alla sanzione penale al pari di un normale evasore fiscale, perché lo stato non vede alcuna differenze tra le due situazioni. Ciò accade in quanto il reato in esame non necessità di un dolo specifico, come la volontà di evadere, ma è sufficiente che l’imprenditore ometta di versare le ritenute dovute, qualunque ne sia la ragione. Tuttavia ultimamente, in questo settore, pare si stia aprendo uno spiraglio. La giurisprudenza non ha potuto ignorare il contesto storico attuale, imponendo ai giudici di non esimersi dal valutare ogni elemento oggettivo che si palesa nell’esplicazione della condotta dell’imprenditore, ivi compresa la crisi economica.

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Ovviamente la crisi economica non potrà essere eletta come male supremo a cui imputare la causa per ogni singolo dissesto, pertanto tale elemento potrà emergere quando la crisi di sia palesata in maniera imprevista ed imprevedibile, estrinsecandosi in una forza maggiore incontrastabile, tale per cui risulti assolutamente impossibile, per l’imprenditore, agire diversamente se non in violazione della norma penale. Di conseguenza, pur essendo il mancato versamento delle ritenute causalmente riconducibile all’agire del sostituto d’imposta, questi non è punibile perché è stato costretto ad agire in tal modo da un fattore oggettivo incontrastabile. Resta ora da comprendere quando la crisi economica possa realmente essere ritenuta responsabile del dissesto di un’azienda. In questo ci viene in soccorso la giurisprudenza che ha elaborato le linee guida al fine di accertare quando effettivamente tale costrutto risulti applicabile. Innanzitutto lo stato di dissesto non deve essere in alcun modo imputabile all’imprenditore, in pratica non deve sussistere uno stato mancanza di liquidità preordinato e finalizzato al mancato pagamento delle ritenute. In seconda battuta è essenziale che la crisi economica non possa in alcun modo essere fronteggiata attraverso le consuete misure applicabili in situazioni di difficoltà. In particolare l’accertamento di questo secondo punto risulta sicuramente più elaborato ma non per questo particolarmente ostico. Innanzitutto acquista grande valenza l’aver posto in liquidazione la società. Tale azione, tendente alla salvaguardia dei creditori attraverso la cessione dei beni societari, è essenziale soprattutto al fine di escludere una qualsivoglia volontà fraudolenta da parte dell’imprenditore. Allo stesso modo vengono valutate le attività volte alla vendita di partecipazioni in altre società finalizzate all’aumento di liquidità e la cessione onerosa di un ramo d’azienda a terzi che salvaguardia la continuità produttiva, garantendo un ritorno monetario. Quando tutti questi strumenti danno un risultato nefasto, per la giurisprudenza significa che la crisi economica può essere assurta a elemento che, nella sua oggettività, si è inserito come forza imponderabile, determinando l’agire causale dell’imprenditore che pertanto merita di essere sgravato dalla pretesa punitiva. Ma, come per tutte le innovazioni, è necessario del tempo. La giurisprudenza menzionata, infatti, si riferisce ai Tribunali di Milano, Roma e Venezia in quanto tali concetti non sono stati ancora fatti propri dalla Cassazione che rimane graniticamente ancorata al proprio orientamento. Secondo la Suprema Corte, la crisi economica non ha alcuna rilevanza con la violazione della norma penale riguardante il versamento dell’IVA, in quanto il sostituto d’imposta, in qualità appunto di sostituto, ha l’obbligo di accantonare le somme che dovranno, solo successivamente, essere versante allo stato. Di conseguenza l’imprenditore non ha mai la disponibilità delle somme che già alla fonte hanno come destinazione l’erario, per cui nessuna scusa può essere addotta per giustificare la mancanza di liquidità, neppure la crisi economica.

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Tale assurto appare totalmente condivisibile in virtù della correttezza logico-giuridica del ragionamento espresso. Ciò non significa che le conclusioni a cui sono giunti i singoli Tribunali siano errate, ma semplicemente che tali Giudici hanno cercato di dare una risposta concreta ad una problematica sempre più attuale e che è stato fatto un primo timido tentativo verso una evoluzione che, in un futuro prossimo, potrebbe portare ad una modifica normativa di grande interesse. Infatti non si può che essere d’accordo con l’autorevole dottrina che ha sempre espresso grandi dubbi sulla politica criminale riguardo a determinati reati finanziari, in particolare quando la punibilità di una condotta risulta apoditticamente dimostrata senza alcuna valutazione dell’insieme di elementi oggettivi che, pur essendo apparentemente estranei al processo volitivo, in alcuni casi specifici possono invece essere più che determinanti. Non ci resta che attendere che la Cassazione faccia proprie le conclusioni a cui sono giunti i Tribunali o che magari, nel frattempo, non intervenga una modifica normativa che segua la nuova impostazione modificando la condotta tipica incriminatrice della norma stessa.

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V E R S O M O N E T : S T O R I A D E L P A E S A G G I O D A L

S E I C E N T O A L N O V E C E N T O

Verona, Palazzo della Gran Guardia 26 ottobre 2013-9 febbraio 2014 Vicenza, Basilica Palladiana 22 febbraio-4 maggio 2014 Nuovi capolavori arricchiscono ulteriormente la mostra sulla storia del paesaggio. La sezione su Monet propone ora ben 25 opere del maestro Marco Goldin e il Sindaco di Vicenza, Achille Variati, hanno presentato a Palazzo Trissino "Verso Monet. Storia del paesaggio dal Seicento al Novecento", la grande esposizione in Gran Guardia a Verona e poi in Basilica Palladiana a Vicenza, che farà seguito a quella sul ritratto ammirata da 367.999 visitatori nelle due città venete fino a pochi mesi fa. La grande mostra avrà la sua prima sede nel palazzo della Gran Guardia a Verona dal 26 ottobre 2013 al 9 febbraio 2014, e poi sarà accolta a Vicenza dal 22 febbraio al 4 maggio 2014, ed è dedicata alla storia del paesaggio in Europa e in America dal Seicento al primo Novecento. Il progetto a suo tempo comunicato ha avuto in queste ultime settimane un eccezionale, ulteriore arricchimento. Ai capolavori già previsti se ne sono aggiunti altri, di assoluto rilievo. In mostra si potranno così ammirare ben 94 dipinti e 10 preziosi disegni provenienti come sempre da alcuni tra i maggiori musei del mondo, e da alcune collezioni private. A completare i prestiti, una camera oscura del secondo Settecento, che sarà posta al centro della sala dedicata alla veduta veneziana del XVIII secolo. L'esposizione si sviluppa in cinque sezioni (Il Seicento. Il vero e il falso della natura; Il Settecento. L'età della veduta; Romanticismi e Realismi; L'impressionismo e il paesaggio; Monet e la nuova idea di natura), che descriveranno i momenti fondamentali legati alla narrazione della natura come fatto autonomo e indipendente rispetto all'inserimento delle figure.

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Insomma, quella sorta di emancipazione dell'immagine quando il paesaggio non è più visto come semplice fondale scenografico, ma campeggia quale divinità assoluta e dominante. "E' al 1865, momento centrale dell'esperienza di Monet a Fontainebleau, che data - afferma con giusto orgoglio Goldin - "Il sentiero di Chailly nella foresta di Fontainebleau", dal museo Ordrupgaard di Copenaghen, capolavoro assoluto del maestro e uno dei nuovi prestiti. Come questa opera perfettamente evidenzia, Monet trapassa dal senso pur nobile della realtà, che a Corot prima di lui giungeva da una tradizione secolare - evidenziata in questa mostra -, e si spinge con le ninfee finali, ma già con le "serie" dell'ultimo decennio dell'Ottocento, verso il campo aperto di un paesaggio che non dimenticando appunto la realtà si appoggia quasi totalmente ormai sull'esperienza interiore. Aprendo così ad alcune delle manifestazioni più belle e nuove della natura dipinta nel corso del Novecento. Monet dunque quale paradigma del nuovo paesaggio, il punto di attraversamento tra un prima e un poi. Per questo motivo, la sua presenza coprirà una parte ampia dell'intera esposizione, con venticinque dipinti. Una vera e propria mostra nella mostra". La mostra, con un'altra innovazione dell'ultima ora, grazie alla disponibilità della Pinacoteca nazionale di Bologna, trascorrerà dalle esperienze introduttive di Annibale Carracci e Domenichino, tra fine XVI e inizio XVII secolo, con due quadri importanti prestati dall'istituzione bolognese, fino a quelle, dai primi due derivate e fondamentali, di Lorrain, Poussin e Salvator Rosa (altro nuovo inserimento, con due grandi tele che per la prima volta giungono in Italia dal Ringling Museum of Art di Sarasota, in Florida) nel XVII secolo. Per documentare il passaggio dal falso al vero della natura, per andare poi nell'Olanda sempre seicentesca di Van Ruisdael, Seghers, Van Goyen, Cuyp e Hobbema tra gli altri, quando la verità del vedere fonda il paesaggio moderno. E una decina di disegni, ulteriore, recentissima addizione, da Lorrain a Rembrandt, da Koninck a Van Ruisdael, segneranno l'importanza di questa tecnica nell'esplorazione diretta della natura. Grazie alla generosità immediata di due tra i musei che posseggono alcune tra le migliori collezioni di disegni al mondo, il Boijmans Museum di Rotterdam e lo Szépmuveszéti Museum di Budapest. Il primo porterà i suoi fogli a Verona e il secondo li porterà a Vicenza, per preservare il tempo massimo di esposizione di carte così preziose e delicate, che saranno inserite in una grande vetrina opportunamente climatizzata e illuminata. Vi sarà poi l'incontro con alcuni artisti che sono stati pietre miliari per la nuova immagine del paesaggio. Come diranno bene talune vicende successive, nel Settecento e ancora nell'Ottocento. Per il Settecento si è scelta, altra novità dell'ultima ora, grazie alla pronta generosità di Banca Intesa che lo custodisce in collezione, prima la sosta su Van Wittel nei suoi anni romani con una meravigliosa veduta di piazza del Popolo del 1719, per la nascita del concetto appunto di veduta, e poi un suggestivo, e importante, affondo veneziano tra Canaletto, Bellotto e Guardi. A sintetizzare invece la meravigliosa età della veduta veneziana, con una quindicina di opere, alcune provenienti da musei americani e per questo esposte raramente o mai in Italia. Per entrare poi nel XIX secolo, con le figure imprescindibili di Turner, Constable e Friedrich, coloro che ridisegnano l'idea della natura entro il nuovo spirito romantico. I vari realismi porteranno quindi la mostra tra la Francia di

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Barbizon, la Scandinavia, l'Est Europa e l'America della Hudson River School. Fino a che giunge appunto Monet a rovesciare, utilizzando dapprima gli elementi proprio del realismo, il concetto di paesaggio dipinto. E lasciandosi affiancare dai compagni impressionisti e post impressionisti, da Renoir a Sisley, da Pissarro a Caillebotte, da Degas a Manet. Per giungere alle esperienze fondamentali di Van Gogh, Gauguin e Cézanne. Anche di Van Gogh e Cézanne due nuovi capolavori in mostra, con prestiti confermati negli ultimi giorni dallo Stedelijk Museum di Amsterdam: il magnifico "Orti a Montmartre" di Van Gogh,il più grande quadro da lui mai dipinto, e una versione delle Sainte-Victoire di Cézanne. Tutti presenti, questi e altri autori, con nuclei di opere selezionate, a cominciare dalle sette di Vincent van Gogh, grazie alla usuale, preziosa collaborazione del Van Gogh Museum di Amsterdam e del Kröller-Müller Museum di Otterlo. Per dire solo di due dei musei prestatori, oltre a quelli già citati, e che poi vanno dalla National Gallery di Washington al Museum of Fine Arts di Boston, dal Philadelphia Museum of Art al National Museum of Wales di Cardiff, dal Wadsworth Atheneum di Hartford, alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo, solo per dire di alcuni tra i tanti. Informazioni e prenotazioni, Linea d'ombra (0422.429999, www.lineadombra.it)

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L ’ E N I G M A E S C H E R

P A R A D O S S I G R A F I C I T R A A R T E E G E O M E T R I A 19 ottobre 2013 – 23 febbraio 2014

UN’AMPIA MOSTRA ANTOLOGICA E UN CICLO DI GRANDI CONFERENZE MAURITS CORNELIS ESCHER. Uno dei miti del ’900 nel panorama della produzione grafica contemporanea

L’esposizione promossa e organizzata dalla Fondazione Palazzo Magnani di Reggio Emilia è curata da un Comitato scientifico d’eccezione coordinato da Piergiorgio Odifreddi, logico matematico di fama internazionale, e

composto da Marco Bussagli, saggista, storico dell’arte, docente di prima fascia presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, da Federico Giudiceandrea, collezionista e studioso di Escher e da Luigi Grasselli professore ordinario di Geometria, pro-rettore dell’Università di Modena e Reggio Emilia. La mostra presenta la produzione dell’incisore e grafico olandese, dai suoi esordi alla maturità, raccogliendo ben 130 opere provenienti da prestigiosi musei, biblioteche e istituzioni nazionali tra i quali la Galleria d’Arte Moderna di Roma, la Fondazione Wolfsoniana di Genova ecc. oltre che da importanti collezioni private. A Palazzo Magnani saranno riunite xilografie e mezzetinte che tendono a presentare le costruzioni di mondi impossibili, le esplorazioni dell’infinito, le tassellature del piano e dello spazio, i motivi a geometrie interconnesse che cambiano gradualmente in forme via via differenti.

“…con le mie stampe, cerco di

testimoniare che viviamo in un mondo

bello e ordinato e non in un caos senza

forma, come sembra talvolta. I miei

soggetti sono spesso anche giocosi: non

posso esimermi dallo scherzare con le

nostre inconfutabili certezze. Per

esempio, è assai piacevole mescolare

sapientemente la bidimensionalità con

la tridimensionalità, la superficie piana

con lo spazio, e divertirsi con la gravità… E’ piacevole osservare che parecchie

persone sembrano gradire questo tipo di giocosità, senza paura di cambiare

opinione su realtà solide come rocce.”

Ed ecco quindi le prime ricerche testimoniate da opere come Ex

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libris (1922), Scarabei (1935); le grafiche suggestionate dai paesaggi italiani Tropea, Santa Severina (1931) dove Escher struttura lo spazio; Metamorfosi II (1940) una delle più lunghe xilografie a quattro colori mai realizzate per narrare una storia per immagini, in cui una scena conduce a quella successiva attraverso una sottile e graduale mutazione delle forme; le figure impossibili di Su e giù (1947) e di Belvedere (1958); le straordinarie tensioni dinamiche tra figura e sfondo nei fogli come Pesce (1963). Accanto alle sue celebri incisioni – in mostra capolavori assoluti come Tre sfere (1945), Mani che disegnano (1948), Relatività (1953), Convesso e concavo (1955), Nastro di Möbius II (1963) – saranno presentati anche numerosi disegni, documenti, filmati e interviste all’artista che mirano a sottolineare il ruolo di primo piano che egli ha svolto nel panorama storico artistico sia del suo tempo che successivo. Una sezione di mostra sarà dedicata al confronto della produzione di Escher con opere di altri importanti autori – ispiratori, coevi e prosecutori – per comprendere come le scelte di Escher siano in consonanza con una visione artistica che attraversa i secoli, con una consapevolezza maggiore o minore che, talora, risponde ad esigenze diverse, ma che parte dal Medioevo, interseca Dürer, gli spazi dilatati di Piranesi, passa attraverso le linee armoniose del Liberty, Secessione Viennese, Koloman Moser e si appunta sulle avanguardie del Cubismo, del Futurismo e del Surrealismo, Dalì, Balla. Se la grandezza di un artista si misura anche dalla capacità d’influire su altri artisti, come pure sulla società circostante, Escher è stato artista sommo. La sua arte è uscita dal torchio del suo studio per trasformarsi in scatole da regalo, in francobolli, in biglietti d’auguri; è entrata nel mondo dei fumetti ed è finita sulle copertine dei long-playing, come si chiamavano a quell’epoca i 33 giri incisi dai grandi della musica pop. Non basta, però. La grande arte di Escher ha influito più o meno direttamente su altre figure di rilievo dell’arte del Novecento, come VictorVasarely, il principale esponente dell’Optical Art, Lucio Saffaro ecc. Ha contratto un debito di creatività con Maurits Escher perfino un pittore americano come il dirompente Keith Haring. La sezione illustra con dovizia di materiali e una ventina di opere questi aspetti dell’arte di Escher per restituire al visitatore la giusta dimensione culturale ricoperta dell’artista olandese.

La mostra è inoltre concepita come uno strumento e una “macchina didattica” che consente di entrare “dentro” la creatività di questo singolarissimo artista. Suggestive installazioni immergeranno dunque il visitatore nel magico modo di Escher. E’ evidente, e molto indagato, il rapporto che Escher ebbe con “il mondo dei numeri” – intendendo per tale quello della geometria (euclidea e non) e della matematica. Non meno intrigante è la sua ricerca su spazio

reale e spazio virtuale, ovvero sul come “ingannare la prospettiva”. Infine, ma

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non ultima, la conoscenza che Escher dimostra delle leggi della percezione visiva messe in luce dalle ricerche della Gestalt. Tutte possibili chiavi di lettura, certo non le uniche, per comprendere l’universo creativo di un artista complesso che, partendo da quelle premesse, attinse a piene mani a vari linguaggi artistici, mirabilmente fusi insieme in un nuovo ed originalissimo percorso che ancora ci emoziona e che costituisce un unicum nel panorama della Storia dell’Arte di tutti i tempi. Accompagna la mostra un ricco catalogo SKIRA con testi di Piergiorgio Odifreddi, Marco Bussagli, Federico Giudiceandrea e Luigi Grasselli e accurate schede delle opere in mostra.

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I L M A P P A M O N D O D I F R À M A U R O

Cimeli marciani in mostra a Canberra (Australia)

Il Mappamondo di Fra’ Mauro, uno dei tesori della Biblioteca Nazionale Marciana, sarà eccezionalmente in mostra alla National Library of Australia (Canberra) dal 7 novembre 2013 al 10 marzo 2014, in occasione dell’esposizione Mapping Our World: Terra Incognita to Australia. In mostra sarà inoltre esposto anche il codice Ptolemaeus Claudius Geographiae, uno dei cimeli più preziosi e importanti conservati dalla Biblioteca Nazionale Marciana, realizzato su commissione del Cardinale Bessarione, suo fondatore.

La Direzione Generale per le Biblioteche, gli Istituti culturali e il Diritto d’autore del Ministero dei Beni e della Attività culturali e del Turismo, a seguito della richiesta della Biblioteca e delle relazioni tecniche che hanno fornito le garanzie necessarie, ha autorizzato l’esportazione temporanea dei preziosi manufatti in considerazione dell’importanza della mostra, consentendo al pubblico australiano ed internazionale, e in particolare alla comunità italiana presente in Australia, di ammirare per la prima volta alcune mappe e carte geografiche, spesso dei capolavori assoluti, che hanno fatto la storia della cartografia come scienza della rappresentazione del mondo. Tali documenti permetteranno in particolare di seguire il modo in cui gli esploratori europei hanno, mano a mano, rivelato le caratteristiche e i segreti delle terre dell’emisfero australe. Alla mostra hanno concesso importantissimi prestiti anche la Biblioteca Apostolica Vaticana, la British Library e la Bibliothèque Nationale de France.

Il Mappamondo di Fra’ Mauro, creato e costruito da Fra’ Mauro, frater

conversus del Monastero Camaldolese di San Michele in Isola nella laguna veneziana, e completato nel 1460, costituisce il più importante testimone del passaggio della scienza cartografica dal Medioevo all’Età moderna che, per la

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storia della cartografia, significa il passaggio dalla rappresentazione del mondo come “repertorio di conoscenze, ipotesi, dicerie, leggende, testimonianze alle quali si tenta di dare rappresentazione grafica” (Piero Falchetta) alla rappresentazione del mondo come precisa e compiuta definizione dello spazio. Non a caso questo “passaggio” avviene a Venezia che, a metà del Quattrocento, costituisce uno dei maggiori centri di elaborazione culturale, e non solo, dell’Europa cristiana.

Per la realizzazione di questo eccezionale prestito è stato determinante il contributo dell’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario del MiBACT, che ha gentilmente messo a disposizione i due funzionari responsabili del Laboratorio per la conservazione preventiva e del Laboratorio di restauro, che hanno accompagnato le opere nel loro viaggio in Australia insieme al Direttore ed al Responsabile dell’Ufficio Mostre della Biblioteca Nazionale Marciana. Il Direttore generale della National Library of Australia, Anne-Marie Schwirtlich, ha dichiarato: Siamo

orgogliosi che la partnership sviluppata con la Biblioteca Nazionale Marciana

abbia permesso al Mappamondo di Fra Mauro, la maggiore delle mappe

medioevali, di essere al centro della mostra. La National Library of Australia è

particolarmente grata al Governo italiano per aver tanto generosamente

concesso questo eccezionale prestito, che non solo sviluppa ulteriormente le forti

relazioni culturali tra Australia e Italia, ma offre anche ai nostri visitatori

un’occasione unica di ammirare una delle più famose mappe di ogni tempo.

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A F E R R A R A Z U R B A R A N E I L G R A N D E S E I C E N T O

F E R R A R E S E

Ferrara, 14 settembre 2013- 6 gennaio 2014 Ferrara Arte affronta la stagione espositiva autunnale con una doppia proposta di altissimo livello. Filo comune: il grande Seicento. A Palazzo dei Diamanti ad esprimerlo sarà uno dei maggiori artisti del secolo, Zurbarán. E sarà la prima mostra mai dedicata in Italia al pittore spagnolo. Contemporaneamente a Palazzo Trotti Costabili, sede del Seminario vecchio, con la mostra Immagine e persuasione. Capolavori del Seicento dalle Chiese di Ferrara saranno accesi i riflettori sul Seicento ferrarese, a torto considerato "minore". Come questa mostra ben evidenzia, quello vissuto da Ferrara si dimostra invece un grandissimo Seicento, per nulla subalterno ai fasti cosmopoliti della casata degli Este nel Quattro e Cinquecento. Ad essere esposte saranno pale d'altare di Carlo Bononi, dello Scarsellino, di Francesco Costanzo Catanio, nonché quelle di Ludovico Carracci e del Guercino, tutte patrimonio delle chiese ferraresi ancora precluse al culto ed alla visita per gli effetti del sisma del 2012. Fulcro dell'autunno estense sarà, naturalmente, l'affascinante retrospettiva dedicata a Francisco de Zurbarán. Organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte in collaborazione con il Centre for Fine Arts di Bruxelles, la monografica dedicata a Zurbarán è l'occasione per ammirare per la prima volta in Italia i capolavori di uno dei massimi interpreti dell'arte barocca e della religiosità controriformista. Con questa rassegna, curata da Ignacio Cano con la consulenza scientifica di Gabriele Finaldi, la città di Ferrara intende riaffermare il proprio progetto culturale, teso a far conoscere al pubblico italiano autori di altissimo livello e interesse, ma poco noti nel nostro paese. Zurbarán, con Velázquez e Murillo, fu tra i protagonisti del Siglo de oro della pittura spagnola e di quel naturalismo raffinato che lasciò un'eredità duratura nell'arte europea. A rendere unico il suo stile fu la sua capacità di tradurre gli ideali religiosi dell'età barocca con invenzioni grandiose e al contempo quotidiane, plasmando forme di una tale essenzialità, purezza e poesia, da toccare profondamente l'immaginario moderno, come traspare dall'opera di

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quanti, da Manet a Morandi, fino a Picasso e Dalí, hanno guardato nei secoli successivi al maestro sivigliano. In tempi più recenti, studi autorevoli ed esposizioni internazionali hanno definitivamente sancito il suo fondamentale contributo alla storia dell'arte. Intorno a queste due importanti esposizioni, una città vivace, attiva, che cerca con determinazione di trasformare il dramma, ancora recente, del terremoto in una occasione per farsi ancora più bella.

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L E I M M A G I N I D E L L A F A N T A S I A 3 1 M O S T R A

I N T E R N A Z I O N A L E D ’ I L L U S T R A Z I O N E P E R L ’ I N F A N Z I A

Sarmede (TV), casa della Fantasia. 27.10.2013-22.12.2013, 26.12.2013-30.12.2013, 01.01.2014-19.01.2014 Il Messico è il Paese della Fiaba del 2013 Storie maya e atzeche protagoniste della mostra di Sarmede Serpenti piumati, fantasmi, amori tra sole e luna, pipistrelli bellissimi e leggeri colibrì popolano le fiabe, i miti e le leggende della multiforme tradizione messicana. E sarà proprio al Messico, che sarà dedicata la trentunesima edizione della Mostra internazionale d'illustrazione per l'infanzia "Le immagini della fantasia" che aprirà i battenti il prossimo 26 ottobre a Sarmede, il "Paese della Fiaba" ai piedi del Gran Bosco del Cansiglio. Messicano sarà anche l'ospite d'onore, il grande illustratore Gabriel Pacheco, presente in mostra con una sezione lui interamente riservata. A Sarmede, Pacheco terrà anche un corso per giovani illustratori e lascerà traccia perenne del suo passaggio grazie ad un dipinto murale all'interno della Casa della Fantasia, nuova sede delle Mostra. Tredici tra i migliori artisti del panorama internazionale sono all'opera per dar vita a I Sogni del Serpente Piumato, il libro che sarà pubblicato in collaborazione con Franco Cosimo Panini Ragazzi e in coedizione con Sm Messico in uscita a ottobre. Ma accanto all'omaggio alla Nazione ospite e all'Illustratore dell'Anno, la Mostra proporrà ai suoi visitatori anche la grande carrellata del meglio che il settore dell'illustrazione per l'infanzia abbia proposto a livello mondiale. Di ciascun albo illustrato individuato in quest'area dell'eccellenza, saranno presentate alcune tavole originali. Complessivamente, nelle diverse sezioni, saranno più di trecento le illustrazioni esposte nelle sale della Casa della Fantasia, insieme ai libri per i quali sono state create. Qualsiasi sia l'età dell'osservatore, il perdersi e lo straniarsi in mondi, storie,

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situazioni fantasticamente rese dal genio dei grandi illustratori, diventa un processo naturale e bellissimo. Perché tecnica e fantasia, a questi livelli sublimi, convergono nel trasportarci in mondi paralleli, dove animali parlanti e effetti irreali divengono assolutamente veri. Per molti Sarmede è la dose annuale di ritorno all'infanzia e al sogno, ed è forse per questo che la Mostra attrae folle di bambini ma ancora più folle di adulti che qui vengono a "fare il pieno di fantasia". Il contesto stimola questo processo: anno dopo anno, il piccolo borgo tra le colline si popola di storie affrescate sulle facciate delle sue vecchie case; persino il Municipio è popolato di leoni, coccodrilli, pesci e pipistrelli giganti. Perché il modo delle fiabe, nonostante certe terribili storie, continua ad essere più bello del reale. Per informazioni: tel. +39 0438/959582 [email protected]; www.sarmedemostra.it

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S A N G U E D I D R A G O S Q U A M E D I S E R P E N T E

Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio

TRENTO, castello del Buonconsiglio, 10 agosto 2013-6 gennaio 2014

Sarà un enorme drago realizzato dallo scenografo-scultore Gigi Giovanazzi a dare il benvenuto al visitatore nella prima sala della spettacolare mostra estiva "Sangue di drago, Squame di serpente", ospitata dal 10 agosto 2013 al Castello del Buonconsiglio di Trento. La rassegna, organizzata in collaborazione con il Museo Nazionale Svizzero, permetterà a coloro che attraverseranno le magnifiche sale del Castello del Buonconsiglio di scoprire e conoscere attraverso affreschi, dipinti, sculture, arazzi e preziosi oggetti d'arte un mondo fatto di unicorni, draghi, centauri, grifoni, basilischi, sfingi, serpenti e animali fantastici e inconsueti che ricorrono costantemente nella mitologia e anche nella iconografia castellana. Colpiscono infatti i numerosi animali raffigurati negli affreschi che decorano il castello del Buonconsiglio eseguiti da Dosso Dossi nella Stua della Famea con le favole di Fedro, o la dama con unicorno, la scimmia, il serpente che morde l'Invidia dipinte da Girolamo Romanino o ancora il bestiario realizzato dal maestro Venceslao nel celebre ciclo dei Mesi in Torre Aquila o il prezioso erbario medievale conservato in castello. Scultura, pittura, architettura e disegno, raccontano il mondo animale, frutto delle fantasie e delle paure dell'uomo. Si potranno ammirare dipinti, con capolavori di Tiziano e Tintoretto, sculture rinascimentali, magnifici arazzi con scene marine provenienti dagli Uffizi e da Palazzo Pitti, preziosi monili d' oro, oggetti archeologici, oltre a filmati e scenografie emozionanti, grazie anche all'innovativo ausilio della realtà aumentata, che stupiranno e conquisteranno il più vasto pubblico. In una sala il visitatore sarà immerso in un atmosfera fantastica dove draghi tridimensionali gli si materializzeranno davanti provocando forti emozioni. La mostra sarà l'occasione per ammirare anche sfingi e centauri dipinti sia sui vasi a figure rosse e nere greci, sia nelle tele dei maestri bolognesi del Seicento, il gatto mummificato egiziano, la fontanella rinascimentale in bronzo con il mito di Atteone, il Laooconte proveniente dal Museo del Bargello di Firenze, un prezioso falco in bronzo, una rarissima casula (veste del prete) decorata, sculture di San Giorgio e il drago. Dagli animali sacri della tradizione cristiana alla mitologia con Diana cacciatrice a quelle care agli dei: il cigno, il toro e l'aquila per Giove, il leone per Sansone ed Ercole. E ancora i veri mostri delle leggende: draghi, chimere, unicorni, sfingi, mostri marini, centauri e sirene. La rassegna ospiterà anche alcune opere vitree (in prestito

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da Vetroricerca Glas&Modern - centro sperimentale di lavorazione del vetro di Bolzano) realizzate da famosi artisti contemporanei: tra queste le incredibili sculture in vetro di Silvia Levenson, artista argentina famosa in tutto il mondo per le sue opere eleganti ma provocatorie raffiguranti bambine con la testa di cervo e pecora e il Giardino Fantastico composto dagli animali in vetro di Alberto Gambale dove zebre, tori, cammelli, tartarughe, api e camaleonti stupiranno per originalità e fantasia. Nemico, preda, cibo, forza lavoro e mezzo di trasporto, l'animale è anche interprete della forza della natura primigenia e dell'immaginario nella sfera magico-religiosa ed eroica. Le eterne questioni della ferinità presente nell'uomo e dell'antropomorfismo ravvisato nel mondo animale, emergono attraverso le opere in mostra. Il percorso è dedicato sia ad alcuni animali reali che nel tempo hanno assunto, spesso anche in termini transculturali, complessi significati simbolici, sia ad animali fantastici interpreti di miti, leggende e credenze condivisi o peculiari di diversi popoli e civiltà. Aquila, leone, serpente, cervo, cavallo e pesci sono alcuni degli animali reali che danno origine ad esseri che, in più forme di ibridazione, variabili a seconda di tempi e luoghi, sono interpreti delle riflessioni, paure, speranze e immaginazione dell'uomo. Si potranno ammirare le tele del ciclo di Ercole con il drago a più teste, dipinto magistralmente da Paolo de Matteis, il famoso drago con due ali serpentine attaccate allo stesso tronco. Questi draghi nacquero dall'unione tra il multiteste Tifone e la donna-serpente Echidna. I figli dei due furono Chimera, dalla testa di leone e dal corpo di serpente-capra, Cerbero il cane a tre teste e l'Idra di Lerna, rettile con molte teste che verrà poi ucciso da Ercole, il quale sconfisse anche Ladone dalle cento teste e Scilla, dai tentacoli di piovra. Magnifico il dipinto conservato a Castel Thun eseguito a fine Seicento dal pittore tedesco Dietterlin che raffigura le Tentazioni di S. Antonio Abate dove draghi lanciano fuoco, un mostro alato regge uno spiedo con un pollo e serpenti infilzati e serpi fuoriescono dai capelli di una dama ignuda. La mostra avrà una sezione a Riva del dal titolo «Mostri smisurati» e creature fantastiche tra i flutti, che intende esporre un ristretto ma importante nucleo di opere prevalentemente cinquecentesche aventi per tema creature fantastiche e animali mitici che, nell'immaginario antico, abitavano le acque dei laghi e dei mari. Il precipuo taglio dato all'esposizione rivana, rispetto a quella ospitata nelle sale del Castello di Trento, deriva non solo dalla peculiarità della sede espositiva - la Rocca - circondata dalle acque del Garda, ma anche dalla presenza nelle prime sale della Pinacoteca, che ospiteranno la mostra, di un affresco che risale agli anni trenta del Cinquecento raffigurante Ercole, intento ad uccidere l'Idra, un mostruoso essere che viveva nel lago di Lerna nella regione greca dell'Argolide. Castello del Buonconsiglio, Via B. Clesio, 5 - 38122 Trento tel. 0461 233770 - fax 0461 239497 e-mail: [email protected] - www.buonconsiglio

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M I R A C U B A

Grafica Cubana 1959-1980. Pordenone, Spazi Espositivi di via Bertossi. 28 settembre 2013-12 gennaio 2014

Per qualità e completezza, la mostra proposta dal Comune di Pordenone negli Spazi Espositivi di via Bertossi è certamente la più importante sino ad oggi allestita in Italia sulla Grafica Cubana negli anni che seguirono la Rivoluzione castrista, ovvero dal 1959 agli anni Ottanta del secolo scorso. La prima data si rifà alla storia della Rivoluzione. Com'è noto, la lotta contro il Generale Batista che aveva avuto inizio con l'assalto alla Caserma Moncada il 26 luglio del 1953, si concluse appunto il 1 gennaio del 1959 con la fuga del Generale da Cuba mentre Santa Clara e Santiago di Cuba erano prese dalla milizia popolare guidata da Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara. Gli anni Ottanta, epoca di riferimento conclusivo della mostra, furono quelli che videro il Cartel Cubano esprimere il meglio di se, la sua stagione di maggiore creatività. L'esposizione pordenonese riunisce ben 350 tra manifesti e bozzetti originali, con numerosi esemplari unici appartenenti a collezioni pubbliche e private europee e americane. Documenta una delle stagioni più originali della grafica del Novecento, prodotto di una enclave unica al mondo per clima, caratteristiche e situazione. In questi anni tutti i messaggi dovevano concorrere a rafforzare la adesione popolare al nuovo ideale rivoluzionario. Alcuni lo fanno in forma diretta ma molti altri, altrettanto efficacemente, in modo indiretto, trasmettendo positività, gioia, colore in un momento oggettivamente non facile per l'isola caraibica isolata nel contesto internazionale. La grande mancanza di mezzi economici, lungi dal deprimerli, sembra stimolare gli artisti, o meglio i grafici di tutte le generazioni verso una creatività effervescente e innovativa. Che, pur nel reale isolamento, riesce comunque a catturare e elaborare originalmente, spunti, fermenti, idee dalla vicina America ma anche dall'Europa. Ciò che ha prodotto questo Laboratorio Cubano della Grafica è davvero stupefacente per varietà, colori, forza emozionale e iconografica, come la mostra pordenonese documenta e trasmette. Certo non mancano gli omaggi alle Icone: quella del Lider Maximo, ovviamente, ma anche quella del Che. Ma il Cartel Cubano è molto di più: il

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manifesto, qui più che altrove, riesce ad interpretare e proporre l'anima profonda di un popolo, in una isola multiculturale e multietnica. Si percepisce chiaramente che dietro ad ogni manifesto c'è una storia, un aneddoto, un racconto di vita, a proporre una immagine di Cuba mediata dal grafico ma aderente alla sensibilità e all'emozione di chi quel manifesto guarda e decritta. Oggi è il visitatore della mostra, ieri era il cittadino e patriota cubano, chiamato ad essere protagonista di una grande, difficile epopea. La mostra allinea i capolavori di un'epoca di comunicazione, le opere più significative di tutti i grandi grafici di quei decenni, nomi ormai parte di un mito. Qui saranno riunite, per la prima volta, le testimonianze dirette dei grafici superstiti di quella grande stagione. Diversi i filoni presenti in mostra. La celebrazione politica, innanzitutto. Ma anche i grandi temi e le realizzazioni sociali, dalla riforma sanitaria a quella agraria, alle campagne per l'educazione estesa a tutti. Poi la comunicazione culturale, verso la quale Castro mostrò ampio interesse, ed in particolare il cinema: straordinaria la sequenza di affiches (e di bozzetti) per i film o per le manifestazioni di e sul cinema. Il linguaggio creativo e figurativo è sempre espresso con grande libertà e autonomia e con l'efficacia consentita dalle tecniche serigrafiche e litografiche utilizzate per la stampa. Il Cartel Cubano, e lo si percepisce bene in mostra, sa svincolarsi dalla pura funzione promozionale "di prodotto" per raccontare, lungo filoni apparentemente diversissimi, l'Idea e l'Ideale di una nazione. Basti osservare la cinepresa con cui Alfredo Rostgaard ricorda il decimo anniversario dell'ICAIC, l'Instituto Cubano de Arte e Industria Cinematográficos. Nei suoi colori pastello trasmette tutta la vitale, gioiosa forza di una Nazione, forza che diventa potenza: quella cinepresa richiama il profilo di una mitragliatrice che lancia non proiettili ma il vivido fascio di luce dell'ideale rivoluzionario. [email protected] www.artemodernapordenone.it

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G E R O Q U A C A N A L E T T O

Venezia, Abbazia di San Gregorio 10 novembre – 27 dicembre 2013 Canaletto torna nel luogo dove dipinse un suo capolavoro. All’Abbazia di San Gregorio. Non una mostra ma un’esperienza emozionale. Assaporare, percepire, vivere, da soli, di giorno o di notte Per meno di 50 giorni Canaletto torna, 270 anni dopo, nel luogo in cui creò una delle sue opere più affascinanti, “L’entrata nel Canal Grande dalla Basilica della Salute”. Il capolavoro del grande vedutista tornerà esattamente là dove affascina pensare che l’artista l’abbia ideato e creato. Tornerà nell’incantevole loggiato dal quale egli, con la camera ottica, trasse le precise linee delle architetture che tra il 1740 ed il 1745 traspose nella sua celebre tela. E si tratta di architetture semplicemente magnifiche: la barocca meraviglia di marmo bianco creata dal Longhena come ex voto della città per la Salute ritrovata dopo l’ennesima pestilenza, più in là i Magazzini del Sale e la Punta della Dogana e, sull’altra sponda del Gran Canal, Palazzo Ducale e Riva degli Schiavoni, sulla quale la vista si perde all’infinito in un ritmo serrato e dettagliatissimo di particolari architettonici. Il tutto a sfondo di una città brulicante di vita, incontri, attività commerciali. Nobiluomini e mercanti sciamano da Palazzo Ducale, barcaioli e i gondolieri di casa accostano alla riva della Basilica, alla Punta della Dogana i sacchi di sale, le botti di vino e il cotone vengono raccolti nei magazzini. E’ la straordinaria quotidianità di una città vivacissima e ancora grande Capitale. Illuminata da un cielo di azzurro oltremare che si specchia su un’acqua verde turchino carica di rifrangenze di luce e di colore.

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Canaletto affronta meglio di ogni altro una problematica comune a tutti i pittori di veduta: abbracciare con un solo sguardo ciò che l’occhio non riesce a comprendere. E questo olio ne rappresenta una sintesi assoluta ed emblematica che si riflette in una composizione estremamente armonica ed unitaria dal taglio così ardito, che non si ritroverà neppure nei migliori “vedutisti” ottocenteschi, da Ippolito Caffi agli Impressionisti. “L’entrata nel Canal Grande dalla Basilica della Salute” affascinò Lady Lucas and Dingwall, sua prima proprietaria. L’opera venne acquistata successivamente da Henry Grey, Duca di Kent. Nell’aprile del 1970 è stata acquistata dall’attuale proprietà privata presso Sotheby’s a Londra. Prima di tornare temporaneamente “a casa sua”, l’olio del Canaletto è stato esposto, tra l’altro, a Madrid (Museo Thyssen-Bornemisza), Roma (Vittoriano), Milano (Palazzo Reale) e Parigi (Museo Maillol). Con modalità mai prima sperimentate in Europa, per i quasi cinquanta giorni di esposizione, intorno a questo magnifico quadro, ad essere proposta è una esperienza che non è una semplice visita, ma un incontro, una suggestione intima, emozionale. Un’esperienza che inizia, e ci accompagna, fin dai suggestivi, magici spazi della medievale Abbazia di San Gregorio e che culmina nella splendida sala ad angolo con affaccio unico al mondo sulla Basilica della Salute, sul Canal Grande, sul Bacino di San Marco. Luogo ipnotico, ricco di sognanti magie. Da anni mai aperta al pubblico, questa sala accoglierà la tela del Canaletto con un raffronto ineguagliabile tra tela e spazio urbano, tra irreale e reale, tra storia e contemporaneità. Già solo entrare in questo luogo ieratico e severo, immergendosi nel silenzio che ricorda che qui per quasi sette secoli vissero e pregarono generazioni di benedettini, è un’emozione forte di per sé stessa, ma ancor più se vissuta ed assaporata nelle ore serali o notturne. Sì, perché Canaletto si potrà ammirare H24. Anche da soli, per un’intera ora, o con pochi amici. Infatti, la straordinaria esclusività di questo “incontro” con l’opera sarà sottolineato dal fatto che l’accesso sarà consentito per un numero massimo di otto persone per ogni fascia oraria, e soltanto previa prenotazione on line su sito dedicato www.canalettovenezia.it. Ad introdurre all’opera e al suo Maestro è un video, vero e proprio film d’autore realizzato da Francesco Patierno, regista e sceneggiatore, rinomato autore di documentari, videoclip e spot pubblicitari. Il suo primo film "Pater Familias" è stato invitato in concorso al Festival di Berlino ed in più di cinquanta manifestazioni internazionali. Da allora un susseguirsi di successi, che hanno conquistato importanti riconoscimenti in Italia e all’estero. Sarà lui con Tonino Zera, ad occuparsi dell’allestimento del percorso espositivo/emozionale. Zera, esperto production designer, ha lavorato nel corso della sua carriera con affermati registi italiani e stranieri tra i quali Liliana Cavani, Gabriele Muccino, Carlo Carlei, Spike Lee, Sam Mendes, Dennis Hopper, Giuseppe Tornatore. Ha ricevuto quattro nomination per i David di Donatello come migliore production design per i film: “La sconosciuta” di Giuseppe Tornatore, “Hotel Meina” di Carlo Lizzani, “La prima cosa bella” di Paolo Virzì e “Gli angeli del male” di Michele Placido.

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Maurizio Calvesi, direttore della fotografia e professionista di fama internazionale, ha filmato i particolari del quadro con una tecnica innovativa in altissima definizione che verranno proposti come esperienza multimediale di approfondimento, attraverso la quale sarà possibile vivere una lettura inedita e dettagliatissima dell’opera. La magia di San Gregorio, la magia del miglior Canaletto, la magia del cinema d’autore e soprattutto la magia eterna di Venezia. Insieme, per offrire un’esperienza unica, da vivere e concedersi almeno una volta nella vita. INFO Info: www.canalettovenezia.it

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