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Porta il tuo cuore in Africa Anno VIII, n. 3 – Ottobre 2008 Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 2, DCB Lecco www.amaniforafrica.org Chi è il muzungu? di Stefano Marras pag 2 Lo Spunto Axum, per non dimenticare a cura della redazione pag 4 News Dallo Zimbabwe, fuga senza fine a cura della redazione pag 5 La scuola secondo Farid a cura di Claudia Robustelli pag 7 Progetti a pag. 2 News AMANI Quel '68 africano di Diego Marani* Nella babele di commemorazioni di quest'anno qualcuno si ricorda che “il '68” c'è stato anche in Africa? In Senegal quarant’anni fa gli uni- versitari si ribellarono. A Dakar gli studenti accusavano il regime di essere al servizio della borghe- sia locale e del neocolonialismo straniero. Il primo slogan si sa- rebbe potuto sentire un po' do- vunque, il secondo era tipicamen- te africano e “terzomondista”. An- che Dakar ebbe le proprie barri- cate, seppur assai meno mediatiz- zate di quelle di Parigi. Tre giorni di scontri finirono con un 1 morto e 25 feriti e la proclamazione del- lo stato d’emergenza dal 18 al 31 maggio, quando intervenne anche l'esercito. Senegal e Francia, Dakar e Parigi. Intellettuali e artisti dell'Africa francofona guardavano a Parigi anche solo per criticarla o per smar- carsi dall'impronta della “madre- patria” coloniale. A Parigi quel- l'anno la settimana del cinema afri- cano aveva fatto conoscere un re- gista destinato a diventare un gran- de: Sembène Ousmane. Dopo la rivolta che sarebbe passata alla storia come il maggio francese, an- che il settimanale Jeune Afrique dedicava la copertina e gli editoriali alla ribellione degli studenti della Sorbona. Sarà lo storico burkinabé Joseph Ki- Zerbo a scrivere proprio su Jeune Afrique una delle analisi più acu- te della ribellione degli studenti senegalesi. Essi non fanno più par- te della generazione che aveva lot- tato per l'indipendenza e che ave- va imparato a ribellarsi contro la Francia combattendo – proprio per l'esercito francese – nei vari cam- pi di battaglia in giro per l'Europa. Perché, scrive Ki-Zerbo, «la se- conda guerra mondiale non conta nulla per chi è nato nel '48». I gio- vani si ribellano invece contro i lo- ro padri, anche perché il paterna- lismo ormai in Africa è diventato «un'istituzione». Certo, Ki-Zerbo parla non dell'Africa rurale dei vil- laggi, bensì di una minoranza che vive nelle città. Dove i giovani «aspirati nella spirale del consu- mismo di massa sono i clienti pri- vilegiati». Gli adulti hanno con- quistato l'indipendenza, gestisco- no il potere, quando possono si ar- ricchiscono; i giovani consumano. I loro riferimenti non sono africa- ni, perché «l'università in Africa non è ancora africana». Docenti, li- bri di testo, la maggior parte dei fi- nanziamenti spesso provengono dalla ex madrepatria. Nel luglio 1968 a Nairobi una con- ferenza internazionale riunisce i rappresentanti di 34 paesi africa- ni (ovvero quasi tutti quelli allora indipendenti) per parlare del si- Come una Rock Star L'istrione Gheddafi domina la scena accogliendo prima Berlusconi e poi la Rice. La Libia diventerà un avamposto delle frontiere italiane? pag 3 © Eligio Paoni / Contrasto

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a cura di Claudia Robustelli News News Porta il tuo cuore in Africa Lo Spunto pag2 Progetti www.amaniforafrica.org di Stefano Marras pag 4 pag 5 pag 7 a cura della redazione a cura della redazione di Diego Marani* Spedizione in A.P. D.L.353/2003 (conv.in L.27/02/2004 n.46) Art.1 comma 2, DCB Lecco Anno VIII,n.3 – Ottobre 2008 a pag. 2 © Eligio Paoni / Contrasto

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Porta il tuo cuore in Africa

Anno VIII, n. 3 – Ottobre 2008Spedizione in A.P.

D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)Art. 1 comma 2, DCB Lecco www.amaniforafrica.org

Chi è il muzungu?

di Stefano Marras

pag 2 Lo Spunto

Axum, per non dimenticarea cura della redazione

pag 4 News

Dallo Zimbabwe, fuga senza finea cura della redazione

pag 5

La scuola secondo Farid a cura di Claudia Robustelli

pag 7 Progetti

a pag. 2

News

AMANIQuel '68africanodi Diego Marani*

Nella babele di commemorazioni diquest'anno qualcuno si ricorda che“il '68” c'è stato anche in Africa?In Senegal quarant’anni fa gli uni-versitari si ribellarono. A Dakargli studenti accusavano il regimedi essere al servizio della borghe-sia locale e del neocolonialismostraniero. Il primo slogan si sa-rebbe potuto sentire un po' do-vunque, il secondo era tipicamen-te africano e “terzomondista”. An-che Dakar ebbe le proprie barri-cate, seppur assai meno mediatiz-zate di quelle di Parigi. Tre giornidi scontri finirono con un 1 mortoe 25 feriti e la proclamazione del-lo stato d’emergenza dal 18 al 31maggio, quando intervenne anchel'esercito.Senegal e Francia, Dakar e Parigi.Intellettuali e artisti dell'Africafrancofona guardavano a Parigianche solo per criticarla o per smar-carsi dall'impronta della “madre-patria” coloniale. A Parigi quel-l'anno la settimana del cinema afri-cano aveva fatto conoscere un re-gista destinato a diventare un gran-de: Sembène Ousmane. Dopo larivolta che sarebbe passata allastoria come il maggio francese, an-che il settimanale Jeune Afriquededicava la copertina e gli editorialialla ribellione degli studenti dellaSorbona.Sarà lo storico burkinabé Joseph Ki-Zerbo a scrivere proprio su JeuneAfrique una delle analisi più acu-te della ribellione degli studentisenegalesi. Essi non fanno più par-te della generazione che aveva lot-tato per l'indipendenza e che ave-va imparato a ribellarsi contro laFrancia combattendo – proprio perl'esercito francese – nei vari cam-pi di battaglia in giro per l'Europa.Perché, scrive Ki-Zerbo, «la se-conda guerra mondiale non contanulla per chi è nato nel '48». I gio-vani si ribellano invece contro i lo-ro padri, anche perché il paterna-lismo ormai in Africa è diventato«un'istituzione». Certo, Ki-Zerboparla non dell'Africa rurale dei vil-laggi, bensì di una minoranza chevive nelle città. Dove i giovani«aspirati nella spirale del consu-mismo di massa sono i clienti pri-vilegiati». Gli adulti hanno con-quistato l'indipendenza, gestisco-no il potere, quando possono si ar-ricchiscono; i giovani consumano.I loro riferimenti non sono africa-ni, perché «l'università in Africanon è ancora africana». Docenti, li-bri di testo, la maggior parte dei fi-nanziamenti spesso provengonodalla ex madrepatria.Nel luglio 1968 a Nairobi una con-ferenza internazionale riunisce irappresentanti di 34 paesi africa-ni (ovvero quasi tutti quelli alloraindipendenti) per parlare del si-

Comeuna Rock StarL'istrione Gheddafi domina la scena accogliendo prima Berlusconi e poi la Rice. La Libia diventeràun avamposto delle frontiere italiane? pag 3

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stema universitario: le conclusio-ni sono catastrofiche. Le universitàin Africa sono troppo care, produ-cono troppo pochi lavori scientifi-ci, i cervelli migliori fuggono all'e-stero. Un vertice dedicato all'uni-versità deve ammettere che anchesolo la «battaglia contro l'analfa-betismo» era da considerarsi per-duta. Le università africane – chelaureavano soprattutto umanisti,destinati a lavorare nelle ammini-strazioni pubbliche – non riusci-vano ad assicurare all'Africa deglianni Sessanta figure professiona-li indispensabili: gli agronomi.Ma che anno fu il 1968 in Africa?Che cosa capitava tra Tunisi eJohannesburg, tra Dakar e AddisAbeba, mentre a Parigi si faceva-no le barricate, mentre negli Sta-ti Uniti venivano assassinati Mar-tin Luther King e Robert Ken-nedy, cercando così di uccidere lavoglia di cambiamento degli ame-ricani e in particolare dei neri? In Nigeria divampava la guerradel Biafra: un medico francese chelavorava per la Croce Rossa, Ber-nard Kouchner – oggi ministro de-gli Esteri francese – avrebbe ela-borato proprio qui l'idea di Medi-ci senza frontiere, delle emergen-ze e ingerenze umanitarie; in Con-go si combatteva per spartirsi leenormi ricchezze del sottosuolo diquello «scandalo geologico». Sonotemi attuali ancor oggi. Ma è la guerra in quelle che anco-ra erano colonie portoghesi (An-gola, Mozambico, Guinea-Bissau,São Tomé e Príncipe) a rappre-sentare meglio quella tensione al-l'indipendenza che contraddistin-gueva gli anni Sessanta. Nei grup-pi ribelli africani emergevano lea-der che verrano poi ricordati tra i“maestri” dell'Africa, come Amíl-car Cabral. Nelle file dei porto-ghesi quei soldati ormai disillusiche andavano a combattere in cu-lo al mondo (per riprendere il ti-tolo di un romanzo dello scrittorelusitano António Lobo Antunes)si renderanno conto che uno sta-to fascista come il Portogallo diSalazar non aveva più posto nel-l'Europa moderna. Alla Rivoluzio-ne dei garofani mancava ancoraqualche anno, eppure proprio l'e-sperienza dei soldati portoghesi inAfrica avrebbe aperto gli occhi aquei «capitani di aprile» che riu-sciranno a mettere fine a una dit-tatura senza spargere sangue.In Kenya il padre della patria epresidente del paese, Jomo Kenyat-ta, doveva affrontare le critichedell'ala più estremista del propriopartito, guidata da Oginga Odinga,che arriverà ad essere vicepresi-dente. Un po' come il figlio, RailaOdinga, che oggi è primo ministrodel governo mentre il presidente èMwai Kibaki. Lo Zimbabwe nonesisteva, era ancora la Rhodesiadei bianchi, il compagno Bob Mu-gabe avrebbe conquistato solo nel1980 il potere, per poi tenerselostretto fino ad oggi. Ma tutte queste cose gli studentidi Dakar che volevano imitare i lo-ro compagni di Parigi forse nem-meno potevano immaginarle.

*Diego Marani, giornalista, è stato re-dattore di Nigrizia e collabora con Altre-conomia.

Lo Spunto

Chi non ha la pelle color eba-no da queste parti viene chia-mato muzungu. Non vuol dire«uomo bianco» come vorrebbeil vocabolario cinematograficoné tanto meno «occidentale»,categoria tutta nostra.Per scoprire l'interessante si-gnificato del termine con cuiun non-africano in gita turi-stica da queste parti viene con-tinuamente additato per lastrada, è necessario adden-trarsi – almeno fino alle cavi-glie – nella struttura della lin-gua swahili, ufficiale in Kenyaoltre che in Uganda e Tanza-nia e complessivamente par-lata da circa 80 milioni di per-sone in Africa.Dalla radice swahili, che in-dica il popolo della costa, de-riva il termine kiswahili, com-posto usando il prefisso «ki»,che denota la lingua. Il ki-swahili ha un vocabolario misto arricchito soprattutto dall'ara-bo ma ha radici grammaticali bantu. Così presenta classi di so-stantivi (in kiswahili sono 14) con tratti semantici in comune. Al-le classi 1 e 2 corrispondono (al singolare e plurale) nomi di es-seri animati: la prima classe si caratterizza dal prefisso m- (esem-pio: mtu, uomo); la seconda dal prefisso wa- (es: watu, uomini).Torniamo al nostro muzungu iniziale, notando come lo spellingcorretto sia mzungu, che diventa wazungu al plurale. Togliendoil prefisso, rimaniamo con la radice zungu. Un aggettivo tradot-to con «strano o meraviglioso».Traslare il significato da strano a straniero rischia di far perde-re quella sfumatura cruciale che rivela lo stupore che gli indige-ni hanno probabilmente provato di fronte ai primi europei, per-cepiti non tanto come stranieri (in senso politico) ma come esse-ri strani, appunto; con quella pelle così diversa, ricoperta di pe-luria, magari con gli occhi color del mare e i capelli lisci come ilcrine della zebra e rossi come la sabbia del deserto, padroni ditecniche e tecnologie (buone e cattive, capaci di guarire e di uc-

cidere) incomprensibili e perquesto meravigliose. Il mio collega mappatore(Benson) mi ha narrato unastoria che rivelerebbe la rea-le etimologia di muzungu, am-bientando la scena a Zanzi-bar (il nome Zanzibar derivamolto probabilmente dal per-siano Zang-i bar, Terra deineri): un gruppo di indigeniun giorno parte dal villaggioe si dirige verso il mare, sul la-to orientale dell'isola, per laquotidiana attività di pesca,(le donne a casa ad allattaree cucinare; gli uomini a zon-zo a cacciare e pescare. Com'e-ra più semplice il mondo al-lora...). I pescatori non fannoin tempo a salire sulla canoaa remi che una lunga ombrasi stende su di loro, coprendoil sole e minacciando di in-ghiottirli. A pochi metri dal-

la spiaggia un enorme mostro dalla forma panciuta vomita pic-coli esseri dalle sembianze umane, albini e vestiti stranamente.Il gruppo di pescatori fugge terrorizzato e torna al villaggio; do-po l'allarme tutto il clan fugge verso il lato opposto dell'isola. Unavolta raggiunta la spiaggia, la popolazione si trova di fronte la stes-sa scena, stavolta con due grandi mostri a fronteggiarli! La fugariprende, questa volta verso la costa settentrionale, dove si ri-presenta però la stessa scena! Anche l'ultimo tentativo di fuga asud non ha dato scampo ai nostri, che si sono trovati letteralmenteaccerchiati!Accerchiare… Sfoglio ancora una volta il dizionario e mi trovo aleggere che aggiungendo il suffisso -ka a zungu (creando cosìzunguka), si ottiene il verbo accerchiare, assediare… La radice èil verbo zungua, che parimenti significa «accerchiare». Bensonride e conclude: mzungu = colui che assedia.

*Stefano Marras, dottore di ricerca presso l’Università di Milano-Bicocca, ha vissuto peralcuni mesi a Nairobi, dove è stato impegnato nella prima fase di un lavoro di mappatu-ra fisica e socio-demografica della baraccopoli di Kibera.

da pag. 1 Quel '68 africano

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Chi è il muzungu?di Stefano Marras*

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Kivuli Centre, un progetto educativo nato a Nairobi per sostenere i bambini di strada didue grandi baraccopoli della capitale. Il Centro Kivuli accoglie in forma residenziale 60 ex bambini di strada curandone la cre-scita e l’educazione, copre le spese scolastiche di altri 70 bambini ed è aperto con variprogetti animativi a tutti i bambini del quartiere. Kivuli è diventato un punto di riferimento per tutti, con laboratori artigianali di avviamen-to professionale, una biblioteca, un dispensario medico, un progetto sportivo, un labo-ratorio teatrale, una sartoria, un pozzo che vende acqua a prezzi calmierati, una scuola dilingua, una scuola di computer e uno spazio sede di varie associazioni, aperto a momentidi dibattito e confronto per i giovani del quartiere.

Casa di Anita, una casa di accoglienza a Ngong (piccolo centro agricolo a 20 km da Nai-robi), curata da tre famiglie keniane. La Casa di Anita accoglie 80 ex bambine e ragazzedi strada, alcune orfane e altre figlie di famiglie poverissime, vittime di abusi sessuali, in-serendole in una struttura familiare e protetta, permettendo una crescita affettivamentetranquilla e sicura.

Mthunzi Centre, un progetto educativo realizzato dalle famiglie della comunità di Koino-nia di Lusaka (Zambia) a favore dei bambini di strada. Il Centro Mthunzi, oltre ad acco-gliere 60 ex bambini di strada in forma residenziale curandone la crescita e l’educazione,è un punto di riferimento per la popolazione locale, con il suo dispensario medico e coni suoi laboratori di falegnameria e di sartoria per l’avviamento professionale.

Riruta Health Project, un programma di prevenzione e cura dell'Aids, in collaborazionecon Caritas Italiana che offre assistenza a domicilio a malati terminali e a pazienti siero-positivi nelle periferie di Nairobi.

Centro Educativo Koinonia, due scuole primarie sui monti Nuba che garantiscono l’edu-cazione primaria (l’equivalente della formazione elementare e media in Italia). Ognuna del-le scuole ha circa 600 alunni. Il progetto include anche una scuola magistrale per sele-zionare e formare giovani insegnanti nuba (circa 50 ogni anno) in modo da riattivare larete scolastica autogestita dalle popolazioni della zona.

News from Africa, un’agenzia di informazione mensile prodotta da giovani scrittori e gior-nalisti africani, che raccoglie notizie e articoli di approfondimento provenienti dai paesi del-l’Africa subsahariana per poi diffonderle in tutto il mondo per via telematica e cartacea.www.newsfromafrica.org

Africa Peace Point, organizzazione laica e apolitica che si prefigge la realizzazione di ini-ziative popolari e la diffusione di una cultura di pace nelle comunità africane; la sede è aNairobi, dove APP si è dotata di un centro di documentazione e ha creato uno spazio ingrado di ospitare forum, sessioni di formazione sulla pace per favorire incontri tra grup-pi di base.

Amani People’s Theatre, una compagnia di giovani attori che lavorano per una culturadi pace utilizzando il teatro per la mediazione di conflitti, con performance e rappresen-tazioni nei campi profughi del Kenya e nelle comunità di base.

Geremia School, una scuola di informatica che fornisce una formazione professionaledi alta qualità, nell’ottica di contribuire a colmare il digital divide Nord/Sud.

Ndugu Mdogo (Piccolo Fratello), un progetto dotato di tre strutture: una casa che acco-glie in forma residenziale 40 ex bambini di strada; un centro diurno di prima accoglienzacon un pasto caldo, cure mediche, scuola e affetto; un istituto di formazione per educa-tori professionali.

Progetti

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u’hammar Ghed-dafi ha il senso del palcoscenico edell’evento. E ha il volto di unarock-star invecchiata. Ma comeMick Jagger, suo coetaneo, sa do-minare la scena. Credo che, incuor suo, si diverta da impazzire:negli ultimi mesi esibisce riccio-li lunghi (e nerissimi, nonostan-te i suoi 66 anni) e un vezzoso piz-zo sul mento. Si è presentato co-sì, a fine agosto, al premier ita-liano Silvio Berlusconi; pochigiorni più tardi ha portato la ma-no sul cuore quando, con un leg-gero inchino, ha salutato il se-gretario di stato statunitenseCondoleezza Rice.È stato un Ramadan di glorie in-ternazionali per il più longevo frai leader africani. Gheddafi è alpotere dal 1969 quando con uncolpo di stato indolore spodestò ilvecchio e annoiato re Idris. L’an-no prossimo festeggerà i qua-rant’anni di regno. Ha il gustosottile e invisibile dell’ironia, ilqaid, il «capo» libico: Berlusconiè stato accolto in un clima fami-liare (con presentazioni di nipo-tine da parte del colonnello) aBengasi, nella città dove solo dueanni fa una folla inferocita avevadevastato il consolato italiano. Al-lora, febbraio 2006, la poliziasparò e morirono quindici perso-ne. «È una tragedia provocata dalmancato risarcimento dell’Italiaper i crimini commessi durante ilcolonialismo», spiegò – con unabugia – Gheddafi. Più probabileche la protesta fosse diretta pro-prio contro di lui, ma a farne lespese, conseguenza delle sciagu-rate vignette anti-islamiche esi-bite dal ministro Calderoli, fu pro-prio il vecchio quartier generaledelle truppe italiane durante glianni del colonialismo, che ospi-tava la sede diplomatica italiana. Berlusconi è arrivato a Bengasiper firmare un trattato di amici-zia con la Libia: scuse ufficiali perle colpe coloniali (in Cirenaica,negli anni Trenta, venne compiutoun genocidio), riconoscimento so-lenne del ruolo internazionale diGheddafi e un risarcimento di 5miliardi di dollari – a rate di 250milioni l’anno per venti anni – percostruire la oramai celebre auto-strada costiera libica (una parti-ta di giro: gli appalti saranno af-fidati a ditte italiane). Il trattatoprevede anche la costruzione dicase, il finanziamento di borse distudio, la pensione per mutilatilibici e lo sminamento degli ordi-gni italiani ancora sepolti nei de-serti ai confini orientali. Il trattatofirmato da Berlusconi è il puntodi approdo dell’altalena infinitadei complessi rapporti fra Italia eLibia: già nel 1998 c'era stato unprimo accordo di pace. E nel 1999il ministro degli esteri LambertoDini aveva incontrato Gheddafipoche ore dopo la fine dell’em-bargo internazionale contro Tri-poli. Pochi mesi dopo MassimoD’Alema fu il primo leader occi-dentale a mettere piede in Libiadopo gli anni del terrorismo.

Ancor più clamoroso il viaggioimprovviso di Condoleezza Rice. Inun torrido pomeriggio il segreta-rio di stato Usa, in grisaglia, vie-ne invitata da Gheddafi al pran-zo serale di rottura del digiunodei giorni di Ramadan. Non puòfare un brindisi, ma assicura a vo-ce alta: «Nessuno è nemico persempre». Era oltre mezzo secoloche un alto esponente degli StatiUniti non percorreva le vie di Tri-poli. E dove avviene la cena fral’uomo che, vent’anni prima, Ro-nald Reagan aveva liquidato come«barbaro e pazzoide» e la donna piùpotente degli Stati Uniti? Nella ca-serma di Bab al-Aziziyah, su cui, il15 aprile 1986, cacciabombardieriUsa avevano sganciato bombe da952 chilogrammi di peso. UcciseroHanna, la figlia adottiva di Ghed-dafi e 37 persone. Le saracineschedel bene e del male si alzano e siabbassano in pochi anni negli sce-nari della Realpolitik, gli equili-bri si capovolgono a seconda del-le convenienze: oggi la Libia perl’Occidente non è più una mi-naccia. Ha smantellato il suo ar-rugginito programma nucleare.Ha saldato, con i dollari del pe-trolio, i debiti verso le vittime de-gli attentati degli anni Ottanta (leesplosioni in volo di un aereo del-la Pan Am nei cieli scozzesi diLockerbie e di un Dc 10 france-se sopra il deserto del Tenerè:441 morti) di cui tribunali occi-dentali hanno ritenuto respon-sabile la Libia. Gheddafi è stato il primo ad emet-tere, fin da tempi non sospetti, unmandato di cattura contro Bin La-den. In altre parole: è diventato untassello di stabilità nel Mediter-raneo. È stata la straordinaria me-tamorfosi di un capo: Gheddafi,da «cancro» (parola di AlexanderHaig, segretario di stato di Reagan)si è trasformato in ospite galantedi Condoleezza (segretario di sta-to di Bush). Paradosso per paradosso: nel gio-co delle forme (e non del mondoreale e ipocrita), un giorno qual-cuno dovrà pur spiegare ai potentiche fanno la fila di fronte alla suatenda che l’anziano colonnello nonha cariche ufficiali in Libia. Nonè né capo di stato, né ministro.Ma in Libia non si muove una fo-glia senza il suo consenso.

Gheddafi ha le capacità di ungrande giocatore di poker ed èimprevedibile: non si sopravvivequarant’anni al potere con ne-mici così potenti se non si è abilie spregiudicati. Il petrolio lo ren-de ricco. L’Italia importa un ter-zo dell’energia di cui ha bisognodai deserti e dalle piattaformemarine della Libia. Un immensogasdotto trasporta da Ghadamesa Gela il 15% del gas che utiliz-ziamo ogni giorno. Solo nei primiquattro mesi del 2008, l’Eni hapompato idrocarburi per oltre cin-que miliardi di euro (il 50% in piùrispetto al 2007). A giugno i con-tratti di estrazione sono stati pro-lungati, fino al 2042 per il petro-lio e al 2047 per il gas. E le compagnie petrolifere Usafanno la fila – erano sulla porta an-che negli anni dell’embargo – peraccaparrarsi le riserve nascoste

sotto le sabbie del Sahara. Valgo-no qualcosa, di fronte a questa ric-chezza, le proteste dei profughiitaliani cacciati in malo modo dal-la Libia subito dopo la rivoluzionegheddafiana? Valgono qualcosa lerivendicazioni degli ebrei libici chehanno sofferto le violenze del co-lonialismo e del fascismo italianoper poi essere costretti a lasciareil paese nel dopoguerra? Vale qual-cosa la rabbia amara di chi ha per-so parenti cari negli attentati de-gli anni Ottanta?

Nella filigrana degli accordi conl’Italia, si leggono anche le pres-sioni italiane perché la Libia ar-resti la marea di uomini e donneche, attraversato il Sahara, arri-vano sulle sponde del Mediterra-neo per cercare di raggiungereLampedusa e le coste europee.L’Italia di Berlusconi spera di uti-lizzare gli accordi di Bengasi co-me una cinica moneta di scambio:la Libia dovrebbe diventare unavamposto delle frontiere italia-ne, una barriera di filo spinatoche sbarra le rotte dei migrantiverso l’Italia e l’Europa. Oggi eri-trei, somali, ciadiani, nigeriani,maliani si assiepano in capanno-ni nelle campagne a ridosso delporto di Zuwarah, costa orienta-le della Libia. Qui vengono tenu-ti prigionieri fino a quando nonpagheranno il prezzo per attra-versare quel mare che li dividedall’Europa (158 sono state le vit-time di questi viaggi solo nel lu-glio scorso. Un censimento benlontano dalla realtà). Nel paese diGheddafi, i migranti sono mal-trattati, imprigionati, deportati.L’ansia africanista del leader li-bico che è stato fra i principali fi-nanziatori della nuova UnioneAfricana si ferma di fronte ai mi-granti, ai neri di pelle che i libicinon amano e obbligano ai lavoripiù umili. E, quando sono troppi,vengono riportati nel deserto eabbandonati al loro destino nelnulla disperato del Sahara. Il lea-der libico non dovrebbe dimenti-care i campi di concentramentoitaliani di settanta anni fa (mo-rirono, allora, quarantamila libi-ci nei tredici campi della Sirte do-ve erano stati rinchiusi in cento-mila durante le guerre coloniali)e non dovrebbe chiudere tutti edue gli occhi sui nuovi campi do-ve vengono ammassati i migran-ti dell’Africa.

Un ultimo interrogativo: in agostoil figlio «saggio» del colonnello,Sayf al-Islam, erede del padre, po-tente presidente della FondazioneGheddafi – che ha mediato neiconflitti di mezzo mondo negli ul-timi dieci anni –, ha annunciato ilsuo «ritiro dalla politica». Augu-rando democrazia, giornali indi-pendenti, un sistema giudiziarioautonomo e una nuova Costitu-zione per la Libia. Sarebbe inte-ressante assistere a una discus-sione fra padre e figlio sotto l’om-bra di una tenda nel desolato de-serto della Sirte. Là dove Gheddafi,figlio di beduini, è nato.

*Andrea Semplici, giornalista, è stato in-viato in Africa per molti giornali e riviste.Sulla Libia ha da poco pubblicato una gui-da, con Daniela Scapin, per la De Agostini.

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Dossier

di Andrea Semplici*

Imprevedibile Gheddafi

Al potereda 40

anniÈ stato il primo a emettere

un mandato di cattura per Bin Laden

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Mu’ammar Gheddafi

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Algeria

Ghana

Costad’Avorio

Liberia

Sierra Leone

GuineaGuineaBissau Benin

Togo

Libia Egitto

Sudan

Rep.Centrafricana

Etiopia

Eritrea

Gibuti

RuandaBurundi

R.D.Congo

Gabon

Camerun

Nigeria

Niger

Burkina Faso

Guinea Eq. Congo

Tanzania

Uganda

Malawi

Swaziland

LesothoSudafrica

Zambia

Botswana

Namibia

AngolaMozambico

Madagascar

Comore

Seicelle

Zimbabwe

Kenya

Mauritania Mali

Marocco

Ciad

Somalia

Tunisia

Senegal

Gambia

Capo Verde

In Breve

Maurizio

Sahara Occ.

S.Tomée Principe

4

Il vino del Nord Africa è partito all'attacco di nuo-vi mercati e vuol sfatare l'immagine di prodot-to troppo grezzo. Potrebbe sembrare una noti-zia inventata dato che in Tunisia, Marocco e Al-geria i musulmani sfiorano il 99%: e invece èuna realtà del commercio che non conoscefrontiere. Il consumo pro-capite nei tre paesidel Maghreb, appunto a causa della religioneche proibisce gli alcolici, è esiguo: contro i 55litri che un francese beve ogni anno (in Italiasiamo sui 45), ci sono 2 litri di un tunisino e 1litro di Marocco e Algeria. Ma gli algerini ri-cordano che, prima dell'indipendenza (1962)erano il quarto produttore mondiale con 18 mi-lioni di ettolitri, ora sono solo a quota 500mi-la. L'obiettivo dei produttori di Algeria, Tunisiae Marocco è l'export verso Cina e Russia ma an-che i circa 20 milioni di turisti che ogni annovisitano il Maghreb, devono però stare attentialle forme di marketing perché l'anno scorso al-la festa dell'uva a Meknès gli islamisti si sonoarrabbiati, molto.

Il vino nordafricano cerca il rilancio

Non c'è pace per i "vu-cumprà", in questo ca-so però si chiamano "bana-banas" (mercan-ti ambulanti) e i loro problemi nascono pro-prio in patria, cioè in Senegal. Teatro delleloro proteste, piuttosto violente e contrasta-te addirittura dalle forze speciali della poli-zia, sono state le vie della capitale Dakarche – secondo osservatori imparziali – sonoletteralmente "asfissiate" dall'occupazioneselvaggia di questi venditori. Bisogna sem-pre ricordare però che nell'Africa subsaha-riana il cosiddetto commercio informale of-fre occupazione, e quindi un reddito, seppuresiguo ma vitale, al novanta per cento degliabitanti. Ora l'intenzione del governo di de-finire le zone dove si sistemeranno i merca-ti rionali settimanali escluderebbe gran par-te di questi venditori. In Senegal la situazio-ne segue il negativo trend mondiale ed èquindi naturale che i "bana-banas" lottino peril loro pezzo di marciapiede.

Tempi duri per i venditori ambulanti. Anche a Dakar

Tutti lo chiamano l'oro nero e da decenni è sim-bolo di ricchezza, eppure il petrolio, il signoreincontrastato della nostra epoca, viene definitoanche in un modo ben differente e cioè «unamaledizione». Chi lo afferma – e non è il solo –è il premio Nobel 1986 per la letteratura, il ni-geriano Wole Soyinka, 74 anni, professore alleUniversità del Nevada e di Harvard. «Avrei pre-ferito che la Nigeria non possedesse una sola goc-cia di petrolio ma avesse sviluppato l'agricoltu-ra e le piccole-medie imprese» ha detto Soyinka«perché il petrolio è una maledizione». In Ni-geria, uno dei primi produttori mondiali, le en-trate petrolifere rappresentano i 2/3 del bilancioma causano anche una strisciante guerra civilenel Delta, sede dei giacimenti, dove la popola-zione vive nella miseria e nell'inquinamento.«Dopo 50 anni di indipendenza» ha detto Soyinka«il paese è governato da interessi personali edè un cocktail esplosivo».

La maledizione petrolio

L’Italia e le ex colonie

AMANI

opo la Libia, l'Etiopia. Questa estate l'Italia ha conclusoun'operazione politica e simbolica con un'altra delle sue ex colonie.Axum, Etiopia, 5 settembre 2008: c’erano trentamila persone con ilnaso all'insù a guardare due bandiere – quella italiana e quella etio-pe – che venivano giù e lasciavano scorgere, tra le impalcature, lastele. Tornava nel luogo originario un monumento che rappresentamolti dei legami tra Italia ed Etiopia: quella pietra di basalto è unpezzo di storia che punta dritto al cielo, alto 24 metri e pesante 160tonnellate, antico di forse 1.700 anni, trafugato dagli italiani nel 1937per festeggiare il quindicesimo anniversario della marcia su Romae – nella retorica celebrativa fascista che pretendeva di equipararel’impero di Mussolini a quello degli antichi romani – il bimillenariodi Augusto. È stato restituito alle autorità di Addis Abeba solo nel2005, dopo lunghissimi negoziati diplomatici e tecnici; poi ci sono vo-luti altri tre anni per erigerlo nel luogo originario. La stele di Axum non è solo un monumento: è un pezzo d’identità. Perché l’Etiopia èun universo di simboli, un concentrato di storie, culture, religioni che si è stratifica-to, secolo dopo secolo, come una pietra. Come una stele. Da un territorio vasto oltreun milione di chilometri quadrati sprigiona un fascino che ha in più modi avviluppa-to gli esploratori di ieri, i viaggiatori e perfino i turisti di oggi. Con un elemento co-mune: la religiosità.D'altronde Axum viene considerato da molti etiopi il luogo dove sarebbe stata conser-vata la biblica arca dell’Alleanza; l'antichissima tradizione cristiana, orgogliosa e permolti secoli isolata, è una caratteristica di tutto il Paese; e poi c'è Lalibela, la Gerusa-lemme d’Africa, con le sue chiese scavate nella roccia.La religiosità etiope si intreccia anche verso Israele e – con un balzo geografico e sto-rico quasi impensabile – verso la Giamaica: i falascià sono ebrei neri e africani che latradizione riporta ai viaggi e agli amori tra il re Salomone e la regina di Saba: oggi mol-tissimi sono tornati «a casa», in Israele, non senza difficoltà (lo splendido film Vai e vi-

vrai, del regista Radu Mihailenau racconta la storia di un bambinoetiope portato in Israele). Gli ultimi 65 falascià, alla fine di un pro-gramma di «rimpatrio» durato oltre trent'anni, sono arrivati in Israe-le il 5 agosto. E ancora: in Etiopia vi è un testo sacro, il Kebra Nagast, che è stato«adottato» dai rasta della Giamaica i quali a loro modo venerano tan-to l’imperatore etiope Hailè Selassiè che ha combattuto gli italianiquanto Bob Marley, qualcosa di più di un cantante reggae.Oltre all'aspetto simbolico c'è anche quello politico, come hanno sot-tolineato il primo ministro etiope Melles Zenawi e il sottosegretarioagli esteri Alfredo Mantica, che in questi ultimi anni (anche nel pre-cedente governo Berlusconi) ha seguito con costanza i complessi av-venimenti del Corno d'Africa: Mantica vorrebbe rilanciare il ruolo diRoma ad Addis Abeba, una città che per alcuni aspetti sta attraver-sando un boom anche economico. È curioso che mentre i responsabili della nostra diplomazia vanno ingiro per l'Africa a chiedere perdono per i crimini coloniali fascisti, inItalia ci sia – anche a livello istituzionale – chi discute e distingue suimali più o meno assoluti del fascismo. Nel 1935 Mussolini decise di

attaccare l'Etiopia, che era fra l'altro anche l’unico membro africano della Società del-le Nazioni (l'Onu del tempo) e il 15 ottobre il II corpo di armata entrò ad Axum. Nelmaggio 1936 Mussolini poteva gridare a Roma che anche l’Italia aveva il suo impero.Nel frattempo gli italiani avevano ucciso, razziato e bombardato gli etiopi. Lo storicoAngelo Del Boca ha dedicato la maggior parte della vita e della propria opera a sfatareil mito degli «italiani brava gente», portatori di un colonialismo dal volto meno crude-le di quello di altri paesi europei, scontrandosi per decenni contro il negazionismo deireduci prima e le tendenze revisioniste di storici e politici poi. Qualcuno vorrebbe rimuovere e molti ignorare questo pezzo della nostra storia; un esem-pio basti per tutti: nel 1937 a Debre Libanos i soldati italiani uccisero per rappresagliaalmeno 1.600 persone, in gran parte monaci e pellegrini.Il 5 settembre 2008 il presidente etiope Girma Wolde Giorgis, che aveva 11 anni quan-do i soldati italiani invasero l'Etiopia, ha spiegato che «il ritorno dell’obelisco rimargi-na le ferite del passato». Ma rimarginare non significa gettare nell'oblio: la stele di Axumè tornata a casa anche per non far dimenticare.

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Un obelisco ad Axum, in Etiopia

DAxum, per non dimenticarea cura della redazione

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5AMANI

NewsRivalità tra Mugabe e Tsvangirai

lla fine Thabo Mbeki è riuscito a mettered'accordo i due eterni rivali. Il presidente sudafricanouscente (visto che a settembre ha annunciato il proprioritiro anticipato) dopo un lento lungo e difficile lavoro dimediazione – in «stile africano» – ha convinto il padre epadrone dello Zimbabwe Robert Mugabe e il leader del-l'opposizione e del partito Mdc (il Movimento per un cam-bio democratico) Morgan Tsvangirai a spartirsi il pote-re. Mugabe resta presidente, Tsvangirai diventa primoministro. Arthur Mutambara, leader di una fazione dis-sidente dell'Mdc, diventerà vicepremier. Per la prima vol-ta dall'indipendenza ottenuta nel 1980 il «compagno Bob»acconsente a limitare il proprio potere.Al di là della complessa spartizione politica e della diffi-cile costituzione di un governo di unità nazionale, vi so-no due aspetti non risolti che lasciano molti dubbi sul fat-to che questo pur importante accordo possa essere riso-lutivo nella crisi che attanaglia il Paese dell'Africa australe. Il primo riguarda la sicurezza: Mugabe controlla ancoral'esercito, la polizia e soprattutto il Servizio centrale diintelligence, ovvero i temuti servizi segreti. In un primomomento sembrava che la polizia dovesse dipendere dalministero dell'interno, a cui doveva essere destinato unesponente dell'Mdc e quindi di Tsvangirai. Ma non tuttol'accordo è stato reso pubblico e questo punto non è an-cora stato sciolto. Tsvangirai e molti esponenti dell'Mdcportano ancora sul corpo i segni della violenza subita da-gli agenti, i quali hanno arrestato e malmenato innume-revoli volte gli oppositori politici. Una qualsiasi ipotesidi riconciliazione nazionale passa anche attraverso unadiversa gestione delle forze di polizia.Il secondo motivo di preoccupazione riguarda la crisi eco-nomica, che ormai ha raggiunto livelli quasi inimmagi-nabili. L'inflazione è a sei cifre, ufficialmente stimata inqualcosa come 11 milioni per cento, secondo la Bbc: maè evidente che di fronte a tali numeri le proporzioni sal-tano; forse ricordare che le banconote in Zimbabwe nonvalgono la carta su cui sono stampate (proveniente dal-la Germania) potrebbe rendere di più l'idea. A maggio laBanca centrale aveva emesso una banconota da 50 mi-liardi di dollari, a luglio una di 100 miliardi di dollari, conun valore reale al cambio di poco più di cinquanta cen-tesimi di euro... In settembre, contemporaneamente al-l'annuncio dell'accordo politico tra Mugabe e Tsvangirai,Gideon Gono – governatore della Banca centrale – ha di-chiarato che la valuta locale era valida solo fino al 10 set-tembre. Di fatto però in Zimbabwe si utilizzavano già irand sudafricani, inoltre nella zona di Bulawayo e nelleregioni più occidentali si usa anche la pula del Botswa-na, nel nord la kwacha dello Zambia e attorno all'area diMutare, a est, il metical del Mozambico. Ogni mese cir-ca 400mila zimbabweani attraversano il confine per an-dare a fare spesa all'estero; non pochi inoltre sono ritor-

nati al baratto. In Europa, per ricordare qualcosa di si-mile bisogna tornare in Germania, ai tempi della Re-pubblica di Weimar, quando i tedeschi andavano a com-prare il pane o il latte con una valigia piena di marchi.Negli ultimi cinque anni più di tre milioni di persone han-no lasciato il Paese per emigrare, soprattutto in Suda-frica. Le speranze a medio termine per lo Zimbabwe so-no quelle di integrarsi nell'economia del vicino: un mi-gliaio di negozi e circa 250 magazzini all'ingrossopotranno legalmente accettare valute straniere per unperiodo di 18 mesi, fino a marzo 2010, quando il Suda-frica ospiterà la Coppa del mondo. In Zimbabwe il tas-so di disoccupazione supera l'80%; chi lavora riceve unostipendio in dollari, ma dollari dello Zimbabwe, e dun-que il potere di acquisto è quasi nullo. Mancano elettricitàe carburante, le Nazioni Unite prevedono che nel 2009oltre cinque milioni di abitanti (su una popolazione com-plessiva di 12 milioni) avrà bisogno di ricevere aiuti incibo. In altre parole, quasi metà della popolazione nonha abbastanza da mangiare. Al punto che nel suo pri-mo discorso da premier Tsvangirai non ha avuto pauradi ammettere che «la priorità del governo è di togliereil lucchetto ai depositi di viveri presenti nel Paese e didistribuire il cibo alla gente». Per non parlare della si-tuazione sanitaria e scolastica. Mugabe aveva di fatto al-lontanato le ong che lavoravano in Zimbabwe: oggiTsvangirai chiede a gran voce il loro ritorno.Uno scenario da Paese in guerra civile, oppure stravoltoda un cataclisma naturale senza precedenti. In realtà ildramma dello Zimbabwe è stato «solo» un decennio in cuiMugabe non ha mollato il potere di un centimetro. La ca-parbietà con cui egli a 84 anni si mantiene attaccato alpotere ha qualcosa di straordinario, anche per i parametriafricani che pure vedono non pochi dittatori essere rimastial potere per decenni. Quello che più colpisce in Mugabenon è tanto la pur ragguardevole lunghezza del suo re-gno, quanto il fatto che egli di fronte ai successivi e sem-pre più gravi allarmi del Paese non ha mai avviato unariforma o dato una risposta ma si è limitato a ripetere ivecchi slogan della guerra di indipendenza e a reprime-re gli oppositori. Nel 2000 Mugabe ordina ai suoi seguaci l'assalto alle fat-torie degli agricoltori bianchi, la maniera forse più sba-gliata per affrontare il problema della ridistribuzionedelle terre, endemico in Africa. L'attuale tracollo econo-mico è cominciato proprio con il fallimento del settore agri-colo, un tempo florido. L'opposizione di Tsvangirai, un exleader sindacale con buoni appoggi internazionali e unnotevole sostegno locale, si trasforma nell'alternativa piùcredibile al potere di Mugabe. Nel 2002 in campagnaelettorale i seguaci del presidente seminano il panico trai sostenitori dell'Mdc: Mugabe vince le elezioni, ma vie-ne espulso dal Commonwealth e isolato dalla comunitàinternazionale che emette sanzioni economiche e diplo-matiche contro lo Zimbabwe. Mugabe rilancia i triti e ri-triti discorsi sull'imperialismo delle ex potenze coloniali– cioè il Regno Unito – e degli Usa, imbavaglia i giorna-listi critici (alcuni di loro vengono trovati assassinati e

nessuno ha fornito spiegazioni), caccia la Bbc dal Paese.Contro tutto e contro tutti, Mugabe non molla. Non ac-cetta nemmeno l'esito delle drammatiche elezioni di mar-zo di quest'anno, quando per alcuni giorni era sembratoche l'Mdc di Tsvangirai avesse vinto e che un cambio po-tesse essere finalmente possibile. Applicando tutti gli stra-tagemmi possibili, legali e non, Mugabe si è proclamatovincitore. L'ultimo atto sono state le elezioni-bis di giu-gno, in cui ha vinto ancora lui, dopo essere rimasto l'u-nico candidato visto che Tsvangirai si era ritirato a cau-sa delle troppe violenze contro i propri sostenitori. Or-mai nessuno – a parte Mugabe stesso – ritiene legittimoil presidente dello Zimbabwe. Così la comunità interna-zionale e in particolare il Sudafrica, cioè la vera potenzaa livello regionale, sbloccano una situazione ormai inso-stenibile e Mbeki riesce a trovare l'accordo. Tsvangirai hadichiarato: «L'ho firmato perché ritengo che esso rap-presenti la miglior opportunità per noi di costruire unoZimbabwe democratico, prospero, pacifico. E perché la miafiducia nello Zimbabwe e nella sua gente è più profondadelle cicatrici che porto in seguito alla mia battaglia po-litica». Nonostante la fiducia professata da Tsvangirai,nessuno per ora sembra in grado di dire se l'accordo reg-gerà e funzionerà. A meno che non si voglia notare – an-che se è politicamente scorretto – che vista l'età di Mu-gabe, il tempo gioca a favore di Tsvangirai.

Dallo Zimbabwe,fuga senza fine

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a cura della redazione

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Robert Mugabe, presidente-dittatore dello Zimbabwe

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6 AMANI

I dossi e le buche di Kabiria Road. Gli how-are-you dei bambi-ni che spuntano da ogni stradina laterale, da dentro ogni ba-racca, da dietro ogni capra, a decine. La polvere. Le taniche gial-le di acqua. Il cancello azzurro del Kivuli Centre che si apre. Loscricchiolare delle pietre del cortile schiacciate dalle ruote delpulmino.Si entra a Kivuli e si respira. Fuori la gente cammina e cam-mina per andare chissà fino a dove, scansa i matatu e le bici-clette, è investita dai mille odori delle pentole e dei canali e del-la frutta e dell’olio fritto e delle pannocchie, la vita è gridata.Primo pensiero: come fanno a sopportarlo? Diventerà presto:come farò a stare senza?Dentro Kivuli si incontrano musicisti, studenti, atleti, giocato-ri di basket, insegnanti, socialworker, educatori, cuochi, medi-ci, pazienti, commercianti, sarte, custodi, meccanici, bambini.Oltre sessanta bambini. Tutti hanno vissuto in strada. Qual-cuno non ha famiglia, qualcuno non si sa. Quasi tutti ti sorri-dono, se tu sorridi loro. Non sorride e non ti saluta, ma ti guar-da solamente, quello che è più arrabbiato. Prova rabbia contro

cosa? Posso solo immaginarlo, e non trovo le parole per chie-derglielo. Se le trovassi, mi risponderebbe in kiswahili per nonfarmi capire. Ha alzato una barriera davanti a sé che abbassasolo a volte: quando gli dici buonanotte e lui si lascia abbrac-ciare, ti ricordi che è ancora un bambino.

A Kivuli i bambini ti lasciano interdetto proprio come fanno lecontraddizioni che ti colpiscono appena arrivi a Nairobi.Per strada, cartelloni pubblicitari dalla superficie maggiore di quel-la di una baracca in cui vivono dieci persone. Slum di fango e spaz-zatura dove i bambini ti guidano attraverso gli ostacoli tenendotila mano.Un bimbo a Kivuli un giorno ti segue e il giorno dopo ti sfugge,un momento ti cerca e un altro non ti risponde, una mattina tidà uno spintone e alla sera ti chiama da sotto le coperte, duran-te il gioco ride e schiamazza e quando prega ti sembra un uomo.Ti dice vattene ma pensa rimani.Con una piccola vocina che sembrava un sussurro, Eric un giornoha detto: «In Kivuli I'm happy». Aveva i pantaloni strappati e lescarpe due misure più grandi. Ma era felice e sapeva anche dirlo.Non ti abitui mai a bambini così. Sanno renderti felice con unaparola e uno sguardo, vorresti ricambiare il regalo. Stare conloro per un mese basta? *Nadia Avezzano, volontaria di Amani di Caserta, dove studia archi-tettura.

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«In Kivuli I’m happy»di Nadia Avezzano*

Kivuli Centre

Mthunzi Centre

Quest’anno ho cambiato meta: non più verso il Kenya e la Ca-sa di Anita, ho preso un aereo per Lusaka e sono andata al Mthun-zi Centre. Appena atterrata, ho riconosciuto immediatamentel’Africa. Non ero mai stata in Zambia, eppure c’era qualcosa difamiliare in quello che vedevo. Sono arrivata al Mthunzi e que-sta sensazione mi ha seguito. Ho capito che dipendeva da tut-te le storie che avevo sentito in passato su quel posto. Me neavevano parlato in tanti e così bene, che una volta arrivata nonc’è stato bisogno di fare le presentazioni: io il Mthunzi lo co-noscevo già. Così mi sono divertita a scoprire che era per dav-vero tutto come me lo avevano raccontato.È vero, il Mthunzi è un posto molto accogliente. Ti porta a sco-prire un'Africa diversa rispetto a Nairobi, oserei dire più arre-trata ma anche più sicura di sé. Incontri una comunità di Koi-nonia forse meno efficiente rispetto all'omonima in Kenya, mamolto più vera e spontanea. E poi ci sono loro, i ragazzi, che al-la sera vicino alla brace ti fanno domande inaspettate e amanometterti alla prova. Così un giorno ti ritrovi a parlare di Secondaguerra mondiale e il giorno dopo parli di stelle, di pianeti e dieclissi di luna. Si divertono a perseguitarti con indovinelli chenon riuscirai mai a risolvere e sono capaci di farti grandi lezio-

ni su Dio e sul perché il mondo è diviso tra ricchi e poveri. Tiaccompagnano per mano in posti come Chikondano, un villag-gio nei dintorni, dove alcuni di loro hanno anche la famiglia: lamadre, una sorella, un padre che però a casa non c’è, perché sene sta sempre a bere. Loro ti portano a conoscere anche lui edopo ti chiedono: «Hai visto mio padre?». Con loro affronti ar-gomenti come l'aids, e scopri che al Mthunzi c’è un gruppo cheperiodicamente se ne va in giro ad istruire le persone sull’ar-gomento, per prevenire il problema e per curarlo.A volte mi sono fermata a pensare alla vita che facevano pri-ma. In Kenya ti viene sbattuto in faccia più violentemente il pas-sato dei ragazzi dei centri, in Zambia ho dovuto pensarci: nonriesco ancora ad immaginare i ragazzi del Mthunzi come degliex bambini di strada. Non li immagino a sniffare colla, a dor-mire in rifugi di fortuna, a vagare per Lusaka in cerca di chis-sà cosa. Oggi (fortunatamente) sono tutti lontani anni luce dauna realtà del genere.Guardo i ragazzi del Mthunzi e vedo degli uomini che hannoben chiaro in testa che cosa vogliono fare da grandi. Forse a vol-te si fanno prendere troppo dai sogni e verrebbe quasi voglia diriportarli con i piedi per terra, perché probabilmente cantanti

di fama mondiale non lo diventeranno mai. Un tempo non sa-pevano più che cosa fosse sognare, oggi hanno capito di nuovocome si fa. Lasciamoli fare.*Chiara Avezzano, volontaria di Amani di Caserta, a dicembre partirà perun anno di servizio civile internazionale in Tanzania.

Lasciamoli sognaredi Chiara Avezzano*

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Nel villaggio di Chikondano, in Zambia

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Kivuli / Mthunzi

Forse se lo ricordano in pochi ma nel 2007 gli abitanti dellecittà del pianeta hanno superato, per la prima volta nella sto-ria, i residenti nelle campagne (cfr. Amani, ottobre 2007). Sitratta di un passaggio epocale di cui è difficile per ora coglie-re le implicazioni; nella polarità città-campagna sono con-densate le differenze tra il nostro viaggio dell’anno scorso alMthunzi Centre (in Zambia) e l’esperienza di questa estate aKivuli (in Kenya).Non è la stessa cosa che andare da Milano ad Abbadia Cerre-to: in Africa, l’impressione è che città e campagna siano dav-vero due mondi diversi. Un africano forse non impiega moltoad adattarsi passando da un ambiente all’altro, ma per due wa-zungu alle prime esperienze in questo continente è tutto nuo-vo, tutto da imparare.Kivuli e Mthunzi sono diversi prima di tutto nei ritmi quoti-diani. In Zambia sono più serrati, fisicamente più impegnati-vi: la pasta si cuoce sui carboni ardenti, la corrente elettricasalta spesso, ciascuno si lava i suoi panni e ogni spostamentoverso la scuola, la chiesa o il campo da calcio richiede tempo eprogrammazione perché sono almeno tre chilometri a piedi ognivolta. Per un mese si mangia quello che mangiano gli altri e sibeve solo acqua: non ci sono alternative perché non esistonobotteghe o baracche dove comprare un succo di frutta. A Kivuli la quotidianità è più agevole: più spazio in camera,più docce per lavarsi la sera, fornelli a gas perfettamente fun-zionanti, frutta fresca tutti i giorni e un’intera baraccopoli adisposizione appena oltre il cancello, brulicante di chioschi do-ve farsi riparare i jeans strappati o comprare per 20 scellini (20

centesimi) fantastiche patate fritte che nemmeno in riviera ro-magnola escono così buone (o era la fame?).Vita più facile insomma a Kivuli? No. Solo una vita diversa. Sefisicamente è più impegnativo un mese al Mthunzi, emotiva-mente sono più pressanti gli squilibri di Kivuli. La povertà chehai davanti agli occhi in Zambia è, con poche distinzioni, la stes-sa per tutti: l’aspettativa di vita e le condizioni economiche so-no forse inferiori rispetto a Nairobi, ma nel complesso sono di-gnitose. Le baracche sono in mattoni (fatti a mano con la ter-ra raccolta nei campi, ma comunque mattoni). C’è spazio pertutti. Chi può, coltiva almeno un fazzoletto di mais. A Lilan-da, la baraccopoli di Lusaka (circa mezz’ora in matatu dalMthunzi), le botteghe hanno ben poco da vendere ma almenoc’è l’acqua potabile, erogata due volte al giorno. A Nairobi, invece, nelle baraccopoli si scambia e si vende di tut-to ma a che prezzo? A Kibera ad esempio l’acqua potabile nonc’è. Le baracche sono in lamiera o fango: se viverci è un infer-no, il solo vederle è un pugno allo stomaco. E il pugno si mol-tiplica in tanti schiaffi in faccia ogni volta che, a Kivuli, ci sisposta per andare in città e si costeggiano ville, centri com-merciali, piccoli templi dello shopping globalizzato a cento me-tri dai bambini che sguazzano con anatre e cani nelle fogne acielo aperto. Può capitarti il lusso, magari la domenica, di fer-marti a bere un caffè in uno dei bar Java disseminati in città:il caffè è ottimo, la cameriera elegante, l’area perfettamentewireless. Se avessi il pc, potresti navigare in internet come gliindiani e i keniani ricchi del tavolo a fianco. Lo schiaffo in fac-cia però rimane, insieme al senso d’impotenza.

Forse anche in conseguenza di tutto questo, il rapporto con ibambini e ragazzi dei due centri cresce in modo diverso. L’an-no scorso, al nostro arrivo, ci aveva impressionato il calore delMthunzi: era già buio quando il bus aveva varcato il cancel-lo, ma una ressa di mani e canzoni e cori ci aveva accolto, se-guita da strette di mano e rapidissime presentazioni in se-quenza. «My name is Jackson... welcome to Mthunzi Centre».A Kivuli i bambini non te lo danno, il benvenuto: te lo deviguadagnare. Diffidenti, scontrosi, urticanti, ruvidi. Per i pri-mi due giorni non ci hanno degnato di uno sguardo, e quan-do l’hanno fatto ci hanno etichettato con un verdetto inap-pellabile: «mafutoni», cioè ciccioni, tutti noi italiani indistin-tamente. Si sono presi gioco di noi: qualcuno deve averglispiegato che nella florida Europa la pancia è diventata qual-cosa di cui vergognarsi.Indipendentemente da tutto, però, è forte la sensazione dicontinuare il viaggio iniziato alle selezioni di marzo dell’an-no scorso. Sarà che abbiamo continuato a innamorarci di Ama-ni, a frequentare gli incontri, i volontari vecchi e nuovi, saràche il mal d’Africa esiste e che il suo sintomo più chiaro è cheall’Africa continui a pensarci, sarà... Noi in Africa vogliamotornare al più presto. Per capirla magari ogni volta un po’ dipiù e continuare lo scambio – di emozioni, culture, idee, ener-gie – che abbiamo iniziato.

*Raffaella Ciceri e Diego Tavazzi, volontari di Amani della provinciadi Lodi, hanno vissuto l’esperienza in Zambia nel 2007 e quella in Kenyalo scorso agosto.

Città o campagna? Scegli la tua Africa di Raffaella Ciceri e Diego Tavazzi*

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Progetti

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Adozioni a distanza

Perché tutti insieme L'adozione proposta da Amani non è in-dividuale, cioè di un solo bambino, maè rivolta all'intero progetto di Kivuli, del-la Casa di Anita, di Ndugu Mdogo, diMthunzi o delle Scuole Nuba. In questo modo nessuno di loro cor-rerà il rischio di rimanere escluso. In-somma "adottare" il progetto di Ama-ni vuol dire adottare un gruppo di bam-bini, garantendo loro la possibilità dimangiare, studiare e fare scelte co-struttive per il futuro, sperimentandola sicurezza e l'affetto di un adulto. Esoprattutto adottare un intero proget-to vuol dire consentirci di non limita-re l’aiuto ai bambini che vivono nelcentro di Kivuli, della Casa di Anita, diNdugu Mdogo, del Mthunzi o che fre-quentano le scuole di Kerker e KujurShabia, ma di estenderlo anche ad altripiccoli che chiedono aiuto, o a famigliein difficoltà, e di spezzare così il percorsoche porta i bambini a diventare streetchildren o, nel caso dei bambini nuba,di garantire loro il fondamentale dirittoall’educazione. Anche un piccolo sostegno economi-co permette ai genitori di continuare afar crescere i piccoli nell’ambiente piùadatto, e cioè la famiglia di origine.In questo modo, inoltre, rispettiamola privacy dei bambini evitando didiffondere informazioni troppo personalisulla storia, a volte terribile, dei nostripiccoli ospiti. Pertanto, all'atto dell'a-dozione, non inviamo al sostenitoreinformazioni relative ad un solo bambi-no, ma materiale stampato o video con-cernente tutti i bambini del progetto chesi è scelto di sostenere. Una caratteristica di Amani è quella diaffidare ogni progetto ed ogni iniziati-va sul territorio africano solo ed esclu-sivamente a persone del luogo. Perquesto i responsabili dei progetti di Ama-ni in favore dei bambini di strada sonokeniani, zambiani e nuba.Con l'aiuto di chi sostiene il progettodelle Adozioni a distanza, annualmenteriusciamo a coprire le spese di gestio-ne, pagando la scuola, i vestiti, gli alimentie le cure mediche a tutti i bambini.

Info: [email protected]

Come aiutarciPuoi "adottare" i progetti realizzati daAmani con una somma di 30 euro almese (360 euro all'anno): contribui-rai al mantenimento e alla cura di tut-ti i ragazzi accolti da Kivuli, dalla Ca-sa di Anita, da Ndugu Mdogo, dalMthunzi o dalle Scuole Nuba. Per effettuare un'adozione a distanzabasta versare una somma sul c/c postale n. 37799202 intestato adAmani Onlus – Ongvia Gonin 8 – 20147 Milanoo sul c/c bancario pressoBanca Popolare Etica IBAN IT91 F050 1801 6000 00000503 010

Ti ricordiamo di indicare, oltre il tuonome e indirizzo, la causale del ver-samento: "adozione a distanza". Ci consentirai così di poterti inviareil materiale informativo.

AMANIA d o z i o n i

e parole di Emerson si adattano bene alla storia di Farid Ja-mes Omar, un ragazzo proveniente dai Monti Nuba che ha perso i suoi ge-nitori, è riuscito a sottrarsi alla schiavitù e ora sta tentando di realizzarei propri sogni in un paese straniero. Farid racconta la propria storia in mo-do deciso e risoluto, nonostante l'atteggiamento riflessivo e la naturale tran-quillità. Non fa trapelare alcun riferimento alle sofferenze subite in pas-sato prima che giungesse a Nairobi, dove è diventato uno dei migliori stu-denti della St. Elizabeth Boys High School del ricco quartiere di Karen.Nato nel 1986, Farid è il penultimo di sei figli di una modesta famiglia difede cristiana che viveva ad Abri, piccolo villaggio sui Monti Nuba, al cen-tro del Sudan. Il padre coltivava un piccolo terreno mentre la madre la-vorava in casa. I genitori di Farid cercarono di garantire ai propri figli ci-bo, vestiti e un tetto. «Solo due dei mie fratelli maggiori frequentavanouna scuola araba vicina», racconta Farid, «noi stavamo a casa poiché i no-stri genitori non potevano sostenere la spesa per le tasse scolastiche». Quan-do Farid aveva sei anni, suo padre si ammalò e morì, lasciando l’intera re-sponsabilità della gestione familiare alla moglie. Poi, tre anni dopo, la tra-gedia colpì ancora la famiglia di Farid quando le forze governative impe-gnate nell’offensiva contro il Sudanese People’s Liberation Army (Spla)raggiunsero Abri. I soldati sconvolsero la vita del piccolo villaggio, spara-rono indiscriminatamente, bruciarono le abitazioni e rapirono donne e bam-bini per ridurli in schiavitù. Irrompendo nella casa di Farid, trovarono ilragazzo intento a lavorare con la madre. Le spararono a sangue freddo eprima che Farid potesse rendersi conto della situazione, lo afferrarono elo portarono lontano dalla madre che giaceva in una pozza di sangue.Dozzine di altri bambini e donne furono rapite anche dai villaggi cir-costanti. I soldati li legarono e li obbligarono a marciare senza cono-scere la meta. Il loro viaggio fu difficile, i lacci ai piedi provocarono ve-sciche e ferite ma nonostante ciò i soldati li costrinsero a continuare.«Sono rimasti i segni delle contusioni dovute alle bastonate che abbia-mo ricevuto durante la marcia», ricorda impassibile Farid.

Dopo due giorni di cammino, i prigionieri furono condotti in un campomilitare nella località di Dadami. Al campo furono costretti a svolgere ilavori più umili per i soldati. Tutti i giorni i prigionieri venivano svegliatiprima dell’alba per lavorare senza sosta dalla mattina gelida fino a sera:spazzavano, cucinavano, pulivano, raccoglievano l’acqua e la legna per ilfuoco. Qualsiasi segno di affaticamento giustificava una punizione. Ognisintomo di malessere veniva letto come una scusa per sottrarsi al lavo-ro. Un prigioniero malato fu picchiato e comunque costretto a lavorare.Per i primi cinque giorni, Farid non riuscì a mangiare nulla. Le dure con-dizioni del campo resero la sofferenza insopportabile e Farid cominciò ariflettere su come la sua vita fosse cambiata così improvvisamente. Ini-ziarono ad affollarsi i ricordi dei giorni felici trascorsi prima che i suoigenitori morissero e si domandò come se la stessero cavando i fratelli ele sorelle. Dopo un mese di permanenza nel campo militare, i pensieri di-vennero troppo cupi e insopportabilmente dolorosi e Farid decise di pro-vare a scappare: «Sapevo che era molto pericoloso e che se fossi stato cat-turato sarei stato ucciso ma la mia mente era determinata».

Una notte di pioggia intensa mentre tutti stavano dormendo, Farid sci-volò fuori dal letto e sgusciò dalla porta. Fortunatamente, il forte acquazzoneimpedì alle sentinelle di vederlo. Farid camminò furtivo nella notte e ini-ziò a correre appena fu sufficientemente lontano dal campo di prigionia.Fu difficile ritrovare la strada per Abri: Farid si trascinò sul sentieroper giorni e trascorse in solitudine due notti al freddo, affamato e af-faticato. Alla fine, riuscì a tornare a casa. Era deserta e completamen-te bruciata. Un abitante del villaggio sopravvissuto alla strage gli dis-se che i fratelli e le sorelle avevano trovato rifugio sulle montagne pres-so una chiesa locale. Lo accompagnò dai fratelli e poterono così ritro-varsi: fu un momento molto emozionante.La chiesa che aveva accolto i suoi fratelli si prese cura di tutti loro e liaiutò a costruire una nuova casa. Il fratello maggiore di Farid si fececarico della famiglia ma, come i suoi genitori, non riuscì a sostenere lespese per mandare a scuola i fratelli minori. Fortunatamente, un cugi-no che aveva trascorso più di dieci anni tra le file dell'Spla ritornò dalSud nel 1997. Poiché aveva trovato lavoro presso un’organizzazione per

i diritti umani, egli si offrì di ospitare Farid e i suoi fratelli in casa suae li iscrisse in una scuola a Tabari.Purtroppo la scuola era priva delle strutture necessarie: mancavanolibri, penne e matite per gli alunni che sedevano sulle pietre ed era-no costretti a seguire le lezioni all’aperto, sotto gli alberi.Farid ricorda molto bene le difficoltà e la sfida di quella situazione:«Scrivevamo su qualunque cosa passasse tra le nostre mani, vecchigiornali, buste, qualsiasi cosa. Alcune volte scrivemmo direttamenteper terra con dei bastoncini».Gli insegnanti erano volontari locali con poca formazione scolastica.Tuttavia riuscirono a far comprendere ai loro giovani allievi come l’i-struzione garantisse un sicuro passaggio a una vita migliore. Questomessaggio si fissò in modo indelebile nella mente del giovane Farid,che iniziò a studiare fervidamente sperando una vita diversa, lonta-na dagli orrori e dalle sofferenze vissute in passato. Grazie all'impe-gno Farid in poco tempo divenne uno dei migliori studenti di Tabari.Nel 2000 Koinonia progettava di sostenere tre giovani promettenti Nu-ba per garantire loro l’accesso a un buon livello di istruzione in Kenya.Farid superò facilmente le selezioni. I tre ragazzi volarono a Nairobidove vennero accolti da padre Kizito e ospitati presso la Casa di Ani-ta. Successivamente si spostarono nella Casa di Koinonia a Riruta Sa-tellite, sempre a Nairobi.«All’inizio ambientarsi è stato molto difficile», ricorda Farid. Nonparlava nessuna lingua keniana e doveva ancora abituarsi alla sua stra-na nuova vita a Nairobi, lontana molte miglia da casa.Farid fu però molto fortunato perché incontrò Paolino, un amico divecchia data che era stato accolto nella Casa di Anita molto tempo pri-ma. Una volta venuto a conoscenza che anche Paolino proveniva daiMonti Nuba, Farid trovò il coraggio e la forza di affrontare le emo-zioni che la nuova vita portava con sé. In breve tempo imparò il ki-swahili e trovò molti amici.I ragazzi nuba vennero seguiti da tutor per la loro preparazione sco-lastica. Nel gennaio 2001, parteciparono ai colloqui di ammissione perla scuola superiore e Farid fu ammesso con buoni risultati alla pre-stigiosa St. Elizabeth Boys Primary School di Karen. «È stato emo-zionante indossare la mia nuova uniforme e stare seduto a un bancovero in una classe vera» scriverà tempo dopo Farid in un tema.Nel 2005 superò con successo gli esami finali della scuola primaria efu ammesso al secondo ciclo di studi. Oggi frequenta la classe terza el’anno prossimo otterrà il diploma della scuola superiore. Nell’ultimosemestre si è distinto come migliore studente della sua classe.Quando gli si chiedono i motivi per i quali ottiene così buoni risulta-ti negli studi, Farid si fa pensieroso: «I miei genitori, ormai lontanida me, non si sarebbero potuti permettere di mandarmi a scuola. Hodesiderato molto avere questo tipo di opportunità e dal giorno in cuisono arrivato al St. Elizabeth le mie ambizioni sono cresciute ancoradi più». Farid conclude: «Mi piacerebbe diventare uno dei migliori chi-rurghi esperti in cardiologia. Se si avvererà questo mio sogno torneròsui Monti Nuba e contribuirò a salvare molte vite. Non ci sono moltimedici e numerose persone, compreso mio padre, sono morte proprioper l’assenza di cure mediche adeguate».

*Claudia Robustelli volontaria di Amani a Como.

La scuola secondo Farida cura di Claudia Robustelli*

«Quello che c’è dietro di noi e quello che c’è prima di noi sono piccolezze se comparate a ciò che si trova tra di noi» Ralph Waldo Emerson, scrittore e filosofo americano, 1803–1882

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Farid (a destra) con un amico a Kivuli

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Acrobati da Kivuli insieme per la pace

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Raffaele Masto, giornalista inviato in Africa e redattore di Radio Popolareche più volte ha scritto anche per Amani, ha di recente pubblicato un libroinsieme a Bouchaib Mhamka il quale vive con la sua famiglia a Sidi Moumen(in Marocco) dove ha fondato l’associazione El Massir, in favore dei gio-vani della bidonville. Ecco come l'editore, Sperling & Kupfer, presenta questa storia di un ka-mikaze marocchino narrata da un suo amico d'infanzia: «Un viaggio nelleragioni profonde dell'integralismo islamico. Aprile 2006, Casablanca: lapolizia scopre due giovani kamikaze pronti a compiere un attentato al con-solato americano. Uno di loro fugge ma vedendosi raggiunto dall’agenteche lo insegue, gli si getta addosso e si fa esplodere. È uno dei nume-rosi atti terroristici messi a segno dagli integralisti islamici e non certoil più sanguinoso. Ma per Bouchaib Mhamka la notizia è sconvolgente:l’attentatore rimasto a terra dilaniato è il suo amico d’infanzia Said.Sono cresciuti insieme nella baraccopoli di Sidi Moumen, alla perife-ria di Casablanca: simili le loro povere case, i giochi nei vicoli maleo-doranti, i brevi studi, il sogno impossibile di liberarsi dalla miseria.Anche Bouchaib qualche anno prima ha risposto al richiamo dell’Islam eha trovato nella comunità dei fedeli un ruolo e una nuova consapevolezza di sé che hannoguarito le sue frustrazioni. Ma quanto più si è addentrato nel mondo degli integralisti, tanto più chiaramenteha riconosciuto l’intolleranza e la violenza che lo abitano e la follia del progetto politico. Così se ne è allontana-to, mentre Said ne veniva inghiottito e si faceva sempre più sfuggente, si isolava nei cybercafè, spariva dalla cir-colazione per lunghi periodi. A quale punto si sono divise le loro strade? Che cosa ha indotto Said a quella scel-ta estrema? Cercando una spiegazione alla morte dell’amico, Bouchaib ha ripercorso la loro storia, raccolta inquesto libro da Masto. Insieme, i due autori hanno approfondito il lavoro di ricostruzione per offrire ai lettori nonsolo una testimonianza diretta della vita nelle moschee ma anche un quadro dettagliato e vivo della realtà nel-la quale l’integralismo religioso mette radici, delle motivazioni profonde che muovono i proseliti, degli strumen-ti adottati da chi guida l’esercito dei “buoni musulmani”».

Raffaele Masto e Bouchaib Mhamka, La scelta di Said. Sperling & Kupfer, 2008, pp. 264, € 16,50.

La scelta di Said

Un gruppo di piccoli acrobati del Kivuli Centre sarà inItalia per presentare lo spettacolo Pamoja kwa Amani(Insieme per la pace), in occasione del sessantesimoanniversario della proclamazione della Dichiarazioneuniversale dei diritti umani.Ecco come John Fisher Kanene, manager del KivuliCentre dal 2006, ricorda il progetto: «Koinonia ha aper-to a Nairobi (Kenya) la sua prima casa per ex bam-bini di strada, il Kivuli Centre, nel 1997, con l’aiutoeconomico di Aifo. La comunità decise di interveni-re con una piccola azione per migliore le condizionidi vita per almeno alcuni delle centinaia (oggi migliaia)di bambini che vivono in stato di abbandono, diffi-coltà e sofferenze nelle strade di Nairobi per diver-se ragioni, tutte derivanti dall’estrema povertà dellaloro famiglia di origine. Presto Kivuli, con l’aiuto prin-cipalmente di Amani, è diventata un centro comuni-tario dove non solo i bambini ma anche le loro mam-me e fratelli e sorelle maggiori, si ritrovano per fareinsieme mille attività diverse, dal giocare a calcio opallacanestro a imparare le prime nozioni di infor-matica. Poi si sono aggiunte altre case, come Anita’sHome, Shalom House, Tone La Maji, Ndugu Mdogo,Nairobi Recyclers, e altre attività, tutte miranti a so-stenere la crescita di bambini e giovani. Fin dall’inizio gli educatori hanno notato che le attivitàche hanno una dimensione di spettacolo sono di gran-de aiuto ai bambini bisognosi di recuperare fiducia inse stessi, autostima. La semplice recitazione di una bre-

ve commedia di fronte agli altri bambini, il provocare risate e il ricevere uno scrosciante applauso, aiuta i bambinipiù feriti ed introversi a ritrovare la gioia di essere apprezzati dagli altri, e il sorriso ritorna anche sul loro volto. Nel 1999 Padre Kizito invitò a Kivuli due acrobati professionisti a fare un corso intensivo per un gruppo di gio-vani ventenni. In poco più di un anno il gruppo aveva imparato a fare esibizioni di grande impatto e avevano as-sunto il nome di Nafsi Africa (Anima dell’Africa), mentre i più piccoli in ogni centro gestito da Koinonia cercava-no di imitarli. Poi dal 2002 al 2005 un italiano residente a Nairobi si impegnò a insegnare i primi elementi digiocoleria. Dal 2005 queste attività si sono integrate nella proposta formativa che viene fatta ai bambini e aigiovani – insieme ai gruppi scout, di catechesi, di informatica e di sport – in tutte le case gestite da Koinonia.All’inizio erano solo una decina i bambini che si impegnavano come acrobati, giocolieri e clown, ma durante gliallenamenti altri se ne aggiungevano. A Kivuli il gruppo di ragazzi che le pratica regolarmente è ormai di una tren-tina e il loro numero continua a crescere anche nelle altre case. Gli acrobati ormai professionisti di Nafsi Africacontinuano ad allenare i più piccoli e a insegnar loro nuovi giochi. Lo spettacolo proposto da questi ragazzini con un passato difficilissimo e appartenenti a tutti i popoli del Kenyasi intitola Pamoja kwa Amani (Insieme per la pace) e vuole essere un invito ad impegnarsi perché tutti i bambi-ni del mondo crescano in quel clima di pace, di cura, di affetto a cui hanno diritto».

Ecco le date (da confermare): 23–30 novembre a Bari spettacolo presso “La casa di Pulcinella". In dicembre: il 2 a Caserta, il 4 a Fabriano, il 6 a Firenze, il 7 a Torino, il 10 a Piacenza, il 12 a MilanoPer maggiori dettagli 02.48951149