2001 Pura vita
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Andrea De Carlo,
Pura vita.
Copyright 2001, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano.
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Lui scrive libri di storia, e sta cercando di capire cosa gli stia
succedendo. Lei ha trent'anni di meno e le sue opinioni sono sempre
state molto precise, ma è in cerca di informazioni sul mondo. Fanno
un viaggio insieme verso la Camargue, e intanto parlano di tutto
quello che gli viene in mente: l'origine dei difetti e delle qualità,
i rapporti tra gli uomini e le donne, le famiglie, le cose che tutti
cercano e quelle che trovano, le ragioni torbide e trasparenti della
nostra specie.
E' la storia di due persone molto simili che sono in due punti
diversi della vita, ammesso di vedere la vita come un percorso, cosa
che forse non è.
E' un libro di scambi di informazioni e di domande, con alcuni
tentativi di risposte che aprono subito altre domande.
E' quello che c'è qui dentro, non c'è altro.
Pura vita.
ADC
Credere che la vita abbia o no senso è questione di temperamento.
Se la convinzione che non ne ha dominasse in assoluto, il senso
della vita verrebbe meno con il procedere dell'evoluzione. Ma
questo non è, o non sembra essere, il caso.
Carl Gustav Jung
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Domenica alle nove e mezza
di sera il telefono suona
Domenica alle nove e mezza di sera il telefono suona mentre lui è
in cucina con un toast al formaggio in mano e un libro sulla tecnica
di costruzione delle piramidi egizie aperto davanti e un disco
strumentale di Bo Diddley e Chuck Berry sullo stereo. Ci sono solo
tre pezzi dove suonano davvero insieme, gli altri sono di uno o
dell'altro a turno e abbastanza convenzionali, ma i tre dove suonano
insieme valgono il disco. Al quarto o quinto squillo si rende conto
che la segreteria telefonica non è inserita o non funziona, così posa
tutto e si alza di scatto e urta contro uno sgabello e lo fa cadere e
sente una fitta fin nel midollo di una tibia, saltella nel soggiorno
pieno di rabbia verso gli oggetti e verso le interferenze che
continuano anche a quest'ora.
Dice "Sì?".
La voce di lei dall'altra parte dice "Pronto?".
"Ehi!" dice lui. "Ti avrei chiamata tra poco. Tra cinque minuti."
"Volevo sapere per domani" dice lei.
"Certo" dice lui. Si massaggia la gamba dove gli fa male, cerca di
raggiungere la porta per tagliare fuori i suoni dallo stereo in
cucina ma il filo del telefono non è abbastanza lungo, per quanto
provi a estendere la mano. Il telefono cade dal tavolo; lui lo
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raccoglie con ancora più rabbia, dice "Bastardo di un bastardo".
"Cos'è successo?"
"Niente. Se riesci a sentirmi, niente." Allunga un piede e alla
fine riesce a far sbattere la porta di legno chiaro; l'urto provoca
una piccola nuvola di intonaco, riduce a metà il volume della
chitarra riverberata sul ritmo rapido di accordi.
"Cosa facciamo, allora?"
"Quello che vuoi tu." In realtà è pieno di resistenze, adesso che
la loro idea è sul punto di trasformarsi in una concatenazione di
dati di fatto in accelerazione progressiva: il lavoro da lasciare e
la valigia da preparare e la macchina da guidare e la strada da
percorrere e il serbatoio da riempire e le mappe da consultare e il
percorso da decidere e la lingua da parlare e i cibi da ordinare e
gli alberghi da trovare, le sensazioni da assorbire e quelle da
filtrare, quelle da tagliare fuori. Dice "Se hai ancora voglia di
andare".
"Sì che ne ho voglia."
"Non è che invece preferiresti un posto più vicino? Rimandare la
Francia a quando fa più caldo e abbiamo un po' più di tempo tutti e
due?"
"No, no. La Francia mi va benissimo."
"Perfetto. Allora ti passo a prendere domattina verso le dieci. Ti
faccio uno squillo quando sono all'angolo, così scendi."
"Va bene."
"Non portarti dieci valigie, non servono."
"Va bene."
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"Sono solo pochi giorni."
"Sì."
"A domattina."
"A domattina."
Quando si parlano al telefono tende a essere ancora più sintetica
di lui, e a chiudere in modo altrettanto brusco. Non corre certo il
rischio di sentirsi bloccato in una conversazione, con lei. Al
contrario, quasi ogni volta gli rimane l'idea di avere detto o
ascoltato troppo poco, vorrebbe richiamarla per aggiungere o farle
aggiungere qualcosa. E' forse l'unica persona con cui gli succede.
Si massaggia la tibia e si guarda i piedi nudi, sul pavimento di
legno ingombro di carte storico-geografiche e atlanti e incisioni e
riproduzioni e fotografie. Pensa alle telefonate da fare e alle
e-mail da mandare prima di partire, ai modi di mantenere i contatti a
distanza crescente.
Quando stanno correndo
da mezz'ora sull'autostrada
Quando stanno correndo da mezz'ora sull'autostrada, e la città e le
stazioni di servizio e i caselli e i centri satellite e i capannoni
industriali e il paesaggio agricolo intriso di veleni sono abbastanza
lontani alle loro spalle, comincia a sentirsi meglio. Il movimento
che gli invade lo sguardo e gli passa nel corpo attraverso le
vibrazioni dell'abitacolo dissolve la perplessità di quando era
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fermo, come una corrente che rompe il calcare in un sistema di
tubature. A pensarci adesso gli sembra assurdo avere esitato a
partire, essersi fatto bloccare da sentimenti statici.
Dice "Meno male che non ti sei lasciata contagiare dalle mie
resistenze".
Lei fa di sì con la testa, sorride vaga; non c'è verso che possa
sentirlo.
Lui dice più forte "Brava che non sei stata a sentirmi!".
Lei ha un piccolo lettore di CD acceso, il ritmo di musica ska
filtra dagli auricolari in sottili frequenze compresse che si
mescolano ai rumori della macchina. Ha un libro sulle ginocchia,
anche: un romanzo sudamericano che si è fatta comprare all'autogrill
quando si sono fermati per il pieno.
Lui glielo indica, dice "Bello?".
Lei alza uno sguardo interrogativo, assorta nella musica e nella
storia che ha tra le mani.
"Interessante? Ti ha preso?"
"Non so ancora."
Lui guarda la strada avanti: l'asfalto e i camion e le automobili,
il guard-rail che scorre via veloce. La loro macchina è un
semifuoristrada giapponese, non particolarmente stabile né
silenzioso, con sospensioni troppo morbide, un motore appena
adeguato. Ma lo conosce abbastanza bene da tirarlo al massimo dei
giri lungo la corsia di sorpasso senza preoccuparsi di non farcela o
di finire fuori. Pensa che forse starebbero meglio su una macchina più
bassa e fluida e potente, una grossa sogliola tecnologica su ruote,
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con un impianto stereo da centinaia di watt al posto dello spazio
vuoto sul cruscotto (un'altra cosa che ha rimandato e rimandato di
fare). Ci si immagina dentro, con lei sul sedile di fianco e le
valigie ben riposte nel bagagliaio: il cervello gli si occupa di
riflessioni meccaniche, che si sovrappongono senza nessun criterio.
Contrae i muscoli della pancia, inarca la schiena all'indietro, fa
forza sulle braccia. Quando è in viaggio gli sembra di essere
incapace di pensieri compiuti, nel senso di idee che si evolvono fino
a essere esportabili in un territorio di parole. Il tipo di idee che
gli vengono mentre guida affiorano e vanno avanti di poco e poi si
fermano o tornano indietro; producono immagini ripetute, prospettive
schiacciate, frammenti di sensazioni. Ogni tanto pensa che sarebbe
bello riuscire a usare in modo creativo almeno parte dei tempi di
spostamento da un luogo all'altro, eppure non ci riesce quasi mai. A
volte capita che gli venga un'intuizione improvvisa, ma di solito non
dura abbastanza a lungo, perde presto le sue qualità apparenti nel
rombo continuo dell'aria e delle ruote e del motore.
Però guidare su lunghe distanze gli piace, perché gli permette di
abitare in uno stato intermedio, tra luoghi e tempi diversi, non
facile da classificare. Spesso gli sembra che sia questa la
dimensione in cui si trova più a suo agio: un presente in
allontanamento rapido dal passato verso un futuro che continua a
spostarsi. Finché è in viaggio gli sembra che la vita possa solo
inseguirlo senza raggiungerlo, per poi cercare di bloccarlo a terra e
premerlo con richieste e pretese fino a non lasciarlo più respirare.
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Il suo telefono cellulare suona, nella tasca della giacca di pelle
sul sedile di dietro. Lui allunga una mano senza rallentare, il
semifuoristrada ondeggia sulle sospensioni. Ogni volta prova la
stessa miscela di senso d'intrusione e desiderio di contatto, nel
breve spazio tra il suono e i gesti per rispondere. Lo tira fuori
dalla tasca quando ormai sembra troppo tardi; legge il nome sul
minuscolo schermo e subito schiaccia il tasto OK.
G.: Ehi! Stavo per chiamarti.
(Guarda lei seduta alla sua destra, ma non gli sembra che possa
sentirlo.)
M.: Come va?
(La sua voce attraversata da impulsi contrastanti di incertezza,
slancio, disappunto, attenzione focalizzata.)
G.: Bene. In viaggio.
(Si rende conto di come le parole gli suonano rigide. Se fosse da
solo avrebbe un tono diverso, ma con lei di fianco è il massimo che
gli viene.)
M.: Da quanto sei partito?
(Nei primi tempi in cui si frequentavano lo colpiva il suo modo di
cambiare tono e timbro a seconda del luogo o del momento o
dell'interlocutore, al punto da sembrare persone completamente
diverse tra loro, e suscitargli reazioni altrettanto diverse.)
G.: Da un po'.
(Il fatto è che non ha più idea di quali siano le loro posizioni,
dopo quello che si sono detti negli ultimi giorni: di quale grado di
familiarità irrimediabile o distacco irrimediabile ci sia tra loro.)
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M.: A che ora?
G.: Non lo so. Non me lo ricordo.
(Il bisogno che ha di coordinate precise, e le viene dall'essere
nata e vissuta circondata da una vaghezza estrema. Lui lo sa, ma lo
stesso ogni volta si sente messo alle strette, spinto a essere
meticolosamente accurato o a contraddirsi come un ladro sotto
interrogatorio.)
M.: Perché hai questo tono? Se ti disturbo ti saluto.
G.: Non mi disturbi. E' solo che sto guidando a centosettanta
all'ora.
M.: Volevo solo sapere come stavi.
(E non è solo così, naturalmente: la sua voce è una sonda sottile,
che attraversa lo spazio e gli stati d'animo, gli fa quasi solletico
alle costole adesso.)
G.: Sto bene, grazie. E tu?
M.: Bene, bene. Ti saluto, buon viaggio. Ciao.
G.: Ciao.
G.: Ehi?
Chiude il piccolo telefono cellulare, lo butta sul sedile di
dietro. Lei non dice niente, ma è probabile che abbia capito con chi
parlava.
Lui accelera ancora, guarda avanti. Si chiede se è tutta colpa del
suo carattere, o se è M. troppo concentrata sulla registrazione di
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particolari minuti a cui dare grandi significati. Si chiede se
avrebbe dovuto trovare il tempo di chiamarla per primo; se è vero che
non riesce mai ad allargare gli spazi del cuore e dell'attenzione per
farci stare più di un interesse o un'attività o un affetto alla
volta.
Una e-mail
(ricevuta cinque notti fa)
Ore: 1.45
Caro Giovanni,
mi dispiace che la nostra ultima telefonata sia finita ancora una
volta in elenchi furiosi di dare e avere e scambi di accuse e
controaccuse che in fondo non ci somigliano. Ma pare che non
riusciamo proprio più a parlarci in altri modi.
Al punto in cui siamo (grandi) credo che ognuno dei due sappia di
cosa ha bisogno, ed è ovvio che cerchi di ottenerlo o, se già ce
l'ha, di difenderlo.
Io so di avere bisogno di una vita fatta di grandi sogni, di
obbiettivi alti, incontri interessanti; devo sentirmi impegnata e
gratificata in maniera evidente. Devo avere uno scopo, un senso che
vada al di là di quello che faccio di momento in momento. Forse è un
limite, ma è la mia natura, che altrimenti si spegne. Però non sono
una costruttrice solitaria, non ho il piglio del navigatore a vela
che circumnaviga il mondo per conto suo, in cerca di gloria e di
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successo. Perché io sono una donna, e alla fine è questo, senza
nessuna frustrazione, che so essere. So progettare, ideare,
alimentare, anche condurre forse, ma non da sola, non per una causa
unicamente mia. Pensavo che insieme a te avrei avuto il coraggio e la
forza di costruire qualcosa di importante e duraturo, in cui far
convergere le esigenze e i sogni di tutti e due.
Invece dopo tutto lo slancio, l'avvicinamento, l'interesse, la
profondità e la confidenza divoranti degli inizi, mi sono ritrovata
in una terra di nessuno, a oscillare tra due condizioni opposte e
ugualmente frustranti. O insieme a te, totalmente occupata da te e
dalle tue attività, idee, propensioni, manie, sbalzi di carattere,
oppure sola con i miei figli e i miei impegni, mentre tu te ne andavi
a "ricostituire la tua aura", come dicevi. Così cinque o sei giorni
ogni dieci me ne stavo senza la compagnia di una persona adulta con
cui parlare o fare altre cose, e gli altri giorni ero invasa da te,
però sempre in modo provvisorio. Senza la continuità che è
indispensabile a costruire in modo più articolato una vita comune,
fatta di spazi condivisi e anche di spazi privati. Invece no: sempre
sospesi nel presente, sempre in corsa, sempre troppo addosso uno
all'altra oppure troppo distanti. Senza fare mai niente di
costruttivo, e alla fine anche senza energia, senza più risorse
creative.
Da quando abbiamo cominciato a stare insieme, io ho aspettato che
tu mi facessi una proposta di vita. Ero anche pronta a cambiare casa
e lavoro, purché fosse in base a un progetto concreto, reale,
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realizzabile. Invece avevi sempre la testa piena di immagini
fantastiche, che mi suggestionavano ma che finivano per mescolarsi a
tutte le altre immagini di cui si nutre la tua mente così poco
pratica. Dicevi andiamo a vivere in Irlanda, dicevi andiamo in Perù.
Dicevi costruiamoci una capanna in un'isola persa nell'oceano come
gli ammutinati del Bounty. E intanto l'idea di cercare insieme una
casa vera per noi e per i miei figli ti faceva sentire in gabbia. Non
sopportavi gli atri e le portinerie, gli inquilini che passavano ti
sembravano dei mostri, gli odori ti facevano venire la nausea, le
luci ti riempivano di orrore, entravi negli ascensori come un
condannato che va al patibolo.
E sostenere che dipende dal tuo lavoro è solo un alibi. Sei stato
tu il primo a dirmelo, una notte di due anni fa quando per qualche
ragione eri davvero sincero, ti ricordi? Hai riconosciuto che per te
fare lo storico è anche un modo di scappare dalla realtà di ogni
giorno, sottrarti alle richieste e al peso della vita, staccare i
contatti con tutte le cose da fare e organizzare e mantenere e
sostenere con fatica e costanza (e anche gioia, sì). Ma cosa ti resta
poi, di una vita provvisoria e astratta che si rifiuta
sistematicamente di affrontare i problemi reali e di risolverli?
Forse il tuo difetto più brutto è la mancanza di continuità, e
senza una continuità di qualunque genere non ci può essere nessun
futuro. Sai essere costante solo nel tuo lavoro, e anche lì tendi a
navigare a vista, muoverti attraverso luoghi e periodi a seconda di
come ti viene. Fai le tue ricerche e scrivi i tuoi libri quasi senza
piani, anche se ti costa molta più fatica che se seguissi un metodo
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ordinato. La tua idea è di mantenere in tutto la sorpresa e
l'eccitazione e il senso di miracolo degli inizi. Ma alla lunga è
un'idea immatura, artificiale, frustrante e potenzialmente
distruttiva.
Io ti ho sempre stimato tantissimo, Giovanni, e so apprezzare come
pochi le tue caratteristiche vitali, profonde, intelligenti, gioiose,
e so anche convivere con le tue cupezze, le tue paure, le tue
sospensioni, i tuoi cali improvvisi di energia. Ma non riesco,
proprio non ci riesco, a convivere con le tue andate e i tuoi
ritorni, i tuoi ripensamenti, le ragnatele di pensieri, il rifiuto di
fare una scelta univoca o di prendere un impegno per il dopo. Tu hai
la provvisorietà emozionale come base. E la provvisorietà logistica
ed esistenziale come supporto.
Siamo stati per cinque anni e mezzo come due pesci rossi in una
boccia di vetro, che girano intorno e intorno e ogni volta si
dimenticano di avere già fatto lo stesso identico giro.
Era questo che volevo dirti. Hai sempre sostenuto che il futuro è
un'idea meschina, per gente che fa calcoli e programmi invece di
vivere, e che l'unico tempo degno della nostra attenzione e passione è
il presente. Ma il presente si consuma di continuo come un nastro che
scorre, caro Giovanni, e di istante in istante diventa passato senza
che neanche ce ne accorgiamo.
Con tristezza,
M.
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La guarda a intervalli
La guarda a intervalli, con i suoi auricolari stereo e il libro tra
le mani sottili. Gli sembra che il viaggio vada benissimo così; poi
gli sembra invece che dovrebbero usare meglio il tempo che hanno a
disposizione, approfittarne per comunicare nel modo più intenso
possibile.
Dice "Non potresti leggere in un altro momento, magari?". Istinto
di lasciarla in pace; istinto di interferire. E certo non gli
dispiace che sia una che legge, invece di una che guarda fuori senza
interesse o si guarda le unghie, ma non riesce a stare zitto. Dice
"Non potremmo parlare, invece?".
Lei si toglie un auricolare, sembra incerta. Dice "Cosa?".
"Niente." Fa un cenno verso l'autostrada, e in effetti non c'è
niente da vedere o da commentare, solo asfalto e altre macchine e
camion in corsa, guard-rail guard-rail guard-rail. E' un
non-paesaggio, un puro canale neutro di scorrimento che occupa il
campo visivo senza arricchirlo in nessun modo. Le colline ai lati
sono lontane e con un'altra gradazione di luce, anche se fossero
interessanti richiederebbero una diversa messa a fuoco dello sguardo
e una diversa apertura delle pupille.
Allunga una mano, le dà un colpetto sulla spalla.
Lei sorride appena; si rimette l'auricolare, torna a leggere il suo
libro.
Gli viene in mente di quando leggeva con la stessa intensità, per
andarsene via da quello che aveva intorno. Se qualcuno lo chiamava o
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cercava di parlargli, non lo sentiva neanche. Seguiva un flusso di
immagini e sensazioni e non era più lì, era a migliaia di chilometri
e centinaia d'anni di distanza. Ma era essenziale che il flusso fosse
attendibile, perché funzionasse; le fantasie di seconda o terza mano
non lo facevano arrivare da nessuna parte.
Dice forte "Ehi!".
"Ehi" dice lei, con un paio di secondi di ritardo. Poi dato che lui
continua a guardarla, si toglie di nuovo un auricolare.
"Facciamo un gioco. Spegni un po' quell'affare."
"Quale gioco?" Ma intanto preme il tasto stop del suo lettore di
musica.
"Facciamo un elenco dei nostri difetti."
"Un elenco?"
"Sì, metti via il libro e la musica e prendi una penna e un foglio."
"Dove?"
"La penna è lì nel cassetto. Un foglio non ce l'hai?"
"No."
"Da nessuna parte?"
"Non so."
"Non hai nessun foglio o quaderno o blocchetto con te?"
"Forse nella valigia, dietro."
"Va be', non è indispensabile. Possiamo anche farlo a voce. Chi
comincia?"
"Comincia tu. L'idea è tua."
"Però se hai così poco entusiasmo non c'è gusto."
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"Ma no."
"Se lo fai come se fosse un dovere."
"Non è vero."
"Sì invece. Lasciamo perdere."
"Perché?"
"Perché così non è divertente. Doveva essere un gioco."
"Eh, appunto. Facciamolo."
"Non importa. Davvero."
"Ti sei offeso."
"Non mi sono offeso."
"Invece sì."
"Ti dico di no. Guarda."
Davanti a loro il paesaggio si sta aprendo: c'è il mare
all'orizzonte, dello stesso azzurro sbiancato e luminoso del cielo,
anche se la terra è invasa da forme mostruose di svincoli e
cavalcavia e sovrappassi, piloni giganti di cemento armato.
Alla dogana non ci sono
più doganieri
Alla dogana non ci sono più doganieri. Le automobili e i camion
rallentano lo stesso, frenati dal lieve restringimento della strada e
da un'idea astratta di demarcazione che aleggia ancora nell'aria,
intorno alle pensiline e alle costruzioni basse già avviate alla
rovina.
Lui dice "Non è incredibile?".
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"Cosa?" Non si è rimessa gli auricolari da quando sono arrivati in
vista del mare, ha chiuso il libro anche se continua a tenerlo sulle
ginocchia.
"Che non ci siano più quei bastardi in divisa che ti chiedevano i
documenti e ti controllavano il nome e la faccia due volte, con
l'aria di poter decidere se lasciarti passare o no."
"Già."
"Ci pensi? Si sono ammazzati, per questo cavolo di linea. Come se
fosse un dato di fatto e di principio fondamentale, da difendere a
ogni costo."
"Quando?"
"Tante volte. L'ultima volta quando i tedeschi hanno invaso la
Francia e gli italiani vigliacchi sono entrati in guerra all'ultimo
momento possibile per rubarsi un pezzo di costa."
Lei lo guarda e fa di sì con la testa; non è chiaro se lo sapeva già
oppure no. D'altra parte ogni volta che lui parla di storia tende a
essere cauta per paura di venire sommersa da troppi dettagli, la sua è
una reazione di difesa.
Lui guarda dalla parte del mare: i cartelli e i nomi, i paesi
abbarbicati sulla costa più in basso. Si chiede se è vero che c'è una
differenza visibile nella qualità del paesaggio da un lato e
dall'altro della frontiera, o se è solo un'idea dovuta al suo spirito
antipatriottico. Ma gli sembra che sia così: la costa italiana è
devastata in modo più sconnesso e barbaro di quella francese, che
pure è devastata. Gli viene in mente un racconto ricorrente di M.,
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tra i tanti loro racconti ricorrenti, di quando era passata di lì a
sedici anni in moto con il suo ragazzo, in viaggio verso
l'Inghilterra. Diceva "Perfino il colore del mare era diverso, dopo
il confine. Di un azzurro migliore, non so". Insieme al colore del
mare altre immagini gli attraversano la testa: lei ragazzina
aggrappata al suo ragazzo, la sua attenzione appassionata e rapida,
la moto sulla strada a curve, il loro modo di respirarsi vicini.
Dice "Il filo sottile che tiene insieme due persone".
"Quale filo?" dice lei, come se tornasse a terra da una grande
distanza.
"Il filo di tutto quello che le tiene collegate anche quando sono
lontane. Anche quando non si vedono e non si parlano."
"Perché dici il filo?"
"Perché è una cosa molto sottile e molto resistente, no? Che puoi
anche non vedere, ed è estensibile quasi senza limiti attraverso la
distanza e il tempo e l'affollamento delle altre persone che occupano
lo spazio e lo attraversano in ogni direzione."
Lei lo guarda. Lui pensa a quello che succede ogni volta che con M.
decidono di non sentirsi più e il filo che li collega sembra sul
punto di spezzarsi: al senso di vuoto che gli cresce intorno e gli
preme sui timpani e gli risucchia l'aria dai polmoni e gli impedisce
di stare fermo in un punto.
Dice "Però non è affatto scontato che ci sia, il filo".
"No?"
"No. Magari due pensano di essere molto legati, poi appena provano
ad allontanarsi scoprono che in realtà stanno benissimo ognuno per
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conto suo."
"E allora perché pensavano di essere legati?"
"Perché erano tenuti insieme da una colla di pura abitudine e
oggetti e luoghi condivisi e gesti stratificati. E' una colla così
forte da sembrare una saldatura permanente, ma appena uno dei due
prova a staccarsi non c'è nessun filo che lo segua."
"Che triste."
"Sì. La maggior parte dei legami sono di questo genere, credo."
"Come fai a sapere che invece il filo c'è?"
"Quando provi a romperlo, e ti trovi in caduta libera attraverso il
senso delle cose."
"E di cos'è fatto, questo filo?"
"Di uno scambio continuo di domande e risposte. Sguardi, anche solo
immaginati. Assonanze e intuizioni e sorprese, curiosità reciproca
che non si esaurisce. E similitudini, no? E differenze."
Lei fa per dire qualcosa, ma il suo cellulare suona, con la buffa
musichetta sincopata che ha scelto tra le tante suonerie possibili.
Subito dopo suona quello di lui. Si mettono a parlare tutti e due,
ognuno inclinato verso il proprio finestrino per schermarsi dalla
voce dell'altro.
Appena usciti dall'autostrada
e scesi per lo svincolo
Appena usciti dall'autostrada e scesi per lo svincolo il traffico
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rallenta in una lunga coda che a strappi e stop procede verso il
centro della città di mare. Tutti e due guardano le scritte e le
macchine e i negozi e gli edifici e le facce della periferia urbana.
Lui indica e fa commenti su dettagli di persone e scritte e insegne,
ma l'ironia che ci mette non lo protegge come vorrebbe. Gli sembra di
essere già contagiato in parte dalla tristezza del paesaggio, adesso
che sono fuori dalla protezione del movimento veloce: gli sembra di
essere troppo esposto e troppo ricettivo rispetto all'ordinarietà
umida che devono attraversare nella luce del pomeriggio.
Dice "Possiamo fare un giro a piedi per il centro. Vediamo il museo
di arte contemporanea, se vuoi". Progetti di gesti e di sensazioni
messi avanti per amicarsi lo spazio, immagini mentali fabbricate come
antidoti.
"Eh."
"Oppure fare due passi sul lungomare e bere qualcosa in un bar."
"Va bene."
Ma più vanno avanti nel traffico rallentato, meno lo attira l'idea
di fermarsi. La meccanica della cosa sembra complicata, perché non c'è
spazio lungo i marciapiedi e i parcheggi sono pieni; ma naturalmente
non è solo questo. E' che non riesce a vedersi camminare nelle vie
esangui di una grossa città di mare fuori stagione, come un turista o
un visitatore volonteroso.
Quando sono ormai nel centro dice "Hai voglia che cerchiamo un
posto dove fermarci, o andiamo più avanti?".
"Più avanti."
Poi anche quando arrivano al lungomare dove le macchine scorrono
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nei due sensi tra gli edifici e le palme, nessuna delle facciate e
nessuna delle vetrine dei bar gli fa venire voglia di scendere e
consegnarsi alle leggi del luogo. Anche qui gli sembra che ci siano
doveri a cui sottrarsi: la pressione sorda delle cose che ci si
aspetta in un viaggio, gli impegni non scritti.
Dice "E se invece andassimo oltre? Se ci fermassimo in un
paesino?".
"Sì. Meglio."
"Davvero? Non ci tieni a visitare la città?"
"Per niente."
"E allora andiamo!"
Accelera sul lungomare, in un lampo di sollievo e di riconoscenza
per come lei gli è simile in queste cose. Già non si sente più in
debito con lo scenario, non gli sembra di dover scendere a patti per
negoziare un passaggio.
Dice "Non sono per niente una persona da weekend, io".
"No?"
"Neanche un po'. I weekend mi mettono una tristezza terribile."
"Perché?"
"Perché ogni volta mi sembrano finiti prima ancora di cominciare."
"Hanno la fine già dentro il nome."
"Sì! Parti, e hai già in testa il ritorno. Come una condanna
stabilita in partenza, che esclude qualunque possibile soluzione
diversa."
"Tipo?"
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"Tipo sapere che ci sono dei margini aperti. Non piccoli margini,
margini illimitati. Sapere che se ti viene voglia di fermarti in un
altro posto per sempre, lo puoi fare."
"Ti succede?"
"Quasi ogni volta, anche quando l'altro posto non mi piace
particolarmente."
"Non hai nostalgia di casa?"
"Dopo due o tre giorni, nessuna."
"Non ce l'avevi neanche da piccolo?"
"No."
"E neanche allora ti piacevano i weekend?"
"No. Ma i miei non ne facevano quasi mai. Non erano abbastanza
organizzati, e non avevano posti dove andare. E' sempre stata una
famiglia così, senza grandi attitudini pratiche e senza molti punti
di appoggio."
"Non andavate mai via?"
"Qualche rara volta facevamo una gita fuori città, la domenica. Ma
era sai come attraversare uno di quei documentari in bianco e nero
sulle periferie urbane e le campagne piatte della bassa Lombardia?"
"Così desolante?"
"Sì. I preparativi, i discorsi e i gesti, i vestiti, la macchina,
la strada, il paesaggio lungo la strada. L'umore dei miei."
"Che umore avevano?"
"Uno spirito da soldati in territorio nemico, pronti a costruire
trincee tutto il tempo, anche per difendersi uno dall'altro."
"Litigavano?"
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"C'era una tensione continua, veniva fuori quasi ogni volta che
qualcuno avanzava il genere di richieste ordinarie che ci si può
rivolgere in una famiglia."
"Tipo andare fuori città per un weekend?"
"Sì. E il clima della nostra famiglia era peggiorato un milione di
volte dalla straordinaria bruttezza persecutoria della città."
"Così non andavate via spesso?"
"Andavamo via d'estate, dalla fine della scuola a metà settembre.
Sono gli unici periodi della mia infanzia che mi ricordo."
"Perché?"
"Perché il resto l'ho cancellato tutto, o quasi."
"Non hai nessun ricordo di quando eri bambino in città?"
"Solo qualche immagine, e la memoria di qualche sensazione. Di
nuovo in bianco e nero. Più che un film, sai quelle animazioni
rudimentali di vecchie foto che fai scorrere girando una manovella?"
"Tipo?"
"Non so, io che cammino in un giardinetto pubblico bruciato dalla
fuliggine e dal gelo e stretto tra viali pieni di traffico, con
addosso un cappotto troppo pesante e troppo grande e con un berretto
umiliante in testa. O io che scaravento la mia cartella di pelle
verde sul cemento del cortile di scuola il primo giorno della prima
elementare, come se scaraventassi via l'idea di doverci andare."
"Delle estati invece ti ricordi di più?"
"Delle estati quasi tutto."
"Nel villaggio di pescatori alla foce del fiume dove mi hai
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portata?"
"Sì, ma è cambiato, naturalmente. Allora era abbastanza selvaggio."
"In che modo?"
"Era quasi il villaggio delle origini, no? Un'organizzazione
tribale, più o meno. C'era tutto. I clan familiari, il rapporto degli
abitanti con gli elementi e con gli animali. La pianura e il monte,
l'acqua dolce e l'acqua salata, i pesci e i gamberi, l'olio degli
olivi e il vino nella botte e le pesche nel frutteto, il sole che
batteva e la pioggia, i sentieri tra i campi e i boschi. Le
variazioni di luce e di temperatura e di umidità, milioni di
sensazioni tattili e olfattive."
"E ci stavi bene?"
"Come un animale cresciuto nella gabbia di un laboratorio
seminterrato che di colpo viene lasciato libero, e all'inizio non
capisce neanche dove sia e poi si mette a correre intorno e fare
salti, con tutti i suoi istinti naturali che gli rifluiscono dentro."
"Diventavi una specie di selvaggio?"
"Ritornavo a me stesso. Mi toglievo le scarpe appena arrivato e per
tre mesi non me le rimettevo più. Stavo con il minimo indispensabile
di vestiti addosso, assorbivo le sensazioni della terra e dell'aria e
dell'acqua e delle piante e degli animali, lontano dai materiali e
dalle forme e dagli odori e dalle attività e dai rapporti innaturali
della città che detestavo così tanto. Non credo che sarei diventato
quello che sono, senza quelle estati."
"In che senso?"
"Nel senso che sarei rimasto chiuso per sempre in una sensibilità
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atrofizzata e in un corpo incapace di espansione. Tutto cervello e
reazioni mediate e sensazioni attenuate, come una povera larva urbana
distrutta dalla civilizzazione."
"Qual è il tuo primo ricordo?"
"Credo che sia un falso ricordo. Sai quei ricordi ricostruiti?"
"Come fai a dirlo?"
"Perché mi vedo sdraiato in una carrozzina e guardo da sotto un
androne una via dove passano delle persone. Ma quasi tutti gli
psicologi sostengono che prima dei due anni non siamo affatto in
grado di fissare dei ricordi."
"E allora qual è il primo vero ricordo che hai?"
"Databile?"
"Sì."
"Io in piedi di fianco a mio nonno paterno in una tabaccheria di
Trieste, con il tabaccaio che da dietro il suo bancone mi chiede
"Quanti anni hai?". Ha la definizione di un film a 35 millimetri,
tutti i dettagli ingrandibili senza perdere di qualità. Io che guardo
in alto verso questo sconosciuto invadente e insistente, la sua
faccia da sotto in su, il legno scuro del bancone, la lana del
cappotto grigio del nonno, la montatura d'oro sottile dei suoi
occhiali. Il nonno che dice "Su, digli: ho tre anni"."
"E tu?"
"Io faccio appena di sì con la testa, irrigidito dall'ostilità."
"Perché ostilità?"
"Perché ero così in generale."
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"Perché?"
"Timidezza e difesa, credo. Non-partecipazione ai meccanismi del
mondo."
"Come mai questo ricordo, tra tutti i primi ricordi che potresti
avere?"
"Non lo so. Non è che li scegliamo noi, i nostri ricordi."
"E chi li sceglie, allora?"
"Si scelgono da soli. Per qualche ragione vengono fuori tra tutti i
dati che abbiamo accumulato secondo dopo secondo, si aprono una
finestra su uno strato più accessibile della memoria."
"Eri ostile anche con la tua famiglia?"
"Sì."
"Cosa non ti piaceva?"
"L'idea di essere ostaggio di altre persone, che potevano decidere
per me in base ai loro umori e alle loro convinzioni."
"E cosa decidevano?"
"Le cose che decide una famiglia. I criteri in base a cui vivere, i
criteri in base a cui ridere. I criteri in base a cui considerare
bella o brutta una cosa, interessante o noiosa. Il che è
perfettamente naturale da un punto di vista evolutivo e anche da un
punto di vista morale, ma non mi piaceva."
"Però è così in tutte le famiglie, no?"
"Sì. Ed è probabile che ce ne fossero di molto peggiori della mia.
Alcune erano forse più allegre, altre più organizzate, altre
infinitamente più meschine o ignoranti."
"E allora?"
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"Quello che non mi piaceva era il principio di prevaricazione
sistematica. Tu non ne hai idea, perché hai avuto la fortuna di
crescere con due genitori separati."
"Che fortuna!"
"Lo è. Avresti dovuto provare nell'altro modo, per capirlo."
"Perché?"
"Perché hai avuto a che fare con due persone, invece che con un
fronte unico compattato dalla complicità e dall'omertà e dalla
distribuzione delle parti."
"Ma una famiglia non deve per forza essere così."
"Eppure lo è, quasi sempre."
"Perché?"
"Perché i ruoli sono più forti delle persone. Mettono muri tra loro
e il mondo, con finestre e porte apribili solo da dentro."
"E dentro i muri?"
"Dentro i muri ogni famiglia diventa un teatrino privato. Un tempo
i padri facevano l'impresario e il regista e lo scenografo e l'attore
principale. Nessuno poteva uscire, anche se il repertorio era
limitato ed era stato ripetuto così tante volte che tutti lo
conoscevano a memoria."
"Dài."
"Era così. Anche nelle famiglie migliori. Magari cambiava la qualità
del copione e il taglio della regia e la capacità degli attori, ma
l'idea del minuscolo teatro privato rimaneva. Il fatto di lavorare su
un buon copione aumentava l'impegno. Dava l'idea di avere messo
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insieme una fantastica rappresentazione, per il bene di chi aveva la
fortuna di assistere."
"E le madri cosa facevano?"
"Dipendeva dalla compagnia. A volte la coprotagonista e a volte la
spalla. A volte curavano i costumi o le scene. A volte dovevano solo
pulire il palcoscenico e spostare gli attrezzi. A volte potevano
anche prendersi il ruolo principale, quando l'impresario e regista e
scenografo e protagonista non ne aveva voglia o era impegnato su
un'altra piazza."
"E i figli?"
"I figli erano arruolati a forza nei ruoli secondari e come
spettatori fissi. Così ogni volta che andava in scena una
rappresentazione di conoscenze e aspirazioni e doti autentiche o
presunte c'era sempre qualcuno a guardare e ascoltare."
"E adesso?"
"Adesso mi sembra sia cambiato il genere di teatro, ma non è molto
meglio."
"Qual è?"
"Quello dove il regista e la costumista si infiacchiscono e si
distraggono e si fanno suggestionare da ogni tipo di consigli e
suggerimenti di specialisti, fino a ritirarsi in platea a fare gli
spettatori. E gli ex attori secondari ed ex spettatori obbligati
occupano la scena e vanno avanti a improvvisare, anche se biascicano
le battute e si muovono come scimmie. Tanto sanno di ricevere
applausi e noccioline a ogni gesto e suono che producono."
"Vuoi dire i figli?"
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"Eh."
"E come dovrebbe essere una famiglia, per non essere così?"
"Non lo so. Forse un bambino dovrebbe potersi scegliere quella che
preferisce, da quando comincia a capire qualcosa. Dovrebbe poter
girare per il suo villaggio o paese o città e guardare una grande
varietà di famiglie costituite in forme diverse e in base a criteri
diversi, e scegliere quella a cui vorrebbe appartenere. Quella che
gli corrisponde di più, no?"
"Tipo?"
"Tipo magari una famiglia allargata, una tribù più che una
famiglia. O una famiglia con una madre e nessun padre. Una famiglia
con un padre e nessuna madre. Una famiglia con due madri. Una
famiglia di soli fratelli e sorelle. Una famiglia di soli zii e
nipoti e cugini, come nelle storie di Walt Disney."
"Ha!"
"E naturalmente nessuno potrebbe pretendere di essere accettato
come figlio per obbligo, da nessuna di queste famiglie. Dovrebbe
conquistarsi il suo posto, e poi continuare a guadagnarselo giorno
dopo giorno."
"E se a un certo punto non ne avesse più voglia?"
"Se ne potrebbe andare. A cercarsi una famiglia diversa o a stare
da solo."
"E se non volesse andarsene? Se volesse restare nella famiglia che
ha scelto senza guadagnarsi niente giorno dopo giorno?"
"Lo caccerebbero a calci, spero. Non ci sarebbero più genitori che
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tengono in ostaggio i figli, e nemmeno figli che tengono in ostaggio
i genitori. Ci sarebbero solo libere scelte tra libere persone,
basta. Nessun obbligo e nessun ricatto."
Lei guarda verso il mare alla sua sinistra, dove un gruppo di
grandi costruzioni saldate tra loro forma il profilo innaturale di
una collina ad angoli retti.
"Non sei d'accordo?"
"Non so."
"Cos'è che ti lascia perplessa?"
"Che non ci sarebbe più niente di sicuro."
"Nel senso di protetto o nel senso di garantito?"
"Nel senso di sicuro."
"Non ti sembra meglio non essere sicuri che schiavi, scusa? Schiavi
dei genitori o schiavi dei figli?"
"E chi sarebbe schiavo dei figli?"
"Be', la maggior parte delle famiglie italiane di oggi, per
esempio. Stanno lì tutto il tempo ad assecondare ogni loro minimo
desiderio, cercare di anticiparlo ogni volta che possono. Gli fanno
da servi e gli fanno da sudditi, non importa quali siano le
conseguenze. Li vedono andare all'indietro nella scala
dell'evoluzione, e ne sono compiaciuti."
"Per esempio?"
"Lasciano che si comportino nei modi più rozzi e volgari e privi di
intelligenza. Li lasciano regredire gradino dopo gradino, li
incoraggiano a diventare egocentrici ai limiti dell'autismo. Se
qualcuno glielo fa notare dicono "Che ci vuoi fare? Sono i ragazzi di
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oggi". Scuotono la testa e sorridono, come i proprietari di un cane
aggressivo che fa la cacca sui marciapiedi e morde la gente ai
giardinetti."
"Ma di chi parli?"
"Dei genitori e dei figli che vedo in giro."
"Dove?"
"Davanti a qualsiasi scuola o bar o in qualsiasi strada. I padri e
le madri sciatti e vili, e le bamboccione e i bamboccioni narcisi e
ottusi e aggressivi e regressivi che sanno solo preoccuparsi di sé
stessi e non hanno la minima curiosità o interesse per nient'altro al
mondo."
"E sarebbe colpa delle famiglie, secondo te?"
"E' un circolo vizioso, è difficile capire dove cominci. Tu cosa
dici?"
"Dico che esageri. E semmai è colpa della società o della scuola."
"La società è una parola così generica che non vuol dire quasi
niente. La scuola è come un vecchio autobus sfasciato che va per una
strada a fondo chiuso guidato da autisti moribondi."
"Non dirlo a me. Ma cosa cavolo c'entrano i ragazzi?"
"C'entrano. Per come si prestano a diventare dei trogloditi
consumatori dominati da una fame e da una frivolezza inarrestabili,
scafati in tutte le tecniche del ricatto e dell'inganno pur di
ottenere quello che vogliono. Ci sono forze colossali che lavorano a
favore della loro stupidità, e riescono a ottenere risultati
fantastici."
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"Quali forze?"
"I produttori di patatine e scooter e w•rstel e surgelati e
magliette e scarpe e occhiali firmati e musica industriale e bibite e
gelati e stereo e gel per capelli e qualunque altro oggetto o
sostanza inutile venga buttata sul mercato. L'unica cosa che chiedono
ai ragazzi è di mangiare e bere e indossare e guidare e ascoltare e
sorridere. Ma gliela chiedono con molta insistenza, e le famiglie
sono sempre pronte a dare una mano, pur di non avere problemi."
"Tipo?"
"Tipo avere dei figli non-consumatori e pieni di domande. Sono
disposte a tutto per evitarlo. Sono disposte a commissioni e
incombenze di ogni genere, con uno spirito di servilismo abietto."
"Non ti sembra di esagerare?"
"Guardati intorno, e dimmi se esagero."
"Un sacco di genitori sono ancora delle carogne. Schiacciano i
figli e li perseguitano e non li fanno uscire la sera e non provano
neanche una volta a comunicare con loro alla pari. Continuano a
mandare avanti il loro teatrino privato come dicevi tu."
"Non sto dicendo che non ci siano dei genitori bastardi. Ma un
tempo la bastardaggine era tutta dalla loro parte. Erano gli unici
schiavisti che c'erano. Adesso ci sono schiavisti dai due lati. E'
una forma perversa e moderna di schiavitù incrociata."
Stanno zitti tutti e due, guardano fuori. Lui si rende conto di
come il suo tono sia del tipo che fa dire a M. "Stai cercando di
sopraffarmi", anche se non gli sembra affatto di avere questo genere
di intenzioni. Dice "Non volevo farti discorsi da rompiballe
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implacabile in guerra con il mondo".
Lei inclina appena la testa, non lo guarda.
Lui dice "Anche essere quello che guida la macchina in un viaggio è
un modo di tenere qualcun altro in ostaggio. Non puoi buttarti giù se
sei esasperata da quello che dico, no?".
"No" dice lei. Sorride, lo guarda solo per un attimo.
"Una volta tanti anni fa un mio amico faceva l'autostop in cima a
un passo di montagna e lo ha tirato su uno che aveva appena scoperto
che la moglie lo tradiva. Guidava come un pazzo giù per i tornanti, a
ogni curva diceva "Io tiro dritto, la faccio finita"."
"E il tuo amico?"
"Era terrorizzato. Cercava di far ragionare il tipo, ma quello si
irritava sempre più."
"Cosa diceva, il tuo amico?"
"Diceva "Provi a guardare le cose con distacco", e il tipo diceva
"Appunto, è proprio quello che voglio fare. Con distacco totale"."
"E alla fine?"
"Alla fine non ha poi tirato dritto, perché il mio amico mi ha
raccontato la storia."
Ridono tutti e due, guardano fuori. Anche qui lo spazio è sempre più
assediato e intaccato dalle costruzioni e dalle strade, dalla
bruttezza invadente di materiali e forme. Non corrisponde molto alle
immagini che gli vengono in mente quando pensa "Riviera francese".
Quattro SMS
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Da: M.
Ore: 12.15
Volevo solo salutarti invece avevi un tono da cane. M.
Da: Giovanni
Ore: 12.18
Ma anche tu. G.
Da: M.
Ore: 12.23
Il tuo era peggio. M.
Da: Giovanni
Ore: 12.28
E' solo che stavo guidando veloce. G.
Vanno avanti lenti
per la strada costiera
Vanno avanti lenti per la strada costiera, guardano il paesaggio
senza commentarlo. Il cielo è velato, la luce diffusa.
Lui dice "Hai voglia di fare quel gioco dei difetti?".
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"Adesso?"
"Sì. Comincio io a parlare dei miei."
"Va bene."
"Devo metterli in ordine di importanza?"
"In ordine di come ti vengono in mente."
"D'accordo."
"Allora?"
"Eh, un attimo. Lasciami pensare."
"Non pensarci troppo. Vai."
"OK: 1) Pigrizia. 2) Tendenza a rimandare le cose che mi costano
fatica."
"Non è la stessa cosa?"
"Non proprio. Se vuoi posso riformularli in modo più preciso: 1)
Pigrizia. 2) Tendenza a rimuovere i pensieri faticosi."
"E' di nuovo la stessa cosa."
"No."
"Sì, invece."
"Va be', non importa. Andiamo avanti: 3) Incapacità di scegliere."
"Vuoi dire indecisione?"
"Non proprio. Allora dico così: 3) Tendenza a oscillare tra le
molte alternative possibili a una scelta."
"Fino a quando?"
"Fino all'ultimo istante utile, o anche oltre."
"Poi?"
"Poi: 4) Idea che ci sia sempre tempo."
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"Per cosa?"
"Per scegliere."
"Poi?"
"5) Mancanza di senso pratico."
"Ma non ne hai abbastanza, invece?"
"Quando mai? Ho un pessimo rapporto con la realtà."
"In che senso?"
"Nel senso che non ho una visione realistica delle cose, né gli
strumenti adeguati per affrontarle."
"Quali sarebbero, gli strumenti?"
"La capacità di analizzare rapidamente una situazione e trovare i
comportamenti giusti di risposta. La capacità di fare programmi a
medio e a lungo termine."
"Non sai fare programmi?"
"Magari a brevissimo termine, quando sono proprio con le spalle al
muro. Ma a medio o a lungo termine sono un disastro, lo sai."
"Però il tuo lavoro riesci a farlo bene, e richiede programmi a
lungo termine, no?"
"Sì, ma quasi tutte le altre cose che vorrei fare tendono a
rimanere bloccate in un territorio di immaginazioni pure. Magari
riesco anche a visualizzarle in dettaglio, e poi non so metter giù
nessun piano operativo per renderle realizzabili. Il che ci riporta
probabilmente ai punti 1) e 2)."
"Altri difetti?"
"6) Viltà sentimentale."
"Vale a dire?"
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"Incapacità di decidere in modo netto e conseguente, ogni volta che
ci sono dei sentimenti coinvolti."
"Ma continua a essere sempre lo stesso difetto."
"Dici?"
"Sì. Gli giri intorno, ma è sempre la tua tendenza a rimuovere i
pensieri faticosi."
"Forse. Ce ne sono altri, comunque: 7) Instabilità di carattere.
Nel senso di sbalzi tra euforia e depressione."
"Poi?"
"8) Bisogno di attenzione."
"Da parte di chi?"
"Degli altri."
"Poi?"
"9) Desiderio di non deludere le aspettative."
"Di chi?"
"Degli altri."
"Gli altri chi?"
"Chiunque mi sia abbastanza vicino da aspettarsi qualcosa da me.
Anche quando questo significa creare dighe temporanee che fanno
salire il livello delle aspettative fino a provocare prima o poi
un'onda incontrollabile di delusione."
"Poi?"
"10) Tendenza a invadere e prevaricare ed esprimere giudizi
implacabili."
"Poi?"
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"11) Incapacità di essere dentro le cose in modo continuativo.
Tendenza a vederle dal di fuori."
"Poi?"
"Adesso non me ne vengono in mente altri. Oppure sì, ma sono
riconducibili a quelli che ti ho già detto. Ce n'è già abbastanza,
non ti sembra?"
"Non lo so."
"Non fare la diplomatica che non si sbilancia."
"Non faccio la diplomatica."
"Secondo te qual è il peggiore? Tra tutti?"
"Non lo so."
"Prova a dire."
"Quello di rimuovere i pensieri che ti costano fatica."
"Forse. Ed è vero che tutti i miei difetti sono integrati, al punto
che è difficile riuscire a isolarne uno e affrontarlo da solo."
"Però ci riesci, se vuoi."
"Quello che si può fare è dividerli in due categorie."
"Quali?"
"Difetti innati e difetti acquisiti."
"Vale a dire?"
"La pigrizia per esempio è un difetto innato."
"E un difetto acquisito?"
"Il desiderio di non deludere le aspettative degli altri, per
esempio. Ma in realtà se volessimo tentare una classificazione
sistematica dei difetti, due categorie non basterebbero. Ce ne
vorrebbero di più."
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"Perché?"
"Perché alcuni difetti ti arrivano nei cromosomi dai tuoi genitori
e altri li assorbi dall'ambiente, altri li sviluppi per conto tuo.
Poi ci sono difetti di compensazione e difetti di reazione, difetti
di difesa. Difetti che sono solo ombre di qualità, e difetti che
mettono qualsiasi qualità in ombra."
"E con le qualità è la stessa cosa?"
"Sì. Uno può ereditare delle qualità che non dipendono affatto da
una sua ricerca o da una sua volontà applicata."
"Per esempio?"
"Uno può nascere con uno straordinario talento per la musica, per
esempio. O per la danza, non so. Per l'equitazione, per il
giardinaggio, per la medicina, per i giochi di carte."
"Per far ridere."
"Per insegnare la matematica, per imitare la gente."
"Per scalare le montagne."
"Si dice che sono doni, no? Perché in effetti ti arrivano in
regalo, senza nessun tuo merito. Altri possono ammazzarsi di studi e
di pratica e di attenzione e di intenzioni, e non ci arriveranno mai.
Però un dono è una cosa diversa da una qualità."
"Le qualità si possono sviluppare?"
"Credo di sì. In parte, almeno. E' probabile che uno potrebbe
diventare una persona infinitamente migliore di come è, se ci si
applicasse con abbastanza intensità e costanza. Potrebbe diventare
comprensivo e attento e gentile e generoso e affidabile. Un compagno
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straordinario e un padre meraviglioso e un amico incredibile, uno che
contribuisce attivamente a migliorare il mondo."
"E in realtà?"
"Non ne vedo molti, in giro. Ma forse non vado nei posti giusti."
"Tu non hai mai provato a diventare una persona straordinaria?"
"Perché, non lo sono già?"
"Insomma."
"Grazie tante. Comunque ci ho provato, ci ho provato. Ma poi sono
sempre arrivati i miei difetti a bloccarmi la strada e ricacciarmi
indietro."
"E tu li hai lasciati fare?"
"Sì. Credo di avere sempre avuto un rapporto migliore con i miei
difetti che con le mie qualità."
"E quali sarebbero i tuoi difetti ereditati?"
"Be', uno dovrebbe andare un po' indietro nelle generazioni, per
essere sicuro. Ma già da quella subito prima riesci a capire
qualcosa."
"Per esempio?"
"Per esempio mia madre è irrazionale e istintiva. Ha una forma di
resistenza furiosa rispetto agli obblighi. Ha uno spirito di
indipendenza che la può rendere del tutto insofferente. Ha un senso
estetico affilato come una lama di rasoio, che tende a tradursi in
giudizi implacabili sulle persone e su qualunque cosa legga o senta o
veda. E' schiva come un animale selvatico."
"E tuo padre?"
"Ha un carattere incalzante e aggressivo. E' sempre proiettato
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verso qualche genere di sfida con il mondo. E' quasi totalmente privo
di senso pratico, tranne per quello che riguarda il suo lavoro. Tende
a rimuovere i sentimenti difficili e a razionalizzare tutto per
difesa. Ha bisogno di conquistare le persone, di stupirle anche al di
là delle loro aspettative."
"E ti hanno passato tutti i loro difetti?"
"Alcuni. Anche alcune delle loro qualità, per fortuna."
"Ma i difetti si sono sommati?"
"In parte sì. In parte si sono annullati tra loro. In parte
coesistono nel modo più contraddittorio."
"Per esempio?"
"Per esempio sono pigro e anche incalzante. Sono schivo e anche
seduttivo. Sono fortemente irrazionale e tendo a razionalizzare tutto
per difendermi o per capire. La convivenza degli estremi, come diceva
Pitagora. A volte mi fa arrivare a cortocircuiti pericolosi."
"Tipo?"
"Tipo conflitti violenti di impulsi."
"Ah."
"Adesso parliamo dei tuoi, di difetti."
"Non ne ho voglia."
"Ma avevamo deciso di fare questo gioco."
"Tu l'hai deciso."
"Sei sleale."
"Guarda! Un negozio gigante di animali!"
"Non cambiare discorso."
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"Fermiamoci a vederlo! Magari hanno anche dei cani! Solo due
minuti!"
"Ma l'abbiamo già passato. E ci sono venti macchine dietro. Come
faccio a girare?"
"Giri e torni indietro. Dài!"
Lui mette la freccia e blocca il traffico e gira, torna indietro
fino al capannone con enormi disegni di cani e gatti e pesci e marchi
di cibi in scatola sulla facciata.
Lei ha gli occhi che le brillano; dice "Se c'è un cane me lo
prendi?".
"Sei matta? Quale cane?"
"Un cane. Se ce n'è uno carino."
"Non se ne parla neanche."
"Guardiamo prima di dirlo, scusa. Magari c'è un cucciolo stupendo,
che piace anche a te."
"Io non ti prendo nessun cane. Diamo solo un'occhiata, altrimenti
non entro neanche."
"Va bene. Solo un'occhiata."
Dentro camminano tra scaffali alti colmi di collari e guinzagli e
museruole e scatole e sacchi di cibo e ossi di pelle di bufalo e
acquari e alghe e ancorine e sirene di plastica e campanelli e topi
finti e finti polli e cucce e ciotole, nell'odore di fosfati e gomma
e farina acida. Non ci sono cani, gli unici animali vivi sono un paio
di gatti persiani e canarini e cocorite in alcune gabbie. Lei è
delusa, l'eccitazione di poco prima riassorbita in un'espressione
neutra. Tornano fuori e risalgono in macchina senza dire niente,
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riprendono la strada attraverso il paesaggio costiero ingombro di
altri capannoni e gruppi di edifici come onde anomale di cemento e
vetro, salite sulla costa dal mare fermo e piatto poco più in là.
Si fermano in un piccolo
paese di mezza collina
Si fermano in un piccolo paese di mezza collina, dove negli anni
Venti venivano scrittori americani e negli anni Trenta pittori
spagnoli a passare le estati e lavorare. Il nome ha un'aura legata a
libri e quadri e vecchie fotografie suggestive, ma il paese ormai è
sovracostruito come gli altri lungo la costa, con troppi spigoli
grigi e troppe macchine veloci nella strada e nella piazza
principale.
Lui scende, si guarda intorno mentre si infila la giacca di pelle.
Dice "Se almeno si potesse eliminare il cemento. Sarebbe già un passo
avanti, no?".
"Eh" dice lei. Si veste sempre troppo leggera rispetto al clima e
alla stagione, con golf di finta lana o di lana sottile e vecchie
giacche di velluto stinto che compra nei negozi di vestiti usati,
pantaloni scampanati senza orlo che tendono a strascicare per terra.
Lui ogni tanto la prende in giro e le chiede perché non si mette
qualcosa di meglio, ma in realtà è contento che non sia una che passa
i pomeriggi alla ricerca di vestiti firmati. Gli piace il suo stile,
che alla fine è simile al suo anche se un po' più estremo.
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Dice "Se il cemento fosse vietato come un materiale dannoso per
l'ambiente e per le persone, e anche l'asfalto".
"E le macchine dove andrebbero, poi?"
"Sulle strade sterrate. O non andrebbero, il che sarebbe tanto
meglio."
"E noi come avremmo fatto a venire fin qui?"
"Ci saremmo venuti in carrozza o a cavallo, o a piedi."
"Chissà quanto ci avremmo messo."
"Sì. Però con le macchine puoi arrivare da qualsiasi parte in poco
tempo, e poi qualsiasi parte assomiglia a qualsiasi altra parte per
colpa delle macchine. Così non è che ci guadagni niente, alla fine."
Lei non risponde, guarda la strada dove passano macchine e camion e
macchine, autobus, macchine, ognuna con uno spostamento d'aria e una
vampata di rumore meccanico.
Lui dice "Il cemento e l'asfalto e le macchine sono tra i
responsabili principali della mancanza di varietà nel mondo.
Trascinano le sensazioni da un posto all'altro e creano un tessuto
perfettamente omogeneo, come grossi pennelli instancabili che
dipingono ogni paesaggio sempre con le stesse linee e lo stesso
colore".
Lei tira fuori il telefonino dalla sua piccola borsa a tracolla di
cotone intrecciato, controlla lo schermetto.
Lui dice "Non ti piacerebbe arrivare in un posto e trovarci
sensazioni totalmente diverse da quelle che avevi già a casa tua?".
"Sì" dice lei, nel modo vagamente guardingo che assume ogni volta
che da un ambiente chiuso passano a uno spazio aperto.
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"Sarebbe molto più divertente. Molto più vario." Ha sempre l'idea
di essere su un confine sottile, quando parla con lei: non è mai
sicuro di percepire in modo preciso la sua soglia di attenzione. Per
esempio quando lei fa di sì con la testa e canticchia una canzoncina
inventata a labbra chiuse, e non sembra neanche che i suoni vengano
da lei. Eppure non è detto non lo ascolti; è solo la sua abitudine a
percepire informazioni su più canali contemporaneamente. Questo lo
spinge ad accorciare ogni frase il più possibile, comprimere nel
minimo spazio la massima densità di significati. Ma non gli riesce
sempre: a volte finisce col dire in modo sintetico cose superficiali,
e subito dopo con l'andare a picco con frasi di piombo. A volte
invece comunicano in modo puramente istintivo e senza il minimo
sforzo, con osservazioni strappate e parole che li fanno ridere,
sguardi da ladri, intuizioni simultanee. E' questo che gli piace, del
tempo che passa con lei: la sintonia automatica, i circuiti percorsi
alla velocità della luce, lo spirito che rimbalza come in uno
specchio.
Entrano in un bar e chiedono due bicchieri di acqua minerale e due
pizzette. E' un bar standard, come avrebbero potuto trovarne in un
qualunque altro punto del mondo. Un solo cliente anziano è seduto a
un tavolino d'angolo; non c'è nessuna musica e nessun manifesto,
nessun odore o colore o suono peculiari di quel luogo. Il barista
tira fuori due pizzette industriali dalle loro buste di plastica, le
mette a scaldare in una doppia piastra con aria indifferente.
Lui dice "E' l'unicità che sta diventando rara. E' questo che
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cercavo di dire prima".
Lei fa di sì con la testa. I suoi occhi color nocciola hanno una
luce e un taglio quasi orientali, il suo sguardo è difficile da
decifrare. Dice "Come facevano a non avere neanche un cane, in quel
cavolo di magazzino?".
Stanno zitti e bevono la loro acqua minerale e aspettano che le
loro pizzette siano pronte, nel ronzio dei frigoriferi e delle
lampade al neon e negli strappi ravvicinati del traffico appena
fuori.
Cinque SMS
Da: M.
Ore: 14.30
Sono stanca di fare tentativi inutili di comunicazione. E' meglio
che ci lasciamo perdere. M.
Da: GIOVANNI
Ore: 14.33
Perché devi dire sempre queste frasi definitive? G.
Da: M.
Ore: 14.38
Perché sono definitive. M.
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Da: GIOVANNI
Ore: 14.41
Hai sempre questo spirito melodrammatico.
Da: M.
Ore: 14.45
Tu hai sempre questo spirito stronzo.
L'autostrada scende
a curve lunghe
L'autostrada scende a curve lunghe, convoglia le macchine come
giocattoli su ruote che scivolano veloci verso il fondo del
paesaggio. Il sole è basso sulla linea dell'orizzonte, ci sono pini
sulle colline ai lati ma lui non ferma lo sguardo abbastanza a lungo
da capire di che varietà.
Dice "E se lasciassimo perdere la costa e continuassimo in questa
direzione fino al delta del Rodano?".
"Com'è?"
"Bello. Senza condominii moderni e senza traffico. In questo
periodo non dovrebbe esserci quasi nessuno."
"Quando ci arriveremmo?"
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"Dipende da quanta strada vogliamo fare oggi. Dipende da quanto sei
stanca."
"Non sono stanca." E' una buona viaggiatrice, che non si affatica e
non si lamenta, non ha bisogno di essere continuamente rassicurata o
distratta. In un altro viaggio verso il nord anni prima erano
capitati in una vera bufera di neve e si era rivelata anche una buona
navigatrice, che riusciva a consultare la carta e leggere i cartelli
e dare indicazioni accurate nel paesaggio quasi indistinguibile.
Stanno zitti per un po'. Più che una serie di curve è un'unica
curva apparentemente infinita, li fa appoggiare su un lato nel gioco
continuo della forza centrifuga come uno potrebbe appoggiarsi su un
atteggiamento.
Lei dice "Ma i difetti, ereditati o innati o quello che vuoi, uno
può toglierseli? Se si rende conto di averli?".
"Non credo. Forse quelli acquisiti, con molto sforzo. O quelli
marginali. Sai proprio la polvere di difetti? Gli altri non credo."
"Mai?"
"Magari mi sbaglio, o forse è un alibi per restare attaccato ai
miei. Però mi sembra che al massimo si possa tenerli sotto controllo,
o trovargli uno sfogo o un utilizzo di qualche genere."
"E farli sparire per sempre, invece?"
"Non credo. Puoi nasconderli, naturalmente. Ma tornano fuori, prima
o poi."
"Perché?"
"Perché sono parte della tua dotazione di base. Sono lì. E' come
cercare di liberarti dei tuoi lineamenti."
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"Ci hai mai provato? A liberarti dei tuoi difetti."
"Sì. Credo che quasi tutti ci provino, prima o poi. Sai quando si
mettono a fare propositi di fine anno? O quando si prendono un grosso
spavento o rimangono improvvisamente disgustati o avviliti di sé
stessi per qualche ragione? Quando dicono "Basta, d'ora in poi sarò
un altro"?"
"E quando ci hai provato?"
"Ogni volta che mi è sembrato di vedermi com'ero e non mi sono
piaciuto per niente."
"Nell'insieme?"
"O in un aspetto specifico."
"Per esempio?"
"Non so, nella mia tendenza a stare fermo nelle situazioni."
"E cos'hai fatto?"
"Ho provato ad andare contro le mie correnti di fondo, diventare un
agguantatore fulmineo di momenti."
"E ci sei riuscito?"
"No. O ci sono riuscito una volta o due e poi sono tornato com'ero."
"Cosa vuol dire, agguantatore di momenti?"
"Uno che vede una cosa che vuole e capisce subito di volerla e la
insegue senza nessuna esitazione e la afferra con dita forti e se la
tiene stretta."
"Per esempio?"
"Qualunque cosa."
"Tipo?"
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"Persone, situazioni. Magari ti rendi conto che è proprio quello
che stavi aspettando, ma te ne rendi conto con un margine di ritardo
e non fai niente per inseguirlo subito. O almeno niente di efficace."
"Però tu hai fatto un sacco di cose interessanti, no?"
"Sì, ma non quelle che volevo davvero. Ho fatto solo le cose che mi
venivano."
"Sì?"
"Sì."
"Per la tua tendenza a stare fermo nelle situazioni?"
"Sì. E' il mio difetto peggiore."
"Non è il rimuovere i pensieri che ti costano fatica?"
"Sono due difetti connessi, l'hai detto anche tu. Sto fermo nelle
situazioni perché rimuovo i pensieri che mi costano fatica. Puoi
considerarlo come un unico grande difetto."
"E cosa vuol dire esattamente, stare fermo nelle situazioni?"
"Entrarci o capitarci, e poi dimenticarti perché o anche come ci
sei entrato, restarci dentro."
"Per sempre?"
"Per uno dei tanti "per sempre", almeno."
"Ma tu non sembri affatto fermo."
"Perché mi muovo di continuo."
"E allora?"
"Mi muovo di continuo perché sono fermo nelle situazioni. Passo da
un posto all'altro e da uno stare fermo all'altro."
"In cosa stai fermo?"
"In quasi tutto. Storie, case, macchine. Ci entro e non riesco più
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a venirne fuori, anche se non mi vanno bene."
"Ma è assurdo."
"Lo so. E naturalmente potrei almeno rimanerci in modo costruttivo,
no? Come un bravo artigiano operoso della vita, che apporta modifiche
e migliorie continue per avvicinare quello che ha a un ideale
raggiungibile. Invece no."
"Tipo?"
"Prendi una casa. C'è gente che la cerca con metodo e finalmente la
trova e la affitta o la compra e poi la trasforma, la adatta alle sue
aspirazioni. Ci ragiona, studia come renderla più comoda e
accogliente, cambia mobili e lampade e accessori a seconda di come
vuole viverci. Io invece la trovo e ci metto dentro il minimo
indispensabile, e da lì in poi comincio a vederla come un dato di
fatto immutabile. Non le dedico neanche una minima manutenzione di
base, a parte passare l'aspirapolvere ogni tanto. Anche quando vedo
che sta andando in malora, non intervengo."
"Come con le tue due poltrone svedesi nel soggiorno."
"Ecco. Vanno in pezzi, e ti fanno finire gambe all'aria se per caso
ti ci siedi con energia, eppure non le aggiusto né vado a comprarne
altre. Ogni tanto cerco di ricordarmi che un tempo non le avevo e che
le ho scelte in modo abbastanza casuale tra molte alternative
possibili. Cerco di ricordarmi che potrebbero esserci tutt'altre
poltrone al loro posto, e di conseguenza tutto un altro modo di
vivere il soggiorno. Però mi sembrano delle riflessioni abbastanza
astratte."
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"Così le lasci lì?"
"Le lascio lì finché non si schianteranno definitivamente sotto
qualcuno. Allora le butterò via e mi sentirò molto sollevato. Ma fino
a quel momento credo che mi sembreranno connaturate alla casa e alla
città e all'intero paese in modo inscindibile, parte di un unico dato
di fatto. Credo che mi sembrerà più semplice andarmene da quella casa
in qualche altra parte lontana del mondo, che far aggiustare le due
poltrone svedesi o cambiarle."
"Ma perché?"
"Non lo so."
"Però è davvero assurdo."
"Sì. Non sto cercando di giustificarmi."
"E sei così anche in una storia?"
"Più o meno."
"Lasci deteriorare anche quella finché non si sfascia totalmente?"
"Ho paura di sì. Senza mai fare degli interventi di miglioramento,
e spesso neanche una manutenzione minima."
"Anche se ci stai male?"
"Sì. Anche se i punti guasti mi sono chiari quanto quelli delle due
poltrone svedesi."
"E cosa fai?"
"Ci resto dentro pieno di scontentezza e di insofferenza, come se
la situazione non dipendesse da me ma da circostanze troppo estese
per poterle controllare. Ho questa sindrome da visitatore, che non
capisce bene le forme né le ragioni del luogo dov'è capitato. E
potrei anche sostenere che dipende da una cognizione della
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non-permanenza delle cose materiali eccetera, ma è probabile che sia
solo un atteggiamento primitivo."
"Perché primitivo?"
"Be', i primitivi hanno la tendenza a vivere in un ambiente
adattandosi alle sue pieghe. Senza livellare il terreno o fare scavi
o costruire dighe o argini. Modificano i loro comportamenti, invece
di modificare quello che hanno intorno. Gli interventi che fanno sono
quasi impercettibili, ed effimeri, da rinnovare periodicamente."
"Tipo?"
"Tipo legare due legni con un rametto flessibile che al massimo
dura qualche mese prima di logorarsi e poi va sostituito con uno
identico che di nuovo durerà solo qualche mese. E naturalmente ci
sarebbe una tecnica o varie tecniche per unire i due legni in modo
molto più duraturo, ma i primitivi non ci pensano. Sistemano le cose
a breve termine, gli va bene così. E' questo il genere di interventi
che faccio nella mia vita."
Lei ride.
"Tendo a muovermi come un cacciatore-raccoglitore, che prende le
cose che gli sembrano buone e si tiene alla larga da quelle che non
vuole e cerca i passaggi praticabili a seconda della stagione e delle
condizioni del terreno."
"E sei contento così?"
"No, perché quasi tutte le persone con cui ho a che fare sono dei
pastori-coltivatori, invece."
"Cosa vuol dire?"
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"Che siamo in due fasi evolutive diverse. Io sono in quella
indietro, a qualche decina di migliaia d'anni di distanza."
Il sole è già tramontato e la luce se ne va rapida, toglie tutti i
colori caldi dal paesaggio e lo lascia diventare azzurrino e
violastro e color seppia, quasi nero.
Girano intorno
alle mura della città
e poi lungo la
circonvallazione interna
Girano intorno alle mura della città e poi lungo la
circonvallazione interna, alla luce dei lampioni e dei fari delle
macchine e delle insegne dei locali e di un cinema che dà un film
americano. Lei legge i nomi delle strade e aspetta di indicargli dove
svoltare per l'albergo che hanno scelto su una guida. Ma non trovano
l'accesso giusto e i due o tre passanti a cui chiedono danno
indicazioni contrastanti, così continuano a girare in tondo,
intrappolati in un flusso di movimento continuo. Non sono angosciati
né ansiosi: ridono ogni volta che sbagliano e dopo un giro delle mura
si ritrovano al punto di partenza.
Al quarto giro lei dice "Madonna, è la città che proprio non ci
vuole far fermare".
"E' vero" dice lui, già con un'incrinatura di sollievo all'idea di
poter rimandare l'arresto del movimento e la presa di contatto con il
luogo, l'insediamento temporaneo.
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"Sì."
"E se continuassimo oltre? Così domani ci resta ancora meno strada
da fare per il delta? Così domani siamo già lì, in pratica?"
"Va bene."
"Ma sei sicura? Non sei sfinita ed esasperata?"
"No."
"Continuiamo?"
"Dài."
"Evviva! Andiamo andiamo andiamo!"
Pochi minuti dopo sono di nuovo sulla statale che punta a nord-est,
di nuovo immersi nel rumore del vento e nelle vibrazioni meccaniche.
Lui si gira a guardarla di profilo: non sembra sfinita né esasperata,
né sconcertata dalla sua tendenza a guidare e guidare senza fermarsi
mai.
Dice "Che grande, autentica viaggiatrice. La miglior viaggiatrice
del mondo".
Lei sorride.
Poi invece forse mezz'ora più tardi la guarda di nuovo e vede che è
stanca, nel modo improvviso che ha di essere stanca: pallida e con la
testa appoggiata al finestrino, gli occhi chiusi.
Le dice piano "Dormi?".
"No."
"Vuoi che ci fermiamo al primo motel che vedo?"
"No, no."
Gli va bene guidare lungo la statale buia e vuota mentre lei è
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mezza assopita; potrebbe andare avanti tutta la notte. I pensieri gli
passano in testa in modo diverso da quando guida di giorno, lasciano
scie lunghe ogni volta che vanno e tornano. Si chiede quanti dei suoi
difetti sono entrati in gioco nei suoi rapporti con lei; se per
qualche genere di miracolo è riuscito ad azzerarne almeno qualcuno,
farne passare qualcun altro in secondo piano. Si chiede quanto lei li
conosca senza bisogno di sentirgliene fare un elenco; quanto le
appaiano accettabili oppure odiosi. Non sono pensieri che si
evolvono, ma a ogni passaggio raccolgono qualche elemento in più,
fino a diventare come parti di film con immagini in movimento, suoni,
musiche.
Per esempio, ha una visione ricorrente: uno che lascia una donna
che ormai conosce tutti i suoi difetti e ne è esasperata, e subito
dopo ne trova una nuova che ancora li ignora. In questa visione a
passaggi successivi, lui ha l'aspetto di un ricercato del Settecento
in fuga da un piccolo stato a un altro piccolo stato per sottrarsi ai
creditori e ai giudici che l'hanno condannato o stanno per farlo. La
sua aria da profugo e da perseguitato fa sì che venga accolto a
braccia aperte nel nuovo piccolo stato, dove viene dato credito alla
sua versione dei fatti, ogni sua dichiarazione e protesta presa per
buona. Le ragioni che mette avanti vengono di slancio capite e
condivise, riceve solidarietà per le angherie che ha dovuto subire. E
per qualche tempo la convinzione generale che lui sia nel giusto fa sì
che diventi davvero una persona migliore, lontana dalle colpe che
hanno provocato la sua catastrofe precedente. Gli sembra di essere
nuovo e diverso, di potersi reinventare su basi più limpide e solide
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e giuste. Poi la sua natura profonda lo ricattura e lo trascina
all'indietro, verso il sé stesso da cui aveva creduto di scappare.
Ben presto finisce per commettere le stesse identiche colpe di prima,
al punto che nuove accuse si accumulano contro di lui e alla fine
vengono emessi nuovi mandati di cattura. Così il ricercato del
Settecento si rimette in fuga per il mondo, con alle spalle un carico
moltiplicato di condanne. Spera solo di riuscire a farsi accogliere
in un altro piccolo stato come un perseguitato; il suo cuore è già
traboccante di slanci e toni da vittima innocente.
Nello stesso modo frammentario si rende conto della disonestà
ulteriore di inventarsi un'immagine da protagonista di film in
costume; si rende conto del compiacimento. Pensa a tutte le occasioni
che ha avuto di ricostruirsi in modo diverso e migliore, e a come le
ha bruciate una dopo l'altra, lasciando nello sgomento e
nell'esasperazione chi aveva preso le sue parti con tanto entusiasmo
e generosità. Si chiede se è vera la storia dei difetti
ineliminabili, o ci sarebbe invece il modo di lasciarseli alle spalle
per sempre. Si chiede qual è, e che genere di determinazione
richiede; se gli potrà mai capitare di ripensare al ricercato del
Settecento come a un ricordo lontano, chiuso in uno spazio separato
del tempo.
Decide di fermarsi
quando ormai sono troppo
stanchi tutti e due
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Decide di fermarsi quando ormai sono troppo stanchi tutti e due,
rintronati dalle vibrazioni e indeboliti dalla fame, con la bocca
secca e le giunture anchilosate e gli occhi affaticati dal buio. Gli
succede quasi sempre così, di riuscire a venir fuori dal movimento
ininterrotto solo quando è ben oltre il limite entro cui avrebbe
dovuto farlo. Anche solo un'ora o forse due prima sarebbero rientrati
nei margini ragionevoli di un viaggio di piacere, dove c'è spazio per
una doccia e per cambiarsi e per andare a mangiare e magari fare un
giro del posto dove si è arrivati. Invece adesso è tardi, e la
possibilità di trovare un riparo accogliente e un letto in cui
dormire sembra allontanarsi come un miraggio nella notte. Quando
viaggia con M. è diverso, ma è una differenza che richiede la più
grande fermezza da parte di lei, e comunque provoca discussioni e
scontri e accuse reciproche ogni volta. Adesso non riuscirebbe a
difendere la propria posizione, mentre guida per le strade deserte
della periferia del paese antico, seguendo cartelli che indicano un
albergo sconosciuto come in un gioco da labirinto. Si chiede se anche
questo è un difetto ineliminabile, o potrebbe correggerlo; se è
ancora in grado di imparare a viaggiare meglio, con un senso
equilibrato dei tempi e delle distanze da percorrere.
La guarda, dice "Sei molto stanca?".
"Abbastanza."
"Adesso ci fermiamo. Tra due minuti. Davvero. Promesso. Resisti."
Gli sembra di avere già mandato in malora tutto; segue con il cuore
sospeso i cartelli che dopo una successione interminabile di svolte
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portano a una piazza larga e lunga occupata al centro da uno spiano
di terra battuta adibito a parcheggio. Intorno ci sono edifici di
abitazioni semipopolari, ma bassi e non minacciosi, con tutte le
finestre già spente a quest'ora. Le uniche luci sono quelle dei
lampioni, e quelle dell'albergo. Non è un grande albergo
standardizzato e nemmeno una piccola locanda tipica, ma non sembra
troppo squallido a vederlo a distanza decrescente dal semifuoristrada
e poi dal marciapiede. Sembra un albergo-pensione moderno di paese,
probabilmente frequentato da famiglie medie con bambini durante la
stagione turistica.
Dentro c'è una signora vestita di rosa che lo guarda leggermente
stupita in una luce squillante di neon, tra coccarde folcloristiche e
grandi fotografie incorniciate di paludi e vasi di fiori secchi.
Lui dice "Avete due stanze singole per una notte?". Le parole gli
escono a fatica, come se lungo le centinaia di chilometri di viaggio
avesse perso gli strumenti per questo genere di comunicazione.
La signora dice "Sì". Allunga il collo per guardare attraverso i
vetri: dove e chi è il secondo viaggiatore.
Lui dice "Vado a prendere le valigie", torna fuori rapido prima che
un fattorino possa arrivare a strappargliele di mano. E' un altro dei
punti di conflitto con M. quando viaggiano insieme, la comodità o la
schiavitù di farsi servire.
Ma qui sono fuori stagione e in un piccolo albergo-pensione alla
periferia di un paese antico, non c'è nessun fattorino zelante a
strappargli di mano nessuna valigia. C'è solo la signora vestita di
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rosa che quando loro due rientrano insieme saluta con un sorriso
appena interrogativo e subito fa strada lungo un corridoio e su per
una rampa di scale, lungo un altro corridoio. Indica le porte di due
stanze su cui invece di numeri sono dipinti nomi di fiori provenzali;
apre e accende le luci. Dentro ci sono ancora fiori sulle tende e
sulle sovraccoperte dei letti, sui rivestimenti delle poltrone. Non è
un brutto albergo, visto fuori stagione e fuori orario massimo, con
la sospensione e l'incertezza del viaggio che tremano ancora nel
midollo delle ossa e in fondo al cuore. Lui lascia che lei scelga la
stanza che preferisce, aspetta fuori in atteggiamento paziente.
Appena la signora vestita di rosa è sparita a passi corti in fondo
al corridoio, entra nella stanza che lei ha scelto e si guarda
intorno. Fa dei movimenti di scioglimento con le braccia; dice "Non è
strano?".
"Cosa?" dice lei, in una voce quasi senza colore.
"Trovare una stanza riscaldata e la luce e un letto e acqua
corrente e tutto il resto? Senza conoscere nessuno, e senza nemmeno
nessun contatto preparatorio?"
"Sì." Ma è stanca e distratta, pallida mentre apre la valigia.
"Adesso andiamo subito a mangiare. Subito. Non mi faccio neanche la
doccia. Tra due minuti vengo a bussarti alla porta."
Nella sua camera posa la valigia e si toglie gli stivali, cammina a
piedi nudi sulla moquette rossastra. Fa qualche flessione sulle
gambe, qualche torsione del busto, qualche rotazione della testa. Va
a scostare la tenda a fiori alla finestra: più in basso c'è un patio
con una piscina vuota e piastrelle tutto intorno, piante senza fiori
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di gelsomino e di buganvillea che salgono sulle colonne ai quattro
angoli. Va nel bagno e apre il rubinetto, si lava le mani e la
faccia, lascia scorrere l'acqua. Gli viene in mente di avere letto in
un albergo tedesco qualche anno prima che la gente quando è in
albergo consuma da tre a nove volte più acqua che a casa propria. Si
chiede se il motivo sta nel fatto che in un luogo non familiare
cerchiamo per istinto la nostra familiarità più lontana: se è una
spiegazione possibile. Si guarda allo specchio, piega la testa e
inarca le sopracciglia per avere un'espressione che riesce a
riconoscere bene. Ma ha fame e sono le undici passate ed è
preoccupato per lei; si rimette gli stivali e la giacca. Sulla porta
si ferma, tira fuori di tasca il telefono cellulare e compone il
numero di M.
Una telefonata
G.: Ehi.
M.: Ehi.
G.: Allora?
M.: Allora cosa?
G.: Sono ad Arles. In albergo.
M.: Bene.
G.: Che tono hai?
M.: Che tono?
G.: Freddo, non so.
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M.: Dovrei essere piena di slanci e di calore, secondo te?
G.: Sei sempre lì ad aspettarmi al varco per dirmi che ti ho
delusa.
M.: Perché mi deludi, ogni volta.
G.: Ti pareva.
M.: Vai al diavolo.
G.: Vai al diavolo tu.
G.: Pronto?
Anche lei sta parlando
al cellulare
Anche lei sta parlando al cellulare, dal corridoio la sente
attraverso il legno della porta. Pensa di lasciarla finire con calma,
poi invece bussa, dice "Andiamo?".
"Un minuto."
"E' tardissimo. Troviamo tutto chiuso."
"Un minuto."
Fuori attraversano per il lungo la piazza-parcheggio, seguendo le
indicazioni della signora vestita di rosa. L'aria è umida e fredda,
senza altri suoni che i loro passi. Sembra impossibile che ci sia
ancora un posto aperto dove mangiare, nel paese addormentato e buio
come se fosse per sempre. Invece quando escono sulla strada
principale vedono le luci di una piccola trattoria-pizzeria,
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inaspettate. Dentro fa caldo, ci sono solo un tipo con grandi baffi e
una tipa dai capelli rossi che parlano vicino al forno. Si siedono a
un tavolo davanti al vetro, ordinano due zuppe del paese al tipo con
i baffi che viene a portare una lista scritta a mano e un cestino di
pane e una ciotola di olive nere.
Mangiano il pane e le olive senza parlare, con nelle orecchie e nel
corpo il riverbero dei chilometri scorsi sotto le ruote. Lui beve
vino rosso da una piccola caraffa, riacquista lucidità e calore a
gradi. Quando il tipo baffuto torna con le loro zuppe in due terrine
smaltate, anche questo gli sembra un miracolo. Intinge un pezzo di
pane nel liquido denso e caldo, assorbe con la lingua il sapore di
pomodoro e cipolla e carne forse di capra e peperoncino ed erbe
aromatiche.
Dice "Anche questo".
"Cosa?" dice lei. E' oltre la soglia della stanchezza, e diffidente
come sempre con i piatti che non conosce.
"Trovare un'oasi familiare nel deserto della non-familiarità."
"Eh." E' anche oltre la soglia della fame, e ha cominciato ad
accorgersi di quanto sia piccante e strana la zuppa, fa una faccia
perplessa mentre deglutisce.
"Non ti piace?"
"E' piccante. E' strana."
"E' buonissima."
Lei mangia un pezzo di pane, guarda di lato.
Lui dice "E' che siamo una specie in oscillazione continua tra
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bisogno di riconoscere le cose e bisogno di scoprirne di nuove".
Lei prende un'altra cucchiaiata di zuppa e ci soffia sopra, la
sorbisce come se non fosse davvero commestibile.
Lui dice "Con i luoghi, con le persone, con i cibi, con tutto.
Conquistiamo una piccola oasi di familiarità, e invece di fermarci,
dopo un po' ci avventuriamo oltre. E anche se siamo sgomenti e
spersi, andiamo avanti finché non ne conquistiamo un'altra".
Lei mangia un altro pezzo di pane, mangia un'oliva.
Lui dice "Ma ogni volta che riusciamo a riconoscere un luogo o una
faccia o un oggetto tra milioni di luoghi e facce e oggetti
perfettamente sconosciuti, proviamo un sollievo infinito".
Lei immerge il cucchiaio nella ciotola, lo muove lento verso la
superficie. Osserva il misto di verdure e carne fibrosa in
sospensione, socchiude gli occhi.
Lui dice "Nello stesso tempo abbiamo una spinta ad allargare
continuamente il raggio, è più forte di noi. Accumuliamo memorie
visive e acustiche e olfattive e tattili e impariamo nomi e nomi e
nomi, li ripetiamo finché non ce li ricordiamo bene. E sono solo
codici convenzionali, ma ci rassicurano".
"Perché codici?"
"Perché se ci insegnassero fin da piccoli che il rosso si chiama
verde e lo storto dritto o viceversa, ci andrebbe altrettanto bene.
Se ce lo insegnassero in un'altra lingua, con altri suoni.
L'importante è dare un nome alle cose."
"Perché?"
"Perché non sappiamo con certezza le ragioni di niente. In compenso
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abbiamo i nomi. Ne abbiamo per tutto quello che vediamo e sentiamo e
facciamo o anche solo immaginiamo. Se incontriamo qualcosa che non ha
un nome, ne inventiamo subito uno. E quando abbiamo una buona scorta
di nomi, ci sembra di avere una buona familiarità con il mondo."
"E non è così?"
"No. Ci bastano pochi secondi per perdere anche solo l'idea di una
familiarità con il mondo."
"Per esempio?"
"Basta perdere la chiave di un codice. Basta perdere la chiave di
un'automobile. Basta perdersi in un nome, o in una strada sconosciuta
in una città che si crede di conoscere. Improvvisamente i significati
evaporano dalle parole e dagli oggetti e dai luoghi e dalle persone,
li lasciano lì del tutto inspiegabili."
"Come mai?"
"Perché i nostri equilibri sono precari, anche se facciamo finta
che siano tanto solidi e durevoli. Per questo passiamo il tempo a
imparare nomi e dare nomi, e a comprare e vendere immagini di
stabilità e familiarità e durevolezza. Per questo abbiamo paura dei
cambiamenti e ne abbiamo bisogno."
"E tu?"
"Io cosa?"
"Tu che familiarità hai, con il mondo?"
"Intermittente. A volte mi sembra di muovermi abbastanza a mio
agio, a volte mi perdo senza nessun preavviso."
"Sì?"
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"Sì."
Poi finisce la zuppa, e vede che lei ne ha lasciata quasi metà
nella sua terrina. Dice "Perché non la finisci?".
"Non mi piace. Ma ho mangiato tutto il pane e le olive."
"Finiscila lo stesso."
"Non ci riesco. Lo sai che non mi piacciono le cose piccanti."
"Lo so, ma potresti anche sorprendermi, una volta tanto."
"Così incrinerei il tuo senso di familiarità, con chissà quali
danni."
"Che bastarda sei. Finisci quel cavolo di zuppa."
"Ti ho detto che non ne voglio più, papà."
Lui pensa che in effetti è rassicurante conoscere le ragioni per
cui sua figlia non finisce la zuppa, anche se questo adesso implica
ordinare qualcos'altro e aspettare seduti nella piccola
trattoria-pizzeria alla periferia del paese antico addormentato. Si
guardano a breve distanza, riscaldati nella minuscola oasi di
familiarità conquistata che li protegge dalla stanchezza e dal buio
della notte e dal deserto della non-familiarità tutto intorno.
In albergo prova
a telefonare a M.
In albergo prova a telefonare a M., ma al numero di casa non
risponde, e a quello del cellulare c'è una voce semiartificiale che
ripete nel modo più ottuso "L'utente da lei chiamato non è al momento
raggiungibile".
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Cammina avanti e indietro per la stanza coperta di stoffe a fiori,
con il senso di angoscia crescente che gli viene ogni volta che non
riesce a comunicare con lei. E' così fin dagli inizi della loro
storia: panico improvviso da mancanza di interlocutore, che fa
battere affannati i cuori e restringe i passaggi del sangue e produce
immagini di allontanamenti e perdite irrimediabili e vuoto vuoto
vuoto.
Prova a lasciarsi smorzare i pensieri dalla stanchezza, prova a
concentrarsi sull'itinerario da seguire il giorno dopo, ma non
funziona. La stanchezza si è dissolta nell'ansia affollata di
immagini, il viaggio sembra sospeso in un territorio senza nomi né
luoghi, come un coniglio che non sa in che direzione scappare.
Telefona di nuovo, tre o quattro o cinque volte di seguito: si sposta
da una parete all'altra, controlla le tacche di ricezione sullo
schermetto verdino, digita il numero, ascolta frammenti di voce
registrata che lo riempiono di odio per le compagnie telefoniche e
per i loro criteri operativi.
Pensa che quella con M. è una vera forma di dipendenza reciproca,
dove ognuno dei due ha sull'altro l'effetto di una droga
indispensabile. Pensa che invece di attenuarsi da quando hanno quasi
smesso di vedersi, si è acutizzata nella concentrazione di sfumature
e segnali sommersi dei loro dialoghi a distanza, al punto da creare
crisi violente d'astinenza appena non viene alimentata. Non importa
se quando si parlano lo fanno per scambiarsi osservazioni sparse od
opinioni sul mondo o frasi di rammarico o informazioni su quello che
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stanno facendo: non possono fare a meno della loro dose di
comunicazione un paio di volte al giorno.
Sfoglia due riviste che ha preso su un tavolino nel corridoio,
lasciate da qualche cliente della stagione passata. Una è fatta quasi
solo di fotografie delle paludi del delta, con dettagli di anatre e
trampolieri e specie vegetali e tramonti a effetto; l'altra è una
rivista di aviazione. Nelle pagine centrali c'è la ricostruzione
meticolosa di una catastrofe di qualche anno prima in cui un aereo di
linea in atterraggio si era scontrato con un monomotore da turismo,
con la trascrizione delle ultime parole dei piloti registrate dalla
scatola nera. C'è anche una fotografia della palla di fuoco dopo
l'impatto, scattata da un viaggiatore che si trovava per caso su una
terrazza con una macchinetta automatica in mano.
Riprova ancora a telefonare. I tasti del cellulare gli sembrano
troppo piccoli; gli sembra in generale assurdo che il rapporto tra
due persone possa dipendere dai circuiti elettronici chiusi in una
scatolina di plastica colorata. Si chiede se c'è un modo di liberarsi
dalla dipendenza reciproca, e qual è: se esiste una tecnica
terapeutica dolce e progressiva, o è indispensabile attraversare una
fase di sofferenza lacerante. Si chiede se ci sono ancora margini per
ricostruire con M. una storia fatta di stare insieme oltre che di
voci al telefono e di parole digitate; quanto sono ampi, quali gesti
o decisioni richiederebbero. Ha delle immagini parallele di sé in un
possibile futuro a medio termine, con M. e da solo, in luoghi diversi
e occupato a fare cose diverse, ma sono frammentarie quanto i suoi
pensieri di viaggio, non fanno che alimentare il suo panico da
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mancanza di interlocutore.
Una e-mail (non inviata)
Ore: 1.32
cara m.,
visto che non riesco a trovarti a casa né sul cellulare perché
forse sei da qualche parte dove non ricevi o forse invece hai messo
in atto una strategia di non-comunicazione che renderebbe ancora più
paradossale la varietà di strumenti per comunicare che mi porto
dietro.
solo per dirti che mi dispiace come ogni volta cadiamo quasi
automaticamente in un gioco di accuse e controaccuse invece di
riuscire a parlarci in modo semplice come due che prima di mettersi
insieme erano dotati di motivi di contentezza e scontentezza
perfettamente indipendenti dalle caratteristiche dell'uno e
dell'altro che quando sono entrati in contatto li hanno a lungo
stupiti ed entusiasmati prima di diventare catalizzatori di tutto lo
scontento e l'insoddisfazione del mondo.
quello che penso è che dovremmo almeno provare a fare due o tre
passi indietro rispetto a noi stessi e guardarci dal di fuori secondo
angolazioni diverse e cercare di capire se ha senso continuare a
essere legati da questo filo oppure è meglio tagliarlo e superare il
senso di vuoto agghiacciante e assordante che ne conseguirà e
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andarcene in altre direzioni invece di continuare a consumare le
nostre migliori risorse ed energie in un attrito assurdo di richieste
deluse e rinfacciamenti senza neanche ricordarci come sia cominciato
o quando mentre in realtà non è affatto
Una telefonata
G.: Pronto?
M.: Dormivi?
G.: Stavo scrivendo una e-mail.
M.: A chi?
G.: A te.
M.: Come mai?
G.: Per provare a dirti qualcosa di quello che penso di noi. Visto
che non riuscivo a trovarti a nessun telefono.
M.: Ero con mia sorella in un bar dove non c'è campo.
G.: Non volevo che mi spiegassi dov'eri.
M.: Ah già, tu sei al di sopra di queste cose, no?
G.: No, per niente. Stavo cominciando a innervosirmi. Stava
cominciando a venirmi un'ansia devastante, in realtà.
M.: E cosa scrivevi, nella mail?
G.: Che siamo finiti in una guerra assurda di posizioni. Non ci
ricordiamo neanche più come è iniziata, o esattamente perché.
M.: Non è vero, io so benissimo perché.
G.: Perché?
M.: Lo sai anche tu. E' inutile che fai sempre quello che cade
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dalla luna.
G.: Vale a dire? Il mio non esserci in modo abbastanza concreto e
abbastanza continuo e abbastanza proiettato nel futuro eccetera?
M.: E' inutile che la metti come se fossero degli slogan del
cavolo.
G.: Ma lo sono, in gran parte. Ed è probabile che io me ne sia
inventati altrettanti.
M.: Non sono slogan, sono dati di fatto.
G.: Comunque andiamo avanti in uno scambio di rivendicazioni e
asserzioni e accuse, invece di parlarci.
M.: Come facciamo a parlarci, se tu non vuoi mai ascoltare?
G.: Io ascolto. Ascolto. Conosco tutti i tuoi argomenti, uno per
uno. Su molti sono anche d'accordo, penso che tu abbia ragione.
M.: Però non fai niente per cambiare.
G.: Perché non posso, accidenti. Nessuno può cambiare. Può fingere
di cambiare, o farlo in modo puramente temporaneo, ma non in modo
sostanziale.
M.: Invece si può cambiare anche in modo sostanziale, se solo lo si
vuole davvero.
G.: Forse allora è che non voglio. Non al punto di diventare
diverso da me stesso.
M.: Tu non vuoi neanche spostarti di un millimetro da come sei,
altro che cambiare.
G.: Potresti non ricominciare con gli slogan, adesso? Sono quasi le
due di notte e ho guidato tutto il giorno.
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M.: Sì, figurati. Sei tu che hai appena detto che non riusciamo a
parlarci.
G.: Ma non riesco ad affrontare grandi temi a quest'ora, più di
tanto.
M.: Hai detto che mi stavi scrivendo, addirittura.
G.: Sì, ma volevo salutarti, più che altro.
M.: Allora buonanotte, vai a dormire.
G.: Perché hai questo tono?
M.: Non ho nessun tono. E' che mi fai ridere quando vieni a dire
che non riusciamo a parlarci. Appena ci proviamo hai questo modo di
sottrarti.
G.: Non è un modo di sottrarmi.
M.: Cos'è, allora?
G.: Il fatto è che abbiamo due bioritmi completamente diversi, e tu
sei tutta elettrica e all'apice della lucidità mentale quando io
invece sono opaco e lento e ho solo voglia di scivolare nel sonno.
M.: Ti lascio scivolare nel sonno, non ti preoccupare. Buonanotte.
G.: Buonanotte. Ehi?
M.: Cosa?
G.: Secondo te questa nostra dipendenza è dovuta al fatto che siamo
due persone molto più occupanti e invadenti della media?
M.: Non lo so. Io non credo di essere così invadente.
G.: Ma occupante sì. Non puoi sostenere di non esserlo.
M.: Nel senso che non sono una specie di ameba senza idee e senza
desideri e senza capacità?
G.: Sì. E' questa la fregatura.
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M.: Quale?
G.: Che senza di te mi sembra di affondare in un paesaggio neutro,
senza motivi e senza punti di vista, dove ci sono solo animali che
brucano.
M.: Sì?
G.: Mi sembra di affondare in una totale mancanza di opinioni. Mi
sento solo come mi sentivo prima di incontrarti.
M.: Ma forse tu sei uno che sta meglio solo. Forse ne hai bisogno,
no?
G.: No. Per niente.
M.: E allora?
G.: Ho bisogno delle tue opinioni e delle tue capacità. Però non
puoi chiedermi di cambiare.
M.: Io non ti chiedo proprio niente. Ti dico solo che non mi
interessa più andare avanti così, a fare le farfalle adolescenziali.
G.: E a me non interessa fare la persona sedimentata e ragionevole.
M.: E chi ti chiede di esserlo?
G.: Tu, ogni volta che mi accusi di non essere abbastanza maturo e
concreto eccetera.
M.: Io non ho nessuna voglia di una persona sedimentata e
ragionevole. Io voglio una persona appassionata e piena di slanci.
G.: E allora?
M.: Ma non di slanci da bambino pazzo e incostante. Di slanci di
uno che conosce il valore delle cose e conosce il loro peso.
G.: Possiamo parlarne in un altro momento, del peso delle cose?
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M.: Possiamo anche non parlarne più, Giovanni. Visto che tanto non
ci riusciamo.
G.: E' che mi si chiudono gli occhi dalla stanchezza.
M.: Certo, certo.
G.: Ci salutiamo almeno in modo più cordiale?
M.: Buonanotte.
G.: Buonanotte.
(Poi lui guarda lo schermetto verde del cellulare che si spegne sul
comodino, e pensa che la crisi di astinenza gli è passata
completamente, fin dal primo scambio di frasi.)
Al mattino fanno un giro
per il centro antico
Al mattino fanno un giro per il centro antico, nel modo troppo
distratto e troppo attento che hanno tutti e due per essere dei buoni
turisti. Il sole è tiepido, gli angoli d'ombra sono umidi. Passano
davanti a negozi di stoffe e di articoli fotografici e di cibi
tipici, guardano le facce della gente che cammina, registrano i
gesti. Visitano un museo del folclore locale in un vecchio palazzo
scuro, camminano su un pavimento di cotto tra vetrine di vestiti
tradizionali che hanno perso tutta la loro morbidezza e misteriosi
attrezzi da lavoro e vecchie fotografie che ritraggono persone
concentrate nel bloccare istanti lontani. Quando escono da sotto
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l'androne pesante alla luce e all'aria e ai colori vivi della strada
provano sollievo; seguono una serie discontinua di cartelli alla
ricerca dell'anfiteatro romano.
In una stretta via lastricata vedono una vecchina che dà da
mangiare un vassoio di polpette a un piccolo cane giallo.
Lei dice "Che carino!". Prova a carezzarlo; il piccolo cane
ringhia.
Lui dice "Brava, fatti mordere".
"Sta mangiando, ha ragione."
Più avanti lui dice "Mi spieghi come ti è venuta, questa mania dei
cani?".
"In che senso?"
"Questa specie di ossessione che hai?"
"E' solo che vorrei un cane. E' tanto che te lo chiedo."
"Ne hai già avuto uno."
"Ma ero troppo piccola, non me ne potevo occupare davvero."
"Così me ne sono dovuto occupare io, no? Mi ha quasi fatto
diventare pazzo."
"Adesso sarebbe completamente diverso."
"Come no."
"E' vero! Me ne occuperei sempre io."
"Sempre fino al primo viaggio o alla prima vacanza o alla prima
ragione qualunque che ti impedirà di occupartene."
"Lo sai che non è così!"
"Certo."
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"Allora me ne prendi uno?"
"Tu devi essere matta. Non ho mai incontrato nessuno di così
ostinato."
"Prendimi un cane, allora."
"Lo vedi?"
"Sai benissimo che piacerebbe anche a te, avere un cane."
"Sì, ma so anche che non riuscirei a occuparmene, così non lo
prendo."
"Perché?"
"Perché non ho una vita abbastanza stabile. E i cani hanno un
bisogno estremo di stabilità. Hanno bisogno di luoghi conosciuti,
cicli regolari, eventi che si ripetono con una cadenza fissa. Si dice
che i cani girano intorno all'orologio, no?"
"Allora trovati una situazione stabile."
"Per tenerti il cane?"
"No, per te. Il cane lo tengo io."
"Sei ossessiva."
"E tu sei egoista. Non vuoi fare una cosa che mi renderebbe felice."
"Non cominciare anche tu, adesso."
"Ma è vero, scusa."
"Senti, io per fare una cosa che ti rendeva felice mi sono rovinato
tre anni di vita con un orrendo schnauzer nano pepe e sale
completamente nevrotico."
"Non era orrendo, Wolfgang! E non era nevrotico!"
"Aveva solo una lieve forma di psicopatia che lo faceva abbaiare e
abbaiare senza fermarsi un minuto. Con quella vocetta aspra e secca
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del cavolo. Me la sento ancora nelle orecchie."
"Aveva paura di stare da solo."
"Era un incubo. Mi hanno cacciato via da un appartamento di città e
forse da quattro posti di vacanza, per colpa sua."
"Non era colpa sua."
"E' entrato in una chiesa nell'ex Jugoslavia durante un concerto e
ha fatto imbestialire il prete, ha fatto imbizzarrire il cavallo di
una tipa al parco di Monza, si è mangiato un elefantino d'osso cinese
del Milleseicento, ha fatto la pipì su non so quanti tappeti e la
cacca su non so quante scale, si è strusciato lascivamente sulle
gambe di non so quante donne, ha tenuto svegli per non so quante
notti non so quanti vicini di casa, ha abbaiato per migliaia di ore
complessive."
"Ma era così simpatico e intelligente. Aveva l'insicurezza dei cani
piccoli, poverino."
"Era totalmente ossessivo."
"Era fragile."
"Non dirlo in quel tono. Non l'ho mica abbandonato sul bordo di
un'autostrada. Gli ho trovato una scenografa venezuelana che in
pratica vive solo per lui. Lo fa dormire nel suo letto, passa il
tempo a preparargli da mangiare."
"Comunque sono passati anni e adesso vorrei un altro cane e anche
tu lo vorresti, è inutile che dici di no."
"Non dico di no. Dico solo che è impossibile."
"Sei tu che sei ostinato, accidenti."
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"Non potresti mettere un guinzaglio al tuo caro Luca, scusa? Tanto
ha già la catena di ferro al collo. Sarebbe molto più semplice."
"Smettila. Sto parlando sul serio. Tu quando hai cominciato a
desiderarlo, un cane?"
"Quando avevo tre o quattro anni, più o meno."
"Hai visto?"
"Ma era un'idea che aveva a che fare con un bisogno di fisicità e
di naturalezza molto più disperato ed esteso. Aveva a che fare con il
crescere in una delle più brutte città industriali del mondo, in un
paese miserabile e in un decennio spaventoso. L'idea di avere un cane
faceva parte di una serie di immagini importate di contrabbando da
vite impossibili."
"Quali immagini?"
"Prati e boschi e giungle e lagune e isole selvagge, galoppate a
cavallo, storie romantiche, esplorazioni, scoperte, sorprese,
avventure senza fine. Per te è diverso."
"Perché?"
"Perché hai già girato mezzo mondo, hai visto una quantità di posti
che io alla tua età mi sognavo soltanto. Sei stata in quattro
continenti e su non so quante isole. Hai fatto delle crociere in
barca, hai fatto dei trekking a cavallo. Sei andata su un cavolo di
cammello, perfino."
"E questo cosa c'entra?"
"C'entra. Io alla tua età ero stato una volta in Svizzera e una
volta in Francia, appena al di là del confine."
"E non posso lo stesso volere un cane?"
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"Non hai dei vuoti di sensazioni così estesi da compensare."
"Io mica voglio un cane per compensare qualcosa."
"Chiunque voglia qualcosa con molta intensità, lo fa per compensare
qualcos'altro che gli manca."
"Io voglio un cane con molta intensità."
"Allora è probabile che sia tutta colpa mia."
"Perché?"
"Perché non ti ho dato abbastanza sicurezza o abbastanza stabilità,
o comunque ti ho creato delle carenze affettive. Con il fatto di
separarmi da tua madre quando eri piccola ed essere rimasto sempre
così sospeso senza un luogo fisso e senza una vita organizzata e
senza dei riferimenti certi eccetera."
"Non è vero. Non ho nessuna carenza."
"No?"
"No."
"Come fai a saperlo? Non sono cose che si possono dire così."
"Io non ho nessuna carenza."
"E' quello che ho sempre pensato anch'io. Ho sempre pensato che
venivi su sveglia e intensa ed equilibrata più della media anche
grazie alla situazione in cui avevo contribuito a farti crescere. Però
forse era solo un modo di costruirmi un alibi e mettermi la coscienza
in pace."
"Ma va. Cosa ti inventi, adesso?"
"Be', quando ti ho preso Wolfgang è stato perché mi erano venuti
dei forti dubbi su questo punto."
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"Vale a dire?"
"Ero andato a parlare con la direttrice del tuo asilo, e mi aveva
fatto vedere alcuni tuoi dipinti a tempera, e in almeno metà c'era un
doppio sole, in alto a destra."
"E allora?"
"La direttrice aveva detto "Vede qui?". Io avevo detto "Be'?". Ero
sempre sulla difensiva con lei, perché aveva un fondo cattolico un
po' integralista e quasi ogni volta che mi vedeva diceva "Come mai
lei e sua moglie non provate a tornare insieme?"."
"E cosa ti ha detto del doppio sole?"
"Che indicava un disturbo nella relazione con il padre, secondo
tutti i trattati di psicologia infantile."
"E tu?"
"Io non l'ho presa alla lettera, però ho cominciato a pensare che
forse avevi davvero qualche problema affettivo per colpa mia. E'
incredibile quanto un padre o una madre possano sentirsi in colpa,
sai? Non c'è limite. Soprattutto quando esiste qualche solido
elemento di base. Vale a dire sempre."
"E cosa c'entra il doppio sole con Wolfgang?"
"Il giorno dopo mentre venivo a prenderti all'asilo sono passato
davanti a un negozio di animali, e nella vetrina ho visto una specie
di orsetto grigio tra altri cuccioli. E anche se non era esattamente
il tipo di cane che avevo in mente quando sognavo di avere un cane,
sono entrato e l'ho comprato."
"E poi?"
"Sono venuto a prenderti nel cortile dell'asilo, e tu sei uscita e
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mi hai visto lì che ti aspettavo, con il muso del piccolo
cane-orsetto grigio che sbucava dalla cerniera del mio giubbotto di
pelle."
"E cosa ho fatto?"
"Ti sei bloccata sui tuoi passi, così."
"Per quanto?"
"Per un secondo o due, ma avevi un'espressione di estrema
incredulità che dilatava il tempo."
"E poi?"
"Poi sei corsa da me e me l'hai strappato via e ti sei messa a fare
dei giri pazzi. Volavi, per la gioia."
"E tu?"
"L'idea di avere una bambina con un cane mi sembrava molto più
allegra dell'idea di una bambina senza. Anche se non era per niente
un'idea realistica."
"Perché?"
"Perché tu avevi quattro anni, e io ero in una condizione di
precarietà assoluta."
"Vale a dire?"
"Dopo che mi ero separato da tua madre non solo non avevo una vita
regolare, non avevo nemmeno una casa. Stavo in giro, tra studi di
amici e camere d'albergo, appartamenti prestati per una settimana o
due, o in viaggio tra una città e l'altra, in macchina o in treno.
Non era un contesto molto adatto a tenere un cane."
"Però l'hai preso."
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"Sì, ma nel giro di poco mi ha reso la vita quasi impossibile."
"Perché?"
"Appena lo lasciavo solo si metteva ad abbaiare, con la metodicità
che un essere umano scrupoloso ai limiti del fanatismo potrebbe
applicare in un lavoro. Andava avanti e avanti fino all'estenuazione,
finché gli restava solo un filo di voce logorata. A un certo punto ho
cominciato a portarmelo dietro in macchina, perché almeno lì stava
tranquillo anche se lo lasciavo per un po' da solo. Ma ogni volta che
tornavo c'era qualcuno che mi aspettava per dirmi "Si vergogni, non
si lasciano i cani in macchina!"."
"Davvero?"
"Oppure lo portavo a correre in bicicletta, e anche lì c'era sempre
qualcuno che mi diceva "Non si fanno correre i cani così piccoli!"."
"Madonna."
"Non potevo più andare in vacanza da nessuna parte, né ospite da
nessuno. Dovevo organizzarmi in anticipo per qualsiasi cosa, e sai
quanta fatica mi costa organizzarmi. E tutto per te, bastarda."
"Ma ti faceva anche compagnia, no?"
"Eh. Quando lavoravo stava lì accucciato sotto il tavolo a spiare
ogni mio micromovimento, con un'espressione d'ansia intollerabile. A
volte smettevo solo perché non ce la facevo più a sentirmi il suo
sguardo addosso, e lui riusciva a intuire un paio di secondi prima
quando stavo per alzarmi. Saltava su di scatto e correva avanti e
indietro e girava come una trottola e guaiva e ansimava e mi
aumentava ancora la tensione. Da diventare scemi."
"Povero Wolfgang."
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"Doveva essere la reincarnazione di qualcuno che non aveva risolto
molto nella sua vita precedente."
"Così l'hai dato alla venezuelana."
"L'ho tenuto tre anni, prima. Solo perché non volevo darti un
dispiacere. Ma alla fine mi stava per provocare un esaurimento
nervoso."
"Va be'. Comunque adesso la situazione è completamente diversa, e
possiamo benissimo prendere un altro cane."
"Non è completamente diversa."
"Sì che lo è."
"Non lo è. Io non sono affatto più stabile di allora."
"Ma io sono più grande."
"Perché non parliamo di un altro argomento?"
"Voglio un cane."
"Parliamo di un altro argomento."
"Sei una carogna."
"Che sfortuna avere un padre così, poverina. Eh?"
Sono fuori dal centro antico adesso, sulla strada larga da cui
erano arrivati, con grandi platani e macchine parcheggiate, tipi
anziani che parlano e bevono vino bianco seduti ai tavolini di un
vecchio bar. L'anfiteatro romano non si vede, l'ultimo cartello era
molto indietro. Lui guarda l'orologio, e sono già le dodici e mezza.
Dice "Torniamo alla macchina, magari?".
"Sì."
"Lasciamo perdere l'anfiteatro?"
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"Sì."
"Consideriamo assolti i nostri doveri turistici?"
"Sì."
"Non dovremmo mangiare qualcosa, prima?"
"Perché?"
"Non hai fame?"
"No. E tu?"
"No. Ce ne andiamo verso il delta del fiume?"
"Sì."
"Semmai ci fermiamo in qualche posto lungo la strada quando abbiamo
fame?"
"Sì."
Un SMS
Da: GIOVANNI
Ore: 13.15
Non è vero che non ti ascolto e mi sottraggo ogni volta che
potremmo parlare. Ma grazie per come riesci a vedere i miei difetti.
Mi richiami? G.
Dalla strada che va
verso il delta del fiume
si vedono solo terre piatte
Dalla strada che va verso il delta del fiume si vedono solo terre
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piatte, fossi e campi, mucche al pascolo.
Lei a un certo punto dice "Com'era quella storia che dicevi ieri?".
"Quale storia?"
"Dei difetti. Che alcuni sono solo ombre di qualità."
"Ah, sì."
"Cosa volevi dire?"
"Che ogni qualità ha un suo difetto corrispondente."
"In che senso?"
"Nel senso che ogni qualità viene fuori da una combinazione
specifica di elementi, e per svilupparsi produce un difetto
altrettanto specifico. Come un vuoto che rende possibile un pieno, o
un pieno che rende inevitabile un vuoto."
"Tipo?"
"Tipo, magari uno ti piace perché è pieno di immaginazione. Ti apre
finestre su mondi inaspettati, no? Ma la sua fantasia si è sviluppata
a scapito del suo spirito pratico, quasi sempre. Ha usato le risorse
disponibili in una direzione anziché in un'altra. Oppure incontri uno
estremamente concreto che magari ti rassicura, ti dà il senso di
poter contare su di lui. Però questa concretezza estrema ha ridotto
di molto lo spazio della sua immaginazione. Le ha mangiato terreno,
non c'è niente da fare."
"A me uno estremamente concreto non piace affatto."
"Adesso no, certo. Ma può darsi che ti piaccia più avanti, in
un'altra fase della tua vita."
"E non ci può essere uno molto concreto e molto fantasioso?"
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"Non credo."
"Non ci sono qualità senza ombra?"
"Non credo."
"Per esempio uno che è buono, che genere di ombra ha?"
"Dipende da quanto è buono."
"Immensamente buono."
"Uno immensamente buono è probabile che lo sia in modo universale,
quindi generico. E' probabile che sia così impegnato a essere
immensamente buono con tutti da non essere capace di nessuna bontà
selettiva. Oppure che la sua immensa bontà corrisponda a un immenso
narcisismo, o a un'immensa ottusità."
"E uno che ha una dote artistica straordinaria?"
"E' probabile che abbia una voragine altrettanto straordinaria in
un altro punto della sua personalità."
"Uno che è molto sensibile?"
"E' probabile che sia anche molto fragile. O molto suscettibile,
non lo so."
"Uno che è molto allegro?"
"Vuoi dire sempre molto allegro?"
"Sì."
"E' probabile che sia anche molto superficiale. O molto incurante,
che passi sopra alle cose con facilità."
"Uno molto attraente?"
"Che sia anche molto ruffiano. Molto preso a vendere o barattare."
"Uno molto intelligente?"
"Che sia anche molto egocentrico. O molto poco istintivo. O molto
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poco semplice."
"Uno molto semplice?"
"Che sia molto poco complesso."
"Uno molto istintivo?"
"Che sia molto poco riflessivo."
"Uno molto riflessivo?"
"Che non sappia mai decidersi a seguire un istinto."
"Allora non c'è scampo, dalle ombre delle qualità?"
"Devi solo capire quale delle due cose conta di più per te, se la
qualità o l'ombra. Magari hai davanti una qualità che ti piace molto,
poi la guardi in una luce diversa, e vedi che la sua ombra è
gigantesca. Fa sembrare minuscola la qualità che ti piaceva, in
confronto."
"Cosa vuol dire, una luce diversa?"
"Più intensa, o anche solo angolata in un altro modo. C'è gente che
vive sotto luci così diffuse e compensate da non riuscire a
distinguere nessuna qualità e nessuna ombra. Vede tutto immerso in
una luminosità standard senza contrasti, come in un infinito
talk-show televisivo."
"Però ci possono essere anche qualità gigantesche con ombre
minuscole, no?"
"Non credo."
"Qualità medie con ombre medie?"
"Sì, certo. E qualità minuscole con ombre minuscole, se proprio
vuoi qualcosa di ancora meno ingombrante."
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Ridono tutti e due, guardano di lato: i prati che diventano poco a
poco più selvatici.
Lei dice "Fai un elenco delle tue qualità".
"Non ne ho voglia."
"Dài. Sei tu che hai inventato questo gioco."
"Sì, ma ieri. Oggi non ne ho voglia."
"Perché?"
"Così."
"Prova a dirne almeno qualcuna. Come hai fatto con i difetti."
"Uffa."
"Dài."
"Sono curioso."
"Di cosa?".
"Di quello che mi incuriosisce."
"Un'altra."
"Sono attento."
"A cosa?"
"Alle cose che mi interessano."
"Un'altra."
"So pensare."
"A cosa?"
"A quello che mi capita in testa."
"Poi?"
"Sono paziente."
"Non è vero!"
"Lo sono adesso, a fare questo gioco del cavolo con te."
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"Dài! Siamo in viaggio."
"Appunto. Guarda fuori, che bello."
"Se il tuo elenco è già finito, vuol dire che hai molti più difetti
che qualità."
"Può darsi."
"Ma non lo pensi sul serio, no?"
"Dipende."
"Da cosa?"
"Da quando ci penso."
"E conosci meglio i tuoi difetti o le tue qualità?"
"I miei difetti, credo."
"Come mai?"
"Non lo so. Forse perché in generale ho sempre avuto una percezione
molto più precisa di quello che non mi piace, rispetto a quello che
mi piace."
"Anch'io."
"Dev'essere anche questo un difetto ereditario, allora."
"O l'ombra di una qualità ereditaria?"
"Forse."
Gli viene in mente come fin da quando lei era molto piccola i suoi
giudizi erano precisi e sorprendenti, già perfettamente formati. Gli
viene in mente come questo lo spingeva a volte a chiederle consigli
difficili, o a esporle in modo quasi irresponsabile i punti deboli
del proprio carattere. Gli viene in mente lo sgomento di quando una
qualsiasi ragione esterna la faceva diventare improvvisamente la
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bambina che era; lo squilibrio improvviso che lo costringeva a
rituffarsi nel suo ruolo di padre. Gli viene in mente la facilità
istintiva con cui sono sempre riusciti a parlare di persone e animali
e luoghi e idee e sensazioni: la complicità fatta di sguardi e gesti
e mezze parole. Gli vengono in mente le volte in cui nel corso degli
anni gli è capitato di perdere questa comunicazione insieme agli
sguardi e ai gesti e alle parole come se fosse per sempre, e poi di
ritrovare tutto, senza sforzo e senza spiegazioni.
Il paesaggio sta diventando ancora più basso e rarefatto, una linea
color paglia secca sotto il cielo pallido.
Dopo una curva lunga
nascosta da alberi scarni
sono alle paludi
Dopo una curva lunga nascosta da alberi scarni sono alle paludi,
senza quasi accorgersene. Lui continua ancora per qualche centinaio
di metri, poi ferma a lato della strada che corre lungo un
terrapieno. Scendono senza dire niente, guardano i campi di erba
secca e i cespugli che continuano fino alle acque stagnanti dove sono
immobili alcuni trampolieri bianchi. Non c'è vento, non ci sono suoni
meccanici neanche a grande distanza, l'aria è ferma e piena. Una gru
grigia passa in volo sopra le loro teste, produce un verso come una
canna di bambù spaccata per il lungo.
Camminano verso l'acqua, ma devono alzare molto i piedi per
avanzare nella sterpaglia. C'è una discrepanza sottile tra l'aspetto
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del paesaggio e la sua consistenza reale: la bellezza del camminare
tra le erbe alte si consuma nell'attrito che incontrano a ogni passo,
i trampolieri bianchi sembrano sempre alla stessa distanza. Quando
finalmente arrivano al bordo dell'acqua si bloccano, sospesi tra
l'impossibilità di continuare oltre e una strana frustrazione da
non-contatto.
Respirano immobili per qualche minuto, poi lui dice "Torniamo?".
Lei fa di sì con la testa; si girano e camminano verso la strada
rialzata. Il cielo è aperto in modo ininterrotto, dissolve pensieri
di qualsiasi forma.
Lui mette in moto, guida lento. Hanno gli occhi socchiusi tutti e
due, guardano lo spazio vuoto e occupato fino a saturazione da
elementi essenziali.
Dopo forse dieci minuti lui dice "Poi ci sono alcuni che invece di
lottare contro i loro difetti li fanno diventare ancora più
persistenti".
"E perché?"
"Per usarli come armature."
"Contro chi?"
"Contro qualcuno in particolare o contro il mondo in generale."
"E le qualità? Si possono usare anche quelle, come armature?"
"E' molto più faticoso. Poi c'è sempre qualcuno che vuol venire a
verificare la resistenza delle piastre, sondare i varchi tra le
giunture."
"Invece con i difetti nessuno ha molta voglia di fare verifiche,
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no?"
"No."
La strada finisce in un grande slargo di terra battuta, subito
prima di una spiaggia chiara che continua a perdita d'occhio. Nella
stagione turistica dev'essere pieno di macchine e camper e pullman,
ma adesso c'è solo una vecchia giardinetta bianca. Scendono e
camminano verso il mare. Su una piattaforma di cemento che domina la
spiaggia c'è un'automobile molto più recente, con le portiere aperte
e lo stereo che pompa musica elettronica da discoteca in pulsazione
continua. Un uomo e una donna sono seduti sul bordo della piattaforma
con le facce rivolte al sole, sembrano molto soddisfatti della
situazione.
Lui dice "Uno può addirittura costruire un lavoro, intorno al suo
difetto dominante".
"Sì?"
"Sì. E' probabile anzi che siano più i lavori fondati sui difetti
di quelli fondati sulle qualità."
"E il tuo?"
"Forse anche il mio."
"Te lo sei costruito sul non-esserci?"
"E sugli altri difetti connessi. E quello che succede ogni volta
che il mio lavoro viene riconosciuto, è che anche il mio difetto
dominante riceve un riconoscimento. E' come se la gente mi dicesse
"Grazie per non esserci! Complimenti! Continua così!". Non è assurdo,
se ci pensi?"
"Sì."
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"Ma è così. E quando uno vede riconosciuto il suo difetto
dominante, non ne viene più fuori. Non c'è verso."
"Mai più?"
"Non credo. A meno che non abbia un senso critico eccezionalmente
sviluppato. O che si prenda uno scossone eccezionalmente forte."
"Però non è che tu non ci sia proprio mai, no?"
"No. Quando sono in un posto che mi piace, o con una persona che mi
piace, o sto facendo una cosa che mi piace, ci sono."
"Quindi adesso ci sei?"
"Certo che sì, bestiona."
Camminano lungo la linea del mare, dove c'è una brezza sottile. Lui
si riempie i polmoni di aria salmastra, soffia fuori lentamente. C'è
un tipo anziano in piedi con una canna da pesca piantata nella
sabbia, guarda l'orizzonte con aria assorta o forse solo assente.
Mentre passano oltre danno un'occhiata nel secchio di plastica
azzurra alle sue spalle: è vuoto.
Quando sono stanchi di camminare si girano e tornano indietro.
Vista da lontano, l'automobile sulla piattaforma di cemento sembra un
oggetto inspiegabile quanto le due piccole figure ai suoi piedi.
Lui dice "E ci sono intere città fondate su difetti".
Lei non risponde, lo guarda in modo periferico. E' probabile che
abbia fame, le sue riserve di energia di nuovo quasi esaurite.
Lui dice "Ci sono città fondate sull'avidità, sulla vanagloria,
sull'incuranza, sulla meschinità, sulla freddezza, sulla
cialtroneria, sul cinismo. Si presentano al mondo con la loro
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armatura di difetti, proprio come una persona".
"Ma come inizia, la cosa?"
"Magari con alcuni abitanti preminenti che mettono in mostra i loro
difetti più forti e li esercitano finché vengono adottati dalla città
intera."
"E quelli che ci vivono?"
"Li assorbono con il latte materno, in pratica. Con le piccole
osservazioni e i minimi atteggiamenti, i toni di voce e i modi di
fare osservati e registrati giorno dopo giorno."
"E quelli che ci arrivano da adulti?"
"Se non ci arrivano attratti proprio da quei difetti, ci si
adattano."
"E se uno non ci si adatta?"
"Li simula abbastanza bene da essere credibile. O passa la vita in
continuo attrito contro tutto quello che vede e sente. O se ne va."
"Per le nazioni è la stessa cosa?"
"Più o meno."
"Tipo?"
"Tipo, prendi l'Italia, se vuoi."
"Che difetti ha?"
"In ordine di importanza?"
"Di come ti vengono in mente."
"Superficialità. Disonestà. Incostanza. Gelosia. Inattendibilità.
Inerzia. Imprecisione. Ipocrisia. Provincialismo. Autolesionismo. Poi
c'è una serie di difetti travestiti da qualità."
"Tipo?"
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"Tipo vigliaccheria travestita da bontà. Mancanza di regole
travestita da tolleranza. Incuria travestita da libertà. Volgarità
travestita da naturalezza. Barbarie travestita da folclore."
"Fammi degli esempi."
"Per esempio il paese finto tollerante dove se viene presa una
banda di ragazzotti figli di mamma che ha massacrato a sprangate una
vecchietta per rapina ci sono subito un prete e uno psicologo e un
sociologo che corrono in televisione a dire che bisogna perdonarli e
capirli e non criminalizzarli oltre misura perché in fondo sono anche
loro vittime della società e dei tempi."
"Eh."
"Il paese finto libero dove alla prima manifestazione di strada la
polizia può assumere comportamenti sudamericani e massacrare di botte
e torturare per giorni la gente che ha arrestato."
"Poi?"
"Il paese finto evoluto dove ogni copertina di settimanale
d'informazione e ogni pubblicità di automobili o di scarpe o di pasta
e ogni show televisivo per famiglie esibisce almeno un corpo di donna
nuda usato per vendere. Il paese regno della mamma e delle sante, con
il numero più basso di donne nel parlamento e il numero più alto di
prostitute importate dai paesi poveri nelle strade."
"Sì."
"Il paese fondato sulla legge romana con un miliardo di vincoli
paralizzanti a qualunque attività, che ha distrutto il suo territorio
da nord a sud e lo ha ricoperto di cemento nella più totale mancanza
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di veri controlli. Il paese più ricco al mondo di opere d'arte
violentato con una capillarità spaventosa da geometri e committenti e
amministratori totalmente privi di senso estetico."
"Poi?"
"Il paese finto democratico che si è lasciato governare per
vent'anni da un pagliaccio violento travestito da guida del popolo e
si è fatto trascinare dalla parte sbagliata in una guerra da
cinquanta milioni di morti e quando l'ha persa ha fatto finta di
essere sempre stato dalla parte giusta in cuor suo."
"Davvero?"
"Sì, e poi in modo ricorrente ha cercato di gettarsi nelle braccia
del primo despota o capomafia o protocapitalista o trafficante su
larga scala che appare sulla scena con il suo seguito di avvocati e
faccendieri e squadristi e uomini di fiducia."
"Ma anche gli altri paesi hanno i loro difetti, no?"
"Certo. E' che i difetti del tuo possono suscitarti la stessa
esasperazione di quelli di una persona che conosci troppo bene. Hanno
la stessa odiosa tendenza a riemergere esattamente dove e quando te
lo aspetti."
I due tipi seduti sul bordo della piattaforma di fianco alla loro
macchina non li guardano neanche quando gli passano vicini, sembrano
interessati unicamente a sé stessi e all'inclinazione del sole che
gli arriva in faccia e alla brutta musica pompata che esce dagli
sportelli aperti.
Lei dice "E secondo te non c'è nessuno senza difetti".
"Non se vai a vedere abbastanza da vicino. Ma ci sono difetti molto
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più insopportabili di altri, naturalmente."
Salgono in macchina, lui guida via per la strada sottile che
costeggia a curve le acque ferme e i ciuffi di erbe alte. A
intervalli la osserva di profilo, pensa che ogni volta che parlano
buona parte della sua attenzione è assorbita dai suoi sguardi e gesti
e toni di risposta. La stessa cosa gli succede con M., quando per
esempio si ritrovano dopo un lungo tempo senza vedersi, e anche se
sono pieni di echi di brutte frasi si lasciano travolgere dal bisogno
di comunicazione e parlano e parlano in un flusso di idee e
sensazioni senza smettere per un attimo di registrare le variazioni
sottili dentro e fuori le parole che vibrano con la stessa intensità
inarrestabile di un diapason.
Il telefono cellulare
gli vibra nella tasca come
un piccolo animale da tana
Il telefono cellulare gli vibra nella tasca come un piccolo animale
da tana. Lui infila la mano nella giacca per prenderlo: gli dà
perfino una rapida impressione illusoria di calore corporeo, finché
non lo estrae e rivela la sua consistenza neutra di semplice tramite
elettronico.
G.: Pronto?
M.: Come va?
G.: Bene.
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M.: Dove siete?
G.: Alle paludi, adesso andiamo a mangiare qualcosa.
M.: E state bene?
G.: Sì.
M.: E' bello?
G.: Sì. Ci sono dei trampolieri bianchi che pescano nell'acqua. Mi
piacerebbe che fossi qui anche tu.
M.: Perché lo dici?
G.: Perché è vero.
M.: Che testa di cavolo, sei.
G.: Hai letto il mio messaggio?
M.: Sì, ma sono solo frasi. Non corrispondono mai a cose vere.
G.: E quali sarebbero le cose vere?
M.: Non capisco cosa tu voglia da me, Giovanni.
G.: Neanch'io.
M.: Perché hai questo tono, adesso?
G.: Potremmo lasciar perdere i toni, magari? O magari parlarne
quando non sto guidando lungo una strada a curve con una palude su
tutti e due i lati?
M.: Certo, certo. Ti saluto.
G.: Ti sei offesa?
M.: Per niente. Basta che non mi telefoni più e non mi mandi più
messaggini del cavolo.
G.: Ma perché?
M.: Perché sono stufa di perdere tempo. Ciao.
G.: Pronto?
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Guarda per un attimo lo schermetto del cellulare, lo rimette nella
tasca della giacca. Ha l'orecchio destro surriscaldato e la tempia
che gli fa male; tira giù del tutto il finestrino, inspira a fondo
l'aria densa.
Sua figlia seduta alla sua destra guarda fuori, non è il tipo da
intromettersi in questo genere di situazioni.
Lui dice "E' che non riesco a parlare di quasi niente al telefono.
A meno che non sia un semplice scambio di notizie, o di stati
d'animo. Cosa cavolo d'altro puoi dirti, al telefono?".
Lei lo guarda nel suo modo enigmatico, senza sbilanciarsi.
Lui dice "Ho sempre avuto un vero problema con il telefono come
mezzo di comunicazione sentimentale. Da quando avevo sedici anni e la
mia prima fidanzata mi teneva inchiodato per ore ogni sera, dopo che
eravamo stati insieme tutto il pomeriggio e ci eravamo già detti
tutto quello che avremmo mai potuto pensare di avere da dirci".
Lei ride. Dice "Per ore, ti parlava?".
"Sì. Andava avanti e avanti. Era un incubo, madonna. Avevo giurato
di non ricadere mai più in relazioni con forti componenti
telefoniche."
"E allora perché ci sei ricaduto?"
"Be', un po' è che spesso io e M. siamo lontani. Un po' è che lei
ha un rapporto con il telefono molto diverso dal mio. Ha anche delle
cose interessanti da dire, non è che voglia parlare di scemenze. Però
non riesco lo stesso a fare lunghe conversazioni. E ogni volta che
cerco di tagliare corto, la prende come una dimostrazione di
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disinteresse o come un modo di sottrarmi."
Ma gli viene anche in mente come il suo cellulare e quello di M.
sono stati a lungo un'estrema risorsa nei loro litigi ricorrenti,
dopo che lui aveva girato l'angolo di strada con la valigia a
rimorchio senza voltarsi o l'aveva guardata guidare via veloce come
se fosse l'ultima immagine di lei che doveva restargli nella vita.
Gli viene in mente come in tutte le loro simulazioni molto
realistiche di gesti definitivi hanno tenuto conto di avere in tasca
o nella borsa una possibilità ulteriore di raggiungersi e convincersi
e cambiare idea, tornare indietro.
Subito dopo suona il cellulare di sua figlia con la sua assurda
musichetta. Lei risponde, con una mano sull'orecchio libero e l'altra
tempia appoggiata al finestrino in modo da guadagnare più spazio
privato che può nell'abitacolo. Dice "Sì", "No", "Ma sì" a bassa
voce.
Lui guarda fuori dal suo lato per non farla sentire a disagio: i
canneti nell'acqua, i trampolieri bianchi e grigi e rosa, i cartelli
con numeri. Prende la carta stradale dal sedile di dietro e la
appoggia al volante; non riesce a capire se sta seguendo la strada
giusta.
Quando sua figlia finisce di parlare, lui dice "Certo che oggi una
storia tipo Giulietta e Romeo non sarebbe più possibile, con questi
aggeggi".
"In che senso?"
"Una storia di vuoti d'informazione? Di equivoci terribili perché
non sai dove sia l'altro o cosa stia facendo e puoi solo
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immaginartelo in base alle tue peggiori paure?"
"E' vero." Rimette a posto il telefonino.
Lui pensa che perfino il suo telefonino lo intenerisce, come tutti
gli oggetti che la riguardano. Lo intenerisce la cura un po'
distratta con cui lo tiene, e il fatto che non gliel'avesse mai
chiesto, che addirittura non lo volesse accettare quando gliel'ha
regalato per il suo compleanno. Pensa che questo tipo di tenerezza è
stato il primo sentimento che ha provato per lei, da quando l'ha
vista appena nata tra le mani dell'ostetrica che gliela porgeva. Se
dovesse definirlo in modo più dettagliato, direbbe che è un
sentimento fatto di apprensione e partecipazione e consapevolezza,
istinto di protezione.
Dice "Ti rendi conto di quanto eri piccola, solo pochi anni fa?".
Lei ride.
"Quando sei nata avevi questi occhi scuri scuri, insondabili. Li
muovevi da destra a sinistra come per capire dov'eri, anche se in
teoria non avresti dovuto vedere quasi niente."
"Li muovevo come?" E ne hanno già parlato forse cento altre volte
con quasi le stesse parole ma non importa, potrebbero farlo cento
volte ancora e probabilmente lo faranno.
"Così."
"Smettila, non ero una marziana!"
"Sì invece. Facevi impressione a guardarti meglio. Davvero. Facevi
quasi paura."
"Perché?"
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"Avevi un'aria strana. Vecchia, anche. Terribilmente vecchia. Di
secoli o di millenni. Avevi uno sguardo da viaggiatore intergalattico
sconvolto dal viaggio e incerto di dove è arrivato. Facevi
impressione e compassione. Più impressione che compassione,
all'inizio."
Gli viene in mente che forse è la compassione la vera chiave dei
suoi legami affettivi, e che uno dei suoi problemi con M. è il fatto
di non riuscire sempre a provarne per lei. Adesso che ci pensa, è
quasi sicuro che ogni volta che M. gli suscita compassione le sue
risposte affettive siano chiare e probabilmente appaganti. E' quando
lei gli appare in rapporti ben collaudati ed efficaci con il mondo
che si apre un'improvvisa distanza tra loro. Ha bisogno di vederla
vulnerabile e sgomenta, per provare compassione per lei e mettere in
gioco tutte le sue capacità di appoggio e comprensione e
rassicurazione. Non gli sembra un sentimento che implichi
condiscendenza o sensi di superiorità da parte sua, ma non
riuscirebbe a definirlo in un altro modo.
Dice "C'è un'altra cosa abbastanza assurda, riguardo alle qualità e
ai difetti delle persone".
"Quale?"
"A volte ti innamori di un difetto, e a volte non riesci a
convivere con una qualità."
"Per esempio?"
"Per esempio, M. ha un modo di essere improvvisamente sconvolta dai
meccanismi del mondo. Magari sembra che li conosca benissimo, e che
anzi ci si muova con grande disinvoltura, poi le basta leggere una
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notizia su un giornale, e improvvisamente va in pezzi. Il che forse
può essere considerato un difetto, ma è una delle cose che mi
piacciono di più in lei. La sensibilità intensa e sofferente che mi
ha colpito così tanto nel suo sguardo la prima volta che ci siamo
incontrati."
"Però?"
"Però siccome è una persona complessa, ha anche una parte pratica e
ragionevole e rapida, che ha sviluppato per poter sopravvivere nel
mondo e che convive con l'altra. Ed è una qualità, ed è anche molto
rassicurante in certi momenti, eppure è una delle ragioni principali
di distanza tra noi."
"Perché?"
"Non lo so. Non è che la vorrei tutta fragilità e nervi scoperti.
Solo che quando va in giro distribuendo gesti e parole con l'energia
sicura e positiva di cui è capace, sono i momenti in cui la sento più
lontana."
"In che senso lontana?"
"Lontana. Mi sento una specie di emarginato o di randagio
inconciliabile, in confronto, senza nessun genere di familiarità o di
radice."
"Fammi un esempio."
"Quando andiamo insieme al supermercato, per esempio."
"Cosa succede?"
"Niente di speciale. Magari siamo lì al bancone del pesce o dei
formaggi, e lei non fa altro che ordinare qualcosa nel suo modo
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pratico, e di colpo ogni sfumatura della sua voce e ogni suo sorriso
e ogni suo movimento corporeo mi riempiono di un senso violento di
estraneità."
"Ma perché? Diventa antipatica o villana?"
"No. Solo pratica. Una normale persona pratica che ha molte cose da
fare e che non attribuisce un significato trascendente all'idea di
comprare delle cose da mangiare."
"Tu invece sì?"
"Forse. Forse vorrei che fare la spesa insieme fosse ogni volta una
specie di gioco incantato, dove pescare colori e sapori e consistenze
dalla vita, anticipare momenti. L'idea che possa diventare una pura
operazione pianificata di rifornimento mi fa un effetto
agghiacciante."
"E M.?"
"M. è una donna con due figli da nutrire ogni giorno e una casa da
mandare avanti e molte altre cose di cui occuparsi oltre la spesa. E'
più che comprensibile che non abbia voglia di fare un viaggio
psichedelico ogni volta che entra in un supermarket."
"Però tu ci rimani male lo stesso."
"Sì. Mi rendo conto che è assurdo, ma non ci posso fare niente."
"E lei se ne accorge?"
"Non è che io mi sforzi tanto di dissimulare. Mi viene
un'espressione di ostilità concentrata, smetto di parlare, smetto di
guardarla. E naturalmente finiamo per litigare in modo selvaggio,
ogni volta."
"Cosa vi dite?"
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"Io le dico che preferisco morire di fame, piuttosto che diventare
uno schiavo della società dei consumi con lo sguardo neutro e il
carrello pieno di spazzatura. Che preferisco mangiare dei vecchi
cracker o un avanzo di formaggio o niente del tutto, piuttosto. Che
preferisco dimenticarmi di avere fame."
"E lei?"
"Lei dice che sono infantile e ridicolo e viziato e che mi piace
perdere tempo in scemenze. E da lì sconfina in un territorio di
accuse più gravi, dove dice che sono egoista e assente e incurante e
non voglio assumermi nessuna responsabilità seria eccetera."
"E tu?"
"Io estendo ancora più il raggio, fino a renderla responsabile di
tutte le confezioni sugli scaffali e di tutte le brutte persone con i
carrelli e dello sguardo ottuso del cassiere e del degrado del
parcheggio appena fuori e del cemento e degli spigoli e della strada
subito oltre e delle macchine e dei camion e perfino del caldo e
della qualità della luce e del fatto di essere lì invece che da
qualunque altra parte del mondo."
"Ma perché?"
"E' che non sopporto l'idea che esistano delle cose da fare e
basta, senza margini per esserne sorpresi o divertiti, o per non
farle del tutto."
"Però esageri, scusa. M. ha ragione a esasperarsi."
"Parli tu, che passi le giornate a fare la spesa e in altre attività
organizzative, no?"
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"Ma io ho sedici anni."
"E allora? Pensi che sia giusto che qualcun altro lo faccia per te?"
"Stavamo parlando di te e M., cosa c'entro io?"
"C'entri. Comunque credo che la mia sia una posizione legittima,
visto che non ho mai preteso che nessun altro si accolli dei doveri
al posto mio. Visto che sono disposto a rinunciare a quasi tutto, pur
di non avere doveri."
"Sul serio litigate su queste cose ogni volta che fate la spesa
insieme?"
"Quasi ogni volta."
"Non potreste fare dei turni? Andarci una volta tu e una volta lei,
al supermarket?"
"Forse. Ma ho paura che i problemi che ci sono sotto resterebbero.
Ho paura che troveremmo altri pretesti o altri simboli su cui
scontrarci."
Lei lo fissa con la testa inclinata, come se volesse offrirgli un
consiglio o un'opinione, poi invece guarda fuori. Un cartello dice
"La Maison Blanche, cucina casalinga, escursioni a cavallo".
Quando hanno finito di mangiare
sotto il sole tiepido
Quando hanno finito di mangiare sotto il sole tiepido, lui indica
alla signora grassa della locanda i piccoli cavalli grigi nel prato
di fianco, chiede se si può fare un giro. La signora grassa allarga
le braccia, dice "Non è ancora stagione, non sono pronti". Così lui
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paga e si alzano e salutano, camminano lenti verso la macchina sulla
ghiaia chiara.
Poi vanno con i finestrini tirati giù, senza fretta né una
direzione precisa. La strada procede a curve tra i prati bassi e le
canne d'acqua, il motore gira al minimo. A un certo punto gli sembra
di vedere un castoro che nuota in un fosso, ma quando torna a marcia
indietro non c'è più.
Lei dice "Davvero un castoro?".
"Forse era una nutria. O un topo gigante."
Adesso che hanno mangiato gli sembra di avere un'autonomia totale
rispetto allo spazio e al tempo. Non c'è nessun'altra macchina in
giro e l'aria che entra dai finestrini ha la stessa temperatura della
loro pelle; attraversano la distanza senza il minimo sforzo
apparente. Lui tiene il volante con due dita, pensa che una delle
cose che gli vengono meglio è assorbire sensazioni dal mondo a fianco
di una persona a cui vuole bene. Pensa che è questo a cui aspira,
alla fine: un nucleo affettivo autosufficiente con molti percorsi
liberi intorno e zero contatti con il mondo delle continue richieste
meccaniche. Pensa anche a quanto è complicato arrivare a una
situazione tanto semplice; a quanti frammenti bisogna prima mettere
insieme uno dopo l'altro, a meno di non avere proprio niente da
mettere insieme. Due persone ultracivilizzate sedute in un
semifuoristrada giapponese che seguono un percorso casuale in un
parco naturale fuori stagione durante una vacanza, oppure due
selvaggi che camminano a piedi nudi nell'unico territorio familiare
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che hanno. Tutto quello che c'è di mezzo gli sembra un traffico
intollerabile di ingranaggi che triturano attenzione e sentimenti ed
energia mentre trascinano le persone verso obbiettivi irrilevanti e
poi ancora oltre. Eppure è verso quel traffico che tutto tende a
convogliarli, subito fuori dal privilegio sensoriale attraverso cui
stanno fluttuando senza sforzo apparente. Guarda il profilo di sua
figlia che sembra altrettanto assorta, guarda la strada davanti e le
paludi ai lati, e anche se cerca di non pensarci un senso di
provvisorietà gli punge il cuore a intermittenza.
Dice "Ti stufi?".
"No." Scuote appena la testa. "Perché?"
"Così. E' che non si sa mai bene, con te. E' difficile esserne
sicuri."
"Non è vero."
"Non preferiresti mille volte essere con i tuoi amici in città,
invece che qui?"
"No. Ti avevo detto che ci tenevo, a fare questo viaggio."
"Meno male. Anch'io."
Hanno un retroterra di cose fatte insieme, anche: altri viaggi e
periodi passati da soli, libri letti, cibi cucinati, film visti,
storie raccontate. E' da lì che viene il linguaggio non parlato che
gli permette di oltrepassare con facilità la non-comprensione di un
momento. Sono simili: più di quanto sarebbe scontato, e forse più di
quanto pensino loro stessi quando ci pensano. Le loro somiglianze
maggiori vengono fuori in momenti come questo, o quando camminano
attraverso un bosco come due bambini della stessa età che registrano
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le stesse cose nello stesso modo lungo il percorso. Non è un genere
di responsabilità che gli pesa, quella che ha con lei: gli sembra
solo di dover ricalibrare la sua posizione di tanto in tanto, trovare
un punto di equilibrio tra l'essere un complice incosciente e un
padre noioso. Gli viene in mente una volta molti anni prima quando
lei si era messa a piangere per una piccola cosa stupida e lui le
aveva detto "Non essere così infantile, per piacere!" e lei aveva
smesso di piangere e lo aveva guardato improvvisamente perplessa e
aveva detto "Ma papà, ho quattro anni".
Lei dice "A cosa stai pensando?".
"A niente."
Scivolano nel paesaggio senza parlare; si sente quasi solo il
rotolare delle ruote sull'asfalto.
Lui dice "Non hai ancora idea di cosa vorresti fare, dopo la
scuola?".
"No." Scuote la testa, guarda fuori.
"Più che altro sai cosa non vuoi fare, no?"
"Sì."
"E non puoi partire da lì per arrivare a capire cosa vorresti fare?"
"Non so."
"La cardiologa?"
"No."
"La veterinaria?"
"No."
"L'architetta?"
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"No."
"La ricercatrice?"
"No."
"La politica?"
"No."
"L'insegnante?"
"No."
"La musicista?"
"No."
"L'impiegata?"
"No."
"Almeno sai se vorresti un'attività creativa o no?"
"Creativa."
"Indipendente o dentro un'organizzazione di qualche genere?"
"Indipendente."
"Da sola?"
"No."
"Con altri?"
"Sì."
"Quindi non del tutto indipendente?"
"No."
"Non come la mia, per esempio?"
"No. Non credo."
"E c'è qualcosa che ti sembra di saper fare particolarmente bene?"
"Vuoi dire un dono?"
"O almeno una capacità speciale."
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Gli sembra che sia piena di capacità speciali, e di doni; si chiede
se la sua è solo una prospettiva di padre, distorta dall'affetto e
dalla somiglianza.
"Non lo so."
"Va be', prima o poi lo saprai."
"Dici?"
"Prima o poi. Dopo un po' di tentativi e di esperimenti."
"Tu quando l'hai saputo?"
"Non me lo ricordo. Ma mi ricordo molto bene la fase del cosa non
volevo fare. Avevo in testa una serie di immagini da cui tenermi
lontano. Luoghi e attività e persone, no?"
"Da dove ti venivano?"
"Bastava guardarmi intorno, avevo una quantità incredibile di
modelli negativi sotto gli occhi. Mi bastava guardare i miei
professori e i miei compagni e i genitori dei miei compagni e la
gente per la strada e sui tram e nelle macchine. Sapevo che non
volevo essere come loro, a nessun costo."
"Come volevi essere, invece?"
"Non-normale e non-ordinario, non-ragionevole, non-realista. Non.
Questa era la cosa fondamentale. Avrei fatto qualunque cosa, pur di
affermare quel non e rinforzarlo."
"Vale a dire?"
"Non volevo dei capelli normali e non volevo un lavoro normale, non
volevo una casa normale, non volevo una famiglia normale. Non volevo
neanche delle scarpe normali."
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"Che scarpe ti mettevi?"
"Degli stivaletti, e già mi sembrava un'affermazione abbastanza
forte del mio modo di essere. Come i tuoi pantaloni a campana senza
orlo che strusciano per terra, più o meno. Come il collare da cane a
maglie di ferro che si mette il tuo Luca."
"Non è un collare da cane."
"Va be', quello che conta è l'idea. Di essere nell'irregolarità e
nell'avventura. Essere l'eroe di un fumetto mentale che ti fai da
solo, no? E sono immagini senza quasi nessuna base concreta o
verificabile, però vivi di quello."
"Tu che immagini ti facevi?"
"Il pirata e l'avventuriero, l'artista. L'eroe romantico, il genio
incompreso, il guerrigliero, il chitarrista rock."
"E hai provato a diventare una di queste cose?"
"Il fatto è che non sapevo cosa volesse dire, diventare. Non avevo
la minima idea della distanza tra immaginare qualcosa e farlo, né dei
modi per attraversare la distanza."
"E allora?"
"Mi immaginavo e immaginavo le cose, tutto il tempo. Me le guardavo
girare davanti agli occhi, sempre più ricche di dettagli e sempre
meno raggiungibili. Vivevo su un piano parallelo, con contatti
estremamente deboli con il mondo vero."
"Avevi tanti amici, da ragazzo?"
"Molti meno di te. Di solito ne avevo uno, tranne in rari periodi."
"Come mai?"
"Perché avevo un'idea totalmente non-realistica anche
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dell'amicizia."
"Tipo?"
"Un'idea che mi ero fatta sui libri."
"Quali libri?"
"Non so, I tre moschettieri di Dumas. Sai "uno per tutti, tutti per
uno"? Lealtà e complicità e solidarietà senza limiti, di fronte a
qualunque ostacolo o nemico? Essere disposti anche a uccidere o farsi
uccidere uno per l'altro?"
"E invece i tuoi amici reali?"
"Erano molto meno leggendari. Avevano altri ordini di lealtà."
"Vale a dire?"
"Scale di valori automatiche, dove prima dell'amicizia veniva la
sudditanza a genitori e insegnanti e autorità, doveri di ruolo,
consapevolezza di limiti, calcoli di probabilità. Si impaurivano o si
distraevano o si annoiavano, o avevano difetti intollerabili di gusto
o di carattere, avevano altri amici con cui io non avevo niente a che
fare."
"Sempre?"
"Quasi sempre. Sono rimasto terribilmente deluso dagli amici che
trovavo, da bambino e da ragazzo. Era una cosa che mi precipitava
ancora più nell'estraneità e nell'isolamento."
"Davvero?"
"Però senza l'estraneità e l'isolamento è probabile che non sarei
mai arrivato a fare il mio lavoro. Magari sarei finito in un'attività
gregaria frustrante e insignificante, avrei consumato lì le mie
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risorse."
"Sì?"
"E' possibile."
"Sei arrivato al tuo lavoro perché ti sentivi estraneo e isolato?"
"E' stata una condizione determinante. Sai come una strada che
porta in una direzione, e o stai fermo per sempre o la segui fino in
fondo?"
"Sì."
"Del resto anche adesso tutto quello che riesco a fare da solo è il
mio lavoro, o starmene in campagna come un eremita, o viaggiare come
un pazzo senza fermarmi mai. Per tutto il resto ho bisogno degli
altri."
"In che senso?"
"Nel senso che quando sono con altri mi scopro un numero di
attitudini che non so neanche di avere. E' sorprendente, ogni volta.
Mi vengono idee non premeditate una dietro l'altra, gesti di coraggio
o di provocazione, pensieri interessanti, improvvisazioni che fanno
ridere. Divento comunicativo, divento pratico, perfino. Però ho
bisogno sai della rassicurazione di una piccola banda? Anche fatta
solo di due persone."
"Sì."
"Era questo che mi piaceva nell'idea di un gruppo rock. Pochi amici
che si muovono attraverso il mondo del non-scelto e del non-voluto
con la forza di non essere soli."
"E li hai trovati, quando sei diventato più grande?"
"Sì, anche se non erano proprio come me li ero immaginati."
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"Perché?"
"Perché ho scoperto che è molto difficile sognarsi una cosa e
trovarla bella e pronta che ti aspetta, esattamente come la volevi.
Di solito è diversa, almeno in apparenza. Anche parecchio diversa. E
ho scoperto un altro punto essenziale, anche se non è una gran
scoperta."
"Quale?"
"Che un'amicizia va alimentata. Hai bisogno di lavorarci. Hai
bisogno di capirla e indirizzarla, infonderci il tuo spirito e
attivare le tue capacità di ricezione, darle continue ragioni per non
prendere una strada sbagliata o dissolversi per esaurimento di
energia. Non puoi smettere mai."
"Già."
"Sono cose che tu sai benissimo, per fortuna. Alimenti le tue
amicizie molto più di come facevo io con le mie alla tua età."
"Come fai a saperlo?"
"Ho visto come sei con i tuoi amici, da quando avevi tre anni o
quattro."
Lei ride, guarda fuori; lo guarda. Dice "Tu com'eri, a tre anni o
quattro?".
"Una vera carogna" dice lui.
Lasciano il semifuoristrada
vicino a tre colline di sale
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Lasciano il semifuoristrada vicino a tre colline di sale che
brillano nella luce adesso più forte. Salgono a un belvedere di terra
battuta, con una staccionata circolare di legno. Dal mare viene una
traccia di vento sottile, porta odore di salso e fango ed erbe in
lenta fermentazione. Guardano intorno con occhi socchiusi: le colline
di sale e i prati secchi e le acque ferme tutto intorno, gli uccelli
che volano lenti. Lui corre intorno, con le braccia aperte come se
volasse. Ridono tutti e due. Dal cielo si sente il grido di un
gabbiano. In basso, a forse duecento metri da loro, una coppia
solitaria di turisti con macchina fotografica e un cane labrador sta
tornando verso un'automobile rossa parcheggiata a lato della strada.
"Guarda" dice lei.
"E' solo un cane."
"Pensa se ne avessimo uno anche noi, adesso."
"Saremmo rovinati."
"Saremmo felici."
"Non ricominciare, per piacere."
La prende per una mano e la fa vorticare sulla terra battuta del
belvedere, sempre più veloce. Lei grida "Smettila!" ma ride. Il vento
sale e si ferma, tutto gira. Loro barcollano e ansimano e ridono, si
appoggiano alla staccionata di legno. Lei guarda verso la strada: la
coppia con il cane non c'è più, l'automobile rossa è sparita.
Dopo un po' lui dice "Non è un problema unicamente mio".
"Quale?"
"Non riuscire a fare molto da solo. E' che gli esseri umani non
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riescono a fare molto, da soli. Regrediscono verso il nulla con una
rapidità sorprendente, se non hanno una varietà di influenze e
sollecitazioni dai loro simili."
"Verso il nulla in che senso?"
"Verso il nulla. Non verso uno stato primitivo. Basta una sola
generazione, e tornano allo zero assoluto."
"Tipo?"
"Tipo, un essere umano da solo non impara nemmeno a stare dritto in
piedi. Ci sono voluti centinaia di millenni di evoluzione per
arrivarci, e si cancella tutto nel giro di una generazione."
"Come fai a saperlo?"
"Ci sono stati vari casi di bambini abbandonati appena nati nelle
foreste, per esempio. Di uno si era occupato Rousseau, il filosofo.
Nel Settecento."
"Lo so."
"Sì? Del ragazzo-lupo?"
"No, chi era Rousseau."
"Ah. Be', avevano trovato un ragazzo che era stato abbandonato
appena nato in una foresta e adottato da un branco di lupi. Era
sopravvissuto e cresciuto, ma non sapeva stare in piedi e non sapeva
parlare."
"Per niente?"
"Per niente. Camminava a quattro zampe e gli unici suoni che
emetteva erano guaiti e ringhi e mugolii. Non sapeva usare le mani.
Non sapeva sorridere, né aveva espressioni facciali di alcun genere."
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"Forse era ritardato."
"No. Semplicemente non aveva avuto nessun influsso da parte di
altri esseri umani. Il che, con grande sconcerto di chi lo studiava,
dimostrava che niente della nostra fantastica evoluzione è acquisito
in modo permanente. Camminare eretti e usare degli utensili e avere
un linguaggio e una struttura mentale e sociale complessi eccetera.
Sembrano tutte parti essenziali di quello che siamo, no? Invece basta
una generazione senza influssi, e riusciamo solo a produrre guaiti e
ringhi e mugolii."
"Però se uno cresce solo con dei lupi è normale che abbia dei
problemi."
"Ma se invece prendi un lupo e lo fai crescere solo con degli
uomini, sviluppa lo stesso quasi tutti i suoi comportamenti da lupo."
"Diventa un lupo disadattato, comunque."
"Sì, ma non un lupo che non sa camminare sulle quattro zampe né
ululare né arricciare il pelo. Sono cose che ha dentro di sé, come un
bagaglio inseparabile. Oppure prendi un cervo, una pecora, un'anitra,
un pesce, una rana. Prendi l'animale che vuoi e fallo crescere senza
che veda mai un suo simile. Magari avrà dei disturbi di
comportamento, ma non è che non riesca più a camminare o belare o
volare o nuotare o saltare. Quello che la sua specie ha acquisito con
l'evoluzione gli rimane."
"E a noi non rimane niente?"
"No. Non occorre neanche che veniamo abbandonati appena nati in una
foresta. Basta che il nostro stato di normalità artificiale si
interrompa per un po'."
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"Cosa vuoi dire, artificiale?"
"Il mondo che abbiamo costruito. Basta niente, e regrediamo a uno
stato di incredibile incapacità e ferocia. Siamo così orgogliosi o
così annoiati di tutto quello che abbiamo, la luce elettrica e i
giornali e la religione e la musica e i libri e i supermercati e le
scuole e i mobili e le radio e le gallerie d'arte e i detersivi e i
weekend e le serate al cinema. Poi basta una interruzione nel flusso
dell'energia o dei rifornimenti o dell'informazione, e diventiamo
degli esseri barbarici totalmente insensibili, che bruciano e
stuprano e rubano e massacrano e cavano gli occhi e tagliano le
lingue. Basta niente."
"Per esempio?"
"Prendi la storia in qualunque punto. In qualsiasi epoca o luogo,
con qualsiasi pretesto di partenza. Con il mio lavoro ci vivo tutto
il tempo."
"Come nel Medioevo?"
"Ci sono continui medioevi, continui. Dove i campi e i libri e le
statue e le fognature e gli acquedotti vengono distrutti e i
linguaggi si deteriorano e le sfumature si dissolvono e i
comportamenti precipitano all'indietro verso il buio e il freddo e lo
sporco e le macerie e la paura e la precarietà assoluta."
"Ma perché succede?"
"Perché la nostra evoluzione è incompleta, e reversibile in
qualsiasi momento. Perché sotto tutta la complessità apparente,
abbiamo ancora gli stessi identici impulsi elementari di quando
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vivevamo nelle caverne."
"Perché dici abbiamo?"
"Perché qualunque essere umano ce li ha. Anch'io. Non ne parlo da
chissà quale prospettiva distaccata. Ce li avevo già a tre o quattro
anni, quando ero un bambino pieno di aggressività verso chiunque
percepissi come un possibile invasore di territori o rivale in
affetti o competitore per le risorse disponibili."
"Dài."
"Facciamo finta di essere definitivamente e irreversibilmente
evoluti, e non è affatto così. Per questo abbiamo bisogno di leggi
scritte e tribunali e prigioni. Sembrano cose totalmente
anacronistiche, viste da una prospettiva evoluta, no? Invece non ne
possiamo fare a meno, perché c'è un contrasto continuo tra le nostre
aspirazioni dello spirito e i nostri meccanismi legati alla
sopravvivenza."
"Ma è una cosa orrenda."
"Sì. Ed è anche peggio, perché non è solo un contrasto."
"Cos'è?"
"E' che i criteri dell'evoluzione della specie e quelli
dell'evoluzione dello spirito non sono affatto in accordo."
"In che senso?"
"Nel senso che l'evoluzione della specie si basa sulla selezione, e
la selezione si basa su principi che sono inaccettabili per la parte
più alta del nostro cervello."
"Vale a dire la prevalenza del più forte?"
"Dell'aggressivo sul mite, dell'astuto sull'ingenuo, del rapido sul
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riflessivo, del pratico sul contemplativo. Il che da un punto di
vista animale è perfettamente logico, ma da uno spirituale è
abominevole."
"Però l'intelligenza non dovrebbe essere un vantaggio evolutivo
quanto la forza fisica?"
"Sì, ma l'intelligenza nell'evoluzione non è quella che piace a
noi. E' velocità di calcolo, furbizia, opportunismo, capacità di
elaborare strategie efficaci. L'intelligenza morbida e sognante,
fatta di percezioni profonde e generosità creativa e immaginazioni
giocose, non è un vantaggio per la sopravvivenza. E' un handicap."
"Quindi tutte le persone con queste caratteristiche sono state
spazzate via sistematicamente, nel corso della storia?"
"C'è da immaginarselo. A meno che non abbiano trovato un modo di
tenersi lontani dai conflitti. Il che di solito non è nella loro
natura."
"Però siamo riusciti lo stesso ad avere un'evoluzione spirituale,
no? Rispetto a quando vivevamo nelle caverne."
"Siamo andati avanti e siamo tornati indietro, di continuo. Se solo
pensi a cosa è successo nella storia. E se provi a immaginarti cosa
dev'essere successo fuori dalla storia. I milioni e milioni di
sopraffazioni e ingiustizie e delitti morali e spirituali non
registrati da nessuno, o cancellati per sempre da chi li aveva
commessi."
"E oggi?"
"Basta che tu dia un'occhiata ai giornali. Le qualità che
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prevalgono sono ancora l'astuzia e l'aggressività e la velocità di
calcolo. E' ancora il regno degli inseguitori e degli agguantatori."
"E non può cambiare?"
"Forse. Dipende anche da cosa succederà nel rapporto tra gli uomini
e le donne."
"Perché?"
"Perché è probabile che la spinta all'evoluzione spirituale che è
peculiare della nostra specie sia nelle donne. Sono loro che cercano
di trascinarla verso i territori del non-conflitto e del non-attrito
e dell'armonia e dell'equilibrio. Gli uomini sono la forma
primordiale, che aggredisce con le unghie e con i denti e con i
muscoli e con le clave."
"Ma gli uomini hanno anche costruito e inventato e scoperto e
scritto e dipinto quasi tutto quello che c'è."
"L'hanno anche distrutto e rubato e cancellato e strappato e
seppellito, con altrettanta intensità."
"Perché?"
"Perché gli uomini sono prigionieri di un'ossessione meccanica
inarrestabile. Costruire e rompere, mettere insieme e disfare,
coltivare e devastare, aprire e chiudere, riempire e svuotare,
irrigare e bruciare. Come dei bambini miopi e prepotenti con i loro
piccoli secchielli e palette di plastica su una spiaggia."
"Dài."
"Ma è così. Anche nella nostra vita apparentemente lontanissima
dalle origini, quasi tutte le attività maschili si basano su impulsi
di conquista e prevaricazione."
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"Tipo?"
"La politica, la finanza, lo sport, il sesso, quello che vuoi. Sono
tutti esercizi parzialmente stilizzati o parzialmente sublimati di
conquista e prevaricazione. Sono tutti inseguimenti e scavalcamenti e
sfide e minacce e fughe indotte e trionfi celebrati, denti scoperti e
pugni battuti sul petto."
"E le donne?"
"Le donne hanno molto meno bisogno di investire tutte le loro
energie in una lotta continua, contro i loro simili e contro gli
altri animali e contro le cose."
"Perché?"
"Perché hanno molto meno bisogno di accumulare prove del fatto che
esistono."
"Perché?"
"Perché sanno di esistere, credo. Lo sentono. E generano esistenza.
Lasciano meno segni perché sono meno interessate a lasciare segni."
"Però ci sono anche donne che vogliono lasciare segni come gli
uomini, no?"
"Sì. Ci riescono bene, anche, perché sono estremamente adattabili.
Devono fare uno sforzo iniziale contro la loro natura, ma poi ci
riescono bene. E qualunque loro influsso spinge la società degli
uomini in una direzione migliore."
"In che senso?"
"Nel senso di più morbida e flessibile e aperta. Il guaio è che così
diventa anche più vulnerabile."
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"In che senso?"
"Nel senso che man mano che una società si evolve in una direzione
non rozza e non aggressiva e non mascolina diventa una possibile
preda per una società rozza e aggressiva e mascolina che le può
arrivare addosso e farla a pezzi. Anche di questo ci sono infiniti
esempi nella storia."
"Tipo?"
"Tipo, prendi i Minoici che vivevano a Creta. Non avevano neanche
mura o fortezze, erano una società evoluta con una forte componente
femminile. Avevano un senso estetico complesso, amavano
l'architettura e la pittura e la musica, i giardini, gli abiti, le
danze. Poi sono arrivati dal mare gli Ioni che invece erano rozzi e
aggressivi e mascolini, e hanno distrutto la civiltà minoica. Ma puoi
scegliere qualunque altro punto della storia, se vuoi esempi."
"Tipo?"
"Prendi Antonio e Cleopatra."
"Cos'hanno fatto?"
"Antonio era un condottiero romano perfettamente efficace. Sai
l'animo di soldato stolido e concreto? Poi è andato in Egitto e ha
conosciuto Cleopatra."
"L'abbiamo studiato."
"Ma la storia che vi insegnano a scuola è un tale veicolo di luoghi
comuni e ignoranze e distrazioni e distorsioni e imbrogli."
"Lo so. E Cleopatra, allora?"
"Cleopatra era una donna incredibilmente colta e intelligente e
dotata in molti campi. Ha fatto scoprire ad Antonio una dimensione
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della vita che neanche si immaginava. L'Oriente, la musica, l'arte,
l'astronomia e l'astrologia, la biblioteca di Alessandria. Antonio ha
cominciato a leggere e a studiare le stelle e a comporre poesie e a
suonare l'oud e a fumare hashish, è cambiato. E' diventato uno
spirito illuminato, poco alla volta. E a quel punto è arrivato
Ottaviano con il suo esercito romano perfettamente privo di luce e di
femminilità, e ha distrutto l'esercito di Antonio e Cleopatra in due
minuti."
"E Cleopatra si è fatta mordere dall'aspide velenoso?"
"Sì. Poi Ottaviano è diventato Augusto, e ha portato l'impero
romano al massimo dell'espansione e della stabilità, e ha dettato dal
suo punto di vista la storia che vi insegnano a scuola adesso."
"Altri esempi?"
"Ce n'è milioni. Prendi gli abitanti originari della Nuova Zelanda.
Erano così poco interessati ad aggredire o competere con chiunque,
che quando sono arrivati i Maori li hanno massacrati o fatti schiavi
in un istante. Ce n'è milioni, di esempi, se li vuoi cercare."
"Secondo te come sarebbe il mondo, se ci fossero state solo le
donne?"
"E avessero avuto lo stesso il modo di riprodursi?"
"Certo."
"Il che adesso è possibile, tra l'altro."
"Sì?"
"Basterebbe una buona scorta di seme congelato, potreste fare a
meno degli uomini per sempre. E forse non serve nemmeno più quello."
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"Che triste!"
"Sì, però sono poco tristi i mondi di soli uomini? Dove le donne
sono schiavizzate e tenute nascoste e per le strade e nei luoghi
pubblici e dappertutto vedi solo maschi?"
"Tipo?"
"Tipo l'Afghanistan dei talebani bastardi o qualche altro cavolo di
paese fanatico e integralista? Sarebbe bene che anche lì lo
sapessero, con tutte le loro barbe e le loro voci gutturali e le loro
manifestazioni grottesche di mascolinità, che gli uomini non sono più
così indispensabili per la continuazione della specie."
"E qui?"
"Qui sarebbe bene che lo sapessero i pubblicitari e i preti e i
direttori e capiredattori delle riviste e i responsabili delle
televisioni e i produttori e registi di film e tutti quelli che
continuano a comportarsi da magnaccia e da prevaricatori e da
compratori e venditori e addestratori e sbavatori e deformatori di
donne."
"E allora come sarebbe il mondo se ci fossero state solo le donne,
secondo te?"
"Credo non molto diverso da com'era agli inizi. Con qualche piccolo
intervento di adattamento, ma non molto."
"E se ci fossero stati solo gli uomini, e avessero avuto un modo di
riprodursi senza le donne?"
"Si sarebbero sterminati fino all'estinzione da chissà quanto."
"Sì?"
"Da subito, proprio."
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Scendono dal belvedere, camminano verso le colline di sale, oltre
un cartello che dice "Vietato passare". C'è il binario di un piccolo
treno che serve o serviva chissà quando a trasportare il sale verso
un punto di carico.
Lui dice "Ma certo che sarebbe triste da morire, un mondo di soli
uomini o sole donne".
Lei sorride.
Si avvicinano a una delle colline di sale e tutti e due ne prendono
una manciata, annusano con gesti quasi speculari. E' un odore più
complesso di quello di una semplice manciata di sale: echi di
elementi minerali e vegetali e animali, una memoria olfattiva di vita
delle origini. Lo lasciano scivolare tra le dita come polvere di
impressioni, restano fermi qualche secondo e poi senza dire niente
tornano verso la macchina.
Arrivano a un incrocio
e lui gira a sinistra
Arrivano a un incrocio e lui gira a sinistra, per la strada che
corre dritta in direzione del mare.
Lei dice "Però siamo anche diversi da come eravamo agli inizi,
no?".
"Quali inizi?"
"Gli inizi della nostra specie."
"Ah sì. Molto. E non solo perché abbiamo perso i peli e ci si è
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alzata la fronte e ridotta la mandibola. Il nostro cervello è
triplicato di dimensioni, rispetto a quello degli australopitechi."
"Triplicato?"
"Avevano un cervello di quattrocento centimetri cubici. E il bello è
che riuscivano a sopravvivere benissimo. Riuscivano a fare tutte le
cose che fanno gli animali delle altre specie, non ci mancava niente.
Ma poi il nostro cervello ha cominciato a crescere."
"Ed è andato avanti e avanti?"
"Sì. Fino ai milleduecento centimetri cubici che abbiamo adesso in
media. Il che vuol dire in certi casi molto di più. Il cervello di
Byron per esempio era quasi il doppio. Pesava due chili e
duecentotrenta grammi."
"Lo hanno pesato?"
"Sì. Facevano di queste cose. Metà per feticismo romantico e metà
per curiosità scientifica."
"Dài."
"Il nostro cervello è il risultato più incredibile e
contraddittorio della nostra evoluzione."
"Perché?"
"Perché non ci era affatto indispensabile per sopravvivere, e perché
ci ha dato delle capacità di intuizione ed elaborazione che non
sappiamo neanche adesso come usare."
"In cosa è contraddittorio?"
"Nel fatto che la sua parte più antica e quella più recente non si
sono fuse in un insieme armonico. Hanno continuato a coesistere. Il
cervello rettiliano che governa le reazioni primordiali, e i lobi
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frontali ipersviluppati che rendono possibili i pensieri astratti. E'
come avere una tigre nel baule di un'automobile molto sofisticata, più
o meno."
"E come mai?"
"E' una buona domanda. Non lo so."
Lei guarda fuori, non ha un'espressione decifrabile.
Lui dice "Ti sembra strano che mi occupi di queste cose? Ti sembra
l'atteggiamento maniacale di uno che si sposta tra molti passati e
non è quasi mai nel presente?".
"Nel senso che se facessi un altro lavoro ci saresti di più?"
"Perché, ci sono troppo poco?"
"Sei tu che lo dici."
"Me lo dicono."
"Chi?"
"M., per esempio. E credo che almeno in parte abbia ragione. Perché
è vero che il mio lavoro è una buona scusa per non occuparmi delle
cose di ogni giorno. Come se me ne andassi in qualche genere di zona
extraterritoriale, no? Tutto il resto si sfuma. La vita pratica, gli
impegni da assumere e sostenere su una base quotidiana eccetera."
"Non riesci a sostenerli?"
"Tu cosa dici?"
"Non lo so."
"Con te, per esempio? Ci sono riuscito?"
"Sì."
"Sei sicura? Ti ho dato abbastanza tempo e abbastanza attenzione e
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abbastanza affetto e abbastanza informazioni e abbastanza
rassicurazioni?"
"Sì. Non lo sai anche tu, scusa?"
"Io so solo che ci ho provato. Non so se ci sono riuscito. Non so
di quanto avevi bisogno. Magari avevi bisogno di molto di più."
"Ma no."
"Comunque se ci sono riuscito è solo perché ti ho sempre vista come
un impegno straordinario nella mia vita. Credo che sia l'unico genere
di impegno che riesco ad assumere."
"Cosa intendi per straordinario?"
"Non ordinario. Non scontato e non normale. Di nuovo non, lo vedi?
Appena un impegno mi appare in una luce ordinaria, scappo nella mia
zona extraterritoriale."
"Perché?"
"Perché sono fatto così."
Stanno zitti, guardano fuori. Lui si chiede se sarebbe un padre e
una persona migliore, con un lavoro che lo tenesse agganciato al qui
e all'adesso. Gli passano attraverso il cervello alcune immagini
collegate a quest'idea: lui che fabbrica un mobile di legno in un
laboratorio domestico; lui che zappa in un orto; lui che imbottiglia
vino da una damigiana; lui con un cane. Pensa ai rapporti diversi che
potrebbe avere con la vita e con lei se fosse così: ai diversi gradi
di sicurezza che sarebbe in grado di dare e ricevere. Pensa che gli
piacerebbe avere i piedi ben piantati per terra, invece che sospesi
per aria come dice M.; parlare solo a gesti concreti e tangibili.
Eppure è quasi sicuro che non sarebbe più quello che è, se per caso o
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per miracolo riuscisse a cambiare; che il suo modo di essere è un
dato di fatto quanto l'evoluzione non spiegata e in fondo non
necessaria del cervello umano.
Lei dice "Quand'è che sei uscito dalla fase di quello che non
volevi e sei entrato nella fase di quello che volevi?".
"Mai, credo."
"Come, mai? Non avevi detto che era stata una fase?"
"Sì, ma se devo essere totalmente sincero non mi sembra di essere
mai uscito o entrato in nessuna fase. Credo di aver continuato a
scivolare da un'immaginazione non-realistica all'altra, finché una
delle mie immaginazioni non-realistiche per un curioso insieme di
circostanze si è realizzata."
"Vuoi dire il tuo lavoro?"
"Sì. Allora non pensavo che fosse più praticabile di una qualsiasi
delle tante idee che avevo in testa."
"Quando eri a scuola non ci avevi pensato?"
"A scuola all'inizio detestavo la storia. Mi sembrava solo un
elenco di date e nomi e fatti ultraschematizzati da mandare a
memoria."
"Lo è anche adesso."
"Lo so. Tipo "Nel 394 d.C. l'imperatore Teodosio, lasciata
Costantinopoli, marcia contro Eugenio sconfiggendolo presso
Aquileia", no? Magari con una cartina storico-geografica in un
riquadro, e piccole frecce colorate dritte e curve per mostrare gli
spostamenti degli eserciti. Dove le uniche cose da ricordare sono 394
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d.C., Teodosio, Costantinopoli, Eugenio, Aquileia. Come se fosse una
formula matematica o un principio fisico, perfettamente sterilizzato
nella prospettiva chiusa della Storia."
"Anch'io la detesto, la storia. A volte mi ricordo i fatti e mi
dimentico le date, o mi ricordo le date e mi confondo sui fatti."
"Perché non ti dicono niente di cosa c'è dentro. Non ti dicono
della gente ammazzata e delle case bruciate, degli oggetti distrutti
e dei raccolti devastati. O della sensazione di camminare in un bosco
nel 394, o del sapore di una zuppa di allora, della consistenza dei
vestiti, del fondo di una strada. Non c'è nessun colore e nessun
suono e nessun odore, in quei cavoli di libri che vi fanno studiare."
"Zero."
"Il massimo che potete fare è ripetere i nomi e le date per qualche
giorno, come pappagalli ammaestrati finché non vi interrogano. Dopo
di che cancellate tutto."
"E tu come hai fatto a scoprire che invece la storia ti
interessava?"
"Ho scoperto che riuscivo a entrarci. Che riuscivo a sentire il
caldo e il freddo e il peso delle armature e l'andatura dei cavalli.
Riuscivo a sentire le voci e i sapori, la consistenza delle stoffe,
la fatica della distanza. Tutto."
"Come facevi?"
"Mi veniva."
"Ma come?"
"Fin da piccolo i luoghi mi facevano un effetto strano. Come se ci
fossi stato cinquanta o cento o mille anni prima."
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"In che senso?"
"Percepivo cose che non erano lì e che non avevano lasciato tracce
evidenti, di cui non avrei dovuto sapere niente."
"Vuoi dire che avevi una specie di capacità parapsicologica?"
"Chiamala come vuoi. Quello che penso è che siamo dei ricettori, e
che con la razionalità pura non arriviamo a spiegare quasi niente."
"I tuoi cosa dicevano?"
"Mia madre ogni tanto mi vedeva assorto, diceva "Giovanni, sei in
trance?". Ma era così, più o meno."
"Ti succedeva con un periodo storico particolare?"
"No. Poteva essere il Milledue, l'Ottocento, il
Millenovecentotrenta. Andavo in un posto, e le sensazioni del suo
passato mi arrivavano addosso. In certi posti non riuscivo a starci,
tanto erano impregnati di sensazioni negative. In altri mi ci
perdevo."
"E poi?"
"Poi ho cominciato a leggere libri di storia veri. Non quelli della
scuola. Avevo fatto un patto con mia madre, mi comprava tutti quelli
che volevo leggere. Consumavo un libro dietro l'altro, un po' come
fai tu, anche se ero più lento."
"E poi?"
"Ho continuato. Mi documentavo su un periodo, leggevo e raccoglievo
tutto il materiale che c'era, visitavo i luoghi."
"Poi?"
"Poi sono andato all'università. Storia antica. Ma non era molto
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meglio che al liceo."
"Com'era?"
"Sai come camminare attraverso un paesaggio di pagine stampate a
caratteri piccoli con infiniti numeri e nomi, quando invece avresti
voglia di sporcarti i piedi e impregnarti i vestiti e stancarti i
muscoli per le strade di un villaggio vero?"
"Perché?"
"Perché gli storici sono quasi tutti imprigionati in un sistema di
codici, anche loro. In un mondo di carta e inchiostro e nomi e facce
e voci di altri storici. Sono pochi quelli che riescono a venirne
fuori. Ci riescono di più i romanzieri, o quelli del cinema. Ci
riescono di più i fumettisti, madonna."
"Allora cos'hai fatto?"
"Ho cominciato a ibridare quello che studiavo. A studiare anche
antropologia e archeologia ed etologia e tutto quello che riguarda il
comportamento umano e animale, come un vero divoratore di
informazioni. Mescolavo tutto e me lo portavo dietro nei luoghi che
mi interessavano, riuscivo a sentire e vedere e ascoltare e capire
molto di più."
"Quando ti sei messo a scriverle, queste cose?"
"Dopo un po' di anni. Dopo che me n'ero andato dall'università e
dall'Italia e avevo continuato a leggere e a studiare e a fare lavori
diversi per sopravvivere."
"E come hai cominciato?"
"Ho cominciato. Stavo con una ragazza a Londra in un seminterrato,
di mattina lavoravo in un bar e nel pomeriggio scrivevo. Quando non
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lavoravo e non scrivevo andavo allo zoo e al museo di storia naturale
e in biblioteca, prendevo appunti e facevo fotografie e poi tornavo a
scrivere. In sette o otto mesi ho finito I quattro rami, una storia
degli umani e delle altre grandi scimmie."
"L'ho letto."
"Davvero?"
"Sì."
"I quattro rami?"
"Sì."
"Quando?"
"Qualche mese fa."
"E non mi hai detto niente?"
"Volevo dirtelo, ma mi sono dimenticata."
"E l'hai trovato interessante?"
"Sì."
"Davvero?"
"Sì, molto."
"E' il mio primo libro."
"Lo so."
"Madonna, come sei diventata grande. Ogni tanto mi chiedevo quando
avresti potuto leggere le mie cose, ma mi sembrava sempre un'idea così
lontana."
"E cos'è successo quando è uscito I quattro rami?"
"Era stampato da un editore minuscolo di Birmingham, all'inizio non
se n'è accorto quasi nessuno. Poi sei o sette mesi dopo non si sa
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come ne è arrivata una copia a una rivista cattolica italiana che ci
ha scritto sopra un pezzo virulento. Questo ha attirato un po' di
attenzione sul libro, ho cominciato a ricevere qualche richiesta di
traduzione."
"E sei diventato famoso?"
"No. Ci sono voluti altre tre libri, prima di avere un vero
pubblico. C'è voluto L'anello saltato. Non dirmi che hai letto anche
quello."
"No, ma l'ho visto, nella libreria della mamma."
"Sì?"
"E gli storici cosa dicevano?"
"Gli storici e gli antropologi erano quasi tutti ostili o
perplessi, perché non rientravo strettamente in nessuno dei loro
campi ed ero fuori dai circuiti accademici e dalle basi nazionali, e
perché seguivo un metodo eccentrico."
"Cosa dicevano?"
"Hanno continuato a lungo a trattarmi come un divulgatore azzardato
che creava suggestioni facili, fino a quando qualcuno è venuto fuori
con la formula del "metodo percettivo". Così anche nel mio caso è
stata questione di trovare un nome, alla fine. Una volta trovato il
nome, le cose sono andate più o meno a posto."
"E quando hai potuto vivere del tuo lavoro?"
"Da L'anello saltato in poi, più o meno. Ma non l'ho neanche
considerato un lavoro, a lungo. Era solo una cosa che mi appassionava
e a cui non avrei mai rinunciato. Il che dimostra che non è che uno
proprio decida sempre cosa vuole fare, nella vita."
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"No?"
"Non sempre, almeno. A volte uno si trova a farla, e basta. Un
giorno si guarda intorno, e si accorge che il suo lavoro è quello.
L'importante è non limitarsi a immaginare di poter fare solo cose
realistiche, in base alle richieste del mercato o al parere degli
esperti. L'importante è non farsi imprigionare da calcoli di
probabilità."
"Già."
"Mi fa uno strano effetto pensare che hai letto I quattro rami. E
neanche me lo dicevi, bastarda."
Lei ride. Sui due lati della strada si vedono a intervalli di
qualche centinaio di metri alcune costruzioni basse e bianche con
tetti di paglia, cartelli che dicono "Albergo" e "Passeggiate a
cavallo". Sono quasi tutte chiuse, solo due o tre hanno le finestre
aperte e alcuni cavalli grigi legati in posta o in circolo attorno a
un basso muretto circolare. Le guardano mentre passano oltre.
Lui dice "Vogliamo provare qui?".
"Boh."
"Quello là?"
"Non so."
"Vediamo ancora più avanti?"
"Sì."
I loro sguardi raccolgono scie di impressioni. Seguono ancora la
strada per qualche chilometro, poi lui gira a una rotonda subito
prima del paese e torna indietro. La guarda e lei fa di sì con la
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testa: un altro caso in cui non hanno bisogno di parole per
comunicare.
Due SMS
Da: Giovanni
Ore: 17.55
Non rispondi. Arrivati Saintes Maries. Hotel di campagna deserto.
Ti piacerebbe. O forse invece lo troveresti scomodo. Un bacio. G.
Da: Giovanni
Ore: 19.30
Noi andiamo in paese a mangiare. Non capisco se hai staccato
apposta o cosa. G.
Mangiano gamberoni
che sanno di formaldeide
nell'unico ristorante aperto
Mangiano gamberoni che sanno di formaldeide nell'unico ristorante
aperto, lui beve birra e lei acqua minerale. Oltre al loro ci sono
solo due altri tavoli occupati: una famiglia con tre bambini tutta
vestita da yacht e una coppia di americani sulla sessantina molto
assorti nel vino rosso che hanno nei bicchieri. C'è un chitarrista
che suona in stile flamenco-pop su una base registrata. Si sposta
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verso i tavoli per quanto glielo consente il cavetto elettrico della
chitarra amplificata, guarda nel vuoto e segue il ritmo con movimenti
pelvici, muove le dita sulla tastiera per produrre a grande velocità
cascate di note già sentite.
Lei dice "Perché hai detto che eri una carogna, da bambino?".
"Perché lo ero."
"In che senso?"
"Avevo dei grossi problemi nei confronti del mondo."
"Vale a dire?"
"Di tutto quello che avevo intorno, più o meno."
"Perché?"
"Lo sai che quando eri piccola avevi questo stesso identico modo di
chiedermi "Perché?"? Me lo chiedevi a proposito di tutto."
"Tipo?"
"Per esempio ti dicevo "Non ti avvicinare troppo al camino", e tu
mi guardavi molto seria e dicevi "Perché?"."
"Non con quella voce orrenda."
"Non era orrenda. Dicevi "Perché?"."
"Smettila!"
"Io dicevo "Perché ti scotti", e tu dicevi di nuovo "Perché?"."
"Non avevo quella voce!"
"Io dicevo "Perché il fuoco brucia", tu dicevi "Perché?". Andavi
avanti fino a mettermi con le spalle al muro."
"E tu?"
"Ero costretto a entrare in spiegazioni troppo tecniche per la tua
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età, o restavo senza spiegazioni. Non sapevo più cosa dirti."
"Esaurivi i nomi."
"Sì."
"E cosa mi dicevi, allora?"
"Dicevo "E' così e basta!"."
"E io?"
"Tu dicevi "Perché?"."
"Smettila di farmi parlare in quel modo esasperante!"
"Ma eri esasperante. Con quello sguardo estremamente focalizzato.
"Perché?""
"Dài!"
Gli dà un colpo sulla spalla con la mano stretta a pugno. Ridono.
Lui risponde con due o tre piccoli colpi rapidi alle costole. Lei ne
blocca uno, gli stringe il polso tra le dita sottili ma forti.
Ridono. Lui si libera con uno strappo, rovescia metà bicchiere di
birra sulla tovaglia. Ridono. Un cameriere viene subito a tamponare
il bagnato e la schiuma con un tovagliolo; loro due cercano di star
seri ma ridono ancora.
Mangiano l'insalata, e non è buona neanche quella. La coppia di
americani contemplatori di vino rosso non si scambia una sola parola,
il padre della famiglia vestita da yacht continua a dare istruzioni
di vita ai figli mentre la madre fa di sì con la testa e guarda nel
vuoto.
Lei dice "Perché eri così aggressivo, da piccolo?".
"Perché?"
"Dài. Perché?"
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"Perché ero un tipo di piccolo selvaggio, pieno di ostilità
naturale."
"Ostilità verso tutti?"
"Quasi tutti."
"E perché?"
"Perché?"
"Smettila. Rispondi."
"Non lo so. Forse avevo accumulato delle forti ragioni di
risentimento in qualche vita precedente, o forse erano solo
meccanismi di difesa."
"Da cosa?"
"Dallo scenario nel suo insieme. Non sembrava fatto per suscitare
in nessuno sentimenti molto positivi. L'appartamento dove vivevamo e
la città e il paese intero per come potevo percepirlo. Era tutto così
spaventosamente monocromo, grigio su grigio e sgradevole su
sgradevole. Aria sgradevole e temperature sgradevoli e materiali
sgradevoli e attività sgradevoli e rapporti sgradevoli e ruoli
sgradevoli e suoni sgradevoli, facce sgradevoli, vestiti sgradevoli,
canzoni sgradevoli alla radio dei vicini di casa. Da mettersi a
urlare e mettersi a correre, mordere qualunque mano cercasse di
fermarti."
"Ma non dicevi che uno si adatta in modo quasi automatico ai
difetti del luogo dove nasce?"
"Non nel mio caso. Il che dimostra che qualunque teoria tu riesca a
costruire, c'è sempre un caso che te la smonta, e spesso ce l'hai
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proprio sotto gli occhi."
"Come la tiravi fuori, la tua ostilità?"
"Moralmente e fisicamente."
"Tipo?"
"Tipo, rispondevo in modo orrendo agli amici dei miei che mi
parlavano in bambinese per gentilezza. Bruciavo e danneggiavo oggetti
in casa d'altri. Prendevo a botte bambini con cui avrei dovuto
giocare, li spingevo giù dalle scale."
"Quando?"
"Tra i tre e i cinque anni, credo. Prima della scuola."
"Litigavi selvaggiamente con tutti i bambini?"
"Con i maschi. Con le bambine andavo molto più d'accordo, non c'era
paragone. Mi interessavano molto di più. Con i maschi ero come un
cane rissoso: mi bastava che me ne mettessero uno vicino e lo
aggredivo al minimo pretesto, o mi comportavo in modo tale che lui
aggrediva me."
"Perché?"
"Mi sembravano ottusi e rozzi, non mi interessavano."
"E con le femmine invece?"
"Dalle femmine ero affascinato."
"Cosa ti affascinava?"
"Il loro modo di pensare e il loro modo di parlare, il loro modo di
muoversi. L'aura di sottile ombra o mistero che c'era sempre intorno
a quello che facevano. Mi affascinava il contatto fisico
intermittente, la differenza di timbro delle nostre voci. Avrei
passato tutto il tempo con loro, in un gioco continuo di studio e di
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corteggiamento."
"E invece?"
"Invece all'inizio del secondo anno delle elementari il direttore
della scuola ci ha riuniti e ha fatto un lungo discorso su come i
maschi crescendo sarebbero diventati poco a poco degli ometti e le
femmine delle donnine e i loro interessi e le loro attitudini si
sarebbero differenziati sempre più, dunque a cominciare da subito
saremmo stati messi in classi divise per sesso."
"Così?"
"Sì. Era un bastardo alto e magro e maniacale che doveva
considerarsi una specie di incarnazione dell'autorità. Ogni mattina
ci riuniva tutti sotto gli archi di un porticato e ci raccontava un
episodio agghiacciante di cronaca nera che avrebbe dovuto avere una
funzione educativa, in senso deterrente o emulativo."
"Tipo?"
"Tipo di qualcuno che era finito sotto un tram perché non aveva
guardato bene a destra e a sinistra prima di attraversare la strada.
Una volta ci ha raccontato di un radiologo che a furia di assorbire
radiazioni aveva dovuto farsi tagliare via le braccia. Alla fine di
ogni discorso faceva mandare una registrazione dell'inno nazionale
attraverso gli altoparlanti, e tutti dovevamo toglierci il berretto e
metterci sull'attenti."
"E tu?"
"Io una volta non mi sono tolto il berretto, per puro odio verso
tutta la cerimonia e quello che implicava, e il direttore è venuto
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personalmente a sgridarmi. Mi ricordo ancora la sproporzione
incredibile tra le nostre due altezze: lui vestito di grigio che mi
sovrasta e mi agita contro un dito lunghissimo e dice in un tono
terribile "Ci si toglie il cappello quando si ascolta l'inno
nazionale!"."
"E tu?"
"Io faccio finta di non sentirlo, non assumo nessuna espressione e
non rispondo niente e non mi tolgo il berretto finché non me lo
strappa via lui."
"Ha!"
"Ma se avessi avuto una pistola, gli avrei sparato."
"Così dalla seconda elementare in poi sei stato in una classe di
soli maschi?"
"Sì. Sul momento non avevo capito bene le implicazioni della
faccenda. Poi è stato come ritrovarsi in una prigione senza avere
commesso nessun delitto specifico, almeno non uno di cui riesci a
ricordarti."
"Com'era?"
"La desolazione pura. Odiavo i miei compagni, le loro facce e le
loro voci e il loro odore, qualunque loro manifestazione mentale o
fisica, anche minima. Le femmine le vedevamo soltanto nei corridoi,
quando la nostra fila che marciava in stile militare e batteva il
passo a tempo si incrociava con una delle loro file. Ci guardavamo
mentre scorrevamo oltre, e tra noi c'era una distanza sempre più
grande, che continuava a crescere mese dopo mese e anno dopo anno."
"E litigavi sempre con i tuoi compagni?"
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"No. Cercavo di averci a che fare il meno possibile. Li osservavo
da lontano mentre giocavano a pallone nei cortili di cemento o
confrontavano le loro collezioni di figurine di calciatori o
parlavano di qualcosa che avevano visto alla televisione. Non c'era
niente che mi interessasse, di loro. Non c'era niente di sorprendente
o suggestivo o anche solo curioso. Qualunque cosa facessero era
basata su meccanismi del tutto prevedibili."
"Tipo?"
"Alla base di tutto c'era l'identificazione di uno schema
gerarchico. La competizione per scoprire a che livello della scala
uno potesse stare. Dopo di che erano presi da occupazioni puramente
meccaniche, reiterate fino all'ossessione. Il calcio era una
rappresentazione così perfetta della loro natura! Il modo che avevano
di parlarne e di pensarci, di memorizzare i nomi dei calciatori e le
formazioni delle squadre e i punteggi delle partite, anche a ritroso
negli anni. Li detestavo."
"E dopo le elementari?"
"Ho fatto altri tre anni di segregazione alla scuola media. Quando
ho avuto tredici anni e ho ricominciato a vedere delle ragazze, avevo
perso qualunque genere di familiarità con loro. Di colpo c'erano
resistenze spaventose da vincere, differenze di codici e segnali
impossibili da decifrare. Un solo gesto o una parola per attraversare
la distanza costavano una fatica incredibile."
"Ma poi al liceo eravate misti di nuovo, no?"
"Sì. Mi ricordo che il primo giorno quando sono entrato in classe e
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ho visto le mie compagne, mi è sembrato che fossero tutte bellissime.
Tutte. In realtà ce n'erano solo due abbastanza carine, ma ci ho
messo qualche settimana a rendermene conto."
"E il direttore delle elementari?"
"Sarà morto da un pezzo. Ma ho ancora un risentimento
incredibilmente vivo per lui, brutto porco bastardo."
Ridono di nuovo, si guardano intorno tra i festoni di carta e le
lanterne e le aragoste finte e i veri gusci di granchio appesi al
soffitto e alle pareti. Il chitarrista va avanti con le sue scale
flamenco-pop sulla brutta base registrata: sembra che lo faccia un
terzo per i soldi, un terzo per ambizione repressa, e un terzo per
compulsione maniacale. I due americani fissano i loro bicchieri,
muovono le labbra in modo appena percettibile. La famiglia vestita da
yacht raccoglie giacche e borse e si avvia verso l'uscita in
formazione organizzata, con il bambino più piccolo che trascina i
piedi e i due più grandi che imitano l'andatura del padre.
Lui dice "Uno passa la prima parte della sua vita in uno stato di
sbalordimento. A cercare di capire dov'è capitato e quali sono le
regole del gioco".
"Io com'ero?"
"Sbalordita. Con una parte perplessa e una parte attenta, una parte
divertita."
"Da cosa?"
"Da quello che vedevi. Le persone e le cose, i luoghi. A volte
seguivo il tuo sguardo e i tuoi gesti per ore, mi sembrava di entrare
sulla tua lunghezza d'onda. Sai la dii-laa-taa-zioo-nee totale? Un
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minuto che si allarga e allarga come una mongolfiera gonfiata dal
nulla, fuori da qualunque scala per misurarlo?"
"Facendo cosa?"
"Qualunque cosa. Giocando con delle biglie di vetro. Guardandoti
intorno in un prato."
"Mi ci perdevo?"
"Sì. E anch'io a guardarti. Mi ricordo una volta che stavamo
tornando in città dalla campagna, ed ero tutto concentrato sul
percorso e sul traffico e sulla velocità e sul rapporto tra ora di
partenza e ora di arrivo e tutto il resto, e a un certo punto ci
siamo fermati in uno slargo a lato della strada per farti fare la
pipì, e tu hai visto delle pecore su una collina poco oltre, hai
detto "Awda"."
"Come ho detto?"
""Awda." Per dire "Guarda", non avevi ancora imparato a parlare
bene."
"Ha!"
"Ma eri incantata dalle pecore, incantata. C'era una luce calda del
pomeriggio, le faceva sembrare estremamente bianche sul verde molto
intenso del prato. Io ti guardavo mentre le guardavi, e di colpo
twam, le ho viste nel tuo stesso modo. Da un istante all'altro ero
anch'io fuori dalla catena di azioni e preoccupazioni meccaniche di
un istante prima. Fuori dal tempo, fuori da tutto."
"E la mamma?"
"Anche lei. Eravamo persi dentro la luce e i colori e le forme. I
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passaggi delle macchine dietro di noi sembravano venire dalla
periferia estrema dell'universo."
"Come fumare dell'erba forte."
"Sì, senza fumare niente."
"E dopo il periodo dello sbalordimento, cosa succede?"
"Uno cerca di capire chi può essere."
"Vale a dire?"
"Cerca di capire che attitudini o qualità gli sono capitate, e che
uso ne può fare rispetto al mondo. Cerca di capire che dotazione di
base ha esattamente, no?"
"E come fa, a capirlo?"
"Fa delle prove, di fronte allo specchio e di fronte alle persone.
Canta nel bagno, salta intorno, allunga le mani, costruisce discorsi,
corre lungo i marciapiedi. Prova vestiti e tagli di capelli, scarpe,
espressioni, toni di voce. Saggia le sue possibilità, no? Sonda i
suoi limiti, prova a vedere se c'è un modo di superarli o se invece
sono delle barriere fisse."
"E c'è un modo?"
"Non ti bastano le prove che riesci a fare in una stanza, per
scoprirlo. Così fai delle prove fuori, prima con persone che ti
conoscono bene e poi con altre che ti conoscono meno, alla fine con
persone che non ti conoscono affatto."
"E ti basi sulle loro risposte?"
"Aggiusti il tiro, fai altri tentativi."
"Ma c'entra anche il carattere, no?"
"Certo. Alcuni fanno magari un paio di tentativi e gli va male, e
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ci rinunciano per sempre. Altri invece non si danno per vinti, vanno
avanti e avanti finché ci riescono."
"E uno dovrebbe andare avanti e avanti?"
"Dipende. Ci sono alcuni che vanno avanti e avanti e alla fine non
hanno nessuna risposta lo stesso."
"E dopo il secondo periodo?"
"Il tuo rapporto con il mondo è stabilito. Anche il tuo rapporto
con te stesso. Hai un certo carattere e certe qualità, un certo
atteggiamento rispetto agli altri eccetera. E da lì in poi non cambi.
Da lì in poi fai delle cose. Gli altri ti conoscono per come le sai
fare, basta. Hai finito di lavorare su di te."
"E non potresti continuare, invece?"
"Sì che potresti. Ma non è facile, e mette a disagio gli altri. Li
sconcerta, gli rende più difficile il lavoro di classificazione e
archiviazione. E anche a te sembra che ci siano cose più importanti e
utili, a quel punto. Ti sembra di essere arrivato in fondo al viaggio
di esplorazione di te stesso, di esserti trovato in modo definitivo.
Hai tutte le tue mappe geografiche, tutte le tue fotografie
dall'alto. Non c'è più da cercare nessun confine."
"E tu?"
"A volte mi sembra di conoscermi abbastanza bene. A volte se penso
a quel pomeriggio che ci eravamo fermati a guardare le pecore ed
eravamo usciti dal tempo, mi sembra di non sapere quasi niente. Né di
me, né di nient'altro."
Il chitarrista smette di produrre le sue cascate di note, spegne la
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base registrata e l'amplificatore, si gratta il collo e si
sgranchisce le gambe. Va verso il retro del ristorante a farsi dare
una birra, parla nella penombra con il gestore e con il cameriere.
Lui dice "Ce ne andiamo?".
Un SMS
Da: Giovanni
Ore: 23.45
Ancora non raggiungibile, e a casa non ci sei. Va be', ciao G.
Esce perché non ha sonno
né voglia di leggere
Esce perché non ha sonno né voglia di leggere. La notte è umida e
senza stelle né luna, illuminata solo dai piccoli fari intorno alla
piscina vuota e dalla luce calda che filtra attraverso la tenda
gialla della finestra di lei. Lui bussa alla porta; lei dice "Entra".
E' a letto, concentrata sul suo romanzo sudamericano, lo abbassa
solo dopo qualche secondo.
Lui osserva le leggere differenze tra le loro due stanze: la
disposizione dei pochi mobili, l'angolo della porta del bagno. Dice
"Bello, il libro?".
"Così."
"Un po' di genere?"
"Un po'."
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"Saghe familiari e folclore latino e paesaggi esotici e populismo e
magia?"
"Sì, ma neanche tanto brutto."
"Non hai sonno?"
"Mediamente. Tu?"
"Mediamente."
"Hai litigato con M.?"
"Non sono neanche riuscito a parlarle. A casa non risponde, il
cellulare è staccato."
"Vedrai che ti chiama lei."
"Sì, certo."
Guarda la rete metallica antizanzare alla finestra, per quando la
stagione diventa davvero calda e le acque ferme fermentano di vita
palustre. Guarda la valigia di lei: le calze e le magliette e i
dischi e i golf sparsi in ogni angolo della stanza come per
un'esplosione, apparentemente impossibili da rimettere in ordine.
Dice "Oggi, quando mi hai detto quella cosa dell'erba".
"Quale cosa?"
"Che le tue percezioni extratemporali ed extraspaziali da bambina
erano come l'effetto di un'erba forte."
"Eh. Mi dava l'idea."
"Volevo chiederti, voi fumate tutto il tempo come dei pazzi, quando
non siete a scuola?"
"Noi chi?"
"Tu e Luca e i vostri amici. Passate i pomeriggi alla deriva
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lontani dal mondo?"
"Ma va. Cosa ti viene in mente?"
"Te lo chiedo."
"Ma no."
"Be', l'ho sentito l'odore, quel pomeriggio che sono passato a
trovarti a casa tua ed eri con Marco o Mario o come si chiama."
"Sarà stato tabacco."
"Non era tabacco. E lui aveva gli occhi rossi e le palpebre a
mezz'asta, quando parlava non riusciva a staccare la lingua dal
palato."
"Non metterti a fare l'apprensivo, adesso."
"Ma è normale che mi preoccupi."
"Perché?"
"Perché sì."
"Guarda che ho letto la parte de I quattro rami dove parli
dell'esperienza dionisiaca e di come fa parte della ricerca
spirituale eccetera. E le cose che dicevi di Antonio e Cleopatra?"
"Sì, ma sono tuo padre. Non puoi aspettarti che ti incoraggi in
queste cose."
"E chi ti chiede di incoraggiarmi?"
"Non puoi neanche chiedermi di non dirti niente."
"Preferiresti che fossimo dei perfettini falsettini con i vestiti
firmati e i motorini lucidi e l'abbronzatura a lampada che poi si
riempiono di pillole in discoteca il sabato sera?"
"No. Ma anche fumare hashish ha dei rischi potenziali, quando sei
in una fase in cui il senso delle cose è già molto sfuggente."
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"E quali sarebbero?"
"Che il senso ti sfugga del tutto. Che si dissolva e ti lasci in
mezzo a un mondo completamente estraneo e incomprensibile."
"Perché?"
"Perché è un mondo abbastanza del cavolo, quello che abbiamo
intorno. Tutto intessuto di attività e rapporti e ritmi e materiali e
codici e sottocodici così altamente innaturali. Non ci vuole molto, a
trovarlo estraneo e incomprensibile. Non ci vuole molto a staccare i
contatti, se sei in una fase in cui già ne hai pochi."
"E se sei più grande invece no?"
"Se sei più grande corri meno il rischio di andare alla deriva,
forse."
"Forse?"
"Sai qualcosa di più sul mondo, e qualcosa di più su di te. Se vai
alla deriva lo fai per una scelta consapevole."
"E se fumare ti aiutasse a sapere qualcosa di più su di te?"
"Fumare hashish non è in sé una cosa creativa."
"Grazie tante, signor de La Palisse."
"Ci sono certi vecchioni sui monti del Marocco che se lo fumano con
lo stesso identico spirito non-espanso con cui un abitante del
nord-est italiano beve la sua grappa in un bar. Non è che ti regali
delle qualità che non hai, l'hashish."
"Però ti può far vedere delle cose."
"Ma puoi arrivarci anche senza. Quando avevi due anni andavi molto
oltre, senza bisogno di fumare proprio niente."
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"Va be', e allora perché tu fumi?"
"Solo ogni tanto. Un po' di erba naturale, senza tabacco. Se c'è, e
se sono in una situazione che mi piace."
"Ma lo fai."
"Va be', perché posso permettermi di staccare i contatti con il
mondo, a questo punto. Posso permettermi di non crederci per niente,
perfino. Di vedere tutta la corsa affannosa verso gli obbiettivi e i
risultati come un gioco patetico da topi addestrati."
"E noi?"
"Voi dovete ancora farvi anni di scuola e memorizzare migliaia di
dati e poi scoprire delle capacità e degli interessi e inventarvi
un'attività e costruirvi una vita e forse anche altro."
"E se non ne avessimo nessuna voglia? Se vedessimo anche noi tutta
la faccenda come un gioco patetico da topi addestrati?"
"Appunto. E' questo il rischio."
"Sei incoerente."
"Non sono incoerente. E' la mia posizione, incoerente."
"Ah sì?"
"Sì. Poi non è affatto scontato che fumare cannabinolo sia una cosa
bella. E' come con il sesso. Perché sia una cosa bella richiede una
grande quantità di elementi, in buona parte non replicabili a
comando. Può essere divertente e può essere piacevole o spiacevole e
può essere una rivelazione e può non essere niente. L'importante è
non farti vendere l'idea che una cosa sia automaticamente bella,
qualunque sia."
"Lo so."
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"I modi di reagire sono così diversi di persona in persona, per
quanto accanitamente si cerchi di standardizzarli. Ci sono tipi con
una pelle mentale di rinoceronte che gli permette di sopportare
qualunque sollecitazione senza oscillare di un millimetro, e tipi a
cui basta fumare foglie di tè per perdere l'equilibrio. E di solito
sono loro che hanno la sensibilità più ricca."
"Lo so."
"Una volta tanti anni fa ho fumato dell'erba ultraconcentrata che
aveva portato un mio amico dalle Hawaii, e a un certo punto mi è
venuta una forma di autentica dissociazione. Ero in una grande casa
di campagna di tipi che conoscevo, un ex monastero spoglio e gelido,
e di colpo mi è sembrato di non sentire più niente in modo diretto,
mi vedevo e ascoltavo da fuori. E il senso delle cose se n'era
andato. Tutti i codici perduti. Guardavo una sedia, e non capivo cosa
cavolo significasse."
"Sul serio?"
"Sì. Mi è venuto un panico terribile, anche perché gli altri erano
lì intorno che ridevano e fumavano e bevevano come se niente fosse,
compresa la mia ragazza."
"E come hai fatto?"
"Sono rimasto dissociato per tutto il giorno e la notte e il
mattino dopo, e stavo da cani. Mi guardavo allo specchio e non mi
riconoscevo, mi davo degli schiaffi sulle guance e non sentivo
niente, parlavo e la mia voce sembrava a una distanza incredibile.
Poi ho pensato, va be', tanto vale sapere che sono dentro un sogno
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comunque. Che niente di quello che sembra reale è reale, pazienza."
"E sei stato meglio?"
"Sì, poco alla volta mi sono tornate le sensazioni e il senso delle
cose. Ma non è stato bello per niente."
"Però è stata un'esperienza interessante?"
"Sì, ma non bella. Il fatto è che il fumo è solo un attivatore.
Smuove delle capacità di percezione e di elaborazione che abbiamo
dentro di noi e che non sappiamo di avere."
"Sì."
"E' per questo che bisognerebbe trattarlo come un'esperienza
complessa. Se lo si fa come si potrebbe accendere una sigaretta di
tabacco dietro l'altra, o stare seduti a un tavolino di bar a bere
grappa, non c'è verso di scoprire proprio niente."
"A te cosa è capitato di scoprire?"
"Varie cose sul tempo e sullo spazio. O sul passaggio dalle
sensazioni ai pensieri e viceversa."
"Ah."
"Comunque la cosa ridicola è che fumare hashish o erba sia ancora
illegale. E' un'incredibile idiozia anacronistica."
"Sì."
"E quelli che si accaniscono di più a mantenerlo nell'illegalità lo
fanno essenzialmente perché non vogliono interferenze con le loro
tecniche di controllo e manipolazione. Non vogliono sbalzi percettivi
o estraniamenti nel mercato di zombie che lavorano e votano e
comprano qualunque cosa gli rovescino addosso attraverso la pubblicità
e la televisione e i giornali e la radio."
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"Quindi non hai nessuna ragione di preoccuparti per me."
"Ho un milione di ragioni di preoccuparmi per te. Non c'è limite,
alle mie ragioni di preoccuparmi."
"Che scemo."
"Che scema tu."
"Ho sonno."
"Di già?"
"E' mezzanotte e mezza, e siamo stati in giro tutto il giorno."
"E' per questo che ero venuto a vedere. Ho visto la luce accesa."
"Leggo ancora due pagine e dormo."
"Non volevo fare il noioso, prima. Volevo solo parlare."
"Hai fatto bene."
"Però mi vengono sempre un po' goffe, questo tipo di conversazioni."
"Sì."
"Come quando un paio di anni fa avevo cercato di dirti qualcosa
sulle precauzioni da prendere con il sesso, e tu mi avevi detto "Ma
papà, a che cretina disinformata credi di parlare?"."
"Ha!"
"Mi ero sentito un tale idiota, madonna."
"O come quando cerchi di spiegarmi come dovrei impegnarmi a scuola."
"Lo so. Ma sarebbe ancora peggio non provare neanche a parlarne,
no? Scivolare dentro e oltre le cose senza dire niente."
"Sì."
"Anche se poi i consigli non servono mai."
"Perché?"
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"Perché non sono mai serviti a me. O forse mi sono serviti, ma
dopo. Dopo che le cose erano successe."
"E prima?"
"Prima li vedevo sempre come tentativi di smorzare entusiasmi e
ingenuità da parte di persone che ne erano prive. Mi sembrava sempre
che ci fosse un tipo spento e anche astioso di saggezza, nei
consigli."
"Ma ci sono casi in cui possono servire, secondo te?"
"Forse se sono molto specifici."
"Tipo?"
"Tipo, se uno ti spiega le mosse precise da fare quando uno squalo
ti punta addosso, invece di sommergerti di considerazioni generiche
sugli squali e su come evitarli."
"Tu ne hai avuti, di consigli di questo genere?"
"Non molti."
"E non ne hai mai tenuto conto?"
"Ti ho detto, dopo che le cose erano successe."
"Quando ormai non ti servivano più?"
"Quando mi servivano a capire meglio cos'era successo."
"E altre volte?"
"Altre volte erano consigli sbagliati. Almeno per me."
"In che percentuale erano giusti o sbagliati? Più o meno?"
"Cinquanta-cinquanta."
"Per esempio, un consiglio giusto che ti hanno dato?"
"Di fare subito le cose che vorresti fare, perché non è affatto
detto che ti capiti una seconda occasione. Ma è un consiglio tra i più
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difficili da mettere in pratica."
"E uno sbagliato?"
"Quello che mi ha dato un agente quando gli ho portato il
manoscritto del mio secondo libro."
"Dalle torri merlate?"
"Sì. Quello sul Medioevo."
"Ho visto anche quello sugli scaffali della mamma."
"Comunque, era uno dei più importanti agenti inglesi. Una specie di
vecchio pirata, studiava il mondo dell'editoria da una sua torre di
osservazione e decideva le strategie."
"E cosa ti ha detto?"
"Mi ha detto "Si trovi un lavoro all'università o in un giornale,
ragazzo, perché il mercato dei libri di storia è già completamente
saturo e comunque non c'è spazio per un italiano"."
"E tu ci sei rimasto male?"
"Un po'. Ma sono uscito dal suo ufficio totalmente deciso a
dimostrargli che non era vero."
"E quando gliel'hai potuto dimostrare, cos'ha detto?"
"Niente. Era già morto."
"Un esempio di consiglio molto specifico che ti è stato utile?"
"Quando qualcuno mi ha spiegato i principali accordi maggiori e
minori su una chitarra."
"Ma quello non è un consiglio, sono istruzioni pratiche."
"E' vero. Però il confine tra consigli molto specifici e istruzioni
pratiche è estremamente sottile."
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"E le istruzioni pratiche secondo te sono da prendere per buone in
ogni caso?"
"Dipende da chi te le dà. E da chi sei tu. Nel mio caso, ho la
tendenza a provare comunque altre strade, se ce n'è."
"Tipo?"
"Tipo quando andavo in prima elementare non sapevo ancora farmi i
nodi alle scarpe, e una maestra mi ha spiegato con infinita pazienza
come fare. Ma non riuscivo a capire. Sono sempre stato un imparatore
lento. Così mentre ci provavo e riprovavo ho scoperto un altro tipo
di nodo che mi veniva meglio e funzionava altrettanto bene."
"Quello doppio che hai insegnato a me?"
"Sì. Ma ho visto che non lo usi più."
"Perché ho scoperto che quello normale mi veniva meglio, e che
funzionava altrettanto bene. Dimmi il miglior consiglio che hai mai
avuto per il tuo lavoro."
"Non è un vero consiglio. E non è solo per il mio lavoro. E' una
considerazione di un vecchio regista a cui avevo fatto da consulente
per un film sul Settecento, tanti anni fa. Aveva detto "Non mi faccio
mai proiettare giorno per giorno il materiale che ho girato, perché
se no rischierei di fare il film che sto facendo"."
"Vale a dire?"
"Che le cose che ti immagini sono diverse da come diventano quando
le fai."
"Perché?"
"Perché l'immaginazione è meglio della realtà, quasi sempre. Ha più
slancio. E' più leggera e più trascinante, più veloce, più pura, più
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tutto."
"E la realtà?"
"Se la guardi molto da vicino è penosamente piena di difetti."
"Però dicevi che ci si può anche innamorare di un difetto."
"Sì. Basta avere abbastanza immaginazione."
"Un altro consiglio utile?"
"Spegnere la luce e dormire. E' tardi."
"Ma siamo in vacanza."
"Siamo in viaggio."
"Solo uno."
"Non me ne vengono in mente."
"Dài."
"Be', malgrado quello che ho sempre pensato dei consigli, ho avuto
un periodo in cui mi sembrava di doverne trovare a tutti i costi. Sai
quando hai la sensazione di avere bisogno di un tuo piccolo
patrimonio di saggezza con cui affrontare la vita? Forse non ti è
ancora capitato, ma capita."
"E cos'hai fatto?"
"Mi sono messo a leggere libri sulle religioni e le filosofie
orientali, andavo a conferenze."
"Cosa ti interessava?"
"Il buddismo zen. Siccome per una mente occidentale è difficile
capirlo davvero, a un certo punto mi sono iscritto a un corso di kung
fu. Era tenuto in una palestra che era stata prima un'officina
meccanica. Il maestro era un vecchio tipo che aveva studiato in un
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autentico monastero di Shaolin con gli autentici monaci maestri."
"E cosa ti ha insegnato?"
"Come prima cosa ha detto a me e agli altri principianti che
dovevamo spazzare il pavimento e lavarlo."
"E voi?"
"Ci siamo messi a spazzare e lavare il pavimento. Solo che alla
seconda lezione ci ha detto la stessa cosa, e anche alla terza.
Andavamo in palestra e ci cambiavamo, e il maestro ci metteva le
scope e gli stracci e i secchi in mano. Spazzavamo e lavavamo con
molta cura il pavimento, poi lui faceva lezione a due o tre tipi di
un corso più avanzato."
"Ma qual era il senso?"
"Be', l'ho capito dopo, o almeno credo. Era di farci fare una cosa
impegnativa e accurata e totalmente effimera. Perché la polvere
continua a depositarsi, e per quanto bene tu possa spazzare e lavare
un pavimento, il giorno dopo devi ricominciare da capo."
"Tutto lì?"
"Ce n'era anche un altro. Che ogni volta che ti aspetti consigli da
qualcuno, gli dai un grande potere."
"Di che tipo?"
"Di usare le tue aspettative per gratificare il suo ego, o perfino
per farsi tenere pulito il pavimento della palestra gratis."
"Però non era un consiglio, né un'istruzione pratica."
"No. Forse alla fine i consigli più interessanti sono quelli che
non si possono dare a parole."
"In che senso?"
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"Nel senso che sono come dei germi di constatazioni a effetto
ritardato."
"Cosa significa?"
"Prova a pensarci, io vado a dormire. Buonanotte."
"Aspetta."
"Basta, è tardi."
"Tu che consigli mi hai dato?"
"Non lo so, dovresti ricordarteli tu."
"Di lavarmi bene i denti spazzolando davanti e dietro e sopra e
sotto."
"Infatti ti sono venuti molto bianchi e belli. Ma spero di avertene
dati anche altri, di consigli."
"Perché? Se dici che tanto non servono."
"Questo non vuol dire che uno non ne debba dare, se pensa di
averne. Buonanotte."
"Notte."
"Ci vediamo domani."
"Sì."
"Non leggere fino alle quattro."
"No."
"Notte."
Due SMS
Da: Giovanni
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Ore: 1.15
Se ci penso, nessuno mi ha mai dato consigli migliori dei tuoi.
Davvero. Volevo dirtelo.
Da: Giovanni
Ore: 1.29
Ancora non raggiungibile. Pazienza. Buonanotte.
Una telefonata
M.: Pronto? Stavi dormendo?
G.: Sì, ma non importa.
M.: Ti ho chiamato solo perché ho trovato i tuoi messaggi.
G.: Altrimenti non mi avresti chiamato?
M.: Non avevamo detto che non ci saremmo più sentiti?
G.: Quando?
M.: Cancelli sempre tutto quello che ci diciamo.
G.: Non cancello. Semplicemente non mi ricordo che l'avessimo
detto.
M.: Perché mi hai scritto quella storia dei consigli?
G.: Perché è vera. Nessuno mi ha mai dato consigli migliori.
M.: Su cosa?
G.: Su tutto.
M.: Però non ne hai mai tenuto conto. Almeno non per la nostra
storia.
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G.: Ne ho tenuto conto. E' solo che forse non sono riuscito a
seguirli.
M.: Ti sei fermato agli esperimenti mentali, come dici tu. No?
G.: No. Ci ho provato davvero.
M.: Ma?
G.: Ho sempre trovato una resistenza troppo forte da vincere.
M.: Quale resistenza?
G.: La resistenza dei miei modi di essere.
M.: Avevi qualcosa di nuovo da dirmi?
G.: Volevo solo sentire la tua voce e darti la buonanotte. Giusto
un contatto per dire che ci siamo.
M.: Madonna, Giovanni. E' proprio vero che non cambierai mai.
G.: Ehi, diamoci la buonanotte in un tono sereno, intanto.
M.: Buonanotte.
G.: Non è un tono molto sereno.
M.: Aaaaaagh.
G.: Va be', va be', buonanotte.
M.: Buonanotte.
Tre SMS
Da: Giovanni
Ore: 1.45
Una cosa che pensavo oggi: non puoi volere una zebra e non
accettare le sue strisce. Buonanotte, G.
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Da: M.
Ore: 1.51
Però posso non volere la zebra, no? Buonanotte.
Da: Giovanni
Ore: 1.59
Buonanotte.
Apre la porta-finestra
alla luce del mattino avanzato
Apre la porta-finestra alla luce del mattino avanzato. Lei è seduta
sulla sedia di plastica bianca davanti al suo bungalow, ancora
assorta nel romanzo sudamericano. Per fortuna non è più mattiniera di
lui, tranne quando deve andare a scuola. Lo stesso gli piacerebbe
essere il tipo di padre che una figlia trova già in piena attività
quando apre gli occhi: un realizzatore solido e concreto che comincia
a fare cose per sé e per gli altri mentre gli altri ancora dormono.
Non gli riesce quasi mai, a parte qualche domenica d'inverno, quando
sono in città e fuori c'è così poca luce che alle dieci passate
sembra ancora notte. Si chiede che genere di modello mattutino è in
grado di offrire: se il suo rapporto con gli orari la rasserena o la
irrita, o le sembra semplicemente normale.
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Si sporge dal muretto e le tocca i capelli, dice "Buongiorno!".
"Buongiorno" dice lei. Sorride, ma è alle ultime pagine del libro e
si vede bene che non vuole perdere la concentrazione.
"Già quasi finito?"
"Mi mancano quindici pagine."
"Quante sono in tutto?"
"Cinquecentoquaranta."
"Madonna."
"Eh."
"Ti ricordi certe estati in Grecia quando ti portavo uno zainetto
pieno di libri, e nei primi dieci giorni li avevi già divorati tutti?"
"Sì."
"Ti dicevo "Leggi piano, leggi piano", ma non c'era verso."
"Eh."
"Ogni volta prima di partire ti chiedevo se volevi venire con me a
scegliere dei libri per le vacanze, e mi dicevi che ne avevi già
abbastanza o mi dicevi "Domani". Per la tua leggendaria pigrizia
mentale ereditaria."
"Non è vero."
"Sì che è vero. Poi quando eravamo nella nostra isola sperduta e
avevi letto tutto quello che c'era magari due volte di seguito,
diventavi pazza. Eri disposta a leggere qualunque cosa, a quel punto."
"Tipo?"
"Un'estate ti sei letta una mia copia de L'interpretazione dei
sogni di Freud, per pura disperazione."
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"Mi interessava."
"Sì, ma avevi dodici anni."
"Va be', mi interessava."
"Hai voglia di fare colazione?"
"Finisco queste pagine e arrivo."
"Non vuoi finirle dopo?"
"No."
"Sarà tardi per la colazione, credo. C'è scritto fino alle dieci."
"Tanto non ho fame."
"Certo. Sei disposta ad azzerare qualsiasi cosa, pur di rimuovere i
pensieri faticosi."
"Non è vero."
"A volte la tua pigrizia mentale diventa così straordinaria da
mettere in ombra la mia."
"Tipo?"
"Tipo quando apri un armadio o un cassetto e poi lo lasci così
com'è. Per non accollarti il pensiero insopportabile di richiuderlo."
"Non è vero."
"Oppure quando ti cade un oggetto per terra e lo lasci lì, magari
per giorni."
"Non è pigrizia mentale."
"Lo è."
"Come fai a saperlo?"
"Perché la riconosco. Sai come quando rivedi una fisionomia
totalmente familiare?"
"Eh."
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"Io faccio delle cose equivalenti, di continuo."
"Tipo?"
"Tipo rimandare per settimane di aprire lettere che già dalla busta
mi sembrano noiose o impegnative."
"Oppure?"
"Accumulare multe e bollette da pagare in un angolo del tavolo, o
biancheria da lavare in un cesto che scoppia, o messaggi a cui devo
rispondere nella posta elettronica."
"Già."
"Ma almeno questo forse è un tipo di difetto che potremmo
correggere, se ci provassimo davvero. Perché poi quando alla fine ti
decidi a fare una cosa che hai rimandato e rimandato, ti viene un
incredibile senso di sollievo, no?"
"Sì."
"Va be', ho capito, ti lascio finire il tuo libro. Ripasso tra un
po', magari mangiamo qualcosa in paese."
"OK."
Una telefonata
G.: Ehi.
M.: Sì?
G.: Volevo solo salutarti. Ieri notte ci siamo salutati così
malamente.
M.: Senti, credo davvero che dovremmo dare un taglio a questi
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saluti.
G.: Perché?
M.: Perché sono una specie di droga di sostentamento. Ce ne
scambiamo una dose ogni volta che sta per venirci una crisi
d'astinenza, così possiamo andare avanti all'infinito.
G.: Ma non è una droga dannosa, no?
M.: Se ci impedisce di liberarci dalla dipendenza, è dannosa.
G.: Però se io smetto di chiamarti, poi mi chiami tu.
M.: E' una dipendenza, te l'ho detto. Ce l'abbiamo tutti e due.
G.: Lo pensi davvero?
M.: Tu cosa dici?
G.: Boh.
M.: Cosa significa boh?
G.: Che non lo so. Forse.
M.: Perché ti aspetti che sia sempre io a definire le cose?
G.: Non me l'aspetto.
M.: Però hai sempre l'aria di chi è appena cascato dalla luna e non
capisce bene i termini delle questioni.
G.: Ma sono appena cascato dalla luna.
M.: Comodo.
G.: O da qualche punto molto più lontano nell'universo.
M.: Comodo.
G.: Mica tanto, invece. Sarebbe più comodo avere un senso di
partecipazione terrestre a pieno titolo, credo.
M.: Dio, Giovanni.
G.: Va be', volevo solo farti un saluto mattutino.
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M.: Appunto. Toglierti il pensiero per poi occuparti a cuor leggero
di quello che ti interesserà tra un secondo.
G.: Non è vero.
M.: Lo sai che è così, invece. Lo fai per non pensarci più,
sentirti libero di oscillare nelle sensazioni.
G: Non è vero.
M.: E quando sei con me, fai lo stesso con le altre persone della
tua vita. Le chiami per toglierti il pensiero.
G.: Perché devi dipingere questo quadro?
M.: Perché hai una specie di interruttore mentale, e a seconda del
momento fai on o off con la tua attenzione e il tuo interesse e i
tuoi sentimenti.
G.: E' allucinante.
M.: Appunto.
G.: Va be'. Adesso devo andare.
M.: Lo vedi?
G.: Ma devo andare davvero. Non abbiamo neanche fatto colazione. Ti
richiamo più tardi.
M.: Ti ho detto che non ho più voglia che ci sentiamo.
G.: Comunque adesso ti saluto.
M.: Giovanni.
G.: Ciao.
M.: Ciao.
G.: Ciao?
Poi cammina su e giù per il piccolo bungalow nella scia emotiva del
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tono di M., e pensa che lei ha ragione a proposito del togliersi il
pensiero, almeno in parte. Pensa che è un'attitudine che aveva fin da
bambino, quando la sera si infilava a letto e non vedeva l'ora di
andarsene in un sogno guidato su un'isola tropicale popolata di
piante e uccelli e meravigliose ragazze selvagge, ma prima doveva
immaginarsi la sua famiglia sorridente e in perfetta salute che
partiva per qualche posto lontano e sgombrava il campo della sua
fantasia. Pensa che in questo non è cambiato per niente, da allora:
che i difetti hanno un'incredibile resistenza al passare del tempo e
alle pressioni della vita.
Pensa all'oscillazione continua tra lui e M.: a come li fa passare
dalla dipendenza disperata alla serenità temporanea all'irritazione
alla saturazione alla dipendenza disperata di nuovo nel giro di una
telefonata o di uno scambio di messaggi o lettere elettroniche. Pensa
a come i loro rapporti riescono a diventare incredibilmente
drammatici e poi incredibilmente leggeri a cicli ravvicinati: a come
poche parole riescono ad attivare interi scenari complessi. Gli
sembra di essere uno di due bambini che cercano di spiegarsi e
trovare un accordo o una via d'uscita ma non sanno fare nessuna di
queste cose, e restano tenuti insieme da una corrente di
comunicazione e paura e rammarico e indispensabilità e differenza e
somiglianza profonda.
Apre il computer portatile sul letto, batte sui tasti. Se ci pensa,
queste attrezzature di comunicazione gli sembrano un intralcio e una
debole garanzia, come dispositivi di sicurezza che possono provocare
gravi danni collaterali. Si chiede se senza i telefoni cellulari e i
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computer portatili sarebbe costretto a uscire allo scoperto di una
scelta univoca con M. Si chiede se dovrebbe buttare via tutto e
decidere in termini di puri contatti diretti, invece di restare
sospeso in un campo oscillante tra l'esserci e il non-esserci.
Finisce di scrivere, poi collega il computer al cellulare
attraverso la porta a infrarossi. La lettera a M. si dissolve dallo
schermo, con un rapido arpeggio di note acute che serve a confermare
la sua partenza e l'arrivo quasi simultaneo.
Una e-mail
Ore: 1.45
cara m.,
solo per aggiungere una cosa alle nostre telefonate che ci fanno
rimanere male ogni volta e non ci permettono di dire niente di quello
che vorremmo.
è vero che quando ci parliamo entra in gioco la mia tendenza a
rimuovere i pensieri faticosi. è per questo che mi viene il tono
leggero che ti irrita tanto, è per questo che ti dico "adesso non
drammatizziamo" proprio quando stiamo affondando nel dramma di due
persone che non riescono a stare bene insieme e separate stanno
ancora peggio. ed è vero che la mia capacità di affrontare pensieri
faticosi si riduce ulteriormente quando c'è una sovrapposizione di
cose da fare. è come se non avessi abbastanza spazio nel cervello, e
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adesso devo andare davvero.
ma volevo dirti, ti ricordi di quando per un anno intero ti ho
letto anna karenina ad alta voce la sera? forse dirai che è una cosa
immateriale ed evanescente rispetto alle altre cose che non ho fatto,
eppure sai che non è così. e non mi era mai capitato di farlo con
altre, e non credo che tu l'abbia fatto con altri. va be', non volevo
fare lunghi discorsi adesso, anche perché dobbiamo davvero andare a
mangiare qualcosa e sta diventando tardi e abbiamo solo questi pochi
giorni già in buona parte consumati. ciao,
G.
Camminano attraverso
la spianata davanti al
municipio spagnolesco
Camminano attraverso la spianata davanti al municipio spagnolesco,
e da lì al paese. Il sole è più caldo del giorno prima, l'aria più
tersa. I negozi nelle strette strade selciate traboccano di stivali
di cuoio e fazzoletti provenzali e camicie e vestiti e cappellini e
bamboline e cavallini e tazzine e fasci di fiori secchi colorati e
liquori e barattoli di miele e cartoline cartoline cartoline su
espositori girevoli. Ma non c'è nessuno a comprare e nemmeno a
guardare, i negozianti restano sul fondo delle loro tane commerciali
o si affacciano per pochi secondi verso la luce delle vetrine. I
ristoranti e le gelaterie sono quasi tutti chiusi; il paese è immerso
in uno strano senso di vuoto temporaneo mentre loro due camminano
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guardandosi intorno.
"Hai fame?" dice lui.
Lei fa di sì con la testa. Ogni volta che sono allo scoperto c'è
questa metamorfosi nei loro rapporti, anche se adesso è attenuata dal
fatto che non si vede quasi nessuno. Ma ugualmente lei diventa più
riservata, con gli occhi e le orecchie pronti a reagire a possibili
sguardi o voci, i muscoli della faccia tesi per adeguarsi alla
pressione del mondo. Ogni volta lui ci rimane male anche se sa che
non dovrebbe, come in una storia d'amore improvvisamente incrinata
dove da un momento all'altro l'attenzione si sposta e i segnali
familiari non suscitano più le reazioni di prima, e tutto deve essere
richiesto e spiegato e motivato con fatica punto per punto.
Quando capita non sa mai se irritarsi o sorridere o fare finta di
niente; adesso cammina mezzo metro avanti a lei, come se non se ne
accorgesse neanche. Si volta quando sono nella piazzetta davanti alla
chiesa fortificata, le lascia il tempo di guardare. Dice "Ti piace?".
"Sì" dice lei, osserva. Poi il suo cellulare manda un biiip biiip
di messaggio ricevuto: lo tira fuori dalla borsina con mani nervose,
preme i tasti per leggere e rispondere con un altro messaggio.
Lui la aspetta, pensa a come la loro relazione si basi su un
paradosso, in cui il risultato di tutti i sentimenti investiti
dovrebbe essere un allontanamento, invece di una vicinanza protratta
all'infinito.
Si siede a un tavolino dell'unico bar aperto, senza più guardarla.
La coppia di americani della sera prima sta già pasteggiando a base
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di spaghetti con polpette e cappuccino.
Viene a sedersi anche lei; socchiudono gli occhi nella luce che
continua a crescere di intensità. Il gestore si affaccia, gli
chiedono due omelette al formaggio e due caffelatte e due spremute
d'arancia.
Dopo un po' lui dice "Anch'io quando avevo la tua età ero convinto
che tutti gli occhi del mondo fossero su di me tutto il tempo".
"Io no."
"Se ti fossi vista tre minuti fa. Sembrava che ci fossero decine di
giudici incredibilmente arguti a ogni angolo del paese."
"Non è vero."
"Ma anch'io ero così, alla tua età. Camminavo per la strada come
sul set di un film, con tutti i riflettori accesi e le cineprese
puntate."
"Sì?"
"E' una fase della vita, ci passiamo quasi tutti. E comunque è
meglio stare in guardia che assumere atteggiamenti."
"Chi assume atteggiamenti?"
"Quasi tutti."
"Per esempio?"
"Be', il tuo Luca, per esempio."
"Cosa c'entra Luca?"
"Mi hai chiesto un esempio."
"Luca non assume atteggiamenti."
"Prova solo a pensare all'estate scorsa. Quando siamo andati a
prenderlo al porto e l'abbiamo trovato seduto per terra vicino alla
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cabina del telefono con una bottiglia di birra in mano come un
giovane vagabondo esistenzialista. In una posa così perfettamente
studiata che probabilmente ci aveva messo dieci minuti buoni, a
metterla a punto."
"Non è vero."
"E quando siamo scesi alla piccola spiaggia semideserta dove
andavamo di solito, ed è rimasto completamente vestito sotto il sole
a picco, pallido quasi bianco e con tutti i lineamenti impostati in
un'ostentazione di distacco e non-partecipazione?"
"Non è vero, basta!"
"O la sera, quando siamo andati a vedere quel film idiota americano
di fantascienza nel cinema all'aperto, e a un certo punto mi sono
girato e l'ho visto contorto sul sedile come se lo stessimo
sottoponendo a una tortura intollerabile?"
"Anch'io mi sono seccata, gliel'ho detto, poi."
"Meno male."
"Ma guarda che è come te, in queste cose!"
"In che senso?"
"Avete un sacco di lati in comune."
"Difetti, vuoi dire?"
"Anche."
"Tipo?"
"Tipo non adattarvi a quello che fanno gli altri, o avere reazioni
esagerate al minimo pretesto."
"Sul serio?"
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"Ti giuro."
"Be', è possibile. E' possibile. Spesso andiamo a cercarci un
partner che riproduce le caratteristiche del nostro genitore di sesso
opposto, incluse quelle negative."
"Sì?"
"A volte ne troviamo uno che riproduce solo quelle negative."
"Non Luca."
"Dico in generale. Ci sono persone che si trovano un partner
alcoolizzato o violento o totalmente instabile, se corrisponde alla
prima immagine di uomo o donna adulti che hanno avuto davanti."
"A te è successo?"
"Cosa?"
"Di trovarti partner con le qualità e i difetti di tua madre?"
"Credo di sì."
"Tipo?"
"Be', donne intelligenti e con un carattere forte ma abbastanza
instabili."
"La nonna era instabile, quando eri piccolo?"
"Aveva delle forti oscillazioni di umore. Passava dalla dolcezza
estrema alla freddezza e addirittura all'ostilità, senza sfumature.
Un momento era lì che ti copriva di attenzioni amorevoli, e il
momento dopo magari andavi a chiederle qualcosa e ti gridava
"Lasciami in pace! Non mi scocciare! Arrangiati!"."
"Davvero?"
"Sì. Non riuscivo mai a capire quali fossero le ragioni precise di
questi cambiamenti. Mi ha dato per la prima volta un'idea
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dell'imprevedibilità dell'animo femminile."
"E adesso lo sai, quali erano le ragioni?"
"Aveva anche lei una forte insofferenza di fronte agli obblighi.
Per una donna intelligente e dotata come lei doveva essere
intollerabile occuparsi della casa e della famiglia a tempo pieno. Ma
era quello che facevano le donne allora."
"Sì?"
"Prova a immaginarti. Tu non ci resisteresti dieci minuti."
"Eh."
"Non ci resisterebbe nessuna tua coetanea, e nessuna ventenne e
nessuna trentenne."
"Una quarantenne?"
"Forse. Ma avrebbe bisogno di un marito molto provvido di
attenzioni, per poter tollerare questo genere di ruolo senza
esasperarsi. Avrebbe bisogno del procacciatore di cibo e tagliatore
di legna e difensore di case archetipo, combinato al portatore di
fiori e improvvisatore di madrigali archetipo, il tutto elettrificato
per farlo diventare più veloce e vario e divertente."
"Sì?"
"Ed è una combinazione che non esiste, ed è giusto che le donne
abbiano perso la voglia di stare chiuse in casa a occuparsi delle
vite di altri. Però nel cambiamento che c'è stato gli uomini e le
donne sono diventati competitori sullo stesso identico piano, con lo
stesso identico genere di esigenze e di richieste, e con il risultato
che la loro convivenza è diventata sempre più difficile, se non
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impossibile."
"Perché?"
"Perché a questo punto tutti e due avrebbero bisogno di una moglie
e di un marito."
"In che senso?"
"Di una persona che faccia da curatrice e ascoltatrice e
conservatrice a tempo pieno, e di un'altra che faccia da
procacciatore e difensore e garante a tempo pieno."
"Sarebbero questi i ruoli?"
"Più o meno. O avrebbero dovuto esserlo. E naturalmente era una
divisione basata sulla prevaricazione sistematica nei confronti delle
donne. Però quello che è successo è che le donne hanno assunto lo
stesso modello degli uomini, senza neanche sceglierlo ma come unico
modo di uscire dal loro vecchio ruolo. E adesso uomini e donne sono lì
fuori a premere sulle pareti del mondo per ricavarne lo stesso tipo
di realizzazioni e gratificazioni sostitutive, e quando tornano a
casa non c'è nessuno che curi o ascolti o conservi o procacci o
difenda o garantisca niente."
"Nessuno?"
"Quando è indispensabile lo fanno le donne, ma nei ritagli di tempo
che restano e con sempre meno convinzione."
"Ah."
"E' così."
"Difficile, eh?"
"Molto."
"E tu ti sei sempre cercato delle donne con il carattere di tua
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madre?"
"Non sempre. A volte ne ho trovate di più dolci e tranquille."
"E ci stavi male?"
"No. La cosa assurda è che in realtà ci stavo meglio, ma appena mi
capitava di incontrarne una con un carattere più forte e instabile,
finivo per scegliere lei."
"Anche se ci stavi peggio?"
"Sì. Magari ero sereno e senza stress con una dolce e tranquilla,
poi per caso arrivava una dell'altro tipo e non avevo dubbi, su chi
scegliere. Sai quelle cose che fai senza spazio per nessuna
riflessione? Credo che sia una teoria abbastanza plausibile, quella
della replica delle qualità e dei difetti."
"Ma in cosa non ti andavano bene, le dolci e tranquille?"
"Mi ci sentivo solo. Non perché fossero dolci e tranquille, ma
perché mi sembrava che mancassero d'intensità o di opinioni definite
o di spirito critico o di passione, non so."
"Secondo te uno se ne può liberare, di questo meccanismo della
replica?"
"Forse. Ma prima devi renderti conto di come funziona, dunque devi
cascarci dentro almeno una volta o due. Ma in certi casi non te ne
liberi mai, continui a trovarti partner replicanti uno dietro
l'altro."
"Anche M. è una partner replicante?"
"Credo di sì. Anche se in molte cose è totalmente diversa da mia
madre. Anni luce di distanza, no? Però se riduci tutto alla sostanza
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concentrata, è una donna molto intelligente e con un carattere molto
forte, e molto instabile. Anche il colore dei loro occhi è simile."
"Accidenti."
"E naturalmente una delle conseguenze dell'andarsi a trovare un
partner replicante è che prima o poi tutte le ragioni di malessere
che avevi con tua madre o tuo padre vengono replicate."
"E in questo caso?"
"La violenza intellettuale e gli sbalzi violenti di umore e la
non-serenità di fondo."
"E non pensi di essere anche tu un replicante?"
"E' probabile. Il che produce effetti ancora più devastanti, perché
crea una somma di violenza intellettuale e instabilità, o una
moltiplicazione."
"Di nuovo le qualità e le loro ombre, o i difetti e le loro ombre?"
"Sì. Ma basta parlare di me. Stavamo parlando degli atteggiamenti
di Luca."
"Ti ho detto che non è vero che ha atteggiamenti."
"Guarda che è perfettamente normale che ne abbia, nel suo ruolo di
maschio subadulto. Anch'io ne avevo, alla sua età."
"Sì?"
"A diciassette anni? Se ci penso adesso mi vergogno come un ladro.
A un certo punto ero arrivato a essere forse novanta per cento
atteggiamenti, dieci per cento sostanza."
"Davvero?"
"Sì. E quel dieci per cento di sostanza non era nemmeno provato o
dimostrato in nessun modo attendibile. Il massimo che riuscivo a fare
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erano sperimentazioni patetiche nel chiuso della mia classe di
scuola."
"Che tipo di atteggiamenti avevi?"
"Gli stessi di Luca, più o meno. Conoscenza dei meccanismi del
mondo, dissociazione dai meccanismi del mondo, sensibilità acuta,
sofferenza esistenziale, ironia tranciante, amarezza, disincanto,
noia. Poi atteggiamenti da capacità inutilizzate, del tipo
se-solo-mi-lasciassero-fare,
se-solo-avessi-degli-interlocutori-un-po'-meglio-di-voi,
se-solo-fossi-in-un-posto-più-stimolante-di-questo,
se-solo-avessi-voglia-di-farvi-davvero-vedere."
"Dài, piantala. Luca non è affatto così."
"Non è facile, un ruolo di subadulto. Tutti si aspettano delle cose
da te ma non hanno ancora capito quali carte ti siano davvero
capitate in mano, e tu lo sai ancora meno di loro. C'è tutto un gioco
di darti e toglierti credito e spazio, e la pressione costante della
società dei maschi. Cerchi di trovare un posto nella scala
gerarchica, e gli altri valutano in modo automatico con quanta
determinazione o remissività o distrazione lo fai."
"E?"
"E' un periodo strano, me lo ricordo bene. Stavo ore davanti allo
specchio del bagno, a provare una varietà di espressioni e di gesti,
cercare di capire che razza di potenziale avevo. Dedicavo
un'attenzione incredibile ai vestiti che mi mettevo, anche se erano
quattro stracci apparentemente casuali, come i vostri adesso.
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Camminavo per la strada così concentrato sui miei movimenti che
rischiavo di andare a sbattere contro ogni lampione. Ero sicuro che
tutto il mondo fosse lì a scrutarmi, pronto a restare affascinato o
deluso da quello che facevo."
"Ma perché è così?"
"Be', uno all'inizio si muove dentro la sua famiglia, nel piccolo
teatro privato dove ogni minimo gesto o parola acquista un enorme
rilievo. Basta che uno mangi un po' meno del solito, o che sorrida un
po' più del solito, o che sia un po' più pallido del solito, e sembra
un avvenimento altamente significativo, che riguarda tutti."
"E poi?"
"Poi passi a un teatro appena più grande e di colpo nessuno si
accorge di te. Fai gesti e gesti e gesti, evaporano nel nulla. Dici
parole parole parole, nessuno le ascolta. Così per avere un minimo di
attenzione cominci ad accentuare i tuoi atteggiamenti, li forzi e li
sottolinei tutto il tempo. Come una mosca che ronza più forte man
mano che passa in una nuova stanza."
"Prima di essere un subadulto non avevi atteggiamenti?"
"Sì, ma erano atteggiamenti da ostaggio."
"Vale a dire?"
"Modi di essere, più che modi di fare."
"Vale a dire?"
"Essere sgradevole con tutti. Non fare quello che dovevo. Ma erano
cose che non mi costavano fatica."
"E adesso, quanti atteggiamenti hai?"
"Dipende. Di solito cerco di non averne."
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"E ci riesci?"
"A volte."
"E a volte?"
"A volte no."
"Ma in media?"
"In media credo di essere ottanta per cento sostanza e venti per
cento atteggiamenti. Il minimo indispensabile per proteggermi dal
mondo, no? Per entrare in un negozio o in un cinema o parlare al
telefono con qualcuno che non conosco bene senza farmi scorticare
dall'attrito sociale. Però le proporzioni tra sostanza e
atteggiamenti possono variare di colpo, basta poco."
"Per esempio?"
"Basta che mi trovi troppo dalla parte del torto, o troppo dalla
parte della ragione. Non faccio neanche in tempo ad accorgermene, e
gli atteggiamenti mi si moltiplicano dentro in centesimi di secondo,
ne sono pieno fino alla punta dei capelli."
"Come hai fatto a ridurli, i tuoi atteggiamenti?"
"A un certo punto ho deciso che non mi piacevano. Non è stata tanto
una scelta di principio, quanto che di colpo mi sono visto da fuori e
mi sono sembrato penoso. Così ho provato a ridurli, poco a poco. Ma è
anche vero che ho potuto permettermelo."
"In che senso?"
"Nel senso che ho avuto un po' di risposte dal mondo. Ho decifrato
un po' di codici. Ho capito che carte avevo in mano. Sono diventato
abbastanza solido da non avere più bisogno di far finta di esserlo."
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"Sì?"
"Per la maggior parte della gente e la maggior parte del tempo, non
avere atteggiamenti è troppo rischioso."
"Perché?"
"Perché la pressione del mondo è forte, e senza la protezione di un
atteggiamento ti può schiantare."
"E allora?"
"Allora per arrivare a non avere atteggiamenti o almeno ad averne
il minimo possibile, uno deve essere in grado di reggere la
pressione, oppure essere in grado di stare fuori dal mondo."
"Cosa intendi, fuori dal mondo?"
"Fuori dal gioco continuo della competizione e dell'ostentazione e
della misurazione e del soppesamento e dell'invidia e della gelosia e
di tutto il resto."
"E ci si può riuscire?"
"Sì, per gradi."
"Non si può fare tutto in una volta?"
"E' difficile."
"Ma possibile."
"Ci sono alcune rarissime persone per cui è addirittura naturale.
Non gli costa nessuno sforzo e nessuna ricerca. Sono senza
atteggiamenti, e basta. E' un dono, anche questo."
"Poi ci sono persone che hanno molti più atteggiamenti di altre."
"Sì. Vanno avanti tutta la vita ad accumularne, come potrebbero
accumulare mobili o soprammobili con cui riempirsi la casa."
"E gli funzionano?"
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"Dipende. Se sono gli atteggiamenti giusti per il luogo o per il
gruppo di cui fanno parte, sì. Se sono giusti per il loro paese."
"Tipo?"
"Il nostro per esempio è un paese dove le parole contano più dei
fatti, i toni di voce più delle parole. Le scarpe più dei piedi, la
carrozzeria più della meccanica. E' un paese dove buona parte di
quelli che dovrebbero fare qualcosa recitano invece una parte, e non
smettono mai. In un paese così è difficile sopravvivere, senza
atteggiamenti."
"Sì?"
"Sì. Ma tutti i paesi tendono a produrre atteggiamenti in chi ci
vive, anche se sono atteggiamenti diversi, e le proporzioni con la
sostanza variano."
Hanno già finito le loro omelette e quasi vuotato le loro tazze e
bicchieri, guardano nello spazio vuoto tra i tavolini e la pietra
chiara della chiesa fortificata. Anche i due turisti americani hanno
finito di mangiare e bere; hanno girato le sedie verso il sole,
stanno con gli occhi socchiusi, abbandonati all'indietro sugli
schienali.
Lui allunga i piedi; il suo cellulare suona.
Una telefonata
M.: Scusami tanto, ma è l'ultima telefonata che ti faccio.
G.: Perché? Cos'è successo?
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M.: Che non ho più voglia di andare avanti così, neanche un giorno.
G.: Non potremmo parlarne in un altro momento?
M.: E' adesso che voglio parlarne.
G.: Aspetta almeno che vado in un altro punto. Dimmi.
M.: Io ti ho proposto una vita. Ci ho creduto.
G.: Anch'io.
M.: Non è vero. O non abbastanza, comunque. Sono passati cinque
anni, è come se fossero cinque giorni.
G.: In che senso?
M.: Nel senso che nelle altre mie storie nello stesso spazio di
tempo o anche meno avevamo progettato delle cose insieme e le avevamo
realizzate, e magari era anche già finito tutto. Ma almeno ci avevamo
provato davvero.
G.: Tipo?
M.: Costruire una casa, registrare dei dischi insieme, impiantare
un orto, addirittura fare un figlio. Scegliere una vita comune e
provare a viverla.
G.: E noi invece?
M.: Tu sei entrato nella mia vita come un cavolo di incursore. Solo
per prendere quello che ti interessava e scartare quello che non ti
andava bene e tornartene alla tua vita.
G.: Quale mia vita?
M.: Quella dove non ci sono io. Non me ne frega niente se sei una
specie di apolide patologico e lo sei sempre stato anche prima di me.
G.: Non è vero che ho solo preso. Sei ingiusta, adesso. Ti ho anche
dato un sacco di cose.
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M.: Quali?
G.: Attenzione, curiosità. Tempo. Cure. Amore mentale e fisico. Ti
ho fatta ridere. Ti ho parlato di mille argomenti diversi. Ti ho
letto interi libri ad alta voce. Ho ripercorso tutto il tuo passato a
ritroso fino alla tua nascita.
M.: Finché ti andava bene.
G.: Ti ho dato un'enorme quantità di sguardi e gesti e parole. Ho
fatto centinaia di migliaia di chilometri, per stare con te. Avrei
potuto andare e tornare dalla luna, se metto insieme tutte le volte
che sono venuto a Trieste da te.
M.: Sto parlando delle cose che si fanno insieme.
G.: Abbiamo fatto milioni di cose, insieme. Abbiamo camminato
insieme e nuotato insieme e siamo andati a cavallo insieme, abbiamo
visto film e spettacoli di teatro insieme. Siamo andati in libreria
insieme e al ristorante insieme, abbiamo fatto dei viaggi insieme.
Abbiamo suonato e cantato non so quante canzoni insieme. Abbiamo
parlato insieme, con un grado di attenzione e curiosità e sorpresa
che non avremmo avuto per nessun altro.
M.: Ma sempre sospesi nell'eccitazione fibrillante del momento.
Senza mai un progetto o almeno un'intenzione di costruire qualcosa di
continuativo. Sono sempre stati degli slanci.
G.: Ed è brutto?
M.: Sono una cosa infantile, gli slanci. Sembrano un regalo
meraviglioso e poi si dissolvono, ogni volta.
G.: Ma non è bello? Un regalo meraviglioso che ogni volta si
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dissolve e deve essere rinnovato?
M.: Non si può andare avanti a stupirsi e fare salti di gioia e
avere questo atteggiamento parossistico ogni minuto che si è insieme.
G.: Perché no?
M.: Perché altrimenti non ci si muove mai da lì. Non si riesce mai
ad andare oltre.
G.: Oltre dove?
M.: Verso la vita vera.
G.: E di cosa sarebbe fatta, la vita vera?
M.: Di progetti e di gesti concreti, di esserci.
G.: Ma io mi sento soffocare, nei fatti concreti. Mi spengo come
una vecchia lampadina, a esserci.
M.: Sei solo immaturo, Giovanni.
G.: Si vede che sono immaturo, allora.
M.: Io no, invece. L'immaturità mi logora e mi affatica
terribilmente. Va bene per cinque minuti, o quando hai sedici anni.
G.: Ma guarda che tu sei immatura quanto me! E mi piaci tantissimo,
quando sei immatura! E' lì che dai il meglio di te!
M.: Non è vero. E comunque è una cosa che ti puoi concedere ogni
tanto, non può essere uno stato permanente.
G.: Perché? Chi lo dice?
M.: Saresti il primo a essere terribilmente sgomento, se io fossi
sempre immatura.
G.: Forse sarei costretto a diventare più maturo io, per un
meccanismo di compensazione automatica.
M.: E se non succedesse?
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G.: Saremmo felici e immaturi tutti e due.
M.: Invece precipiteremmo in un mare di immaturità e ci
annegheremmo dentro. Tu continui a vedere l'immaturità in chissà
quale luce creativa, invece non è così. L'immaturità è inconcludenza
e limitatezza, incapacità di apprezzare le cose o anche solo di
capirle.
G.: E' di questo che mi accusi?
M.: Non ti accuso di niente. Dico solo che sono stufa di restare
sospesa in una situazione che non cresce, preferisco tagliare e
provare a ricostruirmi un'altra vita. L'ho già fatto altre volte, ci
riuscirò anche questa.
G.: Ma a me dispiace troppo. Io ti voglio bene. Non voglio
perderti.
M.: Tu non vuoi mai perdere niente, è questo il problema. E d'altra
parte non vuoi neanche mai scegliere niente in modo definitivo.
G.: E allora?
M.: Allora a un certo punto devi scegliere per forza, se vuoi
qualcosa. Non puoi continuare per sempre ad averla e non averla.
G.: Forse è che uno non può avere niente comunque. Né persone né
luoghi né situazioni.
M.: Bravo, mettiti a fare lo zen, adesso. E' un buon modo per
continuare a non scegliere e a non decidere, e sentirti anche fico.
G.: Non è vero.
M.: Comunque sono fatti tuoi. Arrangiati. Io non ne voglio più
sapere. Ti saluto.
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G.: Aspetta un attimo, non fare così.
M.: Ti saluto, basta.
G.: Aspetta. Pronto?
M.: Io sono stufa, stufa. Non ho più voglia di questi discorsi, che
tanto non cambiano niente.
G.: Ehi, cosa fai? Stai piangendo? Per favore non metterti a
piangere, adesso.
M.: Vai al diavolo!
G.: Non fare così, per favore. Parlami. Calmati.
M.: Piango di rabbia, non aver paura. Per essere ancora qui a
parlarti come una cretina quando so che non c'è assolutamente niente
da fare.
G.: Non è vero. Cerca di calmarti, per piacere.
M.: Mi calmo solo se penso che non ti vedo più!
G.: Cerchiamo di vedere le cose in termini più distaccati.
M.: Non cominciare con questo tono del cavolo!
G.: Proviamo a guardarci dal di fuori, come se fossimo altri due
che non conosciamo neanche.
M.: Fallo tu, fuori dalla mia vita.
G.: Non potremmo parlare con un po' più di serenità?
M.: Vai al diavolo, Giovanni, ti odio. Basta!
G.: Pronto?
La guarda in un tentativo
di espressione serena
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La guarda in un tentativo di espressione serena, anche se mentre
torna al tavolino si rende conto che è un tentativo patetico. Si
siede di nuovo e si gira verso il sole e riallunga le gambe, ma non
riesce a stare fermo per molto.
Dice "La prima volta che sono venuto qui era incredibilmente pieno
di gente".
"Sì?"
"Gente di tutto il mondo, non riuscivi a vedere quasi niente."
Avrebbe voglia che fosse così anche adesso: mani e piedi e facce in
movimento, macchine fotografiche, musica, cani, bambini, venditori,
compratori, parole e gesti sovrapposti.
Dice "Hai voglia che facciamo un giro?".
"Sì." Beve un ultimo sorso di spremuta d'arancia dal suo bicchiere,
ne lascia un dito come sempre.
Attraversano la piccola piazza della chiesa fortificata, in
direzione del mare. Una turista solitaria fa girare un espositore di
cartoline, non sembra trovare quella che cerca.
Lui dice "Come ti è sembrata la spremuta d'arancia?".
"Buona."
"Buona in che senso?"
"Perché?"
"Per sapere cosa intendi quando dici "buona". Rientrava nei
parametri standard di un'esperienza di spremuta d'arancia?"
"Non capisco di cosa parli."
"Il punto è che abbiamo un archivio mentale e sensoriale di
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esperienze già fatte. Fai una cosa per la seconda o centesima o
milionesima volta, confronti in una frazione di secondo le sensazioni
che ti dà con le sensazioni in archivio, e basta."
"In che senso?"
"Nel senso che al massimo dici "Buona" se corrispondeva a quello
che ti aspettavi, o "Così così" se era un po' al di sotto dello
standard. In realtà l'esperienza di berla è stata infinitamente più
complessa e anche contraddittoria, ma la riduci a niente. A qualche
secondo di piacevolezza, quando va bene."
"E perché?"
"Perché è un'esperienza già registrata e archiviata, non vale la
pena di analizzarla a lungo. E magari è stata del tutto diversa dalle
altre, a seconda del grado di maturazione delle arance e della loro
provenienza, e di come sono state spremute, della forma del
bicchiere, della temperatura dell'aria e del vetro, della faccia del
barista, della luce che c'è nel bar, della gente intorno, dei suoni
sullo sfondo. Sono tutte variabili che rendono unica quella spremuta
di arancia, rispetto a tutte le spremute che hai bevuto prima. Eppure
quello che fai è berla e passare ad altro, smettere di pensarci prima
ancora che le tue papille gustative abbiano finito di mandarti
segnali."
"Invece di?"
"Di soffermarti. Perdertici dentro, viaggiare nelle sfumature. Ma
abbiamo lo stesso atteggiamento rispetto a quasi tutto quello che
facciamo. C'è sempre un orologio che ci assedia con il suo
ticchettio, e diecimila altre cose da pensare e da fare subito dopo.
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Abbiamo interi calendari srotolati davanti. Così il futuro si mangia
il presente a una velocità furiosa e lo rigurgita subito nel passato,
non te lo lascia mai tra le mani e davanti agli occhi abbastanza a
lungo."
"Ma non avremmo tempo per fare niente, se ci perdessimo in ogni
piccola cosa come dici tu."
"Il tempo non esiste. E' un'invenzione degli esseri umani, per
coordinare attività quasi tutte negative."
"Tipo?"
"Guerre o imprese industriali, viaggi di massa o spettacoli a
pagamento o deportazioni o vendite su larga scala, in modo che i
conti tornino sempre e non ci siano da disperdere troppe energie."
"Davvero?"
"Sì. Lo scopo dell'invenzione del tempo è creare un senso
artificiale di oggettività che scorre al di sopra e al di fuori dei
sensi individuali e chiude le persone in una griglia mobile e le
spinge avanti contro la loro volontà."
"Come quando mi devo buttare giù dal letto alle sette di mattina
per andare a scuola?"
"Sì. E milioni di persone sono costrette a farlo nello stesso
momento, pensando di rispondere a una legge superiore. Una legge che
butta giù dal letto milioni di persone e le fa sedere a tavola, le
manda a lavorare o in vacanza o a dormire o a fare l'amore o a fare
la spesa o a morire."
"Ma se non ci fosse un tempo concordato come faremmo a vivere?"
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"Vivremmo come si viveva prima dell'invenzione del tempo. Come si
vive ancora nei pochi posti in cui il tempo non esiste."
"Vale a dire?"
"Entreremmo nelle situazioni, e ci fermeremmo lì o le
attraverseremmo e ne usciremmo come ci pare. Non verremmo incalzati e
non incalzeremmo nessuno, non saremmo costretti ad appiattire
esperienze fino ad azzerarle per farle rientrare in caselle
sensoriali di dimensioni prestabilite. Non misureremmo più niente in
anni e mesi e giorni e minuti e secondi. Non ci sarebbe nessun
bisogno di interrompere e spezzare o continuare niente per ragioni
esterne alle nostre."
"Sì, ma come faremmo a darci appuntamenti o a lavorare, per
esempio?"
"Lavoreremmo in altri modi. E ci daremmo altri tipi di
appuntamenti."
"Però il tempo c'è, anche senza orari e orologi."
"Invece no. Il tempo è un'invenzione e un imbroglio."
"Perché un imbroglio?"
"Il tempo non passa affatto. Non è un fiume, non è un nastro. Siamo
noi che passiamo. E i cronometri e gli orologi e i calendari ci fanno
passare a una velocità coordinata e del tutto indipendente dalle
nostre percezioni. Ci trascinano con i loro ingranaggi apparentemente
neutri e ineluttabili, finché non riescono a buttarci fuori dalle
nostre vite."
"Come fai a dire così? Un'ora è un'ora."
"Prova a toglierti l'orologio, e a non avere intorno nessun altro
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strumento artificiale di misurazione, e poi dimmi cos'è un'ora."
"Sessanta minuti."
"E cos'è un minuto?"
"Sessanta secondi."
"E cosa cavolo è un secondo?"
"In che senso?"
"Se solo smetti di pensare a una lancetta che scatta lungo una
piccola scala circolare mossa da un meccanismo o da un circuito
elettronico."
"Eh."
"Prova a dirmi quanto dura un secondo. Che confini ha."
"Dura quanto dire u-no. I confini sono la u e la o."
"Quello è lo spazio che impiega una lancetta a percorrere una tacca
del quadrante di un orologio. Ma togliti dalla mente la lancetta e la
tacca e il quadrante e l'orologio e il nome, cosa rimane?"
"Non so."
"Non rimane niente. Oppure tutto. Lo spazio è aperto di nuovo,
fuori dalle leggi schiaviste dell'oggettività che non esiste."
"Ma il ciclo della luce e del buio, esistono. Il ciclo delle
stagioni."
"I cicli sono infinitamente liberi. Infinitamente. Non hanno niente
a che fare con la meschinità persecutoria e riduttiva delle scale
millimetrate. Li puoi estendere come vuoi, farci stare dentro tutto
quello che ti pare. Tra uno spazio ciclico e uno spazio cronometrato
e calendarizzato c'è la stessa differenza che c'è tra una zebra
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libera di galoppare per i prati e una zebra rinchiusa in una gabbia
di due metri per uno in un serraglio."
Camminano lungo la strada che costeggia la spiaggia, guardano il
paese da fuori e guardano verso il mare.
Lei dice "Hai litigato con M.?".
"Non proprio litigato. E' stato uno dei nostri scambi di posizioni.
Solo che ogni volta siamo un po' più vicini a una vera rottura
definitiva."
"E quali sono, le posizioni?"
"La sua e la mia."
"Grazie tante. E chi ha ragione?"
"Tutti e due, dai nostri punti di vista."
"E allora?"
"Non lo so."
"Come pensate di venirne fuori?"
"Non lo so."
Sono già arrivati in fondo al paese, sulla loro destra si vedono
cantieri di alberghi e condominii e ristoranti in costruzione. Senza
parlarsi si girano e tornano indietro. Il telefonino di lei fa un
biiip biiip di messaggio in arrivo. Lei legge subito, risponde con
dita rapide. Lui fa per dirle qualcosa a proposito delle interferenze
continue, ma non dice niente.
Più avanti un grosso cane nero con vaghe ascendenze di terranova
viene verso di loro a un trotto zoppicato, si avvicina con l'aria di
aspettarsi qualcosa da mangiare.
Lei dice "Che carino!".
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"Chiamalo carino."
"Ha fame."
"Sì, ma non abbiamo niente."
"Non potremmo adottarlo?"
"Sei diventata scema?"
"Perché?"
"E' orrendo, e pesa un quintale."
"Non è orrendo!"
"Oltretutto non ha nessuna intenzione di farsi adottare. E' felice
di stare libero così."
"Cosa ne sai, tu?"
"Lo so. Se fossi un cane randagio in un paese di mare non avrei
nessuna voglia di farmi rinchiudere in un appartamento di città."
"Magari non è randagio. Magari l'hanno abbandonato."
"Ormai comunque è abituato a questa vita, e sta benissimo. Non lo
vedi com'è grasso?"
"Non è grasso, poverino."
"E' bavoso, anche. Mi ha sbavato tutta la manica."
"Proviamo a tenercelo, ti prego!"
"Non fare la matta, ti prego."
"Per piacere."
"Non scherziamo neanche."
"Io voglio un cane."
"Lo sai che sei totalmente ossessiva? Non riesco a crederci."
"Allora fammelo tenere."
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"Ti ho detto che lui non ha nessuna intenzione di farsi tenere, a
parte tutte le altre considerazioni."
"Proviamo."
"Lo vedi?"
Il grosso cane nero in effetti prende il largo e si rimette a
trottare nella direzione opposta. Lei ha un'aria delusa, lo segue con
lo sguardo.
"Lo volevo."
"Senti, perché non andiamo a fare un giro a cavallo nelle paludi?"
Lei fa di sì con la testa solo quando lui glielo chiede una seconda
volta; accelerano il passo verso la piazza davanti al municipio
spagnolesco.
In un recinto
c'è un cavallo grigio
estremamente vecchio
In un recinto c'è un cavallo grigio estremamente vecchio, con il
dorso insellato e il pelo lungo. Non è in cattive condizioni, e
sembra abbastanza soddisfatto, bruca l'erba in ricrescita senza che
nessuno gli dia fastidio o gli chieda di fare qualcosa. Loro due lo
guardano appoggiati alla staccionata, mentre aspettano che il ragazzo
dei cavalli venga ad avvisarli che è tutto pronto.
Lei dice "Perché parli sempre delle ragioni primordiali?".
"Quando?"
"Sempre. Di qualsiasi cosa dici che c'è dietro una ragione
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primordiale legata alla sopravvivenza della specie."
"Sono così ossessivo? Così maniacale, madonna?"
"No, però è vero che lo dici sempre."
"Perché è così. Abbiamo dentro queste ragioni, qualunque cosa
facciamo."
"Qualunque?"
"Sì. Anche quando siamo convinti di appartenere a una specie eletta
che a differenza di tutte le altre ha tagliato i legami con le sue
origini. Quasi tutto quello che facciamo è legato alla sopravvivenza
e alla continuazione."
"Tipo?"
"Qualsiasi nostro impulso o reazione, sotto la superficie dei modi
codificati."
"Tipo?"
"Prendi la scelta di un partner. Tu credi di seguire unicamente i
tuoi gusti e il tuo carattere e la tua sensibilità peculiare. Trovi
uno che ti piace, sei convinta di essere perfettamente padrona della
tua scelta."
"E invece?"
"Invece sotto la tua scelta lavorano criteri legati alla
sopravvivenza della specie."
"Vale a dire?"
"Ragioni molto concrete che ti fanno preferire uno tra tanti come
partner riproduttivo."
"Ma non sempre."
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"Sì invece. Sono meccanismi talmente certi che vengono usati a
freddo dalla pubblicità per vendere alla gente qualsiasi cosa."
"Io non ci credo. Nessuno sceglie una persona solo in base alla
sopravvivenza della specie, oggi."
"Non ho detto solo. Ma è un fattore determinante nella scelta."
"Forse un tempo."
"Un tempo quando? Quando vivevamo nelle caverne o nelle palafitte?"
"Eh."
"E' ancora così."
"Non ci credo."
"Prova a pensarci. Ti è mai piaciuto uno con la fronte bassa? Uno
che parla in modo incomprensibile? Uno che non sa niente di niente?
Uno che si spaventa di continuo e scappa via? Uno che puzza o che non
ti guarda mai negli occhi?"
"No, ma cosa c'entra? E' questione di gusti. Uno ti sembra bello o
brutto o simpatico o antipatico a seconda di come sei tu."
"E cosa credi che ci sia dietro il bello e il brutto e il simpatico
e l'antipatico? Ci sono i caratteri di un partner riproduttivo
desiderabile oppure no. Di uno con cui potresti fare dei figli con
discrete prospettive di vederli sopravvivere oppure no."
"Che cosa triste."
"Sì. Ci sono alcune persone orrende che riescono ad attrarre una
quantità di partner riproduttivi, perché sembrano offrire alte
probabilità di sopravvivenza."
"Tipo?"
"Tipo qualunque abominevole uomo ricco e di potere. Lo vedi, e
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pensi che dovrebbe suscitare lo stesso genere di disgusto in
qualunque donna. Invece non è così, perché i suoi segni di preminenza
sono così forti da farlo diventare molto appetibile. Mettono in ombra
qualunque dato negativo, perfino che abbia la fronte bassa e puzzi e
non ti guardi negli occhi o che sia grasso e bavoso e vecchio. Quello
che conta sono le caratteristiche che gli hanno permesso di diventare
preminente."
"A me uno così fa schifo."
"A te. Ma stiamo parlando di leggi generali."
"E un uomo cosa cerca in una donna, in base alle pure ragioni della
sopravvivenza della specie?"
"Cerca anche lui una buona partner riproduttiva, in grado di dare
alte probabilità di sopravvivenza ai figli e di trasmettergli buone
caratteristiche genetiche."
"Che orrore."
"Sì, sembra una cosa proprio brutta. Ma è un dato di fatto. Pensa
alle donne che sono state rappresentate nelle statue e nei quadri
attraverso i secoli."
"Eh."
"Sono tutte modelli ideali da un punto di vista riproduttivo. Gambe
e braccia ben sviluppate, fianchi ampi, bacino pieno, seno non troppo
grande e nemmeno troppo piccolo, fronte alta, occhi grandi, naso
regolare con narici ben sviluppate, capelli folti, denti sani, una
discreta riserva di grasso per i periodi di scarsità di cibo, mani
ben proporzionate, piedi che offrono un buon sostegno. E' una
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galleria infinita di variazioni sullo stesso tema. Come se chi
dipingeva o scolpiva avesse avuto bisogno di fissare le
caratteristiche di un esemplare femminile ideale per ricordarsi quali
erano i tratti desiderabili, e ricordarli agli altri."
"Nello stesso modo in cui uno potrebbe appendere al muro il disegno
di una mucca ideale?"
"Sì. Ma le statue e i quadri che rappresentano uomini rispondono
agli stessi criteri. Sono tutte fissazioni di requisiti utili in
forma idealizzata."
"Allora come spieghi il fatto che possa piacermi uno che mi fa
ridere, per esempio? A cosa serve, da un punto di vista di
sopravvivenza della specie?"
"Be', non credo che ti piaccia uno che ti fa solo ridere, no? Un
buffone."
"Dicevo uno spiritoso."
"Se è spiritoso dev'essere anche percettivo. Dev'essere in grado di
cogliere le cose ed elaborarle in modo rapido secondo un'angolazione.
Dev'essere uno intelligente e con riflessi pronti. Dunque uno che ti
offre buone probabilità di sopravvivenza, lo vedi?"
"Uffa, non può essere solo questo."
"Questo è sotto. Poi sopra ci sono molte altre cose."
"Tipo?"
"Trasformazioni culturali, influssi climatici o ambientali nelle
diverse regioni del mondo. Sovrapposizioni di messaggi."
"Tipo?"
"Tipo la pubblicità e la moda e la cultura di superficie che,
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invece di partner riproduttivi ideali rappresentati in mille varianti
nella storia dell'arte, vendono mille varianti di anoressiche troppo
alte e troppo magre che sarebbero partner catastrofiche dal punto di
vista della sopravvivenza della specie."
"Sì?"
"E le diffondono con una tale intensità e capillarità da imporle
agli uomini come modelli desiderabili, anche se non corrispondono
affatto ai loro istinti profondi."
"E le donne?"
"Le donne si riempiono di scontentezza e di complessi per come
sono, senza neanche rendersi conto che le immagini con cui devono
confrontarsi di continuo sono create e messe in giro da uomini a cui
le donne non interessano affatto."
"Ha!"
"In compenso alle donne vengono venduti modelli di uomini così
inconsistenti e narcisi e imbecilli, che nella prima situazione
davvero difficile le lascerebbero morire senza pensarci un istante."
"Dici i manzi scemi e depilati delle riviste?"
"O i disc jockey o i cantanti o gli attori che vengono venduti ogni
giorno come modelli di uomini."
"Sì?"
"Ma per fortuna in tutta questa sovrapposizione di segnali ci sono
anche persone che riescono a non farsi plasmare dalla pubblicità e ad
andare oltre la semplice compulsione a sopravvivere, e ad affacciarsi
su altri territori."
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"Quali territori?"
"Gli spazi del non-tangibile. Del non-pesabile, non-misurabile,
non-cronometrabile. Del non-dicibile, anche."
"Dove la sopravvivenza della specie non conta più?"
"Dove non conta più la sopravvivenza e non conta più neanche la
specie. Il che rende le loro attrazioni molto ricche e molto
complicate."
"Perché complicate?"
"Perché anche loro ogni tanto ricadono nelle ragioni legate alla
sopravvivenza della specie. Non se ne sono liberati per sempre."
"Non c'è modo di farlo?"
"Non credo. Non del tutto."
"Quindi la base di quello che succede tra gli uomini e le donne
continua a essere quella?"
"Sì. Come per tutti gli altri animali."
"Ma è una cosa senza senso."
"Però è anche l'unico senso evidente. Tutti gli altri sensi e le
altre ragioni ce li inventiamo noi."
"Perché?"
"Perché questo non ci basta, per quanto possiamo essere razionali
oppure istintivi. E' inaccettabile che non ci sia nessun altro scopo
nella vita al di là della continuazione della vita. Il che poi è uno
scopo relativo, perché è difficile dire a cosa serva in termini
assoluti. Se appena usiamo una parte dei nostri cervelli
ipersviluppati, abbiamo bisogno di altro."
"Di cosa?"
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"Di risposte difficili da trovare. Oppure di mille cose da
desiderare e raggiungere e conquistare e comprare e vendere e
costruire e chiedere e possedere e mostrare e offrire e difendere."
"Vuoi dire come scopi artificiali?"
"Sì. Fin da quando nasciamo, abbiamo davanti una serie di traguardi
inventati a cui aspirare. C'è tutto un clima di attese e di
incoraggiamenti."
"Tipo?"
"Tipo andare a scuola, e la scuola è tutta costruita in base a una
successione di piccoli scopi artificiali. Cose da capire e
memorizzare, nomi da imparare e ricordare. Con premi e punizioni per
sollecitarci lungo il percorso, darci l'idea di essere arrivati a un
traguardo e averlo passato o dover ricominciare da capo a inseguirlo."
"E dopo la scuola?"
"Aumenti di stipendio e premi di produzione e promozioni, titoli,
gratifiche, nuovi nomi, e calendari e orologi per misurare la rapidità
o la lentezza con cui riusciamo a farlo."
"E fuori dal lavoro?"
"Anche fuori c'è un sistema a traguardi. Trovare una casa dove
abitare, una macchina da guidare, mobili e oggetti per riempire lo
spazio, vestiti e gioielli e giocattoli per spendere i soldi che
guadagnamo e per colmare il vuoto che rimane, vacanze e viaggi per
confermare le immagini che ci hanno venduto. E appena hai una di
queste cose devi cominciare subito a desiderarne un'altra un po' più
grande o lunga o costosa o difficile da avere, se non vuoi perdere di
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vista il prossimo traguardo e con quello il senso intero della vita."
"E se non ti importa niente di nessuno di questi traguardi?"
"Allora devi scoprire altre ragioni."
"Dove?"
"Nei territori ulteriori."
"Quali ragioni?"
"Sono non-ragioni."
"Vale a dire?"
"Assorbire e riflettere. Cogliere l'essenza delle cose animate e
ferme. Lasciarti passare attraverso la luce e il buio dell'universo.
Cogliere il punto di equilibrio profondo. Provarci, almeno. Il che
non ti impedisce di cadere ogni tanto in un vuoto improvviso di
significati, a meno che tu non sia molto dedito a sostenere una
parte."
"Quale parte?"
"Della convinzione assoluta e della certezza assoluta,
dell'illuminazione assoluta."
"E cosa succede quando cadi in un vuoto di significati?"
"E' come un'amplificazione estrema della noia. Hai in mente la
noia?"
"Sì."
"Moltiplicala per milioni di volte."
"Da dove viene la noia?"
"Non viene. E' lì. Nella mancanza di scopo e nella mancanza di
senso e nell'incapacità di andare oltre. Siamo convinti che si infili
a tradimento negli spazi vuoti, e che basti darsi da fare per
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mandarla via. Invece è il contrario, la noia è al centro dello
spazio, e noi per non vederla la copriamo con schermi e paraventi
mobili di attività concatenate."
"E cosa dovremmo fare, invece?"
"Dovremmo sapere che la noia è lì. E che ci può spingere a fare le
cose più insensate, o a cercare di capire il senso delle cose. Se uno
si sottrae sistematicamente alla noia, per quanto corra non va da
nessuna parte."
"Perché?"
"Perché tutto nasce dalla noia. Le percezioni e le constatazioni e
le elaborazioni, le idee di ogni tipo."
"Be', a scuola ci annoiamo da morire, ma non è che ci vengano molte
idee."
"Questo lo credi tu."
"Lo so, non lo credo."
"Allora vuole dire che non vi annoiate abbastanza."
"Se ci annoiassimo un po' di più moriremmo stecchiti sui banchi."
"Oppure scoprireste qualcosa."
"E' facile per te dirlo."
"Guarda che ci sono passato anch'io."
"Ma non te lo ricordi più."
"Me lo ricordo benissimo, invece. Se non mi fossi annoiato così
tanto credo che non mi sarebbe mai venuto in mente niente."
"Cosa ti è venuto in mente?"
"Che c'erano altri piani su cui potevo andare."
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"Boh."
"Non aspettarti che la noia finisca con la fine della scuola. La
noia è ovunque, sempre. Non puoi fare a meno di rivederla, se non sei
totalmente ottusa."
"Tipo?"
"Te ne accorgi quando raggiungi uno dei tuoi traguardi. Uno dei
tuoi piccoli scopi artificiali, no? Hai appena superato un esame o
conseguito chissà quale risultato nel lavoro o nella vita privata, e
sei piena di soddisfazione e di sollievo, e di colpo senti questa
voce sottile nella testa che dice "E adesso?". Non dirmi che non ti è
mai capitato."
"Sì."
"Ma poi ci tendiamo subito verso il prossimo piccolo scopo
artificiale che vediamo lungo il nostro percorso, cerchiamo di
concentrarci su quello."
"Cosa dovremmo fare invece?"
"Non credo che ci sia niente da fare, a parte ricordarci che i
nostri piccoli scopi sono artificiali. Per il resto è giusto che
andiamo dietro a quello che ci interessa o che ci diverte, purché non
danneggi gli altri o il mondo nel suo insieme."
"Però una volta che decidi che tutti gli scopi sono artificiali,
come fai a crederci?"
"Non è un'idea così azzerante. Può anche farti venire voglia di
dipingere sui muri, o piantare alberi in un giardino. Può farti
venire voglia di lasciare delle tracce interessanti, per quelli che
vengono dopo. Può farti buttare via gli orologi e i calendari per
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liberare lo spazio dal tempo. L'importante è non pensare che ci sia
qualcosa di così straordinariamente importante, in quello che
facciamo."
"Ma a cosa serve qualunque cosa, allora?"
"Alla pura vita."
"E cos'è la pura vita?"
"Questa."
Il ragazzo dei cavalli si affaccia da dietro un muretto bianco, fa
un gesto per dire che è pronto. Loro sorridono e rispondono con due
gesti simili, lo seguono.
Lui parla
con il ragazzo dei cavalli
nel suo francese limitato
Lui parla con il ragazzo dei cavalli nel suo francese limitato, che
va bene giusto per questo genere di conversazioni a brevi frasi
interrotte. Procedono in fila indiana, lungo un percorso tra cespugli
ed erba alta secca e canne e piccole staccionate e recinzioni
metalliche e fossi e stagni. Il ragazzo monta a pelo il vecchio
castrone grigio che erano stati a guardare nel prato vicino ai
bungalow, con tanto riguardo da dare l'idea di non pesargli addosso
per niente. Quando lui gli chiede quanto è vecchio il cavallo, dice
"Ventotto anni! Abbiamo cominciato insieme!". Lui traduce per sua
figlia che sta a metà della piccola fila, lei fa di sì con la testa.
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Va avanti a riferirle le altre frasi del ragazzo, su come le cose
cambiano nella stagione turistica, quando tutti gli alberghi della
zona sono pieni e dozzine di persone che non hanno la minima idea di
cosa sia un cavallo chiedono di essere portate in giro perché hanno
visto le foto sui dépliant. Lei fa di sì con la testa, concentrata
com'è sulle redini e sull'andatura e sul terreno. Non è sicuro che
sia interessata a queste informazioni, ma gliele traduce lo stesso
perché gli fa piacere assumersi un ruolo di tramite. Gli sembra un
modo di filtrare i segnali del mondo e proporle un paesaggio più
amichevole, dove quasi ogni elemento è sotto controllo, affrontabile
senza incertezze e senza sforzi. L'idea lo rassicura, prima ancora di
rassicurare lei.
Ma neanche qui sono del tutto al riparo dalla pressione del mondo,
perché il sole ha già cominciato a impallidire e l'aria a diventare
più fredda e il percorso verso il mare è meno sgombro e selvaggio di
come lui si era immaginato. Cerca di tenersi leggero mentre passano
oltre un accampamento di zingari con roulotte e grandi Mercedes
parcheggiate, oltre un ponte da cui due bambini zingari pescano con
la canna. I cavalli rispondono poco al contatto dei talloni, sono
animali da palude e da turisti, abituati a camminare in fila indiana
senza badare molto a chi gli sta in sella.
Quando arrivano alla spiaggia il ragazzo smonta e rompe una piccola
canna e risale con uno slancio leggero in groppa al suo vecchio
cavallo, dice "Qui possiamo galoppare, se volete". Ma il vecchio
cavallo è troppo vecchio e il ragazzo lo tocca con la canna in modo
troppo delicato: fa un accenno di trotto e smette quasi subito. Così
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lui dà forte di talloni al suo e riesce a lanciarlo in avanti e
quello di lei lo segue, lungo la fascia di sabbia più compatta a
pochi metri dal mare. I cavalli galoppano pesanti e trattenuti, non
hanno nessuna voglia di allontanarsi molto da casa. Ma galoppano, e
lo spazio davanti è aperto a perdita d'occhio, gli unici rumori sono
quelli del mare e del vento e degli zoccoli sulla sabbia.
Lui si gira a guardare sua figlia qualche metro indietro, più a suo
agio e più divertita adesso. Le grida "Bello?!".
"Sìì!" grida lei.
"Vaaaai!" grida lui, nel ritmo dei grandi muscoli e delle grandi
ossa e delle grandi giunture che liberano le distanze. Gli viene in
mente la concatenazione assurda di intenzioni e decisioni e fasi
intermedie che c'è voluta per arrivare a questa breve successione di
gesti e sensazioni, già quasi consumata mentre ci corrono attraverso.
Vanno avanti finché i cavalli perdono slancio e rallentano e infine
si fermano da soli. Il mare è grigio, con onde di media grandezza che
si rompono e schiumano sulla battigia. Ci sono piccoli detriti
naturali e artificiali sulla sabbia umida; un pescatore immobile con
una lunga canna, molto lontano all'orizzonte.
Il suo cavallo gira la testa e lui lo lascia girare, verso il
vecchio castrone grigio da cui il ragazzo è smontato di nuovo per non
affaticarlo troppo. Basta cedergli di poco le redini, e il cavallo
riprende al galoppo per tornare indietro, molto più veloce di quando
doveva allontanarsi. Lui si volta ancora a guardarla poco dietro;
galoppano sulla sabbia come due compagni di viaggio e di avventura.
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Quattro e-mail
Ore: 17.30
cara m.,
poco fa stavo galoppando a cavallo sulla spiaggia deserta, e ho
pensato a quanto è assurda la nostra tendenza a concentrarci su
dettagli pratici che abbiamo già esaminato un milione di volte da
ogni angolo. ho pensato che dovremmo sottrargli spazio mentale,
invece di dargliene, e dedicare ad altro le nostre capacità
percettive. dovremmo guardare le richieste del mondo cosiddetto reale
con ironia invece che con angoscia, perché alla fine non contano
niente. sarebbe bello se riuscissimo a ritrovare tra noi i sentimenti
senza parole che provavo poco fa mentre galoppavo sulla spiaggia
deserta. volevo solo dirti questo.
giovanni
Ore: 17.42
Caro G.,
mi spieghi per esempio come cavolo avresti potuto galoppare libero
e selvaggio su una spiaggia francese con tua figlia se non avessi un
lavoro che ti funziona bene e un'organizzazione minima che ti
permette di fare un viaggio di qualche giorno fuori stagione e una
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carta di credito coperta da un conto in banca e una macchina comoda
per tutti questi spostamenti e benzina da mettere nel serbatoio e
diecimila gesti concreti senza i quali non saresti mai arrivato a
essere lì adesso? Quello che dici sui dettagli pratici è un
imbroglio, perché non sono dettagli e non sono irrilevanti. In più è
inutile che fai tanto il mistico e l'illuminato con me, sei una delle
persone più fisiche e istintive e terrene che io conosca.
M.
Ore: 17.58
cara m.,
se penso che solo qualche anno fa non ci conoscevamo neanche, e che
quando ci siamo conosciuti avevamo una miscela strana di curiosità e
cautela nell'esaminare le nostre reciproche posizioni. allora non
c'era nessun dettaglio pratico, a ostacolare il fluire della nostra
comunicazione spirituale. e fisica e istintiva e terrena, sì.
adesso andiamo a vedere un paese fortificato qui vicino, prima che
il sole vada giù.
ciao, g.
Ore: 18.09
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Una delle cose che mi fanno più rabbia di te è la tua
autosufficienza. L'idea che tu in realtà non abbia bisogno di nessuno
per stare bene, se non forse in qualche momento, quando cedi al
sentimentalismo o alla depressione.
M.
Fanno il giro delle mura
della città fortificata
Fanno il giro delle mura della città fortificata. Lui registra il
taglio e lo spessore dei blocchi di pietra, la disposizione delle
difese, i punti deboli rispetto a un attacco da angoli diversi. Ogni
tanto le dà un'informazione tecnica: dice "Quello si chiama
beccatello", o "Quella è una torre di fiancheggiamento".
Lei fa di sì con la testa, guarda oltre nella luce calante. Dice
"Sei strano quando guardi questi posti".
"Strano come?"
"Strano."
"Dipende da quello che mi arriva addosso, credo."
"E cosa ti arriva?"
"A volte negli angoli d'ombra sento sai una specie di soffio sulle
tempie? A volte invece mi sembra di avere i piedi nella colla. Ma in
questo tipo specifico di posti il più delle volte è angoscia da
assedio."
"Perché?"
"E' la ragione per cui li costruivano. Adesso la gente guarda
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queste mura come una bella cornice storica e pittoresca intorno alla
cittadina, no? Ma l'unica ragione per cui sono state costruite era la
paura. Tutte queste torri e torrette e bertesche e cortine e cinte e
postierle e grate, i cammini di ronda e i ponti levatoi, sono solo
dei tentativi disperati di mettersi al riparo."
"Da chi?"
"Da quelli che calavano dal nord, o da quelli che venivano da est.
Da quelli che arrivavano dal mare. Da quelli che magari stavano a
trenta chilometri e si erano messi in testa che qui sarebbero stati
meglio."
"Ma perché c'è tutto questo accumulo di cose brutte, nella storia?"
"E' dentro di noi, l'accumulo. La storia è solo una traccia di
quello che siamo."
"E perché siamo così?"
"Perché siamo dei grossi topi ingegnosi e ultra adattabili e
disarmonici, in uno stato cronico di inappagamento."
"Come mai le altre specie animali sono in armonia con il mondo più
di noi?"
"Le altre specie hanno una forma di autoregolazione fatta di limiti
naturali. Dipendono dal rapporto tra predatori e prede, dalla
disponibilità delle risorse, dalle barriere climatiche, dalle fasce
di altitudine. Tutte cose che non possono scavalcare oltre un certo
punto."
"No?"
"No. Non è che siano più in equilibrio con il mondo perché
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inseguono un'idea di armonia, anche se sarebbe bello pensarlo. E' un
sistema automatico che le tiene in equilibrio. L'idea di armonia è
nostra."
"Ce la siamo inventata?"
"O l'abbiamo captata, con i nostri lobi frontali ipersviluppati.
Però è un'idea che si scontra di continuo con i riflessi basilari del
nostro cervello rettiliano. Ed è stato il nostro cervello rettiliano
a determinare la storia, quasi sempre."
"Com'è esattamente la faccenda dei cacciatori-raccoglitori e dei
pastori-coltivatori che dicevi?"
"E' un po' lunga."
"Prova ad accorciarla."
"Be', all'inizio vivevamo sugli alberi, nel folto delle foreste
tropicali. Mangiavamo quello che c'era e dormivamo dove capitava.
Avremmo potuto rimanere lì per sempre, in piccoli numeri e in
equilibrio con tutto quello che c'era intorno, come le altre specie."
"E invece?"
"Invece il clima è cambiato e le foreste tropicali si sono ridotte
e abbiamo dovuto uscire allo scoperto delle savane per trovare
qualcosa da mangiare. La cacciata dal paradiso terrestre, no?"
"Davvero?"
"Più o meno. Per sopravvivere abbiamo dovuto imparare ad adattarci,
e da lì siamo andati avanti a farlo. Ad adattarci e adattarci e
adattarci."
"Adattarci come?"
"Intanto abbiamo dovuto imparare a camminare su due zampe sole, il
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che non è stata un'impresa facile."
"Perché lo abbiamo fatto?"
"Per poterci guardare intorno."
"E c'era bisogno di camminare su due zampe, per guardarsi intorno?"
"Prova a camminare a quattro zampe tra l'erba alta di una savana
con la testa a quaranta centimetri da terra, mi dirai quanto riesci a
vedere. Invece su due zampe di colpo la tua altezza quadruplica. Sei
in grado di tenere d'occhio un bel tratto di terreno tutto intorno,
hai qualche possibilità in più di scappare in tempo se qualcuno
arriva quatto quatto per mangiarti."
"Ed eravamo dei cacciatori-raccoglitori?"
"Sì, mangiavamo i frutti e i tuberi e le erbe e il miele e le uova
e i piccoli animali che trovavamo lungo il percorso, e andavamo
oltre. Non era proprio come quando vivevamo nelle foreste, però ce la
cavavamo ancora abbastanza bene. Non avevamo nessun genere di
responsabilità o di impegno, a parte restare vivi e riprodurci."
"E poi?"
"Poi abbiamo continuato ad adattarci e adattarci, e nel frattempo
il nostro cervello continuava a crescere. Poco alla volta ci ha
permesso di fare il fuoco e di tagliare le pelli di altri animali e
usarle come vestiti. Così abbiamo potuto allontanarci ancora dal
nostro ambiente e dal nostro clima d'origine ed espanderci in ogni
angolo del mondo, mentre il mondo continuava a raffreddarsi e a
cambiare aspetto."
"E?"
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"Abbiamo imparato a costruire capanne di tronchi per ripararci, e
recinti intorno. Ormai era la fine dell'ultima era glaciale, una
decina di migliaia di anni fa, i grandi erbivori che un tempo
attraversavano a milioni i continenti erano sempre più rari. Così
abbiamo provato ad allevarne qualcuno al riparo di un recinto, in
modo da averne sempre a disposizione invece che quando capitava."
"Abbiamo cominciato anche a coltivare la terra?"
"Sì, frutti e tuberi ed erbe, tutto quello che fino ad allora
avevamo raccolto in giro. Siamo diventati stanziali e ci siamo messi
a difendere dei territori fissi. Siamo diventati più piccoli e più
gracili, perché fare i pastori-coltivatori era più difficile e
faticoso che fare i cacciatori-raccoglitori."
"Abbiamo inventato il lavoro, in pratica?"
"E gli impegni a medio e lungo termine, e i doveri. Di colpo
avevamo terreni da disboscare e dissodare e arare e seminare e
irrigare e tenere puliti, animali da nutrire e proteggere dai
predatori e far riprodurre e mungere, case da rinforzare e difendere
e aggiustare e tenere in ordine. Di colpo eravamo fermi in un posto,
assediati dalle responsabilità."
"E perché abbiamo cambiato, se la vita di prima era più facile?"
"Perché la nostra incredibile capacità di adattamento ci aveva
trascinato troppo lontani dal nostro punto di equilibrio. Perché il
rapporto tra le risorse naturali e le nostre pretese era sballato in
modo irrimediabile. Perché il nostro inappagamento cronico continuava
a spingerci oltre. E perché la nuova vita da pastori-coltivatori era
molto più prevedibile dell'altra, e la nostra specie ha sempre avuto
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un'ossessione per la prevedibilità."
"In che senso?"
"Nel senso che siamo sempre stati dibattuti tra bisogno di
cambiamento e nostalgia di orizzonti stabili, e adesso ce li avevamo
di nuovo. Gli animali da mangiare non sbucavano più dal buio
insondabile di una foresta, erano lì tutto il tempo sotto i nostri
occhi. Trovare i frutti e i grani e le radici non dipendeva più dalla
fortuna di un percorso scelto a caso tra tanti, ma dalle tecniche di
coltivazione. Naturalmente poteva arrivare una terribile siccità o
una gelata o un'epidemia che distruggeva tutto, ma cominciava a
sembrare già un'interferenza della natura in un disegno umano."
"E poi?"
"Poi l'allevamento e l'agricoltura si sono evoluti ancora, e gli
insediamenti sono diventati più grandi, e i diversi gruppi stanziali
hanno cominciato a cercare di invadere i territori dei loro vicini
per rubare e devastare quello che allevavano e coltivavano e
costruivano, e via via tutto il resto fino a queste mura."
"Sì."
"E la cosa più assurda è che non abbiamo mai raggiunto uno stato di
vera armonia permanente rispetto al mondo nel suo insieme, eppure ci
siamo riempiti la testa di illusioni di armonia e di permanenza."
"Perché?"
"Perché sono idee che ci piacciono. Come l'idea di avere il
controllo delle cose."
"E non lo abbiamo?"
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"No. Controlliamo solo quello che abbiamo inventato, e neanche del
tutto, perché non controlliamo le sue conseguenze a lungo e neanche a
medio termine."
"I cacciatori-raccoglitori degli inizi cosa controllavano, invece?"
"Niente, ma non gli passava neanche per la testa di poterlo fare.
Tutta la loro attenzione era per gli equilibri misteriosi di quello
che c'era. Per gli odori e i suoni appena percettibili, per le più
sottili variazioni atmosferiche, i minimi cambiamenti di luce e di
umidità e di temperatura. Per un movimento improvviso che poteva
essere intuito o anche anticipato di poco in seguito a lunghe
osservazioni. Per la sorpresa e lo spavento e la fame e la sete e
l'energia e la stanchezza e il sonno, le forze piccolissime e immense
che tenevano il mondo in uno stato di vibrazione continua."
"E adesso?"
"Adesso facciamo piani e piani su tavoli attrezzati. Abbiamo
incanalato le nostre capacità percettive in un esercizio accanito di
classificazione e trasformazione e sfruttamento di tutto quello che
abbiamo intorno. Per il resto sappiamo solo sviluppare i codici che
abbiamo inventato e modificarli secondo nuovi schemi. Oppure vendere
e comprare giochi sostitutivi, come animali da giardino zoologico che
sfogano il loro bisogno di attività e di fantasia sul primo copertone
usato di automobile che gli viene buttato dentro la gabbia."
"Madonna."
"E' così."
"Però non doveva neanche essere tanto bello quando eravamo delle
povere scimmie nude che camminavano nella savana e giravano la testa
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da tutte le parti per la paura continua di essere mangiate da qualche
altro animale, no?"
"No."
"Quindi c'è qualche vantaggio nel fatto di esserci evoluti?"
"Sì che c'è. Solo che non riusciamo molto a utilizzarlo."
"No?"
"Non tanto. Siamo come dei ponti non finiti che nessuno sa dove
portino. La grande complicazione che abbiamo dentro finisce per
provocare quasi solo contrasti e squilibri e resistenze, che ci fanno
stare molto peggio di come staremmo se fossimo più semplici."
"E allora?"
"Allora abbiamo ugualmente una momentanea, miracolosa capacità di
intuire qualcosa oltre la superficie di quello che vediamo e
tocchiamo. Invece ci fermiamo a una ripetizione ossessiva di dati
acquisiti e registrati, e nel frattempo la nostra capacità di
intuizione si dissolve, e alla fine possiamo solo guardarci intorno
nello stesso modo dei nostri lontani antenati che camminavano su due
zampe pieni di paura attraverso le savane."
"Davvero?"
"Sì. In compenso siamo riusciti a peggiorare di parecchio la
situazione che abbiamo intorno. Ogni anno ci sono mille specie
animali che si estinguono, come conseguenza a medio o lungo termine
di uno dei tanti processi che abbiamo inventato e che non
controlliamo affatto. E ti immagini che la faccenda riguardi qualche
tipo di farfalla nella foresta brasiliana, no? Ma ci sono anche
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specie molto più vicine a noi che rischiano di estinguersi, ormai."
"Tipo?"
"Perfino i merluzzi. O i tonni."
"I tonni?"
"Sì. E ogni anno vengono distrutte foreste che coprirebbero una
superficie come quella della Francia. E ogni giorno ci sono
duecentocinquantamila persone in più al mondo. Ogni giorno. Oggi
siamo sei miliardi, e tra cinquant'anni saremo dodici miliardi. E
tutti questi miliardi di persone non fanno che triturare e scorticare
e bruciare e rovesciare e accaparrarsi e vendere e consumare fino
all'esaurimento totale le risorse che la terra aveva in origine."
"E qual è la soluzione?"
"Fermare la proliferazione spaventosa di persone e fermare i
processi che abbiamo innescato e che non controlliamo. Uscire dalla
miopia imbecille che ci fa guardare quello che succede appena fuori
dalle nostre porte come eventi remoti, a metà tra il limbo della
televisione e quello delle pure ipotesi allarmistiche."
"Ma nessuno fa niente?"
"Non con la disperata urgenza martellante e amplificata in ogni
modo possibile che sarebbe necessaria. Al massimo viene dedicato
qualche minuto di attenzione a qualche effetto collaterale
particolarmente increscioso, come i milioni di persone che muoiono di
fame ogni anno. Ma il nocciolo della faccenda viene lasciato stare da
quasi tutti."
"Perché?"
"Perché né la chiesa né i produttori di tabacco e armi e latte in
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polvere né i manipolatori di voti hanno nessuna voglia di veder
ridurre i loro terreni di caccia di qualche milione di potenziali
polli. Anche se alla fine potrebbe non restargliene più nemmeno uno
vivo."
"E' per questo che non si fa niente?"
"Anche per pura e semplice superficialità da scimmie iperevolute
che si girano una questione fondamentale tra le mani e la lasciano
cadere appena non sembra più tanto facile o divertente o alla moda.
L'equilibrio del mondo si sta deteriorando con una velocità
spaventosa, ma se n'è parlato un po' troppo a lungo perché sia ancora
un tema davvero interessante. Peccato. Meglio occuparsi d'altro."
"Madonna, in che brutta situazione del cavolo ci siamo messi."
"Abbastanza."
La guarda a intervalli; si chiede se sono informazioni abbastanza
precise per una persona di sedici anni che ha appena cominciato a
raccoglierne.
Cenano da soli nella
grande sala
dal tetto di paglia
Cenano da soli nella grande sala dal tetto di paglia. Dalla cucina
arrivano suoni metallici, non filtrati da nessun brusio di voci o
acciottolio o musica di sottofondo. Il cameriere è formale in modo
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ridicolo rispetto alla situazione: recita il menu del giorno tutto
rigido davanti a loro. Lui traduce, ma lei ha già capito che il
secondo piatto è coniglio prima che lui possa inventarsi qualcosa,
dice "Il coniglio no".
Lui chiede al cameriere se c'è qualcos'altro; il cameriere scuote
la testa e allarga le braccia.
"Il coniglio non lo mangio" dice lei, con l'espressione
irremovibile che le viene in questi casi.
"Ma è probabile che sia buono."
"Non lo mangio."
"Va be', mangerò io anche il tuo." Dice al cameriere "Non si
preoccupi, ce lo porti pure". Non gli viene facile come sembra: gli
costa fatica calibrare il tono e il volume di voce, ma con lei seduta
davanti cerca una sintesi tra comunicazione e forma il più vicino
possibile a quella giusta.
Quando il cameriere se n'è andato lei dice "Non posso fregarmene
proprio di tutti i miei principi".
"No?"
"No."
Lui pensa al coniglio nano che si era fatta regalare come surrogato
di cane un Natale di molti anni prima quando era ancora una bambina,
e che nel frattempo è cresciuto fino a non essere più nano per
niente. Pensa a quando erano andati a vederlo insieme sul terrazzo di
casa sua e di sua madre: il modo in cui lei gli aveva descritto i
suoi comportamenti, con una capacità di osservazione e un'accuratezza
da vera etologa.
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Lei dice "Vi siete parlati, con M.?".
"Abbiamo avuto un breve scambio di e-mail."
"E?"
"E niente."
"In che senso?"
"Nel senso che ormai è come camminare su un campo minato, qualunque
passo fai."
"Ma qual è la ragione precisa, adesso?"
"Non c'è una ragione precisa. Qualunque ragione è la ragione
precisa."
"Perché?"
"Perché ci siamo esasperati in una ripetizione furiosa di
affermazioni e rivendicazioni."
"Lei cosa dice?"
"Che è stufa di aspettare che io cambi quando ormai sa che non
succederà mai."
"Come dovresti cambiare?"
"Diventare uno che le fa una proposta di vita."
"E non vuoi?"
"Non so cosa significhi di preciso, ma quando mi sembra di capirlo
mi prende un'angoscia e una pesantezza senza scampo."
"Ma perché?"
"Per tutta la meccanicità collaterale della vita che mi sembra di
dovermi assumere."
"E come vorresti che fosse, invece?"
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"Che tutto restasse aperto e leggero e flessibile. Da scegliere e
inventare ogni volta."
"Ogni volta?"
"Sì. Dove non capiti mai che uno dei due torna a casa e l'altro non
se ne accorge neanche perché è una cosa normale, garantita dalle
circostanze e dall'organizzazione."
"Però non è brutto sapere che quando torni a casa trovi qualcuno."
"No. E' brutto se non ti sorprende."
"E non ti può sorprendere anche se si vive insieme?"
"Forse sì, ma di solito non succede."
"Cosa succede?"
"Che la sorpresa dell'inizio si riduce con un'accelerazione
progressiva. Dopo un po' due vivono insieme come se fosse
semplicemente inevitabile, un compito da assolvere in base alle leggi
che regolano il mondo."
"E cosa dovrebbero fare, invece?"
"Non lo so."
"Forse potresti provarci. Sei grande, no?"
"Guarda che non è che con il tempo uno diventi tanto diverso, sai?"
"No?"
"Rimane la stessa identica persona, con un po' di informazioni in
più."
"Ma M. ti vuole inchiodare a una storia così noiosa e senza scampo?"
"Per niente. E' la donna più vivace e intelligente che io conosca.
Ha mille cose che la interessano, e mille cose che vuole fare. Tra i
due è probabile che sia più noioso io. E' quasi sicuro, anzi."
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"E allora?"
"C'è una parte della sua vita che mi riempie di ansia e di sensi di
estraneità."
"Quale?"
"La parte delle telefonate e degli impegni con seconde e terze
persone e degli autobus scolastici e delle medicine e delle palestre
e degli appuntamenti e delle consegne e dei ritiri e delle
prenotazioni e delle discussioni e degli accordi e dei solleciti e
delle verifiche. Tutta l'estensione pratica e organizzativa e
probabilmente indispensabile della sua vita."
"Forse dovreste accettarvi come siete, e basta."
"E' quello che dico anch'io. Che non si può volere una zebra senza
le strisce. Ma non funziona, per quanto ci possiamo provare."
"Perché?"
"Senti, il fatto è che non è solo un problema mio e di M. E' un
problema di milioni di persone, ormai. Guardati intorno. Tutte le
coppie che conosco sono separate o divorziate, o se stanno ancora
insieme litigano tutto il tempo o affondano nell'infelicità o nel
risentimento o nell'indifferenza giorno per giorno."
"Cosa vuol dire?"
"Che c'è una gigantesca trasformazione in atto, e nessuno vuole
riconoscerla per quello che è. Magari se ne parla, ma nel tono
frivolo con cui si parla di un fenomeno di costume. Invece è una cosa
molto più profonda ed estesa. E' come se ci fosse un'epidemia che
contagia intere popolazioni, e ognuno di quelli che si ammalano
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continuasse a pensare di essere stato colpito da una sua specifica
disgrazia."
"Probabilmente è così che ti senti, se c'è un'epidemia e ti ammali.
Vedi solo te stesso."
"Invece dovresti sforzarti di vedere l'insieme, se vuoi avere
qualche speranza di cura o di prevenzione."
"E da cosa viene, l'epidemia?"
"Dal fatto che il mondo è cambiato e gli uomini e le donne sono
cambiati e le loro soglie di tolleranza al sacrificio e alla
ripetizione e alla noia si sono abbassate e abbassate, al punto che
nessuno di loro è più disposto a farsi chiudere dentro una scatola a
un certo punto della sua vita e a pensare che la fase dei sogni e
delle aspettative di sorprese meravigliose è chiusa per sempre."
"Perché, due non possono sognare insieme, scusa?"
"Certo. Anzi, di solito due si mettono insieme proprio in base a un
sogno comune. O a sogni diversi che ognuno dei due fa intravedere
all'altro. Ma poi quello che succede è che ogni volta che uno dei due
chiude gli occhi per immaginarsi qualcosa di meraviglioso, l'altro è
sempre lì pronto a scuoterlo per una spalla, dire "Ehi, scendi a
terra"."
"Non è sempre così."
"Quasi sempre. Di solito variano solo i tempi in cui succede."
"Comunque per quanto possa essere un problema condiviso da milioni
di persone e una trasformazione gigantesca e un'epidemia come dici
tu, alla fine siete voi due. Tu e M."
"Mangia il coniglio."
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"Ti ho detto che non lo voglio."
"Ma non c'è altro."
"Mangio l'insalata, il coniglio prendilo tu."
"Che cavolo di testa ostinata sei."
Mangiano in silenzio per cinque o dieci minuti. Il cibo non è
buono, si sente che è uscito da una cucina fuori stagione aperta solo
per loro. Lui pensa che avrebbero fatto meglio a tornare al
ristorante folcloristico in paese, dove almeno c'era qualche altro
cliente. Stare seduti così tra decine di tavoli vuoti sotto il
soffitto di paglia con le finestre che danno sul buio accentua il
senso di vuoto che gli viene a parlare dei suoi rapporti con M. Si
chiede se il cameriere che li occhieggia ogni tanto dalla porta della
cucina ha capito che sono padre e figlia, o si è immaginato invece
una coppia anagraficamente molto sbilanciata. Gli viene in mente
quando l'estate prima in un ristorante di mare una cameriera li aveva
chiamati "ragazzi" tutti e due, e invece poco dopo in un cinema
all'aperto un'adolescente seduta dietro di loro aveva detto a sua
figlia "Signora, le dispiace spostarsi di poco?". Si chiede se è la
sua immaturità di fondo a provocare queste confusioni percettive, al
punto che dal di fuori è quasi impossibile riconoscergli in modo
automatico un ruolo di padre.
Dice "Non è che io sia compiaciuto di come sono, anche se ogni
tanto può sembrare così. Non è così. Ci sono delle volte che vorrei
provare a essere diverso".
"Tipo?"
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"Tipo una persona matura come dice M., con qualità da persona
matura. La serenità e la calma, l'applicazione razionale delle mie
risorse per scopi pratici e spirituali positivi, lineari,
attendibili."
"Sì?"
"Posso vedermi, anche. Io che metto su una bella casa dove c'è
spazio per tutti, io che seguo e rendo possibili le attività della
famiglia. Senza tracce di inconsistenza né incrinature d'umore,
nessuno scatto di nervi o impulso improvviso di fuga. Paziente e
dedito agli altri e al mio lavoro in modo regolare e sistematico."
"E non potresti farlo davvero?"
"Forse. Sono immagini abbastanza definite da sembrare plausibili."
"E come ti senti, in queste immagini?"
"Bene. Anche se è un modo di stare bene diverso da questo tutto
eccitazione e scatti da uno stimolo all'altro come un cane che salta
intorno."
"Che modo è?"
"Un modo maturo, credo. Più a respiro lungo, con meno picchi
impennati e meno cadute vertiginose. Un modo solido di stare bene.
Leggermente allargato e rallentato dalla maturità. Dal senso di
responsabilità e dal benessere costante e dalla maggior quantità di
cibo che probabilmente ti spingono a consumare."
"Dài!"
"Cosa c'è di strano? Mi vedo le dita delle mani un po' più robuste
e un po' meno sensibili, i movimenti delle articolazioni un po' più
limitati. Un po' meno leggero, un po' meno flessibile. Ma non è una
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metamorfosi brutta. Rispetto a tutta l'instabilità inconsistente e
inconcludente in cui mi sono ostinato a restare, come se fosse un
territorio meraviglioso da difendere."
"Sì?"
"Guarda, c'è una cosa che mi ricordo. Forse un anno fa, ero tornato
da Trieste a Milano dopo aver detto a M. che dovevo ricostituire la
mia aura per qualche giorno, e una sera sono andato con il mio amico
Riccardo alla estrema periferia nord della città perché non avevamo
niente da fare e lui voleva vedere delle lampade in uno di quei
magazzini giganti che pensava fosse aperto fino a mezzanotte. Il
posto invece era chiuso ed eravamo tornati indietro attraverso un
tessuto spaventoso di capannoni industriali e magazzini e tralicci e
svincoli e piloni e stazioni di servizio e aloni di luce fredda nella
nebbia industriale, e M. a un certo punto mi aveva telefonato e aveva
detto "Cosa cavolo stai facendo, invece di essere qui?". E mi ero
sentito così totalmente stupido. Perché non ero neanche in una
fumeria d'oppio in Tailandia o in un ritrovo di ballerine sfrenate o
a galoppare su qualche altopiano o a fare chissà cosa di intenso e
selvaggio, ero nella periferia desolata della città più brutta del
mondo, solo per sentirmi leggero e libero e non schiacciato dai
doveri."
"Quindi in realtà vorresti cambiare, allora?"
"Forse. Perché non è neanche bella l'idea di andare avanti così per
sempre, a farsi proporre vite da altre persone e affacciarsi dentro e
dire grazie ma no, grazie ma no, grazie ma no. Senza mai avere una
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casa da considerare una base permanente."
"Non l'hai mai avuta?"
"Non una dove pensavo che sarei restato a lungo, anche se a volte
ci sono restato a lungo."
"Ma perché? Non ne hai mai trovata una che ti piaceva abbastanza?"
"Sì. Ma c'era sempre qualche ragione esterna o interna per cui non
potevo starci."
"E quando sono nata io?"
"Siamo andati in un sottotetto incredibilmente umido e freddo
d'inverno e soffocante d'estate. Tua madre non ne voleva sapere, ma
l'ho convinta. Ci siamo rimasti alcuni mesi, in una specie di bohème
assurda, ammalandoci a turno mentre tu piangevi."
"E ti piaceva?"
"No. Ma mi dava il senso di non avere firmato un contratto a
termine indefinito. Il che è abbastanza patetico, se pensi che era
proprio quando avevo preso l'unico impegno a termine indefinito della
mia vita."
"Vale a dire?"
"Avere te."
"Già."
"Eppure l'idea di stare in una soffitta chiaramente inabitabile mi
faceva sentire meno prigioniero. Ma era inabitabile. Mi ricordo
ancora l'odore di polvere umida che c'era, e come si trasformava con
l'aria calda dei termosifoni. Mi sento ancora in colpa, se ci penso."
"Verso chi?"
"Verso te e tua madre. C'è una fotografia, dove sono seduto sul
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pavimento con di fianco una bottiglia di champagne vuota, il che
suggerisce un'idea romantica da esistenzialisti estremi, ma non
riesco ad associarci proprio niente di piacevole o suggestivo. Facevo
ginnastica nel bagno minuscolo con dei pesi di plastica pieni di
pallini di piombo comprati in un grande magazzino, mi sforzavo di
pensare che forse l'orizzonte non era proprio del tutto chiuso."
"E poi?"
"Poi tua madre ha trovato un appartamento vero, ma ci sono
diventato matto quasi subito."
"Perché?"
"Non lo so. Mi rendevo conto che avrei potuto essere felice, con te
piccola e meravigliosa e piena di scoperte. Invece detestavo tutto
quello che avevo intorno, la cucina e il pavimento e i vetri alle
finestre, il piccolo balcone di servizio che dava su un cortile
chiuso, l'atrio, la gabbia della portineria e l'ascensore e le scale,
le porte degli altri appartamenti."
"Perché?"
"Perché mi sentivo scivolato in una vita che non avevo scelto, per
mancanza di idee precise sulla vita che avrei voluto invece. Avevo
sempre avuto un atteggiamento di resistenza e di negazione, passi
indietro o a zigzag invece che lungo un percorso lineare. Avevo
davvero solo saputo cosa non volevo, mentre su quello che volevo
avevo le idee più vaghe del mondo. Lasciavo la responsabilità delle
decisioni pratiche a tua madre, tutto quello che riuscivo a fare era
lamentarmi e manifestare estraneità."
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"E cosa facevi?"
"Uscivo a camminare e quando tornavo guardavo il portone chiuso con
un senso di rivolta estetica e morale così forte che a volte la
chiave non girava nella serratura. Lo prendevo a calci e a pugni,
finché veniva la portinaia furiosa a vedere cosa succedeva. A volte
dentro casa facevo dei segni da pazzo sui muri, dove lo smog si
depositava in forma di velo. Dei segni da prigioniero, parole senza
senso. Il rumore del traffico mi ossessionava. Di notte mi alzavo e
andavo a dormire sul pavimento del bagno, dove mi sembrava che i
suoni non arrivassero."
"E non avresti potuto decidere di andare in un posto migliore? Che
ti piaceva di più?"
"Non ci riuscivo. Mi comportavo come un animale selvatico preso al
laccio e poi rinchiuso in una gabbia. Solo che nessuno mi aveva
propriamente preso al laccio e rinchiuso, c'ero entrato per conto
mio."
"Oh madonna."
"A volte però ti prendevo sulle spalle e andavamo ai giardini
pubblici, dove allora c'era uno zoo. Era uno zoo piccolo e brutto e
pieno di animali chiusi in gabbie troppo strette, nel clima
terribilmente umido e tetro della città. Non era solo una mia
impressione, perché qualche anno dopo il comune ha deciso di
chiuderlo e smantellarlo. Ma era bello andarci con te, comunque.
Guardare gli animali al di là delle sbarre."
"Mi interessavano già?"
"Sì, molto. Stavamo fermi a guardarli per ore, le scimmie in
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particolare. Una volta ti ho fatto una barchetta con due foglie di
magnolia, l'abbiamo messa a veleggiare in una grande vasca dove i
bambini portavano i loro modellini a vela o a motore."
"Sì?"
"Se qualcuno ci avesse guardato dal di fuori, credo che saremmo
sembrati molto teneri, insieme. Ma per il resto stavo sempre peggio.
Aspettavo solo un'occasione per andarmene via. Avrei accettato
qualunque genere di proposta, pur di cambiare scenario. Qualunque."
"E l'hai fatto?"
"Sì. Non mangi il dolce?"
"No. Ha un colore orrendo."
"Non so neanche se è giusto raccontarti queste cose."
"In che senso?"
"Se è giusto che un padre si riveli così pieno di problemi a una
figlia. Sai quando si dice che i genitori dovrebbero essere delle
figure di riferimento? Magari da rifiutare e detestare, ma delle
figure omogenee e coerenti con cui confrontarsi, no?"
"Anche se non mi dicessi niente li vedrei da sola, i tuoi problemi."
"Davvero? Sono così evidenti?"
"Be', abbastanza."
"Accidenti. E ti disturbano molto? Minano profondamente la tua
sicurezza?"
"Ma no. Ci sono abituata, ormai."
"Non parliamone più, allora."
"Sei tu che hai cominciato."
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"Sì, ma adesso basta, basta. Ci alziamo? Andiamo a fare un giro
prima che sia troppo tardi? Hai voglia?"
"Sì."
Lui si alza, con l'indolenzimento alle gambe e l'insofferenza
generale che gli viene ogni volta che sta seduto troppo a lungo. Lei
lo segue; si scambiano uno sguardo, come una scia di domande e
risposte solo pensate.
Camminano ai margini
del paese
Camminano ai margini del paese. L'aria è umida e densa, i lampioni
creano deboli aloni. Quando passano davanti al ristorante della sera
prima un cuciniere viene fuori con una grossa latta d'olio di semi
vari da buttare, fa uscire un'onda di flamenco-pop dalla porta.
Guardano attraverso le vetrate mentre ci passano davanti: due coppie
ai tavoli, il chitarrista che suona con lo sguardo perso e muove il
bacino. Attraversano la strada e camminano sul lungomare deserto.
Lui dice "Già finito tutto".
"C'è ancora domani" dice lei.
"Domani torniamo."
"Va be', ma è stato bello, no?"
"Sì, però è finito. O vorresti continuare? Andare a nord verso la
Bretagna?"
"Non posso, lunedì devo essere a scuola."
"Mancano ancora tre giorni, alla scuola. E' che vuoi vedere Luca e
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i tuoi amici sabato, no?"
"Sì. Ma anche tu devi lavorare, no? Hai già interrotto per questi
giorni."
"Certo. Domani torniamo, non ti preoccupare."
"Però mi è piaciuto molto fare questo viaggio. Davvero."
"Lo so, lo so."
Camminano tra il paese e la spiaggia, le suole delle loro scarpe
fanno scricchiolare piccoli sassi.
Lui dice "E' che ho un vero problema con le fini, io. Non sopporto
l'idea. Che sia un viaggio o un libro o una storia d'amore o una
canzone, è lo stesso".
"Anche una canzone?"
"Sì. Ma quella è l'unica fine a cui si può rimediare facilmente.
Basta schiacciare repeat, la fai ricominciare all'infinito."
"Però a furia di riascoltarla poi ti esce dalle orecchie."
"Meglio così. Almeno a quel punto posso accettare l'idea che
finisca, quando conosco ogni nota al punto della saturazione totale."
"E con una storia?"
"Con una storia non riesci comunque a conoscere ogni nota. Ci sono
sempre note che non hai ancora sentito. C'è sempre qualcosa che non
sai."
"E come fai, allora?"
"Continuo a schiacciare quel tasto repeat. Non importa quanto va
male, quanto tutto si è già deteriorato e guastato. Non voglio che
finisca, e basta."
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"Ma cosa succede, se fai così?"
"Che l'altra persona si esaspera ancora di più. Perché il problema è
che non cerco soluzioni né faccio proposte alternative, per non
lasciarla finire. Schiaccio solo repeat e resto lì, come uno seduto
in una macchina in sosta vietata agganciata al carro attrezzi che la
vuole trascinare via."
"E cosa succede?"
"Che prima o poi la trascinano via lo stesso, con me ancora seduto
dentro, finché non mi decido a saltare giù."
"Non avresti mai chiuso nessuna storia, se avessi potuto?"
"Nessuna di quelle importanti, credo. Avrei cercato di restarci
dentro per sempre."
"Come?"
"Non lo so. Anche se a pensarci adesso sono ben contento che siano
finite. Ma allora mi sarebbe andato bene qualunque modo per farle
continuare. Mi rendo conto che è assurdo. Passo tre quarti della mia
vita tra cose finite da secoli o da millenni, telescopizzate nel
tempo fino a non occupare più nessuno spazio, eppure non sopporto che
niente di quello che amo finisca. Non sopporto le ultime pagine di un
libro e non sopporto le ultime inquadrature di un film e non sopporto
gli ultimi giorni di una vacanza, se il resto mi è piaciuto molto.
Non sopporto che le persone invecchino e muoiano. Non sopporto che i
cani o i cavalli o i gatti invecchino e muoiano. Mi rifiuto di
crederci, addirittura."
"In che senso?"
"Nel senso che mi rifiuto di crederci. Penso che non è così, e
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basta. A volte funziona."
"Come, funziona?"
"Funziona. A volte se ti convinci che una cosa non può succedere,
non succede. Se ti convinci che le persone a cui vuoi bene non
invecchiano, per esempio."
"Però invecchiano lo stesso."
"Ma meno. Se ti convinci davvero che non invecchiano, invecchiano
meno. Invecchiano lo stesso, ma meno."
"Com'è possibile?"
"E' possibile. Te l'ho detto, il tempo è una delle nostre
invenzioni di animali complicati."
"Però anche gli animali semplici invecchiano e muoiono."
"Sì, certo, ma forse non come sembra a noi."
"E come, allora?"
"Forse non possiamo saperlo, finché non riusciamo davvero a
tagliare tutti i fili che ci legano ai calendari e agli orologi e ai
cronometri, e a lasciare che lo spazio che chiamiamo tempo si dilati
nel suo modo ciclico."
"Sei sicuro?"
"No. Ma potrebbe essere, no?"
"Non lo so."
Sono già oltre il paese, più in là si vedono i cantieri, come
fantasmi immobili di cambiamenti sospesi. La notte si raddensa appena
fuori dalla luce dei lampioni, le distanze annegano nel buio. Vanno
avanti ancora qualche decina di passi, poi tornano indietro.
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Lei dice "Va be', faremo altri viaggi insieme, spero".
"Sì. E' solo che mi metteva tristezza che questo fosse già finito."
"Non è ancora finito."
"Ma quasi."
"Ne faremo un altro, presto."
"Sì."
Lungo la strada di colpo
non si vede più niente
Lungo la strada di colpo non si vede più niente, c'è una nebbia che
sale dai fossi e dai canneti e dalle paludi e forma una successione
di cortine bianche alla luce dei fari.
Lui dice "Ehi!".
Lei dice "Rallenta!".
Ridono tutti e due. Vanno avanti piano come in un baraccone delle
streghe al luna park, dove non è chiaro fino all'ultimo se gli
ostacoli che hai davanti siano reali o no. Le cortine di nebbia si
dissolvono una a una mentre ci passano attraverso, il fatto che non
producano rumore rende ancora più strana la sensazione. Il paesaggio
intorno alla strada sembra essersi dissolto; dopo qualche minuto non è
nemmeno più chiaro in che direzione stiano andando. Vanno avanti lo
stesso, incantati dall'effetto di straniamento totale, mentre bucano
un piano orizzontale di luce dietro l'altro.
Quando sono ai loro bungalow
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non hanno più sonno
Quando sono ai loro bungalow non hanno più sonno. Lei si siede sul
muretto che divide gli ingressi e lui resta in piedi; guardano in
alto.
Lei dice "Ma com'è che scegliamo una persona? Al di là di tutte le
ragioni biologiche primordiali".
"Di solito abbiamo un'immagine in base a cui cercare."
"Una specie di identikit?"
"Sì. Sai quando vedi una di quelle facce di ricercati su un
giornale e ti sembra un ritratto maniacalmente specifico e così
generico da potersi adattare a milioni di persone diverse? C'è la
stessa oscillazione assurda tra precisione e imprecisione, potrebbe
farti girare a vuoto tutta la vita."
"E da dove viene l'identikit?"
"Dalle nostre qualità e dai nostri difetti. Da quello che Ci manca
e da quello di cui abbiamo bisogno. Da quello che sappiamo fare e da
quello che vorremmo saper fare. Dai libri che abbiamo letto e dalle
canzoni che abbiamo ascoltato e dai film che abbiamo visto. Da come
erano i nostri genitori e i nostri primi compagni di giochi."
"Sì?"
"Poi milioni di persone si fanno un identikit in base a quello che
vedono alla televisione. Se lo fanno vendere già pronto, dalla
pubblicità o dai giornali, dagli esperti di look e dagli psicologi e
dagli stilisti e dai creativi delle agenzie."
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"Ma a cosa serve un identikit, se è vago come dici?"
"E' vago, ma anche preciso. Serve a riconoscere qualcuno quando
l'hai già trovato. Come un identikit vero. Il ricercato viene
catturato per tutt'altre ragioni, e quando si confronta la sua faccia
con quella del disegno, si dice "E' proprio lui"."
"In base a cosa?"
"Magari a un singolo tratto distintivo, se è quello giusto."
"Funziona così?"
"Più o meno. All'inizio partiamo da uno stato di diffidenza
estrema, come chiunque stia facendo una ricerca con un identikit in
mano. Ma appena ci sembra di riconoscere quello che abbiamo trovato,
ci invade un'euforia che affretta una grande quantità di conclusioni."
"Anche se quello che abbiamo trovato non era quello che cercavamo?"
"A volte. Il punto è che di solito non abbiamo abbastanza tempo o
abbastanza lucidità per esserne del tutto sicuri."
"Perché?"
"Perché il nostro identikit era estremamente vago e anche
estremamente preciso. E quando hai un'idea così contraddittoria di
quello che stai cercando, è difficile capire se l'hai trovato
davvero."
"E allora?"
"Ci comportiamo come se la ricerca fosse risolta, manifestiamo e
suscitiamo entusiasmo. Però c'è questa parte di noi che vorrebbe
chiudere lì l'indagine, e ce n'è un'altra che invece va avanti a
cercare, come un investigatore non convinto."
"E cosa fa?"
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"Continua a fare verifiche e confronti, cercare prove ulteriori e
controprove. La prima parte di noi dice "Basta, va bene così, non
serve più", ma l'altra parte non si ferma."
"E?"
"Indaga e indaga e a volte scopre che c'è stato un equivoco. E a
quel punto le due parti si scontrano furiosamente, perché nessuna
delle due accetta quello che l'altra sostiene."
"E la persona che hai riconosciuto o che hai creduto di
riconoscere, cosa fa?"
"Non capisce bene cosa stia succedendo. E anche lei o lui
naturalmente ha un identikit in mano e due parti che se lo
contendono, e una delle sue due parti continua a sua volta a fare
confronti e verifiche."
"E alla fine cosa succede?"
"Si scopre che c'è stato un doppio equivoco, o un equivoco solo, o
che il riconoscimento era giusto. A volte capita anche che la parte
che continuava le indagini si stanchi, o si confonda, o si lasci
comprare o convincere."
"Da cosa?"
"Dal dato di fatto di un riconoscimento già avvenuto, anche se è
stato un errore. O dalla convinzione che un identikit contraddittorio
possa produrre solo falsi riconoscimenti, e dunque uno ne valga un
altro."
"Ma non ci può essere un riconoscimento vero?"
"Sì, anche se è difficile. Ma sì, certo."
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"E tu?"
"Io cosa?"
"Ci sei riuscito, a trovare quella che cercavi in base al tuo
identikit?"
"Credo di avere sempre avuto degli identikit troppo vaghi e troppo
precisi, io."
"Ma perché succede questa storia dei segnali letti e interpretati
troppo in fretta?"
"Perché ognuno di noi si aspetta delle sorprese meravigliose dalla
vita. Anche chi non lo riconoscerebbe mai. Nascosta sotto i suoi
pensieri c'è l'idea che a un certo punto gli arriverà da qualche
parte il più incredibile dei regali, che cambierà ogni cosa e renderà
la sua vita appassionante e divertente come non è mai stata. E quando
abbiamo davanti la persona che ci sembra di riconoscere, pensiamo che
sia lei o lui la sorpresa meravigliosa che aspettavamo."
"E invece?"
"A volte ci rendiamo conto di aver fatto un'identificazione
sbagliata, appunto. Ma quando non è così, dopo un po' cominciamo a
pensare che la persona che abbiamo riconosciuto non sia in sé la
sorpresa meravigliosa, ma sia un tramite."
"Vale a dire?"
"Che sia dotata del potere di aprirci porte segrete, farci strada
lungo corridoi e attraverso stanze e giardini a cui non saremmo mai
arrivati da soli, anche se ce li eravamo immaginati."
"E non è così?"
"A volte sì. All'inizio, per lo meno. Entriamo davvero in stanze e
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giardini sorprendenti."
"E poi?"
"Quasi sempre succede che uno dei due o tutti e due cominciano a
mettere mobili nelle stanze e tavolini da tè e sedie nei giardini, e
poco alla volta quasi tutta la loro energia viene assorbita in queste
attività di appropriazione e organizzazione dello spazio. Invece di
continuare a camminare verso altre stanze e altri giardini, si
fermano nei primi che hanno trovato, e li arredano."
"E poi?"
"Poi i gesti cominciano a ripetersi, e le sensazioni anche, finché
uno dei due o tutti e due perdono entusiasmo e divertimento e
attenzione. Si dimenticano lo stupore di quando erano arrivati in
quella prima stanza o in quel primo giardino. Si dimenticano quanto
sia stato miracoloso trovarli."
"E cosa succede?"
"Che restano lì, come se fossero nell'unico luogo al mondo dove
potrebbero essere. E magari è confortevole e bello, ma c'è solo
quello. E dopo un po' uno dei due comincia a sentirsi chiuso e si
mette a cercare una porta per uscire. All'inizio magari la schiude
soltanto. Poi fa piccole sortite fuori. Poi di colpo non c'è più.
L'altro o l'altra resta lì con i suoi mobili, non capisce bene cosa
sia successo."
"Che tristezza."
"Sì."
"Ma non è inevitabile, no?"
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"No. Dipende anche dal riconoscimento. Se era autentico o no."
"Come fai a saperlo, con un identikit così inaffidabile?"
"La cosa strana è che non è poi tanto inaffidabile, se lo sai
guardare. Per esempio, all'inizio quando tutti e due sono ancora
nella fase della diffidenza estrema, riescono a vedere benissimo i
lati che non gli piacciono uno dell'altro. Sono davanti ai loro
occhi, perfettamente leggibili fin dal primo incontro. Ma poi
nell'euforia del riconoscimento tutti e due smettono di vederli. Li
rimuovono, fino a quando le cose non cominciano ad andare male."
"E' una specie di pazzia, quello che succede tra due persone."
"Lo è."
Lei guarda l'orologio, riabbassa subito il polso. Ridono tutti e
due.
Una e-mail
Ore: 1.20
cara m.,
forse è completamente inutile, ma non sopporto l'idea che chiudiamo
questa storia senza neanche riuscire a definire in modo chiaro perché
lo facciamo. è stato quasi sempre così nella mia vita fino adesso, ma
vorrei che non capitasse anche tra noi con questo genere di
ineluttabilità desolata di navi che si staccano dal molo. so già che
dirai che è solo il mio sentimentalismo e la mia incapacità di
accettare le fini, ma non è vero.
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è che mi sembra inaccettabile che due persone come noi si
rassegnino a quello che succede, senza provare a controllare il
flusso che lo fa succedere e magari a rovesciarlo. conosci la mia
teoria secondo cui tutti gli elementi che alla fine mandano in pezzi
una storia erano già lì perfettamente visibili fin dall'inizio, no? è
chiaro che tutti e due li abbiamo visti, eppure non abbiamo voluto
cercarci qualcuno che corrispondesse meglio all'identikit che avevamo
in mente. il fatto è che la vita è altamente implausibile e
difettosa, cara m., eppure ci accaniamo a pretendere piccole isole di
perfezione assoluta. in nome di questa perfezione ipotetica siamo
disposti a sacrificare quello che abbiamo di imperfetto e di caro.
nel nostro caso quello che ci ha attratti e poi tenuti insieme
malgrado le difficoltà e gli scontri ricorrenti e l'insoddisfazione
reciproca per non riuscire a capirci fino in fondo o per capirci ma
non agire di conseguenza, o agire di conseguenza e poi tornare sui
nostri passi.
quando una persona si mette con un'altra, si convince che abbia con
sé una cesta con dentro tutte le qualità del mondo, e antidoti o
tutte le cose brutte del mondo: alla noia, alla tristezza, alla
solitudine, alla ripetizione, alla paura. il guaio è che questi
antidoti sono come medicine vere, e hanno una data di scadenza. a un
certo punto non funzionano più, o almeno non da soli. a un certo
punto la noia torna fuori, e la tristezza e la solitudine e la
ripetizione tornano fuori. e attaccano la persona che ci aveva
portato gli antidoti, prima ancora di attaccare noi. e a quel punto
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ci chiediamo se fossero mai stati dei veri antidoti o dei placebo, o
addirittura degli imbrogli. promettimi che provi a pensarci, almeno.
buonanotte
G.
Una e-mail
Ore: 1.55
Caro Giovanni,
sei bravo con le parole, come sempre. Ma quello che dici è
sentimentale e vago, si ferma alla situazione di adesso come una rana
in uno stagno e non accenna nemmeno lontanamente a cercare una via
d'uscita. Cosa dovremmo fare, commuoverci per le cose imperfette e
care che perderemmo lasciandoci e restare per sempre insoddisfatti,
con un grado crescente di risentimento ogni volta che pensiamo a
quello che avrebbe potuto esserci invece?
Non hai bisogno di dirmi che la vita è altamente difettosa, lo so
benissimo da me. E ti sbagli se credi davvero che io pretenda la
perfezione da un rapporto. Mi basta che sia vero, e abbastanza
consistente da resistere alla difettosità della vita e proteggere i
sentimenti che gli affido.
Quanto alla cesta piena di regali meravigliosi, sono sicura che
ognuno di noi due ne aveva una, non era un'illusione. Solo che tu hai
frugato nella mia, hai preso quello che ti interessava e l'hai
lasciata lì, senza deciderti a tenertela e nemmeno a restituirmela.
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Hai sparso in giro i tuoi regali e alcuni li hai calpestati, altri te
li sei ripresi, altri non mi hai mai spiegato come funzionavano.
E' lo spreco che mi fa rabbia e tristezza, Giovanni, sai?
Ciao,
M.
Una e-mail
Ore: 2.06
cara m.,
non parlare di spreco, per piacere. parla pure di rabbia e di
risentimento se vuoi, ma non di spreco. e non è vero che ho lasciato
lì la tua cesta e ho calpestato i miei regali e me li sono ripresi. i
nostri regali ci sono ancora tutti, e sono ancora perfettamente
utilizzabili. hanno una garanzia illimitata, i nostri regali. non ci
lasciamo prendere dalla tristezza irrimediabile dei gesti
irrimediabili, per piacere. possiamo ancora rimettere tutto in sesto,
se solo lo vogliamo. basta avere uno spirito positivo tutti e due. ci
parliamo domani, va bene?
buonanotte,
giovanni
Fanno colazione
nella saletta vuota
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Fanno colazione nella saletta vuota di fianco alla reception,
mangiano croissant industriali e pane un po' duro e burro e
marmellata, bevono caffelatte a lunga conservazione.
Lui a un certo punto dice "Ci sono alcune cose totalmente
contraddittorie, tra due persone che stanno insieme. Vengono fuori
quando la loro storia comincia ad andare male, ma in realtà sono
sempre state lì".
"Parli di te e M.?" dice lei.
"Sì, ma non solo. Prendi una persona che ti piace. Cos'è che ti
attrae? Una strana miscela di affinità e differenze, no?"
"In che senso?"
"Nel senso che quello che cerchi non è una copia perfetta di te con
una diversa polarità sessuale. Se anche alla fine la trovassi non ti
piacerebbe affatto."
"Perché?"
"Perché sarebbe un raddoppio insensato delle stesse identiche
qualità e degli stessi identici difetti. Sarebbe intollerabile.
Sarebbe come stare da soli, con un eco costante nelle orecchie."
"E allora cosa cerchi, l'opposto?"
"Non proprio l'opposto. Cerchi una persona molto simile a te in
certe cose, e molto diversa in altre."
"Tipo?"
"Tipo una che resti calma quando tu perdi la testa. O che abbia
voglia di darsi da fare per qualcosa quando tu lasceresti perdere. O
che sia ottimista quando tu ti butteresti giù. O anche che si butti
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giù in modo che tu possa essere invece ottimista. No?"
"Sì."
"E queste sono le basi per il disastro, pronte fin dall'inizio."
"Perché?"
"Perché non c'è modo di confinare le differenze tra due persone a
una parte della loro vita dove non possano fare danni. Sarebbe
comodo, ma non è così."
"Com'è, invece?"
"All'inizio sembra che le differenze producano solo effetti
positivi. Creano contrasti, compensano lacune, trascinano allo
scoperto, rendono possibili cose impossibili, fanno ridere."
"E poi?"
"Poi cominciano a ricolmare lo spazio interiore di ciascuno dei
due, man mano che la fantastica adattabilità e la fantastica
tolleranza reciproca degli inizi si esauriscono. Man mano che
l'ammirazione e lo stupore e il divertimento di essersi scoperti così
diversi e così simili perdono intensità."
"Ma perché succede?"
"Perché l'ammirazione e lo stupore e il divertimento sono
sentimenti a combustione. Bruciano carburante a una velocità
incredibile, e appena restano senza si spengono."
"E non c'è modo di dargli altra benzina?"
"Sì, ma devi averne, e devi avere voglia di dargliene. Non deve
sembrarti una pretesa assurda."
"E allora?"
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"Poco alla volta scopri che le differenze non sono affatto
trattenute dagli argini naturali che ti eri immaginato. Scopri che
dal modo di essere dell'altra persona si riversano nella vita di
tutti e due, e creano correnti contrastanti e onde e mulinelli."
"E le similitudini?"
"Non fanno che aumentare la rabbia e la delusione per quello che
succede, renderlo ancora più incomprensibile."
"Ma perché?"
"Perché anche in questo inseguiamo un'idea di armonia che non
corrisponde affatto alla realtà. E' una bella idea, ed evoluta, ma è
superiore alla realtà per molti versi, staccata da terra. La realtà
in confronto è piena di crepe e di punti deboli."
"E allora?"
"Allora cerchiamo di far corrispondere la nostra vita all'idea che
ne abbiamo, e non ci riusciamo. E meno ci riusciamo, più ricorriamo a
un repertorio di parole e gesti per convincere e per ottenere, meno
la nostra idea e la realtà corrispondono."
"E cosa dovremmo fare allora, accettare la realtà per quello che è?"
"Sarebbe la cosa più triste. Un sacco di persone lo fa, e poi le
vedi, in giro per le strade e i supermercati del mondo con i loro
sguardi privi di luce."
"Tipo le famiglie di ciabattoni che vedevamo l'estate scorsa in
vacanza? Con le loro pance e i cappellini e il loro modo di
trascinare i piedi?"
"Sì. O tipo i cinici taglienti che stanno a guardare dalla finestra
o dal buco della serratura con i loro sorrisi freddi e pensano di
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avere capito tutto della vita. Tipo i milioni di coppie disincantate
e svaccate che si rassegnano allo squallore di ogni giorno e ne
traggono perfino ragioni di finta saggezza."
"O le coppie che sognano di diventare come le famiglie nelle
pubblicità dei biscotti?"
"Sì. Che stanno davanti alla televisione e pensano "Anch'io voglio
delle mattine così". O "Anch'io voglio un uomo o una donna così". Poi
si accontentano di molto meno, ma queste immagini gli rimangono in
testa per sempre, con le loro musiche di accompagnamento e le
sensazioni evocate. E sono immagini di un mondo che non esiste, ma
non conta, perché tutti i sogni sono così."
"Però non sono sogni, sono immagini manifatturate."
"Sono surrogati di sogni, per chi non è in grado di sognare. Vale a
dire per una parte sempre più ampia della nostra specie."
"Come sei pessimista, però."
"Non è vero. Sono una delle persone più ottimiste che io conosca.
Anche quando le cose vanno straordinariamente male penso sempre che
possa esserci un improvviso miglioramento miracoloso. Anche quando
nessuno ci crederebbe più."
"Però fai sempre di queste considerazioni, come se parlassi di
comportamenti di animali da laboratorio."
"Ma ci sono anch'io, tra gli animali da laboratorio. E' solo che
cerco di capire, invece di farmi risucchiare dalla desolazione delle
cose che non controllo minimamente."
"E così riesci a controllarle?"
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"No. Ma capirle è già qualcosa. Ti aiuta a non considerarti una
vittima di circostanze sfortunate."
"Con M. ti aiuta?"
"Non tanto."
"Perché?"
"Perché tutto tra noi è troppo complicato e contraddittorio."
"In cosa consiste esattamente, la contraddittorietà?"
"Nel volere una cosa e il suo contrario, essere in un modo e nel
suo contrario."
"Siete così?"
"Sì."
Lei finisce il suo bicchiere di latte a lunga conservazione, guarda
di lato. Dice "Qual è la cosa più contraddittoria che ha M.?".
"L'essere matta e saggia. Indipendente e bisognosa di protezione.
Infantile e matura. Una donna di mondo e una zingara profuga.
Un'organizzatrice inarrestabile e una che sa perdersi nello stare
ferma. Una che si aspetta da me delle cose e che non vuole niente."
"Il che ti esaspera?"
"Il che mi esaspera e mi attrae, per le stesse identiche ragioni
contraddittorie."
Il cellulare di lei produce un biiip biiip da messaggio in arrivo.
Lei lo tira fuori dalla sua piccola borsa, legge e senza aspettare
digita una risposta come fa sempre. Lui per riflesso controlla il suo
cellulare, ma non c'è nessun messaggio. Digita il numero di casa di
M.: non risponde. Digita il numero del suo cellulare: la voce
semiartificiale dice la solita frase intollerabile sull'utente
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momentaneamente non raggiungibile.
Carica le valigie in macchina
Carica le valigie in macchina. E' una cosa che gli piace, ogni
volta: il piccolo sforzo di sollevamento e di slancio che contiene in
sé la liberazione da un luogo e dai suoi orizzonti fissi. Richiude il
portellone e guarda verso di lei, che parla nel suo telefonino e
cammina avanti e indietro tra i bungalow e la piscina vuota. Non ha
voglia di spiarla né di incalzarla, così va a saldare il conto nel
padiglione della reception. Quando torna fuori lei è già seduta in
macchina, guarda avanti con un'espressione tesa. Lui mette in moto,
esce dal vialetto d'accesso, guida lungo la strada che hanno percorso
due giorni prima, quando erano ancora incerti su dove fermarsi e ogni
scelta sembrava racchiudere una porzione insondabile di futuro.
Dopo che la velocità e il rumore e le vibrazioni si sono
stabilizzati, dice "Tutto bene?".
"Sì."
"Ti sei innervosita per qualcosa?"
"No."
"Hai litigato con Luca?"
"No."
"Cosa significa no in questo tono? Significa sì?"
"Significa no."
"Ti incalza perché sei qui in viaggio invece che lì con lui?"
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"No-o."
"Testa di cavolo prepotente e invadente. Dovresti prenderlo a
calci."
"Smettila."
"Ma non mi hai appena detto che ti ha fatto una scena perché non
sei lì con lui?"
"Sei tu che l'hai detto. Non mi ha fatto nessuna scena."
"No?"
"Voleva solo essere sicuro che torno domani, perché c'è una festa."
"E non te l'ha detto in un tono insistente o ricattatorio?"
"No. E comunque sono fatti miei."
"Anche miei, visto che siamo in viaggio insieme. Poi ho diritto di
dirti cosa ne penso. Ammetterai che forse un po' li conosco, i
difetti degli uomini."
"Non conosci Luca. L'hai visto tre volte."
"Anche cinque o sei. Ma non è che debba passare anni con lui, per
capire che è presuntuoso e prepotente e invadente."
"Smettila."
"Guarda che anch'io alla sua età ero presuntuoso e prepotente e
invadente. E' probabile che lo sia ancora, almeno ogni tanto. Lo
conosco, il tipo di prevaricazione sistematica che uno può esercitare
sulla sua ragazza per sentirsi al centro della sua attenzione."
"Invece non sai niente."
"Ah no? E se ti facessi degli esempi?"
"Quali?"
"Tu suonavi benissimo il pianoforte, quando lui e i suoi amici non
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avevano neanche idea di cosa fosse uno strumento musicale. Poi loro
hanno formato il loro piccolo gruppo di analfabeti rock, e tu hai
smesso di suonare."
"Anche tu sei un analfabeta rock, se è per quello."
"Rock-blues."
"Quello che vuoi. Non sai nemmeno leggere uno spartito. Leggi solo
le sigle degli accordi sopra il pentagramma."
"E allora? Però tu sai leggerlo, e appena loro si sono messi a fare
rumore insieme ti sei adattata a un ruolo di ancella devota."
"Non è vero."
"Sì, invece. Quando avresti potuto suonare molto meglio di loro."
"Non è andata affatto così."
"E allora perché non suoni anche tu?"
"Perché non mi interessa."
"No?"
"No."
"Comunque hai sacrificato le tue capacità per fare l'ancella a un
maschio che ne ha meno di te ma in compenso è bravissimo a
convincerti che si merita tutta la tua attenzione e assistenza e
devozione."
"E tu non fai lo stesso con M.?"
"Non faccio così per niente."
"Non vuoi tutta la sua attenzione e assistenza e devozione?"
"Sì, ma non gliele chiedo in modo insistente e ricattatorio."
"Ah, no."
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"E le dò molte altre cose in cambio, comunque."
"Non quelle che lei vorrebbe, però."
"Cosa cavolo ne sai tu?"
"Sei tu che me lo dici, di continuo."
"Stavamo parlando di te e Luca, cosa c'entra M. adesso?"
"Non sai niente di Luca. Sei solo geloso."
"Non sono affatto geloso."
"Sì che lo sei."
"Senti, quando eri piccola pensavo che mi sarei trovato in una
spirale allucinante di gelosia e apprensione per te, quando avresti
avuto un ragazzo. Invece non è stato affatto così. Per niente. Sono
solo felice, se hai un ragazzo che ti piace."
"E allora cosa vuoi?"
"Non voglio che ti faccia prevaricare da un maschio, tutto lì. E
non puoi impedirmi di dirtelo, o di darti delle informazioni. Anche
se sono informazioni che non fanno molto onore al mio genere."
"Non mi interessano."
"Invece ti dovrebbero interessare, perché sarà sempre così. Anzi, è
solo un esercizio preparatorio in confronto alle prevaricazioni degli
uomini adulti. Sai come i cani giovani che giocano a fare la lotta e
allenano i muscoli del corpo e le mandibole per sbranare qualche
preda quando saranno più grandi?"
"Non so di cosa parli."
"Parlo del bisogno dei maschi di fare i protagonisti nel mondo. Del
loro bisogno di avere le donne come spettatrici e incoraggiatrici
fisse."
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"Se gli uomini sono così, lo sarai anche tu."
"Sì. Ho un bisogno disperato di spettatrici e incoraggiatrici. L'ho
sempre avuto."
"E allora?"
"E' una ragione in più per tenerne conto, se te ne parlo. Non credo
che troverai molti uomini altrettanto sinceri, più avanti."
"Smettila."
"Se vuoi la smetto. Basta che tu lo sappia."
"Che sappia cosa?"
"Che gli uomini sono solo interessati a fare i protagonisti. Anche
l'uomo che fuori sembra il più mite e non competitivo e persuaso
della sua mancanza di qualità. Se lo vedi nel chiuso protetto della
sua storia con una donna, anche lui ha una compulsione inarrestabile
a occupare la scena."
"Chiunque ha bisogno di attenzione, se è per questo. Anche le
donne."
"La differenza è che gli uomini vogliono attenzione per quello che
fanno o per quello che hanno. Non per quello che sono."
"E le donne per quello che sono?"
"Sì."
"Va be', quindi alla fine le cose si pareggiano, no?"
"Invece no. Perché gli uomini sono sempre stati talmente presi da
tutto il loro fare e avere, che non hanno lasciato più quasi nessuno
spazio all'essere."
"Cosa vuol dire?"
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"Che tutto il potere è per chi fa o ha, e chi invece è viene messo
in offerta con gli altri beni nelle vetrine del mondo, a meno che non
si decida a fare o avere qualcosa a sua volta."
"Perché?"
"Perché l'unico vero interesse che gli uomini hanno per le donne è
da predatori e saccheggiatori e occupatori."
"Cosa significa?"
"Che è questa la natura del loro interesse, sotto tutti gli
atteggiamenti che possono assumere e sotto tutte le parole che
possono dire. Prendono quello di cui hanno bisogno o di cui hanno
voglia, poi escono dalla casa saccheggiata e scappano."
"Prendono cosa?"
"Attenzione, consigli, cure, sesso, rassicurazione,
incoraggiamenti."
"Sono generalizzazioni del cavolo, non c'entrano niente con Luca."
"Credi che Luca non sia un uomo? Anche se pieno di incertezze e
frustrazioni e velleitarismi da subadulto?"
"Non sai niente di lui."
"Ma so come funzionano gli uomini. Anche il più evoluto degli
uomini, appena sotto la superficie evoluta. Anch'io, te l'ho detto."
"Lo stesso non sai niente di Luca."
"Senti, non me ne importa niente di Luca. Mi importa di te. Mi
importa che tu non ti faccia usare o saccheggiare o mettere in ombra
o anche solo mettere in un ruolo di spettatrice dal primo maschio che
ti capita."
"Non ti preoccupare per me, so difendermi benissimo per conto mio."
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"Invece mi preoccupo."
"Non ho più voglia di parlarne."
"Cercavo solo di darti delle informazioni."
"Grazie tante per le informazioni."
"Il tuo è solo un modo di mettere la testa sotto la sabbia."
"Ho detto che non ho più voglia di parlarne! Basta!"
"Non gridare in questo modo!"
"Ti ho detto basta! Non ho più voglia di parlarne! Se no fammi
scendere!"
"Cerca di calmarti, adesso!"
"Fammi scendere!"
"Non fare la pazza, per piacere!"
"Sei tu che hai un carattere orrendo!"
"E tu sei una somara presuntuosa!"
Ha già rallentato da quando si sono messi a gridare, ma adesso che
lei ha la mano sulla maniglia frena ancora. Una macchina dietro di
loro suona e passa oltre con rabbia, un camion passa oltre; gli
spostamenti d'aria fanno ondeggiare il semifuoristrada. Lui accosta a
lato della strada, dice "D'accordo, d'accordo, non ne parliamo più.
Basta che ti calmi".
Ma lei è troppo furiosa per calmarsi, e ha già aperto la portiera
prima che siano del tutto fermi: salta giù, cammina veloce lungo la
linea tra l'asfalto e l'erba.
Lui grida "Dove vai?". Un altro clacson suona.
Lei cammina senza girarsi, a passi determinati e con un piccolo
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movimento pendolare delle braccia, come se avesse intenzione di
coprire le decine di chilometri che la separano dal primo luogo dove
poter chiedere asilo politico e una revoca della patria potestà.
Lui la segue con il motore al minimo e sporto dal suo lato, la
portiera aperta che ondeggia. Dice "Per piacere", senza nessun
effetto. Salta giù e la insegue e la supera, le si para davanti. Fa
gesti a palme aperte come potrebbe con un animale imprevedibile,
parla a frasi brevi nel tono più pacato che gli viene. Ci mette
cinque minuti almeno a convincerla a risalire in macchina. Tra una
frase e l'altra guarda i prati e gli alberi intorno, assorbe il
tepore del sole. In questo riconosce i sintomi di un altro suo
difetto grave: la tendenza ad allontanarsi a tratti dal punto focale
di una situazione, non importa quanto drammatica. Metà di lui lo
spinge in modo quasi disperato a riparare la rottura con sua figlia,
l'altra metà gli lascia abbastanza spazio mentale e sensoriale libero
per registrare la luce e la temperatura e le qualità del paesaggio,
come se non avesse nessun'altra preoccupazione al mondo.
Quando finalmente sono di nuovo in macchina lui guida al minimo dei
giri, si volta a guardarla. Lei è rigida e indecifrabile, tiene lo
sguardo dritto verso la strada avanti.
Lui dice "Promettimi che non lo farai mai più. E' una cosa
orribile, buttarsi giù dalla macchina".
Lei sta zitta, non muove un solo muscolo della faccia.
Lui riprende velocità poco alla volta, la guarda ancora a
intervalli. Dice "Ho un vero problema, con questo genere di scene.
Dopo tutte le volte che sono successe con M., e con Caterina prima di
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lei. E' una cosa che mi manda completamente in tilt".
Lei non gli dà la soddisfazione di girare la testa né lo sguardo,
fissa la strada.
Lui respira a fondo; accelera ancora, fino a correre di nuovo alla
velocità delle altre macchine. Cerca di capire se la sua sincerità di
prima era davvero del tutto sgombra di gelosie e rivalità; se
l'irritazione che prova per le piccole prepotenze del ragazzo di sua
figlia è dovuta a una visione obbiettiva, o al fatto che lo sente
come un competitore per la sua attenzione. Gli viene in mente di
quando lei a due o tre anni gli girava la faccia con le mani appena
gli vedeva distogliere lo sguardo, in modo che la fissasse dritto
negli occhi. Gli viene in mente di una volta che aveva attraversato
l'Italia in macchina a tutta velocità ed era corso su per le scale di
una casa di mare ed era uscito su una terrazza assolata con il cuore
traboccante di aspettative di slanci e attenzione da parte di sua
figlia, e invece l'aveva trovata completamente assorta in un gioco
con una bambina della sua età. Gli vengono in mente quattro o cinque
esempi di scontri con M. per conquistare uno l'attenzione dell'altra:
la rabbia e la frustrazione che attraversa i loro lineamenti e le
loro voci e i loro gesti fino a farli diventare cattivi.
Dice "Forse mi faccio trascinare troppo dalla polemica. Non riesco
mai a controllarmi molto, una volta che inizio. Ma pensavo che
valesse la pena di dirtele, queste cose".
Lei continua a non guardarlo e a stare zitta. Non si capisce
neanche se lo sta ascoltando, o se ha abbassato una delle paratie
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mentali di cui si serve per sopravvivere a scuola e nel mondo delle
cose che non le interessano.
Lui dice "Posso parlarti di me, almeno? Ti lascio completamente
fuori dal discorso".
Lei alza appena le spalle, ma è già una reazione.
"Con M. per esempio, se solo smette di darmi attenzione per cinque
minuti, è come se si spegnesse tutto. Sai come quando spegni la luce
in una stanza? Buio totale, ci sprofondiamo dentro."
"E allora perché parli tanto degli altri?"
"Adesso parlo di me, non degli altri. Naturalmente dipende anche da
quello che uno ti dà, in cambio dell'attenzione che chiede. E per
cosa la chiede. Se chiede attenzione per i suoi discorsi sulle
automobili o sulle squadre di calcio, per farti sentire come ha
memorizzato bene i nomi e le date e le citazioni latine che gli hanno
insegnato a scuola. O se magari invece te la chiede per qualcosa di
interessante."
Gli viene in mente la qualità inebriante dell'attenzione che M. gli
dava agli inizi: come gli sembrava mille volte più intensa e
focalizzata di tutta l'attenzione che aveva ricevuto prima da
chiunque; come già allora si rendeva conto che averne anche solo poco
meno gli avrebbe provocato una carenza.
Gli vengono in mente le richieste di attenzione da parte di M.; gli
slanci naturali e gli sforzi per dargliene. Gli vengono in mente le
loro colazioni insieme: i particolari notati e i consigli dati, i
giudizi rapidi e quelli rallentati, gli scambi di sguardi precisi.
Gli vengono in mente tre o quattro o dieci momenti in cui il loro
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bisogno di attenzione è stato così divorante e simultaneo da renderli
furiosi in modo apparentemente inspiegabile. Gli vengono in mente le
frasi gridate, le accuse circostanziate estese fino a investire ogni
aspetto delle loro persone e risalire alle origini geografiche e
ancestrali da cui discendono. Ha la testa piena di scoppi di parole
in stanze e corridoi e ingressi, davanti a porte aperte e chiuse. La
ripetizione e la moltiplicazione di frasi, aggettivi scelti e
ribattuti come armi inefficaci usate in modo disperato.
Dice "Alla fine tutto si riduce a una richiesta o a un'offerta di
attenzione. L'attenzione di cui hai bisogno e l'attenzione che dai,
l'attenzione che cerchi di ottenere con la tenerezza o di strappare
con la prepotenza. L'attenzione che regali o che compri, che vendi,
che baratti. Possiamo chiamarla in altri modi a seconda delle sue
qualità specifiche, chiamarla amore o amicizia o ammirazione o
interesse o curiosità o devozione o passione o mania o voglia o
quello che ti pare. Ma alla fine se riduci tutto ai termini
essenziali, è solo una richiesta o un'offerta di attenzione".
Lei non dà segnali di interesse, non gira la testa.
Lui dice "E non è così strano, perché senza attenzione non c'è
niente. Qualunque cosa succeda, è come se non succedesse, se non c'è
nessuna attenzione a coglierla. Per quanto possa essere una cosa
significativa e straordinaria e irripetibile. E' come un asteroide
del diametro di un chilometro che si schianta nella Siberia deserta
in un'era senza sismografi".
Lei fissa la strada, sta proprio facendo un esercizio per non
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lasciar trapelare attenzione.
Lui dice "Il guaio è che quasi chiunque pretende più attenzione di
quanta sia disposto a darne. Perché quasi chiunque pensa di essere al
centro del mondo. Se appena guardi le cose a distanza, vedi centinaia
di milioni di persone ognuna convinta di essere al centro del mondo e
smaniosa di un'attenzione che possa confermarlo. E' patetico, no?
Eppure c'è qualcosa di terribilmente umano, in questo bisogno
disperato di attenzione. C'è l'essenza di quello che siamo, forse.
Perché forse al nostro peggio siamo solo dei piccoli scavatori,
ostinati a farsi una tana dove trascinare tutti gli oggetti e le
persone e le sensazioni su cui riusciamo a mettere gli occhi e le
mani. E al nostro meglio siamo piccoli specchi, che riflettono
frazioni di luce dell'universo a cui dare attenzione".
Lei continua a non commentare e a non guardarlo. Il vuoto di
attenzione che crea con il suo atteggiamento ha l'effetto di farlo
parlare in modo ancora più concitato, di argomenti sempre più estesi
e incontrollabili.
Intanto vanno verso est adesso, il semifuoristrada corre e vibra
sulla carreggiata più larga.
Comprano uova fresche
e un formaggio duro di capra
e un coltellino a serramanico
sempre senza parlarsi
Comprano uova fresche e un formaggio duro di capra e un coltellino
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a serramanico sempre senza parlarsi, in un mercato pieno di fiori e
verdure e altri prodotti della zona. Poi si siedono al tavolo di un
piccolo bar-ristorante all'aperto e mangiano omelette e bevono
spremuta d'arancia e birra. Lei manda un messaggio con il suo
cellulare; lui ne scrive uno a M. ma gli sembra stupido. Prova di
nuovo a telefonare: non c'è. La birra gli comunica una sensazione
lunga che si mescola al tepore decrescente dell'aria mentre studia la
carta stradale. Il sole è coperto, c'è un vento da ovest che spinge
un fronte di nuvole scure. Lui alla fine dice "Adesso smettila, per
piacere. Non volevo farti arrabbiare".
Lei sta ancora zitta: la giovane sfinge.
"Hai capito? Basta."
"Sei stato tu a cominciare."
"Va bene, sono stato io, ma adesso smettila. Perché dobbiamo
rovinarci il viaggio proprio al penultimo giorno e trasformarlo in
uno schifo?"
"Sei tu che l'hai rovinato."
"Ho solo cercato di parlarti. Ma evidentemente non sono riuscito a
farlo nel modo giusto."
"Per niente."
"D'accordo. Mi dispiace. Va bene?"
"No."
"Guarda quelle nuvole scure. Guarda quei vecchi platani, la scritta
su quella casa rosa, quel tipo con i baffoni seduto là."
"Non mi interessa."
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"Dài. Il viaggio è finito. Domani pomeriggio sei a casa a Milano."
"Meno male."
"Non fare la carogna spietata. Prima che ce ne rendiamo conto sarà
una cosa lontana, essere venuti qui insieme quando tu avevi sedici
anni."
"Ti metti a fare ricatti sentimentali, adesso?"
"Faccio quello che posso."
"Ho freddo."
"C'è solo un ultimo posto che vorrei vedere. Lo vedi qui sulla
carta? E' una deviazione a nord di una ventina di chilometri, poi
possiamo riprendere la statale più avanti. Perdiamo pochissimo tempo."
"Che posto è?"
"Ci viveva una piccola comunità di anarchici mistici,
nell'Ottocento. Avevano le case e la terra in comune e coltivavano
amaranto e allevavano pecore e filavano e tingevano tessuti, finché
il governo ha mandato l'esercito a distruggere tutto e metterli in
galera."
"Perché?"
"Perché non riconoscevano nessun genere di autorità e nessuna
istituzione."
"E in che senso erano mistici?"
"Avevano una loro religione eclettica, fatta di elementi presi da
epoche e luoghi geografici diversi. Non credo che sia rimasto molto
da vedere, ma vorrei dare un'occhiata alla zona."
"Se riusciamo a essere a casa domani pomeriggio."
"Ti ho detto di sì. Te l'ho promesso."
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"Va be'."
"Allora rimettiamoci in marcia. Non devi fare la pipì?"
"Non ho più due anni, che devi chiedermelo."
"E' che sei talmente vaga, sulle cose pratiche. Ti dimentichi anche
di avere fame o sonno, finché proprio non svieni."
"Non ricominciare."
"Va bene, va bene. Ci rivediamo qui tra due minuti."
Tira fuori di tasca il cellulare, recupera il messaggio di prima e
schiaccia il tasto yes.
Un SMS
Da: Giovanni
Ore: 13.07
Ci sono dei platini che ti piacerebbero. Ti chiamo più tardi. G.
Lei fa un salto sul sedile
e guarda fuori
e batte sul finestrino
Lei fa un salto sul sedile e guarda fuori e batte sul finestrino,
grida "Ferma, ferma! Ferma subito!".
Lui schiaccia il pedale del freno con tutta la sua forza; il
semifuoristrada stride e sbanda e beccheggia e pattina fino a
fermarsi con due ruote sull'erba oltre la carreggiata, in una nuvola
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di polvere.
Cerca di rallentare i battiti del cuore, dice "Cos'è successo?".
"Un canile! Ho visto il cartello di un canile, là! Torniamo
indietro!"
"Sei diventata pazza? Abbiamo rischiato di capottarci! Mi hai fatto
prendere un accidente!"
"Ma c'è un canile comunale, ti giuro!"
"Io non riesco a crederci!"
"C'è la scritta "Canile", l'ho letta benissimo. C'è anche il
disegno di un cane."
"E allora? Ti metti a gridare in questo modo e ci fai quasi finire
fuori strada perché vedi un canile?"
"Torniamo indietro."
"Tu devi essere matta."
"Magari hanno dei cuccioli che danno via."
"Sei matta davvero. Cosa ho fatto per avere una figlia così
ossessiva?"
"Andiamo a vedere. Ci mettiamo cinque minuti."
"Non mi sogno neanche."
"Solo cinque minuti. Io ti ho detto va bene per il tuo villaggio
degli anarchici, anche se ci costa una deviazione di chissà quanto."
"E' una deviazione di un'ora e mezza al massimo. E cosa c'entra con
il canile?"
"C'entra perché stiamo facendo una deviazione, e cinque minuti non
cambiano proprio niente. Dài."
"Come fai a essere così? Sembra che tu abbia ancora quattro anni,
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madonna."
"Andiamo solo un attimo a vedere. Tanto siamo già fermi."
"Grazie tante. Per poco non siamo fermi in modo definitivo."
"Dài. Se non avessimo fatto la deviazione non saremmo mai passati
di qui. E' il destino, proprio."
"Non ti mettere queste idee in testa, adesso."
"Solo un'occhiata. Dài, gira."
"Solo un'occhiata. Togliti dalla testa di prendere un cane. Diamo
un'occhiata e via."
"Sì, sì."
"Mi giuri che poi non ti metti a fare storie?"
"Sì."
"Dì "Parola mia"."
"Parola."
Lui gira e torna indietro, fino a un edificio basso che sembra una
ex piccola fabbrica. Non c'è uno slargo per parcheggiare, così lascia
il semifuoristrada con le luci lampeggianti qualche metro più avanti.
Lei salta giù appena sono fermi, corre al cancello a cui sono
attaccati il disegno na‹f di un cane e la scritta "Rifugio del Cane"
e una cassetta per le donazioni. In un cortile di cemento due operai
stanno lavorando con badili e secchi, c'è un'impastatrice che gira.
L'aria è piena di abbaiamenti, senza sosta e su varie frequenze. Si
guardano: lei ha una faccia seria, tutti i muscoli del corpo tesi.
Lui dice "Cosa cavolo gli diciamo?".
"Niente, che vorremmo vedere i cani."
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"E se cercano subito di rifilarcene uno?"
"Intanto guardiamoli, non stare a preoccuparti."
"Certo che mi preoccupo, pazza e fissata come sei."
"Dài, suona."
Lui sbuffa, ma preme il campanello: lo sentono risuonare forte e
aspro, tra i rumori del cantiere e gli abbaiamenti. Aspettano forse
un minuto; gli operai li fissano, con i badili in mano. Alla fine da
una porta della ex piccola fabbrica esce una tipa magra con i capelli
grigi, viene al cancello e si appoggia alle sbarre, non cordiale.
Dice "Oggi è un brutto giorno, stanno sistemando il cortile".
"Ho visto" dice lui.
Sua figlia lo guarda, si aspetta che conduca lui la trattativa per
vedere i cani.
"Tornate lunedì o martedì" dice la tipa del canile.
"Siamo in viaggio" dice lui. "Lunedì saremo a Milano."
"Che cane cercate?" dice la tipa.
"Volevamo solo dare un'occhiata" dice lui.
"Anche sapere se ci sono dei cuccioli" dice sua figlia.
"Chiediglielo in francese."
"Non glielo chiedo."
"Cuccioli in questo momento non ne abbiamo" dice la tipa del canile
in italiano, senza per questo diventare più cordiale. "Abbiamo dei
cani giovani. Dodici mesi, quindici."
"Va be', non importa."
"Possiamo vedere quelli?" dice sua figlia.
"Ma che cane avete in mente?" dice la tipa del canile. "Grande,
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piccolo?"
"Né grande né piccolo" dice lui.
"Grande" dice sua figlia.
"Oh madonna, me l'avevi giurato" dice lui.
"Vivete a Milano?" dice la tipa del canile.
"No" dice lui.
"Sì" dice sua figlia.
"Solo ogni tanto" dice lui.
"In che genere di casa state?" dice la tipa del canile. "Avete un
giardino? Un terrazzo?"
"Né giardino né terrazzo" dice lui.
"Un terrazzo grande" dice sua figlia. "E un giardino proprio
davanti a casa."
La tipa del canile stringe le mani intorno alle sbarre del
cancello, dice "Non vivete insieme, voi due?".
"No" dice lui.
"A intervalli" dice sua figlia.
"A intervalli" dice lui.
"Avete già avuto cani?" dice la tipa del canile.
"Sì" dicono lui e sua figlia.
"Quanti?"
"Uno."
"E dov'è finito?"
"E' morto" dice sua figlia.
"L'abbiamo preso già molto anziano" dice lui subito, per coprirla.
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"Sì, vecchissimo" dice sua figlia. "Poverino."
"E' morto dopo tre anni che l'avevamo" dice lui, con in mente i
balzi giovanili e gli uggiolii di piacere dello schnauzer nano tra le
braccia della scenografa venezuelana che era venuta ad adottarlo. Si
chiede perché mai si è cacciato in questo ruolo di truffatore da
commedia; se ci sono dei limiti alla sua complicità di padre.
"E com'era?" dice la tipa del canile.
"Grande" dice lui. Fa un gesto per indicare l'altezza di un leone.
"Enorme" dice sua figlia. "Non riuscivamo quasi a tenerlo, in
città."
"Mordeva, anche" dice lui, per aggiungere almeno un elemento di
verità al quadro.
"Bastava sfiorarlo per sbaglio con un piede mentre dormiva" dice
sua figlia. "Faceva uno scatto e ti mordeva, senza neanche
svegliarsi."
"E voi cosa facevate, quando mordeva?" dice la tipa del canile.
"Niente" dice lui.
"Niente" dice sua figlia.
"Cercavamo di capirlo" dice lui.
La tipa del canile stringe gli occhi e le labbra. La sua faccia e i
suoi capelli e i suoi vestiti e la sua intera persona indicano la
fatica e l'impegno quotidiano del suo lavoro di volontaria sostenuta
da rari benefattori, senza aiuti ufficiali.
Dice "Mi dispiace, ma non possiamo mandare i nostri cani in
situazioni instabili".
"Vale a dire?" dice lui, senza capire perché adesso prova più
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delusione che sollievo.
"Vale a dire, li diamo solo a persone o famiglie che possano
garantire un minimo di continuità e organizzazione."
"Va be', grazie lo stesso" dice lui.
Sua figlia lo guarda, è chiaro che si aspettava che difendesse le
loro posizioni a oltranza.
La tipa del canile dice "Se volete fare una donazione".
Lui tira fuori dal portafogli un paio di biglietti di banca, glieli
porge. La tipa indica la cassetta attaccata al cancello, dice "Non a
me, ai cani".
"Questo l'avevo capito" dice lui; infila i soldi nella cassetta.
La tipa fa appena un cenno con la mano, va a parlare con i due
operai.
Tornano zitti alla macchina, ripartono.
Dopo forse un paio di minuti, lui dice "Che orrenda figura da
cialtrone mi hai fatto fare".
Lei lo guarda, con un'espressione di delusione pura.
"Cosa cavolo ti è venuto in mente, di dirle che Wolfgang è morto di
vecchiaia?"
"Per spiegarle come mai non ce l'avevamo più, no?"
"Che razza di scema."
Ma quando si gira e vede la sua faccia seria da giovane selvaggia
civilizzata, gli viene da ridere. Lei resiste solo qualche secondo:
ridono tutti e due, tra mortificazione e complicità e imbarazzo
retrospettivo e improvvise considerazioni realistiche, immagini di sé
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stessi viste a scatti da troppo vicino e da troppo lontano.
Il fronte di nuvole scure
da ovest ha coperto
tutto il cielo
Il fronte di nuvole scure da ovest ha coperto tutto il cielo, la
luce grigia smorza i colori e inasprisce il paesaggio che scorre
lungo le curve della strada in pendenza. Gli sembra di guidare
attraverso un campo di contatti elettrici e magnetici,
nell'improvvisa incrinatura di stagione.
Sua figlia dice "Non è vero che siamo troppo instabili per
affidarci un cane".
"E' colpa mia, credo" dice lui. "Anche se nemmeno tu sei proprio il
modello di affidataria che hanno in mente i migliori canili del
mondo."
"Perché?"
"Perché hai sedici anni."
"E allora?"
"A sedici anni non è che uno sia proprio strutturato in una routine
di vita ultraprevedibile, no?"
"No, ma sono perfettamente in grado di occuparmi di un cane."
"Comunque è probabile che sia stato io il problema, te l'ho detto. E'
probabile che almeno da un padre ci si aspetti un minimo di
stabilità."
"Sì?"
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"Prova a chiederlo alla tipa del canile."
"Ma tu cosa dici?"
"Se sono stabile?"
"Eh."
"Credo di essere molto stabile nei miei sentimenti e principi di
base. Per il resto non tanto."
"No?"
"No. Mi sembra sempre che potrei cambiare vita in qualsiasi
momento. Lavoro, luogo, clima, cibo, orari, scarpe."
"In qualsiasi momento?"
"Se avessi un'occasione sorprendente."
"Tipo?"
"Tipo vedere una porta inaspettata che si apre su uno scenario
completamente nuovo."
"Davvero?"
"Sì, ma non guardarmi in quel modo. Vedrai che prima o poi troverò
un posto e una casa che mi convincono. Magari con una casa vicino per
te. Così potrai venirmi a trovare con chi vuoi per dei lunghi
periodi, o anche starci fissa."
"E finalmente potremo tenere un cane, no?"
"Sì."
"Hai detto di sì! Che potremo tenere un cane!"
"Quando troverò un posto che mi convince, certo. Anche due cani.
Anche cavalli e asini e oche e galline, tutti gli animali che
vogliamo."
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"Ma un posto che ti convince non lo troverai mai."
"Perché?"
"Se non l'hai trovato fino adesso."
"E allora? Perché devi essere così negativa? Mica ho rinunciato a
trovarlo. Se proprio vuoi saperlo, sono sicuro che lo troverò."
"Magari però lo troverai, e dopo un po' non ti convincerà più. Così
io non potrò mai avere un cane."
"Invece lo troverò e mi convincerà in modo continuo, senza
cedimenti. Entrerò in una nuova fase della mia vita. Dimostrerò a te
e a M. che non è vero che sono una specie di apolide patologico
irrimediabile, accidenti."
"Ma io lo voglio adesso, il cane. Non quando tu entrerai in una
nuova fase della tua vita."
"Magari sta per iniziare adesso, la nuova fase, cosa ne sai? E cos'è
quest'ossessione del cane, comunque? Sei proprio sicura di non avere
avuto qualche grave carenza affettiva per colpa mia?"
"Sì che sono sicura. Non ricominciare con questa storia."
"Non è che stai rimuovendo il problema? Con la tendenza a rimuovere
i pensieri faticosi che hai ereditato da me?"
"Non ho avuto nessuna carenza. E' solo che voglio un cane, e basta."
"Ho cercato di esserci più che potevo, con te, anche se io e tua
madre ci siamo separati. Ho preso apposta una casa a Milano, per
starti vicino."
"L'hai fatto per me?"
"Be', non credo che ci avrei messo mai più piede, altrimenti. E per
anni sono venuto a casa tua a leggerti una storia, ogni sera."
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"Non ogni sera."
"Quasi ogni sera. Ti ho letto centinaia di storie. Ho spazzato via
per anni scaffali interi dei reparti per bambini nelle librerie. Non
ci stavano neanche più nella tua stanza tutti quei libri. Non te lo
ricordi?"
"Forse."
"Non ti ricordi quando dopo averti letto un libro ti raccontavo la
storia dello scoiattolino stanco, che voleva dormire e invece veniva
mandato da sua madre a comprare le nocciole in paese e doveva contare
le monete una a una e le nocciole una a una e poi contare i passi uno
a uno lungo il sentiero nel bosco finché era tornato a casa?"
"Forse."
"Cosa vuol dire, forse? Te lo ricordi o no? La voce che ti facevo,
sempre più lenta e roca e assonnata mentre lo scoiattolino contava e
contava, finché crollava nel suo lettino e si addormentava e anche tu
ti addormentavi nel tuo e a volte mi addormentavo anch'io, sul
pavimento di fianco a te?"
"Forse, non so."
"Questa per esempio sarebbe una forma di rimozione o cosa?"
"E' solo che non mi ricordo bene. Ero piccola, no?"
"Sì, ma dovresti ricordarti lo stesso. Io mi ricordo tutto,
accidenti."
"Dov'è, il villaggio che volevi vedere? Sta diventando tardi."
"Non è un villaggio. Non so cosa sia rimasto. E non diventare
ansiosa, adesso. Non cominciare a pressarmi."
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"Mi hai promesso che domani pomeriggio siamo a Milano."
"E infatti domani pomeriggio ci siamo."
"Se facciamo deviazioni di ore, non credo proprio."
"Non sono ore. E non prendertela con me, se ci sei rimasta male per
il cane."
"Non me la prendo con te."
Il cielo è sempre più scuro, si è abbassato sul paesaggio in modo
quasi minaccioso. A una curva lo schianto di un tuono fa vibrare il
semifuoristrada, due secondi dopo una pioggia fitta batte sul
parabrezza e fa risuonare la lamiera del tetto. Lui guarda ai lati
della strada, ma non ci sono cartelli né case, né abitanti del luogo
a cui chiedere informazioni.
La pioggia cade sempre
più forte sulle colline
La pioggia cade sempre più forte sulle colline, l'aria diventa
sempre più fredda. I tergicristallo si affannano avanti e indietro al
massimo della velocità, ma bastano appena a far distinguere i margini
della strada. Intorno ci sono boschi di querce interrotti da qualche
prato, sembra un paesaggio disabitato. Lui rallenta ancora, gira la
manopola del riscaldamento verso il rosso. Lei sguscia sul sedile di
dietro nel suo modo agile, tira fuori dalla valigia un golf e se lo
infila.
"Mi aiuti a mettermi la giacca?" dice lui. Passa il dorso della
mano sul parabrezza per togliere la condensa.
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Lei lo aiuta, un braccio alla volta. Dice "Dov'è il posto che
volevi vedere?".
"Dovremmo esserci, più o meno. Non è molto chiaro, sulla carta."
"In che senso non è molto chiaro?"
"Non è una carta molto dettagliata, questa. Ma non ti preoccupare,
le so leggere, le carte."
"Sì?"
"Fa parte del mio lavoro. Se no come li troverei, i posti?"
"Vuoi vederlo lo stesso, con questo tempo?"
"Ormai che siamo qui. Ma voglio solo dare un'occhiata. Cinque
minuti."
Lei guarda fuori, non convinta. La pioggia sta prendendo una
consistenza diversa, le gocce si rompono sul parabrezza come piccoli
involucri di ghiaccio sciolto.
"Grandina" dice lei.
"E' più una specie di nevischio."
"Sei sicuro che siamo sulla strada giusta?"
"Ti ho detto di non preoccuparti. Fidati."
"Mi fido, ma guarda che strada."
In effetti il fondo è già tutto rivoli e pozze e la carreggiata è
stretta da ginestre e rovi sul lato a monte e intaccata da cedimenti
sul lato a valle; non sembra un percorso molto battuto.
"Con questa macchina non abbiamo nessun problema" dice lui. "Con la
trazione integrale a inserimento automatico e le ruote mud&snow e
tutto il resto."
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"Mud e cosa?"
"Mud&snow, me l'ha spiegato il concessionario quando l'ho comprata.
Qui è nel suo elemento."
"Sì?"
"E' costruita per questo genere di situazioni."
Guarda ai due lati della strada: non c'è traccia di ex villaggi o
case in rovina, né di sterrate o viottoli che potrebbero portarci.
Controlla il contachilometri parziale, cerca di ricordarsi cosa
segnava quando hanno passato l'ultimo bivio ma non se lo ricorda.
Prende la carta e la apre sul volante: non riesce a capire in che
punto preciso si trovano rispetto al piccolo cerchio che ha fatto in
paese con il pennarello rosso. Fuori la pioggia è tornata fluida e
ancora più fitta di prima, batte con piccole gocce furiose sui vetri
e sul tetto e sul paesaggio intorno.
"Fermati, se devi guardare la carta" dice lei.
"Riesco a vederla anche così, non fare l'apprensiva."
"E tu non fare lo scemo."
"Sono mai stato un guidatore spericolato? Eh?"
"No, ma se devi guardare la carta su questa strada e con questa
pioggia, fermati."
"Comunque ho già visto. Dev'essere tra pochissimo, a meno che non
l'abbiamo già passato."
"Non sarebbe meglio tornare indietro, alla strada grande
dov'eravamo prima?"
"Ormai ci conviene continuare, e riprendere la statale più avanti."
"Sei sicuro che ci arriviamo, per di qua?"
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"Ma sì. E se per caso non ci arriviamo, torniamo indietro."
Lei controlla l'orologio, controlla lo schermetto del telefonino.
Lui dice "Madonna, non essere così ansiosa".
"Non c'è campo."
"Potrai resistere per qualche minuto, senza campo? Ti ho detto che
domani pomeriggio siamo a Milano. Non ti preoccupare."
"C'è poco da non preoccuparsi. Guarda cosa viene giù."
"Non potresti tornare allo spirito di prima?"
"Di quando?"
"Di quando ridevamo per la storia del canile. Invece di fare tutta
la corrucciata."
"Non faccio la corrucciata. E' solo che qui diventa sempre peggio."
"Parliamo d'altro."
"Di cosa?"
"Di Luca, per esempio. Cosa pensa di fare, dopo il liceo?"
"Lascia stare Luca, per piacere."
"Perché? Sono curioso."
"Di cosa? Guarda la strada."
"Delle sue idee per dopo il liceo. Cosa vuole fare, da grande?"
"Non lo so."
"Non hai la minima idea? Non ne avete mai parlato?"
"Il regista, gli piacerebbe."
"Il regista?"
"Sì."
"Di cosa? Di film, di teatro?"
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"Di film."
"E ne sa qualcosa?"
"Vede un sacco di film. Tutto il tempo."
"Dicevo se sa qualcosa di come si girano."
"Ha una collezione incredibile di videocassette, se l'è studiate
tutte."
"Ma ha mai provato a girare qualcosa di suo?"
"Ha fatto dei filmini, ma poi suo padre non gli ha più voluto
prestare la videocamera perché hanno litigato."
"E non riesce a procurarsene un'altra?"
"No."
"Quindi vorrebbe fare una scuola di cinema, dopo il liceo?"
"Forse."
"Come forse?"
"Credo di sì."
"Quale scuola? Si è informato?"
"Vorrebbe andare in America."
"In America dove?"
"Non lo so."
"E lui lo sa?"
"Non ancora."
"Parla l'inglese, Luca?"
"Sì."
"Dove l'ha imparato?"
"A scuola."
"Vuoi dire al liceo?"
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"Sì."
"Scusa, ma lo sappiamo come insegnano le lingue al liceo italiano,
no? E' una delle catastrofi del nostro paese, l'analfabetismo
linguistico."
"L'ha imparato."
"Forse dovrebbe seguire qualche corso per conto suo."
"Infatti, lo farà."
"E come pensa di andarci, in America?"
"In che senso?"
"Chi gli darebbe i soldi?"
"Non lo so."
"I suoi?"
"Forse."
"Hai idea di quanto può costare una scuola di cinema in America?"
"Quanto?"
"Tanto."
"Si farà dare una borsa di studio."
"E secondo te gli americani sono lì che muoiono dalla voglia di
dare una borsa di studio a un bravo ragazzo italiano che vorrebbe
fare il regista?"
"Non lo so."
"E Luca non era in pessimi rapporti con suo padre? Invece di colpo
si scoprirebbe che è un suo fantastico complice pronto ad appoggiarlo
in quest'avventura?"
"Non lo so."
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"Oppure pensa di vivere sotto i ponti, in America? Di fare il
vagabondo del Dharma come nella simulazione a nostro uso quando siamo
andati a prenderlo al porto l'estate scorsa?"
"Smettila."
"Ti sto solo facendo delle domande."
"Sì, ma sono domande del cavolo."
"Perché del cavolo?"
"Perché cerchi di far passare Luca per cretino."
"Non cerco di farlo passare per cretino. E' solo che forse
bisognerebbe avere almeno qualche elemento concreto in queste cose,
no? Prima di mettersi a fare grandi piani suggestivi."
"Tu avevi tanti elementi concreti, all'età di Luca?"
"No. Ma forse un po' più di lui. E comunque avevo meno
atteggiamenti."
"Se hai detto che eri novanta per cento atteggiamenti, alla sua
età. Novanta per cento atteggiamenti e dieci sostanza."
"Parlavo in una prospettiva ipercritica, a ritroso. E non puoi
sempre usare contro di me le cose che ti dico."
"Perché, tu invece non usi contro di me quelle che ti dico io?"
"Non contro di te. E non per rintuzzare delle domande fondate."
"Non si dice rintuzzare una domanda. Si dice rintuzzare un'accusa."
"Non fare la saputona del cavolo, adesso."
"Sei tu che sei una iena."
"Non sono una iena. Cerco solo di avere un ruolo da adulto, ogni
tanto."
"Non hai sempre detto che i ruoli sono una cosa orrenda?"
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"Ho detto che sono orrendi quando diventano più forti delle
persone."
"Hai detto che i ruoli sono più forti delle persone."
"Ah sì? Va be', magari l'ho detto."
"L'hai detto."
"Il fatto è che anche scappare dai ruoli non è tanto bello. Fare
finta di non averne uno. Fare i compagnoni e gli amici dei propri
figli e non assumersi nessun genere di responsabilità verso di loro.
Certo, costa molta meno fatica. Però alla fine è un gioco che lascia
i figli allo sbando, li fa andare in malora se non sono più che
fortunati."
"Sei tanto bravo a costruire teorie, e poi nella pratica non ne
tieni mai conto una volta! Sei la persona più incoerente del mondo!"
"Quando, per esempio?"
"Sempre!"
"Fammi un esempio."
"Quando dici che non bisogna essere realisti, se si vogliono fare
delle cose interessanti. Che non bisogna farsi bloccare dai calcoli
di probabilità. Poi appena ti racconto che Luca vuole fare il
regista, lo fai passare per cretino perché non è realista!"
"Non è così. Non ho mai detto che Luca sbaglia ad avere dei sogni."
"Però dici che è un cretino se ha dei sogni."
"Non ho mai detto che è un cretino."
"L'hai detto, invece! In sostanza l'hai detto!"
"E' solo che vorrei che non foste completamente senza contatto con
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la realtà. Vorrei che aveste dei sogni ma anche un minimo di senso
pratico. Un minimo."
"Tu non avevi nessun senso pratico, alla nostra età."
"Come fai a saperlo?"
"L'hai detto tu. Mille volte."
"Va bene, non ne avevo. Non ce l'ho neanche adesso, se è per
quello. Ma forse il minimo indispensabile per dare uno spiraglio di
realizzabilità a uno dei miei sogni, sì."
"E quale sarebbe, il minimo indispensabile?"
"Quello di saper fare qualcosa, per esempio. Qualunque lavoro ha
una sua dimensione pratica. Anche il più strano e il più astratto."
"Stavamo parlando del senso pratico degli inizi! Di prima di avere
provato a fare una cosa! Hai detto che quando hai scritto il tuo
primo libro non sapevi neanche che potesse essere un lavoro! Che
tutte le persone con cui ne parlavi ti facevano sorrisi di
compatimento!"
"E' vero."
"E allora?"
"Però era diverso."
"Perché era diverso?"
"Non ero così vago."
"Hai detto che eri totalmente vago!"
"Non ero così sospeso e indefinito!"
"Hai detto che eri totalmente sospeso e indefinito!"
"Non ero così equidistante rispetto alle cose!"
"Non siamo affatto equidistanti rispetto alle cose, noi!"
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"Quello che sto cercando di dire è: ero meno distratto. Ero più
attento."
"Attento a cosa?"
"A tutto."
"Alla scuola, per esempio? Se mi hai raccontato mille volte che ti
sembrava di essere in un museo pieno di vecchi animali impagliati, a
scuola!"
"Non ero attento alle cose che non mi interessavano, ma per quelle
che mi interessavano avevo un'attenzione spasmodica. Ero capace di
passare pomeriggi interi sulla copertina di un disco, a registrare
con uno scanner mentale ogni piccola illustrazione e ogni minuscola
scritta. A sforzarmi di tradurre le parole delle canzoni, frugare nel
dizionario inglese finché non riuscivo a decifrarle tutte."
"Anche noi traduciamo le canzoni!"
"Sì, ma in modo molto più distratto! Come se in ogni caso aveste
mille altre cose di cui occuparvi, altrettanto importanti o
altrettanto non importanti!"
"Cosa ne sai tu? Cosa cavolo ne sai?"
"Lo vedo! Lo vedo!"
"Invece non vedi proprio niente! Vorresti solo tutta l'attenzione
anche da noi, e ti fa rabbia non averne abbastanza! Sei come tutti
gli altri padri del cavolo che non sanno niente di niente dei loro
figli e pretendono di sapere tutto!"
"E' la distrazione che non sopporto! Il fatto che siate distratti e
incuranti!"
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"Rispetto a cosa?"
"Rispetto a tutto! Rispetto a quello che fate e anche rispetto a
voi stessi! Pensate di avere tutto a disposizione in qualsiasi
momento, sospendibile e rimandabile fino a quando non vi viene voglia
di uscire dalla vostra distrazione universale per un momento!"
"Smettila! Sei uno stronzo e basta! Mi fai schifo!"
"Ti arrabbi solo perché sai che dico la verità!"
"Stai zitto! Non ho più voglia di parlare con te!"
"Brava, mettiti a fare la povera vittima del padre mostro che non
ti capisce!"
"Sei un bastardo e non ti voglio vedere mai più! Riportami a casa
subito!"
Adesso grida così forte, e con gli occhi così infiammati di rabbia
viva, che lui ne ha quasi paura. Eppure nella quasi-paura e nella
furia polemica che gli scorre nel sangue, c'è un fondo ammirato per
la sua reazione. E' più di questo, nel modo senza contorni in cui un
sentimento simile può manifestarsi: è una forma di sollievo profondo
che si alimenta nell'energia della sua voce e nella convinzione
violenta che la attraversa, nella riserva di opinioni non esili né
oscillanti che le permette di fronteggiarlo e scontrarsi con lui
senza uscirne per niente da vittima. Gli torna in mente una volta due
estati prima, quando avevano litigato per qualcosa e si erano presi a
spinte, e il meccanismo di chiusura a pressione di una porta gli
aveva dato per qualche secondo l'idea che lei avesse la forza fisica
per ricacciarlo indietro e sbatterlo fuori. Solo che adesso non c'è
nessun meccanismo a pressione a moltiplicare la forza nella sua voce
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o il fuoco nel suo sguardo. E' lei come giovane persona già con un
punto di vista formato sul mondo, venuta fuori da una combinazione
casuale di elementi genetici e influssi ambientali e disegni del
destino leggibili solo a distanza. Furioso com'è, avrebbe voglia di
abbracciarla, dirle che è contento di avere una figlia così, darle
ragione su tutto il fronte, parlarle in uno spirito totalmente
diverso.
Ma lei è fuori di sé dalla rabbia, e vederlo sorridere ha solo
l'effetto di infiammarla ancora di più. Grida "Fammi scendere! Ferma
e fammi scendere!".
"Non fare di nuovo la scena del buttarti dalla macchina, adesso!"
"Tu fammi scendere!"
"Dove cavolo vuoi andare, qui?"
"Via! Non voglio più stare a sentirti!"
"Cerca di ragionare! Non lo vedi dove siamo?"
"Fammi scendere!"
"Lascia stare la maniglia! Non fare la scema! Ti infradici tutta!"
"Lasciami il braccio! Fammi scendere!"
"Mi avevi giurato che non avresti mai più fatto la scena dello
scendere dalla macchina!"
"Io non ti ho giurato proprio niente!"
"Ti ho spiegato che ho un problema specifico con queste scene!"
"Tu fammi scendere! Fammi scendere!"
"Lascia stare quella portiera! Non fare la pazza!"
"E tu lasciami il braccio! Vai al diavolo, vai al diavolo! Vai al
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diavolo!"
Il semifuoristrada
va fuori strada
Il semifuoristrada va fuori strada, con una naturalezza che forse
una macchina normale non riuscirebbe ad avere.
Scivola verso il margine della carreggiata mentre loro due gridano
e si strattonano, e prima che lui faccia in tempo a capire cosa
succede poggia a sinistra e prende a scendere per una pendenza sempre
più ripida a una velocità non modificabile dalla forza che lui prova
a esercitare sul freno a pedale e su quello a mano ma che anzi
aumenta come in uno dei suoi sogni ricorrenti di precipizio mentre
cespugli e alberi ed erba e terra scorrono oltre insieme alla pioggia
che batte fitta sui finestrini e sul parabrezza e sul tetto in uno
spazio dilatato che continua per sempre e si interrompe d'improvviso
in un urto sordo che li fa volare in avanti e subito all'indietro con
altrettanta forza.
Lui si gira a guardarla prima ancora di riprendere fiato, dice
"Tutto bene?".
Lei non risponde, è pallida come non gli sembra di averla mai
vista.
La scuote per una spalla con cautela, dice "Ehi? Come va?". Poi
visto che lei ancora non risponde salta giù e gira intorno al cofano
e scivola nel fango e apre la sua portiera e la trascina fuori,
stupito dalla resistenza che fa e subito dopo da quanto è leggera. La
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scuote ancora sotto la pioggia, dice "Come stai? Come stai? Dimmi
come stai!", guarda travolto dal panico le sue labbra che si muovono
finché la sente dire per forse la seconda o terza volta "Mi fai
male!".
La lascia andare e fa un passo indietro; il cuore riprende a
battergli a una velocità più normale. Si guardano a breve distanza,
incerti allo stesso identico modo su che espressione assumere; si
guardano intorno.
Sono fermi in uno spiano di terra argillosa, tra prati fradici in
pendenza chiusi intorno da boschi, a pochi metri da una strada
sterrata dissestata appena distinguibile nella pioggia che batte e
scorre e ristagna sotto i loro piedi. Dietro di loro c'è una
costruzione bassa che sembra una stalla abbandonata, con un vecchio
portone sconnesso. Poco più in là c'è un secondo edificio a due
piani, senza tetto e in completa rovina. Intorno ci sono detriti
vari, pezzi di metallo e di plastica, ciocchi di legno intorno a cui
l'erba è cresciuta e si è seccata, il telaio di una finestra, una
rete di letto sfondata in una pozza d'acqua.
Fa freddo e hanno già i capelli tutti bagnati, le scarpe fradice e
piene di fango. Lui dice "Che razza di scemi incredibili siamo
stati".
Lei lo fissa e distoglie lo sguardo, non riesce a decidersi se
mantenere un atteggiamento ostile oppure no.
Lui dice "E ci è andata ancora bene. Avremmo potuto ribaltarci e
rotolare fino in fondo alla valle, romperci tutte le ossa".
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"Sì?"
"Avremmo potuto ammazzarci, accidenti. Due scemi incredibili."
"E adesso cosa facciamo?"
"Risaliamo alla strada."
"Come?"
"Per quella sterrata."
"Quale?"
"Quella."
"Ma la macchina ce la fa?"
"Dovrebbe. E' un semifuoristrada, no?"
"L'ho visto, mentre venivamo giù."
"E' perché stavamo litigando e strattonandoci come due scemi, non
riuscivo a capire né vedere niente."
"Chissà da quanti anni non la usano più, quella sterrata. Non vedi
com'è ridotta?"
"Senti, l'unica è provare, prima di preoccuparci."
Ma lei è preoccupata, adesso che lo shock del precipizio comincia
ad attenuarsi: ha lo sguardo e i lineamenti saturi di preoccupazione,
i capelli zuppi, pioggia che le cola sulla faccia. Controlla lo
schermetto del suo telefonino con un'apprensione da naufraga, piegata
per proteggerlo dal diluvio.
Lui dice "Lascia stare quel telefonino, per piacere. Saliamo in
macchina prima di infradiciarci del tutto".
"E se il motore non riparte?"
"Riparte. Perché non dovrebbe?"
Salgono sul semifuoristrada. Lui prende un respiro e gira la chiave
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d'accensione: il motore riparte subito. Non è un gran motore, un due
litri dalla voce sottile, adeguato a girare in città e su qualche
strada da weekend. Gli viene in mente lo sguardo di M. le volte che
lo vedeva comprare una rivista di automobili come lettura ipnotica
per rimuovere i pensieri faticosi: il suo sorriso all'idea che anche
lui avesse almeno una traccia di passione maschile per le cose
meccaniche. Gli viene in mente la finta neutralità degli articoli sui
vari modelli, i giudizi tecnici scritti con un occhio ai lettori e
uno alle case automobilistiche in modo da non sbilanciarsi mai. Cerca
di ricordarsi cosa aveva letto delle effettive capacità da
fuoristrada di questa macchina: cosa gli era sembrato di intuire di
vero tra gli aggettivi scelti per non contrariare nessun direttore
commerciale né rischiare di perdere nessuna pagina pubblicitaria.
Ingrana la marcia indietro. Il parabrezza è appannato di condensa
all'interno e inondato di pioggia fuori. Cerca di pulirlo con una
mano, preme sull'acceleratore. Il motore romba nel suo modo esile, il
semifuoristrada vibra tutto e finalmente la trazione integrale a
inserimento automatico si inserisce, le quattro ruote fanno presa.
Lui manovra avanti e indietro molte volte di seguito, fino ad
arrivare allo spiano davanti alla stalla e poi a puntare verso la
sterrata che sale ripida e sconnessa per la pendenza. Si gira a
guardare sua figlia tutta tesa sul sedile di fianco, dice "Andiamo?".
Lei fa di sì con la testa; lui ingrana la prima e accelera.
Il semifuoristrada sale abbastanza fiducioso per la pendenza
fangosa irregolare, poi appena arriva a un punto più ripido perde
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slancio e le ruote cominciano a girare a vuoto, il suono del motore
sale di frequenza. Lui accelera ancora, le ruote girano frenetiche e
l'ago del termometro punta verso la zona rossa; il motore si spegne
di colpo, lei grida "Attento!" e scivolano all'indietro come su una
grande slitta incontrollabile, il paesaggio battuto dalla pioggia
scorre oltre fino a bloccarsi in un urto sordo contro una sponda ai
margini dello spiano.
"Cos'è successo?" dice lei.
"L'hai visto, cos'è successo. Non ce l'ha fatta, sto cavolo di
affare."
"E adesso?"
"Adesso ci riproviamo."
"E se rotoliamo fino in fondo alla valle?"
"Non rotoliamo."
"Come fai a saperlo?"
"Senti, non mi aiuti per niente, con quell'aria. Anzi, scendi, per
piacere. E' meglio se ci provo da solo."
Lei scende, ma appena la vede in piedi sotto la pioggia nella luce
che diminuisce, gli viene una fitta di apprensione per come gli
sembra smarrita, impreparata a questo genere di situazioni.
Apre la portiera, dice "Aspetta". Scende nell'argilla smossa che
gli risucchia i passi e lo fa scivolare, apre il portellone dietro e
fruga nella sua valigia, tira fuori il suo impermeabile rosso. Va a
portarglielo, dice "Mettiti questo, che sei già zuppa".
Lei se lo infila: le sta largo e lungo come una mantella da
pescatore nordico. Non dice niente.
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Lui torna verso il semifuoristrada, fa un controllo delle ruote e
dei semiassi, approssimativo per come scivola e per come l'acqua gli
entra negli occhi. Grida a sua figlia attraverso il rumore e lo
spessore della pioggia "Stai tranquilla! Non è niente di drammatico!
L'importante è che non ci siamo fatti male!".
Lei fa di sì con la testa, guarda la scena da sotto la sua mantella
rossa.
Lui manovra avanti e indietro a piccoli tratti per raddrizzare, poi
fa marcia indietro nello spiano e prende la rincorsa. Spinge
l'acceleratore a fondo e sale più veloce di prima per la sterrata,
poi nello stesso identico punto di prima le ruote riprendono a girare
a vuoto. Lui accelera ancora, guarda l'ago del contagiri spostarsi su
5000 e 6000 e verso la zona rossa finché fumo bianco comincia a
uscire dal cofano insieme a odore di gomma bruciata dalle guarnizioni
della testata o dalla frizione e le ruote schizzano fango sul
parabrezza e tutto intorno. Lui tira giù il finestrino per vedere
qualcosa, il fango e il fumo e l'odore di bruciato invadono
l'abitacolo mentre lui scuote avanti e indietro a due braccia il
volante come se potesse servire ad aumentare lo slancio. Subito dopo
il motore si blocca di nuovo e il semifuoristrada scivola
all'indietro come una grossa slitta finché sbatte contro la sponda
argillosa proprio quando sembra destinato a precipitare fino in fondo
alla valle.
Lui scende, travolto da una rabbia contro gli oggetti concentrata
ed estesa come non gli sembra che gli sia mai capitato. Grida
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"Bastardo di finto fuoristrada ridicolo e patetico, costruito per
imbecilli e comprato da imbecilli!". Dà un calcio alla fiancata,
scivola nel fango e cade seduto. Si rialza ancora più furioso e
inzaccherato, fa per gridare altre cose e dare altri colpi ma si
rende conto che sua figlia lo sta guardando.
La raggiunge vicino alla stalla, dice "Non c'è verso, così. Non c'è
verso".
"E come facciamo?" dice lei con una voce sottile.
"Intanto non lasciamoci intrappolare dai dati di fatto."
"Cosa vuol dire?"
"Non diventiamo schiavi della pioggia e del fango e della pendenza
e delle macchine per imbecilli e della sera."
"Sì, ma come ci togliamo da qui?"
"Tu cosa suggerisci? Hai qualche idea?"
"Non possiamo far venire qualcuno a tirarci fuori con un trattore?"
"E come lo chiamiamo? Il mio cellulare ha zero campo. Il tuo?"
"Zero"
"Nel cruscotto c'è il libretto della garanzia internazionale, con i
numeri del soccorso in tutta Europa 24 ore su 24. Ma non serve molto,
qui."
"E allora?"
"Hai visto qualcuno, là sopra sulla strada?"
"No."
"Ti ricordi un paese o un bar o una casa di contadini, negli ultimi
dieci o quindici chilometri?"
"No."
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"Neanch'io."
"E allora?"
Lui fa uno sforzo per fermare la sovrapposizione di pensieri
frammentari che ha in testa. Dice "Studiamo con calma la situazione".
Lo fa quasi solo per lei, ma ci riesce: la voce gli viene fuori
abbastanza credibile da calmarlo davvero, farlo sorridere. Dice
"Qualsiasi situazione è risolvibile. Qualsiasi. Basta pensarci".
Si riparano tutti e due sotto lo sbalzo del tetto della stalla
abbandonata. Vista con le spalle al vecchio muro sbrecciato nella
luce che continua a ridursi, con la pioggia che batte senza tregua
sul paesaggio ingrigito e infangato e scroscia giù dalle tegole
rotte, non sembra una situazione particolarmente risolvibile. Hanno
freddo tutti e due, sono zuppi e scossi, con le scarpe piene d'acqua.
"Non hai un altro impermeabile per te?" dice lei.
"No. Ma questa giacca di pelle non lascia passare niente. Davvero."
"Hai tutti i capelli bagnati."
"Solo in superficie. Cerchiamo di risolvere questa storia, adesso."
"Come?"
"Le ruote cominciano a girare a vuoto sempre nello stesso punto. Tu
non ti muovere da qui, voglio vedere una cosa."
"Dove vuoi che vada?"
Sale a passi pesanti alla sterrata, con uno sforzo continuo per
liberare i piedi dal fango. Il punto dove le ruote girano a vuoto è
sei o sette metri più in alto dello spiano, un tratto di quattro o
cinque metri di pendenza ripida e solchi ancora più profondi dopo i
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suoi tentativi; più avanti sembra un poco più praticabile. E' una
carrareccia per trattori, più che una strada sterrata, in disuso da
chissà quanti anni; non la segue fino a sopra perché camminare gli
costa troppa fatica, e per paura di scoprire punti ancora meno
superabili.
Quando torna giù al piano scivolando e incespicando nel fango
argilloso, lei dice "Allora?".
"Ho un'idea" dice lui. "Fammi provare."
Comincia a raccogliere legni e pezzi di plastica e ogni tipo di
detriti intorno alle due costruzioni, poi torna su alla carrareccia e
li butta nei solchi fangosi. Va avanti e indietro decine di volte
senza fermarsi, mentre la luce del giorno continua ad affievolirsi.
Le dita gli fanno male e continua a scivolare nel fango, il sudore
gli cola sulla fronte insieme alla pioggia e gli inzuppa la maglia di
cotone sotto la giacca di pelle bagnata. Va avanti e indietro senza
quasi più riflettere, trascinato dai suoi stessi gesti e dalla fatica
e dalla determinazione che richiedono. Ogni tanto gli sembra assurdo
essere precipitato in questo fondo di materia pesante e appiccicosa,
dallo stato quasi immateriale in cui ha fluttuato insieme a lei per
giorni interi tra paesaggi e distanze e parole e sfumature.
Curiosamente questa gli sembra una condizione meno reale di quella,
anche se è fatta interamente di elementi di realtà: pressione
atmosferica e attrito e stanchezza da vincere. Cerca di concentrarsi
nel ritmo del respiro e nel ritmo dei gesti, cerca di aguzzare lo
sguardo per distinguere i detriti da raccogliere e da buttare nei
solchi fangosi. Ogni tanto si gira a guardare nella luce sempre più
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debole sua figlia che lo osserva dalla porta della stalla, come una
giovane profuga in territorio di guerra. Ogni volta che è sul punto
di smettere, pensa che non ha nessuna voglia di deluderla con un
altro tentativo fallito. Ha un desiderio furioso di togliersi da lì
al più presto, e una determinazione altrettanto intensa di dare a
quello che fa una qualità simbolica, di intenzioni e capacità e
metodi utilizzati al meglio.
Alla fine slitta e incespica nell'argilla smossa fino al
semifuoristrada e sale al volante e mette in moto. Manovra di nuovo
avanti e indietro per raddrizzare, ed è sempre più difficile perché i
tentativi di salire e le scivolate all'indietro hanno creato onde e
canali e rilievi di fango. Lavora di cambio e di volante con le mani
bagnate e infangate che non fanno bene presa, va a marcia indietro
per prendere la rincorsa, riparte più veloce delle altre volte. Il
semifuoristrada attacca di slancio la salita e arriva al punto di
pendenza estrema e le ruote cominciano a macinare i legni e gli altri
detriti che lui ha sparso nei solchi, stroc stroc stroc uno dietro
l'altro e sembrano per un attimo sul punto di farcela e invece di
nuovo si mettono a girare a vuoto e l'ago del contagiri va nel rosso
e dal cofano esce fumo e puzzo di gomma bruciata, lui abbassa i
finestrini per vedere meglio ma non c'è niente da vedere tranne
pioggia e fango che schizza dentro l'abitacolo e rende ancora più
scivolosi il volante e la leva del cambio, e il motore si blocca di
nuovo e il semifuoristrada scivola all'indietro nello stesso modo
inarrestabile delle altre volte fino a fermarsi di schianto contro
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l'argine di terra compatta.
Lui scende, intriso di fango e fatica e frustrazione e pioggia che
gli cola sulla faccia e sulle mani. La luce se n'è andata quasi
tutta, il giorno è finito davvero. Guarda sua figlia che lo guarda
immobile dal riparo inadeguato della vecchia falda di tetto, si sente
irrimediabilmente stupido.
Dice "Cosa mi guardi così?".
"Come ti guardo?" dice lei.
"Con quell'aria affranta."
"Che aria dovrei avere, secondo te?"
"Forse potremmo riderci sopra. Non prenderla così sul serio."
"Ridi tu, se ne hai voglia."
"Intanto cerchiamo di toglierci da questa pioggia."
"E come?"
Lui senza dire altro dà una spallata al portone sconnesso della
stalla. E' fatto di tavole di quercia ingrigita e crepata, non cede.
Gli dà altre spallate e calci, prova a far leva con un ferro
arrugginito, ma dev'essere chiuso dall'interno con chiavistelli o
legacci perché non cede più di un paio di centimetri.
Fanno un giro intorno all'edificio basso cercando di evitare le
cascate d'acqua dal tetto, provano una porta più piccola e in
apparenza più fragile, ma a spingerla e scuoterla non si apre neanche
quella. Lui va indietro di due passi sotto la pioggia e dà un calcio
all'altezza della maniglia con tutta la rabbia che gli si è
accumulata dentro: la porta si apre di schianto. Lei lo guarda
stupita; lui ride, con una miscela infantile di sorpresa e sollievo,
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dice "Visto?".
Dentro è buio, c'è odore di mangime per polli e muffa e formaggio
pecorino molto stagionato. Lui va a tentoni fino al portone e apre i
chiavistelli che lo tenevano chiuso, fa entrare l'ultimo chiarore
della sera tempestata di pioggia. C'è ancora un po' di paglia nelle
mangiatoie, cacca secca di pecora sul pavimento di terra battuta,
fogli di plastica strappata e opaca che pendono dalle finestre,
vecchi sacchi vuoti e pezzi di legno e un'altra rete metallica rotta,
tegole cadute dal tetto. La capriata sembra ancora solida, con i
puntoni e la catena di rovere secolare, ma i travetti del soffitto e
le pareti sono ridotti male.
"Non ci crolla in testa?" dice lei.
"Non credo" dice lui. "Spero di no."
"E adesso?"
"Adesso ci arrangiamo qui per stanotte e domattina troviamo il modo
di andarcene."
"Avevi detto che la situazione era risolvibile."
"Sì, ma non adesso, con tutta questa pioggia e ora anche il buio."
"Avevi detto che non c'era da preoccuparsi."
"Infatti, non c'è da preoccuparsi. Siamo in buone condizioni
fisiche e abbiamo un riparo magnifico dove passare la notte!"
"Non è magnifico per niente! Fa schifo ed è pieno di cacca di
pecora, io la notte qui non la passo!"
"E dove la passi, allora? Fuori nel fango sotto la pioggia?"
"Mi avevi promesso che per domani pomeriggio eravamo a casa! Me
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l'avevi promesso!"
"Lo so, ma poi ci siamo messi a litigare come due scemi incredibili
e siamo finiti giù per la collina, e dobbiamo solo ringraziare di non
esserci ammazzati o rotti tutte le ossa. Non è che si possano sempre
seguire i programmi filo filo, sai? Capitano anche degli imprevisti,
ogni tanto. Se uno appena esce dai binari o esce di strada."
"Io non avevo nessuna voglia di uscire dai binari né di strada,
avevo solo voglia di essere a casa domani!"
"Non essere sleale, per piacere, appena qualcosa va storto!"
"Sei tu sleale! A promettere le cose e non mantenerle!"
"Ti pare davvero che sia colpa mia?"
"Sì che è colpa tua! Sei tu che hai voluto fare questa deviazione!
Quando sapevi che non avevamo tempo!"
"Avevamo tempo! Se non ci fossimo messi a litigare e non fossimo
finiti giù per la collina!"
"Eri tu che guidavi!"
"Non fare la persona di marmo levigato, per piacere!"
"Sei tu prepotente e ostinato e bugiardo! Mi avevi promesso che
tornavamo! E adesso invece siamo bloccati qui fino a chissà quando!"
"Bella viaggiatrice, che si lascia spaventare e scarica la colpa
sugli altri alla prima difficoltà!"
"Non c'è neanche campo per il telefonino, non posso neanche
avvertire Luca!"
"Non morirà, Luca! E' molto più grave che io non possa telefonare a
M., allora! Proprio adesso che le cose tra noi erano arrivate a un
punto terribilmente critico!"
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"E' un problema tuo! Io so solo che non posso chiamare Luca!"
"Suggerisci una soluzione, dài! Invece di fare la sleale!"
"Non ho nessuna soluzione, io! Ho freddo e fame, voglio tornare a
casa!"
"Non puoi fare la cresciuta e l'indipendente quando vuoi e poi di
colpo avere di nuovo quattro anni appena ti fa più comodo!"
"E tu non puoi fare quello che ha risposte a qualsiasi domanda e
conosce tutti i meccanismi del mondo, e poi farmi finire in una
situazione allucinante come questa e non sapere neanche come venirne
fuori!"
"Sei sleale e infantile e cialtrona! Mi vergogno di avere una
figlia così!"
"Sono io che mi vergogno di avere un padre così! Non verrò mai più
a fare un viaggio con te in vita mia! Non ti voglio vedere mai più!
Ti odio!"
"Grazie tante!"
"Parli continuamente dei problemi e dei conflitti e delle ragioni
della specie umana, solo perché non sei in grado di risolvere i tuoi,
di problemi!"
"E allora? Anche se fosse così?"
"Con tutti i tuoi discorsi del cavolo sui comportamenti primordiali
e la sopravvivenza della specie e tutto il resto, non te ne frega
niente se gli altri sono interessati o no! Dici tanto dei teatrini
soffocanti delle famiglie tradizionali, e poi cosa credi di fare, tu?"
"Non il teatrino, spero."
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"Invece sì! Parli solo di te, è l'unica cosa che ti interessa!"
"Non è vero! Non mi interessa per niente parlare di me! E'
l'argomento meno stimolante che mi possa venire in mente! Mi deprime
e mi avvilisce e mi costa una fatica tremenda!"
"E allora perché lo fai? Eh?"
"Per cercare di capire qualcosa con accuratezza! E per cercare di
farlo capire a te! Per darti delle informazioni!"
"Informazioni su cosa?"
"Su quello che succede nella vita e su come sono fatte le persone e
su come sei fatta anche tu!"
"Io lo so benissimo come sono fatta! Non ho bisogno che me lo
spieghi!"
"Pensavo che ti potesse interessare avere qualche dato aggiuntivo!"
"Invece non mi interessa per niente! Tu hai solo bisogno del tuo
piccolo pubblico obbligato!"
"Non ho bisogno di nessun piccolo pubblico obbligato! Ho un
pubblico volontario abbastanza esteso, se proprio lo voglio!"
"Allora dovevi portarti in viaggio i tuoi lettori maniaci di storia
del cavolo, invece di portare me!"
"Io pensavo che almeno un po' ti fosse piaciuto, questo viaggio!"
"Non mi è piaciuto per niente! E' stato solo una rottura di scatole
senza fine! Non ne voglio fare mai più, di viaggi con te!"
"Neanch'io, stai tranquilla! Neanch'io!"
Poi si girano quasi nello stesso momento verso il vecchio portone
spalancato, e la pioggia battente ha rallentato il ritmo e cambiato
consistenza mentre litigavano, è diventata neve che scende in fiocchi
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dilatati. Lui dice "Ma".
Stanno fermi, improvvisamente fuori dalla rabbia concitata di un
istante prima e fuori dalla capacità di misura dei loro orologi e
fuori dalle ragioni del loro viaggio e fuori dalla geografia e fuori
dal percorso che hanno seguito, fuori dal disagio di essere finiti
fuori strada e anche fuori dalla sorpresa e fuori dall'attenzione. Si
spostano di poco per guardare la scena in una variazione di
prospettiva, mentre l'ultima parvenza di luce della sera esausta si
frammenta in una moltitudine di fiocchi bianchi e i suoni si smorzano
ancora e tutto sembra arrivare a uno strano punto di immobilità
sospesa.
Mangiano in silenzio
il formaggio duro di capra
che avevano comprato al paese
con l'idea di regalarlo
a qualcuno insieme ai racconti
del loro breve viaggio
Mangiano in silenzio il formaggio duro di capra che avevano
comprato al paese con l'idea di regalarlo a qualcuno insieme ai
racconti del loro breve viaggio. Lui taglia via la crosta e poi
stacca schegge di pasta gialla soda con il suo coltellino francese a
serramanico, felice all'idea di averlo avuto in tasca e di averlo
trovato utile così presto. Hanno fame tutti e due, e l'odore della
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stalla accentua il sapore del formaggio, lo vena di sfumature
intense. Stanno seduti sulla vecchia paglia vicino al fuoco acceso
con l'accendisigari del semifuoristrada che adesso è al riparo a
pochi metri da loro. Non ci sono rumori a parte il crepitio della
fiamma e lo sgocciolio d'acqua da due o tre punti del tetto; i
vestiti asciutti che si sono messi a strati li tengono alla
temperatura giusta.
Lui va a prendere altra legna, tagliata chissà da chi chissà
quando. La aggiunge al fuoco con cura, poi ci appoggia sopra uno dei
vecchi sacchi di sementi: la carta spessa e mezzo ammuffita fa fatica
ad accendersi, ma alla fine divampa, riempie la stalla di luce calda.
Va a mettere un bicchiere di plastica sotto una caduta di gocce fino
a riempirlo; torna al fuoco, stacca altre schegge di formaggio di
capra con il coltellino francese. Stanno zitti, assorbono il calore e
il sapore e il silenzio, fanno movimenti minimi.
Lui dice "Mi dispiace per quello che ci siamo gridati prima".
"Anche a me."
"E' che ero esasperato per non essere riuscito a risalire alla
strada, mi ha fatto impazzire vederti così ostile."
"Non ero ostile. Ero solo furiosa di non poter essere a Milano
domani."
"Ci sarai."
"E come?"
"Troveremo il modo."
"In ogni caso non è vero che ti odio."
"E non è vero che io mi vergogno di te."
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"Cos'altro ci siamo gridati, di orrendo?"
"Non me lo ricordo più. Il fatto è che non riesco mai a ricordarmi
gran che, delle litigate. Neanche di quelle con M. Lei invece è
capace di richiamare una mia brutta frase o gesto a distanza di mesi
o anni. Ma credo che sia una cosa delle donne. Avete una specie di
archivio mentale, dove mettere singole parole e singoli gesti, anche
molto piccoli."
"E gli uomini?"
"Gli uomini sono distratti, rispetto alle singole parole e ai
singoli gesti delle donne, in particolare quelli molto piccoli."
"E rispetto a quelli degli uomini?"
"Sono pronti a farci delle guerre. Letteralmente."
Le porge il bicchiere di acqua di neve, poi ne beve anche lui, va a
rimetterlo sotto lo sgocciolio.
Lei dice "Cosa pensi che farete, tu e M.?".
"Non lo so."
"Non hai idea?"
"No. Però ti ho detto, potrei essere sul punto di entrare in
un'altra fase della mia vita, anche se non so quale. Quindi tutto è
possibile."
"Ma giorni fa hai detto che in realtà non credi di avere mai
attraversato nessuna fase."
"Sono solo combinazioni di parole. E' possibile che nella mia nuova
fase ne userò molte meno."
"E cosa intendi fare per entrarci, nella nuova fase?"
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"Niente."
"Come, niente?"
"Le cose succedono. Succedono. Siamo convinti di avere un ottimo
controllo sugli avvenimenti, di decidere tutto, no? Invece non è
così."
"E chi decide, allora? Il destino?"
"Non lo so. So solo che abbiamo dei margini di decisione, ma
sottili."
"Sottili quanto?"
"Quanto le nostre nature e i nostri istinti e le idee che ci
vengono, quello che siamo. Metti insieme tutto, gioca una parte
minuscola, nell'insieme più vasto. Ma è pur sempre una parte."
"E uno cosa deve fare, allora?"
"Quello che gli sembra giusto."
"Ma come fa a capire cos'è esattamente, che gli sembra giusto?"
"Lo sente."
"E se invece si sbaglia?"
"Capita. Capita tutto il tempo."
"Tu quante volte ti sei sbagliato?"
"Parecchie. A volte sono stato come uno che cammina su un lago
ghiacciato dalla crosta troppo sottile e ci precipita dentro a ogni
passo. Altre volte ci ho pattinato sopra con la più miracolosa
facilità."
"E cosa pensavi?"
"A volte me la prendevo con l'inconsistenza assurda del mondo,
altre volte non riuscivo ad apprezzare i regali che ricevevo per
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quello che valevano."
"E adesso?"
"Potrei dire di avere un atteggiamento più illuminato, ma non è
proprio così."
"Cos'è, allora?"
"Un misto, credo. Di illuminazione e dubbi e curiosità e impazienza
e distacco e partecipazione e tendenza a rimuovere i pensieri
faticosi. La stessa che hai ereditato tu."
"Non l'ho ereditata."
"Sì invece. Lo sai benissimo."
"Stavi parlando di te."
"Ho finito, di parlare di me. D'ora in poi dimmi di smetterla, ogni
volta che lo faccio."
"Lo fai sempre."
"E' solo perché tu fai la sfinge che ascolta e guarda e non si
sbilancia."
"Non è vero."
"Anche perché abbiamo una lunghezza d'onda comune, senza bisogno di
molte ricerche di sintonia."
"Secondo te è una cosa automatica, tra padri e figli?"
"No. Capita tra persone simili."
"E noi lo siamo?"
"Tu cosa dici?"
Si guardano, ridono. Lui va a prendere altri pezzi di legna, e non
ce n'è più molti, li mette sul fuoco.
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Lei dice "Cosa facciamo adesso?".
"Forse dovremmo provare a dormire, no?"
"Forse sì. Sei sicuro che neanche il tuo cellulare ha campo?"
"Dice "Solo chiamate di emergenza"."
"Non ho mai capito questa storia. Come cavolo le fai le chiamate di
emergenza, se non c'è campo?"
"Forse a voce. Metti le mani ai lati della bocca e gridi
"Aiutoooooo!"."
"Davvero. Bastardi scemi delle compagnie telefoniche."
"M. penserà che ho deciso di non chiamarla più. Penserà che è un
silenzio scelto."
"Anche Luca."
"Ma con M. la situazione è molto più critica."
"E' critica anche con Luca."
"Credo che stiamo parlando di due livelli di criticità diversi,
qui."
"Perché? Cosa ne sai?"
"D'accordo, d'accordo. Non rimettiamoci a litigare, adesso."
"E' che mi dà fastidio se ti metti a fare graduatorie di chi ha più
danni sentimentali se non può telefonare."
"Hai ragione. Andiamocene a dormire. Così domani ci svegliamo
appena c'è luce e ci mettiamo in movimento."
"Dove dormiamo, qui per terra?"
"Stiamo più comodi in macchina, anche se non è molto romantico.
Tiriamo giù i sedili."
"Dicevi davvero, che per domani pomeriggio siamo a casa?"
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"Sì, te l'ho promesso. Non so ancora come, ma ce ne andiamo. In
macchina o a piedi o in trattore, vedremo. Te l'ho promesso."
"E se quando ci svegliamo c'è la neve alta?"
"Cosa ci fa, la neve alta?"
"Non è che stai rimuovendo un pensiero faticoso, adesso?"
"No."
"Davvero?"
"Davvero."
Lui butta gli ultimi due
vecchi sacchi sul fuoco
Lui butta gli ultimi due vecchi sacchi sul fuoco: la fiamma si
allarga di nuovo, diffonde calore e luce nella stalla. Un istante
dopo si sente un colpo sordo alla porta che lui ha aperto con un
calcio e richiuso con un filo di ferro arrugginito.
Lei si affaccia dal semifuoristrada, dice "Cos'è?".
"Non lo so."
C'è un altro colpo, più forte del primo; la vecchia porta
scricchiola e oscilla.
Lui si muove lento, con il sangue improvvisamente gelato, riflessi
di sopravvivenza che gli tendono i nervi e i muscoli. Dice "Non ti
preoccupare, resta in macchina".
"Ma cos'è?"
"Non lo so. Resta in macchina e chiuditi dentro."
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"Perché? Cosa succede?"
"Chiuditi dentro, per piacere."
Tira fuori di tasca il coltellino a serramanico e lo apre; e non è
una grande arma da difesa o da attacco. Dalla porta arrivano altri
colpi, distanziati come se qualcuno prendesse ogni volta la rincorsa
per dare una spallata e ricominciasse. Lui si guarda intorno nella
penombra rischiarata dal fuoco in cerca di strumenti più efficaci, ma
non ne vede. Ha già bruciato tutti i legni, quelli che restano sono
solo frammenti.
C'è un altro colpo sordo: la vecchia porta ondeggia come se stesse
per cedere.
Lei si affaccia di nuovo dal semifuoristrada, dice "Papà, cosa fai?
Ho paura".
"Ti ho detto di non preoccuparti" dice lui. Poi grida verso la
porta "Chi è?" nel tono da difesa del territorio più barbaro che gli
viene. Grida di nuovo "Chi è là fuori?", in un francese tutto
frequenze basse e toni raspati di gola.
Stringe il coltellino a serramanico nella destra, va verso la porta
con in testa immagini di bruti della campagna armati di forcone,
gigantesche bestie nere della notte dagli occhi gialli. La porta
vibra sotto un nuovo colpo, e d'improvviso la tensione che lui ha
dentro diventa rabbia essenziale senza limiti da uomo del neolitico
assediato nel suo rifugio, travolge la cautela e tutti gli altri
filtri razionali e gli fa strappare via il filo di ferro che chiude
la porta e spalancarla di scatto e gridare "Aaaaaaaaarrg!" nel modo
più inarticolato che ci sia e saltare fuori nel buio pronto a
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qualunque tipo di scontro selvaggio all'ultimo sangue.
E prima ancora che riesca a distinguere qualcosa nell'oscurità
della notte dove la neve non riflette nessuna luce di luna, sente una
forma viva pesante e ansimante ma più bassa di come si immaginava che
gli urta contro le gambe e gli gira intorno e uggiola e passa oltre e
torna indietro. Resta con il coltellino in mano e il cuore che gli
batte tra impulsi e sensazioni contrastanti, poi sente che la forma
viva entra nella stalla e la segue e al bagliore intermittente del
fuoco quasi spento vede che è un grosso cane marrone chiaro.
Sua figlia lo vede nello stesso momento, perché quando lui si gira
verso il semifuoristrada è già scesa e viene avanti incredula con le
braccia tese, dice "Eeeehi!".
Il cane corre verso di lei e le salta addosso e uggiola e torna
indietro di corsa fino a lui, gira frenetico per tutta la stalla.
Appena riescono a scrollarsi di dosso lo stupore e a guardarlo meglio
vicino al fuoco vedono che è una femmina giovane, con grandi zampe e
una struttura che sembra risultare dall'incrocio di un molosso con un
levriero; ha il pelo bagnato dalla pioggia e dalla neve, trema e
guaisce e non sta ferma un attimo.
"Ha fame" dice sua figlia. "Diamole qualcosa da mangiare!" Ha le
guance arrossate e gli occhi che le brillano, ride mentre la grossa
cagna le lecca le mani e la faccia.
Lui va a prendere i pezzi di crosta del formaggio di capra che
aveva messo in un sacchetto. La cagna li divora a colpi rapidi di
muso: in un istante non c'è più niente, sta annusando tutto intorno
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in cerca d'altro.
"Non abbiamo più niente" dice sua figlia.
"Meglio così, altrimenti non ce la togliamo più di torno."
"Come? Io me la tengo."
"Non ti sembra che siamo già in una situazione abbastanza
difficile?"
"L'hai detto tu, che non siamo noi a decidere tutto. Questo è un
caso tipico."
"Rimandiamola fuori, per piacere."
"No."
"Cerca di ragionare. Domani non ce ne liberiamo più."
"Meglio."
"Rimandiamola fuori."
"Allora vado fuori anch'io. Dormo nella neve e nel fango."
"Oh madonna, che testa hai."
"Adesso la asciugo, poverina. Prendo una mia maglietta."
"Senti, se vuoi farla dormire al riparo per stanotte, va bene. Però
domattina la lasciamo qui."
"Io me la tengo."
"Ne riparliamo domattina."
"Me la tengo."
"Ne riparliamo domattina, va bene?"
"Va bene."
"Adesso cerchiamo di dormire almeno qualche ora."
"Appena ho finito di asciugarla."
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Due ore più tardi
non stanno dormendo affatto
Due ore più tardi non stanno dormendo affatto. Il fuoco si è spento
da un pezzo, la stalla è buia. Fa freddo e i sedili reclinati non
sono perfettamente piani, il semifuoristrada ondeggia sulle
sospensioni ogni volta che si girano. Hanno ancora fame malgrado il
formaggio di capra; sono troppo stanchi e tesi e incerti rispetto a
come andarsene al mattino. La grossa cagna respira pesante e cambia
posizione almeno quanto loro, il suo odore di cane umido si mescola
all'odore di gomma bruciata del semifuoristrada e al loro odore di
fango e sudore asciugati insieme.
Lui dice piano "Dormi?".
"No."
"Sarà anche piena di pulci."
"Ma va."
"Ce le saremo già prese anche noi. Mi sento tutto pizzicare."
"Smettila."
Ci sono i suoni dei loro respiri, cigolamento di molle, gocce
d'acqua che cadono sul tetto del semifuoristrada.
Lei dice "Ti ricordi quando mi leggevi Robinson Crusoe?".
"Sì. Come ti è venuto in mente?"
"Così."
"Era la vecchia edizione che avevo da bambino, con una brutta
illustrazione na‹f sulla copertina. Venivo a casa tua dopo cena e te
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lo leggevo, quando ormai avevamo chiuso la fase delle favole per
bambini."
"Sì."
"Ogni volta che volevo smettere per farti dormire, dicevi "Ancora
solo una pagina"."
"E tu me la leggevi?"
"Sì. Ma poi tu dicevi "Ancora una". Te ne leggevo ancora una e tu
dicevi "L'ultima, promesso". Finché non riuscivi più a tenere aperti
gli occhi."
"Però non l'abbiamo mai finito, Robinson Crusoe."
"Nemmeno quando l'ho letto io da bambino, l'ho mai finito."
"Mi ricordo quando mi facevi il tono da situazione preoccupante.
Avevi questo modo di scurire la voce, marcare le consonanti. Tiravi
fuori delle erre che mi facevano paura. Delle ti inquietanti. Delle
emme piene d'ombra."
"E tu alzavi la testa dal cuscino e mi guardavi."
"Mi sembrava di vedere e di sentire tutto quello che leggevi. Più
che in un film, perché c'erano anche gli odori e i sapori e la
consistenza delle cose. Mi sembrava di essere lì sull'isola anch'io."
"Davvero?"
"Sì."
"Te lo ricordi così bene?"
"Certo che sì."
"Allora non hai rimosso proprio tutto quello che abbiamo fatto
insieme?"
"Perché avrei dovuto?"
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"Dicevi che non ti ricordavi più niente."
"Era solo per farti rabbia."
"Che bastarda."
"Bastardo tu."
"E' difficile capire queste cose, accidenti."
"Perché?"
"Perché i figli tendono sempre a lamentarsi dei loro genitori. A
dipingere quadri di lontananze o presenze terribili. Di indifferenze
o prepotenze terribili."
"Come nel quadretto a olio della famiglia che hai dipinto tu a
tredici anni? Quello a casa dei nonni?"
"Più o meno. Non mi vedi come un padre di quel genere? Con la barba
e la bombetta e gli occhialini e una pelliccia di scimmia blu?"
"No."
"E non ti senti come un figlio di quel genere? Con una museruola
sulla bocca e la mano del padre che gli preme sulla testa?"
"No."
"Il fatto è che non credo che esistano dei buoni genitori."
"Perché?"
"Esistono delle persone che cercano di essere dei buoni genitori,
il che è già qualcosa. Ma esserlo è diverso."
"Perché?"
"Perché quasi qualunque cosa un genitore faccia, sbaglia."
"Tipo?"
"Sbaglia se c'è troppo. Sbaglia se non c'è mai. Sbaglia se fa
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troppo l'amico. Sbaglia se fa troppo il superiore. Sbaglia se è
troppo severo. Sbaglia se è troppo indulgente. Sbaglia se è troppo
attento. Sbaglia se è troppo distratto."
"Be', basterebbe che non fosse troppo di nessuna di queste cose."
"Non è vero, perché anche se un genitore cerca un punto di
equilibrio tra tutti questi estremi, i suoi figli tendono a
ricordarselo come una specie di addestratore di cani professionista.
Sbaglia comunque, te lo dico io."
"E allora?"
"Allora forse è inevitabile che sia così. Perché le persone sono
sbagliate, e i genitori sono persone."
"Sbagliate rispetto a cosa?"
"Rispetto a quello che si aspettano da sé stesse, e rispetto a
quello che ci si aspetta da loro."
"E anche i figli, sono sbagliati?"
"Certo, anche i figli. Benché ci siano momenti in cui i loro
genitori sono convinti di avere i migliori figli che gli sarebbero
mai potuti capitare."
"Anche i figli a volte pensano di avere i migliori genitori che gli
sarebbero potuti capitare."
"Quando sono molto piccoli. Allora gli sembra di avere gli unici
genitori al mondo."
"E quando crescono?"
"Quando crescono diventano molto più critici."
"Perché?"
"Perché riconoscono nei loro genitori l'origine dei loro difetti. E
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da lì per estensione gli sembra di riconoscere l'origine di tutti i
difetti che esistono."
"Ma perché?"
"Perché è vero. Sono tutti lì."
"Non sempre."
"Sempre, invece. Tutti i difetti del mondo."
"Questo è il tipo di cose che dici tu. Ci sono genitori che hanno
molti più difetti di altri, e molto più odiosi, anche."
"Certo che sì. Quello che dico è che è probabile che i figli
abbiano bisogno di essere scontenti dei loro genitori, in ogni caso."
"Sempre per ragioni legate alla sopravvivenza e all'evoluzione
della specie?"
"Sì, è inutile che ridi. Se i figli fossero perfettamente contenti
dei loro genitori, replicherebbero i loro comportamenti e le loro
scelte senza nessuna variazione. La specie umana non si sarebbe
evoluta mai. Vivremmo ancora nelle caverne o sulle palafitte, se i
figli non fossero sempre stati scontenti dei loro genitori."
"Davvero?"
"Sì. Il che forse non sarebbe stato meglio, dal punto di vista del
mondo nel suo insieme. Ma essere scontenti dei propri genitori è una
delle peculiarità della nostra specie."
"I cani per esempio non sono scontenti dei loro genitori?"
"No. Tant'è vero che abbaiano e muovono la coda nel loro stesso
identico modo."
"Quant'è dolce, questa cagnolona. Come la chiamiamo?"
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"Non la chiamiamo. Cerchiamo di dormire, adesso."
"Non ci riesco."
"Provaci. Almeno qualche ora."
"Va bene."
"Papà?"
"Eh?"
"Perché cerchi sempre risposte razionali alle cose?"
"Non cerco sempre risposte razionali."
"Ma fai sempre queste analisi scientifiche di tutto, no?"
"Non sono analisi scientifiche. Sono analisi puramente percettive."
"E che differenza c'è?"
"Che non penso di riuscire mai ad arrivare a una spiegazione finale
di niente."
"E un'analisi scientifica invece?"
"Cerca di spiegare tutto fino alla fine della fine o all'inizio
dell'inizio."
"E ci riesce?"
"No."
"Perché?"
"Perché se applichi un metodo scientifico di analisi della realtà e
lo porti alle estreme conseguenze, arrivi comunque a un punto di non
ritorno."
"In che senso?"
"Nel senso che puoi dire "Benissimo, non esiste nessun particolare
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mistero o spirito trascendente o vibrazione cosmica o quello che
vuoi, esistono solo dei processi biochimici che chiamiamo vita. Non
c'è proprio niente di non spiegabile e non analizzabile con gli
strumenti adeguati". Ma se poi proietti con coerenza il tuo metodo
nel futuro, arrivi a un punto in cui non riesci più lo stesso a
spiegare niente."
"Quale punto?"
"Il punto in cui tra miliardi e miliardi di anni il sole si
ingigantirà fino a inglobare Venere e la Terra e poi smetterà di
bruciare e si ridurrà a una stella nana bianca e poi a una stella
spenta e il nostro sistema solare diventerà buio e freddo e le
galassie continueranno ad allontanarsi e si spegneranno a loro volta
e tutta la materia che esiste nello spazio verrà risucchiata dai
buchi neri finché l'universo collasserà su sé stesso. A quel punto
cosa ti rimane di analizzabile con il tuo metodo scientifico?"
"Cosa vuoi dire? Che non si possono trovare risposte a tutto?"
"No."
"Non è un modo alla grande di rimuovere pensieri faticosi?"
"Non credo. A te sembra?"
"Non so."
"Madonna, come puzza questo cane."
"Non è vero, poverina. Basta lavarla."
"Tu sei matta."
"Non è vero."
"Cerchiamo di dormire almeno mezz'ora, accidenti."
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"Va bene."
"Papà?"
"Cosa c'è, ancora? Vuoi che facciamo l'alba così?"
"Ma neanche tu riesci a dormire."
"No."
"Sei contento?"
"Abbastanza. E tu?"
"Sì. Secondo te anche essere contenti è una cosa legata alla
sopravvivenza della specie?"
"Credo di sì."
"In che senso?"
"Be', le condizioni in cui uno tende a essere contento sono anche
quelle dove avrebbe più probabilità di sopravvivere. Prova a
pensarci. Visualizza delle situazioni di contentezza, le prime che ti
vengono in mente. Climi dolci, giardini ricchi di frutti, acqua
abbondante, luce calda, essere insieme a una persona attraente
dell'altro sesso. E' una base ideale per la sopravvivenza della
specie."
"Quindi tu adesso non sei contento per niente."
"Perché?"
"Perché sei al freddo e al buio e nello scomodo e con una persona
che forse sarà anche attraente ma non credo proprio per te."
"Già."
"E allora come mai sei contento?"
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"Te l'ho detto, siamo degli animali complicati, che spostano di
continuo i loro limiti. Che si affacciano di continuo su altri
territori."
"Sì?"
"Sì. Ma adesso dormi, accidenti."
"OK."
"E fai star fermo quel cane."
"OK."
"Ehi, mi senti?"
"Sì?"
"Ti prometto di non riempirti più la testa di teorie. Se ti
interessano, te le puoi andare a leggere nei miei libri. Sei
abbastanza grande, ormai."
"Ogni tanto puoi anche raccontarmele a voce se ti va. Se ti vengono
in mente in quel momento e hai assolutamente bisogno di parlarne con
qualcuno."
"Grazie tante."
"Prego. Basta che non ti innervosisci se per caso sposto lo sguardo
o giro la testa dall'altra parte."
"Va bene."
"Va bene."
Si alzano alla prima
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luce del giorno
Si alzano alla prima luce del giorno, scendono dal semifuoristrada
tutti anchilosati per la scomodità e il freddo della notte. La cagna
marrone fa il giro della stalla alla ricerca di qualcosa da mangiare:
è ancora più grossa di come sembrava di notte, adesso che ha il pelo
asciutto e si sente più sicura.
"Che bella, eh?" dice lei, pallida per la mancanza di sonno.
"Possiamo parlare d'altro?" dice lui.
Va ad aprire il portone: per terra non c'è molta neve, solo chiazze
bianche sparse. Il cielo è coperto ma non in modo uniforme, si vedono
piccoli squarci di azzurro tra le nuvole. Prova a salire fino al
punto cruciale della sterrata, e non sembra molto più praticabile
della sera prima: il fango scavato e rivoltato a onde come se ci
fossero passati diversi carri armati.
Torna giù allo spiano con l'espressione più neutra che gli viene,
alza le braccia e respira a fondo.
"Com'è la situazione?" dice sua figlia, chinata a carezzare la
grossa cagna.
"Eh, poi vediamo" dice lui.
Va a prendere nel semifuoristrada il sacchetto delle uova fresche
che avevano comprato il giorno prima al mercato, fa un buco nel
guscio con la punta del coltellino a serramanico.
Lei scuote la testa, dice "Mi fanno impressione, crude".
"E' l'unico cibo che abbiamo."
"Non ho fame."
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"Invece te lo mangi. Abbiamo bisogno di energia."
"Per cosa?"
"Per sopravvivere."
"E' in gioco la nostra sopravvivenza?"
"Dài."
"No."
"Non fare la bambina del cavolo. Mangialo."
Lei prende l'uovo e inclina all'indietro la testa, chiude gli occhi
e lo manda giù, fa una faccia disgustata. Lui ne buca un altro e se
lo beve di un fiato; la cagna lo guarda dal basso in alto con aria
ansiosa. Lui esita un istante e poi le posa un uovo davanti; la cagna
lo prende tra i denti e lo lascia cadere per terra, lo lecca via a
grandi linguate, senza lasciare neanche un frammento di guscio.
Lui rimette via il sacchetto; dice "Ho dato un'occhiata al punto più
brutto".
"E?" dice lei.
"Non è strano che non ce la facessi, ieri sera. Sembra un terreno
di guerra, tutto fango e solchi di trenta centimetri. Le gomme non
faranno mai abbastanza presa."
"Anche se sono mud&snow?"
"No."
"Posso venire a vedere anch'io?"
"Se vuoi."
Risalgono insieme per il prato in pendenza coperto in modo
irregolare di neve, fino al punto cruciale della carrareccia.
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Guardano i solchi profondi nel fango, con la stessa identica
perplessità. La grossa cagna gira intorno e annusa, ogni tanto li
guarda per capire che intenzioni hanno.
"Cosa pensi di fare?" dice lei.
"Un ultimo tentativo. Anche se si fonde il motore."
"Ma scivolerai indietro come ieri sera."
"E' probabile."
"E se succede?"
"Lasciamo qui il nostro finto fuoristrada bastardo del cavolo e ce
ne andiamo a piedi. Magari prima lo incendiamo. Se lo meriterebbe. Ci
siamo affidati a lui e ci ha tradito in modo ignobile."
"Non è colpa sua, papà. E' solo una macchina."
"E perché dovremmo avere rispetto o comprensione per la sua odiosa
finta neutralità di macchina?"
"Non fare il bambino tu, adesso."
"Cosa proponi di fare, allora?"
"Dovremmo mettere qualcosa sopra i solchi più profondi, in modo che
le ruote possano far presa."
"Non abbiamo niente. Ieri sera ci ho buttato tutto quello che
trovavo, il fango se l'è inghiottito come niente."
"Quelle reti da materasso."
"Quali reti?"
"Quella lì vicino al muro e l'altra che c'è nella stalla. Se
proviamo a metterle fianco a fianco qui nel punto peggiore, magari
funziona."
"Non sono abbastanza lunghe."
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"Proviamo."
Lui la guarda, ed è colpito dalla determinazione femminile e adulta
nei suoi occhi: da come si estende ai suoi lineamenti fino quasi a
intimidirlo.
Scendono di nuovo allo spiano, lui prende la vecchia rete da
materasso vicino al muro della stalla e la trascina su per la
collina, la appoggia sui solchi nel punto di pendenza peggiore. Poi
torna giù e prende l'altra rete nella stalla, risale la pendenza e la
sistema di fianco alla prima. A guardarle da vicino gli sembrano una
soluzione possibile, ma appena si allontana di una decina di passi
non riesce quasi a vedere la differenza. Pensa che è un ennesimo
esercizio di non-praticità, destinato a produrre nuove delusioni. Sua
figlia è giù allo spiano, tutta presa dalla grossa cagna che le gira
intorno: come se non le importasse più molto di andarsene o restare lì
bloccata fino a chissà quando.
Lui torna nella stalla, raccoglie i vestiti e gli altri oggetti
sparsi e li butta sui sedili di dietro del semifuoristrada. Prende
una sua maglietta di cotone e la va a riempire di neve, cerca di
ripulire almeno in parte dal fango il parabrezza e il volante e la
leva del cambio. Poi mette in moto, esce nello spiano e manovra per
puntare nella direzione giusta. Tira giù i finestrini, cerca di
respirare meglio. Dice "Io vado".
Sua figlia lo guarda senza dire niente, sembra totalmente distratta
dalla cagna che gioca con la neve.
Lui dice "Se per caso scivolo indietro e rotolo fino in fondo alla
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valle, tu sali alla strada e chiedi aiuto".
"A chi?"
"Non lo so. Troverai qualcuno."
"E se non trovo nessuno?"
"Cammina fin dove il telefonino ha campo e chiama il numero verde
dell'assistenza. Tieni il libretto. Spiegagli dove siamo. Tieni la
carta. Digli che sei qui per colpa di tuo padre e del loro finto
fuoristrada che non è riuscito a cavarsela sulla prima piccola
pendenza fangosa del cavolo."
"In che lingua glielo dico?"
"In francese."
"Ma non lo parlo, il francese."
"Però la storia del coniglio al ristorante l'avevi capita
benissimo."
"Solo la parola lapin."
"Parlagli come vuoi, in inglese, in italiano. Digli che tuo padre è
rotolato fino in fondo alla valle."
"Non possiamo andare insieme a chiamarli adesso, scusa? Prima che
tu rotoli fino in fondo alla valle?"
"No. Voglio provare a tirarmi fuori da solo."
"Ma perché?"
"Perché non mi piace chiedere niente a nessuno e non mi piace
aspettare."
"Andiamo a chiamare l'assistenza, papà. Non fare il bambino."
"E tu non fare la vecchietta. E togli quel cane da lì, che finisce
sotto!"
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Va a marcia indietro per prendere ancora più rincorsa, e mentre
cerca di concentrarsi e di scaldare il motore lei apre la portiera e
sale, la grossa cagna salta dentro subito dopo.
"Cosa cavolo fai?" dice lui.
"Veniamo con te."
"Scendi subito, accidenti! E portati giù quel cane!"
"Veniamo con te."
Lui fa per gridarle qualcosa in tono ultimativo o addirittura
aprire la portiera e spingerla fuori, ma gli viene da ridere invece,
perché gli sembra di vedere l'intera scena da qualche decina di
metri, e gli sembra assurda.
Dice "Allora proviamo a fare una cosa, visto che siamo a questo
punto".
"Vale a dire?"
"A non sforzarci di arrivare fin sopra."
"No?"
"No. E nemmeno a pensare che non dobbiamo sforzarci."
"Cosa dobbiamo pensare?"
"Niente. Dobbiamo stare leggeri, senza peso e senza intenzione."
"E può funzionare?"
"Se troviamo lo spirito giusto, forse sì."
"OK."
"Prendiamo un respiro profondo."
"OK."
"Dimmi quando sei pronta."
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"Pronta."
"Andiamo."
"Aspetta."
"Cosa c'è?"
"Non ho capito bene come dobbiamo fare, esattamente."
"Dobbiamo salire come se salissimo in un sogno, lontani dalla
preoccupazione di riuscirci o non riuscirci."
"D'accordo."
"Dimmi quando sei pronta."
"Aspetta."
"Cosa?"
"Pronta."
Lui lascia la frizione, parte in prima veloce ma senza schiacciare
fino in fondo l'acceleratore. La cosa strana è che non solo non pensa
che non deve sforzarsi di arrivare su fino alla strada; non pensa
nemmeno ad arrivare a metà. Non gliene importa niente della pendenza
né del fango né dei limiti del semifuoristrada per cretini né del
rischio di rotolare in fondo alla valle. Ha solo delle immagini
mentali di altri posti in altri punti del mondo e in altri momenti
della sua vita non ancora toccati: e sono immagini in movimento,
libere e senza peso come non gliene sono mai capitate.
Così accelera in progressione senza cambiare marcia, e il
semifuoristrada sale per la pendenza con la sua voce aspra e arriva
dove ci sono le reti di ferro e fa un sobbalzo e va avanti di ancora
forse un metro rispetto alle altre volte e raggiunge un punto di
stallo come le altre volte e il motore sale di giri e ruggisce acuto
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e le ruote girano a vuoto e lui si volta per un istante verso di lei
e la vede che guarda avanti con un sorriso sottile sulle labbra e
sente di essere sulla stessa precisa lunghezza d'onda anche se il
motore non lo è perché produce una frequenza esasperata come un aereo
al decollo e l'indice del contagiri è tutto nella zona rossa ormai e
dal cofano esce fumo e odore di gomma bruciata molto più della sera
prima ma lui e lei stanno guardando lo stesso punto fisso più avanti
dove c'è un ramo di quercia con ancora una foglia attaccata e i suoni
e le vibrazioni e l'odore di bruciato sembrano allontanarsi mentre
loro restano sospesi per uno spazio non misurabile su una linea
sottile tra il non avere pensieri e l'averne e l'essere fermi e il
muoversi quasi impercettibilmente in avanti. Poi di colpo il
semifuoristrada supera il punto di stallo e si strappa via dai solchi
e dal fango della carrareccia con un rombo selvaggio come se tutti i
suoni e le vibrazioni e le scosse e l'odore di bruciato tornassero
nello stesso istante, si aggrappa al fondo sterrato più avanti con
una tale violenza accumulata di ruote smaniose che lui riesce a
malapena a controllare la direzione mentre salgono travolgendo rovi e
ginestre e neve e zolle di terra e sassi, perdendo e riagguantando la
traiettoria finché con un salto e uno schianto di ammortizzatori sono
di nuovo sulla strada da cui erano precipitati il pomeriggio prima.
Va avanti per un centinaio di metri senza riuscire a staccare il
piede dall'acceleratore, poi frena fino a fermarsi. La guarda, dice
"Ehi!".
Lei sorride senza parlare; le guance le riprendono colore poco a
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poco. La grossa cagna abbaia.
Lui riparte lento per lasciar raffreddare il motore dopo lo sforzo,
guarda ogni metro di strada che scorre sotto di loro come un regalo
sorprendente. Il sangue circola veloce e gli fa scottare gli zigomi e
le orecchie, i polmoni inspirano l'aria che entra dai finestrini
aperti. Gli sembra di essersi liberato di molto più dei solchi e del
fango e della pendenza: di aver preso una distanza definitiva dal
peso delle cose e dallo stare fermi nelle situazioni.
Qualche centinaio di metri più avanti lei dice "Ci siamo riusciti
perché non ci siamo sforzati di pensare di volerci riuscire, o
cosa?".
"Credo che siano state le tue reti" dice lui.
"Non c'è un modo per saperlo?"
"E' stato tutto merito tuo."
"Eri tu che guidavi."
"Non credo."
Si allunga e le dà un bacio sulla fronte. Lei gli dà una spinta e
lui gliela restituisce; ridono, percorsi dallo stesso sollievo
elettrico.
Poi lei guarda l'orologio. Lui dice "Per stasera siamo a Milano,
come ti avevo promesso".
"Però ci portiamo anche lei."
"Lei sta così bene qui, è a casa sua."
"Se non me la lasci portare scendo."
"Non metterti a fare ricatti, adesso. Dopo che ci siamo tirati
fuori da là sotto in modo così miracoloso."
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"Appunto."
"Ci abbiamo già provato una volta, a tenere un cane. E con uno così
grande è una vera follia."
"Me ne occupo io."
"Non siamo abbastanza stabili o affidabili, né tu né io. Aveva
ragione la tipa del canile, a guardarci male."
"Aveva torto marcio."
"Adesso ti sembra un'idea meravigliosa, ma tra due o tre anni è
probabile che tu non abbia più nessuna voglia di occupartene, o tempo
per farlo. E' probabile che tu abbia tutt'altro per la testa."
"Invece no."
"Come fai a saperlo, adesso?"
"So come sono. E l'hai detto anche tu che gli elementi essenziali
di una persona non cambiano nel tempo."
"Ma non starai sempre ferma nello stesso posto, no? Senza mai fare
un viaggio anche lontano?"
"No."
"Magari vorrai andare a studiare chissà dove."
"Eh."
"E con chi resterebbe lei, per mesi o anni di seguito?"
"Troveremo una soluzione."
"Lo sai benissimo quale sarebbe la soluzione. `Io, instabile e
inaffidabile come sono."
"Ma stai per entrare in una nuova fase della tua vita, no?"
"Ho detto che potrebbe essere. Non ne sono ancora affatto sicuro."
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"Io invece sì."
"E perché?"
"Lo sento."
"E cos'altro senti?"
"Che ci terremo la cagna, e questa volta non la daremo più via."
"Se decidessimo di tenerla."
"E' il nostro cane definitivo."
"Non parlarne come di una cosa decisa."
"E' una cosa decisa."
La guarda fisso, e nei suoi occhi vede la stessa identica luce di
quando da bambino sognava cose totalmente non-realistiche in rapporto
alla sua età e alla sua situazione, con così tanti dettagli minuti da
farsele sembrare più che vere. E' un'idea che lo colpisce e lo
preoccupa, gli fa scattare un senso incontrollabile di complicità.
"Va bene?" dice lei.
"Va bene. Che cavolo di testa dura, hai."
"Davvero?"
"Ti ho detto di sì. E' assurdo, ma sì."
"Non ci credo."
"Credici pure, invece. Chissà cosa dirà tua madre, quando vedrà
questa bestia."
"Ci pensiamo dopo."
"Brava, comincia a rimuovere."
"Scemo."
"Scema tu."
Il semifuoristrada va per la strada a curve, coperto di fango e
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ammaccato e forse anche minato interiormente com'è.
E il loro viaggio insieme è già quasi finito, a parte qualche
centinaio di chilometri che tra un giorno cominceranno a essere un
ricordo destinato a perdersi in una sovrapposizione di mille altri
ritorni e partenze, collegamenti neutri di asfalto e guard-rail tra
un punto e un altro e un momento e un altro e uno stato d'animo e un
altro. Lui si gira a guardarla a intervalli, e pensa a quanti errori
ha fatto rispetto a lei e rispetto a M. e rispetto alle altre donne
della sua vita e rispetto ai suoi amici e parenti e conoscenti e
animali e luoghi e lavori e rispetto alla vita in generale. Poi pensa
che il filo così imperfetto che c'è tra loro è forse la cosa più
sorprendente che gli sia capitata. Non sa come si modificherà nel
tempo; ma pensa che è una delle pochissime indicazioni certe che
riuscirebbe a dare, se qualcuno gli chiedesse il senso della strada
che ha fatto fin qui.
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