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1 20. a) Un'affermazione erodotea di relativismo culturale Dopo aver aggredito Creso, ucciso il proprio fratello Smerdi e la moglie, il re persiano Cambise è impazzito. Prova della sua follia è l’aver deriso, durante il soggiorno a Menfi, la statua di Efesto e l’avere dato a fuoco, dopo averle empiamente schernite, alle statue degli dei. Solo un pazzo, secondo Erodoto (490 circa - 430 circa a.C.), potrebbe offendere le cose sacre e i costumi tradizionali, dei quali ogni popolo è sommamente geloso. Così gli Indiani non si lascerebbero mai indurre a bruciare i cadaveri dei loro morti, mentre i Greci non accetterebbero mai di mangiarli, come invece fanno gli Indiani. Per me dunque è assolutamente chiaro che Cambise era in preda a una grande follia: altrimenti non avrebbe cominciato a deridere la religione e le usanze. Se infatti si facesse una proposta invitando tutti gli uomini a scegliere, tra tutte le usanze, quelle più belle, dopo aver meditato ciascuno sceglierebbe le proprie: a tal punto tutti sono convinti che le proprie usanze siano di gran lunga le più belle. Non è dunque verosimile che un uomo, a meno che non sia pazzo, le faccia oggetto di derisione. Che tutti gli uomini, a proposito delle usanze, siano di questo parere, può essere valutato in base a molte prove, anche diverse; più in particolare, dalla prova seguente. Durante il suo regno, Dario convocò i Greci presenti al suo seguito e chiese loro in cambio di quali ricchezze avrebbero accettato di mangiare i padri morti: i Greci risposero che non l’avrebbero fatto a nessun prezzo. Dario quindi, convocati gli Indiani chiamati Callati – quelli che mangiano i genitori – , alla presenza dei Greci che comprendevano quanto veniva detto attraverso un interprete, chiese loro in cambio di quali ricchezze avrebbero accettato di bruciare con il fuoco i padri morti. I Callati, gridando forte, esortarono Dario a non pronunciare parole empie.

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a) Un'affermazione erodotea di relativismo culturale

Dopo aver aggredito Creso, ucciso il proprio fratello Smerdi e la moglie, il re

persiano Cambise è impazzito. Prova della sua follia è l’aver deriso, durante il

soggiorno a Menfi, la statua di Efesto e l’avere dato a fuoco, dopo averle

empiamente schernite, alle statue degli dei. Solo un pazzo, secondo Erodoto (490

circa - 430 circa a.C.), potrebbe offendere le cose sacre e i costumi tradizionali, dei

quali ogni popolo è sommamente geloso. Così gli Indiani non si lascerebbero mai

indurre a bruciare i cadaveri dei loro morti, mentre i Greci non accetterebbero mai

di mangiarli, come invece fanno gli Indiani.

Per me dunque è assolutamente chiaro che Cambise era in preda a una grande follia:

altrimenti non avrebbe cominciato a deridere la religione e le usanze. Se infatti si facesse

una proposta invitando tutti gli uomini a scegliere, tra tutte le usanze, quelle più belle, dopo

aver meditato ciascuno sceglierebbe le proprie: a tal punto tutti sono convinti che le proprie

usanze siano di gran lunga le più belle. Non è dunque verosimile che un uomo, a meno che

non sia pazzo, le faccia oggetto di derisione. Che tutti gli uomini, a proposito delle usanze,

siano di questo parere, può essere valutato in base a molte prove, anche diverse; più in

particolare, dalla prova seguente. Durante il suo regno, Dario convocò i Greci presenti al

suo seguito e chiese loro in cambio di quali ricchezze avrebbero accettato di mangiare i

padri morti: i Greci risposero che non l’avrebbero fatto a nessun prezzo. Dario quindi,

convocati gli Indiani chiamati Callati – quelli che mangiano i genitori – , alla presenza dei

Greci che comprendevano quanto veniva detto attraverso un interprete, chiese loro in

cambio di quali ricchezze avrebbero accettato di bruciare con il fuoco i padri morti. I

Callati, gridando forte, esortarono Dario a non pronunciare parole empie.

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Le usanze sono fatte così: e mi sembra che Pindaro fosse nel giusto quando diceva che

“l’usanza” è “regina del mondo”.

Maurizio Bettini così commenta il passo di Erodoto:

Dunque non c’è alcuna speranza, sembra dire Erodoto, tutto è relativo – ma, nello stesso

tempo, è tutto anche terribilmente assoluto. Nel senso che ciascuno considera assoluti

(assolutamente buoni) i costumi di casa sua. Se far mangiare un cadavere a un Greco è

impossibile, altrettanto impossibile è persuadere un indiano a non mangiarne.

(M. Bettini - O. Calabrese, BizzarraMente, Feltrinelli, Milano 2002, p. 64)

Il fatto che gli uomini siano consapevoli delle proprie diversità non agevola la mediazione

interculturale. La conoscenza delle differenze di per sé non favorisce il dialogo. I Callati

conoscono i costumi funerari dei Greci e questi conoscono i costumi dei Callati, ma ciascun

popolo è convinto che le proprie usanze siano migliori in assoluto.

Che altro occorre per sperare di conseguire un vero scambio culturale?

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b). Relativismo culturale in Pindaro

Il poeta tebano Pindaro (520-446 circa a. C.) nel fr. 215 Maheler fa professione di

relativismo etico.

Chi ha certe usanze (nómima) e chi ne ha altre,

e ognuno loda il costume (díkan) che gli appartiene.

Ehi, tu, lascia stare! Non mi deridere …

A me è dato

[celebrare] col pettine delle Pieridi

la mia patria antica come chioma di bionda vergine.

In questo frammento, più ancora che nel 169a, la linea argomentativa è affine a

quella del passo erodoteo: c’è il riferimento alla molteplicità delle tradizioni

(nómima), c’è il nesso fra la varietà delle usanze vigenti e la raccomandazione a

non deridere le singole costumanze. L’intervento di Erodoto, il suo personale

contributo riconducibile alla temperie della scienza ionica, consisteva, nei confronti

di un principio relativistico già recepito da Pindaro, nel verificarne la validità non più

nell’ambito di singole póleis o contrade della Grecia (nel fr. 215 il poeta tebano

doveva avere contrapposto Delfi ad altre località elleniche) ma in quello ben più

vasto che, assumendo come osservatore privilegiato il persiano Dario, inglobava

tutta l’ecumene. Con analoga prospettiva l’autore dei Dissòi lògoi citerà il caso dei

Massageti, i quali tagliano a pezzi i genitori e li mangiano ritenendo che la tomba

migliore sia l’essere seppelliti nei figli (vedi 20. f).

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c) Un’altra usanza funebre attribuita agli Indiani

Gli Indiani avevano fama di gente che con i cadaveri faceva le cose più

inaspettate. In un racconto di origine braminica, che ebbe fortuna anche in Grecia,

si narrava che un re dell’India aveva tre figli, uno più piccolo, e buono, e due più

grandi, che erano invece violenti e superbi. I più grandi presero a deridere il padre

e la madre, a motivo della loro vecchiaia, finché il re e la regina, non potendone più

di quegli insulti, decisero di andarsene in esilio assieme al figlio più piccolo. Ma i

due vecchi non sopportarono le fatiche del lungo viaggio, e morirono. A questo

punto il figlio buono, trovandosi nella necessità di celebrare le esequie dei genitori,

ma non avendo dove interrarli, si spaccò la testa con un’accetta e seppellì al suo

interno il corpo dei genitori. Il sole, che tutto vede, ebbe pietà del ragazzo, e lo

trasformò in un’allodola. Un uccellino bellissimo, che vive molto a lungo e che sulla

testa ha una piccola cresta di piume: a ricordo della volta in cui il ragazzo aveva

sepolto in essa i propri genitori. A parere di Eliano, i bramini dell’India erano grandi

ammiratori di questo mito.

Le fonti greche del mito sono Eliano, Storie 3, 38, 3-4 e Aristofane, Uccelli 471 ss.

Sapresti dare una spiegazione plausibile all’usanza funebre dei Callati riferita da Erodoto

(20. a) e a quella adombrata nel mito dei due vecchi sepolti nella testa del figlio? Che cosa

hanno in comune le due usanze? (Per rispondere alla prima domanda, puoi leggere la

spiegazione, riportata al 20. f, data dall’autore dei Discorsi doppi, riguardo a un’analoga

usanza dei Massageti).

Sei a conoscenza di qualche usanza funebre “strana” praticata da popoli stranieri?

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d) Gli “svergognati” di Apollonio Rodio

La descrizione che Apollonio Rodio dà del popolo dei Mossineci, nelle sue

Argonautiche (2, 1002 ss.), merita di essere considerata, sempre in questa

prospettiva di relativismo culturale: essi fanno all’aperto e in pubblico tutto ciò che

gli altri popoli fanno in casa, e viceversa.

Il passo, commentato argutamente dal filologo classico Maurizio Bettini, si presta a

varie considerazioni anche concernenti l’attualità.

Abitano sui monti,

nelle torri chiamate “mossine”, dalle quali prendono il loro nome.

Le leggi e le usanze di costoro sono diverse da quelle di tutti gli altri.

Tutto ciò che la sacra consuetudine prescrive di fare all’aperto e in pubblico,

o in piazza, loro lo fanno nel chiuso delle case;

mentre ciò che noi facciamo in casa,

loro lo fanno in mezzo alla strada senza alcun biasimo.

Non hanno vergogna neppure di fare all’amore davanti a tutti:

come porci al pascolo, e senza rispetto per chi è presente,

per terra si uniscono con le donne, facendo all’amore.

Il loro re siede sulla “mossina” più alta,

e amministra la giustizia per i suoi numerosi sudditi.

Povero lui! Se sbaglia nel giudizio,

lo tengono rinchiuso per un giorno intero, senza mangiare.

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I Mossineci sono dei barbari. Non a caso abitano sui monti, e invece di case costruiscono

torri. Solo dei barbari, del resto, potrebbero rinchiudere i loro re in una torre, e per di più

senza mangiare, solo perché pensano che il giudizio che ha dato non è quello giusto. Se

tutti facessero così, i giudici sarebbero sempre in prigione, e la maggior parte di essi

sarebbero morti di fame! Il problema è che i Mossineci fanno tutto a rovescia. La loro

barbara consuetudine fa sì che essi invertano regolarmente il dentro con il fuori – e le

conseguenze per il pudore (o meglio, ciò che “noi” chiamiamo pudore) sono facilmente

immaginabili. Apollonio Rodio parlava dell’amore, che di solito si fa tra quattro pareti. Ma

è facile intuire anche tutto il resto. Più difficile immaginare invece cosa mai questi

Mossineci potessero mai fare “dentro”mentre noi usiamo farlo “fuori”. Forse facevano in

casa le assemblee? O praticavano in casa qualche sport? Probabilmente il poeta aveva in

mente l’abitudine – certo incivile – di dividere le abitazioni con gli animali, che invece è

sempre buona regola tenere “fuori”. Ma chissà.

Resta comunque da capire perché, nella nostra tradizione, certe cose si debbano fare

necessariamente al chiuso, e altre all’aperto. O per meglio dire, perché in certi momenti è

necessario appartarsi. Questi Mossineci sembrano fatti apposta per mettere in discussione le

certezze più incrollabili. Plutarco si pose più o meno la stessa domanda la volta in cui si

interrogò su alcune strane consuetudini dei Romani: “Perché al sacerdote di Giove, il

flamen Dialis”, si chiedeva, “non era consentito ungersi il corpo all’aria aperta?”. A questa

domanda Plutarco, secondo lo schema che aveva scelto per mettere insieme le sue

Questioni Romane, faceva seguire una serie di possibili risposte, elencandole una di seguito

all’altra (Quest. rom. 40). Forse questo divieto esisteva perché a Roma era norma antica che

un figlio non potesse spogliarsi al cospetto del padre: Giove infatti è nostro padre,

argomentava Plutarco, e tutto ciò che si fa all’aria aperta è come se avvenisse al suo

cospetto; oppure, continuava, questo divieto esisteva perché è considerato empio spogliarsi

in un tempio o in qualsiasi altro luogo sacro: anche lo spazio aperto, quello che sta sotto la

volta celeste, è pieno di dei, come sappiamo, per cui i Romani misero una cura particolare

nell’evitare di contaminare questa zona.

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Del resto, continuava ancora Plutarco, è proprio in ragione di questa presenza divina

nell’aria – “piena di dei e di spiriti” – che noi compiamo una grande quantità di “atti

necessari” nascondendoci e stendendo come un velo che ci metta al riparo dal divino dietro

lo schermo delle nostre case. Dunque certe cose non si possono fare all’aria aperta perché

l’aria è tutta piena di dei. Ma la risposta che Plutarco dava al nostro quesito, se ci si pensa

bene, non è altro che una parafrasi della domanda. Perché uno potrebbe a questo punto

chiedersi: ma per quale motivo gli dei, ammesso che nell’aria ce ne siano così tanti,

dovrebbero arrabbiarsi se uno fa “certe cose” in loro presenza? Il fatto è che il cosiddetto

pudore, ovvero la vergogna per determinati aspetti del nostro corpo, o per determinate

funzioni a cui esso ci obbliga, è assolutamente relativo. Lo sapeva bene Michel de

Montaigne, che essendo uno scettico, si divertiva a mettere in discussione proprio le

consuetudini apparentemente più indiscutibili.

“Un gentiluomo francese”, raccontava in uno dei suoi saggi, “si puliva sempre il naso con

le mani; cosa assai contraria ai nostri usi. Difendendo questo suo modo di fare, mi domandò

che privilegio avesse mai quel sudicio escremento perché gli apprestassimo il bel lino

delicato per riceverlo e poi, per di più, per impacchettarlo e serrarcelo addosso con cura;

che questo doveva fare più orrore e più schifo che non vederlo gettare ove che fosse”.

Montaigne non si allontanò con disgusto da quel bizzarro gentiluomo, anzi. “Trovai che

non parlava del tutto senza ragione”, commentava, “e che la consuetudine mi aveva tolto la

percezione di quella stranezza, che tuttavia troviamo tanto schifosa quando la si racconta di

un altro paese” (M. de Montaigne, Saggi, trad. it. a cura di F. Garavini, Mondadori, Milano

1970, pp. 145-146).

(Bettini-Calabrese, cit., pp. 61-63)

Qual è l’usanza dei Mossineci più vistosamente divergente dalle abitudini di tutti gli altri

popoli?

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Il rapporto tra i sudditi e il re è normale?

L’affermazione “I Mossineci sono dei barbari” riflette la convinzione di Maurizio Bettini,

oppure Bettini assume il punto di vista di altri? Di chi?

Quali conseguenze per il pudore ha la loro “barbara consuetudine”?

Riesci a immaginare che cosa i Mossineci potessero mai fare “dentro” che noi usiamo fare

“fuori”?

Secondo Bettini sono assolute le ragioni per cui certe cose si debbano fare necessariamente

al chiuso, e altre all’aperto?

Quale domanda si poneva Plutarco nelle sue Questioni Romane?

Quali possibili risposte dava?

Perché la risposta di Plutarco non soddisfa Bettini?

Riporta la frase con la quale Bettini definisce il pudore in termini di relativismo culturale?

Riassumi il racconto di Montaigne?

In che cosa l’episodio narrato dal grande moralista francese è una professione di

relativismo culturale?

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e). L’uomo, misura di tutte le cose

Contro l’idea di una verità immutabile, valida per tutti, il sofista Protagora (nato ad

Abdera in Tracia intorno al 490 a.C.) afferma che “l’uomo è misura di tutte le cose”.

Egli non nega l’esistenza della verità: solamente essa è relativa, in quanto si rivela

nell’esperienza degli esseri umani e si differenzia in relazione ad essi.

Protagora sostiene che misura di tutte le cose è l’uomo ... che l’uomo è la norma che

giudica di tutti i fatti ... egli ammette solo ciò che appare ai singoli individui e in tal modo

introduce il principio di relatività.

(Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, trad. di M. Timpanaro Cardini, in I Presocratici.

Testimonianze e frammenti, Laterza Bari 1981, vol. II (DK fr. 80 A14).

Esponi con tue parole il concetto espresso da Protagora.

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f) I discorsi doppi (Dissòi lògoi)

Nella prima metà del IV secolo un ignoto autore scrisse i Discorsi doppi. In

ciascuno dei capitoli – dedicati ai contrari: al bene e al male, al bello e al brutto, al

giusto e all’ingiusto, al vero e al falso, alla saggezza e alla follia – si argomentano

una tesi e un’antitesi. La tesi sostiene che questi contrari designano cose differenti,

l’antitesi afferma l’identità dei contrari (“che bello e brutto sono identici” o che “i

pazzi e sani di mente fanno e dicono le stesse cose”). L’antitesi si giustifica

dimostrando come la stessa cosa (o azione) possa essere considerata bella o

brutta, buona o cattiva a seconda del contesto e delle circostanze. Le coppie

vero/falso, bello/brutto, giusto/ingiusto, ecc. non indicherebbero allora qualità

proprie delle cose, ma sarebbero valutazioni relative al punto di vista di chi le

esprime. Così una stessa azione può essere approvata in una certa cultura,

censurata in un’altra.

Per esempio, per gli Spartani, che le fanciulle facciano ginnastica e si esibiscano in

pubblico sbracciate e senza tunica, è bello; per gli Ioni, brutto. E per quelli è bello che i

fanciulli non apprendano la musica e le lettere; per gli Ioni è brutto non sapere tutte queste

cose. I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l’essere sepolti

nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato

in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. I Persiani reputano

bello che anche gli uomini si adornino come le donne, e si congiungano con la figlia, con la

madre, con la sorella; per i Greci sono cose turpi e contro la legge. Presso i Lidi, che le

fanciulle si sposino dopo essersi prostituite per denaro, sembra bello; presso i Greci,

nessuno le vorrebbe sposare. Anche gli Egizi non s’accordano con noi su ciò che è bello;

qui è ritenuto bello che siano le donne a tessere e filar lana; lì invece gli uomini, e che le

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donne facciano quel che qui fanno gli uomini. Impastare l’argilla con le mani, e la farina

coi piedi, lì è bello, ma per noi è tutto il contrario.

E io credo che se si comandasse a tutti gli uomini di riunire in un fascio le cose che ciascun

di essi reputa cattive, e poi dopo di togliere dal gruppo quelle che ciascun d’essi reputa

belle, non ce ne rimarrebbe neppure una, ma tra tutti se le ripiglierebbero tutte. Poiché

nessuno la pensa come un altro. E citerò un brano poetico. Se analizzi a fondo, vedrai che è

così l’altra legge dei mortali: nulla è mai assolutamente bello né brutto; ma le stesse cose,

come il momento le afferri, le fa brutte; come si cambi, belle.

(Ragionamenti duplici, trad. M. Timpanaro, in I Presocratici, cit. vol.II (DK fr. 90 2, 1-18).

Completa la tabella scrivendo per ciascun argomento la tesi e l’antitesi.

Per gli Spartani è una cosa bella La ginnastica delle fanciulle

Per gli Ioni è una cosa brutta

Per Insegnare ai fanciulli musica e

lettere Per

Per Mangiare i genitori morti

Per

Per Il trucco maschile e i rapporti

incestuosi Per

Per Che gli uomini tessano

Per

Per Impastare l’argilla con le mani, e

la farina coi piedi Per

Da che cosa dipende la bellezza o la bruttezza delle cose secondo l'anonimo autore

dell'opera?

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g) La prefazione delle Vitae

Nella prefazione delle Vitae (1-7) Nepote espone ancora più chiaramente l’idea che

bene e male non sono concetti assoluti.

Sono sicuro, Attico, che molti lettori, quando leggeranno il nome di chi insegnò la musica a

Epaminonda, e vedranno ricordate, tra le doti di quest’ultimo, la grazia nel danzare o la

perizia nel suonare il flauto, giudicheranno frivola e poco intonata al carattere dei grandi

personaggi questa mia maniera di esporre. Ma si tratterà presumibilmente di persone

digiune di cultura greca, convinte che nulla vi sia di buono, se non in quello che si

conforma alle loro abitudini. Se costoro invece si renderanno conto che non sono uguali per

tutti il concetto di bene e quello di male, e che ogni azione viene giudicata a seconda delle

consuetudini degli antenati, non si stupiranno più che nell’esporre i meriti dei Greci io mi

sia rifatto allo spirito di quel popolo. Ad esempio, per un sommo Ateniese, Cimone, non

costituì vergogna il matrimonio con una sorella germana, poiché tale uso era ammesso tra i

suoi concittadini: eppure questa è, per le nostre usanze, un’empietà. A Creta è ritenuto un

pregio, per i ragazzi, aver avuto un gran numero di amatori. E a Sparta non c’è vedova così

altolocata che, per prezzo, non ricorra all’opera di qualche mezzana. In quasi tutta la Grecia

si considerò onore tra i più grandi l’essere proclamato vincitore ad Olimpia e tra quel

popolo non fu mai un disonore per alcuno salire sulla scena e prodursi in pubblico

spettacolo: azioni giudicate tra noi disonoranti, o ignobili, o per lo meno lontane dalla

rispettabilità. Al contrario sono ritenuti scorretti pressi i Greci molti atti che sono buoni

secondo la nostra mentalità. Quale Romano ad esempio ha ritegno ad andare ad un

banchetto con la moglie? E quale madre di famiglia evita di soggiornare nelle stanze

d’entrata, e di scambiare parole con chi va e chi viene? Eppure in Grecia le cose stanno

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altrimenti: la donna non siede a mensa se non tra parenti, e passa il suo tempo unicamente

nella parte più remota della casa, che chiama gineceo, dove nessuno può entrare se non è

stretto congiunto.

(Trad. L. Agnes)

Quali lettori Nepote teme che giudicheranno frivola la sua esposizione?

Che cosa manca a questi lettori per comprendere la posizione di Nepote?

Qual è la convinzione di questi lettori?

Quale tesi l’autore afferma contrapponendola alla convinzione dei suoi lettori?

Riferisci quali esempi greci, comprovanti la tesi del “relativismo culturale”, l’autore porta?

(Cimone…, I ragazzi di Creta…, Le vedove di Sparta…, I partecipanti alle Olimpiadi…).

Riferisci quali esempi romani, comprovanti la tesi del “relativismo culturale”, l’autore

porta? (Al banchetto …, La madre di famiglia…, Invece in Grecia…).

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h). Le categorie morali non sono assolute (Cornelio Nepote, Vitae I 1-3)

Un esempio di relativismo culturale in campo educativo: musica e danza sarebbero

disdicevoli nella formazione di un giovane romano, mentre sono essenziali

nell’educazione di un principe greco.

[1] Epaminondas, Polymnii filius, Thebanus. De hoc priusquam scribimus, haec

praecipienda videntur lectoribus, ne alienos mores ad suos referant, neve ea, quae ipsis

leviora sunt, pari modo apud ceteros fuisse arbitrentur. [2] Scimus enim musicen nostris

moribus abesse a principis persona, saltare vero etiam in vitiis poni: quae omnia apud

Graecos et grata et laude digna dicuntur. [3] Cum autem exprimere imaginem

consuetudinis atque vitae velimus Epaminondae, nihil videmur debere praetermittere, quod

pertineat ad eam declarandam.

[1] Epaminonda tebano, figlio di Polimnio. Prima di scriverne penso di dover suggerire ai

lettori di non giudicare col metro dei loro costumi le abitudini straniere, e di non pensare

che quanto a loro pare di scarso peso sia ritenuto tale anche presso tutte le altre nazioni. [2]

Sappiamo ad esempio che la musica, nel nostro costume, non si confà ad un personaggio

autorevole e che la danza è addirittura una sconvenienza: tutte cose che tra i Greci sono

invece bene accette e lodevoli. [3] Se quindi vogliamo ritrarre dal vivo le consuetudini e la

vita di Epaminonda, non dovremo – così ci pare – omettere nulla di quanto valga ad

approfondirne la conoscenza.

(Trad. G. Pontiggia)

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1. Epaminondas: nato a Tebe intorno al 418 a.C. e morto a Mantinea nel 362, uomo

politico e generale. Fu con Pelopida l’artefice dell’egemonia tebana. – Thebanus: sott. fuit.

– ne … referant: “perché non rapportino i costumi altrui ai propri”. – neve: “e perché non”

– ipsis: “per loro”, “a loro giudizio”, è il cosiddetto dativus iudicantis o del punto di vista.

2. musicen: accusat. di musice, es secondo la declinazione greca. – abesse a principis

persona: “non s’addice a una persona ragguardevole” – saltare: “danzare”. – in vitiis poni:

“è considerata cosa riprovevole”. –

3. exprimere imaginem: “dare l’esatta rappresentazione”. – ad eam declarandam: “a porla

in chiara luce”.

Qual è la doppia raccomandazione che Nepote rivolge ai lettori?

Quali due esempi egli adduce a dimostrazione della sua tesi?

Qual è la conclusione, che si traduce in un impegno per l’autore?

Il relativismo etico

L’idea di Cornelio Nepote di accostare, nelle sue Vitae, biografie di personalità

romane e straniere riflette l’intento di porre a confronto varie civiltà, soddisfacendo

le curiosità dei lettori. Nel momento in cui si aprono a culture diverse, i Romani

sono interessati sia a conoscere le tradizioni di altri popoli, sia a definire attraverso

il confronto con l’“altro” la propria identità culturale. L’atteggiamento di Nepote di

fronte alle diversità pare aperto e non viziato da pregiudizi etnocentrici.

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La selezione di vizi e virtù non è quasi mai funzionale alla tesi della superiorità

romana. Anzi, l’autore fa professione di relativismo etico, quando afferma che le

categorie morali non sono assolute: ciò che è virtù in un dato contesto civile può

diventare un vizio, se mutano i valori etici di riferimento (maiorum instituta). Come

nell’esempio addotto nel passo qui presentato: per i Greci danza e musica sono

ingredienti irrinunciabili nel programma educativo di un giovane greco, mentre

sono disdicevoli per un romano.

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20.

i) Qual è la “vita” migliore? (Orazio, Carm. I 1)

Nel carme I 1 Orazio si rivolge a Mecenate, affinché il potente protettore approvi la

propria scelta di dedicarsi alla poesia. E fa questo, utilizzando la cosiddetta Priàmel

(dal lat. tardo preambulum), schema retorico consistente nell’ampia rassegna degli

altrui generi di vita, cui è opposto il proprio. La varietà della propensioni umane

era generalmente ricondotta alle quattro classi seguenti: vita dedita alla gloria

(philòdoxos o philòtimos bìos), alla ricchezza (philochrèmatos bìos), al piacere

(philèdonos bìos), alla sapienza (philòsophos bìos).

Legato a questo schema era il motivo filosofico del tò kàlliston ("la cosa migliore")

e dell'àristos bìos ("la vita migliore"), che di solito era quella del filosofo, innalzato

nella sua rocca al di sopra delle passioni e miserie umane.

Maecenas atavis edite regibus,

o et praesidium et dulce decus meum,

sunt quos curriculo pulverem Olympicum

collegisse iuvat metaque fervidis

evitata rotis palmaque nobilis 5

terrarum dominos evehit ad deos;

hunc, si mobilium turba Quiritium

certat tergeminis tollere honoribus;

illum, si proprio condidit horreo

quicquid de Libycis verritur areis. 10

Gaudentem patrios findere sarculo

agros Attalicis condicionibus

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numquam demoveas, ut trabe Cypria

Myrtoum pavidus nauta secet mare.

Luctantem Icariis fluctibus Africum 15

mercator metuens otium et oppidi

laudat rura sui; mox reficit rates

quassas, indocilis pauperiem pati.

Est qui nec veteris pocula Massici

nec partem solido demere de die 20

spernit, nunc viridi membra sub arbuto

stratus, nunc ad aquae lene caput sacrae.

Multos castra iuvant et lituo tubae

permixtus sonitus bellaque matribus

detestata. Manet sub Iove frigido 25

venator tenerae coniugis inmemor,

seu visa est catulis cerva fidelibus,

seu rupit teretis Marsus aper plagas.

Me doctarum hederae praemia frontium

dis miscent superis, me gelidum nemus 30

Nympharumque leves cum Satyris chori

secernunt populo, si neque tibias

Euterpe cohibet nec Polyhymnia

Lesboum refugit tendere barbiton.

Quod si me lyricis vatibus inseres, 35

sublimi feriam sidera vertice.

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Mecenate, da regio, antico sangue

sceso; tu mio riparo e dolce vanto:

nel mondo c’è chi gode a sollevare

con un carro la povere di Olimpia

e una mèta scansata dalle ruote

calde, un grido, la fama di una palma

lo trasporta signore della terra

ai numi. Piace a questo se la turba

dei Quiriti mutevoli gareggia

per innalzarlo alle tre grandi cariche,

a quello se nel proprio granaio

riesce finalmente di riporre

quanto grano si spazza dalle aie

Libiche. Tu non puoi dal suo proposito

rimuovere, nemmeno ai patti d’Attalo,

chi è contento di fendere il terreno

avito col sarchiello, perché solchi

pavido in Cipria nave il mar Mirtòo.

Finché il mercante teme l’urto d’Africo

con l’onde Icarie, celebra la quiete

serena del suo borgo e la campagna,

ma subito ripara le squassate

navi, incapace di vedersi povero.

C’è chi non sprezza le coppe di Màssico

invecchiato e trascorre, steso all’ombra

di un albero, o vicino al mormorio

di una sacra sorgente, l’ora piena

del giorno. A tanti piace l’aspra vita

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del campo, il suon dei corni e delle tube:

la guerra detestata dalle madri.

Resiste al gelido sereno, immemore

della tenera sposa, il cacciatore

se la muta fedele ha visto correre

una cerva nel bosco o se un cinghiale

Marsio ha spezzato le reti ritorte.

Io dall’edera verde, per le dotte

fronti serbata in premio, sarò fatto

immortale. Dal volgo mi dividono

la frescura del bosco e i passi lievi

delle Ninfe tra i Satiri, se il flauto

non tiene muto Euterpe, né Polimnia

nega gli accordi della lira Lesbia:

ché se mi metterai fra i vati lirici

con la mia testa toccherò le stelle.

(Trad. A. La Penna)

1-10. Maecenas … regibus: la gens Cilnia, cui apparteneva Mecenate, era stata potente ad

Arezzo, annoverando tra i suoi membri anche lucumoni. – curriculo … collegisse: le gare

Olimpiche, che ai tempi di Augusto erano assai decadute, sono simbolo di gloria perfetta

nei poeti greci che Orazio imitava. Il curriculum è probabilmente la quadriga, il cocchio

impiegato nella più prestigiosa delle gare di bighe. – meta: è la colonnetta posta alle due

estremità dello stadio, intorno alla quale il cocchio girava. Il passaggio era pericoloso e

richiedeva destrezza per perdere il meno possibile di velocità e terreno. – palma nobilis: in

realtà ai vincitori di Olimpia era data una corona d’ulivo, cui solo in età ellenistica e per

influsso orientale si aggiunse la palma. L’uso passò a Roma, come attesta Livio, agli inizi

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del III secolo a.C. – Quiritium : i Quiriti sono i Romani (da Quirino, nome di Romolo dopo

la divinizzazione). – illum … areis: si tratta dell’importatore di grano. – Libycis: allude

all’Africa del Nord, grande produttrice di grano e dove molti romani possedevano ampi

latifondi.

11-18. Gaudentem … demoveas: si tratta del piccolo coltivatore visceralmente legato al

poderetto di famiglia. All’agricoltura del latifondo si contrappone quella di sussistenza:

patrios agros contrasta con Libycis areis. – Attalicis condicionibus: condizioni, offerte

quali potrebbe fare un uomo facoltoso come Attalo III, re di Pergamo, che nel 133 a.C.

aveva lasciato i Romani eredi d’un tesoro divenuto favoloso e proverbiale com’era stato in

Grecia quello di Creso. – Trabe…Cypria: l’isola di Cipro forniva legname per costruzioni.

– Myrtoum … mare: è l’Egeo occidentale, denominato dall’isola di Myrtos presso l’Eubea.

– Icariis fluctibus: l’Egeo orientale tra Samo e Mikonos, dove secondo il mito sarebbe

caduto Icaro. – Africum: vento che spira da sud-ovest, ma qui vento procelloso in genere.

19-28. Est qui … spernit: è il sapiente “epicureo”, che ruba al solidus dies (il giorno

“pieno”, “intero”, dedicato ai negotia) una parte di ore per lo svago e il riposo. – Massici:

vino rinomato della Campania, più pregiato perché vetus. – Multos castra iuvant: è la volta

degli appassionati della guerra. – lituo … sonitus: la tuba era la tromba lunga e diritta

della fanteria, il lituus quella ricurva della cavalleria. La prima aveva suono grave, la

seconda più acuto. –Manet: dal quadro dell’appassionato di guerra si trascorre

insensibilmente a quello del cacciatore, non troppo dissimile dal militare in quanto la

caccia, occupazione favorita dei nobiles, è Romana militia (Sat. II 2, 10-11). – sub Iove

frigido: sub Iove (anche sub divo) significa “sotto il cielo”, perché Giove è dio del cielo e

dei fenomeni atmosferici. – Marsus aper: la Marsica boscosa abbondava di selvaggina.

29-36. Me … me: a conclusione della Priamel è espressa l’inclinazione di vita del poeta. –

doctarum … frontium: l’edera sacra a Bacco-Dioniso e i Satiri danzanti con le ninfe (v. 31)

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rinviano ad un concetto di poesia come invasamento, comune nei poeti augustei. – Euterpe

… Polyhymnia: rappresentano genericamente le Muse, senza riferimento a un determinato

genere poetico posto sotto la loro protezione. – Lesboum … barbiton: il bàrbitos o

bàrbiton è una lira a sette corde. L’epiteto Lesboum (grecismo per Lesbium) rinvia alla

lirica dei poeti di Lesbo (Alceo e Saffo), modello della poesia oraziana. – me … inseres: il

riferimento è al canone alessandrino dei nove lirici: insieme a questi Orazio potrà essere

ricordato, se avrà da Mecenate l’avallo della propria arte.

La Priamel

Ecco come i vari tipi di vita sono distribuiti nel testo oraziano:

1-2 apostrofe e dedica

03-8 l’amante della gloria l’atleta olimpico

il candidato politico

il latifondista

09-18 l’amante del denaro il contadino

il mercante

l’epicureo

19-28 l’amante del piacere l’amante della guerra

il cacciatore

29-34 l’amante della sapienza me (il poeta)

35-36 l’avallo della poesia

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La varietà della propensioni umane era generalmente ricondotta alle quattro classi

seguenti: vita dedita alla gloria (philòdoxos o philòtimos bìos), alla ricchezza

(philochrèmatos bìos), al piacere (philèdonos bìos), alla sapienza (philòsophos

bìos).

Il motivo del tò kàlliston.

Legato a questo schema era il motivo filosofico del tò kàlliston ("la cosa migliore")

e dell'àristos bìos ("la vita migliore"), che di solito era quella del filosofo, innalzato

nella sua rocca al di sopra delle passioni e miserie umane. Nell’ode oraziana, la

vita per la gloria è esemplificata dall’atleta olimpico e dall’uomo politico; la vita volta

guadagno dal ricco latifondista, dall’agricoltore, dal mercante; la vita per il piacere

dall’epicureo, dall’amante della guerra, dal cacciatore; la vita per la sapienza dal

poeta, cioè da Orazio stesso.

La separazione del saggio

Lo schema delle “vite”, soprattutto negli sviluppi filosofici, sottintendeva un

atteggiamento di separazione del saggio, che caratterizzò tutta la filosofia antica e

poi il Cristianesimo. Così, nell’inizio del canto X del Paradiso dantesco, riaffiora la

Priàmel:

O insensata cura de' mortali

...

Chi dietro a iura e chi ad aforismi

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sen giva, e chi seguendo sacerdozio

s'affaticava e chi si dava all'ozio,

quando, da tutte queste cose sciolto,

con Beatrice m'era suso in cielo

cotanto gloriosamente accolto.

Nei protreptici (scritti di esortazione alla filosofia) la Priàmel serviva a confutare le

scelte di vita diverse da quella del sapiente. Un segno di questa contrapposizione

è, nell'ode orazia, l'espressione: “… dal popolo mi dividono (secernut populo, v.

32) la frescura del bosco e i passi lievi delle Ninfe”, simbolo della poesia. Ma il tono

generale è ironico e bonario e la varietà e diversità delle abitudini e degli appetiti

umani è guardata come espressione di un’armonia della natura.

Il motivo nella poesia greca

Saffo, fr. 16 Lobel-Page

Chi un esercito di cavalieri, chi di fanti e chi di navi dice sopra la nera terra essere la cosa

più bella, ma io ciò che si ama ... di lei vorrei vedere l'amabile passo e del volto il sorriso

luminoso, più che i carri dei Lidi con i fanti che combattono in armi.

Pindaro, fr. 221 Snell

Degli onori e delle corone conseguite con i cavalli rapidi come il turbine alcuni si

rallegrano; altri della vita nei talami festosi; altri ancora gode di fendere con la nave

veloce le onde del mare....

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Bacchilide 10, 35 ss. Snell

Chi cerca una via chi un’altra per arrivare alla gloria che innalzi tra gli uomini. Infiniti

sono i mestieri dei mortali: uno fiorisce d’aurea speranza perché sapiente o perché ha

ottenuto l’onore delle grazie o perché è esperto nell’arte divinatoria; un altro sui fanciulli

tende l’abile arco; altri prendono diletto nei lavori ed occupandosi di mandrie e di buoi. Il

futuro porta eventi che nessuno può distinguere in anticipo, sì da sapere dove inclinerà la

fortuna. La più bella sorte è quella dell’uomo valoroso che sale nell’ammirazione di molta

gente. Conosco pure il grande potere della ricchezza, che dà valore anche all’uomo che

non vale nulla …

Che cos’è la Priàmel?

Quali scelte di vita prevede il carme di Orazio? Quali tipi di attività esemplificano ciascuna

scelta?

Ritrova le quattro vite oraziane nel frammento di Saffo, poetessa innamorata.

Ritrova le quattro vite oraziane nel frammento di Pindaro.

Ritrova le quattro vite oraziane nel frammento di Bacchilide.