19 89 - Intro ad orecchio acerbo ché se no sapresti che anche i feriti sono dei pazienti, e adesso...

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19 89 orecchio acerbo illustrazioni di Henning Wagenbreth a cura di Michael Reynolds Elia Barceló Jirí Kratochvil Ljudmila Petrusevskaja Ingo Schulze Olga Tokarczuk Miklós Vámos Heinrich Böll Andrea Camilleri Didier Daeninckx Max Frisch DIECI STORIE PER ATTRAVERSARE I MURI 19 89

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Henning Wagenbretha cura di Michael Reynolds

Elia Barceló Jirí Kratochvil

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Petrusevskaja

Ingo SchulzeOlga TokarczukMiklós Vámos

Heinrich BöllAndrea Camilleri

Didier Daeninckx

Max Frisch

DIECI STORIE PER ATTRAVERSARE I MURI

Profondamente radicatonella memoria di diversegenerazioni, il muro di Berlino è ancora oggi un simbolo di resistenza, un luogo di sofferenza e parole altisonanti. Ma anche dopo la sua caduta gli uomini non hanno smesso di erigere nuovi muri. Meno simbolici, meno noti, addirittura nascosti,tuttavia eretti con lo stesso miscuglio di odio, paura e mancanza di immaginazione. Lo stesso misero impastodei muri immateriali che separano gli uominiper razza, religione,cultura, ricchezza. Dieci racconti, ricchi di fantasia e colorate suggestioni,dedicati ai bambini da alcuni fra i più grandiscrittori di tutt’Europa. Per un ideale, enormegraffito control’intolleranza e contro il tetro grigiore dei muri. Per nuovi, giovaniarchitetti che alla ottusarigidità dei murisostituiscano l’acutaflessuosità dei ponti.

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Heinrich Böll

Olga Tokarczuk

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Jirí Kratochvil

Elia Barceló

Miklós Vámos

Ingo Schulze

illustrazioni diHenning Wagenbreth

a cura di Michael Reynolds

orecchio acerbo

DIECI STORIE PER ATTRAVERSARE I MURI

Il muro sarà ancora in piedi fra cinquant'anni e anche fra cento,se i motivi per cui è stato eretto non verranno eliminati.

(Erich Honecker, Berlino 19 gennaio 1989)

Il muro di Natale

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a lucido le dozzine di mattoni rossi, verdi, blu e gialli che si trovava-no al suo interno.La sua vocazione d’architetto era nata quella notte, ai piedi dell’al-bero di Natale, mentre assemblava i pezzi del Lego per dar loro laforma di una casa, di un castello, di un palazzo. Una passione divo-rante. Sua madre aveva sacrificato la propria giovinezza perché luipotesse frequentare le migliori università, che rilasciavano le laureepiù ambite. Le circostanze, però, avevano deciso diversamente, ecosì, invece di stilare i piani regolatori di future città, si era ritrova-to, lui, figlio di un’impiegata e di un padre ignoto, a dover costruireuno Stato sorto dallo sfaldamento di un impero.

Si era rituffato negli scritti dei maestri, tre anni prima, quando le mi-nacce che si profilavano alle frontiere avevano messo in pericolo ilsuo potere. Nessuno aveva criticato la sua idea di erigere un ostaco-lo invalicabile, all’estremo limite del paese, per scoraggiare gliappetiti dei potenti vicini. L’aveva disegnato nei minimi particolari,dopo aver studiato tutti i punti deboli che erano stati fatali a operedella stessa sorta di cui la Storia aveva serbato traccia: dalle muratroppo sottili di Gerico, sino al muro eretto tra sciiti e sunniti nellacittà di Adhaiya in Iraq, passando per il serpente di pietra che attra-versava la Cina.Aveva sguinzagliato spie lungo la barriera fortificata che protegge ilTexas dalla miseria del Messico. Ombre furtive avevano percorso inlungo e in largo la terra di nessuno che separa le due Coree, le dunedi sabbia artificiale create in Marocco al confine del deserto, e quel-le ben più antiche lasciate in Abissinia dal maresciallo Graziani.Altre ombre si erano introdotte nelle gallerie che collegano la strisciadi Gaza al Sinai egiziano. Un’intera squadra aveva esaurito l’abbece-dario delle linee difensive: Dora. Mareth, Maginot, Morice,Siegfried… Lo studio degli errori del passato non garantirà forse ilsuccesso, ma premunisce contro le sconfitte troppo repentine. Sulla

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Un grido si levò dalla folla quando lui alzò la mano per dare il via aifesteggiamenti. Di lì a poco sarebbero stati cento, e poi mille, a gon-fiare il petto, a ondate successive, per esprimere l’ordinario tripudiodi un popolo ben disciplinato. Il Presidente era seduto dentro il suoscranno di velluto rosso, al centro della tribuna eretta di fronte almuro, e si godeva l’attimo con gli occhi chiusi, cullato dal rumore.Erano cinquant’anni che non provava una simile sensazione di pie-nezza: all’improvviso aveva ritrovato un’emozione nascosta nelprofondo del suo animo, una sorta di felicità infantile. Un sorrisovenuto da quel lontano passato si posò sui suoi lineamenti. La Pre-sidentessa, intercettandolo, si chinò verso il marito esercitando unapressione sul suo braccio, attraverso l’uniforme di gala.“Cos’è che ti fa ridere? A cosa pensi?”Lui alzò le palpebre e fu stupito nell’ascoltarsi rispondere la verità,una debolezza passeggera, attribuibile alla solennità della circostanza.“A niente… Pensavo a Ole Kurk Christiansen…”“Ole Kurk chi?” “Ole Kurk Christiansen…”“Mai sentito… Chi è? C’entra qualcosa?” Le prime note dell’inno nazionale, imponendo il silenzio all’enormeassembramento, gli permisero di eludere la domanda. Si alzò inpiedi in pieno sole, sorretto da oltre centomila sguardi. I ricordi loseguirono mentre si dirigeva verso il leggio irto di microfoni. Micro-scopici fiocchi di neve, venuti giù da un’altra epoca, mulinavanooltre il vetro. Egli rivide il dolce viso di sua madre illuminato a in-termittenza dalle lampadine colorate del festone elettrico cheserpeggiava sui rami d’abete…“Guarda, tesoro mio, mentre dormivi è passato Babbo Natale…”Nel rispettoso silenzio che lo accompagnava, egli avvertì distinta-mente il fruscio della carta da regalo sotto le proprie dita impazienti.Il sangue gli salì alle tempie quando la memoria sollevò il coperchiodella scatola da gioco tanto desiderata, e rovesciò sul parquet tirato

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carta la nuova frontiera era, infatti, in grado di resistere a tutto:onde, scosse, terremoti, bombardamenti, scavi, perforazioni, attra-versamenti…Il Presidente appoggiò il testo del discorso sul leggio. La struttura chequel giorno stava per ricevere il suo nome, affondava le sue radici dimetallo a decine di metri di profondità, un sistema di grate filtraval’acqua di fiumi sotterranei, mentre migliaia di punte acuminate,svettanti sulla sommità della costruzione, parevano artigliare le nuvo-le. L’impianto audio diffuse una sorta di rombo di tuono nelmomento in cui egli si schiarì la gola prima di dare inizio al discorso.“Cari compatrioti…”Tutti gli occhi erano fissi su di lui, non una sola palpebra sbatteva,ed egli si apprestava a pronunciare la frase inaugurale quando accad-de un evento imprevedibile che lui solo era in grado di vedere. Unpalloncino con tanto di cordicella (si seppe in seguito che un bam-bino se l’era inavvertitamente fatto sfuggire, alla fine di un pranzo dicompleanno) si dondolava in cielo sfruttando le correnti ascensiona-li. Il Presidente rimase immobile un secondo di troppo, la boccaaperta dallo stupore, interdetto, e girò la testa nel momento esattoin cui il palloncino, con su le immagini di un pagliaccio e della Mdorata di una grande catena di fast food, superava il il muro. Una ri-sata scoppiò tra la folla, poi un’altra, poi cento, poi altre mille. Ilmondo intero si sbellicava, a ondate successive.Una foresta di mani si era alzata per afferrare la cordicella come si fa,sulle giostre, con la coda di Topolino… Laggiù, all’improvviso,venne a mancargli l’aria. Il Presidente si portò il palmo della manodestra al petto e si accasciò tra l’ilarità generale. Un consigliere,prima che egli sprofondasse in un coma irreversibile, s’inginocchiòper ascoltare le sue ultime parole:“Ole Kurk Christiansen…”“Che cosa ha detto?”“Ole Kurk…”

Anche i bambini sono dei civili

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L’autopsia confermò l’ipotesi di una crisi cardiaca. Il medico legalefu solo sorpreso nel constatare che il grumo fatale al Presidente avevaassunto la forma insolita di un minuscolo parallelepipedo. Come unmattoncino di sangue coagulato…Il consigliere, unico depositario delle ultime parole del Presidente,fu costretto ad abbandonare il paese nelle ore successive alla scom-parsa del suo signore. La precarietà della sua nuova condizione glifece trascurare di indagare sul mistero di quel nome rivelatogli inpunto di morte. Molto tempo dopo, il caso gliene fornì la spiegazio-ne mentre, durante l’esilio, stava visitando una casa nella provinciadi Billund, in Danimarca. Un cartello stradale piazzato davanti allafinestra della cucina indicava la presenza del museo Ole Kurk Chri-stiansen, alla periferia della città. Gli tornarono in mente le paroledella Guida. E con fare distratto, mentre passava dal salone alla ve-randa, chiese all’agente immobiliare:“E chi sarebbe, esattamente, questo Christiansen?”“Come, non conosce Ole Kurk!” “Veramente no…”“È il nume tutelare di Billund… Dobbiamo a lui la fortuna della no-stra città. È l’inventore del Lego…”

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“Non si può” ingiunse ruvidamente il soldato di guardia.“Perché?” domandai io.“Perché è vietato.”“E perché è vietato?”“Perché è vietato, Cristo, è vietato ai pazienti, via di qua.”“Io” aggiunsi con fierezza “io sono un ferito.”Il soldato mi guardò con disprezzo: “Deve essere la prima volta, per-ché se no sapresti che anche i feriti sono dei pazienti, e adesso vattene”.Ma io non riuscivo a farmene una ragione.“Cerca di capirmi” ho insistito “voglio solo comprare dei dolci daquella ragazzina.”Indicai verso l’esterno, dove, sotto la neve turbinante, se ne stava unabella bambina russa a vendere dolci.“Sbrigati a rientrare!”La neve cadeva silenziosa sulle enormi pozzanghere del cortile colorpece, la ragazzina se ne stava lì, paziente, e continuava a ripetere conun filo di voce: “Doulci… doulci…”“Cristo” feci al soldato “mi viene l’acquolina in bocca, lascia entrarela piccola.”“È vietato far entrare i civili.”“Cristo” gli risposi “un bambino è un bambino.”Mi guardò di nuovo con disprezzo. “Perché, i bambini non sono deicivili?”Era una situazione senza vie d’uscita, la neve spazzava la strada scura evuota e la bambina se ne stava lì tutta sola, continuando a ripetere:“Doulci…”, anche se non passava nessuno. Feci per uscire, ma la guar-dia mi afferrò al volo per la manica, montando su tutte le furie.“Cristo” gridava “adesso fila via, se no vado a chiamare il maresciallo.”“Sei proprio un mulo” dissi furibondo.“Eh sì” mi rispose soddisfatto “per voi uno che ha il senso del pro-prio dovere è come un mulo.”Rimasi ancora qualche istante sotto la neve turbinante, guardavo i

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fiocchi bianchi trasformarsi in fango; il cortile era tutto pieno dipozzanghere e, tra l’una e l’altra, si distendevano piccole isole di zuc-chero a velo. A un tratto ho visto che la ragazzina mi faceval’occhiolino, avviandosi con indifferenza giù per la strada. La seguiilungo la parte interna del muro.‘Maledizione’ pensai ‘forse sono davvero un paziente.’ Poi ho vistouna piccola apertura nel muro, accanto alla latrina, e dietro quel forola bambina, con i dolci in mano. La guardia lì non poteva vederci. IlFührer benedica il tuo senso del dovere, ho pensato.I dolci avevano un aspetto meraviglioso: amaretti e paste con lacrema di burro, ciambelle e triangoli alle noci che rilucevano d’olio. “Quanto costano?” chiesi alla bambina.Lei sorrise avvicinandomi il cestino e con la sua vocina dolce mi fece:“Tre marchi e cinquanta l’uno”.“Anche queste?”“Sì” rispose annuendo.La neve le cadeva sui capelli biondi e sottili, ricoprendoli di una pol-vere argentata che scompariva all’istante; aveva un sorrisoincantevole. Alle sue spalle c’era la strada plumbea, vuota, il mondosembrava come morto… Presi una ciambella e l’assaggiai. Aveva un gusto magnifico, dentro eraripiena di marzapane. “Ecco perché costano come gli altri” pensai. La ragazzina sorrideva. “Buono?” mi domandava “buono?”Feci soltanto cenno di sì con il capo, del freddo non mi importavaniente, avevo una gran fasciatura intorno alla testa, sembravo Theo-dor Körner, il poeta che si batté contro Napoleone. Assaggiai ancheuna pasta con la crema di burro e lasciai che quel dolce magnifico misi sciogliesse lentamente in bocca. E di nuovo mi venne l’acquolina…“Dai” le feci a bassa voce “dammeli tutti, quanti sono?” Lei iniziò acontarli con attenzione, indicandoli con l’indice piccino, tenero e unpo’ sporco, mentre io buttavo giù un triangolo alle noci. Intorno tuttoera silenzio, e avevo quasi l’impressione che nell’aria fosse sospesa una

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L'uomo che non amava il proprio lavoro

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tela intessuta di fiocchi di neve. La bambina contava molto lentamen-te, si sbagliò due o tre volte e ricominciò, mentre io me ne stavo lìplacido e tranquillo a mangiarmi altre due di quelle delizie. Poi, all’im-provviso, alzò gli occhi verso di me, verticalmente, tanto che le pupilleerano tutte nella parte superiore e si vedeva soltanto il bianco degliocchi, di un colore azzurrino acquoso, come il latte scremato. Mi cin-guettò qualcosa in russo, ma io sorridendo feci spallucce, allora lei sichinò e con le dita sporche tracciò un 45; a segni le chiesi se non aves-se altri cinque pezzi e dissi: “Dammi anche il cestino, va bene?”Annuì e passò con cautela il cestino attraverso l’apertura del muro;le allungai due biglietti da cento marchi. Soldi ne avevamo fin sopragli orecchi, per un cappotto i russi ci davano anche settecento mar-chi, e da tre mesi non avevamo visto altro che fango, sangue, qualcheputtana e soldi…“Torna domani, va bene?” le sussurrai, ma lei ormai non mi sentivapiù, era sgusciata via con la velocità del lampo e quando sporsi latesta nell’apertura del muro era scomparsa: vidi soltanto la stradarussa silenziosa, plumbea e completamente deserta, le case dai tettipiatti, che la neve sembrava voler ricoprire a poco a poco. Me nestetti lì per un po’ come un animale dagli occhi tristi che guardi fuoridal recinto, e a un certo punto sentii il collo irrigidirsi, così ritirai latesta dentro quella prigione. Solo allora mi accorsi che da quell’angolo saliva una puzza disgusto-sa, di latrina, e i dolci, piccoli e graziosi, erano tutti ricoperti di unadelicata glassa di neve. Stancamente presi il cestino e mi avvicinaiverso l’edificio, non avevo freddo, sembravo Theodor Körner e sareipotuto rimanere ancora un’ora là fuori, sotto la neve. Ma mi avviaiperché tanto da qualche parte dovevo pure andare. Non si può micafare a meno di andare da qualche parte, non è possibile. Non si puòmica rimanere lì a lasciarsi ricoprire di neve. Da qualche parte biso-gna andare per forza, anche da feriti, in un paese straniero, plumbeo,nero come la pece…

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C’era un uomo che non amava affatto il proprio lavoro, perciò,quando fu ormai certo che a breve l’avrebbe perso, malgrado tutto sisentì contento.Non amava il proprio lavoro perché gli sembrava insensato. Non loportava da nessuna parte, non gli fruttava nessun guadagno concre-to, non gli procurava gioia, non ne cavava nulla. Consisteva infattinel girare per le montagne (a volte anche in motocicletta) e nel cer-care tutto quanto apparisse sospetto. In questo consisteva il suolavoro, nel pattugliare la frontiera. Era una guardia di confine.La frontiera qui era abbastanza illusoria - tagliava a metà un ruscel-lo, correva per un pendio ripido, talvolta girava intorno a una cimae scavava tra i giovani abeti solchi sui quali si pavoneggiavano i bian-chi paletti di confine. La guardia rifletteva spesso sui costi dimanutenzione di quel confine, che su tutte le carte è raffigurato dauna linea tratteggiata, cosa che non dà certo conto dell’assurdità deltaglio degli alberi, della falciatura dell’erba, dell’imbiancatura an-nuale dei paletti.“A che pro tutto questo?” diceva tra sé e sé. “Tanto scompiglio, tantolavoro umano, tante spese.”Nonostante tutto, nel corso degli anni aveva cercato di eseguire scru-polosamente il proprio lavoro. Con lui c’era sempre un cane, unpastore tedesco di nome Bruno, una creatura malinconica e piena disaggezza innata. Lui e Bruno si intendevano bene, mentre perlustra-vano la striscia di confine. Giravano sempre dalla stessa parte,volevano sempre riposare nello stesso posto. Si può dire che badava-no a che attraverso la frontiera non passasse nemmeno un topo. Inpolacco si dice così: non ci passa nemmeno un topo, ma evidente-mente in questo caso è un modo di dire sciocco. Perché le frontieresono state pensate per gli uomini, non per gli animali. Molte volte laguardia era stata testimone di come gli animali se ne infischiasserodella frontiera che lui sorvegliava con tanto zelo. I caprioli e le volpiignoravano completamente i paletti bianchi e gli emblemi degli Stati.

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sonnecchiavano. Solo la donna, che allattava un bambino, si dondo-lava avanti e indietro. Li abbracciò svelto con lo sguardo sentendosisalire la pressione. Li contò mentalmente – erano sei: due uomini,una donna e tre bambini. Sembravano stanchi, i loro visi appariva-no scuri, come se fossero appena spuntati dal buio. Avevano zainimiseri e vestiti sciupati. Alla guardia ormai era chiaro – aveva sco-perto degli irregolari, emigrati o immigrati clandestini, fuggiaschi,vagabondi che avevano appena attraversato la frontiera. Non avreb-be mai pensato che gli sarebbe capitato, e tanto meno negli ultimigiorni di lavoro.Su di loro aveva il vantaggio (oltre all’arma nella fondina appesaalla cintura) di vederli senza essere visto. Li guardava dall’alto e ri-fletteva su cosa avrebbe dovuto fare. Secondo le istruzioni a lui bennote, adesso avrebbe dovuto informare la base e far venire gli altri;sarebbero arrivati su di un grande fuoristrada mercedes e avrebbe-ro portato i delinquenti al posto di guardia. Sarebbero statisottoposti a interrogatori e tenuti sotto chiave. Forse sarebbe ser-vito un interprete. Poi sarebbe sicuramente venuto fuori che nonavevano né passaporto né visto, nulla che consentisse loro di fer-marsi là. Alla fine avrebbe avuto luogo un processo, sarebbero statiriconosciuti colpevoli di attraversamento illegale della frontiera erispediti da dov’erano venuti. Succede sempre così, quando lagente infrange la legge.La guardia accese il walkie-talkie. Crepitò. Uno degli uomini simosse inquieto, aprì gli occhi e si guardò intorno. Ma non in alto.La guardia vide distintamente il suo viso e capì che l’uomo avevapaura. Pensò che doveva essersi sbagliato e che erano mezzo mortiper la stanchezza e per l’ansia di cosa gli avrebbe riservato il futuro.Laggiù dov’erano seduti era piuttosto scuro, come se il freddo dellanotte si fosse acquattato soltanto tra le felci e il sottobosco. L’uomosi tirò il cappuccio sulla testa e provò a leggere qualcosa su una cartache aveva spiegato a terra. “Ma sì, si sono persi” pensò la guardia, e

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Nel vicino villaggio oltre la frontiera si recava regolarmente anche ungatto polacco, e la guardia era certa che andasse da certe signorinemicie. Al di sopra della striscia di confine roteavano magnificamentele cicogne. Le formiche scavavano i loro formicai su entrambi i lati ecostruivano stradine, trasportando attraverso la frontiera bruchimorti, pezzetti di foglie, aghi di pino – senza dazio!A volte incontrava anche delle persone. Per esempio, cercatori difunghi smarriti che, tutti presi dalla raccolta, avevano perso il sensodell’orientamento e si ritrovavano nell’altro paese. Oppure boscaio-li che avevano bevuto troppo e con la spacconeria degli ubriachi,che non conosce limiti, si spingevano avanti intonando canzoni pa-triottiche.Certa gente andava disciplinata e punita. Perciò la guardia aveval’obbligo di chiedere i documenti agli intrusi, e poi denunciare ilreato e – se necessario – arrestare i perturbatori dell’ordine. Be’, na-turalmente c’erano anche quelli che contrabbandavano varie coseattraverso la frontiera. Per esempio alcol, sigarette e salami.Ultimamente, alle guardie di confine avevano fatto un corso sualtri individui pericolosi. Erano coloro che erano scappati dal pro-prio paese e ora tentavano di entrare in Europa illegalmente esenza permesso.

Quel giorno di ottobre dello scorso anno la guardia e il cane si sta-vano appunto arrampicando su per la striscia di confine. Era unabella mattina limpida e il sole stava raggiungendo lentamente lozenit per poi passare dall’altra parte. La guardia era stanca e si ralle-grava della partita di calcio che avrebbero trasmesso la sera. E sirallegrava anche del fatto che ormai tra non molto sarebbe andato inpensione anticipata, e allora avrebbe visto tutte le partite che volevae girato per il bosco come l’altra gente, in maniera del tutto inno-cente, senza sospetti, rilassato e senza divisa.Proprio allora vide quelle persone. Sedevano a terra in silenzio, forse

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spense il walkie-talkie. Bruno gli diede un’occhiata eloquente, comeper dire: “Rifletti bene su cosa fare adesso”.Si mosse verso di loro. Lo guardarono spaventati. Avvertiva la lorotensione, erano come molle pronte a scattare con un’enorme forzanell’oscurità del bosco. Quando si accosciò davanti a loro e li guar-dò amichevolmente, la donna con il bambino gli rispose per unlungo istante con un sorriso incerto. Disse loro di non avere pauraperché voleva aiutarli, ed era certo che lo avessero capito.“Dove siamo?” gli chiesero in una lingua che non conosceva, macapì ogni parola.“In Polonia. Dove andate?” disse.“In Germania” risposero, e dopo un attimo aggiunsero: “Siamo nel-l’Unione?”“Sì” rispose con improvviso orgoglio.Certo, esitò ancora un momento, ma in sostanza non c’era nien-te a cui pensare. Niente su cui occorresse riflettere. Avevanobisogno di aiuto. Gettò l’occhio sulla loro carta misera, impreci-sa, e capì dov’erano diretti. Supponeva che là ci sarebbe stato adaspettarli qualcuno che li avrebbe presi e accompagnati nel paesesognato, dove sarebbero stati al sicuro, sazi e, forse, felici. Checosa c’era di male? Che attraversavano senza permesso una strisciadi terra arata?Prese la carta e fece loro segno con un gesto di seguirlo. Lo guarda-rono con diffidenza. Fu la donna a fare il primo passo. Si legò allavita un fazzoletto a righe e ci infilò il lattante che, satollo, si addor-mentò subito. Gli uomini presero i bambini per mano e siavviarono dietro di lei. Bruno li precedeva. Scesero giù, accanto alruscello, per un sentiero battuto dagli animali, evitando così tuttele possibili sentinelle. Dopo qualche ora scesero sulla strada e laguardia li lasciò in un parcheggio che sulla loro carta era segnatocon una crocetta rossa. Vide una macchina parcheggiata sul sentie-ro del bosco. Per fortuna qualcuno li aspettava.

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L’ebreo andorrano

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“Di dove siete?” chiese infine, sebbene questa informazione non gliservisse a nulla.L’uomo indicò con la mano l’est, o forse il sud, e la agitò più volte,come per dire che venivano da lontano. Gli occhi dell’altro uomo siriempirono di lacrime e le asciugò con la manica. La guardia fececon la mano un gesto che riteneva comprensibile in tutto il mondo– alzò il pollice in alto e rivolse loro un largo sorriso, quindi fece die-trofront e tornò al suo giro di pattuglia.

Tornando al posto di guardia, camminava a passo veloce sul bordodella strada asfaltata e Bruno gli trotterellava accanto, senza il guin-zaglio e la museruola regolamentare. La guardia si sentiva il cuoreleggero e fino a quel momento non aveva ancora mai avuto l’impres-sione così netta di poter amare il proprio lavoro.Il sole era passato ormai da un pezzo dall’altra parte e tingeva lenta-mente di arancione il pomeriggio autunnale. Se si affretteranno,l’uomo e il cane, faranno ancora in tempo per la partita.

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Ad Andorra viveva un giovane, che tutti ritenevano un ebreo. Varreb-be la pena di raccontare la presunta storia della sua origine, i suoiquotidiani rapporti con gli andorrani, che vedevano in lui l’Ebreo.L’immagine preconcetta che ovunque si ha di lui. Per esempio, la dif-fidenza per i suoi sentimenti che, essendo un ebreo (come gli andorraniben sapevano), non poteva avere. Era costretto così a trovar scamponell’acume della sua intelligenza, che perciò necessariamente si affina-va. Oppure i suoi rapporti col denaro, che tanto conta ad Andorra. Luisapeva ciò che gli altri avevano in mente, benché non ne parlassero; interrogava sé stesso per vedere se pensasse davvero solo al denaro,finché giunse alla conclusione che era vero: sì, pensava davvero soloal denaro. Lo ammise; lo confermò, e gli andorrani si guardarono infaccia, senza parlare, quasi non storsero neppure la bocca.Anche a proposito della patria, lui sapeva esattamente come la pen-savano; quando quella parola gli veniva alle labbra, gli altri non laraccoglievano, come una moneta caduta nel fango. Perché l’ebreo(gli andorrani sapevano anche questo) ha più patrie, che si sceglie ecompra a piacere, non una sola patria come noi, che l’abbiamo findalla nascita. E per quanto avesse le migliori intenzioni, quando toc-cava argomenti che riguardassero gli andorrani, il suo discorsocadeva nel silenzio, come in un’ovatta.Più tardi comprese che certamente mancava di tatto; una volta in cuilui, demoralizzato per il loro modo di fare, si era addirittura accalo-rato, glielo dissero chiaro e tondo in faccia. La patria appartenevaagli altri, che fosse ben chiaro una volta per sempre, e non ci si aspet-tava che lui l’amasse, anzi, i suoi ostinati tentativi e i suoi sforzipotevano solo scavare un abisso di sospetto; lui si affannava per ot-tenere una benevolenza, una familiarità, una simpatia che, comepensavano, era solo un mezzo per giungere a uno scopo preciso(anche se non avevano la più pallida idea di quale fosse).Andò avanti così, finché un giorno lui, con quel suo inquieto intui-to che tutto analizzava, capì che realmente non amava la patria, che

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Il muro bianco

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non sopportava neppure la semplice parola, che quando la pronun-ciava gli dava una sensazione penosa. Evidentemente avevanoragione. Evidentemente lui non sapeva affatto amare, almeno nonnel senso andorrano. Aveva il calore della passione, e in più la fred-dezza dell’intelligenza, un’intelligenza che sembrava agli altriun’arma segreta, sempre pronta a essere usata per la sua sete di ven-detta. Non aveva un’anima sensibile, non ispirava simpatia. Glimancava soprattutto -era innegabile- il calore della fiducia. Frequen-tarlo era interessante, sì, ma non piacevole, non facile. Non riusciva a essere come tutti gli altri e, dopo vani tentativi pernon dare nell’occhio, portò quella sua diversità con una sorta diostinazione, di orgoglio, che nascondeva un’ostilità sempre in ag-guato; un’ostilità in cui non si sentiva a proprio agio, e che perciòzuccherava con un’eccessiva cortesia. Anche quando s’inchinava,quell’inchino era una specie di rimprovero al mondo circostante,come se quello fosse colpevole se lui era ebreo.La maggior parte degli andorrani non gli faceva niente. Neanche delbene, dunque. C’erano però anche degli andorrani di idee più progre-dite e libere, come dicevano, nutriti di spirito umanitario: affermavanodi apprezzare quell’ebreo proprio per le sue qualità di ebreo, per la suaintelligenza acuta e così via. Parteggiarono per lui fino alla morte, chefu crudele, tanto crudele e ripugnante da inorridire anche quegli an-dorrani che non si erano resi conto che già tutta la sua vita era statacrudele. Non che lo rimpiangessero cioè, parlando più chiaro, non nesentirono davvero la mancanza. Si indignarono contro chi l’aveva uc-ciso e contro il modo, soprattutto, il modo con cui si era agito.Se ne parlò a lungo. Finché un giorno saltò fuori ciò che lui stesso,il defunto, non aveva potuto sapere: che era un trovatello, i cui ge-nitori furono scoperti più tardi. Un andorrano, come noi.Non se ne parlò più. Ma da allora, gli andorrani, ogni volta che siguardarono allo specchio, videro con orrore che avevano gli stessi li-neamenti di Giuda, ciascuno di loro.

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C’era il Muro. E c’era l’albero.Il Muro era al suo posto da centinaia di anni ed era ormai conside-rato un monumento storico. Esternamente appariva bianco, antico,perfino basso secondo i criteri odierni. Torri agli angoli, all’internocasette, davanti al portone uno spazio vuoto.Un Muro senza pretese.Eppure, rappresentava l’orgoglio degli storici locali. Questi, si capi-sce, avevano scritto libri su libri, nei quali si raccontavano moltepliciavvenimenti relativi al Muro. Nel corso dei secoli passati, infatti, gliera successo di tutto: lo avevano preso d’assalto, assediato e bombar-dato, bruciato e fatto a pezzi, quindi riparato, rattoppato, intonacato.Insomma, era fonte di continui affanni, su di lui si prendevano de-cisioni, si approvavano perfino leggi. Qualcosa si realizzava, sieseguivano ordini. E agli scolari toccava studiare date e nomi legatial famoso Muro. Ma di tutto questo a lui non importava un ficosecco, se ne stava là fiero e bianco.All’inizio, quando era stato appena innalzato, il Muro si levava inuna landa desolata, tutt’intorno si stendevano campi e boschi, nonmancavano profondi burroni e stagni, la fortezza si ergeva infattilontano dal mondo civile. Ma ben presto fu costruita una grandestrada che conduceva al Muro. E tutto ebbe inizio!Vi si recavano uomini, carrozze, interi cortei, cominciarono a suo-nare le campane a morto, o ad avere luogo assedi con tanto dicannoni, o restauri che si protraevano nei successivi vent’anni. Idrappelli militari allora cavalcavano a lungo, mentre i viandanti af-frontavano viaggi di settimane per raggiungere il Muro, e alcuni diloro tornavano indietro. Teniamolo a mente. Alcuni.Poi la città si avvicinò furtivamente al Muro, lo circondò di strade,case, torri, cosicché smise di essere la costruzione più alta e impor-tante dei dintorni. Ma rimaneva pur sempre la più antica edenigmatica. Era circondato dal mistero, un terribile mistero.Perché ogni volta al Muro si avvicinava più gente di quanta poi non

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se ne allontanasse. Arrivano in quattro – e se ne vanno in tre. Arri-vano diciotto persone – e ne ripartono sei.E poi le campane suonano a lungo.Ma ecco che al di là del Muro, all’esterno, crebbe un albero e diste-se i propri rami al sole. E si mise a frusciare, salve, Muro, io sonol’albero. Sono cresciuto per ben cento anni e mi sono levato a unagrande altezza. Prima non rispondevi alle mie domande. Adesso pos-siamo parlare. Ormai sono quasi più alto di te, te ne sei accorto?E il Muro disse, non devi stare qui. Quel ramo che si è proteso versodi me, poi, non mi piace. Non deve esistere. Toglilo. E’ pericoloso.L’albero ribatté che non poteva farlo.Ti taglieranno, bada, lo ammonì il Muro. E molto presto.L’albero tacque. Era la prima volta in vita sua che si imbatteva in unaminaccia di morte. Non sapeva di cosa potesse trattarsi.“Farò il possibile” disse il Muro.Nel frattempo, sulla strada che conduceva al Muro comparve un’au-tomobile scortata da alcune automobili più piccole. Il portone siaprì e le automobili scomparvero.Dopo qualche tempo il portone si riaprì, le automobili uscirono e siallontanarono.L’albero osservò:“Ho visto sette persone scendere dalle automobili e sparire in unacasa. Ma indietro ne sono tornate solo cinque. Sono salite sulle au-tomobili e se ne sono andate. Dove sono le altre due?”Calò un lungo silenzio. Il sole splendeva, le nuvole solcavano il cielo.E allora il Muro disse di nuovo la sua, presto morirai, capito? Perciòche differenza fa per te che cosa succede intorno a me?L’albero replicò che tutti hanno la propria strada. E questa stradagiunge al termine per qualsiasi essere.“No” replicò il Muro. “Non per qualsiasi.”Le nuvole solcavano il cielo, gli uccelli si posavano sulle torri.Tuttavia l’albero continuò:

“Ma questo essere vive sulla strada. Dunque si nutre, fa domande.Aspetta una risposta”.Il Muro tacque a lungo. Poi però iniziò a parlare adagio, quasi di ma-lavoglia. Così hai paura di me, e fai bene. Presto morirai. Ma saicom’è difficile vivere a questo mondo per me, che del mondo sono ilbaluardo, per me, che non ho mai infranto le mie promesse? Perfinosotto minaccia di morte. E disse che lui, il Muro, era sempre bensaldo, sapeva a cos’era predestinato e non cedeva né alle minacce, néalle promesse. Cervello e ferme convinzioni. E coscienza pulita.“Io sono il Muro bianco” sottolineò.E si mise a spiegare tutte le astuzie degli uomini. Una volta, disse, trai miei simili ci fu un caso, la gente se ne stava perfettamente al sicu-ro dietro un muro tale e quale a me, quand’ecco, i nemici cheassediavano la città lasciarono davanti al portone un giocattolo dilegno, un cavallo delle dimensioni di un elefante, e se ne andarono.E i difensori della fortezza si rallegrarono del cavallo ricevuto indono, schierarono tutto l’esercito e sotto la sua protezione lo trasci-narono all’interno del muro. Su questo cavallo si può andare comesu un cocchio, esultavano.Sì, continuò il Muro dopo una pausa. È così facile ingannare l’uma-nità rifilandogli un nuovo giocattolo!Ed ecco, di notte dal cavallo uscirono assassini armati e trucidaronotutte le guardie addormentate. La città fu presa, il muro distrutto.L’albero rispose che conosceva quella storia. La città si chiamavaTroia. Sotto l’albero a volte si fermavano gruppi di turisti, e c’eranotante di quelle cose da ascoltare. Ma anche voi siete stati assediati?Certo, rispose il Muro. Quante ferite sono state inferte! Adesso sonoliscio e bianco, ma ho avuto anche un fianco squarciato da una brec-cia. Attaccavano, lanciavano granate. Allora l’albero chiese, ma perché? Perché dovevano attaccare? Checosa custodisci là dentro?Il Muro rispose lentamente che custodiva in sé il segreto della vita.

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L’uomo che aveva paura del genere umano

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Il segreto della vita di chi? chiese l’albero. Anche della mia?Il Muro tacque a lungo. Dopo quelle sue parole tanto gravi non si do-veva aprire bocca per almeno un anno! E tanto meno fare domande!A lungo tacque. E la notte calò sulla città, e sorse l’alba. E allo spun-tar del giorno l’albero ripeté ingenuamente la sua domanda.Il Muro rispose stizzito:“Io conservo il segreto della vita di tutti, di tutto il popolo, capito?”In quell’istante, al di là del Muro echeggiò lo scalpiccio di molti sti-vali, uno scalpiccio uniforme, chiaro. E in mezzo a quel rumore sidistingueva un fruscio di piedi malfermi appartenenti a chissà chi. Eun pianto semi-soffocato. E un mormorio di preghiere.La prima luce del giorno illuminò le strade silenziose.Sul mondo calò il silenzio.Il Muro disse:“Non fosse per me, non ci sarebbe nulla. Né la vita, né la gioia, né ibambini. Né le famiglie. Né le scuole, né gli ospedali. Proprio ni-en-te. Io sono il Muro bianco, di un bianco immacolato, fedele al suosacro dovere. Io sono colui che è rimasto in difesa di questo mondo.Non fosse per me, il mondo annegherebbe nel sangue. Tu saresti ri-dotto da un pezzo a legna da ardere. Nessuno arerebbe eseminerebbe, lavorerebbero soltanto i venditori di armi. A proposito,ci sono interi continenti in cui regna soltanto il venditore d’armi”.L’albero rispose:“Io conosco il tuo segreto. Una settimana fa è passato di qua un altrogruppo di turisti. Parlavano di te, dicevano che sei una prigione. Per-ché le prigioni sono dappertutto, perfino dove sono in corso leguerre! In certi posti ormai le prigioni sono piene fino a scoppiare, ea questo punto una guida ha raccontato la storia dei luoghi di reclu-sione. La gente ci rimane tutta la vita, e senza motivo, a volte soloper la nazionalità”.“Ciò non mi riguarda, rammentalo. Io non sono una prigione, mac-ché, sono il Muro bianco, nobile, santo.”

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C'era una volta un uomo ricco, ma così ricco che era costretto a te-nere i suoi soldi stipati dentro un'enorme vecchia miniera blindatae presidiata da un esercito privato. Quest'uomo, a un certo puntodella sua vita, ebbe paura degli altri uomini. Il fenomeno si svilup-pò in due momenti: il primo fu quando un irrefrenabile terrore locolse davanti agli sconosciuti e lo costrinse a chiudersi in casa, il se-condo fu quando lo stesso incontenibile terrore lo vinse alla vista deipochi amici che aveva. Allora capì che era l'intero genere umano ametterlo in quello stato.Non temeva che gli rubassero i soldi, non temeva che lo sequestras-sero per ottenere un riscatto miliardario, non temeva chel'uccidessero durante qualche rivolta popolare, no, la sua era unapaura generica, assolutamente immotivata e perciò tanto più insop-portabile. La sola vista della cameriera che alla mattina veniva aservirgli la colazione a letto lo faceva subito nascondere sotto le co-perte, tremante e sudato.Viveva in una grandissima villa di campagna con ampio parco tuttointorno ed era accudito da segretari, cameriere, camerieri, cuochi,sguatteri, giardinieri, autisti.

Come primo provvedimento, licenziò gran parte del personale, a co-minciare dagli autisti, dato che aveva deciso di non uscire più dallavilla, e dai segretari, che sostituì con dei computer.Quindi dal maggiordomo, per il quale provava un po' meno pauradato che era stato il maggiordomo di suo padre, fece diffondere un

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Poté riprendere possesso della sua villa dopo un anno. Dato cheormai c'era dovunque buio fitto, doveva tenere la luce sempre acce-sa. Anche nel parco. Dove, com'è naturale, le piante e gli alberi,passato appena un altro anno, cominciarono ad ingiallire.

Poi, una notte, si scatenò una sorta di terribile ciclone. Il vento sol-levò una parte delle tegole e scavò un gigantesco buco nellacopertura.Sicché il ricco, svegliatosi la mattina dopo, vide irrompere nuova-mente la luce del sole nella sua camera da letto. Ma da quell'enormebuco potevano entrare tutti gli uomini che volevano! Era un perico-lo tremendo! Che fare? Ordinare una copertura d'acciaio? Orestringere lo spazio che lo circondava? Optò per questa seconda so-luzione.Chiamò nuovamente i muratori e, mentre lui se ne restava chiusodentro la villa, si fece costruire una stanza nel parco di tre metri pertre, col tetto d'acciaio, dove andò stabilmente a vivere.Di tutti i robot che aveva a disposizione, tenne solo il robot-cuocoche era anche in grado di andare a prendere quello che i fornitori la-sciavano davanti all'unico cancello telecomandato, gli altri liabbandonò nella villa.

Ma una notte udì venire da fuori strani rumori. Socchiuse la porta evide che i ladri stavano saccheggiando la villa. Dovevano essere en-trati approfittando del momento nel quale il cancello era restatoaperto per permettere al robot di ritirare i rifornimenti.Lo colse un atroce pensiero. E se i ladri venivano ad assaltarlo dinotte dentro la sua stanzetta? Sarebbe stato costretto a vedere degliesseri umani! Doveva assolutamente evitare quel rischio. Ma comefare? Ci pensò tre giorni e tre notti di seguito, poi credette d'aver tro-vato la soluzione. Si fece costruire due muretti alti quarantacentimetri e lunghi due metri, chiusi da una parte da un muretto

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ordine di servizio che stabiliva un preciso orario per tutti i dipenden-ti in modo che, se gli veniva per esempio la voglia di fare unapasseggiata nel parco, non incontrasse nessun giardiniere, e neppu-re incrociasse nei corridoi qualche cameriera durante gli spostamentida una camera all'altra.

Subito appresso, ordinò che il muro che circondava la villa e ilparco venisse alzato da due a sei metri riducendo a una le tre aper-ture d'accesso e contemporaneamente mandò a chiamare il piùgrande esperto del mondo in fatto di robot ordinandogli tutta unaserie di automi che potessero completamente sostituire il personaledella villa.

In capo a un anno i robot gli vennero forniti e lui poté licenziaretutti, vecchio maggiordomo compreso.Certo, all'inizio andò incontro a degli inconvenienti con quel centi-naio di telecomandi che ancora non conosceva bene. Certe mattine,invece di veder comparire il robot-cameriera con la colazione, laporta veniva spalancata dal robot-giardiniere che, manovrando mi-nacciosamente una falciatrice, lo inseguiva di stanza in stanza.

Comunque, ora si sentiva al sicuro. Senonché un giorno, passeg-giando nel parco, notò, al di là del muro di cinta, un uomo dentroil gabbiotto di una gru assai più alta del muro stesso. Atterrìto, ordi-nò che la recinzione venisse alzata fino a cinquanta metri.Dopo un mese che i lavori erano finiti, una mattina d'estate, men-tre si stava facendo il bagno in piscina, passò, bassissimo sulla villa,un elicottero. L'uomo che aveva paura dei suoi simili balzò fuori dal-l'acqua e si gettò a corpo morto sotto una macchia di cespugli. Poi,sconvolto, attaccatosi al telefono, ordinò l'immediata costruzione diun tetto in muratura che coprisse la villa e il parco.Durante i lavori, visse in cantina circondato dai suoi robot.

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Giovannino e il re

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della stessa altezza. Così lui poteva entrare strisciando nella nuovaabitazione dalla parte senza muretto che però, una volta dentro,avrebbe potuto richiudere dall'interno con una lastra di pietra.Era una stanzetta che somigliava tantissimo a una tomba. Ma luinon se ne rese conto.Dopo appena due notti che ci dormiva, ci fu una leggera scossa diterremoto e un grosso masso rotolò fino a ostruire del tutto l'aper-tura della stanzetta.

Fu così che l'uomo che aveva paura del genere umano si tramutò infantasma. Un fantasma che, naturalmente, aveva terrore degli altrifantasmi. Ma non poteva farci nulla perché, com'è risaputo, i fanta-smi passano attraverso i muri.

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”Allora lei sa davvero attraversare i muri? Sarà all'altezza della famache la precede?” chiese il re. “L'ho invitata per far divertire e stupirei miei ospiti, gente del mio mondo, quello della comunicazione. Te-levisione, computer, internet. Ecco, questo, per esempio è un murotutto di marmo, e al di là c'è la sala conferenze.”“Ho capito” disse Giovannino. “Prego, vada in quella sala, la rag-giungerò subito.”

E così successe. Il nostro Giovannino attraversò il muro propriocome Alice attraversò lo specchio e, sbucato dall'altra parte, allargò lebraccia e fece un inchino, come un ginnasta sulla trave d'equilibrio.

E così Giovannino trascorse un mese intero in quell’accogliente pa-lazzo, esibendosi in un repertorio completo di uscite dal muro, eriscuotendo applausi che, di solito, questi professionisti della comu-nicazione risparmiano, come gli ippopotami risparmiano uncomportamento altezzoso. Una volta, per esempio, dopo una infini-ta e noiosa conferenza sulle sitcom televisive, non appena ipartecipanti si spostarono nel salone, Giovannino fu incaricato diservire la cena. Una piccante zuppa cinese e salmone alla brace. Gio-vannino prese i vassoi pieni di ciotole ricolme e piatti strapieni eattraversò lo spesso muro piastrellato dalla cucina alla sala da pran-zo, e qui, quando apparve col suo carico di vassoi ben bilanciato suentrambe le mani, riscosse un caloroso applauso. Il caffé, poi, veni-va servito di solito nel salone con il camino, dove sulle paretitutt'intorno erano appesi i ritratti dei fondatori dell'industria televi-siva e di importanti imprenditori del software. Giovanninos'ingegnava di attraversare i muri del salone in modo da uscire diret-tamente da qualche ritratto, ovviamente nelle vesti del fondatore odell'imprenditore in questione. E come ciliegina sulla torta, rendevaoriginale, con qualche dettaglio birichino, ogni personaggio eccel-lente. Una volta per esempio, divertendo molto maliziosamente i

presenti, uscì da uno dei ritratti nei panni di Bill Gates, ma con lelunghe orecchie del mitologico re Mida.

Ma il tempo di Giovannino a palazzo finì, il contratto era scaduto.Ma proprio in quell'ultimo giorno il re volle parlare nuovamente aGiovannino.

“Lei è veramente bravo” lo lodò. “Non solo sa attraversare i muri, maè anche un gran birichino.”“Ho poi notato che in quest'ultimo mese non ha davvero sprecatotempo ed è entrato in confidenza con mia figlia. Vuole forse fuggirecon lei da qualche parte e, contro la mia volontà, sposarla? O solodisonorarla e abbandonarla?" indagò il re. Giovannino fece di no con la testa. “Né l'una né l'altra cosa, l'ono-re di un artista non tollera simili bassezze!”“Ma proprio qui è l'errore, Giovannino. Lei ancora non ha capitoche il motivo principale del mio invito, qua, non è l'attraversaremuri di pietra, di mattoni o di cemento. Si, mio caro Giovannino,esistono muri ben più difficili da attraversare, superando i quali puòdavvero guadagnarsi grandi riconoscimenti. Lei non è che un atto-re, un giullare, e io sono il re del mondo della televisione e diinternet, lei è solo un poveraccio e io sono tra i dieci uomini più ric-chi e potenti di questa terra. Ora vede il muro che ci separa?”Il re allungò la mano e diede delle pacche sulla spalla di Giovanni-no. “E ora questo muro tu lo puoi attraversare, scappando con miafiglia...”Ma Giovannino fece di nuovo di no con la testa. “Ma non c'è piùdifficoltà se è lei stesso che me lo propone, se è lei stesso che mi apreil muro…” “E bravo Giovannino, sei un ragazzo sveglio! Allora va bene, fuori ilrospo: ho in mente un muro invisibile un tantino diverso” ammisefinalmente il re. “Giovannino, viviamo in un mondo in cui le prin-

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cipesse corrono dietro ai fotoreporter e i principi s'innamorano dellecommesse del supermercato. E così cadono antichi, ma davveromolto antichi muri. Ed ecco che tutto questo rende più umane le an-tiche monarchie, offrendo un'immagine che consente ai loro regnidi riscuotere la simpatia del popolino. E siamo giunti al motivo peril quale ti ho chiamato. Vorrei ingrandire e ingrandire e ingrandireancor di più il mio regno. Ma purtroppo inizio già a scontrarmi con-tro un muro di incomprensioni. Ci sono infatti coloro chesostengono che la televisione, i computer e internet sono si, ottimiservitori, ma guai se cominciassero a governare... Perciò cerco stru-menti con i quali sfondare per tempo questo muro. E anche tupotresti essere uno di questi arieti, Giovannino. Se tu ora fuggi conmia figlia, io fornirò poi a questo scandalo famigliare un'adeguatacopertura televisiva, e ne ricaveremo un enorme capitale mediatico!La gente sai, Giovannino, ama moltissimo queste cose, e rimarrai abocca aperta nel vedere come tutto ciò ci renderà meravigliosamen-te più umani, e come ci darà un'immagine immortale!”

Ma proprio in quel momento Giovannino si agitò nervosamente erovistando nella tasca ne estrasse lentamente un con...

“Che cos'è?" esclamò D.H. “Cos'è successo?!” E guardò il monitor,sul quale quella story, quella telenovela su Giovannino e il re s'era in-terrotta proprio nel bel mezzo di una parola. "Adesso come farò asapere che cosa ha tirato fuori Giovannino dalla tasca?! Con..oCon...to Con..torno Con...gegno?" D.H. provò poi a muovere ilmouse e a cliccare su varie icone e cartelle, ma la telenovela sull'at-tore e il re non apparve più."Giovannino è poi fuggito con la figlia del re? E alla fine il re orga-nizzò per loro uno splendido matrimonio? O adesso vivono in unaqualche baraccopoli, in una casa di cartone per imballaggi? Come losaprò adesso? E poi, che cosa tirò fuori Giovannino dalla tasca?"

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Dal muro alle stelle

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D.H. girò lentamente la testa e si accorse che a qualche metro da luiera seduta una persona davanti a un altro monitor. Ci pensò un at-timo e poi cautamente si alzò e cercò di avvicinarglisi. Ma quello, ilviso rivolto verso lo schermo, lo scorse con la vista periferica e lomise in guardia con sibilo.

“Scusa, volevo chiederti un consiglio. Sono D.H., tuo fratello.”

“Non sei affatto mio fratello” sibilò F.H. “Non esistono più fratelli.C'è solo Il Grande Fratello!"

D.H. tornò al suo monitor e provò di nuovo e vanamente a cercarequella story, quella telenovela interrotta. Poi, con prudenza, guardòa sinistra e anche là c'era qualcuno seduto davanti al proprio scher-mo. D.H. riflettè di nuovo e, dopo qualche esitazione, provò anchecon quello a sinistra. Ma anche quello sibilò per avvisare, e D.H.reagì come se avesse urtato contro qualcosa e tornò velocemente alproprio monitor.

E nel punto culminante del racconto, D.H. non potè vedere quelloche noi ora vediamo: sia a sinistra che a destra soltanto una lungafila, si, una fila senza fine di persone che siedono davanti ai proprischermi, ai propri monitor, e nella maggior parte dei casi non vedo-no nemmeno con la vista periferica, separati da muri invisibili.

E adesso manca solo una risposta per i curiosi più ostinati. Ah sì, maGiovannino cosa ha tirato fuori dalla tasca (e poi messo in bocca)?Ma per forza un con...fetto! E allora? Avevate azzeccato?

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per mano, sorridenti, cominciarono a raccontare a turno la storiache avevevano il compito di narrare.“Il muro è il simbolo della paura. Gli antichi avevano bisogno dimuri per proteggersi da coloro che erano diversi. A volte costruiva-no muri perché gli altri non potessero entrare, altre volte li alzavanoaffinché quelli che stavano dentro non potessero uscire. E cercavanodi convincerli che si trattava di una misura presa per il loro bene, perla loro sicurezza, dato che vivevano in un luogo meraviglioso, invi-diato e desiderato da quelli che stavano fuori. I muri servivano perrinchiudere fisicamente le persone, per togliere loro la libertá.”“Quelli che erano nati dietro il muro dovevano rimanere dov’era-no. Quelli che invece erano nati in altri luoghi potevano viaggiarein un territorio molto più ampio, ma non potevano attraversarecerti muri. Quelli poi che vi erano stati rinchiusi, come castigo dovevano scon-tare la privazione di libertà cui erano stati condannati. Ladisubbidienza era punita con la morte.”“Gli antichi non erigevano solo muri di pietra per separare fisicamen-te le persone, ma fabbricavano anche muri mentali che separavano unpopolo dall’altro, una casta dall’altra, un sesso dall’altro. C’erano luo-ghi in cui gli uomini non potevano convivere con le donne. In altri,chi era più ricco era totalmente separato da chi era più povero. In altriancora, i muri mentali dividevano chi aveva potere da chi non neaveva, e chi credeva nelle divinità da chi aveva fede soltanto nelle cosevisibili. Il mondo era pieno di muri di ogni tipo, di ostacoli all’unio-ne. Furono questi i muri più difficili da abbattere quando cominciòil cambiamento, il Pensiero Nuovo, che dobbiamo a Frida.”“Quando era ancora all’asilo e giocava con i pezzi delle costruzioni,Frida, mentre gli altri bambini facevano castelli e fortini, decise dicostruire un giardino. La maestra le disse che avrebbe dovuto circon-darlo con un muro per proteggere i fiori, ma Frida rispose che leivoleva che i suoi fiori fossero liberi e godessero di un bel panorama.”

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Il Muro si trovava su di un’isola fiorita, unita al resto del parco dadodici ponti di stili e colori diversi. Era uno dei monumenti piú an-tichi del pianeta, ciò che restava di una muraglia che, ai suoi tempi,era lunga settemilatrecento chilometri ed era stata riparata e difesaper piú di mille anni. Gli uomini dei secoli passati credevano ferma-mente nella necessità di costruire muri per proteggersi da altriuomini, quelli che avevano un altro colore della pelle, altre creden-ze o un’altra lingua.Di solito il parco era un luogo tranquillo, perché solo alcuni gruppidi studenti con i loro maestri avevano il coraggio di fare il lungoviaggio che conduceva fino a lì. La maggior parte della popolazione,invece, preferiva la visita virtuale. Quella mattina di primavera,però, un’autentica moltitudine si era spinta fino al parco per vederecon i propri occhi la cerimonia di adesione del pianeta Terra alla Fe-derazione dei Mondi, la grande Ekumene.Accanto ai ruderi del muro era stata installata una tribuna circolarecon dodici poltrone sulle quali, sotto la luce dorata di maggio, eranoseduti sei umani e sei extraterrestri provenienti da diversi sistemi so-lari. Due di loro avevano bisogno di abiti speciali per adattarsi allecondizioni del pianeta che li accoglieva, e avevano un aspetto moltodiverso da quello umano.La prima parte della cerimonia -un concerto e uno spettacolo acro-batico- stava terminando. In un corridoio laterale, dodici bambini ela maestra si preparavano a uscire sul palco per interpretare il ritua-le con cui il pianeta Terra avrebbe dimostrato di essere all’altezza difare parte della Federazione. La terza parte l’avrebbero svolta il dele-gato umano e il delegato dei mondi: la firma del trattato di adesionealla Ekumene.

I bambini salirono sul palco consapevoli dell’importanza della loromissione, del fatto che rappresentavano tutta l’umanità. Tenendosi

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“Fu allora, si racconta, che invece di fare un muro intorno al suogiardino, Frida raccolse i pezzi e cominciò a disporli uno dopo l’al-tro, orizzontalmente, per creare sentieri, strade e ponti che unisserole costruzioni dei suoi compagni. E poco dopo pronunció la fraseche sarebbe diventata il seme del grande cambiamento: “Con glistessi materiali si possono costruire sia muri che ponti”.Appena pronunciata la frase di Frida, cominciarono a suonare flau-ti e tamburi e i bambini iniziarono a muoversi al suono della musica,cantando frasi che riassumevano il pensiero umano ora che il piane-ta era sul punto di entrare nella grande Ekumene dei mondi.“Quando guardi qualcuno e distogli lo sguardo, alzi un muro. Se loguardi negli occhi e sorridi, getti un ponte.”“Se parli con chi è diverso da te e ascolti quel che ti dice, costruisciun ponte che arricchisce entrambi. Se gli neghi la parola o chiudi leorecchie, alzi un muro e ti ci nascondi dietro, solo e spaventato”“Crediamo nei ponti e abbiamo appena finito di costruire quello checi unisce all’universo.”“Dodici è il numero del mondo: le quattro direzioni moltiplicate perle tre dimensioni. Per questo abbiamo dodici ponti sull’isola e dodi-ci delegati in tribuna.”“Ogni ponte è diverso perché, alla fine, è la differenza a rendere bellol’universo: la varietà di colori, di esseri, di modi di pensare.”“Conserviamo quei ruderi per ricordare che i muri non lasciano ve-dere, separano, fanno credere che dall’altra parte ci sia il nemico, laminaccia, il cattivo, l’impuro. Per questo le nostre pareti sono mo-bili, trasparenti o traslucide.”“Per questo siamo costruttori di ponti.”I ragazzi rimasero in silenzio, ansimando per lo sforzo, con i visi e lebraccia alzati verso il cielo e un sorriso sulle labbra.Il delegato della Federazione si alzò, mise la maschera traduttricesulla bocca e, facendo il saluto della pace, disse: “È da molto che aspettiamo questo momento, per molti secoli gli

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umani sono stati solamente costruttori di muri e la loro è stata unastoria di guerre ed esclusione, come quella di molti pianeti cheadesso fanno parte della Federazione dei Mondi. Ora peró aveteteso un ponte fino a noi e noi siamo felici di accogliervi. Benvenu-ti a Ekumene!”I ragazzi scesero dal palco, sfiniti e felici, lasciando ai politici il com-pito di concludere la firma del trattato che avrebbe unito la Terra alresto dei mondi abitati.“Tu credi che tutti quegli extraterrestri siano davvero come noi?”sussurrò uno dei ragazzi alla sua migliore amica.Lei alzò leggermente le spalle.“Questo è quello che dicono. In ogni caso, i due che indossano l’abi-to protettivo sembrano tutto fuorché umani.”“Meno male che dormiamo da un’altra parte!” esclamò un’altrabambina con un sorriso birichino. “Credo che morirei di paura adaprire gli occhi la mattina e vedere la loro faccia.”“La verità è che, a volte, gli antichi non avevano tutti i torti ad alza-re muri.”Tutti i ragazzi che avevano sentito fecero una risatina contenuta.“Ssst! Che non ti senta la maestra, proprio oggi.”“Non ditemi che non sarebbe giusto mettere i piú brutti dietro i ru-deri per non vederli” insistette la bambina.

Tra le risate, i ragazzi si allontanarono verso gli alberi.

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Nel socialismo era meglio per le ragazze. Non le chiamavano a fareil militare. C’erano padri e nonni così sciagurati da pensare che i dueanni di naja facessero decisamente bene. Imparerete un po’ cos’èl’onore! Col cavolo, pensavamo noi. Avevamo fatto tutto il possibi-le affinché fosse qualcun altro a imparare cos’è l’onore nell’esercitopopolare della Repubblica Popolare d’Ungheria, non noi. Soluzionie ricette segrete passavano di bocca in bocca. Frantuma dieci gesset-ti bianchi, scioglili in un bicchiere d’acqua e bevi il tutto prima diandare alla visita. Quella mattina bevi venti caffé fortissimi. Fingi diessere epilettico (o schizofrenico, o psicopatico) – la parte dell’epi-lettico è quella vincente, se riesci a tenere in bocca un po’ di schiumadi sapone da posare sugli angoli delle labbra al momento giusto. Ri-media un certificato medico con diagnosi di infarto, ictus, fratturabilaterale della clavicola.Non avevamo mai incontrato nessuno che fosse riuscito a evitare laleva con uno di questi metodi, ma credevamo fermamente che, sefossimo stati abbastanza bravi, noi ci saremmo riusciti. Ma nonfummo abbastanza bravi. Per fortuna, quando compimmo i 18 anni, avevano già introdottola leva preuniversitaria. Chi, pur essendo maschio, riusciva a otte-nere l’ammissione all’università, veniva arruolato prima di iniziaregli studi, ma solo per un anno. Il che, tutto sommato, fa una belladifferenza.Kalocsa si trova a cento e rotti chilometri a sud-est di Budapest. Ep-pure a quei tempi ci volevano quattro, cinque ore di treno perarrivarci. Partivamo dalla cadente stazione di Józsefváros, poi dove-vamo cambiare e aspettare a lungo la coincidenza in una città dicampagna. Il vecchio treno locale di tre vagoni, che raramente par-tiva in orario, prendeva la rincorsa per ben due volte per riuscire ainerpicarsi sulla collina. D’inverno i vagoni erano riscaldati da unastufa nera, di quelle all’antica, che il controllore riempiva di carbo-ne. Dalla piccola stazione di Kalocsa c’erano ancora da fare tre

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va con una lentezza sempre più assurda. Anzi, sembrava fermo. Main qualche modo, siamo arrivati alla fine del tunnel. Quando insie-me ai compagni congedati siamo scesi dal treno alla stazione diJózsefváros, abbiamo giurato solennemente di non mettere piùpiede a Kalocsa per tutta la vita, anzi nemmeno nella sua cadentestazione. I paesi che si raggiungevano passando per quel posto, pernoi avevano smesso di esistere.Tu avevi mantenuto il giuramento. La tua vita andava avanti comeun vagone trainato da una locomotiva a vapore sbuffante, lungopaesaggi conosciuti e sconosciuti. Eri stato innamorato, marito,padre, vincitore, divorziato, entusiasta, borsista, depresso, liberoprofessionista, schiavo dipendente, naufrago giunto alla sponda. Madella stazione di Kalocsa non volevi proprio sentirne parlare, neppu-re quando per uno scherzo del destino ti ci mandarono per unviaggio di lavoro, piuttosto ti desti malato. E non mentivi, il solopensare ai luoghi del servizio militare ti faceva star male.Gli altri, però, erano stati capaci di metterci una pietra sopra queibrutti anni della vostra giovinezza. Accadeva spesso, nelle feste conamici, che certi tuoi coetanei si mettessero a raccontare aneddotisui mesi trascorsi nell’esercito popolare, così come si raccontano leavventure liceali. Era come se non avessero sofferto quanto te. Inloro, in qualche modo, la memoria aveva quietato gli orrori. Nondescrivevano i soprusi del quotidiano fascismo di terz’ordine comela caricatura delle tremende esagerazioni del socialismo, in cui uf-ficiali e istruttori ignoranti avevano trasformato la difesa dellapatria. Le loro storie sembravano brani del famoso romanzo “Ilbuon soldato Svejk”.Non capivi come avessero potuto dimenticare: sette di voi eranomorti, tre si erano sparati alla testa durante il turno di guardia, glialtri erano rimasti vittime di incidenti e di errori umani durante leesercitazioni; non è una cosa grave, è una perdita ammissibile, avevadetto X, capitano.

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quarti d’ora a piedi per arrivare alla caserma che si trovava alla pe-riferia del centro abitato.La nostra caserma era cinta sul lato sinistro da un muro, largo mezzometro e alto due e mezzo. Sapevamo che dietro c’erano i russi. Noili chiamavamo ruski. Di loro non vedevamo niente. Né li sentiva-mo. Era evidente che di là non c’erano case a più piani. Abitavanoforse in tende da campo o in tende mongole? La caserma era statacostruita ancora ai tempi di Francesco Giuseppe, edifici cubici di 4piani ai lati di una strada asfaltata. Le finestre davano verso l’inter-no, per cui avremmo potuto spiare i ruski al massimo dai tetti. Suitetti però era severamente vietato salire. Ogni tanto, oltre il muro, appariva una testa umana, generalmentecoperta da un colbacco messo storto. Un ufficiale a cavallo, pensa-vamo. Se provavamo ad avere informazioni dai nostri comandanti,ci facevano chiudere il becco: tabù! Uno dei tenenti arrivò a dire: madi quale caserma sovietica state parlando? Ma come vi viene inmente? Non c’è nessuna caserma sovietica! Ci abitano degli operai!Ungheresi? – chiese qualcuno perplesso. No, albanesi!Mentivano. Cercavamo di indovinare cosa facessero i ruski dietro ilmuro. E poi, a quale arma appartenevano? Se fossero stati carristi,avremmo sentito i rombi dei T-34. Forse informatori? Ma che infor-mazioni potevano raccogliere lì, in quel posto dimenticato da Dio?Sullo spiazzo, dietro la caserma, c’era il campo di addestramento, lìnon ci venivano mai. Come facevano a passare tutti quegli annichiusi là dentro, senza mai mettere fuori il naso?Giravano diverse voci. Che di là, la fuga fosse punita con la pena dimorte, che i colpevoli venissero fucilati sul lato opposto del muro al-l’alba o nelle notti tempestose, quando i tuoni del cielo coprivanoquelli dei fucili. A volte il vento ci portava strani odori di cucina.Zuppa di cavolo, diceva qualcuno. Al pepe. Altre volte arrivavanoodori di cipolla e di pesce bruciacchiato.Man mano che ci avvicinavamo alla fine della leva, il tempo scorre-

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Nonostante tutto, il tempo ti portava inesorabile verso stazioni sem-pre meno note, insieme a te anche i tuoi cari. Tua figlia, per esempio,che portavi in giro in macchina ogni estate per due settimane, almotto di “Scopriamo l’Ungheria”. I paesi esteri li visitava già abba-stanza spesso con la madre. Ve ne andavate a zonzo sempre percontee diverse, dormendo in pensioni, case private o camping, làdove vi sorprendeva la sera. Sceglievate le contee da visitare a sorteg-gio. La terza volta, com’è strana la sorte, tua figlia aveva estrattoquella di Kalocsa. Avevi fatto un sospiro profondo. Beh, è stato tantotempo fa, ormai… fa niente. Nel frattempo in Ungheria avevanoabolito il servizio di leva obbligatorio. Nel capitalismo ormai stannomeglio i ragazzi, sono loro che fregano alle ragazze quei lavori chevalgono qualcosa.Il cuore aveva sussultato quando eri arrivato. Avevi già superato ilcartello che segnalava l’inizio dell’abitato. Eri capitato in una cittàsconosciuta. Non c’era una sola casa o strada che ricordasse quelloche era vivo in te. Dov’era la stazione? Sapevi che si trovava all’ini-zio della via che porta al centro, ma invece eri subito arrivato a unasorta di quartiere, poi in mezzo a una serie di fabbriche. Cosa erasuccesso? Pieno di vergogna avevi dovuto chiedere informazioni aun passante. Ti diede le indicazioni e aggiunse che il reggimento nonc’era più. Come non esiste più? – avresti voluto domandare, ma alletue spalle montava il clamore dei clacson. Ah, ecco. I dintorni della caserma erano stati abbondantemente oc-cupati da edifici, per questo non l’avevi trovata. Avevi lasciato lamacchina davanti all’entrata principale, cosa che a quei tempi nonavrebbe potuto fare nessuno al mondo. Eravate scesi. Il recinto, ilcancello di ferro, la strada asfaltata e gli edifici erano al loro posto,ma, a detta del cartello, al posto del reggimento ora c’era un Centrodi Aggiornamento Professionale per militari. La sentinella vi avevasalutato amichevolmente, e vi aveva offerto con premura ogni infor-mazione – ai vostri tempi non avrebbe potuto rivolgere la parola a

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nessuno e sarebbe stata obbligata ad annotare la targa di ogni veico-lo. Qui tengono dei corsi, aveva spiegato, per i militari di carriera.Avevate indugiato per qualche minuto. Tua figlia voleva andar via,aveva fame. È stato allora che ti sono venuti in mente i ruski. Ce l’haicondotta tenendola per il braccio. Dio mio… Lo spesso muro sventrato sul davanti, e… niente diniente, a eccezione di una casetta che sembrava una portineria. Al-beri alti. Un bosco… cresciuto da allora. Eri rimasto impietrito.Dalla casetta era uscito il portiere, un uomo della tua età, dall’aspet-to amichevole. Venite dal Municipio? Avevi fatto no con la testa. Midica, per favore, qui c’era una caserma rusk… sov… russa? – avevicominciato balbettando. No, qui c’è sempre stato un aeroporto, en-trate, potete dare un’occhiata in giro. In effetti dietro l’ombra deglialberi si ergeva solitario un hangar, basso e di grandi dimensioni, estrette piste di decollo si diramavano in tre direzioni. La striscia dicemento presentava già delle crepe, ma i fari luminosi erano al loroposto come le solite strisce e scritte che si trovano negli aeroporti.Ora il Comune svende tutto, aveva detto l’uomo, se a qualcunoserve un aeroporto gli fanno un prezzo d’occasione. Un aeroporto? Non avevi mai sentito un aereo decollare o atterrare,mai niente rullare sulla pista. Che assurdità.Lo stomaco di tua figlia brontolava. Vi siete salutati. Sulla portine-ria avevano scritto, a pennello con lettere rotonde, che l’aeroportoera in vendita, e sotto un numero di cellulare. Eri indeciso se anno-tarlo o meno. Ma no, a che ti serve un aeroporto, di sicuro non qui,per quanto il prezzo possa essere d’occasione.

Da allora non sei riuscito a trovare una spiegazione razionale. Comenon ne esiste una per i segreti che emergono dalla tua remota gio-vinezza.

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mio saluto non ottenne risposta – ricordo precisamente l’insieme disgomento e compassione con cui l’avevo guardata dall’alto in basso.

Ogni volta che, nel corso degli anni seguenti, vidi Margarete Schnei-der dirigersi verso la brughiera o tornare da lì con un gruppo dibambini dell’asilo, mi pareva di intuire chiaramente che quelladonna viveva senza gioia né felicità, pur se in un’enorme villa anti-ca, il cui ampio giardino confinava con la brughiera di Dresda. Ladomenica andava in chiesa con i genitori, a Natale sedeva in primafila, la più vicina al parroco e al pulpito, e cantava a voce spiegata: Esist ein Ros entsprungen. Alla fine, allungava tra le file il sacchetto perla colletta, fissato a un bastone, come se potesse servire anche a co-gliere le mele dalle chiome degli alberi.

Durante il periodo della leva e degli studi universitari, la persi divista. Tornavo a casa raramente. A Natale preferivamo fare passeg-giate anziché andare in chiesa, anche perché spesso, in quel periododell’anno, avevamo ospiti, colleghi stranieri di mia madre. Ho, ilvietnamita, deve essere stato da noi nel Natale dell’85.

Rividi Ho varie volte in seguito. Avevo cercato di procurargli unabici da escursione con le ruote da 26 pollici, il che non era stato pro-priamente facile. Ma quando la vide, Ho si limitò a scuotere la testae uscì dal negozio col sorriso sulle labbra.

Ieri ho chiesto a mia madre se ricordava come si erano conosciuti Hoe Margarete Schneider. “Probabilmente era una mia paziente” mi hadetto “e io le chiesi della macchina da cucire.” Margarete Schneiderpossedeva una macchina da cucire meccanica. Poiché non le servivapiù, la regalò a Ho, che ne fu felicissimo. Ora, finalmente, potevaprender moglie nel suo paese! Grazie alla macchina da cucire, anchela futura sposa avrebbe avuto di che guadagnare.

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Ho rivisto Margarete Schneider tre giorni fa, nel vecchio cimitero diKlotsche, a Dresda, mentre andavo a visitare la tomba dei mieinonni, poco prima della riunione con i miei vecchi compagni discuola. Margarete Schneider non era sola, ma in compagnia di unuomo giovane ed elegante, dagli occhi a mandorla. Quel che so diloro due, lo so dai compagni di classe di allora e da mia madre. È unsapere incompleto, provvisorio. Almeno così spero: mi piacerebbeinfatti saperne di più sul conto di Margarete Schneider.

Margarete Schneider era stata la mia maestra d’asilo. La signorinaSchneider, come veniva chiamata allora – deve essere stato il ‘68 ol’inizio del ’69 – si era poi congedata da noi bambini. Si trasferiva,non so dove, né perché. All’epoca non fu per me un dispiacere. Dirado, quasi mai, aveva accennato a un sorriso, men che meno a unarisata; e quando capitava, le si disegnavano tante rughe sul viso dal-l’aria tonta – la zona del naso tesa in modo spropositato. Avevainoltre mani dure, ossute e forti. Mi faceva sempre male, quando miafferrava per spostarmi in un altro banco.Provo a figurarmi come sarebbe abitare ancora lì dove sono cresciu-to. Vedrei le cose in altro modo se i tragitti che facevo per andare ascuola, alla fermata del tram, al cimitero o alla brughiera di Dresda,mi fossero ancora così familiari?

Avevo quindici anni, quando rividi Margarete Schneider per laprima volta. Lunga e sottile, camminava in mezzo ai genitori in di-rezione della chiesa. A parte la sorpresa di scoprire che la mia vecchiamaestra d’asilo andava in chiesa, quella domenica mattina provai,per la prima volta, l’effetto che fa l’improvvisa ricomparsa di qual-cuno che si è perso di vista per otto o nove anni. Mi assalì unacoscienza inedita del tempo trascorso e ne ricavai un senso di supe-riorità. Eppure, Margarete Schneider mi era parsa anziana dasempre. Benché le avessi fatto solo un breve cenno con la testa – il

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anche di una mezza dozzina delle case più belle ai margini del bosco.Il nonno, negli anni ’30, aveva registrato diversi brevetti grazie aiquali si era arricchito. Il padre, ancora nel ‘90, aveva venduto duecase a un prezzo vantaggioso, le altre le aveva finemente ristruttura-te, mostrando una mano felice anche nelle aste giudiziarie. Tutto aun tratto Margarete Schneider era milionaria in marchi occidentali.

Eppure mai si concesse a un altro uomo, né mai mancò a una messa.Si recava in chiesa camminando in mezzo ai genitori con SebastianHo, il quale, quando non era fasciato in un abito scuro, indossavaalmeno una camicia bianca. Stando ai miei compagni di scuola, orache gli Schneider erano conosciuti da tutti, dovevano continuamen-te rispondere al saluto.Sebastian Ho Schneider è adesso proprietario della ditta immobilia-re Schneider&Schneider, compresa la sua decina e più di dipendenti.

Tre giorni fa, quando prima della riunione con la classe ho visto quelgiovane dagli occhi a mandorla al fianco di Margarete Schneider, nonsapevo ancora nulla della benedizione del denaro. Ho solo notato illoro bell’aspetto. A essere sincero, mi sono parsi vere e proprie maestà.Sebastian Ho è alto esattamente come la madre, che si teneva al suobraccio. Il tempo ha attutito l’aria tonta del suo viso; anzi, a chi nonl’abbia conosciuta prima, la mia descrizione potrebbe sembrare deltutto fuori luogo. Mi sono fermato per lasciare il passo a madre e fi-glio lungo la stretta via. Per un attimo ho pensato che MargareteSchneider, proprio lei, è riuscita a dare al tempo un’altra direzione, ainvertirne il corso. Ha ricambiato il saluto, senza riconoscermi. AncheSebastian Ho mi ha fatto un cenno con la testa. Sono stato incerto serivolgerle o meno la parola, chiederle di Ho. Di lui i miei compagnidi classe non sapevano nulla, neanche mi hanno detto che MargareteSchneider è divenuta nel frattempo deputata del Parlamento Regiona-le. Solo li ha turbati che il mio unico interesse fosse lei.

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L’ultima volta che ci incontrammo, accompagnai Ho alla fermatadel tram. Mi raccontò della guerra. Ricordo ancora i frammenti diun episodio. La sua unità ricevette una razione straordinaria, poiebbe l’ordine di raggiungere a nuoto una nave, trasportando unamina. Non so se ne riporto una versione esatta; è tanto tempo chenon penso più a Ho. Aveva parlato in tono concitato, scoppiandospesso a ridere prima di attaccare una nuova storia.

Infine venimmo a sapere. Lungo il tragitto domenicale verso la chie-sa, Margarete Schneider aveva un colorito singolarmente pallido, gliocchi cerchiati da ombre nere, un’aria ancor più tonta del solito.Solo la pancia era enorme e quasi a punta.Diede alla luce un maschio, Sebastian Ho Schneider.

Dopo la caduta del Muro, già nel maggio del ‘90, in occasione delleprime elezioni comunali, Margarete Schneider fu eletta come candi-data della Unione Democratico Cristiana nel Parlamento di Dresda.Divenne la beniamina degli strateghi della campagna elettorale,grati a chiunque non fosse stato nella Unione già prima dell’89.Margarete Schneider seguì corsi di formazione, scoprendo in sé untalento da oratrice. I suoi discorsi suonavano invero sempre un po’come prediche. Ma la gente le credeva. “Sa comunicare in modopersuasivo le esperienze dure che ha vissuto” recitava la cronaca diun giornale. Margarete Schneider parlava della prevaricazione onni-presente, della repressione dei credenti, delle tremende imposizionisubite da maestri e insegnanti negli asili e nelle scuole della Repub-blica Democratica Tedesca. Sui manifesti elettorali sorrideva,lasciando trasparire solo due piccole rughe, a destra e a sinistra degliangoli della bocca. Divenne la vicepresidente del Consiglio Comu-nale, delegata fra l’altro alla formazione e all’istruzione.La cosa che più di tutte stupì gli abitanti di Klotzsche fu che gliSchneider fossero proprietari non solo della Villa Schneider, ma

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1969Avrebbe compiuto otto anni tra meno di un mese. Certo, era gran-de abbastanza da poter badare a se stesso. Ma loro erano in tre, e luiera a solo in casa, solo e per di più malato. Se ne stava in piedi nelbuio dell'ingresso, con il ticchettio dell'orologio e l’odore stantiodella moquette. Il cuore gli batteva forte. L'unica cosa che lo separa-va da loro era una porta zanzariera, socchiusa, a cui non osavaavvicinarsi: finché fosse rimasto in penombra, loro non avrebberopotuto scorgerlo. A meno che i loro occhi non fossero stati in gradodi vedere al buio. Eventualità più che probabile. Perché una cosa erachiara: di sicuro non erano umani. “Cosa volete?” disse facendosi coraggio.“Nessuno ci aveva avvertito che ci sarebbe stato qualcuno.”“Sono malato”. Stupido, pensò. Non c'era alcun bisogno di dar loroquesta informazione.“Ci hanno mandato i tuoi genitori.”Genitori? Un vago ricordo di loro gli balenò nella mente. Quandoquella mattina sua madre si era chinata su di lui per baciargli laguancia rovente aveva tintinnato con i suoi ciondoli d'oro e sparsol'odore dei sali alla lavanda. Aveva detto: “Sei cresciuto ormai, puoibadare a te stesso.” Suo padre se n'era andato all'alba, come ognimattina, e sarebbe tornato dopo cena. Genitori? Era possibile che cifossero loro dietro quei mostri?

Se fosse riuscito a farli parlare abbastanza a lungo, avrebbe potutoavvicinarsi leggermente alla porta zanzariera e chiuderla senza cheloro se ne accorgessero. Naturalmente, sarebbero riusciti a fendere lazanzariera con i loro artigli; ma se fosse stato possibile distrarli,avrebbe perfino potuto chiudere la porta principale e chiamare aiutoprima che loro fossero riusciti a entrare e disossarlo o decerebrarlo ofargli la pelle in uno qualsiasi dei modi che avevano in testa.Si stava muovendo verso la luce. Potevano vedere le sue ginocchia,ora la sua vita, poi il petto…“I tuoi genitori fanno tutto questo per il tuo bene” disse quello altoin fondo. Aveva una mano a forma di piatto e dall'altra spuntava unalunga fila uniforme di dentini da squalo; sulla testa gli era cresciutauna maniglia. Un altro aveva dieci gambe, di cui otto, corte e tozze,gli spuntavano dall'anca. Il terzo, il più vicino alla zanzariera, era unuovo con pinne al posto delle braccia e garretti che potevano funge-re da gambe. Forse.Mentre si avvicinava alla porta, però, e i suoi occhi si adattavano allaluce del sole che spuntava alle loro spalle, vide: accidenti, non eranoaffatto mostri! Le loro teste a maniglia e gli avambracci a denti disqualo non erano altro che arnesi. Arnesi da muratore: smussi esquadre, morse e cazzuole, raspe e cavalletti, seghe e ganasce. “Entrate” disse in fretta. “Cavolo, entrate!”

I tre uomini lavorarono tutta la mattina senza posa e lui rimase tuttoil tempo seduto in un angolo, con le braccia intorno alle gambe e ilmento sulle ginocchia, cercando di concentrarsi sulla televisione.Solo quello alto fece caso al ragazzo.“Che stai guardando?” gli chiese.“Non lo sai? Non sai che sta succedendo oggi?”“Cosa?”“Cammineranno sulla luna. Lo faranno vedere in televisione.”“Sulla luna?” ripeté l'uomo, meravigliato, continuando a fissare il ra-

di Michael Reynolds

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gazzo. Poi mormorò: “Sai, stiamo solo facendo il nostro lavoro.Cioè, facciamo quello che ci hanno detto di fare”.Il ragazzo si strinse ancora più forte le gambe al petto, appoggiò unaguancia sulle ginocchia e guardò un uomo in tuta spaziale, leggerocome un palloncino, che rimbalzava sulla superficie della luna.

1989“Il ragazzo della storia ero io” dissi. “E avrei preferito di no." Nils sivoltò per guardarmi. "Ma la sua storia è la mia. Quel giorno lasciaro-no solo una stanza senza un muro, quella in fondo alla casa. La miacamera da letto. Al posto del muro misero due porte con due enormiserrature di sicurezza. La porta che conduceva al lato della casa di miopadre sarebbe rimasta aperta solo durante il fine settimana, quandola porta che conduceva al lato della casa di mia madre sarebbe rima-sta chiusa. E viceversa durante la settimana. Il resto della casa, invece,fu divisa in due: non c'era modo di passare da un lato all'altro senzauscire e rientrare da una delle due porte d'ingresso. Io divenni esper-to di silenzi. Premevo l'orecchio sui muri e ascoltavo i silenzi di miopadre durante la settimana e quelli di mia madre durante i fine setti-mana. Quelli di lui erano interrotti da crisi di pianto, quelli di leidalla risata di una donna. Da bambino non sai mai qual è il genitorecon cui desideri davvero stare, né perché. A volte, uno o entrambichiedevano: con chi vuoi stare, con il papà o con la mamma? Daquale lato del muro vuoi stare: questo o quello? Nessuno dei due. Ilmio sogno ricorrente da bambino era avere la capacità di passare at-traverso i muri, come un fantasma. Era terrificante e meraviglioso."Nils annuì.

Le cose erano migliorate da quando avevo incontrato Nils. Eravamoentrambi scappati dai nostri paesi, correndo, urlando e gridandocome se una parte nascosta di noi stesse andando a fuoco e là fuori,da qualche parte, ci fosse qualcosa che ci avrebbe aiutato a estingue-

re l'incendio. Lui dal Sudafrica, io dall'Australia. Eravamo fuggiti aSan Francisco, finendo tutti e due nello stesso sudicio quartiere delcentro, nella stessa pensione per indigenti. E lì eravamo diventatiamici. Di mattina lavoravamo come imbianchini. E negli ultimi trepomeriggi eravamo andati insieme allo stesso bar a bere, a parlare ea osservare gli incredibili eventi che si stavano verificando a Berlino.Ci ritrovammo a parlare di muri.

“Sono nato nello stesso mese e anno in cui è stato posato il primoblocco di cemento che divideva Berlino in zona est e zona ovest.Non avrei mai immaginato che il Muro sarebbe venuto giù così. Maadesso che è crollato, non capisco perché non sia successo prima. Vo-glio dire: c'è mai stato un vero motivo perché fosse lì?”

Nils alzò le spalle. Aveva fatto parte dell'esercito in Sudafrica ma poiera successo qualcosa. Quando ci incontrammo a San Francisco, damesi era andato via senza permesso dall'esercito, dal suo paese, dallasua famiglia, da tutto. Non ne parlava molto, ma tre sere prima, men-tre venivano mostrate le prime scene di persone che dalla GermaniaEst passavano in Germania Ovest, quando le prime immagini di gio-vani che ballavano sopra il muro di Berlino erano giunte fino alloschermo in un bar di San Francisco, eravamo insieme; e lui aveva chi-nato la testa e aveva iniziato a piangere silenziosamente. Dopo, miparlò dell'esercito, del Sudafrica e del perché se ne era andato.

"Suppongo che uno potrebbe anche diventare matto a cercare spie-gazioni per cose che non ne hanno alcuna" disse. Io risposi chesupponevo avesse ragione. Ordinammo un'altra cosa da bere e guar-dammo le scene che scorrevano alla televisione mentre parlavamo. Avolte calava il silenzio tra noi, probabilmente entrambi stavamo im-maginando di stare tra quella marea di persone a Berlino che ballavasulle rovine di quella che era stata la loro prigione.

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2009Memoria e oblio. È qui che inizia la nostra raccolta: con il Presidentedi Didier Daeninckx profondamente colpito dal ricordo dei sognidella sua infanzia felice e dalla consapevolezza che la sua vita è statauna grottesca distorsione di quei sogni dal momento in cui li ha di-menticati. Ed è anche dove 1989 ha termine: Margaret Schneider diIngo Schulze è un deposito degli anni che passano; lei è ciò che abbia-mo dimenticato e ciò che ricordiamo; lei è ciò che cambia e ciò cherimane costante. Resiste a un esame critico. Alla fine, come scrivePablo Neruda, “unica preda, un pesce intrappolato nel vento”. E allafine, il narratore nella storia di Schulze, ridotto quasi a un sussurro daun vago senso di colpa, un diffuso senso di inquietudine, non può faraltro che confessare il suo desiderio quasi vergognoso di sapere anco-ra un po' di più. Non vorremmo forse tutti sapere un po' di più sullanatura di ciò che resta e ciò che si dissolve, su ciò che ricordiamo e ciòche dimentichiamo, su ciò che eravamo e ciò che siamo diventati?

Tra la memoria e l'oblio, tra il Presidente e Margaret Schneider, trail francese Didier Daeninckx e il tedesco Ingo Schulze, otto raccon-ti di muri raccolti in un libro pubblicato per celebrare l'anniversariodella caduta di un muro: il muro di Berlino. Nato nell'agosto del1961, morto nel novembre del 1989. (Suicidio? Omicidio? Morteper cause naturali? Nessuno lo sa).Ho detto celebrare? Una commemorazione, cioè, in spregio al-l'oblio? Onestamente, non so se il ricordare sia quella gran cosa chesi crede che sia; non so se sia più importante che l'individuo sappiaricordare o sappia dimenticare. Ho l'impressione che quest'ultimosia uno strumento più utile nella vita. L'amnesia selettiva, per esem-pio, è il pane quotidiano dello scrittore. Prendiamo il muro nellastoria del bambino solo a casa il giorno in cui Neil Armstrong posepiede sulla luna: se ripenso bene al passato, mi rendo conto ora chenon fu costruito da tre uomini, ma da uno solo, nel corso di qual-

che giorno. E in realtà, nessuno di quei giorni fu il giorno in cui NeilArmstrong camminò sulla luna. Successe quell'estate, ma non pro-prio quel giorno. Inventiamo cose al posto di quelle che abbiamodimenticato. E a volte quello che inventiamo non è affatto male.Per quanto riguarda Nils, lui è vero. Guardammo la caduta del murodi Berlino insieme, in un bar, a San Francisco. Ma non so quantodelle nostre vite ci raccontammo quel giorno. Questo non lo ricordo.

No, non so se per ognuno di noi sarebbe meglio ricordare o dimen-ticare. Ma so che quello che è vero per le persone non è vero per unpopolo. Popoli, comunità non possono permettersi di dimenticare.Dimenticano a loro rischio e pericolo. Dimenticano e rischiano diripetere i loro errori all'infinito. E dove non c'è memoria vivente,come non c'è memoria vivente del muro di Berlino per i lettori a cuiè destinato questo libro, sta agli scrittori e agli artisti smuovere l'im-maginazione, rispolverare il ricordo. Questo è ciò che ciascun autoreha tentato di fare in questo libro. Le idee espresse sono tanto varie evariegate quanto le nazionalità e gli stili degli scrittori stessi. Ciò valea dire: sono tutte giuste, tutte vere, sono tutte opera della memoria.Oppure: sono tutte sbagliate, tutte false, scaturite dalla follia del-l'amnesia selettiva.

Per quanto mi riguarda, so due cose del muro in questione. Prima ditutto, per me rappresenta ora esattamente quello che ha sempre rap-presentato: una tragica mancanza di immaginazione. In secondoluogo, il suo crollo ha dato torto a quelli convinti che la gioia è piùdifficile da comunicare tra le diverse culture ed epoche di quantonon lo sia la tragedia. I ventotto anni in cui il muro è esistito mi sem-brano nulla rispetto alla manciata di giorni in cui è caduto, giorni distraordinaria esuberanza e gioia condivise in tutto il mondo. Hoquasi dimenticato del tutto il muro e il suo sguardo torvo e arcigno.Ma ricorderò sempre i giorni in cui è crollato.

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Costruzione del muro di Berlino: 13 agosto 1961Caduta del muro di Berlino: 9 novembre 1989

• Lunghezza del muro tra Berlino e la Germania Est: 112 chilometri• Altezza: 3,60 metri• Lunghezza dei recinti fortificati e filo spinato: 127,5 chilometri• Altezza dei recinti fortificati: 2,90 metri• Lunghezza del fossato anticarro: 105,5 chilometri• Torri di osservazione: 302• Corridoi sorvegliati da cani: 259

• Persone fuggite dall'est all'ovest dal 1945 al 1961:

· totale: 3,6 milioni· media annuale: 225.000

• Abitanti di Berlino ovest che, fino al 1961,

lavoravano ogni giorno all'est: 12.000

• Abitanti di Berlino est che, fino al 1961,

lavoravano ogni giorno all'ovest: 53.000

• Persone fuggite dall’est all’ovest dopo la costruzione del muro: 616.751

• Persone fuggite da Berlino est a Berlino ovest:

· a piedi, nei primi due mesi nei punti non ancora completamente fortificati: 600· soldati dell'est fuggiti a piedi, nei primi due mesi: 85· attraverso dei tunnel scavati sotto il muro (1962/63): 137· con automobili preparate per nascondere delle persone: 2.000

Altri metodi usati:

· passaporti diplomatici falsi

· mezzi militari pesanti, camion rafforzati, locomotive

per rompere i punti di passaggio

· in molti altri modi, i più fantasiosi

• Persone uccise mentre cercavano di attraversare il muro di Berlino: 1368 sotto i 16 anni, 30 fra i 16 e i 20 anni, 66 fra i 21 e i 30, 10 fra i 31 e i 40

13 fra i 41 e gli 80, 1 giovane di cui non si conosce l’età né l’identità.

• Persone uccise durante e dopo i controlli effettuati alla frontiera: 48

• Persone arrestate nel tentativo di attraversare il confine:

numero imprecisabile, sicuramente molte migliaia.

HENNINGWAGENBRETH

(Germania) Di riconoscimenti come

illustratore ne ha ricevutimoltissimi, ma quello per

Mond und Morgenstern-La luna e la stella

del mattino- è davveroparticolare. È stato infatti

insignito del titolo “Il libropiù bello del mondo”.

Le sue opere, immediate e di grande impatto,

ricordano i graffiti incisi sul muro di Berlino.

Tra i più interessanti e originali illustratori

europei, ha fatto scuola.Anche letteralmente.

insegna infatti VisualCommunication presso

la prestigiosa “Universitätder Künste” di Berlino.

MICHAEL REYNOLDS (Australia) Nelle miniere

della sua Australia e nelle cave della Scozia,

insieme con vene di carbone e di torba hascoperto anche la vena

delle lettere. E così -nonprima però di aver fatto la

cavia in Francia per laricerca universitaria-

ha cominciato a scrivereracconti per giornali e

riviste di vari Paesi. Sunday Special è il titolodella sua prima raccolta

pubblicata. Dopo averinsegnato letteratura

moderna negli Stati Uniti,si è trasferito a Roma.

Caporedattore di EuropaEditions, nel 2006 è uscito

il suo primo racconto per ragazzi, La notte di Q,

illustrato da Brad Holland.

ELIA BARCELÓ (Spagna) Un po’ di fantasy, un pizzico di giallo, senzadimenticare il rosa. Transgenica. Così

viene definita la scrittura di Elia. Un cocktailletterario che piace moltoai palati iberici. Insieme

con l’argentina AngélicaGorodischer e con la cubana

Daína Chaviano, forma quella che è stata definita "la trinità femminile della fantascienza ispanoamericana”.Vincitrice per due volte dell’Edebé BestChildren Book Prize, ha raggiunto il successo internazionale con Il segretodell’orefice, tradotto in sei lingue. Vivein Austria, a Innsbruck, dove insegnaletteratura spagnola all’università.

EINRICH BÖLL (Germania) Purtroppo

la caduta del muro non ha potuto

vederla. Per lui -pacifista intransigente,

assolutamente contrario alle armi

nucleari, sostenitore dei dissidenti

russi- sarebbe stato un giorno di gioia

ancora più grande di quello del 1972

nel quale ricevette il premio Nobel

per la letteratura per Foto di gruppo

con Signora, considerato il suocapolavoro. Gli orrori del nazismo

e della guerra -la fece nell’esercito

tedesco per poi disertare nel 1944

e finire prigioniero degli americani-

hanno segnato tutti suoi romanzi

e i suoi racconti, sin dal primo Il trenoera in orario che cominciò

a scrivere quand’ancorafaceva il carpentiere.Nemico di ogni ideologia,con radicale intransigenza

combatté ipocrisie e compromessi. Critici e biografi dicono

che si creò una moralità del tutto

personale. Forse sarà vero. Quel che è certo, però, è che il suo

rigore personale e letterario -anche

se è difficile scindere l’uno dall’altro-

lo condivideva con i milioni di persone

in che in trenta lingue diverse hanno

apprezzato, e apprezzano, le sue opere.

ANDREA CAMILLERI (Italia)

Non pochi, dopo il successo televisivo

del Commissario Montalbano, pensano

che abbia passato molti anni

della sua lunga vita nella Polizia.

Invece ha sempre scritto, anche quando

faceva il regista per la televisione. Prima

poesie, poi sceneggiatureper la tv e testi teatrali, in fine seguendo Il corsodelle cose -il suo primo

titolo pubblicato nel1978-

la narrativa. Poi la pensione -

mai ce ne fu una più opportuna!- e tutto

il tempo da dedicare alla letteratura.

E insieme alla Stagione della caccia,

nel 1992, arriva il successo editoriale,

primo di una lunga serie, con milioni

di lettori in Italia e in tutto il mondo.

Spesso con protagonista Vigàta,

un piccolo e meraviglioso paese

della sua Sicilia. Quella di un tempo,

come ne La concessione del telefono,

quella contemporanea, ne La Forma

dell’acqua, esordio del Commissario

Montalbano.

DIDIER DAENINCKX (Francia) A comporre, e amare, libri ha cominciato molto presto. Come il grande poeta americano Walt Whitman, lavorava infatti in una tipografia. Poi ha cominciato a prendere confidenza con la scritturafacendo il giornalista. Tirocinio

davvero proficuo. A solitrentasei anni, nel 1984, i suoi primidue romanzi, Meurtres

pour mémoiree Le Géant inachevé,

ottengono infatti importantiriconoscimenti letterari. Eclettico, con disinvoltura passa dal romanzo al fumetto, dal racconto al saggio.Sempre con grande attenzione, e partecipazione, alla realtà sociale. Il noir è il suo genere preferito, una ventina di titoli, alcuni adattatiper la televisione e Lumière noireportato al cinema dal registamauritano Med Hondo.

MAX FRISCH (Svizzera) Esordiscecome architetto, disegnando la piscinacomunale della sua Zurigo, che ancoraoggi porta il suo nome. Poi, conosciutiBertolt Brecht e Friedrich Dürrenmatt,una decina d’anni dopo lascia matite

e tecnigrafo e si tuffa a capofitto nella letteratura e nel teatro. E con una venacomica, ironica, a volte

grottesca, comincia a porredomande, a sradicare certezze.

Sempre mettendo al centro il rapportofra l’individuo e la collettività, e disvelando la tragica sopraffazione -fatta di intolleranza, egoismo e malafede- di cui il singolo è vittima. Se ne è andato a ottant’anni, due annidopo la caduta del muro di Berlino. Non ci ha lasciato facili, e consolatorie,soluzioni ma capolavori come Stiller,Homo Faber, e Andorra, satira feroce del pavido conformismo che rendepossibile il trionfo del razzismo.

JIRÍ KRATOCHVIL (Repubblica Ceca)

La sua ironia, il suo sarcasmo

non sono mai piaciuti ai funzionari

del regime comunista. Non è ancora

chiaro se non li capissero,

o li capissero troppo bene. Fatto sta che ne proibirono

la pubblicazione. E così si è dovuta attendere la caduta del muro perché

vedessero la lucePostmoderno, amore mio

e Nel cuore della notte un canto,

e le altre opere poi tradotte

in francese, spagnolo, tedesco

e italiano. Crollato il muro, intatta

è rimasta la sua capacità di prendersi

gioco dei luoghi comuni,

dei modelli culturali prevalenti.

LJUDMILA PETRUSEVSKAJA(Russia) Comici, fantastici, visionari.Sono una continua girandola di fuochid’artificio i testi teatrali e letterari dellascrittrice moscovita. Lontani dalla realtà?

Distanti dalla vita? Dopo le favole -una dellesue opere più famose- oltre i confini della fantasia,

grottesca e surreale è piuttosto l’esistenza quotidiana.

In particolare in quel regime sovietico -descritto nel caotico e pirotecnico Corodi Mosca- che per anni la mise al bando.E dopo il prestigioso Alexander PuskinPrize, oggi, a settantuno anni, il premiopiù ambito: le sue opere tradotte e rappresentate in tutto il mondo.

INGO SCHULZE (Germania)

Ventisette. Tante sono le lingue

nelle quali si possono leggere

i suoi romanzi e i suoi racconti.

Milioni di persone in tutto il mondo

cercano -e trovano- fra le sue pagine

le emozioni, le speranze, le disillusioni

dopo la caduta del muro di Berlino.

Semplici storie -come uno dei suoi

titoli- tristi e ironiche insieme

che raccontano inquietudini e incertezze

dei tedeschi dell’est verso quelle tanto

attese Vite nuove -altro suo titolo-

che la riunificazione aveva promesso.

“Eravamo come bambini il giorno di Natale”, ricorda.

Tutti in attesa che con lalibertà, cambiasse anche

la musica, il ritmo della vita

quotidiana. E Bolero berlinese

è la disincantata ricerca di una difficile

armonia tra libertà e bisogni.

In Estonia come al Cairo, a New York

come a Dresda.Epico. Così, semplicemente,

lo ha definito Günter Grass.

OLGA TOKARCZUK (Polonia)

Finzione e realtà, invenzione

e testimonianza intrecciate

sapientemente da una psicologa

che ha scelto la letteratura.

Ironia e serietà, grottesco e melanconia

si alterano nella sua scrittura come

su di uno spartito musicale.

E non a caso Sonata per molti tamburi

è il titolo di uno dei suoi racconti

più belli. Caso raro, è molto apprezzata

dai critici e amatissima dal pubblico. Ciò che le ha

permesso di ottenere il prestigioso Nike Prize

e di essere eletta per tre

anni consecutivi beniamina

dei lettori polacchi. Anche perché,

vera e propria artigiana della scrittura,

rifugge facili sperimentalismi

e mode letterarie. La modernità

della sua attenzione ai rapporti

tra storia e memoria e tra culture diverse

-come in Casa di giorno, casa di notte,

il suo libro più famoso- è stata premiata

dalla traduzione in diciannove lingue.

MIKLÓS VÁMOS (Ungheria) Due eclissi di sole aprono e chiudono il suo romanzo più famoso, Il libro dei padri, best seller in Ungheria e

tradotto in oltre dieci lingue. E squarciare il buio -riportare alla luce la memoria, il ricordo-

è una costante di tutto il suo lavoro, sin da quando

in televisione conduceva un programmain cui i suoi ospiti dovevano raccontarela loro vita in chiave umoristica.Sceneggiatore e autore teatrale, come scrittore ha ottenuto numerosiriconoscimenti, tra i quali il prestigioso“Honors of Merit of the Hungarian”.

© 2009

ORECCHIO ACERBO SRL

VIALE AURELIO SAFFI, 54

00152 ROMA

WWW.ORECCHIOACERBO.COM

IL RACCONTO

“ANCHE I BAMBINI SONO DEI CIVILI”

DI HEINRICH BÖLL

È TRATTO DA:

“WERKE. KÖLNER AUSGABE. BAND 3. 1947-1948”

(FRANK FINLAY UND JOCHEN SCHUBERT)

© 2003 VERLAG KIEPENHEUER & WITSCH, KÖLN

IL RACCONTO

“L’EBREO ANDORRANO”

DI MAX FRISCH

È TRATTO DA

“TAGEBUCH 1946-1949”

© 1950 SUHRKAMP VERLAG, FRANKFURT AM MAIN

PER LA FOTO:

© OWEN FRANKEN | CORBIS

GRAFICA

ORECCHIO ACERBO

FINITO DI STAMPARE NELL’OTTOBRE 2009

DA FUTURA GRAFICA ‘70 - ROMA

STAMPATO SU CARTE FEDRIGONI

COPERTINA, SYMBOL CARD

RISGUARDI, NETTUNO ROSSO FUOCO

INTERNO, ARCOPRINT EXTRA WHITE

Indice

5 IL MURO DI NATALE DI DIDIER DAENINCKX

traduzione di Anna D'Elia

13 ANCHE I BAMBINI SONO DEI CIVILI DI HEINRICH BÖLL

traduzione di Giuseppina Oneto

19 L'UOMO CHE NON AMAVA IL PROPRIO LAVORO DI OLGA TOKARCZUK

traduzione di Raffaella Belletti

29 L’EBREO ANDORRANO DI MAX FRISCH

traduzione di Angelica Comello ed Eugenio Bernardi

33 IL MURO BIANCO DI LJUDMILA S. PETRUSEVSKAJA

traduzione di Raffaella Belletti

41 L’UOMO CHE AVEVA PAURA DEL GENERE UMANO DI ANDREA CAMILLERI

49 GIOVANNINO E IL RE DI JIRÍ KRATOCHVIL

traduzione di Katerina Di Paola Zoufalova

57 DAL MURO ALLE STELLE DI ELIA BARCELÓ

traduzione di Chiara Bolognese

65 A PREZZO D’OCCASIONE DI MIKLÓS VÁMOS

traduzione di Eszter De Martin e Monica Savoia

75 QUASI UNA FIABA DI INGO SCHULZE

traduzione di Valentina Di Rosa

82 1969 · 1989 · 2009 postfazione di Michael Reynoldstraduzione di Elena Fantasia

Il libro è stato realizzato grazie al sostegno e alla collaborazione di GOETHE-INSTITUT ITALIEN

e di:

ACCADEMIA D’UNGHERIA IN ROMAAMBASCIATA DI FRANCIA | BCLA

ISTITUTO CERVANTESISTITUTO POLACCO

ISTITUTO CULTURALE CECO

1989

1989

orec

chio

acer

bo

illustrazioni di

Henning Wagenbretha cura di Michael Reynolds

Elia Barceló Jirí Kratochvil

Ljudmila

Petrusevskaja

Ingo SchulzeOlga TokarczukMiklós Vámos

Heinrich BöllAndrea Camilleri

Didier Daeninckx

Max Frisch

DIECI STORIE PER ATTRAVERSARE I MURI

Profondamente radicatonella memoria di diversegenerazioni, il muro di Berlino è ancora oggi un simbolo di resistenza, un luogo di sofferenza e parole altisonanti. Ma anche dopo la sua caduta gli uomini non hanno smesso di erigere nuovi muri. Meno simbolici, meno noti, addirittura nascosti,tuttavia eretti con lo stesso miscuglio di odio, paura e mancanza di immaginazione. Lo stesso misero impastodei muri immateriali che separano gli uominiper razza, religione,cultura, ricchezza. Dieci racconti, ricchi di fantasia e colorate suggestioni,dedicati ai bambini da alcuni fra i più grandiscrittori di tutt’Europa. Per un ideale, enormegraffito control’intolleranza e contro il tetro grigiore dei muri. Per nuovi, giovaniarchitetti che alla ottusarigidità dei murisostituiscano l’acutaflessuosità dei ponti.

1989D

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