#15-16 Dicembre 2011 - Gennaio 2012

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magazine magazine Anno II - Numero 15/16 - Dicembre/Gennaio 2012 feedback feedback

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Dicembre 2011 - Gennaio 2012

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Anno II - Numero 15/16 - Dicembre/Gennaio 2012

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Kate BushVi sarà capitato, forse inconsapevolmente, di sentire alla radio una canzone intitolata Wuthering Heights. E’ probabile che abbiate cambiato subito stazione perché “non è proprio il vostro genere” o che vi siate persi in un lungo flashback sui vostri anni ottanta. Magari il titolo vi ha fatto tornare in mente il romanzo della Brontë, che odiate da quando ve lo hanno appioppato come lettura obbligatoria a scuola. Se invece, ultima opzione, vi siete limitati a constatarne la banalità, sappiate che questi quattro minuti hanno avuto una loro notevole importanza nella storia della musica. Era il 1978 quando la major EMI, mentre da ogni parte spuntavano etichette indipendenti, mise sotto contratto la diciottenne Kate Bush, su raccomandazione di David Gilmour (Pink Floyd). Kate portò senza dubbio una soffio di grazia e spensieratezza in una scena musicale dominata dalla mascolinità di Patti Smith e dalle divagazioni mistiche di Joni Mitchell.Il suo primo disco, The Kick Inside, riscosse un immediato successo, da attribuire soprattutto a quell’irresistibile atmosfera da teen diary

ascesa alle cime tempestosefiabesco, che forse cela già una profonda consapevolezza del proprio valore artistico. Infatti, fin dai suoi inizi, Kate lascia che la sua voce faccia bella mostra di sé, esibendo senza troppo pudore le quattro ottave di estensione. In particolare il singolo, con l’intelligente ripresa della tormentata storia d’amore tra la passionale Kathy e il glaciale Heatcliff, consegnò alla cantante il cuore del pubblico femminile. Melodie e arrangiamenti nel complesso non sono molto innovativi, in quanto ancora legati ad una strumentazione di tipo classico. Il personaggio di Kate Bush e il suo merito di aver ispirato un grandissimo numero di artisti, hanno contribuito a mitizzare il suo primo lavoro, che può obbiettivamente essere giudicato come un esempio di musica pop degli anni settanta, non troppo brillante ma sicuramente d’effetto.All’inizio del nuovo decennio, dopo aver conosciuto il mondo della musica elettronica grazie ad una collaborazione con Peter Gabriel, Kate Bush pubblica Never for ever. L’intento è ambizioso: riuscire a mediare

In questo lavoro l’impronta di Peter Gabriel si fa più marcata e le sonorità diventano spigolose. I testi, ormai privi anche della minima sfumatura adolescenziale, si fanno sempre più cupi e angosciati. I fan storici dovettero attendere pazientemente che queste nuvole si diradassero per ritrovare in Hounds of Love, dopo tre anni di silenzio, la vitalità delle origini. Vale la pena analizzare quello che Kate Bush era diventata nel 1985. Da sempre restia a farsi intervistare, l’artista, centellinando le sue apparizioni, aveva creato intorno a sé un’aura di mistero che si protrae fino ad oggi. La Bush infatti non si esibisce live dal 14 Maggio 1979, quando concluse la parte europea del suo primo e unico tour. Apparentemente i concerti avrebbero dovuto costituire l’occasione perfetta per consentirle di dar prova della sua completezza artistica. Kate, dotata di notevoli doti come attrice e ballerina, oltre che di una splendida voce, aveva dunque tutte le carte in regola per essere una performer di altissimo livello. Tuttavia, da ben trentadue anni, la cantante ha scelto di raggiungere il suo pubblico solamente attraverso il lavoro svolto nello studio di registrazione. Nelle rare interviste non ha mai accennato ai motivi di questa decisione e, in generale, si percepisce quanto profondamente la irriti qualsiasi attenzione rivolta a lei, invece che alla sua musica. Il Tour of Life, a dir poco futuristico per gli standard del 79, costituisce tutt’oggi un traguardo difficilmente superabile. Tuttavia non è realistico credere che sia questo a fermare Kate Bush, quanto piuttosto lo stile di vita frenetico, la pressione estenuante e la rinuncia ad una sfera privata. L’autoprodotto Hounds of Love ricevette un’accoglienza calorosa anche sulla scena americana, da sempre velatamente ostile alla cantante. La conquista del pubblico di oltreoceano coincise con una leggera virata verso la dance unita alla scelta di tonalità più basse. Seguono The Sensual World, il mal riuscito The Red Shoes e poi dodici anni di silenzio fino ad Aerial. Questo doppio cd del 2005 servì forse a ricordare a molte altre cantanti la portata del loro debito nei confronti Kate Bush, per citarne alcune: Tori Amos, Bjork, e Pj Harvey. A ulteriore prova della sua maestria, fugando ogni dubbio su una sua eventuale uscita di scena, l’appena uscito 50 Words for Snow rinnova l’incanto. E se agli eschimesi servono cinquanta nomi diversi per chiamare la neve, occorre molto di più per definire Kate Bush e quello che ha significato, e significa ancora oggi, per il mondo della musica.

- comyn

artista del mese

tra una precisa volontà di innovazione e l’ovvia necessità di ottenere il favore del pubblico. Per realizzarlo la cantante intraprese un processo graduale di inserimento all’interno del disco della nuova “componente elettronica”, permettendo così al grande pubblico di assimilarla lentamente. Tuttora Babooshka è uno dei suoi brani più celebri e, a parte l’imperdonabile costume del video che sarebbe auspicabile venisse dimenticato per sempre, ben rappresenta il riuscitissimo compromesso tra il successo e la creatività. Così nell’album fanno il loro ingresso le tastiere elettronica e il fairlight, un campionatore e riproduttore di suoni che era all’epoca un vero gioiellino d’avanguardia. Fatto il suo “primo passo nel controllo dei suoni” Kate Bush lascia divampare la vera rivoluzione con The Dreaming.

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Un altro anno è passato ed un nuovo è appena cominciato. E così, come l’imprenditore che conta gli introiti del suo anno, noi guardiamo alle uscite maggiori, ai movimenti (nuovi?) che ci ha lasciato il 2011. Senza ombra di dubbio la più grossa bomba mediatica dell’anno è stata l’uscita di King Of Limbs dei Radiohead. Uscita vorticosa, confusionaria, con la quale il gruppo si è un po’ preso gioco di tutta la nuvola mediatica che li segue, annunciando una data non rispettata, con il disco che a sorpresa, nel freddo febbraio inizia a girare con un moto indeterminato su Internet, con annessa pioggia di rar e zip. I giudizi si sprecano, sembra comunque generale il malessere che hanno provocato i ragazzi di Oxford. Rinnegare i propri beniamini o andare contro l’alternative più blasonato? Ma i Radiohead mettono tutti d’accordo e fanno registrare in pochi minuti il tutto esaurito per il loro tour italiano. Per associazione di idee mi vengono subito in mente i Coldplay, che a fine anno donano ai loro fans un’altra opera da quattro soldi, frutto di speculazioni finanziarie più che di una certa voglia di stupire; sono tanto lontani, ormai irraggiungibili, i tempi di Parachutes.

RICORDI DI COSA È APPENA PASSATO

Sempre a livello di grandi platee, un’uscita che ha smosso l’opinione pubblica dal torpore è il parto congiunto dei Metallica e Lou Reed. Abominevole? Inutile? Capolavoro? È proprio il caso di dire “ai posteri l’ardua sentenza”, con la (mia) convinzione che di questo disco se ne parlerà ancora tra anni sciacquandosi la bocca prima di nominarlo. Gran sorpresa ha destato anche due album a lungo attesi, quello dei Gang Gang Dance e quello dei Battles. Le aspettative non sono state rispettate. I Gang Gang Dance con il loro esordio su 4AD si sono lasciati andare a troppi ricami e poca sostanza, (troppo) barocchi. I Battles invece, orfani di Braxton, non sono riusciti a ripetere le magie di Mirrored, probabilmente proprio a causa della mancanza di Tyondai. Riguardo ai ritorni eccellenti, graditissimo a tutti quello di PJ Harvey che con il suo Let England Shake ha riscosso un enorme successo. Importantissimo, e di straordinaria fattura, quello di Kate Bush che con il duo 50 Words Of Snow raggiunge, e forse supera, le vette che aveva toccato 20 anni fa. Anche Tom Waits si ripresenta nella sua veste di crooner con Bad As Me: premi play ed è come se gli anni non fossero passati. In grande forma quest’anno l’elettronica, che regala dei momenti di grande bellezza e emozione. Cito alcuni nomi come lista della spesa, sperando che chi non li abbia ancora conosciuti lo faccia presto: dall’oramai re della musica elettronica Shackleton, al buio e al timore dei Demdike Stare, dal beat oscuro e rituale di Deadbeat alla raffinatezza di Villalobos, l’estasi di Tim Hecker e la giovane classe di Nicolas Jaar. Un ultimo appunto riguardo l’elettronica per parlare del bimbo prodigio James Blake. Partito fortissimo con i primi EP che aprivano nuove vie all’elettronica del decennio ‘10, si presenta nel 2011 con un disco che ne è la fotocopia sbiadita, arricchita, ma che comunque resta una fotocopia. Forse il l’enfant ha capito come guadagnarsi il pane? Speriamo di sbagliare. Grandissime opere quelle di Bon Iver che sfonda il muro dell’alternative ricevendo delle nomination per il Grammy, concorrendo con gente come Katy Perry, e quella dei Fucked Up; uno dei dischi migliori dell’anno, la storia dell’operaio David che ognuno porta nel suo cuore una volta ascoltato il concept. In Italia la situazione non è però delle più floride, anzi. L’uscita più importante è di due cervelli in fuga, i Tiger & Woods, autori di una house che rispolvera, rilegge e ibrida i suoni della house anni ‘80, celebrità all’estero ma che qui pagano dazio ai Tiziano Ferro e ai Negramaro di turno. Conferma la sua genialità Capossela con la sua storia di balene e di viaggi in mare, disco pretenzioso che colpisce nel segno: uno dei migliori cantautori italiani del nostro tempo. Come non parlare poi del Sorprendente Album D’Esordio Dei Cani, disco che spacca in due la platea indie con le sue storie da radical chic del 2000, con le sue citazioni colte, da Forster Wallace a Wes Anderson, divertente all’ascolto ma non incisivo fino in fondo, soprattutto per la povertà di rinnovamento. Di Vasco Brondi si parla anche troppo: se ne era stato buono tutto il 2011, poi esce a fine anno con una compilation su XL (!!!) e si capisce che sta raschiando il fondo del barile. Bella conferma gli Ultimo Attuale Corpo Sonoro che rinverdiscono i fasti del loro precedente, ottimo, lavoro. Qui di seguito le nostre personali classifiche; traetene spunto e rispolverate le perle che avete perso dell’anno appena trascorso.

- matmo

classifiche

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matmo

classifiche

1. PINCH & SHACKLeToN - Pinch & Shackleton2. DeMDIKe STARe - Tryptich3. CoLIN STeTSoN - New History Warfare Vol. 2: Judges4. DeADBeAT - Drawn And Quartered5. KATe BUSH - 50 Words Of Snow6. FUCKeD UP - David Comes To Life7. RoTTeRDAM - Cambodia8. RICARDo VILLALoBoS & MAx LoDeRBAUeR - RE: ECM9. SAo PAULo UNDeRGRoUND - Tres Cabecas Loucuras10. M83 - Hurry Up We Are Dreaming

w

1. VARIoUS ARTISTS - Bangs & Works (Vol. 1,2)2. FUCKeD UP - David Comes To Life3. SHABAZZ PALACeS - Black Up4. oNeoHTRIx PoINT NeVeR - Replica5. CLAMS CASINo - Instrumental Mixtape6. PeAKING LIGHTS - 9367. TIGeR & WooDS - Wiki & Leaks8. RoMAN FLüGeL - Fatty Folders9. CoLIN STeTSoN - New History Warfare Vol. 2: Judges10. CAVe - Neverendless

gorot

1. JAMeS BLAKe - James Blake2. ZoMBY - Dedication3. oNeoHTRIx PoINT NeVeR - Replica4. TIM HeCKeR - Ravedeath 19725. NICoLAS JAAR - Space Is Only Noise6. KoDe9 & THe SPACeAPe - Black Sun7. AMoN ToBIN - ISAM8. MoDeSeLeKToR - Monkeytown9. FUCKeD UP - David Comes To Life10. WASHeD oUT - Within And Without

samgah

1. PJ HARVeY - Let England Shake2. BeACH BoYS - Smile Sessions3. MATANA RoBeRTS - Coin Coin Volume One4. BRAIDS - Native Speaker5. eNRICo RAVA - Tribe6. PANDA BeAR - Tomboy7. MeTRoNoMY - The English Riviera8. DIRTY BeACHeS - Badlands9. SNoWMAN - Absense10. JAMeS BLAKe - James Blake

Le migliori uscite dell’anno secondo la redazione

Best of 2011

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classifiche

visjo

1. FUCKeD UP - David Comes To Life2. PJ HARVeY - Let England Shake3. BILL CALLAHAN - Apocalypse4. ST. VINCeNT - Strange Mercy5. WU LYF - Go Tell Fire ToThe Mountain6. WINTeR FAMILY - Red Sugar7. AMoN ToBIN - ISAM8. CoLIN L. oRCHeSTRA - Infinite Ease/Good God9. TIM HeCKeR - Ravedeath, 197210. THe VACCINeS - What Did You Expect From The Vaccines?

zorba

1. FUCKeD UP - David Comes To Life2. LUCAS SANTTANA - Sem Nostalgia3. CRYSTAL STILTS - In Love With Oblivion4. THe DoDoS - No Color5. A WINGeD VICToRY FoR THe SULLeN - S/T6. SNoWMAN - ∆bsense7. ToM WAITS - Bad As Me8. ST. VINCeNT - Strange Mercy9. BoN IVeR - Bon Iver10. JAMeS BLAKe - James Blake

zuma

1. ANNA CALVI - Anna Calvi2. PJ HARVeY - Let England Shake3. ST. VINCeNT - Strange Mercy4. JAMeS BLAKe - James Blake5. BoN IVeR - Bon Iver6. VINICIo CAPoSSeLA - Marinai, Profeti E Balene7. TIM HeCKeR - Ravedeath 19728. FLeeT FoxeS - Helplessness Blues9. ToM WAITS - Bad As Me10. WILD BeASTS - Smother

comyn

1. VINICIo CAPoSSeLA - Marinai, Profeti E Balene2. MY BRIGHTeST DIAMoND - All The Things Will Unwind3. ST. VINCeNT - Strange Mercy4. PJ HARVeY - Let England Shake5. BeACH BoYS - Smile Sessions6. KATe BUSH - 50 Words Of Snow7. ToM WAITS - Bad As Me8. ST. VINCeNT - Strange Mercy9. BoN IVeR - Bon Iver10. JAMeS BLAKe - James Blake

fp

1. TAMIKReST - Toumastin2. BANCALe - Frontiera3. ACRoSS TUNDRAS - Sage4. FUCKeD UP - David Comes To Life5. VeRDeNA - Wow6. ovo - Cor Cordium7. CLeMeNTINo - I.E.N.A.8. AUCAN - Black Rainbow9. ToM WAITS - Bad As Me10. GIoNATA MIRAI - Allusioni

fragor

1. BoN IVeR - Bon Iver2. FUCKeD UP - David Comes To Life 3. CoLIN STeTSoN - New History Warfare Vol. 2: Judgesy4. JAMeS BLAKe - James Blake5. F. De ANDRé - LoNDoN SYMPHoNY oRCHeSTRA - Sogno n.16. PINCH & SHACKLeToN - Pinch & Shackleton7. BeACH BoYS - Smile Sessions8. ST. VINCeNT - Strange Mercy9. U.A.C.S. - Io Ricordo Con Rabbia10. A WINGeD VICToRY FoR THe SULLeN - S/T

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Electro Hip-Hop/Footwork

VARIOUS ARTISTS Bangs & Works Vol.2[Planet Mu, 2011]

Heavy Pop

WU LYF Go Tell Fire To The Mountain[Autoprodotto, 2011]

anni da The Kick Inside, ora scorrono i 10 minuti di apertura di Snowflake. Questa è una musica dell’anima, si è toccati dalla soave voce di Kate, dai severi e precisi rintocchi di piano; il folletto passa e ci porta via il cuore. Misty è invece una cavalcata di 14 minuti, un letto jazz con la batteria di Steve Gadd e il contrabbasso di Danny Thompson, dove adagiarsi, in un dormiveglia che non è altro che un confine tra la vita e la morte; come in un pezzo di Mark Hollis, i silenzi fanno parte della musica, sono parte integrante dell’impalcatura. Kate racconta la storia di un amore impossibile con un pupazzo di neve, un amore panico che però è destinato a sciogliersi, contrappuntato dai virtuosismi chitarristici di sottofondo, persi tra echi, reverberi e delay: “Domenica mattina/Non riesco a trovarlo/Le lenzuola sono umide sul mio cuscino/ci sono Foglie secche, pezzi di rami gelati, giardini gelidi/Erba rubata da prati assonnati/Non riesco

Quando si parla di innovazione, sopratutto nel settore musicale, si pensa sempre ai grandi gruppi ed alle grandi etichette che con fior fior di tecnici e ingegneri studiano e progettano le prossime sonorità per sbancare il mercato. Spesso invece le rivoluzioni nascono da piccole idee come quelle di R.P.Boo, dj e rapper del ghetto di Chicago, che pochi anni fa riuscì ad evolvere il Juke o Ghetto House in una delle più splendide varianti che l’elettronica abbia mai conosciuto. Creando tutto ciò riuscì a diffondere un nuovo genere che faceva dell’Hip-Hop la base primaria e spaziava poi in tutti gli altri sensi immaginabili, escludendo il cantato live e i classici scratch si affidava all’elaborazione del suo computer ed al suono aggressivo e esplicito dei loop vocali. Tutto questo è evoluto e lievitato, tanto che la Planet Mu ha deciso nel 2010 di pubblicare una raccolta di singoli di tutti i dj di Chicago che facevano footwork da battaglia (battaglia di ballo), ottenendo un grande successo e mostrando al mondo musicale la faccia innovativa della città del vento. Un anno

alle dance battle da ghetto e alle serate allucinogene, questa seconda prova porta alla ribalta il concetto di sviluppo e di estensione dei limiti proprio perché coinvolge sonorità e accorgimenti tecnici degni dei migliori dj. Studio sonoro e loop infiniti, voci infernali e beat instancabili e ossessivi, le 26 tracce danno l’impressione di venire dal futuro proprio perché non è possibile inscatolarle in un genere, e

dopo esce Bangs & Works Vol.2, che con la strada spianata non fa che confermare e rinvigorire il grande successo e se possibile scavare ancora di più nel suono già sintetico e maldigeribile della violenta prima raccolta, riuscendo a rendere il tutto più malleabile e comprensibile. Sta proprio qui la grandezza di questo disco: se il primo fungeva da manifesto del genere e appariva bello sincero ma decisamente sconclusionato e pesante, adattabile soltanto

disco del mese - recensioni

la nube e il mare, l’albero, la pietra, il fiume. Ma solo l’uomo si raccoglie attorno al proprio grido, in assenza degli eventi che l’hanno provocato”.Capita allora che il grido diventi canto, e che il canto diventi rito. Talvolta capita anche di prendere un tamburo e di iniziare a battere, ora forte ora piano, a seconda di quelle pulsazioni che senti ingabbiate dentro e che ti fanno pietà se non le fai uscire. Gli fai, venite fuori dai, potete fare quello che vi pare.Go Tell Fire To The Mountain nasce più o meno così, si capisce subito. Vuoi per quell’organo da chiesa in apertura (da rito, dicevamo) vuoi perché L Y F ti lascia po’ spiazzato da quanto il suono si manifesti autentico, naturale, non alterato. Si balla in cerchio, si liberano le energie dell’animo e si esorcizzano i demoni: se Cave Song (una dichiarazione d’intenti già dal titolo) è il lanciarsi in una danza inquieta al buio di una spelonca, Such A Saddy Poppy Dog è subito il farsi luce l’un l’altro, come uno può, ed è un momento magico. I WU LYF sono in quattro eppure sembrano una tribù: il loro debutto sulla lunga distanza è quello che non ti aspetteresti mai da una classica formazione chitarra-basso-batteria. Riff degni dei migliori explosions In The Sky gettano una luce malinconica su scenari ancestrali, pattern vocali selvaggi fanno riecheggiare come singhiozzi le liberazioni dell’Avey Tare più cavernicolo, ma al di là dei riferimenti musicali che sorgono

“Il grido. Sta all’inizio della vita dell’uomo sulla terra. Il grido di caccia, di guerra, d’amore, di terrore, di gioia, di dolore, di morte. Ma anche gli animali gridano; e per l’uomo primitivo grida anche il vento e la terra,

spontanei la vera forza del gruppo sta proprio nella sorprendente capacità di sentirsi tale. Impressioni che lasciano il tempo che trovano mi si dirà, e allora vi faccio una semplice, piccola raccomandazione: trovatevi cinque minuti per We Bros. Buon ascolto.

-visjo7/8

Art-Pop

KATe BUSH 50 Words For Snow [Fish People/EMI, 2011]

“I was born in a cloud/now I’m falling/i want you catch me”. Questo è l’avvolgente incipit del nuovo lavoro dell’influentissima Kate Bush. A pochi mesi da Director’s Cut, a 6 anni dal buono Aerial, a 33

a trovarlo”. La title-track è proprio quello che ci racconta il titolo dell’album, “50 parole per neve”, recitate con l’attore Stephen Fry su un sottofondo ritmico molto incalzante e in continuo mutare. La chiusura è affidata a Among Angels, di nuovo piano e voce, di nuovo lacrime e cuore spezzato; un ritorno all’Empireo, un saluto alla vita terrena: non abbiate paura e non fermate la lacrima che scivola sul vostro viso. Un disco immenso, sensazioni che nessuno riesce a creare, un sogno.

9- matmo

l’ascolto è quantomai benefico perché ipnotizza l’orecchio e lo istruisce, facendolo sentire al centro dell’arena di footwork. Non è un ascolto semplice sopratutto se siete legati al rap più puro o alla elettronica raffinata, ma contiene in sé una strana voglia di sperimentazione e la funambolica fusione tra elettronica e HipHop d’avanguardia. Ci accorgeremo della sua eredità fra 10 anni.

- w

Elettronica/Grindcore/Colonne Sonore

BoLoGNA VIoLeNTA/GUNZARD Killers Contro Killers [Suoni Grezzi Rec, 2011]

sì, e le ragioni in fondo sono piuttosto semplici: primo, perché tanto ormai i dischi non se li compra più nessuno se non i cultori (e per loro si assicura l’arrivo di copie in supporto materiale); secondo, vista la tendenza alla diminuzione del minutaggio nei prodotti discografici, tanto vale essere onesti fin da subito e puntare su qualcosa di ben mirato. Tutto sommato è meglio una buona registrazione, disponibile online gratuitamente e per di più completa di digital booklet. Entrando nello specifico, i tre rapidissimi pezzi di Bologna Violenta (aka Nicola Manzan) più la chiosa dei GunZard, sono rifacimenti di colonne sonore di film poliziotteschi italiani degli anni Settanta. Il concept

Non posso negare a me stesso di essermi posto questa domanda prima di iniziare a scrivere: ha senso recensire un 7” (in free download su grindcorekaraoke.com) che dura poco più di sei minuti? Secondo me

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Classical Music/Soundtrack

BILL RYDeR-JoNeS If...[Double Six Records, 2011]

Jazz

eNRICo RAVA QUINTeT Tribe[ECN, 2011]

Conclusasi ormai da tre anni l’avventura coi Coral, Bill Ryder-Jones esplora con la sua chitarra nuovi lidi, ben più intimi e affascinanti, e lo fa portando all’attenzione dei pochi che lo hanno seguito fin qui un concept insolito. If... sta infatti per “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (“If on a winter’s night a traveller”), romanzo di Italo Calvino particolarmente quotato all’estero, e vuole esserne l’ideale colonna sonora: dieci brani, tutti orchestrali, quasi tutti strumentali, dal respiro solenne e introspettivo, nei quali intimismo bucolico à la Nick Drake e sensibilità romantica beethoveniana si armonizzano a dare vita a un lirismo post-classico di rara maturità. La poetica di Ryder-Jones è pura bellezza, ha in seno una passionalità istintiva e un patetismo d’altri tempi, ora sotteso alle note di archi e pianoforte, ora pronto ad esplodere in tutta la sua carica drammatica (la coda elettrica di Enlace, il crescendo maestoso di The Flower #3). Sa essere essenziale, come un disco di o’Halloran o a una sonata per pianoforte di Glass. È avara di parti cantate, giusto poche frasi in Give me a Name e in Leaning (Star of Sweden) ad accentuarne la drammaticità, qualche strofa in Le Grand Desordre, unico episodio veramente cantautoriale, e dei vocalizzi in By the Church of Appolonia; tutto il resto è inquietudine, stupore e malinconia.

7 - zorba

Electro-Pop

MeTRoNoMY The English Riviera[Because Music, 2011]

varie declinazioni. Fin dai tardi anni ‘70, quando comparvero i primi moog, ogni generazione ha avuto la sua brava schiera di tamarri e una linea ad essa parallela, ma molto più sottile, che parte dai pionieri Ultravox e, dopo esser passata dai New order, attraversa trionfante gli 80s con gruppi come Bronski Beat e Bee Gees, ne esce un po’ in crisi, rialza la testa con i Pet Shop Boys e gli Air, e procede altalenante nell’uragano indie degli ultimi quindici anni: è questa la linea del buon gusto, tanto difficile da distillare all’interno della musica dance. Gli albionicissimi Metronomy appartengono senz’altro a questa seconda categoria: il loro ultimo disco è infatti un piccolo gioiellino di contaminazione, eppure mantiene in modo sapiente i legami con le radici e la tradizione del genere. The English Riviera compie un’operazione di sintesi anche perchè, mantenendo i tastieroni come dominatori assoluti della scena, riesce a coniugare le correnti più “colte” del synth-pop indirizzandole verso le piste delle discoteche. Intendiamoci: lo spirito dell’opera – non si scappa - rimane indie fino al midollo; nessuno ballerà mai questa roba; musicalmente, però, l’operazione è assai riuscita e goduriosa assai. Fa un enorme piacere sentire nel 2011 pezzi pop come Loving arm e Everything goes my way, belli ma non kitsch, semplici ma non banali; se i ragazzi, poi, fossero un po’ meno indiecibilmente indie e un po’ più tamarroni, avremmo un dischetto perfetto. Ma a noi va benissimo anche così.

7- samgah

Puntuale come un orologio svizzero, torna il trombettista Enrico Rava con la sua ultima fatica invernale. Tribe è il risultato del lavoro con un rinnovato e giovanissimo quintetto, la cui punta di diamante

TIGER & wOODS 7/12/2011 . Doris Club, Firenze La macchina macina kilometri in direzione Firenze, siamo chiaramente in ritardo ma non ci interessa, cazzuti e supercuriosi siamo 4 spacconi da dancefloor che saputo l’evento un po’ improvvisamene non se lo lasciano sfuggire sopratutto perché a suonare sono i Tiger & Woods. Ci spostiamo agilmente nel traffico fiorentino come rondini a primavera e in men che non si dica siamo a parcheggiare in centro, beffando l’odiata ZTL e camminando a piedi verso il locale; è piccolo e apparentemente vuoto, sconosciuto a tutta la truppa (così composta: W, Noah’s Arka, Lorenz e Turbo). Il poco affollamento mi viene confermato dalla straordinaria velocità con la quale l’uomo del timbro raccatta i miei dieci euro in spiccioli e un attimo dopo siamo dentro, siamo in 15 ma a quanto pare è ancora presto, cogliamo l’occasione per chiacchierare con i Tiger & Woods e gironzolare per il locale, che non è grande ma molto bello. Si fa tardi e la gente aumenta, il delirio elettro80’s risuona in tutta Firenze e capisco che è l’inizio della fine quando vedo scendere dal soffitto una palla da discoteca multicolore che illumina tutta la stanza; il resto sono due ore di pura bellezza elettronica che ti entra in corpo e ti trascina in danze scatenate che abusano del tuo bacino e delle tue mani, classici, remix e novità in un marasma funky orchestrato alla perfezione che riesce a stancarti, ricaricarti e stupirti. Strana gente, strano posto, strana musica, strano divertimento, di quello vero, che ti fa ballare anche mentre ti mangi il panino di fine serata.

- w

membri e quindi risulta in una minor coesione, dall’altro eleva certamente la qualità del materiale - comunque sopraffino -. È stata una costante – e forse anche un’etichetta un po’ ingiusta - della carriera di Rava quella di venir lodato per le ballads più che per lo swing. Eppure, ascoltando il suo ultimo disco, abbiamo proprio la medesima sensazione. Le dodici tracce di Tribe alternano con sapienza pezzi lenti e distesi ad altri decisamente più upbeat, ma sono proprio i primi (la maggioranza) a invogliarci a riascoltarlo. Se non va comunque sottovalutata la bellezza di canzoni quali Choctaw, Cornettology o la meravigliosa title-track – tanto movimentate quanto ispirate -, i momenti migliori dell’opera sono quelli in cui il tempo rallenta; Rava svolge un lavoro melodico eccezionale, tanto distante dalla prevedibilità quanto godibile; il pianoforte si lancia in assoli fortemente evocativi e a volte anche piuttosto arditi; il trombone impreziosisce il tutto, ma, seppur raramente (Incognito), ricopre anche ruoli di primo piano, confezionando qualche piccolo assolo niente male. Un lavoro ottimo, insomma, anche se a volte non troppo a fuoco, per il Miles Davis de noantri e la sua ennesima tribù, che azzecca pure qualche pezzo da menzione d’onore (Incognito, Tears for Neda, Planet Earth, Tribe).

7- samgah

live report

Se c’è un genere che sembra veramente non morire mai, questo è il synth-pop, in tutte le sue

è sicuramente il pianista Giovanni Guidi; è anche grazie all’azione “mediatrice” di quest’ultimo che il divario di esperienza fra Rava e gli altri risulta meno avvertibile. Malgrado ciò, sembra, in molti – forse troppi – momenti, di assistere a una lezione tenuta da un maestro ai suoi alunni. Spesso e volentieri, insomma Rava “sale in cattedra”, il pianoforte fa il ruolo dell’aiutante e gli altri stanno a guardare; se da un lato ciò rende più labile il dialogo tra i singoli

Pink Floyd di Barrett e i Velvet Underground, tra i Byrds e i Doors; un lavoro dalla forte componente melodica nonostante la coltre di riverberi e distorsioni, vario, a dispetto della voce di Brad Hargett, monotona e catatonica come quella di Ian Curtis, valido per quanto non molto originale. Registrato ad inizio anno, Radiant Door è un EP altrettanto godibile, che rivaluta alla luce di una sensibilità meno cupa le stesse sonorità. Su questa scia si muove l’opener Darl Eyes: organo distorto, handclapping e voce più appassionata del solito - ci si chiede addirittura se sia la stessa di sempre - lo rendono uno degli episodi più solari dei Crystal Stilts. La title-track che segue è una ballata in agrodolce di smithsiana memoria (ma si potrebbero citare anche i recenti e misconosciuti Cats on Fire), nella quale la voce di Hargett torna a

Psychedelic Rock

CRYSTAL STILTS Radiant Door EP[Sacred Bones Records, 2011]

Ci avevano lasciati con In Love With Oblivion, prova di buona maturità artistica che, prendendo in prestito dai Joy Division le minimali impalcature ritmiche, proponeva un amalgama sonoro in bilico tra i

recensioniattorno cui ruota l’EP, e conseguentemente anche le sonorità, è quindi molto simile all’intento dei Calibro 35: thriller, anni di piombo e immaginario tra Franco Micalizzi (autore di due brani rivisitati da Manzan) e un pulp alla Tarantino. Al tutto va però aggiunta una sana miscela di grindcore attraverso cui rimescolare frasi tratte dai film con smitragliate di chitarra e campionamenti vari. Come già dimostrato nell’album d’esordio Il nuovissimo mondo, Bologna Violenta in questo non ha nulla da invidiare a nessuno, mentre il noise sperimentale della quarta ed ultima traccia rende il finale ancor più intricato, seppur emozionante.

7- fp

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Experimental/Ambient

oNeoHTRIx PoINT NeVeR Replica[Mexican Summer/Software, 2011]

Avant MPB

LUCAS SANTTANA Sem Nostalgia [Mais Um Discos, 2011]

Soul/Soft Dub

JAMeS BLAKe Enough Tunder [Polydor, 2011]

francesco de gregori 28/10/2011 . Viper Theatre, FirenzeEra una sera d’estate del 1975 e sarei uscito con la sorella di un amico, una ragazza innocua che non doveva comportare distrazioni. Perché quella sera si andava al circolo Andrea Del Sarto, Coverciano, Firenze a sentire il giovane DeGregori. L’attenzione doveva essere tutta per lui. Lui che con Rimmel aveva provato a cambiarci la vita. Eravamo un centinaio e stavamo intorno a lui, con l’eterno cappello, come si sta vicini all’amico che suona la chitarra sulla spiaggia. Alice, Pablo e Rimmel in anni ancora caldi dei ricordi dell’immaginazione al potere ebbero su molti di noi un effetto taumaturgico. La surreale quotidianità che Francesco ci cantava, ci faceva sognare (non come gli strafighi dreamers di Bertolucci) con semplicità e garbo, le stesse qualità che lui, timido e modesto, esprimeva sommessamente. Venerdì 28 ottobre 2011 Viper Theatre. Ritrovo Francesco (scusatemi il vezzo di chiamare per nome uno che non conosco personalmente, ma poi capirete) elegante come sempre, giacca cravatta e cappello. Educato e (per gli standard dei concerti rock) puntuale. Accompagnato da una band di tutto rispetto che avrebbe meritato un’acustica migliore, il nostro non si è risparmiato e, credetemi, in più di una occasione l’emozione ha avuto il sopravvento (su di me).Risentire quelle canzoni, magari riarrangiate (Buonanotte Fiorellino à la maniere di Bob Dylan di Everybody must get stoned) oppure sfibrate da una voce che non è più quella dei vent’anni non è stata cosa da poco. Una per tutte, La storia siamo noi rappresenta come poche altre canzoni le aspirazioni di una generazione che avrebbe potuto e dovuto fare di più. Tutte quelle illusioni che cercano un’impossibile realizzazione nella tragica allegria di Titanic. Ho un figlio che qualcuno di voi conosce ed al quale ho cercato di trasmettere i valori de La leva calcistica del ‘68 che purtroppo stasera non ha cantato.Francesco De Gregori lo considero un valore inestimabile della mia generazione perché, come nessun altro ha cantato la nostra vita, le nostre paure, i nostri sogni senza arroganza, senza supponenza ma con quel leggero distacco che gli deriva dalla sua innata eleganza. Francesco, il Principe, che dall’alto della sua modestia non finisce mai di stupirci e che ha concluso il concerto dopo due ore secche di belle canzoni salutandoci con A chi di Fausto Leali.Caro Francesco sono quasi quarant’anni che ti apprezzo e porto dentro le tue canzoni. Sarebbe bello che tu accompagnassi questa generazione sgangherata alla sua naturale scadenza, appunto come l’orchestra del Titanic, tutti insieme verso un finale un po’ spettacolare ma decoroso. 

- guru

live report

suonare distante come la ricordavamo, a suggellare quello che è il capolavoro del disco. Low Profile si avvicina ancora di più al suono tipico della band, quello cioè di Unknown Pleasures e di Closer; Frost Inside the Asylum comincia come All Tomorrow’s Parties, continua sempre uguale a se stessa e si avvia lenta verso la conclusione, in dissolvenza, portando avanti quel gioco di citazioni la cui effettiva riuscita rimane un’incognita: ha ancora senso oppure no? L’EP è breve e poco impegnativo, provate a rispondervi da soli.

6/7- zorba

nome cui ci siamo imbattuti si nasconde il nipote di Tom Zé. Ascoltiamo infine le dodici tracce e ci chiediamo perché nessuno - o quasi - ne parla, in Italia come altrove. Lucas eredita dallo zio l’amore per la musica tradizionale brasiliana e l’attenzione alla melodia, oltre a un certo gusto per la sperimentazione; aggiunge un campionatore Korg e una chitarra classica che, sulle orme di Caetano Veloso, riscalda col calore della MPB il freddo suono del digitale.Il disco si apre con Super Violão Mashup che, a partire dal titolo, sintetizza quella che è l’estetica del lavoro (lungi da noi, però, voler inquadrare Sem Nostalgia - che è prima di tutto passione e sensazioni - in maniera troppo schematica): tre minuti di divagazioni strumentali in cui la chitarra si districa tra suoni ambient filtrati per via elettronica e ritmi tribali. Who Can Say Wich Way è un reggae a 160 bpm, Night Time in the Backyard un intermezzo per chitarra e voce, splendidamente sospeso tra spoken word e cantautorato intimista, che avvicina idealmente Santtana agli ultimi songwriter americani. Cira Regina e Nana gioca con la bossa nova, mentre c’è ancora tempo per emozionarsi con

Datato 2009 ma pubblicato in Europa solo poche settimana fa, Sem Nostalgia si scopre essere il terzo album di Lucas Santtana; veniamo poi a sapere, assolutamente per caso, che dietro al curioso

le tante recensioni entusiastiche che si leggono su carta e su schermo. Certo, il nostro uomo – virtuoso per natura - è dotato di un timbro bello e caldo, ora cristallino ora soffiato e affettato, di cui mantiene sempre il pieno controllo. Gli sviluppi armonici dei pezzi, così come anche i repentini cambiamenti di atmosfera e di tempo che ne costituiscono l’ossatura, sono sorprendenti indici delle sue doti compositive; il quieto romanticismo noir delle sue improvvisazioni sa far emozionare. Ma i difetti di contenuto non mancano: When the heart emerges glistening non riesce nè a far intendere un disegno complessivo, né a dare un capo e una coda alle singole canzoni, che troppo spesso sono tremendamente dispersive e - come diretta conseguenza – assai poco intense. In altre parole, si parte bene ma non si riesce a capire dove Akinmusire abbia posto il suo traguardo. Se l’intento era quello di realizzare un’opera free, manca al nostro la stoffa per gettarsi dentro a una tale impresa; eppure neanche come disco jazz in toto questo lavoro riesce a convincere. I

Modern Jazz

AMBRoSe AKINMUSIRe When The Heart Emerges Glistening [Blue Note, 2011]

Il ventinovenne trombettista californiano Ambrose Akinmusire è, a detta di tutti, una delle promesse del jazz americano. Eppure, a giudicare da questo lavoro, solo a metà si può essere d’accordo con

brani, infatti, sono a tal punto privi di personalità che la sensazione è quella di ascoltare un’unica, lunghissima e talvolta moderatamente noiosa improvvisazione. In fin della fiera, When the heart non soddisfa nessuna di quelle che potevano essere le sue ambizioni e lascia dietro di sè una sensazione di piacevolezza ma anche di inconsistenza, come una nuvoletta bianca che viene spazzata via dal vento senza nemmeno opporre troppa resistenza.

5/6- samgah

Hold Me In, altra ballata bucolica con sullo sfondo il mai troppo compianto elliott Smith. Dopo altri divertissements folk dub ed episodi più ritmati ci pensa lo strumentale Naturaleza a chiudere Sem Nostalgia, lavoro che si rivela in ritardo una delle più belle sorprese di questo 2011; un disco che mette sullo stesso, altissimo, piano fruibilità e audacia, emozione e tecnica.

7/8- zorba

di techno, elettronica da camera o avanguardia l’artista multi-identità sembra essere parecchio avanti rispetto a molti colleghi. La spropositata quantità di uscite (sotto i vari nomi) negli ultimi dieci anni testimoniano la vena creativa di un vero e proprio scultore di suono, capace di spaziare tra i diversi generi senza trascinarsi mai dietro i residui di un lavoro precedente. Queste otto tracce descrivono paesaggi e ambienti sconosciuti che difficilmente si riescono ad apprezzare al primo ascolto, la musica risulta criptica e inaccessibile proprio perchè non se ne comprende a fondo il senso; serve la mente lucida e l’orecchio attento per arrivare a capire dove il banale ascolto si trasforma in esperienza musicale. Non arrendetevi alla noia e alle distrazioni, cercate di immedesimarvi nel suono sublime che ne scaturisce e sarete molto vicini alla perfezione sonora. Non è un facile ascolto e ha tutta l’aria di essere uno di quei dischi o capolavoro o bidone che ti fanno o innamorare o addormentare, molto sta nel modus operandi dell’ascolto quindi prendetevi del tempo: io sono a casa malato e Vantaa mi sembra il paradiso.

7 - w

Ambient/Experimental

VLADISLAV DeLAY Vantaa [Raster-Noton, 2011]

Probabilmente una delle poche eccezioni musicali al detto “presto e bene non stanno insieme”, il finlandese Sasu Ripatti dimostra ancora una volta quanto la scena elettronica mondiale gli appartenga, che si tratti

recensioni

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Sludge Metal/Metal Evoluto

BLACK CoBRA Invernal [Southern Lord, 2011]

Anthropologic Techno

ANDY SToTT We Stay Together [Modern Love, 2011]

Techno

SURGeoN Breaking The Frame [Dynamic Tension Records, 2011]

Folk-Pop

FeIST Metals [Polydor, 2011]

dichiarazioni riguardo a Breaking The Frame; Anthony dice di essere stato influenzato in studio da La Monte Young, Terry Riley e Alice Coltrane; aggiunge che non è un disco nichilista, ma utopico. Musicalmente abbiamo un ventaglio di suggestioni che partono da un’implosione post-industriale, che è la sua cifra tecnica, e intorno alla quale girano schegge impazzite, diffrazioni ritmiche, atmosfere sempre più perse nell’universo e gli artisti succitati. E sono proprio questi artisti ad aprire il disco con Dark Matter, un cupo bordone ambientale, un suono sibilante che procede per minime variazioni fino ad aprire le porte a Transparent Radiation, un basso cupo, atmosfera nebbiosa e rimandi cinematici nella seconda parte. Remover Of Darkness è un battito circolare su cui si arrampica un synth schizoide, Power Of Doubt regala battiti delicati e rilassanti con bordoni dub, Radiance picchia come non mai, con un basso grasso e potente. Those Wo Do Not è una lezione techno, pezzo preciso e delineato a livello percussivo, senza le nebbie degli episodi precedenti, scheletro bene in vista, rifrazioni dub che si avvolgono intorno al corpo techno, cupo fino all’oscurità. A chiudere Not-Two, selva di rumori trovati su cui si innesta un coro angelico che porta il disco a compimento.

8- matmo

Anthony Child è un autore genuino, che ha scritto la storia della techno underground interpretandola come pochi, senza mediazioni. Per capire la trasversalità di questo grande artista basta leggere le sue

piena di promesse, come i miti di un’adolescenza che ancora giovani sorridono dalle pareti. E arriva anche il momento in cui si inizia a buttare via tutto quello che non ci appartiene e non ci è mai veramente appartenuto: riviste inutili, poster datati, brutti orsetti di pezza, quaderni pieni di formule che non si capiscono più, poesie in rima alternata, dischi di artisti che il tempo ha giustamente dimenticato: è un’iconoclastia necessaria. Feist con Metals sembra proprio aver compiuto questo – ha eliminato tutto quello che non serviva da The Reminder, ha recuperato certe sonorità - quel cantautorato femminile che meglio la descrive - detto addio ai vecchi amori, bruciato le vecchie carte su cui aveva spruzzato profumi dolcissimi come illusioni scadenti, seppellito la propria auto-indulgenza come un baule di ricordi non suoi. Quello che ne è uscito è un dodici tracce bittersweet, dolci e amare e di consapevole maturità; melodie belle di quella bellezza strana che può avere un taglio di capelli fatto di notte da soli: asimmetrico e libero, che non chiede conferme e che racconta di un passato, forse inaspettatamente, di tempeste e fragilità.

Nella vita di (quasi) tutte le persone arriva un momento in cui si torna nella stanza in cui si è cresciuti, come visitatori in un paese ormai straniero: tutto si è fermato in una luce immobile a un’epoca

La brava ragazza di The Reminder ha avuto quattro anni per crescere, “to know the sky”, come dice in Caught in a long wind. Metals è un viaggio sulle strade segnate dalle radici, dalle ferite, sulla rotta delle cicatrici.

8- mars

dell’esploratore britannico Ernest Shackleton. Anche chi ascolta procede nel gelo perenne, soffocato da un paesaggio privo di qualsiasi pietà: la melma sludge delle chitarre sale alla gola, mentre i tempi serratissimi della batteria spezzano col classico andamento pachidermico del doom, articolandosi in convulsioni che non lasciano nessuno spiraglio (merito anche della produzione di Kurt Ballou dei Converge, capace di unire il caos scurissimo delle chitarre a un drumming cristallino). Ogni tanto il monolite si concede qualche evoluzione atmosferica, come l’intro alla Isis di Corrosion fields e le parentesi di arpeggi che aprono e chiudono The Crimson Blade. Ma si tratta di momenti affilati, e non liquidi e avvolgenti come nella norma post-metal, tenuti comunque ai margini dell’assalto incessante. La voce, non troppo distante dalle tipiche scansioni sludge, si abbandona di tanto in tanto a urla disperate, ma nel complesso costituisce l’elemento più ripetitivo di Invernal, rendendo ancora più sfiancante la massa che il gruppo scaglia sugli ascoltatori. Le cose migliori del disco arrivano quando il gioco si fa più articolato e umorale: per esempio con Beyond, che passa da drones cavernosi a schianti quasi grind attraverso un arpeggio minaccioso. Degne di nota anche le due, diversissime, chiusure: la strumentale Abyss, che brutalizza il suono di casa Neurot, e una Obliteration a rotta di collo.

7/8- carisma

Avalanche lo dice il titolo: l’incedere marziale e inesorabile di neve che sommerge, nera come pece. Apre Invernal, il quinto lavoro del duo losangelino Black Cobra, ispirato ai viaggi nell’Antartide

groove circolare e cupo, allo stesso tempo caldo e accogliente. Sembra una delle terre di cui parla Lèvi Strauss, una folla di cannibali che si cimenta con Ableton e sintetizzatori. Si parte con Submission, un ambient dilatato, scosso da rullanti riverberati la massimo, in cui si infila un celestiale flusso marino. Già con Posers ci ritroviamo nella selva oscura cara al nostro, una cassa in quattro quarti che si districa tra il sottofondo drone e una voce, oscura e ripetitiva, Bad Wires è il miglior pezzo del lotto, i BPM aumentano, il basso si fa più pesante e colpisce dritto al cuore, dietro, una flebile frase di tastiera che sembra un sample dei Mount Kimbie devastato dalla bassa fedeltà. We Stay Together

Andy Stott ci regala la seconda perla di questo 2011. Dopo l’ottimo Passed Me By, uscito nella prima metà dell’anno, si ripresenta a noi con questo nuovo We Stay Together. Il suono di Stott è incentrato su un

(Part One) è il cuore del rituale, un suono distorto in reverse, un basso che segna il tempo per il sacrificio e versi disumani che appaiono e scompaiono. Con Cherry Eye e Cracked il rito si avvia alla conclusione, lasciando un marchio indelebile sulla pelle, toni quasi industrial, sempre però con quel bagliore in lontananza proprio dell’intelligenza artificiale, che tiene tutto sotto controllo. E allora seguiamo l’invito di Andy, stiamo tutti insieme e accettiamo il torpore che produce questa musica; un incontro-scontro tra il selvaggio e il cervello elettronico. Stott si conferma uno dei più abili sperimentatori e creatori di viaggi.

8- matmo

Techno/Avangarde

RoTTeRDAM Cambodia [Everestrecords, 2011]

recensioni

duo, qui all’esordio con un disco covato per ben 10 anni, è tutt’altro che la classica coppia impro/avant. Per cominciare si sono definiti unplegged-techno. Il suono, ovviamente, non è interamente acustico anche se le fonti principali sono innegabilmente quelle. Motivi ripetitivi, loop frammentati, archi in viaggio sulle corde del violoncello, note di chitarra pizzicata plasmano l’essenziale della portata sonora, sia nel loro nudo, naturale, suono, sia nelle forme sottoposte al trattamento elettronico. La base dei motivi è un’ossessione technoide per polibeat sovrapposti, dove si adagiano i sample acustici, ripetitivi, minimali e ossessivi. Le canzoni hanno quindi tutte strutture simili - come base c’è sempre un suono minimale o frasi che sono principalmente analogiche e si ripetono continuamente. Lentamente, impercettibilmente, si insinuano alcune variazioni, plasmate su questi temi fondamentali. Il suono è minimalista ma equilibrato - non c’è troppo rumore, nessun suono troppo nascosto o troppo evidente. Pensiamo a Cambodia: oltre sette minuti, stesse percussioni ed unica nota ripetuta a intervalli regolari; avanzando, il ritmo diventa una forma di tamburo più ricca, la nota solitaria è circondato da altri piccoli suoni, altrettanto impalpabili nella loro ricorrenza. La traccia di apertura Cool Bum Bum ruota intorno ad un sempre più stridente arco e un basso poliforme, SupSup è il pezzo che appare più vario grazie al suono slicerato della melodia e ai penetranti frammenti sonori occasionali, con Berlin invece, si abbandonano gli archi per dedicarsi a percussioni e batteria. E mentre Rotterdam aggiunge distorsioni allo scheletro techno, la conclusiva Zimzike è il fantasma percussivo dei NeU! accompagnato da un violoncello, nient’altro che un ronzio, su cui si innesta una melodia krauta. Mentre il mix tra gli strumenti acustici e l’elettronica non è né nuovo né rivoluzionario, quello a cui Susanne Amann e Michael Klauser arrivano è per certi versi unico, non solo nel modo di usare le loro sorgenti sonore, ma soprattutto nel modo in cui le costruzioni risultanti prendono forma e si sviluppano. I Rotterdam celebrano il potere della monotonia, che raramente è suonata così varia.

8- matmo

Mai farsi ingannare dalle apparenze. In questo caso dalle strumentazioni, usate dai viennesi Rotterdam, Susanne Amann (flauto, violoncello ed elettronica) e Michael Klauser (chitarra acustica ed elettronica), perchè il

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New Wave

RICHARD HeLL & THe VoIDoIDS Blank Generation [Sire, 1977]

Kraut-Rock

CAN Tago Mago [Ua, 1971]

Rock

GeoRGe HARRISoN Living In The Material World [Apple Records, 1973]

dire che si deve fondare un ‘partito anarchico’: l’ossimoro è lampante. Ma c’è uno che l’ha capito: questo è Richard Hell (il vero nome è Richard Meyers), il bell’americano che viene dall’Alabama. Ama poetare, ogni tanto dà fuoco a qualcosa, ma, di questi tempi non ci possiamo certo scandalizzare. Il disco non-manifesto di questo pseudo-artista è Blank generation. Cosa contiene questo disco? Assolutamente niente. È un disco semplice,anzi, povero, che vuole ritornare a quello che Richard non ha vissuto abbastanza: la musica rock’n’roll, l’attitudine brit punk style, e dei testi piuttosto arrabbiati, ma non si sa con chi. Richard vuole esternare quello che gli passa per la testa, e questo sembra bastargli. La canzone Another World sembra parlare chiaramente in maniera vaga: “Erasing my face/I want you so bad/I want to be you/it’s futile it’s sad/Oh, oh baby/Oh oh oh/I could live with you in another world”, e poi si mette a tossire. L’inizio del disco è al fulmicotone. Il primo pezzo Love comes in spurts è un vero e proprio impatto di chitarre, batteria e urla di vario genere: Oh no, Oh no!!! Yeah Yeah!, ecc. Liars Beware è una minaccia per tutti coloro che sono stati odiati dal Nostro. Il testo sembra piuttosto profondo. Parte del ritornello è: “Non dimenticherò la tua stupida faccia da stronzo!” Se ora ci concentriamo sulla title track Blank generation, che comincia con un ricordo di quando l’uomo supplicava di farlo uscire dal mondo ancor prima di nascere, vediamo subito che Richard non è un solitario che si pone dietro o davanti a tutti, in ritardo, o in anticipo, ma uno che al suo presente è appartenuto. “Io appartengo alla generazione vuota, e non posso, né volerla, né rigettarla. La prendo così com’è”. Spontaneità, sfogo, disperazione da poetucolo che, tutto sommato non ha avuto molto da dire, se non quello che ha detto tra un ‘Oh! Oh!’ e l’altro. Cosa comunica oggi Richard Hell? Amori fisici, un po’ di rabbia su cui gigioneggiare, seguire il tempo con una gradevole voce, odi e stime personali personificate da un ‘You’ o da un ‘They’. Ma tutto questo, perché? Stava così male? Durante l’ascolto del disco non mi pareva, anzi. Ma perché allora ho recensito un disco simile? Non lo so proprio, però l’ho fatto. Come Richard, che ha suonato senza un perché.

- gorot

capolavoro Tago Mago. Ci pensa la Mute Records a ricordarcelo, facendo uscire una deluxe edition con copertina differente e varie aggiunte musicali; ci pensa Feedback Magazine a raccontarvi il viaggio musicale dei cinque di Colonia sperando di indurvi un po’ di curiosità o semplicemente riportarvi alla mente bei ricordi. Il terzo album della band è sicuramente il più estremo e sperimentale per struttura e suono ma al tempo stesso (raro ma vero) è il più apprezzato da critici e ascoltatori: se all’epoca appariva come una delle grandi deviazioni intraprese dal Kraut-rock, tuttavia non ci volle molto a capirne l’importanza (nonostante tutto il marasma musicale tedesco). La band era chiaramente destinata a partorire qualcosa di importante: Schmidt e Czukay (basso e tastiera) erano stati discepoli del grande Karlheinz Stockhausen e della sua avanguardistica lezione di musica elettronica, Michael Karoli era un giovane chitarrista rockeggiante e Jaki Liebezeit un batterista dalle origini jazzistiche, contornati dalla delirante follia del cantante senzatetto Kenji Damo Suzuki. La folle sperimentazione di questi cinque musicisti sfociò in lunghe jam-session improvvisate e baccanali acustici sconclusionati e disorganizzati nei quali si registrava qualunque rumore venisse emesso per un tempo imprecisato (furono registrati perfino i dialoghi) e si cercava di fondere musica orientale e riti sciamanici con la compattezza del jazz e la precisione del Kraut. Il risultato straordinario restituì al mondo, dopo un lungo e sapiente lavoro di editing da parte del genio musicale di Czukay, sette ordinate tracce che si infilavano laddove altri non erano mai arrivati; differenti dalle atmosfere oscure e esoteriche degli Amon Düül II, lontani dalle progressioni dei Neu! i Can riuscirono a creare una world-music infarcita un po’ di tutto ciò che anticiperà molte delle sonorità future. Sprazzi noise e allucinazioni da psychedelic-rock letteralmente lanciate in mezzo a boogie trascinanti e lunghi intermezzi progressive, strane voci che echeggiano senza pronunciare parola, archi, sonagli e campanelli. Tutto è selvaggio e libero ma niente e nessuno disturba la quiete; pacatamente si attraversa un’altra dimensione.

- w

in particolare l’album che forse più lo ha caratterizzato, il quinto da solista, Living In The Material World, tanto da dare il titolo ad un documentario a lui dedicato realizzato da Martin Scorsese e rilasciato questo Ottobre. Stroncato dalla critica del tempo per il carattere troppo “spirituale” dei testi, sebbene in questo lavoro la componente cristiana forse un po’ troppo estenuata possa risultare pesante, non si può tralasciare che, il noto interesse per questioni extra-mondane e la forte religiosità di Harrison, ricordato come il più “mistico” dei Fab Four, sia parte integrante del suo percorso. Una atmosfera rilassata e leggera caratterizza gran parte dell’album che si apre con la meravigliosa Give me love (Give me peace), estratta come singolo riscontrando un immediato successo (n.1 negli USA). Il lavoro è intervallato da tracce più malinconiche come The Light That has Lighted the World, dove viene esplicitato l’intento di Harrison di dedicare il suo lavoro alla fede e dichiara il suo rammarico per il fatto che non tutti riescono a comprendere l’importanza che essa ricopre per lui. Questo pezzo infatti recita “I’ve heard how some people, have said / that I’ve changed / That I’m not what I was / How it really is a shame / The thoughts in their heads” ed ancora “They live all their lives / without looking to see / The light that has lighted the world”. Dall’altra parte può risultare moralista la critica che egli riserva a coloro che non hanno ricevuto o non cercano la “luce” che lui è convinto di aver trovato. La title-track è fra i pezzi più ritmicamente sostenuti di questo lavoro rallentando e lasciando spazio a momenti meditativi sottolineati da una atmosfera indiana di beatlesiana memoria. In definitiva, la ripetitività e l’insistenza dei temi trattati lascia considerare Living In The Material World un concept album che ruota attorno al messaggio spirituale di Harrison. Senz’altro sterile è la condanna della critica del tempo ad un credo personale che tenta di essere comunicato, anche se in modo pressante e forse un po’ moralista. Per l’ex beatle era una questione di grande pregnanza e tutto tranne che superficiale o costruita. L’importanza di questi pezzi va quindi intesa grazie all’aiuto che ci danno per comprendere chi era e ciò che muoveva il chitarrista di uno dei gruppi più influenti della storia della musica.

- eightand

Altro grande anniversario ci accompagna alla fine del 2011: questa volta tocca alla Germania ed al Kraut-rock dei Can, che 40 anni fa completavano il loro

Siamo alla fine degli anni ’70, il punk è già fiorito e molto p r o b a b i l m e n t e appassito. Definirlo movimento sarebbe c o n t r a d d i t t o r i o . Sarebbe un po’ come

A dieci anni di distanza dalla scomparsa di George Harrison, avvenuta il 29 Novembre 2001, può essere interessante riscoprire il suo lavoro fuori dai Beatles ed

rovistando in soffitta

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J’accuseLuciano Berio

“Oggi, al di là di ogni richiamo apollineo e dionisiaco ritornano ad emergere le qualità pratiche ed artigiane del compositore”: direi di aprire con questo spunto dello stesso compositore una breve riflessione sul suo pensiero musicale. Poiché di musica è dura parlare per sua stessa definizione, tanto vale tentare di parlare “musicalmente” della visione complessiva dell’autore. Nato a Oneglia nel 1924 e morto nel 2003 Luciano Berio ha seguito la sua strada musicale con scopi e motivazioni che vanno oltre la musica stessa. Fonte di ispirazione è stato l’incontro, oltre che dei suoi amici di Darmstadt (Stockhausen, Pousseur, Boulez, Ligeti e Nono) dai quali si distaccherà per esigenze compositive, con Luigi Dallapiccola che lo introdurrà verso una nuova maniera di pensare la serialità nella musica contemporanea italiana. Urgenza questa dovuta alla possibilità di comunicare i personali linguaggi e frontiere durante l’esperienza di insegnamento musicale negli USA durante gli anni ‘60 (tra i suoi allievi e futuri colleghi incontriamo Steve Reich). Nello scenario italiano, infatti, Berio ha saputo portare avanti rapporti proficui (nel ‘54 fonda con Maderna lo Studio di Fonologia Musicale presso la RAI di Milano e, sempre durante gli anni cinquanta sposerà Cathy Berberian (da cui divorzierà)) che fungeranno da spinta propulsiva per la sua creatività. Poiché è la comunicazione presente, insieme al continuo tramandare e dialogare dei vari stilemi, l’obiettivo della musica beriana. Il compositore afferma: “Forse si potrebbe dire della musica quello che si dice d’ogni altra esperienza umana (…) che, armonizzando e trasformando natura e cultura, è insieme pratica ed empirica. (…) La musica deve poter educare gli uomini a scoprire e a creare relazioni fra dimensioni, caratteri ed elementi diversi, e così facendo parla della storia dell’uomo e del suo apparato musicale con le sue vicende acustiche, sociali, intellettuali, espressive”. La musica ha potere sociale, espressivo e rituale:

una sorta di pedagogia musicale che diviene attualizzandosi e, a detta di Berio stesso, in barba a tutti i seguaci di Adorno, non debba avere dogmi ideologici o politici o moralizzanti. La musica ha a che fare, non tanto con l’aggiunta di determinati elementi o grammatiche, ma con i rimossi. Il fatto che la musica ampli sempre di più i suoi linguaggi non è determinato da un continuo sovrapporre, da un perpetuo sommare, ma da un’eliminazione di confini tonali e strutturali. Berio d’altronde precisa che il musicista, o meglio, colui che si spaccia per musicista, non è colui che cerca nuovi orizzonti sonori (al vetriolo è la sua polmeica nei confronti dei sintetizzatori, nel cui ambito salva esclusivamente l’opera di Morton Subotnick), ma nuove soluzioni che possano “dare un senso a questo rumore solo a patto di saperlo filtrare, solo a patto di saperci prendere delle responsabilità selezionando consapevolmente questa cosa o quell’altra, e cercando di comprendere quale posizione e quale combinazione degli eventi selezionati, filtrati, corrisponde meglio alle nostre esigenze e a un miglior rendimento di noi stessi”. Capacità del musicista, infatti, non è generare, ma selezionare, ritagliare dallo sfondo indefinito del rumore possibilità musicali. Ma cos’è allora la musica? A questa domanda Berio, stufo di rispondere poiché mai soddisfatto dalle sue elucubrazioni, non ha mai dato una replica definitiva, proprio perché non esiste un grado zero della musica: già da sempre siamo immersi nel buio musicale, citando Sanguineti, nel “fango che ci sta alle spalle”, vivendo uno spettacolo a sipario alzato, ormai cominciato. Particolarmente interessante è la sua osservazione sulla tecnica compositiva dell’ alea maderniano (da lui stesso definita la tecnica dei “quadrati magici”) assunta da Berio non come lascito di partiture finite per una loro eventuale esecuzione, ma come schizzi e abbozzi di un prodotto da integrare. È impressionante come il Nostro si ricordi ancora ciò

che dovrebbe essere ritoccato nello spartito del Quartetto per archi di Maderna: “Varrebbe la pena di redigere «normalmente» la battuta 164 bis e la fine, da battuta 259. Le soluzione «aleatorie» di Bruno sono raramente dettate da necessità musicali (…)”. Questa collaborazione maderniana ci rimanda alle opere elettroniche di Berio (ricordiamo Différences del ‘58, Mimomusique del ‘53, Ritratti di città con Maderna nel ‘54, Momenti del ‘57, Thema con Berberian del ‘58, Visage del ‘61 e Chants parallèles del ‘57). Fondamentale, infatti, è la sua concezione di musica elettronica che si distanzia completamente da quella musica concreta francese, che considerava il materiale musicale con spirito ready made, senza per questo sposare tout court la manipolazione sonora. Berio metteva l’accento non tanto sulla “manipolazione”, quanto sulla “trasformazione”: cercare, avendo a disposizione due tipi di materiali, di arrivare per “morfogenesi” ad un terzo. Ecco la generabilità in divenire di Berio, ed ecco il perché del suo astio contro la definizione di «neo-avanguardie». Questa è una definizione che invita a considerare un modo di comporre come una parentesi di sperimentazione rispetto ad un’altra migliore, o duratura negli anni. Ma non vi sono modi stabili, ipostatizzati, che hanno la precedenza su altri, poiché ogni movimento di sperimentazione è in primis un’avanguardia che si determina prepotentemente. La storia in completa mutazione, in continuo progetto, è la costante visione e azione del compositore. Molto altro ci sarebbe da dire, ma chiuderei con un esempio che è specchio di questa idea storico-musicale: il nostro Berio voleva essere pianista ma, per via di una ferita di guerra alla mano, ha scelto la composizione. Ecco una dimostrazione della fusione tra arte e storia che hanno determinato uno dei profili della musica italiana del Novecento. Lo spettro delle possibilità si è determinato in una scelta e così una vita è stata ritagliata e plasmata: quella di Luciano Berio.

- gorot

deep inside

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Sogno n°1

anima latina italia tra brasile ed argentina

Davide Van De Sfroos

“Tra il PRE ed il POST” recita il promo del Best Of 1999-2001 di Davide Van De Sfroos, che ripercorre la parabola artistica di Davide Bernasconi attraverso una selezione di trenta canzoni (tra cui due inediti, niente di che, a chiudere CD1 e CD2), un DVD e due racconti mai pubblicati (tra le altre cose, Davide è anche scrittore per Bompiani). Nonostante la mancanza di brani da Manicomi, primo disco dei De Sfroos non ancora progetto solista, e il fatto che l’era dei best of sia un po’ tramontata per lasciar spazio alle playlists di Youtube, la trovata commerciale PRE vacanze natalizie e POST Sanremo sembrerebbe calzare a pennello. Per nuovi proseliti e fan di vecchia data, le tracce proposte coprono infatti tutto il periodo di maturazione creativa, partendo dai primi successi (dalla Cau Boi che ha dato il nome al fan club attivo ormai da anni) per arrivare al recente ultimo singolo Yanez (che su iTunes costa ben trenta centesimi in più degli altri brani!). Ma non voglio tessere le lodi di un cantautore, né gettare fango sulle operazioni commerciali, del resto probabilmente indipendenti e distaccate dalle decisioni dell’autore stesso. Quello che mi preme è affermare la poetica forte che sta dietro ad un cantautore simile, in cui si può rintracciare un universo artistico solido e poliedrico, sia nei testi che nei generi musicali. La reputazione benevola e super partes ormai acquisita (de facto solo dopo la partecipazione al Festival di Sanremo, forse a testimonianza del fatto che, nonostante tutto, di quel marciume mediatico non ci libereremo tanto presto) è frutto dell’autenticità che viene trasmessa. L’autenticità è qualcosa che traspare, viene rivendicata ma non si può dire, eppure sormonta la lotta tra locale e globale e riesce a comunicare qualcosa di vero, laddove l’uso del dialetto, tanto criticato per i favori leghisti che attira, non è un fine bensì un mezzo. Del resto, esso viene da un cantante che ha dichiarato che il sardo è la sua lingua preferita e di sentirsi più antropologo che musicista, che si è persino inventato una ipotetica lingua dei pesci come tema base del disco Akuaduulza e che spazia dalla musica cubana ai rifacimenti reggae dal vivo, mantenendosi sempre su una base folk-blues da vecchia scuola. Insomma, se i grandi personaggi sono quelli capaci di accontentare tutti senza doversi abbassare a compiacere nessuno, forse abbiamo trovato il Fabrizio De André del lago di Como.

- fp

News from

“Cosa ti dicevo mai? A che punto ero? Ho quasi l’impressione che - io con te - perdo il sentiero”. Questa può’ essere una delle reazioni, ripresa dai primi versi di “Abbracciala, Abbracciali, Abbracciati”, di un qualsiasi ammiratore del Battisti della canzone all’italiana all’ascolto, nel dicembre del 1974, di Anima Latina. Lucio Battisti aveva appena lasciato alle sue spalle due dischi come “Il Mio Canto Libero” e “Il Nostro Caro Angelo” con singoli come le sue title-tracks, La collina dei ciliegi ed altri evergreen che continuano ancora a fare proseliti. La genesi del disco è illuminante per capire il suo suono. L’autore veniva da un viaggio tra i paesi del Sud-America, durante il quale si era innamorato della musica del luogo. E in Anima Latina Battisti, rievoca questo mondo, non tanto cercando una musica uguale, ma plasmando atmosfere che la caratterizzano. Già la copertina dell’LP ci catapulta nel mondo latino con una fotografia di Cesare Montalbetti che ha dichiarato: « Il titolo del disco ispirò l’immagine, così decisi di rappresentare l’anima latina con la figura di una donna florida, ma dallo sguardo triste. Dina, una signora dalla simpatia esplosiva, l’avevo già fotografata per la copertina dei Flora Fauna

degli assoli di certi grandi professionisti, c’è qualcosa che riesce a sciogliere ogni dubbio. La maternità di questo disco spetta a Dori Ghezzi: “Ormai ho smesso di chiedermi se questo progetto sarebbe piaciuto a Fabrizio - ha dichiarato - Ma lui aveva fiducia in me, e tanto basta. Non so se avrebbe avuto il coraggio di cantare con l’orchestra, per fortuna le tecnologie ci aiutano”. Le tecnologie di cui parla sono quelle dei mitici studi di Abbey Road che anno ospitato gli ottanta musicisti della London Symphony. Questa orchestra si colloca senza dubbio ai vertici del panorama musicale mondiale, il suo intervento in un qualsiasi progetto rappresenta di per sé una garanzia di successo. Nelle vesti di arrangiatore e direttore troviamo invece Geoff Westley, non nuovo alla musica italiana, vista la lunga collaborazione con Battisti. Westley, dopo aver scelto liberamente alcune canzoni di De Andrè, ha agito sulle melodie, sostituendo il loro caratteristico stile asciutto con una fiorita polifonia, per creare dei veri e propri affreschi sinfonici. Il risultato, uscito in Italia il 22 novembre per Sony, porta il nome di Sogno n°1. Il primo brano “manipolato” è la struggente Preghiera in Gennaio, in cui la voce si muove sopra un reticolo di archi e fiati, che mostrano coscienzioso rispetto nei confronti del testo, limitandosi a dar maggior risalto alle parole con i loro interventi. Diversa è la situazione in Ho visto Nina volare, in cui la parte ritmica è lasciata interamente al basso continuo di contrabbassi e violoncelli. Ne risulta una minore incisività e il brano appare nel complesso più scollegato. Trovandosi ad aver a che fare con la varietà di emozioni e spunti melodici di Hotel Supramonte, si capisce facilmente quanto sia difficile resistere alla tentazione di farsi prendere

Cemento. Attorno le radunammo, sul prato del Mulino, una schiera di bimbi, tutti figli dei nostri amici. Con l’ausilio di pentole, coperchi, trombe e trombette si organizzò un baccanale, facendo divertire tutti i presenti ». una foto allegra ma che nasconde una melanconìa, una nostalgia, sia per i colori utilizzati che per i soggetti. Riesce ad unire l’anima esuberante e divertente sudamericana con un sentimento montaliano di tempo perduto. Passando alla musica scivoliamo dal flamenco storpiato di Due Mondi (con la splendida voce di Mara Cubeddu) all’improvvisazione idilliaca di Abbracciala, Abbracciali, Abbracciati, fino ai labirinti musicali di Anima Latina. La traccia però più visionaria e potente è Macchina del tempo, dove la band lavora per stratificazioni, dalla voce vocoderizzata di Battisti, accompagnata da note sintetiche, ai ritmi in continua variazione con interferenze concrete. Un disco immenso di un uomo che spesso è riconosciuto solo per le sue (le definiamo così, ma con il sommo rispetto) canzonette, vuoi per la mancata militanza politica (Fabrizio De Andrè) vuoi per la trasparenza delle sue liriche (Francesco De Gregori). Disco che per la sperimentazione, il coraggio merita di stare al fianco di Creuza De Ma e Caffè De La Paix come miglior disco della storia musicale italiana. E insieme al suo autore, massimo compositore pop-rock italiano di sempre.

- matmo

Omaggio della London Symphony Orchestra a De Andrè

la mano. L’apertura infatti è eccessivamente ridondante ma, per fortuna, Westley corregge il tiro nel corso dell’esecuzione, facendone il momento più alto dell’intero disco. L’idea originaria prevedeva la collaborazione con Capossela e Fossati, quest’ultimo successivamente sostituito da Battiato. I duetti, insieme forse alla ripetitività di un tipo di arrangiamento sinfonico che alla lunga non permette grandi variazioni, costituisco un punto dolente. Anzi, nel caso di Valzer per un amore con Vinicio Capossela, si può parlare di una vera e propria nota stonata. Il cantautore è visibilmente a disagio e la sua voce non riesce ad amalgamarsi con la sontuosa orchestrazione in stile “ballo delle debuttanti di Vienna”. Franco Battiato dialoga con De Andrè in Anime Salve, che da inno alla solitudine viene paradossalmente trasformato in duetto. In generale però l’intero lavoro di Westley si dimostra profondamente consapevole della funzione secondaria che spetta alla musica quando ci si trova davanti testi che sono espressione di pura poesia. La rilettura sinfonica sinfonica, graditissima agli amanti del genere, riuscirà a sorprendere anche i più critici. In futuro, continuando su questa strada, c’è il progetto di un Dream n°2, opportunamente in inglese per adattarsi allo scopo: far cantare le canzoni tradotte di De Andrè ad artisti internazionali. “Penso agli impensabili, agli improbabili – ha commentato Dori Ghezzi - mi piacerebbero Rufus Wainwright, Anthony & The Johnsons, Patti Smith perché già conosce Fabrizio, e vorrei tanto Annie Lennox. Ma anche dei giovani...”. Nell’attesa, oltre a sperare di trovare Sogno n°1 sotto l’albero, possiamo riflettere su quanto sia bello rincontrare ancora una volta Fabrizio De Andrè e le sue parole.

- comyn

Forse Fabrizio non avrebbe gradito un operazione del genere, i suoi fan lo sanno e, anche solo a sentirne parlare, storcono il naso. Eppure nella nota d’attacco di una grande orchestra, nella delicatezza

deep inside

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Incontro con Rabindranath Tagore

Ahi, la vita: ce l’hanno sempre chiamata fatica, dolore, triboli, o nel migliore dei casi fantasia, sogno, illusione. Sarà così dovunque? Sentiamo che non c’è nessuna questione più importante da risolvere, e noi non siamo tipi da lasciar cadere una domanda una volta fatta. Sciogliamo gli ostili ormeggi della nostra austera tradizione occidentale e salpiamo verso Oriente in cerca di una qualche civiltà dorata: il viaggio è denso di fatiche e pericoli, ma già alla vista dei primi scampoli di terra – una terra sconosciuta - rassicurante ci invade le narici il profumo dei gelsomini, frammisto all’acre odore dello zafferano. Gettiamo l’ancora su una spiaggia – ma forse, chissà, è la riva di un lago –; c’è un vecchio – ma potrebbe essere anche un giovane – ad aspettarci. Proprio lui si offre di accompagnarci attraverso questa nuova terra. Parla poco, ma ogni parola che dice sembra immediatamente essenziale ai nostri orecchi. Si meraviglia spesso di quel che diciamo, di quel che facciamo, di come lo facciamo: in questi momenti sorride, con l’aria di chi sa e capisce tutto di quel che è successo, di quel che è e di quel che ha ancora da accadere. Ogni tanto si ferma, intona una melodia sul suo flauto di canne, sorride, riparte. Per tutto il giorno ci conduce tra quelle che a noi sembrano solo piazze del mercato, umide alcove e ridenti radure. Sembra che per lui tutto ciò abbia un significato più intimo e profondo: quale sia, però,

The Gardener

a galla il senso di costrizione che era costante nella nostra “vita precedente”. Scegliamo di stenderci e riposare: dopotutto – anche se il nostro spirito cerca di essere ben sveglio – il fisico è stanco. Subito – dormendo, o forse a occhi aperti – incominciamo a sognare come da gran tempo non ci succedeva:

amori “semplici come canzoni”, rossori improvvisi, “vini di baci” pregiati, “continue stoccate” degli occhi, “poche ore fragranti” di vibrante immortalità, amori “sacri” proprio perchè non espressi; e ancora, convegni d’amore nelle notti di maggio, lune che scandagliano il mare, “sorrisi e timidezze, dolci inutili lotte”. È il vecchio stesso a svegliarci; quando ci decidiamo ad aprire gli occhi lo troviamo intento nella sua attività di giardiniere, che indugia sul solito sorriso serafico. Finalmente – e per la prima volta - ne capiamo il motivo.

- samgah

L’ispirazione per l’articolo è tratta dalla raccolta poetica The Gardener di

Rabindranath Tagore (1861 – 1941), poeta bengalese premio Nobel per la

letteratura nel 1913. Si è voluto, con questa mezza pagina, non tanto recensire

la raccolta, né celebrarla, quanto dare un assaggio dell’immaginario che la

pervade. Quel genere di assaggio che (spero) riesce a stuzzicare a dovere

l’appetito.

non ci è dato di saperlo. Trascorriamo la giornata in mezzo a uomini di cui non sappiamo assolutamente nulla; la nostra guida sembra conoscerli e intrattiene con loro piacevoli conversazioni di cui riusciamo a intendere solo un mormorio che ci ricorda quello dell’acqua quando struscia pigra sulle rocce. Presto – troppo presto – arriva il crepuscolo, e dopo il crepuscolo la notte: capiamo che per l’uomo è il momento dell’intimità e ci allontaniamo, desiderosi di carpire quante più informazioni possiamo su questo mondo. Ma senza il vecchio a guidarci, perdiamo l’orientamento: tutto sembra sfocarsi, e allo stesso tempo ritorna

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“La vita è soltanto un’ombra errante, un guitto che in scena si agita per un’ora pavoneggiandosi, e poi tace per sempre: una storia narrata da un idiota, colma di urla e furore, senza significato”. Questi sono i versi del Macbeth da cui William Faulkner trae il titolo del suo romanzo del 1929 L’urlo e il furore. Ed è proprio un idiota a narrare la storia. Una famiglia del sud americano, mentre incombe la Grande Depressione, la famiglia Compson, le coordinate. Il trentatreenne Benji, affetto da una grave malattia mentale, innamorato dei fiori nelle bottiglie e di sua sorella Caddy. Attraverso lo sguardo di Benji noi riconosciamo il tragico come un semplice ed immediato manifestarsi dell’insensatezza, del dolore e della rovina. Ed è per questo che le urla disperate di Benji sono proprio il “ suono grave e disperato di ogni muto tormento sotto il sole”. Ed è proprio il monologo di Benji, che si trova all’inizio del libro a piantare i picchetti per costruire il resto dell’intreccio. Picchetti che però non sono stabili, bensì fluttuanti, in continuo movimento che determinano l’intera estensione del libro. Benji, nonostante il ritardo mentale, sembra essere in anticipo con le sue profezie, con i suoi discordi che sono l’annuncio della venuta degli altri personaggi. Un continuo associarsi e dissociarsi delle coordinate spaziali e temporali (esemplare, su questo punto, il piano dell’opera) che si riflettono sul rapporto tra l’Io e il Mondo. E questo è l’incipit del monologo di Benji: “Al di là dello steccato, fra i rampicanti, potevo vederli giocare. Procedevano verso la bandiera, ed io li seguivo, lungo lo steccato,. Luster frugava fra l’erba, sotto l’albero in fiore. Sfilavano la bandiera e colpivano la palla. Poi rimettevano a posto la bandiera, andavano sul terrapieno, prima tirava uno, poi l’altro. Procedevano ancora, ed io ancora a seguirli, lungo lo

L'URLO E IL FURORE“It is a tale told by an idiot, full of sound and fury signifying nothing”

steccato. Luster si allontanava dall’albero in fiore, avanzavano lungo lo steccato, si fermavano, ci fermavamo anche noi, mi mettevo a guardare fra i rampicanti, mentre Luster frugava nell’erba. «Attento, caddie». Tir. Si allontanarono, attraversando il prato,. Aggrappato ai pali dello steccato, li guardavo che si allontanavano”. E qui è chiara la struttura del suo monologo che procede per una libera associazione di idee, un labirinto in cui è facile perdersi, ma utilizzando lo stratagemma di Arianna, trovarne l’uscite è altrettanto semplice ed altrettanto bello è passare da una strada più lunga ma tramite la quale osservare e godere del paesaggio.Faulkner chiude in una struttura torbida e labirintica di un romanzo impervio ed impenetrabile. Uno dei libri da annoverarsi tra i più difficili nell’entrare nell’intreccio ma che simmetricamente regala un viaggio indimenticabile. La giovane Caddy sembra essere all’inizio una presenza candida e rassicurante per divenire alla fine una sorella ingenerosa e una madre snaturata che abbandona la figlia. I suoi tre fratelli, Benjy, Quentin e Jason sono troppo coinvolti negli avvenimenti per riuscire a fare chiarezza fino in fondo, e sarà solo Dilsey, la cuoca negra, capace di slegare la matassa rugginosa che avvolge tutta la famiglia.Un miracolo. Il mio “splendido fallimento” lo definiva Faulkner, “un vero figlio di puttana”, “un libro in cui ho riversato le mie viscere”. Certo è che se non proprio le viscere Faulkner ci ha riversato molte passioni private. Il crollo dell’aristocrazia, dei proprietari, il crollo della classe gentilizia di provincia, la decadenza della famiglia protagonista sono gli ingredienti del racconto, che rispecchiano il tempo e la vita dell’autore, il tutto affogato in modelli letterari di grandissima influenza, l’esistenzialismo di Melville, la leggerezza (appesantitta) di Hemingway, il sentimento

religioso della Bibbia, Shakespeare (che richiama anche nel titolo) e le sperimentazioni linguistiche di Joyce. Qunto a Shakespeare è come se Faulkner lo conoscesse a memoria, tanto è il richiamo al salto di stile, che come quello dell’inglese ci trasporta dal quotidiano all’eterno.Qui la scrittura di Faulkner permette al lettore di vedere tutte quelle cose descrivibili solo dopo averle empiricamente provate, una scrittura immanente, che scava e che può modellare la paura che non riusciamo mai a descrivere, a patto di farsi travolgere ed invischiare nel tessuto romanzesco. Una scrittura divorante, figlia dell’esperienza interiore del lettore, la parte più intima e veritiera, che si nutre di quello che proviamo sulla nostra pelle. Di questo linguaggio, nella nostra memoria, potrebbe rimanere un senso di abbondanza, di ricchezza, forse anche oscurità. E, nella nostra mente, si forma questa immagine contorta, barocca. Si sottolinea nel ricordo di questa scrittura, una certa dilatazione del periodare, un certo avvolgersi, un tono che potremmo quasi definire alto. Ma poi la sua scrittura non è quella che ci immaginiamo o che pensiamo, perchè non si tiene su un solo piano, passa dal tono alto a quello basso, dall’iperbolico all’elementare, dal quotidiano, appunto, all’eterno. Nella decadenza di questa famiglia del Sud, sembra che Faulkner ci voglia narrare una storia tragica, la storia di una caduta. E come detto poco sopra, c’è un solo peronaggio in questo libro che conosce la natura e la fruibilità di un sentimento. Ed è proprio Dilsey, la nera, una specie di madre, sempre presente, disponibile, affettuosa. L’ancora di salvezza che traghetta il lettore nel difficile guazzabuglio della lussureggiante e decadente famiglia Compson.

- matmo

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Finchè in cielo ci saranno due luneA rischio di risultare ripetitivi torniamo a parlare, dopo nemmeno troppo tempo, di Haruki Murakami. Ne torniamo a parlare dopo che il suo recente 1Q84 è finalmente uscito in Italia. A dir la verità, ad aver visto la luce in lingua italica sono solo i primi due libri, dei tre di cui il romanzo si compone. Nonostante questo, però, l’edizione nostrana non ha affatto un sapore di incompiutezza. Anzi: a rischio di una futura e colossale smentita, mi sentirei quasi di sperare in una mancata pubblicazione italiana della parte finale dell’opera; a tal punto i primi due libri sono coesi, compiuti, conclusi. Ma, soprattutto, a tal punto è perfetto in essi l’equilibrio che Murakami ha imparato a creare tra gli elementi che da sempre lo contraddistinguono. Già il titolo può fornircene un esempio: esso contiene in sé un evidente omaggio a George orwell, l’autore di 1984 – spia della presenza di un forte citazionismo, caratteristico della cifra stilistica di Murakami -, ma allo stesso tempo allude (e questo lo si capisce man mano che si procede nella lettura) a quel “realismo magico” presente a intermittenza – ma comunque fin dall’inizio – nell’opera del giapponese. Inizialmente, però, la lettura procede faticosamente: sembra che il ritmo narrativo sia ulteriormente rallentato, che l’autore indulga nel descrittivismo più del dovuto, che abbia piegato il proprio talento nell’ipnotizzare il lettore a fini subdoli; sembra, insomma, di avvertire una certa

mancanza di idee e una certa piattezza di fondo. La storia (che ruota principalmente intorno ai due trentenni Aomame e Tengo) procede alternando a ogni capitolo-Aomame un capitolo-Tengo (i due, infatti, si sono conosciuti in passato, ma non si vedono da parecchi anni); l’idea è pregevole, ma si ha la sensazione che i personaggi siano abbozzati, lasciati a se stessi, piatti. Se non che. Se non che, dopo il primo terzo del libro, qualcosa scatta. Mano a mano che Tengo e Aomame – i due estremi, cioè, del segmento che costiuisce la trama – incominciano a stendere pacatamente le proprie braccia l’uno verso l’altra e a entrare in una dimensione alternativa a quella reale (ma assolutamente identica ad essa, tranne che per qualche piccola, indecifrabile differenza), tutto si fa sempre più avvincente. La seconda parte del libro diventa dunque una preparazione in grande stile per entrare nella terza, e da lì spiccare il volo. Nella parte finale, infatti, nella quale i due estremi si incontrano fin quasi (quasi!) a formare un segmento compiuto e unito, si soffre, ci si commuove, ci si impaurisce: l’abilità del maestro giapponese nel manipolare i sentimenti del lettore è qui ai massimi livelli. Tra vette di suspence e tocchi di finezza psicologica, il libro si conclude con un punto interrogativo gigantesco, in bilico tra vita e morte. Solo dopo qualche ora dalla fine della lettura si riesce (sempre che lo si voglia fare) a riflettere sui contenuti di 1Q84. Se leggete in giro, è probabile (o anche no) che sentiate

parlare del rapporto dell’uomo col mondo e con se stesso; di un’acuta riflessione sul soprannaturale e l’invisibile. Per Murakami, però (forte degli insegnamenti di Carver, che aveva a sua volta ereditato molto da Cechov, quest’ultimo ipercitato in tutto il libro), queste saranno sempre e solo sciocchezze. Ciò che conta è proprio l’incompiuto, lo stupore della domanda che non presuppone risposte. La bellezza geometrica – direbbe Tengo – di due punti che si avvicinano fino a vedersi a occhio nudo, senza però potersi toccare. Che però, almeno “finchè in cielo ci saranno due lune”, continueranno a cercarsi.

- samgah

Di questo film non parlerò, per il semplice fatto che non posso proprio parlarne. È il film-sorpresa dell’anno rivaluta il valore del gesto artistico in tutte le sue sfaccettature: The Artist. Darò brevemente due notizie di repertorio: il film è uscito in Italia qualche settimana fa, il regista è Michel Hazanavicius, gli attori sono Jean Dujardin, Bérénice Bejo e John Goodman. La trama è semplice: l’attore George Valentin, uno straordinario interprete di film muti (corre l’anno 1927), assiste all’avvento del cinema sonore. Il cinema muto sembrerà all’industria cinematografica hollywoodiana un evento ormai passato, primitivo, stantìo: fuori moda, insomma. Il direttore della Kinograph production annuncia a Valentin che la sua epoca di grande attore è finita, deve lasciare posto ai giovani attori e alle nuove arti. L’attore sfida la mega-produzione e per fare concorrenza scrive, dirige e produce un proprio film. Ovviamente l’intera operazione si rivelerà un flop. Il protagonista, ridotto sul lastrico, verrà salvato, oltre che dall’amore della bella Peppy Miller (che all’epoca iniziò

la sua carriera proprio grazie a Valentin), dall’avvento di un’altra moda: quella dei film musicali. Il film si chiuderà con un delizioso balletto finale. Il film The Artist apre veramente troppi spunti di riflessione, ma quello che più penso sia importante è proprio il tema del silenzio in un’era in cui ognuno si può esprimere e far sentire la propria voce. A dimensione dell’incubo del protagonista è proprio la realtà del suono, del rumore, del mondo che è effettivamente come tale, che non si nasconde, ma che si dà in tutta la sua effettività e totalità. Col rumore, con la parola, non vi è più lo spazio dell’ignoto, della “retorica” mimica e prossemica, ma ciò che appare rivela effettivamente ciò che è significandosi . L’attore ha voluto vivere in un mondo di illusione e, alla fine, accettare quest’era? – Da notare che nell’ultima scena costituita da due battute, l’unica parlata poiché il film è interamente muto (e verrebbe da interrogarsi su quanto questo film abbia interrogato il cinema odierno), l’attore sbaglierà a pronunciare la sua facendo

L’artista in silenzio

sospettare il suo non totale adunamento all’industria culturale – L’attore, che vive nel bell’apparire, non ha forse compreso che l’età dell’immagine svanisce completamente nel suo totale palesamento e rifugge, pur sempre all’interno del rumore, in un proprio silenzio?

-gorot

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Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Lorenzo Maffucci, Federico Pozzoni, Andrea Arcangeli, Andrea Gorone, Stefano Barone, Sara Marzullo. Grafica e impaginazione a cura di Francesco Gori.Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel Gennaio 2012. Per informazioni, critiche e consigli: [email protected] Magazine è consultabile e disponibile in download gratuito all’indirizzo http://issuu.com/feedback.magazine

Georg Simmeluna vita, forse.

ALVA NoTo27 gen. Museo Marino Marini, Firenze28 gen. Locomotiv, Bologna

Le LUCI DeLLA CeNTRALe eLeTTRICA27 gen. Locomotiv, Bologna

ALeSSANDRo FIoRI 3 feb. Nuovo Camarillo, Prato

DIRTY BeACHeS9 feb. Traffic, Roma

I CANI10 feb. Estragon, Bologna

PeTeR DoHeRTY 11 feb. Estragon, Bologna

Noi parliamo di vita: quando ci alziamo, facciamo la spesa, usciamo per passeggiare, lavoriamo, studiamo, ecc. Insomma, consideriamo tutto quello che facciamo come appartenente alla nostra vita. Georg Simmel, con la sua ironia jiddish strizzerebbe gli occhi per voler meglio capire e, eventualmente, correggere questa persuasione: la persuasione che quella che noi diciamo di vivere sia la “nostra” vita. Infatti ciò che vi è di più nostro è l’esistenza, ma non la vita. La vita è un concetto metafisico. Piuttosto complesso da spiegare, ma cercherò di essere chiaro. Quella che io vivo ogni giorno è la mia esistenza: Simmel la chiama Mehr – Als – Leben, Più-che-vita. L’esistenza è ciò che trascende la vita, che non viene chiamata da Simmel “vita”, ma Mehr – Leben (che non si traduce con “più – vita”, ma con “vita ulteriore”). La vita è altro rispetto all’esistenza, ma non è una trascendenza

verso cui siamo diretti come se fosse un’al di là. Essa è piuttosto l’attualità della potenza: caratteristica della vita è il suo continuo essere in potenza. Nel momento in cui si attua, essa si trascende e diventa esistenza. Nel momento in cui poi l’esistenza si trascende essa diventa forma. Per esempio, una forma può essere una moda (il vestirsi attillati e di nero). Caratteristica della forma è nascere per sostituire una forma precedente e per essere sostituita da un’altra forma successiva (il vestirsi largo e di bianco). Gioco dell’esistenza è trascendersi in forma, e gioco della forma è trascendere la forma precedente e farsi trascendere da quella che verrà. Ma la vita in tutto ciò? Essa è inarrivabile, ma intuibile. E come può essere intuita? Dallo scorrere in forme dell’esistenza. Se per un attimo ci alziamo e ci mettiamo a osservare quello che viviamo, vediamo il meccanismo dell’esistenza che si

trascende in forme continuamente. La vita è l’arcobaleno che intravediamo grazie alle gocce dell’esistenza in forme che continuano a passare un dopo l’altra ininterrottamente. Dal frammento si intuisce una totalità, nella sua interezza, ovvio, ma esclusivamente attraverso il frammento. La metafisica del frammento dona la speranza di bucare l’esistenza che si estrinseca in forme e poter farci vedere che la vita è solo una, continuamente e senza essere in atto, ma che continua superarsi in quelle che noi chiamiamo vite, ma che sono le nostre esistenze che scorrono e passano: attimi. Possiamo ben comprendere la riflessione del protagonista del libro di Thomas Bernhard Perturbamento quando dice: “C’erano attimi in cui mi sentivo in grado senza alcuno sforzo di penetrare con lo sguardo nella creazione, che altro non è se non un’immane estenuazione. «Attimi» dissi.

- gorot

viaggi extrasonori

FeNNeSZ18 feb. Museo Marino Marini, Firenze

ST. VINCeNT22 feb. Lanificio, Roma

DeNTe25 feb. Teatro Pacini, Pescia (PT)

BUD SPeNCeR BLUeS exPLoSIoN9 mar. Karemaski, Firenze

WILCo9 mar. Estragon, Bologna

RoGeR DALTReY (THe WHo)20 mar. Teatro Comunale, Firenze

MARK LANeGAN24 mar. Estragon, Bologna

DUM DUM GIRLS29 mar. Auditorium Flog, Firenze

CHRIS BRoKAW3 feb. Ex Fila, Firenze

Lo FAI Lo-FI?@ la Casa, Firenze

28 gen. - Giuliano Dottori4 feb. - Alessandro Raina (Amor Fou &

Giardini di Mirò)18 feb. - Baby Blue & Peckinpah

CALIBRo 3510 mar. Auditorium Flog, Firenze