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2 aprile 2013 Nel sacco, nella rete Costringere l'edificio, o l'oggetto, dentro un "sacco" deformabile di tessuto plastico o rete metallica: è una delle tante strategie formali (qualcuno parlerebbe di memi) adot- tate dai progettisti negli ultimi anni. L'idea gli è venuta dai sacchi utilitari, quelli che servono ad esempio per immagazzinare e trasportare le patate destinate alla semina (fig. 1). In quel caso il sacco non si propone fini estetici (>bellezza): basta che non si rompa nel trasporto e sia di una dimensione tale da poterlo agevolmente movimentare a mano o a spalla quand'è pieno. Ma se le patate sono destinate al consumo (fig. 2), la tela di sacco opaca, grezza, sfilacciata, brutta, lascia il posto a una rete (il consumatore vuol vedere quel che com- pra) più bella, di colore giallo un po' più chiaro delle patate, evidentemente per farle sembrare migliori, come le analoghe reticelle color arancione o rosso in cui ci vengono talora vendute le arance. 1, 2 – Patate "da seme", riservate ai coltivatori, e patate confezionate per la vendita al consumo. Se poi nel sacco anziché delle noiose patate ci mettiamo qualcosa di più interessan- te, diciamo un corpo umano, magari nudo o quasi (fig. 3), le possibilità estetiche si moltiplicano, come ben sanno i coreografi che impiegano tessuti elastici nei loro bal- letti, imponendo ai ballerini di premere contro la tela ogni loro parte anatomica giudi- cata importante ai fini dello spettacolo (fig. 4). Quelli che si ottengono sono effetti mostro-non-mostro, ricercati già da Michelan- gelo nello scolpire i Prigioni: s'è guardato bene dal liberarli completamente dal blocco marmoreo, facendo aggallare un gluteo qua, una spalla là e sfidandoci così a immagi- nare le molte parti invisibili (fig. 5).

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Nel sacco, nella rete Costringere l'edificio, o l'oggetto, dentro un "sacco" deformabile di tessuto plastico o

rete metallica: è una delle tante strategie formali (qualcuno parlerebbe di memi) adot-tate dai progettisti negli ultimi anni. L'idea gli è venuta dai sacchi utilitari, quelli che servono ad esempio per immagazzinare e trasportare le patate destinate alla semina (fig. 1). In quel caso il sacco non si propone fini estetici (>bellezza): basta che non si rompa nel trasporto e sia di una dimensione tale da poterlo agevolmente movimentare a mano o a spalla quand'è pieno.

Ma se le patate sono destinate al consumo (fig. 2), la tela di sacco opaca, grezza, sfilacciata, brutta, lascia il posto a una rete (il consumatore vuol vedere quel che com-pra) più bella, di colore giallo un po' più chiaro delle patate, evidentemente per farle sembrare migliori, come le analoghe reticelle color arancione o rosso in cui ci vengono talora vendute le arance.

1, 2 – Patate "da seme", riservate ai coltivatori, e patate confezionate per la vendita al consumo. Se poi nel sacco anziché delle noiose patate ci mettiamo qualcosa di più interessan-

te, diciamo un corpo umano, magari nudo o quasi (fig. 3), le possibilità estetiche si moltiplicano, come ben sanno i coreografi che impiegano tessuti elastici nei loro bal-letti, imponendo ai ballerini di premere contro la tela ogni loro parte anatomica giudi-cata importante ai fini dello spettacolo (fig. 4).

Quelli che si ottengono sono effetti mostro-non-mostro, ricercati già da Michelan-gelo nello scolpire i Prigioni: s'è guardato bene dal liberarli completamente dal blocco marmoreo, facendo aggallare un gluteo qua, una spalla là e sfidandoci così a immagi-nare le molte parti invisibili (fig. 5).

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3, 4 – Corpi umani che deformano sacchi elastici e semitrasparenti (a destra una ballerina dei Momix).

5 – Michelangelo, dettaglio del prigione detto Atlante, 1520-32, Firenze, Galleria dell'Accademia. Ancora più significative certe intriganti sculture barocche (figg. 6, 7), che fanno ve-

nire in mente la maglietta fina / tanto stretta / al punto che / mi immaginavo tutto, in-dossata, nel disco italiano più venduto della storia, della fidanzatina di Claudio Baglioni (diventato poi architetto, come racconto in >didattica).

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6, 7 - Antonio Corradini, Dama con velo (Purezza), 1717-25; La pudicizia velata, 1751. L'effetto "maglietta fina" (con la variante più hard della "maglietta bagnata") ci ha

portato agli abiti di tutti i giorni, che da secoli, anzi da millenni, utilizzano l'effetto mostro-non-mostro. Soprattutto gli abiti femminili, con i loro tanti artifici per attirare l'attenzione degli uomini su quel che alternativamente celano e rivelano (figg. 8, 9).

8, 9 – Effetti mostro-non-mostro in una canotta Doha: sul davanti le forme corporee s'intuiscono dalla tensione che provocano sul tessuto, di dietro si possono addirittura (intrav)vedere attraverso i generosi tagli.

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Perché non sono gli abiti maschili, ma principalmente i femminili, a far uso di tali ef-fetti? È una questione evolutiva: in altre specie animali è il maschio a dover conquistare la femmina, esibendo un aspetto mirabolante (si pensi alle corna del cervo, o alla coda del pavone), o quanto meno un complesso e dispendioso rituale di corteggiamento (si pensi ai giardini costruiti dagli uccelli Ptilonorhynchus, di cui parlo in >decorazione). Ma nell'Homo sapiens è soprattutto la femmina a doversene occupare, e lo fa rinfor-zando le sue doti naturali mediante un'ampia varietà di artifici culturali: cosmetica, ab-bigliamento, deformazione del corpo (fino alla chirurgia plastica) ecc. Per impedire al maschio di fuggire, [la donna] ha bisogno di tenerlo in un perpetuo stato d'eccitazione cambiando continuamente forma e colore con qualunque mezzo, lecito o illecito. Nella tradizionale battaglia dei sessi, l'abbigliamento e le sue arti accessorie sono le armi d'offesa di cui dispone.1

Nell'abbigliamento, come ho già detto, l'effetto combinato di semitrasparenze e de-formazioni indotte dal corpo svolge un ruolo seduttivo fondamentale. Paradossalmente lo svolge perfino nei Paesi musulmani, con quei camicioni e veli inventati allo scopo opposto di occultare la donna, la temibile diaboli ianua2 (=porta del demonio) che os-sessiona preti e bigotti di ogni tempo e paese. Se si esclude il caso estremo del burqa, tutte le altre vesti islamiche (khimar, chador, al-amira, abaya, shayla, hijab, niqab, haik, ecc.) lasciano il volto, o almeno gli occhi, scoperti e visibili. E, si sa, il volto è la parte più importante del corpo nella comunicazione interpersonale, com'è evidente dall'esorbitante quantità di trattamenti, dal cosmetico al chirurgico, che vengono riser-vati a capelli3, occhi, ciglia, sopracciglia, naso, labbra, denti, guance, rughe ecc. (>de-corazione).

D'altronde i veli che occultano parzialmente il volto sono presenti anche qui da noi e ancor più lo erano in altre epoche, soprattutto durante la belle époque, quand'erano di uso generalizzato le "velette" (figg. 10-13).

10 – Jeune femme a la voilette, tenant un livre, scuola francese del XVIII secolo. 11 - Pierre-Auguste Renoir, Jeune femme a la voilette, 1870. 1 Bernard Rudofsky, Il corpo incompiuto. Psicopatologia dell'abbigliamento, Mondadori, Vicenza 1975,

pp. 10-11. 2 Tertulliano, De virginibus velandis, circa 200 d. C. 3 Al ruolo dei capelli nella costruzione della personalità ho dedicato un breve articolo, «Barba e capelli»,

in Modo, 2, 1977. Lo trovate in http://www.unich.it/progettistisidiventa/REPRINT-INEDITI/Bettini-BARBA-E-CAPELLI.pdf

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12 - Pierre Bonnard, Femme a la voilette (M.me Lucienne Dupuy de Frenelle), 1917 circa. 13 - Francis Picabia, Tete de femme a la voilette, 1940-42. E non dimentichiamo il velo nuziale (fig. 14), che risale all'epoca romana, quando nei

matrimoni combinati tra famiglie impediva allo sposo di vedere la sposa fin tanto che, iniziata la cerimonia, non potesse più tirarsi indietro…

14 – Bacio di sposi sotto il velo nuziale. Se la testa anziché dentro a un velo, una rete, che non impedisce la vista né la respi-

razione, viene messa in un sacco opaco, scarsamente permeabile all'aria, le cose si complicano. È il caso degli amanti di Magritte (fig. 15): una coppia banale, normale, lui in abito scuro, camicia bianca e cravatta, lei con un vestitino qualsiasi, che si baciano normalmente… se non fosse per i sacchi, le federe, o gli asciugamani che gli fasciano la testa, rendendo quel bacio – provare per credere - disagevole, spiacevolissimo, in-quietante. Che ci vuol dire Magritte, posto che i quadri debbano dirci qualcosa? Che sono due persone così banali, così ordinarie, così "borghesi" da non meritare di esser viste? Che anche agli amanti è impedito conoscersi veramente, che non è possibile squarciare il velo di Maya4?

4 Arthur Schopenhauer usa questa locuzione – sulla scia dei testi indiani Veda e Purana - per indicare

l'apparenza visibile (il fenomeno), che nasconderebbe la "realtà", impedendoci di vederla nella sua "essenza

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Che sono due morti avvolti nel sudario, ma il loro amore sopravvive oltre la morte? Che godono masochisticamente nel rischiare il soffocamento, anticipando l'Impero dei sensi di Nagisha Oshima?

15 - René Magritte, Les Amants, 1928, MoMA, New York. Le interpretazioni fioccano, ognuno dice la sua, ma si resta comunque nel dubbio

che non sia quella "giusta". Il furbone Magritte gongola perché vuol proprio costringer-ci a riflettere sull'opera senza giungere mai a una conclusione definitiva. E lo scrive an-che: L'opera d'arte deve saper produrre effetti destabilizzanti nello spettatore, infran-gendo abitudini mentali e collocando gli oggetti quotidiani proprio laddove non ci si aspetterebbe di trovarli. E ancora: L'evocazione precisa e affascinante del mistero con-siste in immagini di cose familiari, riunite o trasformate in tal modo che cessa il loro accordo con le nostre idee spontanee. Facendo !a conoscenza di queste immagini co-nosciamo la precisione e il fascino che mancano al mondo detto reale, dove esse ci ap-paiono.

Comunque è ben noto l'effetto erogeno della costrizione del respiro - in certe cultu-re al limite dell'auto tortura - indotta da fasce, cinture, corpetti e bustini attillati. L'ec-citazione respiratoria - osserva Havelock Ellis - è sempre stata una componente cospi-cua del processo di tumescenza e detumescenza, della battaglia del corteggiamento e del suo climax … qualunque limitazione dell'attività muscolare ed emotiva tende in ge-nere a intensificare lo stato di eccitazione sessuale.5 Da cui i vari rituali sadomaso, il legare il/la partner (bondage, hogtie, karada ecc.), le manette, fino allo strangolamento vero e proprio immortalato da Oshima nel già citato Impero dei sensi.

autentica" (il noumeno). È Maya, - scrive ne Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819 - il velo ingan-natore, che avvolge il volto dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che agli prende per un serpen-te. Schopenhauer è uno dei tanti filosofi che perdono il loro tempo alla ricerca della sostanza, dell'essenza, che se ne starebbe nascosta "nel profondo", o comunque "sotto l'apparenza", ingannevole e illusoria, delle cose. Per scoprire l'essenza occorrerebbe "squarciare il velo di Maya". Accenno alla questione al termine del capitolo sull'>architettura, dove parlo di coloro che, confondendo le parole con le cose, vanno alla vana ri-cerca, appunto, di una introvabile perché inesistente "essenza dell'architettura".

5 Havelock Ellis, Studies in the Psychology of Sex, New York 1942, vol. IV, p. 113, riportato da Rudofsky, cit., p. 22.

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Svariati artisti hanno esplorato questo tema (o meme) del mettere qualcosa di ani-mato o inanimato nel sacco, con la variante sado-maso di dargli poi una bella legata. Viene subito in mente il nome di Christo (fig. 16), la cui fortuna è in gran parte legata – si può ben dire - ad anni e anni di spettacolari impacchettamenti, che nei casi più complessi hanno richiesto una progettazione, un'organizzazione e dei finanziamenti paragonabili a quelli di una grande opera di architettura (fig. 17).

16 - Christo, Femme empaquetee, 1968.

17 - Christo, Wrapped Reichstag, Berlino 1995.

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18 - Maurizio Cattelan, Not Afraid of Love, 2000. Un elefantino mascherato da fantasma di Halloween, col regolamentare lenzuolo con i buchi per gli occhi e per la proboscide. E gli architetti? Si sono provati anche loro a mettere nella rete o nel sacco i loro edi-

fici, ma non vi aspettate le raffinatezze concettuali d'un Magritte e di un Cattelan (fig. 18) o le allusioni sadomaso d'un Christo (il >sesso, come dico nel relativo capitolo, è uno degli ingredienti più trascurati dagli architetti).

1 – Perrault a Tenerife Comincio dall'enorme complesso alberghiero (60.000 mq) progettato da Dominique

Perrault per una delle più belle spiagge di Tenerife (figg. 19, 20). Vinto il concorso bandito dalla Municipalità nel 2000, il progetto ha suscitato vivaci proteste e dopo due lustri di tira-e-molla è stato definitivamente accantonato nel luglio del 2011, con uno spreco di danaro pubblico stimato in oltre 8 milioni di euro. La rete metallica di coper-tura, sulla quale dovevano crescere delle piante rampicanti, era pensata per mimetiz-zare in qualche modo l'immane mole, non diversamente dalle reti mimetiche che na-scondono depositi e attrezzature militari.

19 – Perrault, progetto di Hotel sulla spiaggia Las Teresitas a Santa Cruz de Tenerife.

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20 – La rete metallica che avrebbe dovuto mascherare l'Hotel di Perrault. A Perrault deve piacere molto il meme dell'edificio nella rete, se l'ha riproposto al-

meno altre tre volte: nel 2001 al concorso per la Fondazione Pinault di Arte Contempo-ranea a Parigi, nel 2003 per il Centre Georges Pompidou a Metz, infine nel 2009 per il Grand Theatre di Albi, l'unico che verrà finalmente realizzato (l'inaugurazione è previ-sta nel 2013).

2 – Le case per studenti di Fink+Jocher a Monaco Piante rampicanti pure sulla rete metallica che involucra il secondo esempio: gli ap-

partamenti per studenti della TU di Monaco a Garching, di Fink+Jocher, 2002-05 (figg. 21-23). Apprezzabile la sagomatura dei solai in modo che la rete assuma un anda-mento meno banale di quello rettilineo. Apprezzabile pure la Fassadebegrunung otte-nuta con rampicanti piantati nel terreno, di gestione molto meno difficile e onerosa dei muri verdi alla Patrick Blanc6. Ma rispetto a quelli le piante ci mettono più tempo a cre-scere: a Monaco quattro anni dopo l'inaugurazione non hanno ancora raggiunto il se-condo piano (fig. 21). In più una volta completamente cresciute renderanno le stanze troppo buie, specie in giorni di cielo coperto o pioggia. D'inverno, essendo i rampicanti a foglia caduca, l'edificio appare spoglio, squallido. E c'è il problema di pulire le foglie, che rimangono incastrate qua e là con relativo marciume e sgocciolature. I ballatoi (fig. 22) danno a chi li percorre – obbligatoriamente, essendo l'unico modo per raggiungere alcuni appartamenti – un senso d'insicurezza: ci si tiene a prudente distanza dalla re-te-parapetto, la cui resistenza nessuno s'azzarda a collaudare. Infine Fink e Jocher hanno condannato due terzi degli appartamenti alla "socialità obbligatoria" delle cucine comuni (fig. 23), destinate a fallire come tutti i tentativi precedenti, a iniziare dalle abi-tazioni collettive sovietiche degli anni '20-'30 del secolo scorso.7

6 A conferma, si veda la triste fine, a soli tre anni dalla costruzione, della prima facciata verde della Gran

Bretagna, quella realizzata nel 2005 al Paradise Park Children Centre di Islington (North London). 7 Bisogna dire che pure i sovietici si rendevano conto delle difficoltà della collettivizzazione forzata. In un

documento del VTsIK (Comitato Centrale Esecutivo del Congresso dei Soviet) del 1930 si legge: È impossibile superare d'un balzo ostacoli vecchi di secoli … [proponendo] città nuove basate sulla totale collettivizzazio-ne dell'esistenza, compreso l'approvvigionamento collettivo, l'istruzione dei fanciulli, la proibizione di cucine nelle abitazioni … Nel periodo di trasformazione della famiglia da una base di economia domestica individu-ale a una base collettiva … il processo deve avere un corso graduale, essere protetto e incoraggiato, concre-

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21 – Fink+Jocher, casa per studenti a Garching, 2002-05. L'involucro di rete dopo quattro anni è solo parzialmente coperto dai rampicanti.

22 – I ballatoi privi di parapetto che distribuiscono gli appartamenti.

23 – Pianta dei piani superiori con le due cucine comuni ciascuna a quattro appartamenti. 3 – La Kukje Gallery di SO-IL a Seoul Il terzo esempio è la Kukje Gallery K3 (figg. 24-26), realizzata a Seoul nel 2010-12

dallo studio newyorkese SO-IL dei giovani architetti Florian Idenburg e Jing Liu.

tizzando un'adeguata organizzazione per mettere in luce i vantaggi e l'aumento di benessere del lavoratore (Vittorio De Feo, URSS architettura 1917-1936, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 50).

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24 – Kukje Gallery K3 a Seoul, 2010-12. Modello di studio.

25, 26– Kukje Gallery K3, scala esterna al coperto.

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La forma prigioniera è piuttosto semplice, sostanzialmente una scatola parallelepi-

peda di calcestruzzo a vista, che però, grazie ai volumi tecnici opportunamente ag-giunti (macchine di condizionamento, vano ascensore, scala a due rampe sghembe per salire al coperto, scala curva per scendere all'interrato), viene resa esternamente più complessa, in grado di spingere, di sgomitare in vario modo contro l'involucro. Questo, essendo molto trasparente, non nasconde nulla del contenuto. Volevamo – dichiarano i progettisti - che la finitura del calcestruzzo si accordasse o imitasse la finitura della rete, creando un rapporto tale che non si potesse distinguere quale strato si stesse guardando, e mettere in evidenza l'idea del contorno sfumato.8 Nessun colore vistoso, dunque, e nessun trattamento spettacolare dei volumi, ma semplicemente un colore neutro, per ottenere un raffinato effetto straniante dovuto alla difficoltà di mettere a fuoco i vari piani.

4 – Lo Zenith di Fuksas a Strasburgo La membrana che circonda il foyer della sala per concerti Zenith a Strasburgo (Fu-

ksas 2003-08) prende la sua forma da cinque anelli ovali di acciaio, enormi "hula ho-op" non paralleli e di diametro diverso, che la spingono in fuori. Fra anello e anello la tensione della membrana produce quattro pieghe convesse. Sopra all'ingresso gli anelli escono a sbalzo, sul retro la facciata invece si raddrizza. Durante la notte, quando ci sono gli spettacoli, l'edificio s'illumina come una grande lanterna, dentro cui s'intrav-vedono le strutture portanti (fig. 27). Sulla membrana, enorme cartellone luminoso, si possono proiettare immagini e testi.

27 – M. Fuksas, sala da concerti Zenith a Strasburgo, 2003-08. 5 – Il NAMoC di Koolhaas a Pechino Qualcosa di simile l'ha proposto Rem Koolhaas nel 2010-11 per il NAMoC (NAtional

Art Museum of China) di Pechino (figg. 28, 29). Sopra a un vasto zoccolo rettangolare alto un piano ha posato - coerentemente col luogo - un'enorme lanterna cinese multi-

8 Domus, 950, novembre 2011.

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piano di colore rosso (e ti pareva…), tenuta in tensione dal bordo dei solai. Sarebbe di-ventata l'emblema del museo, un richiamo a distanza.

28, 29 – R. Koolhaas OMA, proposta per il NAMoC di Pechino, 2010-11. 6 – Il Prada Transformer di Koolhaas a Seoul Altro progetto "messo nel sacco" da Koolhaas è il Prada Transformer (fig. 30-32), un

padiglione tetraedrico rimasto montato a Seoul per sei mesi, nel 2009, davanti al Gye-onghuigung Palace. Ha ospitato quattro eventi (di arte, cinema, moda e architettura), assumendo per ciascuno una posizione diversa: aveva infatti l'interessante particolarità di potersi appoggiare stabilmente su ciascuna delle quattro facce, costituite da telai di acciaio a forma di cerchio, croce, esagono e rettangolo, raccordati da una sottile mem-brana bianca semitrasparente di cocoon, un materiale messo a punto dagli americani per usi militari e che tende a ingiallire nel tempo, come sa chiunque abbia comprato negli anni '60 una lampada Flos fatta di quel materiale su disegno dei fratelli Castiglio-ni o di Tobia Scarpa.

Far ruotare il Transformer richiedeva diverse ore di lavoro e l'impiego di quattro gru su ruote (fig. 33), ma il cantiere attirava sempre un grande pubblico, contribuendo al successo pubblicitario dell'operazione Prada a Seoul.

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30, 31 – Rem Koolhaas, Prada Transformer, Seoul 2009. Sopra, le quattro rotazioni possibili del tetraedro. Sotto, il padiglione avvolto nel suo "vestitino" elastico e semitrasparente di coccoon.

32 – Far ruotare il Transformer per appoggiarlo su di una nuova faccia richiedeva molte ore di lavoro e l'intervento di quattro gru su gomma.

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7 – Il B_mu di R&Sie(n) a Bangkok E concludo con tre opere dell'impronunciabile studio R&Sie(n) di François Roche e

Stéphanie Lavaux. Costoro avevano ripetutamente proposto, e qualche volta realizzato, edifici nelle reti (casa Barak a Montpellier 2001, casa Souriau «Spidernetwood» a Nimes 2007). Ma ben più interessante è il loro progetto per il B_mu, il Bangkok Museum (figg. 33, 34), una sala mostre da 300mq con attorno delle escrescenze con gli altri vani ne-cessari, il tutto ricoperto da una coltre metallica caricata elettricamente per attirare in gran quantità le polveri che inquinano l'atmosfera di Bangkok. Vero "edificio Pig Pen" (fig. 35), si sarebbe trasformato in una gigantesco mucchio di polvere grigia. Spettaco-lare "architettura camaleontica", non c'è dubbio, ma piuttosto repellente.

33 – Roche+Lavaux, Modello del Bangkok Museum.

34, 35 – L'aspetto "a regime" del Museo e a destra una T-shirt ecologista con l'immagine di Pig Pen, il personaggio dei Peanuts che attira irrimediabilmente la polvere e lo sporco.

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8 – Il concorso per la sede IUAV a S. Basilio di R&Sie(n) Altrettanto spettacolare – e altrettanto repellente - sarebbe stato l'edificio proposto

da Roche+Lavaux nel 1998 al concorso – poi vinto da Miralles+Tagliabue e mai realiz-zato - per una nuova sede dello IUAV sull'area di San Basilio (fig. 36), un edificio il cui sudario si sarebbe impregnato per capillarità di acqua e alghe, trasudante umida e puzzolente fanghiglia…

36 – Roche+Lavaux, «Acqua Alta», progetto presentato al concorso del 1998 per una nuova sede dello IUAV. La membrana involucrante avrebbe dovuto succhiare per capillarità l'acqua sporca della laguna: una sorta di resa incondizionata (cupio dissolvi) all'acqua alta. 9 – L'(Un)Plug Building, di R&Sie(n) Un terzo progetto nel quale Roche+Lavaux confermano le confuse preoccupazioni

eco-energetiche dei precedenti due progetti, evitandone peraltro i lati sgradevoli, è l'(Un)Plug Building, un edificio scollegato (unplug) dalla rete elettrica, in grado di pro-curarsi l'energia necessaria dal sole. Commissionato nel 2000 dall'ente statale Électri-cité de France (EDF), doveva sorgere alla Défense di Parigi (fig. 37). Le facciate (fig. 38) sono una membrana reattiva, dotata di peli (4.500m di tubi per il riscaldamento e l'ac-qua calda) ed escrescenze "a fungo/lingua di bue", che ampliano la superficie di espo-sizione delle celle fotovoltaiche all'energia rinnovabile del sole.

Temo peraltro che l'edificio, se costruito, sarebbe stato una delle tante bufale pseu-do-ecologiche a scopo pubblicitario: più che risparmiare energia non rinnovabile, a-vrebbe fornito all'ente EDF una patina di consapevolezza, di responsabilità ambientale. Mentre le deformazioni, i "bozzi", avrebbero avuto fondamentalmente lo scopo di fare spettacolo, di attirare l'interesse dello spettatore e di pubblicizzare il committente, come tutti gli altri esempi precedentemente illustrati.

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37 – Roche+Lavaux, progetto dell'(Un)Plug Building alla Défense di Parigi, 2000-01.

38 – Le quattro facciate dell'(Un)Plug Building alla Défense di Parigi, 2000-01. Prima di concludere il capitolo voglio almeno accennare a come pure i progettisti di

industrial design abbiano frequentemente utilizzato il meme del "mettere nel sacco". L'hanno fatto ovviamente, come abbiamo visto, gli stilisti di moda, i progettisti del fashion design. Nel forniture design c'è qualcosa di Jean-Paul Gaultier (fig. 39) e molto altro toveremmo sicuramente nel packaging design, soprattutto negli involucri esposi-tivi (quelli protettivi, per il trasporto, rigidi e resistenti, sono per lo più scatolari), che fasciano il prodotto, facendone vedere, o intuire, la forma.

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2 aprile 2013

Nel sacco 18

39 – Serie di arredi della Roche-Bobois fasciati da Jean-Paul Gaultier con del tessuto elastico che ne oc-culta parzialmente la forma. Sedersi sul divanetto comporta sempre un attimo di esitazione (certo voluta, dal progettista), perché non sappiamo esattamente a che quota troveremo la resistenza del sedile.