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9 Tendenze Biblioteche oggi aprile 2010 Web 2.0: la rivoluzione siamo noi Strumenti, servizi, prospettive del web sociale La nascita dell’espressione web 2.0 è ormai nota. Si deve a Tim O’Reilly e Dale Dougherty, rispettivamen- te presidente e vice-presidente della O’Reilly Inc., so- cietà che tra le varie attività si occupava di creare si- ti web per le aziende, ed è stata coniata nel 2004 du- rante una conferenza a cui partecipava anche la so- cietà MediaLive International. Nel 2004 la “bolla del web” con il conseguente crollo dei siti commerciali dot-com era scoppiata e le aziende cominciavano a perdere fiducia nell’utilità dei siti web. Dale Doug- herty alla riunione spiegò come in realtà non si trat- tava di una crisi della rete ma piuttosto della diffu- sione di caratteristiche del tutto innovative che inter- net andava sviluppando, grazie a una serie di nuove applicazioni di cui ogni sito web aziendale avrebbe ora dovuto tener conto. L’anno successivo Tim O’Reilly sistematizzava ed ela- borava le considerazioni emerse nella conferenza in un articolo che viene preso a manifesto del web 2.0. 1 Ma ancor prima dell’uscita dell’articolo era già avvia- ta la querelle tra chi considera il web 2 come qualco- sa di radicalmente nuovo e rivoluzio- nario e chi lo pone in una linea di continuità con il web 1.0 di cui rap- presenterebbe solo una naturale fase di evoluzione. Tra questi ultimi vi è Tim Berners-Lee, l’inventore del world wide web, il quale sostiene che il web 2.0 non va considerato in opposizione al web 1.0, ma deve essere visto come una conseguenza di un web che si è andato sviluppando appieno. 2 Le due posizioni, come ammette lo stesso O’Reilly, non sono poi così di- stanti, poiché nell’articolo-manifesto del web 2.0 egli riconosce comunque che gran parte delle caratteristiche e dei servizi che vengono etichettati web 2.0 sono presenti da diverso tempo prima del 2005. Probabilmente, se non fosse stata creata questa etichetta per defi- nirli, sarebbero passati inosservati proprio perché per- cepiti come normale evoluzione del web, oppure pri- ma o poi sarebbero stati chiamati in altro modo. Ben si addice al caso la considerazione di Armand Mattelart secondo il quale nella nostra società “la dittatura del- la breve durata fa sì che si attribuisca una patente di novità, e quindi di cambiamento rivoluzionario, a qual- cosa che in realtà è il frutto di evoluzioni strutturali e di processi in corso da lunghissimo tempo”. 3 In ogni caso, non è per noi fondamentale in questo contesto addentrarci ulteriormente nella genesi e svi- luppo dell’espressione web 2.0, ma dobbiamo sem- plicemente prendere atto che si è diffusa e pare fun- zionare bene. Come cercheremo di approfondire in questa prima parte della nostra analisi è evidente che dal punto di vista tecnologico non vi sia nulla che possa essere definito una novità, né tanto meno vi sia nessuna trasformazione radicale nel web 2.0 rispetto al web 1.0 ma che si tratti piuttosto di un insieme di innovazioni che rientrano in una normale evoluzione del web, il quale dallo stato di “incunabolo” sta co- Rossana Morriello [email protected] Il profilo su MySpace della Denver Public Library

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Tendenze

Biblioteche oggi – aprile 2010

Web 2.0:la rivoluzione siamo noiStrumenti, servizi, prospettive del web sociale

La nascita dell’espressione web 2.0 è ormai nota. Sideve a Tim O’Reilly e Dale Dougherty, rispettivamen-te presidente e vice-presidente della O’Reilly Inc., so-cietà che tra le varie attività si occupava di creare si-ti web per le aziende, ed è stata coniata nel 2004 du-rante una conferenza a cui partecipava anche la so-cietà MediaLive International. Nel 2004 la “bolla delweb” con il conseguente crollo dei siti commercialidot-com era scoppiata e le aziende cominciavano aperdere fiducia nell’utilità dei siti web. Dale Doug-herty alla riunione spiegò come in realtà non si trat-tava di una crisi della rete ma piuttosto della diffu-sione di caratteristiche del tutto innovative che inter-net andava sviluppando, grazie a una serie di nuoveapplicazioni di cui ogni sito web aziendale avrebbeora dovuto tener conto.L’anno successivo Tim O’Reilly sistematizzava ed ela-borava le considerazioni emerse nella conferenza inun articolo che viene preso a manifesto del web 2.0.1

Ma ancor prima dell’uscita dell’articolo era già avvia-ta la querelle tra chi considera il web 2 come qualco-sa di radicalmente nuovo e rivoluzio-nario e chi lo pone in una linea dicontinuità con il web 1.0 di cui rap-presenterebbe solo una naturale fasedi evoluzione. Tra questi ultimi vi èTim Berners-Lee, l’inventore del worldwide web, il quale sostiene che il web2.0 non va considerato in opposizioneal web 1.0, ma deve essere visto comeuna conseguenza di un web che si èandato sviluppando appieno.2

Le due posizioni, come ammette lostesso O’Reilly, non sono poi così di-stanti, poiché nell’articolo-manifesto delweb 2.0 egli riconosce comunque chegran parte delle caratteristiche e deiservizi che vengono etichettati web 2.0sono presenti da diverso tempo primadel 2005. Probabilmente, se non fossestata creata questa etichetta per defi-

nirli, sarebbero passati inosservati proprio perché per-cepiti come normale evoluzione del web, oppure pri-ma o poi sarebbero stati chiamati in altro modo. Bensi addice al caso la considerazione di Armand Mattelartsecondo il quale nella nostra società “la dittatura del-la breve durata fa sì che si attribuisca una patente dinovità, e quindi di cambiamento rivoluzionario, a qual-cosa che in realtà è il frutto di evoluzioni strutturali edi processi in corso da lunghissimo tempo”.3

In ogni caso, non è per noi fondamentale in questocontesto addentrarci ulteriormente nella genesi e svi-luppo dell’espressione web 2.0, ma dobbiamo sem-plicemente prendere atto che si è diffusa e pare fun-zionare bene. Come cercheremo di approfondire inquesta prima parte della nostra analisi è evidente chedal punto di vista tecnologico non vi sia nulla chepossa essere definito una novità, né tanto meno vi sianessuna trasformazione radicale nel web 2.0 rispettoal web 1.0 ma che si tratti piuttosto di un insieme diinnovazioni che rientrano in una normale evoluzionedel web, il quale dallo stato di “incunabolo” sta co-

Rossana [email protected]

Il profilo su MySpace della Denver Public Library

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minciando a diventare maturo. È pur vero che qual-che cambiamento importante c’è stato ed è innegabi-le, ma non riguarda la tecnologia. Difficilmente, di-fatti, sono le tecnologie a poter innescare dei cam-biamenti sociali, ma più spesso le tecnologie sono ingrado di accogliere ed adattarsi alle necessità di cam-biamento della società. Ma andiamo con ordine.

Che cos’è web 2.0

Tim O’Reilly e altri dopo di lui hanno voluto descri-vere quali sono le caratteristiche che identificano ilweb 2.0. Pur se non vi è ancora una definizione uni-voca, né probabilmente mai ci sarà poiché non sitratta di definire un nuovo fenomeno ma un’insiemedi caratteristiche tecnologiche e non tecnologiche mol-to sfaccettate e gradualmente distribuite nel tempo, visono alcuni elementi specifici e relativamente nuoviche lo connotano.

Il web come piattaforma

Le risorse vengono utilizzate direttamente su una piat-taforma web, in modalità remota, e non sono più le-gate al computer nel quale l’utente opera, ma anziproprio perché risiedono sul web possono essereusate da qualsiasi postazione con collegamento a in-ternet, ovunque ci si trovi. La parte tecnologica del si-to non è gestita dall’utente ma dal produttore della ri-sorsa stessa, ovvero da chi ha creato e offre l’appli-

cazione, mentre l’utente è il creatore dei contenutiche vengono depositati all’interno della piattaforma.Questa modalità di lavoro, in cui in sostanza i gesto-ri di tecnologie e applicazioni e i creatori di contenutisono separati, viene definita di cloud computing. Il cloud computing implica che la conservazione el’accessibilità nel tempo delle risorse sia nelle mani dichi gestisce la piattaforma (non diversamente comun-que da quanto accade per molte risorse digitali 1.0che risiedono su server proprietari), il che ha ovvia-mente alcuni risvolti negativi, ma è senz’altro tenden-zialmente più stabile e corre meno rischi una grossapiattaforma di questo genere, che ha alle spalle inve-stimenti tecnologici di un certo rilievo, dell’hard diskdi un personal computer.

La fine del ciclo del software o lo stato di beta perpetuo

Il ciclo del software, che ancora riguarda molti pro-dotti commerciali e non, prevede che una volta ap-prontato un software o un’applicazione questa vengarilasciata sul mercato in una prima versione, la ver-sione o release 1.0. In genere, precedono la prima re-lease due fasi di test, la fase alpha, la quale di normainteressa gli utenti che provano il software all’internodell’azienda produttrice, e la fase beta che invece in-clude un certo numero di utilizzatori esterni. Gliutenti del software cominciano ad usarlo e ne rileva-no i difetti e i malfunzionamenti, i cosiddetti bug. Icreatori del software li verificano e li correggono, ap-portando eventuali altri miglioramenti e rilascianouna nuova versione “riveduta e corretta”. Alla primaimmissione sul mercato nella release 1.0, seguono lesuccessive che di volta in volta integrano delle nuo-ve funzionalità, la 2.0 (o anche 1.1 a seconda del-l’entità delle modifiche apportate) e così via. Con la disponibilità della parte tecnologica su unapiatttaforma web gli utenti possono comunicare inqualsiasi momento i difetti o proporre dei migliora-menti, ma soprattutto chi gestisce la piattaforma puòintervenire continuamente per apportare i migliora-menti e renderli subito disponibili nella piattaforma.Esattamente come avviene per un’enciclopedia onli-ne che può essere aggiornata in ogni istante, a diffe-renza di un’enciclopedia a stampa la cui nuova edi-zione può essere ripubblicata solo mettendo manoall’intero impianto dell’opera e creando una “nuovaedizione”. Il software 2.0 viene quindi svincolato daquesto processo di tipo commerciale ed è come senon venisse mai immesso sul mercato in una versio-ne ufficiale ma fosse sempre in fase di test; acquisi-sce quindi uno stato di “beta perpetuo” ovvero di po-tenziale miglioramento continuo.

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Alcune icone del web 2.0

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Lo sviluppo di AJAX (Asynchronous JavaScript and XML)

È il risultato dell’evoluzione e della combinazione dialtri linguaggi e soluzioni tecniche, come l’HTML, i Fo-gli di stile (Cascading Style Sheets) e JavaScript che in-sieme alle API (Application Programming Interfaces)hanno reso possibile destrutturare il sito web in mo-do che ciascuna singola parte del sito possa essereaggiornabile e modificabile in modo dinamico, senzadover aggiornare tutto il sito, o una singola parte diuna pagina possa essere aggiornata senza dover rica-ricare l’intera pagina; inoltre, le singole parti sono ri-combinabili e visualizzabili in modalità differenti. Senza voler scendere troppo nei dettagli tecnici, trale varie funzioni che svolge, AJAX si interpone tra ilbrowser dell’utente e il server su cui risiede la piatta-forma accelerando la comunicazione tra i due, ovve-ro tra un browser che invia una richiesta e un serverche produce una risposta, rendendo il processo asin-crono mentre in passato, prima di AJAX, il tempo cheintercorreva tra la domanda del browser e la rispostadel server poteva essere molto lungo. Ciò consente dilavorare con tempi rapidissimi su una piattaformaweb con il proprio browser.Vale la pena ricordare che le basi di questo sviluppofurono poste nel 1999 quando Internet Explorer 5,destinato a soppiantare definitivamente e dopo unalunga battaglia Netscape Navigator che era già in fa-se di declino, per primo si caratterizzò per il fatto disupportare XML, il linguaggio alla base dello svilup-po di AJAX.4

Le API sono insiemi di procedure codificate che ser-vono a un programmatore che deve sviluppare unsoftware per impartire istruzioni necessarie a svolge-re certe funzioni o compiti. Nel web 2.0 le API sonotendenzialmente pubbliche e questo consente a sitidiversi di essere interoperabili e ricombinabili. La funzionalità descritta di destrutturazione, ricombi-nazione e integrazione dinamica di contenuti, o didue o più servizi offerti in un nuovo servizio o in unnuovo sito viene definita mashup. Il mashup, dettoanche remix, nasce in ambito musicale per descrive-re due o più brani che vengono tagliati, eventual-mente campionati e ricombinati in un nuovo brano.5

L’intelligenza collettiva e la partecipazione

Si tratta della possibilità per l’utente di una piattafor-ma di “partecipare” attivamente al suo sviluppo ge-nerando contenuti (che difatti vengono definiti UserGenerated Contents) ma anche confrontandoli e con-frontandosi con gli altri utenti di quella e di altre piat-taforme, condizione permessa dagli sviluppi tecnolo-

gici descritti ma anche da nuove forme di organizza-zione e categorizzazione dei contenuti, le folksono-mie, di cui parleremo più avanti. La novità consistenel fatto che l’utente per scrivere e scambiare conte-nuti non ha più bisogno di un supporto fisico ester-no da inserire nel proprio personal computer, comeè stato inzialmente il floppy disk e successivamenteil compact disc o il digital video disc, ma il supportoè ora online, è il web stesso, a cui tutti possono par-tecipare simultaneamente. Per tale motivo il web 2.0viene definito anche “read/write web”. Nei primi cd-rom, creati alla metà degli anni Ottanta era possibilesoltanto leggere dati, come lo stesso acronimo indica(cd-rom, com’è noto, sta per compact disc read onlymemory) e bisognerà aspettare il 1997 per avere ilprimo cd-rom RW (rewritable, riscrivibile), passandoper diverse fasi di evoluzione intermedie, i cd-rom I(interactive), i cd-rom WORM (write once read manytimes, ovvero leggibili tante volte ma scrivibili unasola volta), i cd-rom R (recordable, registrabili). Per ilweb ci è voluto quasi lo stesso arco di tempo per ar-rivare ad una fase di “lettura e scrittura”.Dalla partecipazione collettiva deriva potenzialmenteun grosso valore aggiunto che scaturisce dall’averetante persone che lavorano insieme, dalla possibilitàper chiunque di intervenire sui contenuti di altri perrielaborarli ed offrire un diverso punto di vista, non-ché di produrre continuamente nuovi contenuti ag-giornati. L’insieme di singole menti produce l’intelli-genza collettiva, la cui valenza assume una formanuova che non può essere equiparata alla sommato-ria delle singole menti ma è qualcosa di più, dal mo-mento che, com’è stato dimostrato, le aggregazioni,dagli atomi alle persone, presentano caratteristiche epotenzialità nuove che non possono essere previsteanalizzando i singoli componenti poiché la comples-sità che ne risulta è qualcosa di diverso dalla merasommatoria delle singole parti.6

La condivisione di informazioni e di conoscenza nel-le piattaforme web 2.0 si basa sul concetto del radi-cal trust, della fiducia radicale. Tale concetto poggiasul presupposto che tendenzialmente le persone nonhanno interesse a manomettere o danneggiare il be-ne comune, e non è affatto nuovo visto che, come ri-corda Phil Bradley, è sulla base di ciò che i monu-menti pubblici non sono sempre circondati da filospinato e il vandalismo di opere d’arte è solo occa-sionale e non la norma.7

Il confronto e la collaborazione sono continui, nonstrutturati e assumono la forma di “conversazioni”, untermine sdoganato dal Cluetrain Manifesto che nel1999 sosteneva che “i mercati sono conversazioni”8 eche ha avuto poi un’ampia circolazione in vari ambi-ti, incluso quello bibliotecario.9

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L’intelligenza collettiva è la caratteristica non tecno-logica del web 2.0 e per questo la più importante.Nessuna delle suddette implementazioni tecniche diper sé avrebbe alcunché di particolarmente significa-tivo se non avesse consentito, insieme alle altre, adun certo momento, di attirare un gran numero di per-sone ed aumentare notevolmente la quantità di uten-ti di internet. Ma dove si colloca questo momento?Dal punto di vista tecnologico e dello sviluppo deiservizi, conviene ricordare che i primi blog nasceva-no alla fine degli anni Novanta. Che nel 1998 nasce-va Google il quale già presentava alcune delle carat-teristiche del web 2.0, a cominciare dal fatto di es-sere una piattaforma, nella quale progressivamenteverranno inserite delle funzionalità (da Gmail, il si-stema di gestione della posta che consente di visua-lizzare i messaggi in forma di “conversazione” aGoogle desktop, e così via) e poi di utilizzare mec-canismi di validazione dei contenuti della rete basa-ti sulla conoscenza collettiva. Il meccasismo di vali-dazione di Google inventato da Larry Page, creatoreinsieme a Sergey Brin del motore di ricerca, e da cuiprende il nome (si chiama infatti PageRank) è bennoto. Si tratta di un sistema di tipo “citazionale”, giàin uso nelle comunità scientifiche ben prima dellanascita del motore di ricerca, basato sul conteggiodelle citazioni ricevute da una pubblicazione, nel ca-so di Google basato sul conteggio di quante volte unsito viene linkato (“citato”) da altri. Dunque il risul-tato del page ranking di Google è basato sulla co-noscenza collettiva. Nel 1999 fu la volta dello sviluppo di Napster, un si-to web nato per la condivisione di file musicali inmodalità peer-to-peer (P2P) tra i computer di utentidiversi che depositavano i file su una piattaforma co-mune. Quest’ultimo aspetto permise alle major dis-cografiche di condurre Napster in una battaglia lega-le che ne decretò nel 2000 la definitiva chiusura e nel2001 il blocco di tutte le attività simili a seguito di unalegge federale statunitense. Naturalmente ciò non fusufficiente ad arrestare la tendenza a questo generedi condivisione di contenuti, poiché quando proces-si tecnologici che coinvolgono grandi masse di per-sone vengono avviati è impossibile fermarli e torna-re indietro, e difatti la morte di Napster diede il viaallo sviluppo di una quantità di servizi di condivisio-ne di file musicali che semplicemente aggiravano ilproblema di essere depositati su una piattaforma co-mune proprietaria, dalla quale semmai ora transitanosoltanto, per cui lo spostamento di file avviene diret-tamente da un computer all’altro.Amazon, un altro sito che ha fatto della partecipazio-ne degli utenti la base del suo successo, è stato crea-to nel 1994 da Jeff Bezos. Gli utenti su Amazon pos-

sono commentare e giudicare i libri, ma soprattuttoAmazon fa largo uso delle informazioni esplicite eimplicite che gli utenti lasciano quando visitano il si-to, i commenti ma anche le pagine visitate e i libri ac-quistati, trasformando questi dati, raccolti ed oppor-tunamente elaborati, nei noti suggerimenti “l’utenteche ha comprato questo libro ha comprato anchequest’altro”. È la tecnica del filtraggio collaborativoche ora viene usata da molti servizi del web 2.0.Wikipedia, altro noto esempio di collaborazione perla creazione di contenuti in un’enciclopedia online,nasce nel 2001; sempre tra il 2001 e il 2002 vengonocreati i primi social network ma in realtà Intermix, ilprimo nucleo del social network MySpace risale al1998; nel 2003 nasce Skype, un sistema di comunica-zione VoIP (Voice over Internet Protocol) che con-sente conversazioni “telefoniche” tramite la Rete, ecosì in rapida successione si sviluppano numerosiservizi che ora definiamo 2.0. Nel 2005, quindi, quando Tim O’Reilly ha coniato l’e-spressione web 2.0, molti dei servizi che ne fannoparte erano già presenti in rete da diversi anni. Letecnologie che ne stanno alla base erano già dispo-nibili. Ma che cosa era cambiato nel web in modo ta-le da far percepire in qualche modo la differenza conun prima, con un’epoca 1.0? Non le tecnologie, dun-que, poiché abbiamo visto che esistevano da tempoe molte peraltro sono implicite nel web. Quello cheera cambiato è la partecipazione degli utenti. Il nu-mero di utenti che utilizzano la rete aveva superatola “massa critica”, necessaria ad una rete sociale perfunzionare e continuare a autosostenersi10. Con il su-peramento della massa critica, l’importanza degliaspetti sociali di internet ha di gran lunga surclassatoil peso degli aspetti tecnologici che ora rimangonosullo sfondo, decisamente in secondo piano. In altreparole, il web è diventato sociale. Tale spostamento di valore è stato certo facilitato daalcuni sviluppi tecnici, ma non è stata la tecnologia acreare il web sociale, sono state le persone.11 Questeimplementazioni hanno permesso alla tecnologia diaccogliere e di dare forma alle necessità sociali dellepersone, necessità che erano latenti, ma non troppo,fin dalla nascita del web, o in altre parole i software“sociali” hanno consentito di “supportare, estendereo derivare valore dal comportamento sociale degliesseri umani”.12 Il processo peraltro non riguarda so-lo il web ma anche gli altri media che da tempo chie-dono agli spettatori una partecipazione attiva, a co-minciare dal televoto che in diverse trasmissioni tele-visive affianca ormai la valutazione degli esperti.Fin dai primi anni Novanta, subito dopo la nascita delworld wide web che avviene nel 1989, gli utenti han-no cominciato a creare migliaia di pagine web, che

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presto sono diventate milioni, con in-formazioni di vario genere, molte del-le quali erano pagine web personali,le quali entravano in connessione conaltre pagine web attraverso i link. Co-me ricorda Vito Di Bari, questo aspet-to può facilmente essere analizzato uti-lizzando la Wayback Machine, lo stru-mento dell’Internet Archive che con-sente all’utente di vedere i siti web sal-vati e conservati nel tempo dall’Archi-vio:13 “giocando con la Wayback Ma-chine, è curioso notare che le paginedei ricercatori del serioso internet agliesordi, nel 1994 e nel 1995, erano mol-to personali. Ogni ricercatore parlavadel suo essere scienziato, ma parlavaanche molto di sé, dei suoi interessi,dei link per lui più significativi. È inte-ressante dal punto di vista antropolo-gico e anche perché ci fa capire come il potenzialedell’istanza socializzante del web 2.0 (e dei blog, deisocial network e così via) fosse già forte e viva nelweb della prima ora degli scienziati, tutti rigorosa-mente geek agli estremi della definizione”.14

Negli anni Novanta c’è stata una grossa diffusionedelle mailing list, tra le prime modalità di condivisio-ne e collaborazione tra utenti. Poi le reti Usenet, i fo-rum, i newsgroup erano tutti spazi web nei quali erapossibile la conversazione e la condivisione. Dunquela necessità di confrontarsi e di collaborare esisteva-no ben prima del web 2.0, poiché aggregarsi e colla-borare fanno parte della natura umana. Alcuni mi-glioramenti tecnologici hanno permesso di abbatteregli ostacoli che prima impedivano ad un gran nume-ro di utenti di usare tali strumenti, come scrive ClayShirky, noto studioso dei fenomeni della rete, “dettoin una frase, il cambiamento è questo: gran parte del-le barriere che limitavano l’azione di gruppo è crol-lata, e senza questi ostacoli siamo liberi di esplorarenuovi modi di aggregarci e di portare a termine com-piti complessi”.15

Il processo che conduce all’abbattimento delle bar-riere organizzative è un processo di democratizzazio-ne che vede il suo culmine tra la fine degli anni No-vanta e l’inizio degli anni Zero, quando si verificanoalcune situazioni:– cominciano ad essere sviluppate le prime piattafor-

me che consentono all’utente di operare in moda-lità di cloud computing, quindi senza dover faregrossi investimenti per l’acquisto di software, e so-prattutto possono essere usate gratuitamente e fa-cilmente poiché non richiedono la conoscenza del-l’HTML. I primi blog, si diceva, nascono a metà an-

ni Novanta, ma inizialmente per potere aprire unblog un utente doveva conoscere l’HTML e trovareun server che ospitasse il blog. La grande diffusio-ne dei blog si ha solo nei primi anni Zero, dopo lanascita delle piattaforme gratuite per blog. OpenDiary fu la prima, nata nel 1998, alla quale segui-rono l’anno dopo e in rapida successione Blogger(poi acquisito nel 2003 da Google), Pitas.com, Word-press, Movable Type.16

Di conseguenza, se a fine 1999 esistevano solo 23blog, secondo Technorati, uno dei motori di ricer-ca di blog17 alla fine del 2004 il loro numero era sa-lito a 5 milioni, con una crescita che nel 2005 nevedeva raddoppiare il numero ogni 5 mesi;18

– si diffonde la banda larga, prima con l’Isdn e poicon l’Adsl e quindi vi è la possibilità di far circola-re più velocemente masse più grandi di informa-zioni digitali, in vari formati, incluse foto e video;

– le procedure di scrittura su web diventano più fa-cili, non è necessario conoscere l’HTML ma si scri-ve usando il linguaggio naturale, in quanto saran-no i software integrati nella piattaforma, in praticadei CMS (Content Management Systems), a conver-tire il testo in linguaggio per il web.

Inoltre, un aspetto non secondario nella nascita delweb sociale è l’avere alla base una cultura aperta,“open”, che non si limita all’open source, ma riguar-da diversi aspetti:– open source: la libera diffusione del codice sorgen-

te del programma;– open application: applicazioni aperte, web services

e API pubbliche e utilizzabili da tutti;– open data: le basi dati e gli archivi di informazione

sono costruite con la collaborazione degli utenti;

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– open content: i contenuti sono generati dagli uten-ti e distribuiti liberamente in rete in vari modi (blog,wiki, podcast...) e in vari formati (web, RSS...).19

Una cultura aperta i cui albori, anche in questo caso,risalgono, dal lato tecnologico, al 1999, quando i “ra-gazzi di Mozilla” elaborarono il Mozilla Manifesto20 epresero in mano l’eredità di Netscape il quale, risul-tato perdente nel confronto con Explorer, aveva resopubblico il suo codice sorgente, con licenza opensource, aprendo la via alla creazione del browserFirefox.21 Da un punto di vista meno tecnologico epiù culturale il web 2.0 ha alle spalle tutto quel mo-vimento open access che fa della condivisione e col-laborazione, a cominciare dagli open archive, veri epropri esempi di web “sociale”, in quanto lo scopo ditali archivi è condividere la documentazione scienti-fica, spesso quando è ancora in fase “beta”, in una fa-se di elaborazione che nello specifico assume la for-ma del pre-print.Peraltro è utile ricordare che anche la caratteristica dibasarsi su una cultura aperta non è una novità delweb 2.0 ma appartiene alla natura stessa del web. Inprimo luogo, infatti, l’inventore nel 1989 del worldwide web, Tim Berners-Lee, che vi lavorava insiemea Robert Cailliau, arrivò a tale invenzione proprionella ricerca di un mezzo per mettere in contatto e farcomunicare più velocemente gli scienziati tra di loro,un obiettivo che peraltro era già stato perseguito daArpanet, la prima rete di collegamento tra computerdi università e enti di ricerca americani, nata nel 1969e considerata la progenitrice di internet.Ma soprattutto Tim Berners-Lee e l’ente presso cuilavorava, il CERN di Ginevra, decisero di non brevet-tare mai la sua invenzione e le altre ad essa collega-te quali il linguaggio HTML, il protocollo HTTP (Hy-pertext Transfer Protocol) e il sistema degli URL (Uni-form Resource Locator), lasciando il web libero dipoter essere migliorato e sviluppato dall’intelligenzacollettiva, sebbene sotto la guida del world wide webConsortium (W3C) che Berners-Lee fondò dopo averlasciato il CERN. Dunque il web è nato “aperto” e“collaborativo”. La differenza è che prima solo pochiesperti potevano contribuire a migliorarlo, mentre oraciò è possibile per un numero maggiore di persone.La capacità del web 2.0 di sfruttare al meglio le nu-merose potenzialità di cui è portatore dipende ancheda quanto riuscirà a conciliare questa apertura tecno-logica e culturale con i vincoli posti dalla necessità diautosostenersi e di ricorrere per questo, come vedre-mo, a supporti e sponsorizzazioni esterne di tipocommerciale. La differenza in termini di benefici traun mezzo espressivo libero, come è stato il web, eun mezzo vincolato a dinamiche di tipo commercia-le è abissale. Pensiamo agli sviluppi della fotografia,

nata anch’essa “open” poiché Louis Daguerre, l’in-ventore nella prima metà del XIX secolo del dagher-rotipo, il primo procedimento fotografico per la ri-produzione di immagini, cedette l’idea al governofrancese che decise di renderlo di pubblico dominioe oggi, con la fotografia digitale, così come per ilworld wide web, non più solo pochi esperti in ca-mera oscura ma chiunque sia dotato si un softwareper il trattamento delle immagini può intervenire inpost-produzione su una fotografia, e poi pensiamoalla televisione, mezzo invece di tipo “proprietario” esoggetto sempre di più a logiche commerciali legateagli sponsor, le cui scelte gli utenti non possono chesubire passivamente.

Quali i servizi del web 2.0?

Nella seconda parte di questa discussione esaminere-mo la nascita e le caratteristiche dei principali servizie strumenti del web 2.0 per poi passare ad esamina-re sinteticamente alcune delle applicazioni e utilizzinelle biblioteche.

Blog e feed RSS

Il blog è una delle prime applicazioni del web poi-ché i primi blog risalgono agli anni Novanta. Il ter-mine, risultato della crasi tra le parole web e log, si-gnifica “traccia in rete”. Difatti, tramite un blog ilblogger su un suo spazio web “tiene traccia” (in in-glese “log”) delle pagine web che trova interessanti.La definizione “weblog” è stata data da Jorn Bargernel 1997, in riferimento a un sito web, nel qualequindi, in una forma molto simile a quella di un dia-rio, è possibile aggiungere testi (opinioni, commen-ti), chiamati post. L’inserimento di un post è molto fa-cile in quanto, come abbiamo visto, non è necessarioconoscere l’HTML (così come avviene di norma intutti gli strumenti web 2.0). I post vengono ordinaticronologicamente con il più recente in cima alla pa-gina. Vi si possono inserire anche link e file multi-mediali che possono poi essere scaricati da altri. Pro-prio la facilità di scrittura nelle piattaforme gratuite neha decretato la grande diffusione e ormai esistonoblog di vario genere, personali, giornalistici, politici,informativi o di sola vetrina, fotografici (photo-blog oflog), video (vlog) e così via. Ad ogni post vengono associati alcuni tag, parole chia-ve attribuite dagli utenti, che consentono di ordinarlisemanticamente nell’archivio e di facilitarne il recu-pero successivo. La possibilità di recupero è garanti-ta dall’uso di permalink, link permanenti, ovvero URI(Uniform Resource Identifier), che costituiscono per

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il post un identificatore unico e, anchequesti, sono fondamentali nei blog co-me in atre applicazioni web 2.0.Un meccanismo di “ping-back” notifi-ca agli autori quando in altri blog vie-ne citato il loro post e un meccanismodi “track back” (cioè messaggi che ven-gono inviati automaticamente da unserver all’altro) segue le conversazioniattraverso i blog e ci consente di sape-re cosa altri hanno detto su di noi, suinostri post, in modo che possiamo ri-spondere loro nel nostro blog (vengo-no detti “ego feed”).Le piattaforme gratuite ne hanno de-cretato il successo, accompagnato daalcune piccole implementazioni tecni-che che si sono man mano susseguitee che hanno reso sempre più agevolela scrittura, la lettura e la conversazio-ne sui blog per l’utente comune. Nel 2000 nascono i permalink che consentono diidentificare il singolo post facilitando la rintracciabili-tà del singolo commento22 e quindi le conversazioniallargate anche tra utenti di diversi blog. Nel 2002nella piattaforma Movable Type compare la possibi-lità di track back.Ma senz’altro per i blog e per tutti gli strumenti delweb 2.0 la maggiore innovazione è stata costituitadalla nascita dei feed RSS. Si tratta di una famiglia diformati basati su XML che consentono all’utente diun sito web, di un blog, di un podcast e di molte al-tre risorse web 2.0 di ricevere notifica ogni volta cheil sito, il blog, il podcast viene aggiornato. È anchepossibile scegliere uno o più argomenti specifici e diinteresse sul quale ricevere tramite feed RSS la notifi-ca degli aggiornamenti oppure direttamente i conte-nuti aggiornati. L’informazione proveniente dal sitoweb viene raccolta in un file, chiamato feed, e trasfe-rita al computer (o allo spazio web) dell’utente cheha sottoscritto quello specifico feed RSS. Per poterlovisualizzare l’utente ha bisogno di un software dettoaggregatore o feed reeder. I feed reader possono es-sere online come Bloglines o Google Reader oppureapplicazioni per desktop da scaricare in locale comeBlogbridge o eSobi.23 Nell’accezione corrente RSS èl’acronimo di Really Simple Syndication, intendendocon syndication il processo di distribuzione di questicontenuti tramite feed, ma non è l’unica attribuita aquesti formati.24

Anche la storia dei feed RSS è decisamente più vec-chia rispetto alla nascita del termine web 2.0. I primifeed RSS sono stati realizzati nel 1999 ed erano inte-grati nel browser Netscape, mentre oggi i browser

più aggiornati sono tutti provvisti di una funzione dilettura dei feed. Un altro standard utilizzato per ilprocesso di distribuzione noto come syndication èATOM, anch’esso basato su XML.Per quanto riguarda le tipologie di blog e di infor-mazione in essi contenuta, Meredith Farkas fornisceuna classificazione di base dei tipi di blog e dei tipidi post:25

Tipi di blog• Filtri: sono blog che essenzialmente filtrano il web

fornendo link e commenti su siti web di interesse. • Giornali personali: sono blog simili a diari i cui

post riguardano la vita quotidiana dell’autore • Blog che creano conoscenza : sono blog usati per

creare conoscenza originale online. Tipi di post dei blog• Singolo link: sono post che contengono solo un

link e un titolo.• Anticipazione di link: un link seguito da un com-

mento • Breve commento: è un post breve che può conte-

nere un commento, dei link e/o riflessioni perso-nali

• Lista: diversi link sono raggruppati in un unicopost su un particolare argomento

• Articolo breve : è un tipo di post simile ad un bre-ve saggio

• Articolo lungo : un post costituito da un saggio piùlungo

• Post seriali: una serie di post del genere articoloche seguono un unico argomento.

La classificazione articolata dei blog e dei post è con-

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Biblioteche oggi – aprile 2010

L’album delle Biblioteche della Brianza su Flickr

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seguente alla diffusione dello strumen-to che, nato come sorta di diario onli-ne in cui l’autore raccontava di sé, haassunto nel tempo caratteristiche di-versificate fino a volte a sostituirsi (oalmeno tentare di sostituirsi) alla stam-pa giornalistica come fonte di notizie.Sull’accuratezza di questo genere di in-formazione e sul rischio che sui blogcircoli informazione non validata e nonsupportata da reali fonti giornalistichesi sono soffermati in molti. Il compianto Fabio Metitieri ha dedica-to il suo noto libro sul web 2.0 a que-ste dinamiche,26 non risparmiando aiblogger nessuna critica, ma eviden-ziando dall’altro lato come anche daparte di giornalisti vi sia stata una cer-ta perdita progressiva di professionali-tà, di attenzione ai fatti e di capacità divalutare (e garantire) la qualità dell’informazionegiornalistica che ha in un certo senso agevolato la so-stituzione dei giornalisti con i blogger, almeno perquanto riguarda l’attenzione del pubblico che è statasempre molto alta nei conftonti del giornalismo par-tecipativo, fin dai primi esperimenti nel 2003.27

In realtà il rapporto tra blogger e giornalisti è quantomeno molto sfaccettato. I blogger riprendono e a vol-te anticipano le notizie, grazie alla velocità con cuil’informazione in rete si propaga e alla facilità con cuisi riesce ad aggiornarla, come è stato dimostrato nel-la tragedia che ha recentemente colpito l’Abruzzo,quando la notizia del terremoto è circolata prima suiblog che sui tradizionali canali di informazione. Laqualità dell’informazione nei blog è indubbiamentenon sempre verificabile e oltretutto spesso i bloggerriprendono e commentano le notizie comparse suigiornali. I giornalisti a loro volta spesso usano l’in-formazione che trovano nei blog e in rete senza nes-suna verifica di attendibilità. È un chiaro segno diuna certa crisi della professione giornalistica che dicerto non ci interessa approfondire in questo conte-sto. Ma probabilmente si sconta anche il ritardo del-l’editoria, perlomeno di certa editoria, nel rendersiconto delle potenzialità della rete, che avrebbero po-tuto essere sfruttate diversamente dalla stampa quoti-diana e periodica.Resta il fatto che guardando al mondo dei blog, la co-siddetta “blogosfera”, questa ci appare come uno spa-zio in cui sembra esserci una certa libertà che nell’in-formazione tradizionale è a volte andata perduta eprobabilmente di questo gli utenti sono sempre piùconsapevoli. Lo testimoniano i recenti accadimentiche hanno riguardato l’Iran, di cui siamo venuti a co-

noscenza (con commenti e foto) grazie ai blog e aisocial network, e che i giornali e gli altri canali di co-municazione tradizionali di quel paese hanno inveceoscurato. Il web appare come uno degli spazi anco-ra liberi, uno dei pochi spazi ancora liberi, non con-dizionati e controllati dal potere. In regimi restrittivi,dittatoriali o semi-dittatoriali ciò appare ancora piùevidente. Da Cuba le informazioni sulla vita quotidia-na dei cubani ci giungono attraverso i racconti dellablogger Yoani Sanchez,28 dai blog e social networkcinesi ci arrivano notizie e immagini che il governonon farebbe mai filtrare all’esterno del paese. I go-verni mettono in atto ogni espediente indiretto perimpedire la circolazione di queste informazioni in re-te, difficilmente controllabili dall’establishment, co-minciando dal rallentamento delle connessioni nellecase dei cittadini all’impedimento della diffusionedella banda larga, attraverso interventi nei confrontidei provider. Il rapporto 2009 di Reporter senza fron-tiere sulla censura della rete elenca 60 paesi nei qua-li i governi hanno tentato di impedire l’accesso a in-ternet e in particolare ai servizi del web 2.0.29 Proprionei paesi in cui ciò maggiormente accade, come laCina, i cittadini più che altrove percepiscono l’acces-so a internet come un diritto che invece i governi do-vrebbero garantire. Dati chiari a riguardo emergonoda uno studio commissionato dalla BBC alla societàdi sondaggi GlobScan in 26 paesi del mondo secon-do il quale il 79% degli intervistati considera l’acces-so alla rete un diritto dei cittadini che spetta ai go-verni garantire (la percentuale sale all’87% tra gli in-tervistati che sono utenti di internet ma non scende aldi sotto del 71% tra coloro che non usano internet).30

Non si vuole certo qui fare l’apoteosi del web e del

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Biblioteche oggi – aprile 2010

La pagina dedicata all’ultimo libro di Erri De Luca su aNobii

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web 2.0, che certo non è esente da problemi, tra cui,come abbiamo già detto, la difficile verifica dell’at-tendibilità e della qualità dell’informazione, numero-si problemi legati alla privacy, e diversi altri che inogni caso i maggiori servizi web 2.0 stanno cercandodi risolvere anche su sollecitazione dell’opinione pub-blica e delle autorità governative statunitensi;31 né sivuole erigere il web 2.0 a emblema della libertà, maci piacerebbe che si potessero cogliere, anche e so-prattutto in ambito bibliotecario, alcuni aspetti inte-ressanti di questa nuova modalità di interagire con ilweb.Tanto più che si tratta di servizi e di strumenti che di-verranno sempre più presenti nella vita delle perso-ne, soprattutto delle nuove generazioni nate e cre-sciute davanti a uno schermo, e quindi degli utentidelle biblioteche, anche in virtù della crescente “por-tabilità” della loro fruizione, ovvero della possibilitàdi accedere all’informazione in rete attraverso “per-sonal device”, strumenti personali di dimensioni sem-pre più ridotte, dai pc le cui dimensioni si riduconoprogressivamente, ai vari iPhone, Blackberry e altricellulari di nuova generazione, fino ai più recentisupporti intermedi tra il computer e il cellulare comel’iPad, recentemente lanciato da Apple.Dal proprio cellulare è già possibile mandare post inun blog e il successo di sistemi di microblogging co-me Twitter dimostra che la strada sarà questa. Twit-ter, nato nel 2006 ad opera del programmatore JackDorsey, è una sorta di bacheca online alla quale èpossibile “incollare” messaggi inviati tramite cellulareo dal pc, non più lunghi di 140 caratteri. Ma dal cel-lulare si possono anche inviare, per esempio, mes-saggi e foto su siti di photosharing come Flickr o susocial network come Facebook, oppure verificare inlibreria se un libro che magari vogliamo comprare èpresente nel nostro scaffale virtuale su Library Thing. Ei Mo.So.So, Mobile Social Software, come Dodgeballe Socialight, creati proprio per interagire con i cellu-lari e con i device personali sono in continuo au-mento e le loro potenzialità diventano particolar-mente interessanti poiché integrano funzioni di geo-localizzazione, che consentono a chi li usa di entra-re in contatto anche fisicamente con le persone, inquanto permettono di localizzare il luogo in cui l’u-tente si trova nella realtà. La geolocalizzazione è unaforma di mashup che consente di integrare i dati for-niti dall’utente su un social network con i dati rica-vabili da una mappa digitale.32

Wiki

I wiki sono siti web aperti nei quali è possibile perchiunque inserire, modificare, cancellare dei conte-

nuti, con l’uso di un software chiamato appunto wi-ki (parola che in lingua hawaiana significa “rapido”,“veloce”). L’applicazione più famosa è senz’altro quel-la di Wikipedia,33 la nota enciclopedia online creatanel 2001 da Jimmy Wales, che viene aggiornata gior-nalmente da milioni di utenti in tutto il mondo e cheoggi supera gli 8 milioni di voci, rappresendando co-sì uno degli esempi più singnificativi della partecipa-zione e collaborazione che stanno alla base del web2.0. Wikipedia utilizza MediaWiki uno dei numerosisoftware wiki disponibili, la maggior parte dei qualisono open source.34

Anche la nascita di questo tipo di software risale aglialbori del web. Fin dai primi anni Novanta Ward Cun-ningham, un ingegnere informatico, era alla ricerca diun modo per rendere più facile ed agevole la pub-blicazione di contenuti in una modalità collaborativa,in particolare di contenuti informatici, per permette-re ad altri programmatori di collaborarare allo svilup-po di software. La ricerca ha condotto all’elaborazio-ne di un software wiki che fu sperimentato per la pri-ma volta nel 1995 nel Portland Pattern Repository, ilprimo sito wiki,35 a cui ancora oggi fa capo una nu-trita comunità. I siti wiki sono estremamente flessibli poiché la co-munità che li usa può adattarli facilmente alle proprieesigenze per quanto riguarda la struttura, l’ordina-mento dei contenuti e la costruzione di gerarchie, so-no in grado di accogliere il contributo di numerosepersone, come il caso di Wikipedia dimostra, e i con-tenuti possono essere aggiornati con molta facilità dachiunque e in qualsiasi momento, poiché nemmenoqui – com’è ovvio – è necessario conoscere l’HTML.Proprio l’adozione di un software wiki ha decretato ilsuccesso di Wikipedia. Il primo abbozzo di un’eci-clopedia collaborativa online, difatti, voluto e realiz-zato da Jimmy Wales in collaborazione con Larry San-ger nel 2000, è stato Nupedia. Wales e Sanger crea-rono un’enciclopedia aperta alla collaborazione degliesperti che seguiva una procedura di creazione, vali-dazione e pubblicazione delle voci molto simile aquella adottata per un’enciclopedia tradizionale, astampa. Ma l’enciclopedia online Nupedia non decol-lava. Nel 2001 Sanger viene a conoscenza del soft-ware wiki, creato da Cunningham, e ne vede la suaprima applicazione nel Portland Pattern Repository.Decide di adottarlo per Nupedia e questo suscita ladura reazione del gruppo di esperti coinvolti nel-l’enciclopedia, abituati a procedure formali e conso-lidate per la creazione degli articoli, i quali con l’in-troduzione del wiki ritengono sminuito il valore delloro lavoro. Sul nuovo wiki è difatti possibile perchiunque, direttamente e molto semplicemente, sen-za alcuna procedura preliminare, inserire gli articoli.

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Per placare le proteste degli esperti, il wiki viene tra-sferito su un altro sito e nasce, nel 2001, Wikipedia.36

Il suo successo da allora è stato rapido ed è oggi bennoto. Sappiamo anche che oggi vi convivono e viscrivono esperti e semplici amatori, con livelli di par-tecipazione differenti, e che il controllo editoriale vie-ne condotto a posteriori, dopo la pubblicazione diuna voce, ed è diventato una conversazione, una di-scussione che può essere visualizzata sul sito stesso.Alcuni wiki sono specificamente dedicati alla profes-sione bibliotecaria come Library Success e LISWiki eraccolgono presentazioni di buone pratiche e discus-sioni professionali.37

Social bookmarking e social referencing

Si tratta di piattaforme sulle quali è possibile condi-videre bookmark (social bookmarking) o riferimentibibliografici (social referencing). I siti di social book-mark sono in un certo senso un’evoluzione della ti-pologia di blog definiti “filtri”, che raccolgono e com-mentano link, con la differenza che un sito di socialbookmark favorisce la condivisione dei link e dei tagche descrivono quel link tra gli utenti. Delicious, na-to nel 2003 e ora di proprietà di Yahoo!, è stato il pri-mo sito di social bookmarking ad introdurre i tag.BlinkList, Gnolia (chiamato Ma.gnolia fino al 2009),StumbleUpon, sono altri tra i più diffusi servizi di so-cial bookmarking.38

Non molto diversamente dai siti di social bookmar-king, una serie di altri servizi consentono di racco-gliere e organizzare riferimenti bibliografici. Si trattasempre di raccolte di risorse online, quindi di book-mark, ma questi servizi, definiti di social reference,sono organizzati in modo da dare preferenza adun’organizzazione delle risorse di tipo bibliografico,poiché si tratta di servizi esplicitamente rivolti al-l’organizzazione di documentazione scientifica e acca-demica, e aiutano quindi spesso l’utente a colmare leinformazioni bibliografiche mancanti, attingendoledalla grossa banca dati di milioni di articoli e riferi-menti bibliografici sulla quale possono contare e nor-malizzandone il formato per favorire l’uniformità el’esportazione verso software proprietari per la ge-stione delle bibliografie, come EndNote e BibTex.Tali servizi permettono quindi facilmente all’utente dientrare in contatto con altri utenti che stanno leg-gendo o hanno letto lo stesso articolo e quindi han-no interessi di ricerca, professionali o anche sempli-cemnte amatoriali simili.Naturalmente, come in tutti i servizi del web 2.0, siaper i servizi di social bookmarking che di social refe-rencing, il livello di condivisione con gli altri utentipuò essere deciso di volta in volta e si può anche

usare il servizio per una gestione privata e non con-divisa delle risorse, sebbene, com’è ovvio, in questomodo se ne perda gran parte delle potenzialità. Zo-tero, CiteULike e Connotea sono tra i più noti servizidi social reference.39

Siti di media sharing e comunità di interesse

Sono siti web che consentono agli utenti di condivi-dere contenuti di vario genere da loro creati, quali fo-tografie (come Flickr, Photobucket),40 video (per esem-pio, YouTube, Flurl),41 ma anche le proprie librerie,virtuali ovviamente (aNobii, Library Thing).42 In ge-nere gli utenti si aggregano in questi siti poiché han-no un interesse comune, la passione per la fotografiao per i libri, e quindi rientrano in quelle comunità on-line che Meredith Farkas definisce comunità di inte-resse.43 Vi rientrano anche servizi come LinkedIn oNing, il cui focus è di tipo professionale.44

In realtà, l’aspetto più specificamente “sociale”, quel-lo che caratterizza invece in maniera preponderandei siti definiti social network, ovvero la possibilità dientrare in relazione con altre persone, è presente invario grado anche nei siti di media sharing così co-me in altre tipologie di servizi del web 2.0, tanto chele definizioni spesso si affiancano e si sovrappongo-no. Il tipo di media condiviso – foto o video o altro– è in realtà soltanto l’interesse comune che consen-te di “ritrovarsi” in rete e di facilitare la nascita di unarelazione; l’interazione tra la persone, il loro coinvol-gimento attivo con la possibilità di commentare icontenuti generati da altri è il vero valore di questi si-ti al di là del tipo di interessi che aggregano.Infatti, una delle caratteristiche che ha decretato ilsuccesso di un sito come Flickr, il primo dedicato al-la condivisione di fotografie (e ora anche di video),creato nel 2004 a partire da un gioco online da Ste-wart Butterfield e da sua moglie Caterina Fake en-trambi alla Ludicorp, società di Vancouver, e l’annodopo acquisito da Yahoo!, è stata la possibilità dataall’utente di classificare le proprie fotografie con deitag, della parole chiave che ne descrivono il conte-nuto.I tag oltre a favorire il contatto tra le persone, hannopermesso di avere migliaia di foto classificate e al si-to di autorganizzarsi generando valore aggiunto an-che dal punto di vista sociale. In Flickr convivono fotografie dilettantistiche e di fo-tografi professionisti, fotografie private e personali efotografie di grande valore documentario e sociale.Sono ben noti i casi in cui Flickr ha rappresentato ilmezzo di comunicazione e di diffusione delle imma-gini più veloce in assoluto, dallo tsunami del 2004 al-l’attentato alla metropolitana di Londra nel 2005, in

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cui la documentazione fotografica è arrivata sul webprima che sui media tradizionali. In altri casi il web èil mezzo che consente di diffondere informazioni edocumenti che non arriverebbero mai sui media tra-dizionali, come già visto per i blog.Ciascuno degli utenti di Flickr può inserire poche fo-to o centinaia di foto su un evento. In generale, i va-ri studi compiuti sulla partecipazione degli utenticonfermano che l’andamento tipico della collabora-zione volontaria del web 2.0 è rappresentato da unalegge di potenza, segue cioè la distribuzione a codalunga teorizzata da Chris Anderson per molti feno-meni sociali,45 in quanto poche persone generano lamaggior parte dei contenuti del web 2.0 e la granparte degli utenti attivi interviene con piccoli ma co-stanti contributi.Lo stesso avviene per gli altri servizi quali YouTube(acquisito nel 2006 da Google) che raccoglie milionidi video tra i quali si trovano i documenti più im-pensati ma anche delle vere e proprie rarità, come leperformance di musicisti o trasmissioni televisive dimolti anni fa che oggi sarebbe praticamente impossi-bile riuscire a vedere su altri media. Chris Andersonspiega infatti come i mezzi di comunicazione di mas-sa a cui siamo abituati dall’epoca pre-digitale, dalleradio alle televisioni, a causa dei limiti di spazio a cuisono soggetti, debbano fare una selezione di quantotrasmettere che è sempre molto plasmata sul main-stream e sul contemporaneo.46 YouTube, come altriservizi della rete, assume la funzione di un vero eproprio museo che gli utenti amano frequentare e lecui risorse circolano tra gli utenti, rendendolo quindiestremamente vitale e dinamico, più di quanto qual-

siasi museo della musica nel mondoreale riuscirebbe a fare, considerandoi limiti posti dallo spazio fisico benspiegati da Anderson e la poca possi-bilità di interazione che a differenza diYouTube un museo “fisico” consenti-rebbe. Interessante anche la sperimen-tazione appena annunciata da You-Tube di sottotitolare i video in più lin-gue utilizzando un software per la tra-duzione automatica delle parole delvideo che consente di avviarla con unsemplice pulsante da cliccare. Tra i siti di media sharing assumonoparticolare interesse quelli dedicati ailibri, definiti anche di social reading odi social cataloguing, come aNobii eLibrary Thing, che consentono agli u-tenti di condividere i libri contenutinella propria libreria personale, di or-ganizzarli e di commentarli collettiva-

mente. L’inserimento di un libro è molto semplicepoiché avviene tramite un identificatore univoco cheè l’ISBN. Inserendo il numero di ISBN in un’appositamaschera in pochi istanti il sistema attinge dalla ban-ca dati del servizio (di quasi 19 milioni di libri peraNobii e quasi 50 milioni per Library Thing) e caricanello spazio personale dell’utente la copertina del li-bro con i relativi dati bibliografici ai quali sono col-legati tutte le recensioni che gli utenti di aNobii oLibrary Thing hanno postato su quel libro, i tag chevi hanno apposto e la media dei voti attribuiti trami-te un sistema a stelle, di modo che l’utente possa uti-lizzare le informazioni già prodotte da altri, e parte-cipare, se crede, alla conversazione attorno a quel li-bro, oppure connettersi con persone che condivido-no il suo gusto in fatto di libri e anche eventualmen-te scambiarli. Tali siti si arricchiscono di continuo connuove funzionalità: in particolare da Library Thing,che ha ora licenziato una versione italiana, è possibi-le catturare il record bibliografico completo dellaLibrary of Congress e di altre 80 biblioteche in mododa descrivere il proprio libro, oltre che con i consue-ti tag, con una scheda bibliografica standard comple-ta di classificazione Dewey e soggettazione, oppureacquistare il libro direttamente su Amazon, DEAStoree AbeBooks. Il servizio è gratuito fino a 200 libri,mentre è necessario un pagamento per poter catalo-gare un numero di libri illimitato. aNobii è molto me-no articolato dal punto di vista degli strumenti di ca-talogazione e organizzazione dei contenuti, ma piùefficace probabilmente proprio per la sua semplicità.In entrambi è stata sviluppata una funzionalità checonsente in alcuni casi di visualizzare il full-text del

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Biblioteche oggi – aprile 2010

Il gruppo Picture Australia creato dalla National Library of Australia suFlickr

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volume in Google Books permettendo così all’utentedi crearsi una vera e propria biblioteca digitale per-sonale. anobii (il cui nome deriva dalla contrazionedel nome scientifico del tarlo della carta Anobiumpunctatum), fondato a Hong Kong nel 2005 dal ven-tinovenne Greg Sung, calcola inoltre la compatibilitàin termini di gusti letterari tra gli utenti e suggerisceutenti con gusti simili, in questo modo favorendo no-tevolmente i contatti tra le persone.Infine, tra le comunità di interesse legate al libro vi so-no quelle che ruotano attorno alle fan fiction, una for-ma di mash up di contenuti scritti dai fan di un deter-minato romanzo, film, fumetto che si basano sulla tra-ma o sui personaggi del romanzo originale e in prati-ca ne ricreano delle storie, reinventano i finali, coin-volgono i personaggi in nuove e inedite avventure.47

Social network

Quando si parla di social network in genere si fa ri-ferimento a Facebook, il network creato nel 2004 daMark Zuckerberg, Dustin Moskovitz e Chris Hughes(quest’ultimo futuro consulente nella campagna elet-torale di Barack Obama). Ma Facebook è solo l’ulti-mo arrivato – anche se quello di maggior successo –dei social network. La loro storia è piuttosto (relati-vamente) lunga e senz’altro destinata a non fermarsiallo stato attuale.Quello che può essere definito il precursorse dei so-cial network, Classmates.com, è stato creato nel 1995da Randy Conrads, un ingegnere della Boeing, alloscopo di permettergli di rintracciare i suoi ex compa-gni di classe nelle Filippine. Due anni dopo, nel 1997,l’avvocato Andrew Weinreich, lancia Six Degress, ba-sato sulla teoria dei sei gradi di separazione svilup-pata nel 1967 dal sociologo dell’Università di HarvardStanley Milgram, secondo la quale sono necessari sol-tanto sei links, sei legami, affinchè una persona entriin contatto con una qualsiasi altra persona al mondo.48

Nel 1998 viene creato Intermix, che diventerà nel2003 MySpace e che ora è di proprietà della NewsCorporation di Rupert Murdoch. Nel 1999 JonathanBishop crea Circle of Friends che poi ispirerà Friend-ster, basato proprio sul favorire le relazioni tra le per-sone, come succederà per molti social network suc-cessivi, da MySpace a Facebook, e in contemporaneanasce anche Circle of Trust, la cui base sono invece irapporti di tipo professionale e che sarà un precur-sore di LinkedIn.Nel 2001 nasce Ryze, il social network più vecchioesistente oggi, con l’obiettivo di stabilire relazioni ditipo professionale. L’anno dopo è la volta di Friend-ster, creato dal programmatore Jonathan Abrams, chepermetteva di generare una lista di contatti a partire

dagli amici degli amici e che cominciava ad avere uncerto successo, registrando un milione di utenti inmeno di un anno. Nel 2002 è il turno di LinkedIn, ilcui target sono i professionisti e lo scopo è di mette-re in contatto le persone per motivi professionali, edi MySpace messo a punto da un gruppo guidato daTom Anderson.49

Solo due anni dopo arriva Facebook. Nato il 4 feb-braio di quell’anno dall’idea dei tre studenti dell’Uni-versità di Harvard di mettere online l’annuario degliiscritti all’ateneo americano che in gergo viene chia-mato proprio facebook, il libro delle facce. Inizial-mente, difatti, il social network era limitato agli stu-denti di Harvard che erano gli unici a potersi iscrive-re. Successivamente è stato aperto a tutti e ha avutoun successo che probabilmente nemmeno i creatorisi sarebbero aspettati. Facebook ha oggi 350 milionidi utenti attivi nel mondo e la cifra è in continua cre-scita.I social network sono piattaforme web sulle quali gliutenti possono entrare in contatto tra loro e svolgereuna serie di attività, dal classico invio di e-mail, cheora però risiedono sulla piattaforma e quindi posso-no essere simultanee essendo aboliti i tempi di tra-sferimento da un server all’altro, alla condivisione difotografie, video, documenti scritti e tutto ciò che lamultimedialità della rete consente. Lo scopo è princi-palmente rimanere in conttatto con gli amici o con al-tre persone e per tale motivo rientrano nel genere dicomunità online che Maredith Farkas definisce “co-munità di mantenimento”, nel senso che l’obiettivo èil mantenimento e il consolidamento dei rapporti so-ciali.50 Tramite dei feed RSS gli amici di un utente suFacebook vengono avvisati ogni volta che l’utentecompie un’azione, per esempio pubblica un video osemplicemente scrive qualcosa sul suo profilo, e que-sto è sicuramente uno degli aspetti che piace di piùe che favorisce la socialità.Facebook, come altri social network, si basa sugli in-vestimenti di privati, tra cui Microsoft, che fanno so-pravvivere il network che non ha entrate sue e ha in-vece molti costi. Oltre a questi investimenti, vi sonole sponsorizzazioni commerciali e i proventi che Fa-cebook riceve per posizionare dei banner pubblicita-ri nelle pagine web. Ovviamente si tratta spesso dipubblicità personalizzate e tagliate su misura per l’u-tente in base al suo comportamento, il cosiddetto be-havioural advertising (pubblicità basata sul compor-tamento), poiché Facebook, così come qualsiasi sitoweb, è in grado di tracciare con estrema precisione ilcomportamento degli utenti, le preferenze, i gusti edi raccogliere un gran numero di dati sia in manieraesplicita, ovvero i dati che l’utente fornisce al mo-mento dell’iscrizione o che inserisce volontariamente

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nel suo profilo su Facebook, sia in maniera implicitastudiando i comportamenti degli utenti sulla piatta-forma (le cose che scrive e che commenta, i videoche inserisce, le risorse a cui dà preferenza e cosìvia). Naturalmente sono dei software, detti spyware,che svolgono questi compiti di raccolta e analisi deidati. Gli spyware sono spesso mascherati da giochi divario genere, che su Facebook abbondano, e che at-traverso le attività più svariate a cui invitano gli uten-ti (dalla gestione di una fattoria, al mantenimento diun acquario, alla cura di animali domestici) consen-tono da un lato di fidelizzare l’utente che con i mec-canismi del gioco viene invogliato a tornarvi spessoe quindi a tornare su Facebook (e sui banner pub-blicitari!) e dall’altro di raccogliere ulteriori dati sullafrequenza e le abitudini di uso del social network. Com’è noto, il tema della privacy ritorna spesso al-l’ordine del giorno per siti come Facebook, tanto chele nuove condizioni che regolano la privacy sul so-cial network di Zuckerberg consentono all’utente direstringere al massimo la circolazione delle informa-zioni su di sè, inclusa la possibilità di vietare ai ge-stori del sito di trasferire dati sui comportamenti allesocietà commerciali per fini pubblicitari. Tuttavia, cisarebbe da chiedersi quanti degli utenti di Facebookle conoscano e modifichino le proprie impostazionidi privacy nel social network. Oltretutto più si limitala privacy del proprio profilo meno si può interagirecon la piattaforma, poiché molte applicazioni del si-to richiedono esplicitamente di poter accedere ai da-ti del profilo per poter essere utilizzate. La limitazio-ne della privacy, quindi, implica una riduzione dellasocialità.Il problema della perdita della privacy è reale ed è ilrovescio della medaglia dei beneficiche la condivisione della conoscenzapuò apportare alla collettività, soprat-tutto se i propri dati personali sonousati a fini commerciali. Ma a voltedalla perdita della privacy del singoloscaturisce un vantaggio per la comuni-tà. Vi sono siti di social networking co-me PatientsLikeMe.com, dai quali i me-dici, studiando ciò che dicono i pazien-ti, raccolgono informazioni sugli effet-ti dei farmaci per mettere a puntonuove terapie51 o più semplicementebasta consultare la pagina dell’AIRC(Associazione italiana per la ricerca sulcancro) su Facebook per vedere comepazienti e medici interagiscano per of-frire consigli e informazione, tramitevideo, immagini, commenti che rag-giungono senz’altro un pubblico mol-

to più vasto, per quantità e tipologia, di quanto altrimezzi consentirebbero. Ciò che appare necessario èquindi trovare un giusto equilibrio tra privacy e benecollettivo, ma soprattutto diffondere la consapevolezzadelle questioni legate alla privacy, di modo che ognicondivisione di informazione da parte degli utenti diqueste piattaforme sia consapevole.Facebook viene spesso citato, come abbiamo fatto an-che noi, in quanto è il più conosciuto soprattutto nel-la realtà italiana dove ha avuto un grande successo,ma vi sono ovviamente numerosi altri social network.MySpace, che fino a qualche anno fa deteneva il pri-mato del numero di utenti che ha poi dovuto cederea Facebook, pur essendo basato sulla condivisione diun interesse per la musica viene in realtà molto usatocome una rete sociale, quindi per mantenere e trova-re nuovi contatti tra persone. Orkut è un social net-work lanciato nel 2004 da Google che ha particolaresuccesso in Brasile, mentre Bebo si è diffuso partico-larmente in Gran Bretagna e in Nuova Zelanda,StudiLN (meinVZ) invece nei paesi di lingua tedesca.52

Vi sono poi dei social network tutti italiani comeUstation, dedicato al mondo dell’università, o Ciao-Net, rivolto ai bambini e ragazzi, con la differenza diessere un social network controllato. ThinkTag ha in-vece più l’obiettivo di un aggregatore di comunità diinteresse online.53

Podcast e videocast

I podcast sono file audio, più comunemente in for-mato MP3, che possono essere trasferiti facilmente daun computer all’altro e da un computer al web op-pure a telefonini e altri supporti portatili come i let-

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Il profilo su Facebook della Hennepin County Library

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tori MP3. Sono basati su tecnologie di syndication,quindi trasferibili tramite feed basati su XML ed èquesto che distingue un podcast da un file MP3. Iltermine podcast è stato coniato per descrivere unosviluppo dello standard RSS che consentiva a file bi-nari, come i file audio MP3, di essere trasferiti (syndi-cated). In questo caso invece di trasferire una risorsasu un altro sito web, la risorsa può essere trasferita aun PC e quindi sincronizzata con un lettore MP3 por-tatile come un iPod. Sottoscrivendo un abbonamentotramite aggregatori gratuiti, detti podcatcher, comeiTunes o Juice,54 l’utente viene informato ogni voltache un nuovo contenuto podcast viene pubblicatosulla piattaforma del servizio al quale si è abbonato.Quando i lettori MP3 sono diventati più sofisticati, ilprocesso è diventato applicabile anche ai file video equindi sono nati i videocast. Oggi è diventato possi-bile aggiungere ai podcast informazioni varie, comeuna scansione in capitoli o anche link e video.55

La parola “podcasting” compare per la prima volta inun articolo di Ben Hammersely sul quotidiano “TheGuardian” nel 2004 e deriva dalla combinazione del-la parola “pod” contenuta nel nome del lettore MP3della Apple, l’iPod, con la parola “broadcasting” chesignifica trasmissione.Il formato MP3 nasce nel 1997 ma la sua diffusione siha solo quando vengono creati i lettori portatili, pri-mo fra tutti l’iPod della Apple. Al podcast si arriva perpiccoli sviluppi che cominciano nel 2000, con i primiesperimenti di feed RSS contenenti anche audio oltreche testo, proseguono con alcuni tentativi di “audio-blogging”, ovvero blog che includevano contenutiaudio, fino allo sviluppo nel 2003 della modalità oranota di trasferire facilmente i feed RSS a un lettore co-me l’iPod ad opera di due ex VJ di MTV, Adam Currye Kevin Marks.56

Come per i blog, alcune directory e motori di ricercaspecializzati consentono di ritrovare i podcast di in-teresse, analizzando le informazioni testuali e i meta-dati, come i tag, che accompagnano i podcast, masenza riuscire (ancora) a cercare all’interno dei con-tenuti audio. Più recentemente sono cominciate del-le sperimentazioni con tecnologie per il riconosci-mento vocale che consentono di convertire la voce intesto e quindi di indicizzare il testo, permettendo diricercare una parola e di estrarre solo la porzione dipodcast che la riproduce.57

MUVE (Multi-User Virtual Environment)

Vengono definiti Multi-User Virtual Environments(MUVE) quegli spazi web tridimensionali nei quali èpossibile creare rappresentazioni elettroniche di per-sone (dette avatar) e di luoghi e interagire con altri

avatar in ambienti ricostruiti in una realtà virtuale.L’esempio più noto è quello di Second Life. SecondLife è nato nel 2003 ad opera della società america-na Linden Labs. Gli utenti di Second Life sono definiti “residenti” epossono creare nuovi contenuti grafici, ma anche au-dio e video, e scambiarli con gli altri utenti. Il siste-ma fornisce ai residenti gli strumenti per aggiungeree creare nel mondo virtuale i nuovi contenuti (peresempio: oggetti, fondali, fisionomie dei personaggi,contenuti audiovisivi).Diverse biblioteche sono ormai presenti su SecondLife, con sale di lettura virtuali,58 e numerose univer-sità vi organizzano convegni e vi impartiscono corsi,anche corsi di biblioteconomia.Dopo un grande interesse iniziale, l’attività su SecondLife sembra ora essere in calo e nonostante il nume-ro delle iscrizioni sia in aumento, soprattutto in Euro-pa, secondo dati recenti solo l’1,5% degli iscritti at-tuali si può considerare attivo. Le caratteristiche socio-economiche degli iscritti attivi mostrano un bilancia-mento tra il numero di uomini e il numero di donne;per quanto riguarda l’età il 70% ha tra i 18 e i 34 an-ni, il 40% ha un reddito annuale superiore ai 50.000dollari, il 90% è laureato/diplomato e la maggior par-te svolge attività tecnica o creativa.59

L’uso dei servizi web 2.0 nelle biblioteche

Molte biblioteche hanno sperimentato una presenzasui servizi del web 2.0 oppure usano tali servizi permigliorare il loro rapporto con gli utenti, anche inItalia.60 I blog hanno da subito attirato le bibliotecheche ne fanno ampio uso per il reference digitale,61

per la promozione dei servizi e della lettura e spessocome vetrina delle nuove acquisizioni,62 ma anchecome strumento di condivisione tra i bibliotecari, etra bibliotecari e utenti su alcune tematiche specifi-che.63 Technorati, motore di ricerca per blog, elencamigliaia di blog dedicati a biblioteche e bibliotecari,mentre uno studio del 2007 di OCLC ha quantificatoin una percentuale del 46% la crescita dei blog bi-bliotecari rispetto a una precedente indagine del 2005.64

Anche i wiki e altri servizi del web 2.0 hanno ampiouso.65 I wiki sono a volte usati per creare e gestire ilsito web della biblioteca, allo scopo di favorire lapartecipazione degli utenti ma anche di facilitare il la-voro di aggiornamento del bibliotecario, che divienerapido e collaborativo, come nel caso del Biz Wikidell’Ohio University oppure alla St. Joseph CountyPublic Library che fornisce agli utenti anche delleguide per soggetto.66 I podcast vengono particolar-mente usati per corsi agli utenti e visite guidate alle

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biblioteche, come nel caso dell’Università dell’Ohio.67

L’information literacy, insieme al reference, è il setto-re nel quale vengono maggiormante usati gli stru-menti del web 2.0 e quasi tutti trovano un impiego diqualche genere in questa attività.68

I servizi di social bookmarking offrono alle bibliote-che la possibilità di creare liste di bookmark, di siti diinteresse suggeriti agli utenti ed hanno ampie possi-bilità d’uso in varie attività.69 L’elenco di siti selezio-nati per gli utenti, in varie forme organizzato, è unodei servizi che maggiormente le biblioteche offronoattraverso i loro siti web. Con l’ausilio di servizi di so-cial bookmarking come Delicious, non è più neces-sario creare delle pagine web della biblioteca, quin-di conoscere l’HTML o usare dei CMS per la gestionedei contenuti delle pagine, ma i bookmark possonosemplicemente essere raccolti in un profilo della bi-blioteca creato su Delicious con l’uso di diversi tag efamiglie di tag che, oltre a facilitare l’organizzazioneda parte della biblioteca, consentono di fornire all’u-tente molteplici punti di accesso. Il link a un quoti-diano in lingua cinese potrà per esempio avere tagmultilingue. Oltre ai tag, i bookmark registrati in De-licious possono essere accompagnati da una descri-zione inserita in uno spazio appositamente predispo-sto. I tag consentono all’utente che accede al profiloDelicious della biblioteca di trovare altre risorse disuo interesse che possiedono lo stesso tag e di entra-re in contatto con altre persone che hanno usato queltag, estendendo la ricerca all’intero servizio e non so-lo al profilo della biblioteca. Tramite i feed RSS gliutenti possono essere avvisati quando la biblioteca in-serisce un nuovo bookmark oppure sottoscrivere unfeed collegato ad uno specifico tag e quindi riceverenotifica dei bookmark inseriti su uno specifico argo-mento. I feed RSS si prestano a molteplici usi e sonosenz’altro uno degli strumenti più interessanti del web2.0 per le biblioteche poiché consentono il rapido tra-sferimento di contenuti da un mezzo all’altro.Sono numerose le biblioteche che realizzano video,anche in forma di tutorials, per YouTube, che apro-no un proprio profilo su Flickr dove inserire le fotodella biblioteca e delle attività che in essa si svolgo-no,70 che partecipano in forme diverse ai servizi dicondivisione di libri come aNobii e Library Thing.71 Èsufficiente una piccola ricerca su questi servizi pertrovare numerosi esempi significativi e sperimenta-zioni interessanti che coinvolgono le biblioteche. Perquanto riguarda Flickr vi sono alcuni tentativi di unamaggiore collaborazione tra la biblioteca e il servizio,come il noto caso di The Commons, lo spazio dellaLibrary of Congress (biblioteca particolarmente attivain tutti i servizi del web 2.0) nel quale sono state ri-versate le fotografie digitalizzate possedute dalla bi-

blioteca, consentendo così agli utenti di Flickr di com-mentare, taggare e aggiungere informazioni mancantialla biblioteca stessa sul patrimonio fotografico72 op-pure il progetto Picture Australia, gestito dalla Natio-nal Library of Australia, che ha lo scopo di raccoglierefotografie di carattere sociale, politico, storico sullanazione australiana.73 Com’è ovvio, questi progetti ri-escono a raggiungere e a connettere una quantità diutenti che sarebbe impossibile raggiungere con altrimezzi.I social network, in particolare Facebook, vedono or-mai la presenza di molte biblioteche anche italianecon una propria pagina e con servizi più o menoavanzati che vanno dai semplici dati sulla biblioteca(con orari di apertura e avvisi) all’offerta di guide bi-bliografiche, dall’accesso all’OPAC alla consultazionedi banche dati a partire da Facebook.74 Molto usatodalle biblioteche per comunicare con i propri utentiè anche Twitter che raggiunge gli utenti, non diver-samente da Facebook o da altri servizi comunque, di-rettamente sul loro iPhone o Blackberry.75

Alcuni aspetti dell’organizzazione del web 2.0: le folksonomie e la coda lunga

Una delle principali modalità di partecipazione del-l’utente ai servizi del web 2.0 assume la forma deitag, “etichette”, o meglio parole chiave che egli puòapporre alle risorse (foto, video, documenti di testo,e così via) che condivide su una piattaforma o anchealle risorse di altri utenti della piattaforma stessa.Questa attività viene chiamata collaborative tagging osocial tagging e realizza una forma di categorizzazio-ne e classificazione non gerarchica dei contenuti cheparte dal basso (bottom-up). Tale forma di organiz-zazione viene definita ‘folksonomia’ (folksonomy), te-mine che deriva dalle parole folk (“popolo”) e taxo-nomy (“tassonomia”) e che è stato coniato da Tho-mas Vander Wal in una lista di discussione sull’archi-tettura dell’informazione per indicare la pratica deltagging in cui “le persone usano il proprio vocabola-rio per aggiungere significati espliciti alle informazio-ni o oggetti che stanno usando”, in modo volontarioe collaborativo. Vander Wal suddivide le folksonomiein ampie e ristrette (broad e narrow), intendendocon le prime quelle in cui varie persone aggiungonotag allo stesso oggetto o documento e con le secon-de quelle in cui ciascun utente aggiunge i suoi tag adun suo oggetto specifico in quanto il fine è per l’u-tente innanzitutto ritrovare i suoi oggetti. Sia nel ca-so delle broad folksonomies che in quello delle nar-row folsonomies tutti gli utenti possono di norma ve-dere i tag usati dagli altri nella piattaforma.

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I tag sono stati creati nel 2003 da Joshua Shachter,l’inventore del sito di social bookmarking del.icio.us.I tag usati in un sito sono sovente visualizzabili inuna forma grafica che viene definita tag cloud, “nu-vola di tag”, la cui funzione è di rendere immediata-mente visibili i tag più utilizzati che vi vengono rap-presentati con un font del carattere più grande: in al-tre parole, i tag più usati appaiono di dimensioni piùgrandi nella tag cloud. Ogni tag è un link ed è quin-di possibile collegarsi direttamente con un clic delmouse alle risorse che hanno quell’etichetta.Sulle folksonomie vi è un’ampia bibliografia che ana-lizza nel dettaglio le implicazioni, soprattutto in rela-zione ai sistemi di indicizzazione bibliotecari con lequali, com’è ovvio, vengono messe a confronto,76 ar-gomento nel quale in questo contesto non entreremoper soffermarci invece su altri aspetti. In linea gene-rale, le folksonomie presentano dei vantaggi in ter-mini di browsing delle risorse, ovvero di spostamen-to “orizzontale” tra una risorsa e l’altra e di serendi-pity, favorendo la possibilità di trovare una risorsa diinteresse mentre se ne sta cercando un’altra. I tag col-legano le risorse tra loro e di conseguenza anche lepersone che hanno usato la stessa parola chiave eper tale motivo favoriscono le conversazioni attornoalle risorse. La loro efficacia è decisamente bassa, in-vece, in termini di trovabilità poiché mancano di dis-ambiguazione, di controllo dei sinonimi, di scelteunivoche tra singolari e plurali, mancano le suddivi-sioni e specificazioni e ovviamente qualsiasi relazio-ne gerarchica e semantica, ovvero di tutti quegliaspetti che caratterizzano invece le attività di indiciz-

zazione semantica che siamo abituati a conoscerenelle biblioteche.È evidente come non vi possa essere univocità in unaserie di termini che nessuno controlla e che migliaiadi utenti utilizzano in base alla propria visione ed in-terpretazione del mondo, alle proprie esperienze eanche ai differenti aspetti culturali, geografici, socialiche caratterizzano la vita delle persone. Ma non-ostante queste premesse, le folksonomie sembranoessere meno soggettive e imprecise di quanto ci sipossa aspettare.Alcuni studi hanno comparato l’uso dei tag con l’usodi sistemi di indicizzazione semantica adottati nellebiblioteche, rilevando come gli utenti usino in pro-porzioni eguali tag personali e soggettivi (del tipo “li-bro da leggere”, “libro letto”, “libro non letto”) e tagoggettivi, i quali in un significativo numero di casi so-no risultati corrispondenti alle voci di un soggettario.Lo studio di Lawson,77 per esempio, svolto compa-rando i tag di due piattaforme dedicate ai libri,Amazon e Library Thing, con le voci di soggetto del-la Library of Congress (i cinque titoli più presenti nelcatalogo OCLC per ciascuna delle 31 suddivisioniusate nel servizio Collection Analysis di OCLC) ha di-mostrato che i tag oggettivi usati dagli utenti erano inpercentuale del 51% (con grosse variazioni a secon-da del soggetto). In un gran numero di casi i tag og-gettivi corrispondevano a voci di soggetto delle LCSH(Library of Congress Subject Headings) usati dalle bi-blioteche, ma – e questo è l’aspetto forse più inte-ressante – in molti altri casi i tag corrispondevano avoci di soggetto presenti nelle LCSH ma non usati

dalle biblioteche nel catalogo. In parteciò dipende dal limite che i biblioteca-ri si pongono nel numero di intesta-zioni di soggetto da usare (la prassidella Library of Congress è di assegna-re non più di dieci voci di soggetto pertitolo, ma nello studio in questione lamedia di soggetti per titolo era di tre),mentre non c’è limite al numero di tagche gli utenti possono usare in un sitocome Library Thing. D’altro canto un ri-sultato di questo genere può anche in-dicare – e ciò sarebbe da indagare mag-giormente – che gli utenti cercano le in-formazioni, in questo caso sui libri, inmaniera differente rispetto a quantopercepito dai bibliotecari. Non diversi i risultati di un analogostudio compiuto comparando i sogget-ti nelle LCSH con i tag usati in De-licious su un campione di 4.598 pagi-ne web classificate, che ha dimostrato

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Alcuni post sulla pagina del gruppo Facebook in biblioteca

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come i due terzi dei tag presi a cam-pione avesse una corrispondenza nel-le LCSH.78

L’attività di social tagging degli utentipotrebbe dunque in qualche modo es-sere utilizzata all’interno delle bibliote-che, una funzionalità che gran partedei software per OPAC ormai possie-dono79 e che diverse biblioteche, an-che in Italia, hanno già implementa-to.80 Si tratta di un livello davvero mi-nimo di sperimentazione, soprattuttose non viene collegato a studi sul com-portamento degli utenti e sull’uso deitag, che possano fornire più solide ba-si operative e che, in ogni caso, devo-no essere presi con la dovuta cauteladal momento che tutto sommato an-che per le nuove generazioni gli stru-menti del web 2.0 sono nuovi e l’usotutt’altro che consolidato. I diversi stu-di compiuti sull’uso del web 2.0 dimo-strano, infatti, come i ragazzi utilizzino molto alcunidi questi servizi, in particolare Facebook, ma non co-noscano gli altri, molti dei quali sono invece utilistrumenti di lavoro e di studio, come i siti di socialbookmarking e social reference, né conoscano l’usodi strumenti dalle grandi potenzialità nella circolazio-ne dell’informazione come i feed RSS. Dunque diver-se biblioteche hanno implementato queste funzioni,tag, feed RSS, possibilità di inserire commenti negliOPAC e così via, ma gli utenti non le usano, spessoperchè non ne conoscono la funzione. La partecipa-zione delle biblioteche nei social network è allo stes-so modo non particolarmente gradita dagli utenti, senon per la possibilità di trovare gli orari di aperturadella biblioteca e informazioni generali sui servizi. Isocial network sono visti e usati come spazi privati,di socializzazione, quindi gli sforzi della bibliotecaper esserci e comunicare con gli utenti in questo mo-do vanno dosati accuratamente. Gli utenti preferiscono trovare nei siti delle bibliote-che funzioni, anche del tipo 2.0, ma che consentanoloro di migliorare e velocizzare le loro ricerche, men-tre non si aspettano e non vogliono che la bibliotecadiventi un servizio web 2.0 né che enfatizzi la parte-cipazione degli utenti e gli usi sociali dell’OPAC. Lecaratteristiche preferite dagli utenti riguardano l’orga-nizzazione a faccette dell’informazione trovata (perautore, soggetto, anno, lingua, ecc.), il relevance ran-king, cioè ordinamento dei risultati per importanza,anche con l’aiuto del sistema di suggerimenti allaAmazon (“l’utente che ha preso in prestito questo li-bro ha preso in prestito anche quest’altro”), il con-

trollo ortografico nelle ricerche, al quale siamo ormaiabituati, per cui il servizio web usato corregge auto-maticamente gli errori di battitura (come avviene inGoogle), il suggerimento di libri alternativi quando illibro cercato non è disponibile in biblioteca (“questolibro non è disponibile ma forse ti potrebbe interes-sare quest’altro”).81 In generale, stando agli studi ci-tati, gli utenti si aspettano che le biblioteche rafforzi-no con l’ausilio del web 2.0 le loro funzioni tradizio-nali, non che diventino dei servizi web 2.0. Né pe-raltro potrebbero mai diventarlo. Vi sono degli osta-coli di tipo organizzativo che Clay Shirky ha descrit-to nel dettaglio, sostenendo che le istituzioni non so-no in grado di superare il “dilemma delle istituzioni”e di adottare le forme di autorganizzazione che per-mettono ai servizi web 2.0 di sopravvivere. Shirky losimostra partendo dall’esempio di Flickr.Appare evidente come per una qualsiasi istituzione,e per il nostro campo di interesse per una qualsiasibiblioteca, sarebbe impossibile classificare un patri-monio di fotografie (ma lo stesso vale per le risorsedi qualsiasi altro servizio web 2.0) come quello con-tenuto in Flickr. Scrive Shirky:

Raccogliere e condividere immagini non è un compitocomplesso come, diciamo, mandare un essere umano sul-la Luna. Prima di servizi come Flickr, ciò che impediva lacondivisione non era in effetti una difficoltà assoluta, mapiuttosto una difficoltà relativa. La possibilità di usufruiredelle immagini, ovviamente, è sinonimo di valore sia perchi quelle immagini le produce (i fotografi) sia per chi neusufruisce, ma nella maggior parte dei casi quel valore nonha mai oltrepassato la soglia limite dei costi stabilita dal di-

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Il blog Biblioragazzi

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lemma delle istituzioni. Flickr ha aggirato il problema, nongià aumentando il controllo manageriale sui reporter, masemplicemente abbandonando ogni speranza di questo ti-po, mettendo invece a punto sistemi di autosincronizza-zione tra gruppi altrimenti latenti.82

Shirky spiega come il “dilemma delle istituzioni” co-stituisca un grosso limite per qualsiasi organizzazioneistituzionale. Con un semplice esempio relativo alfurto di un cellulare, dimostra come la tendenza apartecipare, collaborare per un motivo di comune in-teresse faccia parte della natura “sociale” dell’uomo.Ma per collaborare gli uomini devono essere motiva-ti: “uno dei principi indiscussi dell’economia – so-stiene Shirky – è che le persone rispondono agli in-centivi”. Dunque una giusta causa, una motivazionecondivisa può portare alla formazione spontanea digruppi sociali che per quella causa agiscono. L’o-stacolo che impedisce che i gruppi si formino in con-tinuazione per le innumerevoli cause comuni (dallacostruzione di strade alla raccolta rifiuti) è la difficol-tà di coordinamento.Per questo motivo i grandi gruppi, le grosse orga-nizzazioni aziendali per funzionare devono investi-re molte risorse (in senso ampio, economiche, uma-ne, di tempo) per creare un coordinamento dellepersone attraverso il management. Per organizzare illavoro degli impiegati è necessario qualcuno che sene occupi, che lo gestisca, e l’azienda è costretta asostenere i costi relativi, pena il collasso. È quelloche viene definito il dilemma istituzionale, per cui“ogni istituzione vive in una specie di contraddizio-ne: esiste per avvantaggiarsi del lavoro di gruppo,ma parte delle sue risorse devono essere impiegateper dirigere quello stesso lavoro”, e laquantità di costi da sostenere è pro-porzionale alle dimensioni dell’orga-nizzazione.83

La conseguenza è che ogni azione in-trapresa da un’istituzione deve fare iconti con i suoi costi (in senso ampio,tutti i costi). Spesso i costi di un’azio-ne sono talmente elevati da non esse-re sostenibili e da rendere l’azione ir-realizzabile poiché non conveniente,sebbene se intrapresa potrebbe appor-tare dei benefici alla comunità.In altre parole, la differenza è cheFlickr non ha cercato di coordinarel’attività degli utenti ma li ha solo aiu-tati ad organizzarsi e ad organizzare leloro foto, fornendo uno strumento co-me i tag e poi vari altri ausili come lapossibilità di aggregarsi a gruppi di in-

teresse, un’altra attività molto tipica dell’essere uma-no e in particolare della nostra società.84

Come scrive peraltro anche Mattelart,

mentre la società preindustriale era una partita “contro la na-tura” e la industriale una partita “contro la natura lavorata”,la società postindustriale è una partita “tra persone”. L’or-ganizzazione del mondo scientifico, e di un’equipe di ricer-ca in particolare, ne offre un’immagine esemplare: coopera-zione e reciprocità, più che gerarchia e coordinamento.85

In questo modo Flickr ha risolto il dilemma istituzio-nale che avrebbe comportato una sproporzione enor-me tra i costi necessari per classificare tutte le foto ei ricavi necessari a mantenere in vita il sito. Questo meccanismo rimane valido per tutti i serviziweb 2.0 ed è ciò che consente da un lato a loro disostenersi, dall’altro agli utenti di trovare quelle mo-tivazioni basate sulla condivisione e sull’azione col-lettiva che ne stimolano l’attività. Poiché inoltre, inbase al cosiddetto “paradosso del compleanno”, co-me spiegato da Shirky, la complessità di un gruppocresce più velocemente delle sue dimensioni, e diconseguenza richiede soluzioni, anche tecnologiche,continuamente sviluppate e aggiornate, spesso i ser-vizi web 2.0 devono ricorrere a forme di finanzia-mento esterne, quali sponsorizzazioni, behaviouraladvertising, oppure operano con modelli economiciche prevedono forme di pagamento per gli utenti trale quali la più diffusa è la freemium che offre un li-vello di uso di base gratuito e un pagamento di mo-desta entità (ma che moltiplicato per i milioni diutenti di un servizio web 2.0 diventa significativo)per consentire l’uso senza limitazioni oppure per ser-

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Il progetto The Commons della Library of Congress su Flickr

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vizi aggiuntivi (usato per esempio da Flickr che per-mette di inserire gratuitamente un certo numero difotografie nella piattaforma, ma prevede un paga-mento per l’uso illimitato o da Library Thing che, co-me abbiamo visto, fa lo stesso con i libri).È impensabile quindi per qualsiasi istituzione entrarenel mondo del web 2.0 con modalità differenti chenon consentano di risolvere il “dilemma delle istitu-zioni”. Non è realistico pensare che una biblioteca,qualsiasi biblioteca, possa improvvisarsi gestore di unsocial network o di un sito di media sharing senzamettere in conto la perdita di controllo sulle sue atti-vità più caratterizzanti che fanno tutte capo ad aspet-ti legati all’organizzazione dell’informazione. Per fun-zionare efficacemente in questo senso come “library2.0” la biblioteca dovrebbe rinunciare al controllo suqueste attività, lasciandole all’iniziativa degli utenti edeventualmente limitandosi a fornire gli strumenti agliutenti stessi per organizzarle al meglio. Ma non è l’unico impedimento ad un uso efficace deiweb sociale in biblioteca. Una delle caratteristicheprincipali di questi servizi, e peraltro particolarmentegradita dagli utenti, è la possibilità di mashup, dicombinare cioè risorse e applicazioni differenti tra lo-ro, anche tra servizi diversi (da aNobii, Twitter, Flickrsi possono comunicare le proprie attività ed esporta-re i propri contenuti su Facebook) che quindi nasco-no già con l’obiettivo di essere interoperabili al mas-simo. In biblioteca, com’è noto, la maggior parte del-le risorse documentarie e dei software utilizzati sonoproprietari ma quasi mai il proprietario è la bibliote-ca, e molto raramente queste applicazioni e softwaresono interoperabili.86 Dunque esisterebbe un ostaco-lo molto grosso se la biblioteca volesse offrire un ser-vizio di questo tipo, costituito dalla difficoltà di far in-teragire piattaforme (contenitori editoriali di periodi-ci elettronici, e-books, link resolver, sistemi vari di or-ganizzazione e recupero dell’informazione, a comin-ciare dall’OPAC) che le biblioteche di norma acqui-stano da molteplici fornitori commerciali che hannonotoriamente poco interesse ad essere interoperabili.Un dilemma istituzionale e una serie di altri proble-mi di difficile superamento accompagnano il percor-so della biblioteca verso il web 2.0, ma si tratta di unastrada sicuramente da percorrere sebbene necessitisenz’altro di ulteriori approfondimenti per determi-nare quale può essere il ruolo della biblioteca in que-sto nuovo contesto.

Note

1 TIM O’REILLY, What Is Web 2.0. Design Patterns and Bu-siness Models for the Next Generation of Software, 2005,<http://oreilly.com/pub/a/oreilly/tim/news/2005/09/30/

what-is-web-20.html>, disponibile in traduzione italiana al-l’URL <http://www.bitmama.it/articles/14-Cos-Web-2-0>.2 MARK LAWSON, Berners-Lee on the Read/Write Web, “BBCNEWS”, August 9, 2005, <news.bbc.co.uk/1/hi/technology/4132752.stm>. 3 ARMAND MATTELART, Storia della società dell’informazione,Torino, Einaudi, 2002, p. 146.4 Web 2.0. Internet è cambiato e voi? I consigli dei princi-pali esperti italiani e internazionali per affrontare le nuo-ve sfide, a cura di Vito Di Bari, Milano, Il Sole 24 Ore, 2007,p. XII-XIII.5 Per capire la cultura del mashup che sta alla base delnuovo mondo digitale 2.0 è molto utile il film realizzato daBrett Gaylor nel 2009 nell’ambito del progetto Open Sour-ce Cinema, <http://www.opensourcecinema.org/>. Il filmaffronta anche il tema della nuova concezione del dirittod’autore e vede la partecipazione di Lawrence Lessig, ilcreatore delle licenze Creative Commons.6 CLAY SHIRKY, Uno per uno, tutti per tutti. Il potere di orga-nizzare senza organizzazione, Torino, Codice, 2009, p. 23(ed. or. Here Comes Everybody. The Power of Organizingwithout Organizations, 2008).7 PHIL BRADLEY, How to use Web 2.0 in your library, Lon-don, Facet Publishing, 2007, p. 2-9.8 Cluetrain Manifesto: the end of business as usual, 1998,<http://www.cluetrain.com/>, disponibile in italiano all’URL<http://www.mestierediscrivere.com/index.php/articolo/Tesi>.9 Si veda R. DAVID LANKES – JOANNE SILVERSTEIN – SCOTT NI-CHOLSON, Participatory Networks, the Library as Conver-sation, 2007, <http://blogs.iis.syr.edu/wp/>, la cui tradu-zione italiana Le reti partecipative, la biblioteca come con-versazione è disponibile su AIB-WEB a cura del Gruppo distudio AIB sulle biblioteche digitali, <http://www.aib.it/aib/cg/gbdigd07.htm3>; il gruppo AIB ha anche elaboratonel 2005 il Manifesto sulle biblioteche digitali che si aprecon l’affermazione che “le biblioteche digitali sono con-versazioni” (http://www.aib.it/aib/cg/gbdigd05a.htm3).10 ALBERT-LÁSZLÓ BARABÁSI, Link. La scienza delle reti, To-rino, Einaudi, 2004 (ed. or. Linked. The New Science ofNetworks, 2002), p. 142-154.11 La rivista “Time Magazine” ha voluto sottolineare questospostamento: la sua copertina dedicata alla persone del-l’anno è stata nel 1996, anno in cui il world wide web co-miciava a diffondersi capillarmente, l’immagine di un com-puter, mentre nel 2007 la persona dell’anno era YOU,quindi le persone.12 TOM COATS, An Addendum to a Definition of Social Soft-ware, 2005, <www.plasticbag.org/archives/2005/an_addendum_to_a_definition_of_social_software.shtml>.13 Internet Archive, <http://www.archive.org/>. 14 Web 2.0. Internet è cambiato e voi?, cit., p. 6. Il terminegeek viene usato per indicare una persona particolarmenteappassionata di informatica e di nuovi media e che spes-so ha di conseguenza una profonda conoscenza dei com-puter e dei media.15 CLAY SHIRKY, Uno per uno, tutti per tutti, cit., p. 19.16 Open Diary, <http://www.opendiary.com/>; Blogger,<https://www.blogger.com/start>; Pitas.com, <http://www.

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pitas.com>; Wordpress, <http://wordpress.org/>; Movable-type <http://www.movabletype.com/>. Molte di queste piat-taforme offrono oggi funzionalità più ampie.17 Technorati, <http://technorati.com/>. Vi sono in ognicaso molti altri motori di ricerca per i blog quali GoogleBlog Search, <http://blogsearch.google.com/>, BlogPulse,<http://www.blogpulse.com/>, Blog Search, <http://www.blog-search.com/>. 18 MEREDITH G. FARKAS, Social Software in Libraries: Buil-ding Collaboration, Communication, and Community On-line, Medford, Information Today, 2007, p. 11-14.19 LUCA GRIVET FOIAIA, Web 2.0. Guida al nuovo fenomenodella Rete, Milano, Hoepli, 2007, p. 92-93.20 Mozilla Manifesto, 1998, <http://www.mozilla.org/about/manifesto.it.html>.21 Web 2.0. Internet è cambiato e voi?, cit., p. XII-XIII.22 Giuseppe Granieri paragona i permalink ad un sistemadi classificazione, ma forse meglio bisognerebbe dire a unsistema di collocazione, che in un contesto bibliotecarioconsentirebbe di identificare ogni singolo paragrafo all’in-terno di un libro invece che solo l’intero libro, si vedaGIUSEPPE GRANIERI, La società digitale, Roma-Bari, Laterza,2006, p. 104.23 <http://www.bloglines.com>; <http://www.google.com/reader>; <http://www.blogbridge.com>. 24 Sui feed RSS e le diverse accezioni del termine si vedaANTONELLA DE ROBBIO, Servizi bibliotecari personalizzatibasati su RSS feeds: i diversi volti di un nuovo canale di co-municazione, in La biblioteca su misura. Verso la perso-nalizzazione del servizio, a cura di Claudio Gamba e MariaLaura Trapletti, Milano, Editrice Bibliografica, 2007, p. 184-206.25 MEREDITH G. FARKAS, Social Software in Libraries, cit., p.16-17. La traduzione è mia.26 FABIO METITIERI, Il grande inganno del Web 2.0, Roma-Bari, Laterza, 2009.27 Sono esempi di siti di giornalismo partecipativo Craiglist.com, Digg.com, Gizmondo.com.28 Il suo blog si chiama Generation Y, <http://www.desdecuba.com/generaciony/>. 29 Il rapporto è all’URL <http://rsfitalia.files.wordpress.com/2010/03/enemies-of-the-internet-rapport_en-11032010.pdf>.30 I risultati completi dello studio condotto intervistandoquasi 28.000 cittadini adulti di 26 nazioni (l’Italia non è sta-ta inclusa nell’indagine) tra il 30 novembre 2009 e il 7 feb-braio 2010 sono disponibili sul sito della BBC all’URL<http://news.bbc.co.uk/2/shared/bsp/hi/pdfs/08_03_10_BBC_internet_poll.pdf>.31 Per esempio il social network MySpace ha approntatouna serie di strumenti di sicurezza per i genitori chiamati“Zephyr” che li aggiorna sui dati inseriti dai figli nel sito,mentre Facebook ha recentemente ridefinito la sua politicasulla privacy consentendo all’utente di attivare una tutelamaggiore. A riguardo si veda in particolare il capitolo dedi-cato alla sicurezza nel recente volume scritto da due docentidi diritto JOHN PALFREY – URS GASSER, Nati con la rete, Milano,BUR, 2009 (ed. or. Born Digital, 2008), p. 122-160.32 Dodgeball, <http://www.dodgeball.com>; Socialight,

<http://www.socialight.com>. Questi social network han-no funzionalità di geolocalizzazione.33 Wikipedia, <http://www.wikipedia.org/>.34 WikiMatrix (http://www.wikimatrix.org) consente di con-frontare le caratteristiche di oltre 50 differenti piattaformewiki.35 Portland Pattern Repository, <c2.com/cgi/wiki>. 36 CLAY SHIRKY, Uno per tutti, tutti per uno, cit., p. 83-86.37 Library success, a best practice wiki, <http://www.libsuccess.org>; LISWiki – Library Science Wiki, <http://liswiki.org/wiki/Main_Page>.38 Delicious, <http://delicious.com/>; Blink List, <http://www.blinklist.com/>; Gnolia, <http://gnolia.com/>; StumbleUpon, <http://www.stumbleupon.com/>.39 Zotero, <http://www.zotero.org/>; CiteULike, <http://www.citeulike.org/>; Connotea, <http://www.connotea.org/>. 40 Flickr, <http://www.flickr.com>; Photobucket, <http://photobucket.com/>.41 YouTube, <http://www.youtube.com/>; Flurl, <http://www.flurl.com/index.htm>. 42 anobii, <http://www.anobii.com/>; Library Thing <http://www.librarything.com/>. 43 MEREDITH G. FARKAS, Social Software in Libraries, cit., p. 86.44 LinkedIn, <http://www.linkedin.com>. Ning, <http://www.ning.com/> è una piattaforma che consente di creare retisociali.45 CHRIS ANDERSON, La coda lunga: da un mercato di mas-sa a una massa di mercati, Torino, Codice, 2006 (ed. or.The long tail: why the future of business is selling less of mo-re, 2006).46 Del fenomeno della coda lunga descritto da Andersonabbiamo parlato in maniera più approfondita in un artico-lo a cui si rimanda: ROSSANA MORRIELLO, La coda lunga e lebiblioteche, “Bollettino AIB”, 49 (2009), 1, p. 69-82.47 Il sito <http://www.efpfanfic.net/> raccoglie alcune fanfiction in italiano.48 In realtà il primo a parlare di una teoria del genere fu loscrittore ungherese Frigyes Karinthy nel 1929 in un rac-conto intitolato Catene.49 Ryze, <http://www.ryze.com>; LinkedIn, <http://www.linkedin.com>; MySpace, <http://www.myspace.com/>.50 MEREDITH G. FARKAS, Social Software in Libraries, cit., p. 86.51 PatientsLikeMe.Com, <http://www.patientslikeme.com/>.52 Orkut, <http://www.orkut.com>; Bebo, <http://www.bebo.com/>; StudiLN, <http://www.meinvz.net/l/change_studiln/>. 53 Ustation, <http://www.ustation.it>; CiaoNet, <http://www.ciaonet.it/>; Think Tag, <http://www.thinktag.org>. 54 iTunes, <http://www.apple.com/it/itunes/>; Juice, <juicereceiver.sourceforge.net>. 55 Podcast Maker (http://www.lemonzdream.com/podcastmaker) e GarageBand della Apple (http://www.apple.com/ilife/garageband) sono strumenti per aggiungere questogenere di elementi ai podcast. 56 MEREDITH G. FARKAS, Social software in libraries, cit.,p. 182-183.57 Podcast Alley (http://www.podcastalley.com/) e ovvia-mente iTunes (http://www.apple.com/itunes/podcasts)

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sono directory che raccolgono podcast. PodZinger (http://www.podzinger.com) e Podscope (http://www.podcope.com) sperimentano le tecniche di riconoscimento vo-cale.58 Second Life, <http://secondlife.com/>. Molto nota è laInfo Island, spazio su Second Life dell’Alliance LibrarySystem e OPAL (Online Programming for All Libraries) dicui si possono leggere notizie sul blog (http://infoisland.org) e vedere un video dimostrativo su YouTube: <http://www.youtube.com/watch?v=jTQkzfz5osQ>. 59 Web 2.0. Internet è cambiato e voi?, cit.60 Si vedano tra gli altri alcune pubblicazioni recenti: NOA

AHRONY, Web 2.0 use by librarians, “Library & InformationScience Research”, 31., 2009, 1, p. 29-37; La bibliothèque àl’heure du web 2.0, Paris, Group Serda-Archimag, 2008;MARIANNE GOSLING – GLENN HARPER – MICHELLE MCLEAN, Pu-blic library 2.0: some Australian experiences, “The Elec-tronic Library”, 27., 2009, 5, p. 846-865; CHEN XU – FENFEI

OUYANG – HETING CHU, The Academic Library Meets Web2.0: Applications and Implications, “The Journal of Aca-demic Librarianship”, 35., 2009, 4, p. 324-331; NICHOLAS

JOINT, The Web 2.0 challenge to libraries, “Library Review”,58., 2009, 3, p. 167-175. Una bibliografia italiana sul web2.0 è raccolta dalla Biblioteca “Luigi Crocetti” di Firenzeall’URL <http://www.cultura.toscana.it/biblioteche/bsb/bi-bliografie/webduepuntozeroinitaliano.shtml>. 61 Si veda per esempio l’elenco dei blog su Ask a librariansu una delle principali piattaforme per creare blog, quelladi WordPress <http://wordpress.com/tag/ask-a-librarian/>. 62 Per fare qualche esempio italiano, tra i diversi disponi-bili, si veda il blog “Bibliostoria” della Biblioteca di Scienzedella storia dell’Università di Milano <http://bibliostoria.wordpress.com/libri-nuovi-sugli-scaffali/>; il Blog “Medi-cina in biblioteca” della Biblioteca Medica “Pinali” del-l’Università di Padova <http://giorgiobertin.wordpress.com/>; “Bisiblog”, il blog della Biblioteca di Scienze deibeni culturali di Siracusa <http://bisiblog.splinder.com/>.Per quanto riguarda le biblioteche pubbliche alcuni esem-pi sono “Bibliotecando”, il blog degli Amici della Biblio-teca civica di Cologno Monzese <http://bibliotecando.splinder.com/>; “BiblioPro”, il blog dei bibliotecari dellaProvincia di Roma <http://www.bibliopro.blogspot.com/>.63 Per esempio, il Law Librarian Blog, <http://lawprofes-sors.typepad.com/law_librarian_blog/>, il blog sullo svi-luppo delle collezioni <http://unitosvicol.wordpress.com/>e sui servizi bibliografici digitali <http://unitosbd.wordpress.com/> dei bibliotecari dell’Università di Torino, op-pure il blog sulla catalogazione dei bibliotecari della Pro-vincia di Brescia, <http://www3.provincia.brescia.it/biblioteche/tikiwiki/Web/tiki-view_blog.php?blogId=1>.64 OCLC, Sharing, Privacy and Trust in Our NetworkedWorld. A Report to the OCLC Membership, Dublin (Ohio),OCLC, 2007. L’indagine ha riguardato le biblioteche statu-nitensi, canadesi e britanniche. 65 MATTHEW M. BEJUNE, Wikis in Libraries, “InformationTechnology & Libraries”, 26., 2007, 3, p. 26-38; SAMUEL KAI-WAH CHU, Using Wikis in Academic Libraries, “The Journalof Academic Librarianship”, 35., 2009, 2, p. 170-176; BAR-BARA FIORENTINI, I wiki in biblioteca, “Biblioteche oggi”, 26

(2008), 10, p. 17-22; VIRGINIA GENTILINI, Il wiki di Sala Borsa,“Biblioteche oggi”, 27 (2009), 2, p. 35-38.66 Biz Wiki dell’Ohio University, <http://www.library.ohiou.edu/subjects/bizwiki/index.php/Main_Page>; St.Joseph County Library, <http://www.libraryforlife.org/subjectguides/index.php/Main_Page>.67 Alden Library Ohio University, <http://www.library.ohiou.edu/vtour/podcast/>. Si veda anche STEVEN LONN –STEPHANIE D. TEASLEY, Podcasting in higher education:What are the implications for teaching and learning?, “TheInternet and Higher Education”, 12., 2009, 2, p. 88-92. 68 Una panoramica degli usi dei vari strumenti web 2.0 èofferta in Information literacy meets Library 2.0, edited byPeter Godwin and Jo Parker, London, Facet Publishing, 2008.69 Si veda per esempio BARBARA FIORENTINI, Il Social book-marking nel servizio di reference, “Bibliotime”, 11 (2008),n. 1, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-xi-1/fio-renti.htm>.70 Si veda, per fare un solo esempio, l’album fotograficodella Biblioteche della Brianza, <http://www.flickr.com/photos/brianzabiblioteche/>. 71 Si vedano a titolo di esempio la Webster Vienna Library(http://www.anobii.com/people/wuv/), ma anche i profiliitaliani della Biblioteca popolare di Rho (http://www.anobii.com/people/bibliopop/) o della Alma Library di Bolo-gna (http://www.anobii.com/people/almalibrary/) dal cuiprofilo è possibile scegliere i libri e poi chiederne il pre-stito, ovviamente favoriti dal fatto che si tratta della biblio-teca di un collegio universitario.72 The Commons, <http://www.flickr.com/commons/>. Sulprogetto si veda anche ALBERTO SALARELLI,“The Commons”,“Biblioteche oggi”, 26 (2008), 5, p. 21-28.73 Picture Australia su Flickr: <http://www.flickr.com/groups/pictureaustralia_ppe/>. Il sito 1.0 di Picture Australia è in-vece a questo URL: <http://www.pictureaustralia.org/news/index.html>. 74 Un elenco di biblioteche italiane presenti su Facebookè consultabile a partire dal gruppo “Facebook in bibliote-ca” creato da chi scrive sul social network. Vi sono poimolti altri gruppi dedicati all’uso di Facebook da parte del-le biblioteche internazionali, come “Libraries Using Face-book” oppure “Librarians and Facebook”.75 Un elenco delle biblioteche che usano Twitter è dispo-nibile sul wiki Library Success all’URL <http://www.libsuccess.org/index.php?title=Twitter>. 76 La bibliografia sull’argomento è davvero estesa. Si veda-no tra gli altri: NICOLA BENVENUTI, Social tagging e bibliote-che: implicazioni e suggestioni di una classificazione ge-nerata dagli utenti che emerge attraverso un consenso dalbasso, “Biblioteche oggi”, 25 (2007), 3, p. 35-42, oppure inE-Lis, <http://eprints.rclis.org/archive/00012879/01/social_tagging.pdf>; SCOTT A. GOLDER – BERNARDO A. HUBERMAN,Usage patterns of collaborative tagging systems, “Journal ofInformation Science”, 32 (2006), 2, p. 198-207; MARIEKE

GUY – EMMA TONKIN, Folksonomies. Tidying up Tags?, “D-Lib Magazine”, 12 (2006), 1, <http://www.dlib.org/dlib/january06/guy/01guy.html>; ELIN K. JAKOB, Classificationand categorization: a difference that makes a difference,“Library Trends”, winter 2004, oppure <http://findarticles.

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com/p/articles/mi_m1387/is_3_52/ai_n6080402/pg_1?tag=artBody;col1>; OLIVIER LE DEUFF, Folksonomies. Les usagersindexent le web, “Bulletin des Bibliothèques de France”, 51(2006), 4, p. 66-70; ALIREZA NORUZI, Folksonomies: (Un)Controlled Vocabulary?, “Knowledge Organization”, 33(2006), 4, p. 199-203, oppure in E-Lis, <http://eprints.rclis.org/archive/00011286/01/Folksonomy%2C_UnControled_Vocabulary.pdf>; MICHELE SANTORO, Questa sera si catalogaa soggetto. Breve analisi delle folksonomie in prospettiva bi-bliotecaria, “Bibliotime”, 10 (2007), 2, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-x-2/santoro.htm>.77 KAREN G. LAWSON, Mining Social Tagging Data for En-hanced Subject Access for Readers and Researchers, “TheJournal of Academic Librarianship”, 35., 2009, 6, p. 574-582. 78 KWAN YI – LOIS MAI CHAN, Linking folksonomy to Libraryof Congress subject headings: an exploratory study,“Journal of Documentation”, 65., 2009, 6, p. 872-900.79 Una panoramica delle funzionalità tipiche del web 2.0disponibili nei maggiori software per OPAC è stata elabo-rata dalla società francese Tosca Consultants e pubblicatain Le catalogue de la bibliothèque à l’heure du Web 2.0:étude des opacs de nouvelle generation, étude réalisé parMarc Maisonneuve, Paris, ADBS, 2008.80 È un aspetto, questo, sul quale non ci soffermiamo inquesto contesto poiché richiederebbe ben altro spazio. Sirimanda pertanto all’articolo ANDREA MARCHITELLI – TESSA

PIAZZINI, OPAC, SOPAC e social networking: cataloghi dibiblioteca 2.0?, “Biblioteche oggi”, 26 (2008), 2, p. 82-92.

81 Sono i risultati di uno studio condotto presso l’Universitàdi Sheffield e pubblicati in WINNIE TAM - ANDREW M. COX -ANDY BUSSEY, Student user preferences for features of next-generation OPACs: A case study of University of Sheffieldinternational students, “Program: electronic library and in-formation systems”, 43., 2009, 4, p. 349-374. Analoga laconclusione di uno studio simile riportato in KENNETH J.BURHANNA – JAMIE SEEHOLZER – JOSEPH SALEM JR., No NativesHere: A Focus Group Study of Student Perceptions of Web2.0 and the Academic Library, “The Journal of AcademicLibrarianship”, 35., 2009, 6, p. 523-532.82 CLAY SHIRKY, Uno per tutti, tutti per uno, cit. p. 31.83 CLAY SHIRKY, ivi, p. 16-17.84 Meredith Farkas suddivide le comunità in cui la gente siriunisce, non solo online ma anche nel mondo fisico, incomunità di interesse, comunità di sostegno, comunità diazione e comunità locali, si veda MEREDITH G. FARKAS, So-cial Software in Libraries, cit., p. 86. Molte delle attivitàche compiamo sui servizi web 2.0 sono attività che giàsvolgiamo nella realtà (condividere le foto con gli amici,scambiarsi consigli, sostenere cause nelle quali crediamo)ma che ora vengono trasferite online.85 ARMAND MATTELART, Storia della società dell’informazio-ne, cit., p. 71.86 Ci eravamo già soffermati su questo limite in un altrocontesto: si veda ROSSANA MORRIELLO, La gestione delle rac-colte digitali in biblioteca, Milano, Editrice Bibliografica,2008, p. 180-189.

Il presente articolo rappresenta una ricognizione preliminare, anche di natura bibliografica, relativa al fenomeno del web 2.0, edin maniera più specifica delle sue implicazioni documentarie, e si colloca all’interno di una ricerca di più ampio respiro volta ainterpretarne le caratteristiche ed a verificarne l’impatto sia sulle pratiche gestionali delle biblioteche sia sugli aspetti teorici dellabiblioteconomia, esaminati anche da un punto di vista diacronico.

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The article explores the technical and social features of the evolution from Web 1.0 to Web 2.0, starting fromthe assumption that Web 2.0 is not a revolution but a simple evolution of the World Wide Web. Various servicesof Web 2.0 are presented with the history of their development, technical and social aspects, and their use in li-braries. Therefore blogs, feed RSS, wikis, social bookmarking, social referencing, media sharing services, so-cial nwtworks, podcasts, multi-user virtual environment are all discussed in the article. Finally, folksonomies andthe long tail are explored, as well as other crucial aspects, as referred to the organization of library 2.0.

Abstract

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