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1 Corso di Manutenzione e Conservazione del Patrimonio Edilizio esistente Prof. Ing. Fabio Fatiguso POLITECNICO DI BARI DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA CIVILE, AMBIENTALE, DEL TERRITORIO EDILE E DI CHIMICA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN INGEGNERIA DEI SISTEMI EDILIZI L’EVOLUZIONE DEGLI STRUMENTI NORMATIVI DALLA LEGGE “PONTE” ALLA LEGGE 457/78 2 Nel corso della loro millenaria esistenza, le città si sono sempre sviluppate su se stesse. Gli uomini sono intervenuti sugli edifici eretti dai loro predecessori, hanno lavorato sul “costruito”, come si dice oggi, per adattarlo alla vita, agli usi ed ai “valori” del loro tempo. Per far ciò hanno distrutto, ristretto, modificato, ingrandito, innovato il preesistente. Corso di Manutenzione e Conservazione del Patrimonio Edilizio esistente - Prof. Ing. Fabio Fatiguso

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Corso di Manutenzione e Conservazione del Patrimonio Edilizio esistente

Prof. Ing. Fabio Fatiguso

POLITECNICO DI BARI

DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA CIVILE, AMBIENTALE, DEL

TERRITORIO EDILE E DI CHIMICA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN INGEGNERIA DEI SISTEMI EDILIZI

L’EVOLUZIONE DEGLI STRUMENTI NORMATIVI

DALLA LEGGE “PONTE” ALLA LEGGE 457/78

2

Nel corso della loro millenaria esistenza, le città si

sono sempre sviluppate su se stesse.

Gli uomini sono intervenuti sugli edifici eretti dai loro

predecessori, hanno lavorato sul “costruito”, come si dice

oggi, per adattarlo alla vita, agli usi ed ai “valori” del loro

tempo.

Per far ciò hanno distrutto, ristretto, modificato,

ingrandito, innovato il preesistente.

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In questo processo il “nuovo” era in realtà una

reinterpretazione del vecchio, dell’esistente, dove gli

interventi che, con accezione moderna noi definiamo di

ristrutturazione, riuso e riciclo, costituivano la prassi

operativa normale in uno sviluppo naturale condizionato

anche, da un lato, dalle esigenze di contenimento dei

limiti fisici della città per problemi di difesa (entro le

fortificazioni, ad esempio), dall’altro dalla disponibilità

dei materiali da costruzione e dai costi di trasporto.

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L’adattamento a nuovi usi

Roma: Teatro di Marcello - Palazzo SavelliRoma: S. Maria degli Angeli

Spalato: Palazzo di Diocleziano

Siracusa: Cattedrale

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La considerazione storica del preesistente

Parigi: Piano Haussmann (1851)Completamento dell’avenue de l’Opéra –planimetria con indicazione delle demolizioni

Roma: Il Pantheon prima e dopo lademolizione dei campanili del Bernini(1893) Roma: Realizzazione di Via della

Conciliazione (1937) con la demolizionedella spina di Borgo

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Tale equilibrio, immutato per secoli per esigenze socio-

economiche piuttosto che di conservazione dell’edificato

esistente, viene meno nell’’800 con il venir meno delle

esigenze primarie che ne erano alla base (difesa e costi

di trasporto).

Si avvia un processo inarrestabile di espansione

orizzontale della città con il progressivo abbandono

della città storica e degli interventi su di essa che ne

avevano consentito l’efficienza fino ad allora.

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Tale corso, che raggiunge il culmine nel periodo

immediatamente seguente la seconda guerra mondiale,

entra però ben presto in crisi per l’incapacità della città

di sostenere un processo di sviluppo indefinito.

Da un lato si assiste al crescente degrado ed

abbandono delle aree urbane edificate marginali, con

distruzione di risorse, densità di impianto e difficile

gestione di nuovi quartieri, sempre più lontani dal

“centro cittadino” e sempre più destinati ad assumere i

connotati di quartieri-dormitorio.

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Dall’altro si palesa la crisi ed una ridiscussione critica

dei modelli di sviluppo urbano ad espansione

orizzontale indefinita, nate alla luce delle mutate

situazioni energetiche, ma anche dei diversi

atteggiamenti culturali, soprattutto in relazione alla

maggiore importanza assunta dal concetto di “qualità

della vita”.

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Si sente allora sempre più la necessità di ritornare a

“lavorare” sul patrimonio edilizio esistente, di

conservarlo, individuando inizialmente come oggetto di

attenzione la parte storica della città, riscoprendo non

solo la possibilità di evitare la distruzione di risorse di

principale rilevanza, connessa con la perdita di edifici

spesso doppiamente interessanti per il loro intrinseco

valore economico e per la “posizione” che occupano nel

centro urbano, ma anche le sorprendenti capacità di

risposta alle emergenti richieste della società.

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Agli inizi degli anni ’60, a livello culturale, la questione

del recupero si esaurisce nel problema connesso

alla tutela e conservazione dei centri storici.

Nel primo Convegno ANCSA (Venezia 1962) viene

superato il concetto di “centro storico-artistico”,

artificiosa elaborazione degli storici dell’arte, per

giungere ad estendere il concetto di “tutela” al centro

storico nella sua interezza.

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Sul piano normativo

la Legge urbanistica 1150/1942 dedica alla città

costruita poche e generiche norme tra le quali:

• l’impegno del Ministero dei LL.PP. a vigilare per

assicurare il rispetto dei caratteri tradizionali della

città;

• l’obbligo di indicare nel PRG gli edifici soggetti a

demolizione e/o ricostruzione.

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Con l’obbligo di subordinare il rilascio delle licenze

alla preventiva formazione del Piano

Particolareggiato,

l’uso, il riuso ed il rinnovo del patrimonio edilizio

residenziale sarebbe stato “disciplinato”

dall’applicazione combinata del PP e del

Regolamento Edilizio.

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Negli anni ’50, essendo la cultura dominante

condizionata ancora dalle esperienze dei decenni passati,

i PRG erano redatti nell’ottica

• del massimo sfruttamento delle aree,

• degli sventramenti dei tessuti urbani,

• degli isolamenti delle emergenze architettoniche.

Negli sporadici casi in cui furono redatti l’iter approvativo

dei PP fu talmente lungo e sofferto da convincere larga

parte degli addetti ai lavori alla impraticabilità della

procedura.

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La necessità stessa del PP fu presto messa in discussione

da sentenze della magistratura, che definì legittime le

licenze edilizie rilasciate in conformità del PRG, anche in

assenza di PP, svuotando questi ultimi di ogni valenza

pianificatoria.

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Il primo provvedimento legislativo che interessa l’esistente

è la Legge 60/1963 istitutiva della Gescal, con la quale

venne varato un programma decennale di costruzione degli

alloggi per lavoratori:

almeno il 60% dei fondi Gescal e di quelli ad essa

assegnati dallo Stato doveva essere speso per il

risanamento dei complessi edilizi.

Purtroppo non solo i finanziamenti Gescal toccarono nei primi

anni ’60 il livello più basso mai raggiunto in precedenza, ma una

quota dei fondi fu ricavata con la svendita del patrimonio

immobiliare INA-casa, col che venne a mancare un possibile

campo di applicazione di quel 60% dei fondi destinati al

risanamento dell’esistente.

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E’ con la legge 765/1967 - Legge Ponte -

che viene posto un particolare accento sulla

tutela dei centri storici, recependo parte delle

istanze culturali scaturite sin dagli inizi del

decennio.

Al centro storico sono dedicati parte delle

disposizioni contenute negli artt. 3 e 17 della

legge.

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L’art. 3 della legge consente che da parte del

Ministero del LL.PP. (ora dalle Regioni) vengano

inserite negli strumenti urbanistici modifiche atte “ad

assicurare la tutela del paesaggio e dei

complessi storici, monumentali, ambientali ed

archeologici”.

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L’art. 17 stabilisce che “qualora l’agglomerato

urbano rivesta carattere storico ed artistico o di

particolare pregio ambientale sono consentite

esclusivamente opere di consolidamento o

restauro senza alterazione di volumi.

Le aree libere sono inedificabili fino all’approvazione

del PRG”.

La legge non determina i criteri necessari per la

definizione spaziale e concettuale di quella

parte dell’agglomerato urbano destinato a tali

norme.

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La Circolare Ministeriale n. 3210/1967 specifica

che destinatari delle norme sono:

- gli agglomerati urbani o parti di essi soggetti a

vincolo o provvedimenti del Ministero della P.I., ai

sensi delle leggi del ’39;

- quelle parti del territorio idoneamente

tipizzate dai PRG vigenti;

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- le strutture urbane con le seguenti caratteristiche:

• in cui la maggioranza degli isolati contengono

edifici costruiti in epoca anteriore al 1860, anche

in assenza di monumenti o edifici di particolare valore

artistico;

• racchiuse da antiche mura in tutto o in parte

conservate, ivi comprese le eventuali propaggini

esterne che rientrino nella edificazione di cui al punto

precedente;

• realizzate anche dopo il 1860, che nel loro

complesso costituiscano documenti di un

costume edilizio altamente qualificato.

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La legge n. 765/67 introduce per la prima volta la tutela

dei centri storici, con una impostazione che guarda, non

tanto la valore eccezionale dei singoli elementi

architettonici che li compongono, ma a tutto l’impianto

urbanistico tradizionale, che va conservato nel suo

insieme, in quanto testimonianza materiale delle singole

comunità cittadine.

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E’ opinione comune che la tutela introdotta dalla legge n.

765/67 rifletta i caratteri peculiari della politica urbanistica

del periodo, preoccupata di regolare principalmente (se

non soltanto) gli interventi nelle zone di espansione

dell’abitato:

essa per il tessuto edilizio e abitativo preesistente

nei centri storici, non poteva che proporre una tutela

conservativa, incentrata su uno “strumentario di

blocco” degli interventi.

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In applicazione del disposto dell’art. 17 della legge

765/1967, il decreto del 2 aprile 1968 n. 1444

fissa all’art. 2 - Zone territoriali omogenee - i

criteri per perimetrare le aree a diversa

regolamentazione dei nuovi strumenti urbanistici.

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Nelle zone già edificate il decreto distingue:

ZONE A

Le parti di territorio che sono “interessate da

agglomerati urbani che rivestono carattere

storico, artistico e di particolare pregio

ambientale o da porzioni di essi, comprese le

aree circostanti, che possono considerarsi parte

integrante, per tali caratteristiche, degli

agglomerati stessi”

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ZONE B

Le “parti di territorio, totalmente o parzialmente

edificate, diverse dalle zone A)”, intendendo per

“parzialmente edificate le zone in cui la

superficie coperta degli edifici esistenti non sia

inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie

fondiaria della zona e nelle quali la densità

territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq.”

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Tale suddivisione avrebbe dovuto e potuto consentire

l’inclusione, nella perimetrazione delle zone A, di parti di

territorio più ampie, anche con recente edificazione, al di fuori

di quanto usualmente veniva identificato come “centro storico”,

per esercitare una tutela attiva maggiore e, mediante lo

strumento della pianificazione particolareggiata, evitare il

successivo possibile degrado.

Purtroppo, molto spesso, la difficoltà di gestione delle

disposizioni legislative sulle zone A e l’intento marcatamente

vincolistico delle stesse, hanno ottenuto l’effetto opposto,

spingendo le amministrazioni locali a contenere al minimo

necessario le limitazioni, con notevoli danni in prospettiva.

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Una prima conseguenza della suddivisione del territorio in

zone omogenee è rappresentata, per la zona omogenea di

tipo A, dalla definizione dei limiti alla edificazione,

introdotti per decreto, che propongono

• il mantenimento delle densità edilizie esistenti

• nel caso di nuove costruzioni, densità fondiarie

ammissibili contenute in un valore massimo di 5

mc/mq, con altezze consentite mai superiori a

quelle preesistenti e/o circostanti.

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Questo primo approccio sull’esistente è di tipo certamente

conservativo e vincolistico, almeno sul piano della

formazione dello strumento urbanistico generale.

La norma comunque fa salva la necessità di procedere con

strumentazione attuativa (il Piano Particolareggiato)

ad una più adeguata definizione degli interventi, proprio

perché all’interno del perimetro così definito, non sempre

vi è la presenza di un tessuto costituito da edifici da

conservare totalmente.

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Alla legge 765/1967 va scritto unicamente il merito di

aver bloccato la manomissione in corso dei centri

storici di quei comuni dotati di PRG largamente

permissivo ed in quelli, la maggior parte, che non si erano

avvalsi dalla “facoltà” di dotarsi di uno strumento

urbanistico, ragion per cui gli interventi edilizi erano

disciplinati dal solo Regolamento Edilizio.

A Napoli il Consiglio Superiore dei LL.PP., in sede di

approvazione del PRG del 1972, estese la perimetrazione della

zona da assoggettare a risanamento urbanistico fino a

comprendere le parti realizzate nel primo novecento,

scongiurando così alcuni sventramenti richiesti per l'ampliamento

della rete viaria.

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Alcune amministrazioni ritennero di poter risolvere il

problema della salvaguardia e riqualificazione dei

centri storici attraverso lo strumento del Piano di

Zona previsto dalla Legge 167/62, in modo da

consentire anche quella “conservazione socio-

economica” delle classi sociali deboli e delle

attività produttive (commerciali e artigianali), il cui

allontanamento rappresentava e rappresenta un vero

grave pericolo di degrado sociale che si aggiunge a

quello fisico.

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L’esempio più eclatante fu quello dell’intervento nel

centro storico di Bologna ove questo tentativo fu

portato avanti con molta determinazione, utilizzando tra

l’altro il sistema del convenzionamento.

Si sono sperimentate anche altre modalità quali quelle

dell’intervento diretto pubblico attraverso la GESCAL, con

l’acquisizione di immobili da risanare, inclusi in piani

particolareggiati estesi all’intero centro storico.

Nel comune di Molfetta l’Amministrazione comunale ha

preso tale iniziativa, per alcune isole del centro antico, e il

programma è attualmente in atto.

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In termini di tutela si annovera la legge n. 1187/1968

che, nel sostituire l’art. 7 della legge 1150/1942, impone

di indicare nei PRG i “vincoli da osservare nelle zone a

carattere storico, ambientale e paesistico”.

La giurisprudenza che, in virtù di tale norma, l’autorità

urbanistica non si deve limitare a recepire i vincoli

preesistenti, imposti dalle Soprintendenze, ma può

estendere i vincoli anche nei confronti di altri edifici.

Si realizza così la possibilità di una tutela molto più ampia

di quella prevista con le Leggi 1089/39 e 1497/39.

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Frenata la spinta alla sostituzione edilizia, attraverso il

contenimento degli indici e le relative prescrizioni

restrittive della 765/67 e del DM 1444/68, ampie parti dei

tessuti urbani sono interessate da fenomeni di

disinvestimento e di mancanza di manutenzione

continua, con enormi perdite di valore economico.

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Grazie alla Legge 865/71 una parte dei finanziamenti per

l’edilizia residenziale fu effettivamente destinata agli

interventi di ristrutturazione, risanamento e restauro

conservativo di interi complessi edilizi nei centri storici.

Con le Leggi 166/75, 492/75 e 513/77 venne emanata

una serie articolata e complessa di provvedimenti tendenti

ad accelerare la realizzazione di programmi di edilizia

residenziale pubblica con la contemporanea previsione di

ulteriori finanziamenti integrativi.

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Tra le norme acceleratici è da citare la previsione di

assegnare direttamente ai Comuni i fondi destinati al

recupero e risanamento dei complessi edilizi e i

provvedimenti sostitutivi adottabili in caso di inerzia degli

enti destinatari dei finanziamenti.

Dalle leggi 10/77, 392/78, 475/78 traspare la presa di

coscienza del legislatore sulla necessità di coinvolgere e

guidare, nelle operazioni di recupero, anche le risorse

private dal momento che quelle pubbliche, nonostante gli

impegni straordinari assunti dalle varie leggi di

finanziamento, sono insufficienti ad incidere in maniera

significativa sui processi in atto nel tessuto edificato.

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Gli strumenti individuati sono

• il convenzionamento

• le incentivazioni finanziarie.

La concessione diventa gratuita per gli interventi di

restauro, di risanamento conservativo o di ristrutturazione

di edifici unifamiliari che non comportano un aumento delle

superfici utili di calpestio e mutamento delle destinazioni

d’uso, previa stipula di una convenzione.

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Con il trasferimento delle competenze legislative in

campo urbanistico alle Regioni, avvenuta con il D.P.R.

616/1977, si riteneva che il problema dei centri storici

assumesse una rilevanza maggiore che nel passato.

Ciò derivava dall'urgenza di affrontare e contrastare le

nuove aggressioni al patrimonio storico diffuso, quale

quello dei contesti urbani, non sempre in grado di essere

salvaguardati dai regimi vincolistici (ex lege 1089/1939,

1497/1939, ecc.).

Si sperava in una maggiore attenzione del legislatore

regionale, che, per la sua natura istituzionale, avrebbe dovuto

essere certamente quello più pronto al recepimento delle

esigenze legate alle situazioni locali.

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Da una analisi più puntuale delle leggi regionali

esistenti, alcune aggiornate secondo gli ultimi

orientamenti culturali, emerge che molte delle stesse

si limitano a recepire la normativa statale sul

recupero, facendo rientrare la problematica del

"centro storico" in quella del degrado diffuso nelle

sue varie accezioni (edilizio, infrastrutturale,

economico, ecc.).

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