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MARCELLO CARLINO “Passando” per Baudelaire: Benjamin, l’allegoria e la critica della modernità 1. Basterebbe considerare la posizione focale che la tecnica assume entro il quadro sistemico del pensiero di Benjamin, e non solo negli scritti che si volgo- no con acuta attenzione alla teoria marxiana e nei quali si fa fertile di risultati il sodalizio culturale con Brecht, per derivarne, interi e puntualmente misurati, lo scarto e l’opposizione frontale, mettiamo, alle tesi di Heidegger. Mentre que- st’ultimo demanda all’opera – in specie in quanto poesia, e prodursi della magia poietica del linguaggio – un compito di rivelazione, una sorta di miracolosa parousia in assenza, per il che l’opera ha un valore irriducibile al qui ed ora (e financo al disegno di un futuro progettato nel qui ed ora) e, estranea alla tecnica, anzi chiamata a pronunciarsi contro di essa, o a subornarla, veleggia come a ritroso e fuori del tempo, tra nostalgia ed elegia, e reca in dono una memoria originaria e inscrive una metastorica, indefinita percezione dell’essere (secondo Heidegger, solo sui sentieri del linguaggio si ritrova una traccia consi- stente di approssimazione all’essere, che vi risuona senza rendersi presente, e bussa e “irrompe” in una percezione vaga, illimitata, incomunicabile, la quale si configura come un’apertura ed un’attesa; e un linguaggio rammemorante, capa- ce di un compito di evocazione, e dunque luogo del mostrarsi dell’attesa dell’es- sere, non è se non risale a prima di ciò che lo ha usurato e polluito, avendolo prestato alla dispersione pulviscolare di uno sciame di particolarità incoerenti e scisse, di un Dasein frammentato e conculcato, distratto e stornato dall’ascolto dell’essere: non è se non ha matrice e sostanza archetipe e si dà, natura più che cultura, come un dono gratuito, immune dalle storicità determinate e dalle infe- renze utilitarie della tecnica: ed è il linguaggio stesso convenzionalmente eletto e designato a inaugurare – così nei cerimoniali della cultura letteraria egemone – la tradizione, ad esserne il fondamento e la casa), Benjamin allontana e respin- ge ogni maliosa e ingannevole sirena ontologica (che canta il trascendimento dell’esistente e di fatto, coprendolo con un omissis e sorvolandolo con indiffe- renza, lo assolve) e guarda non all’essere senz’altra specificazione, o predicato 25

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MARCELLO CARLINO

“Passando” per Baudelaire: Benjamin,l’allegoria e la critica della modernità

1. Basterebbe considerare la posizione focale che la tecnica assume entro ilquadro sistemico del pensiero di Benjamin, e non solo negli scritti che si volgo-no con acuta attenzione alla teoria marxiana e nei quali si fa fertile di risultati ilsodalizio culturale con Brecht, per derivarne, interi e puntualmente misurati, loscarto e l’opposizione frontale, mettiamo, alle tesi di Heidegger. Mentre que-st’ultimo demanda all’opera – in specie in quanto poesia, e prodursi della magiapoietica del linguaggio – un compito di rivelazione, una sorta di miracolosaparousia in assenza, per il che l’opera ha un valore irriducibile al qui ed ora (efinanco al disegno di un futuro progettato nel qui ed ora) e, estranea allatecnica, anzi chiamata a pronunciarsi contro di essa, o a subornarla, veleggiacome a ritroso e fuori del tempo, tra nostalgia ed elegia, e reca in dono unamemoria originaria e inscrive una metastorica, indefinita percezione dell’essere(secondo Heidegger, solo sui sentieri del linguaggio si ritrova una traccia consi-stente di approssimazione all’essere, che vi risuona senza rendersi presente, ebussa e “irrompe” in una percezione vaga, illimitata, incomunicabile, la quale siconfigura come un’apertura ed un’attesa; e un linguaggio rammemorante, capa-ce di un compito di evocazione, e dunque luogo del mostrarsi dell’attesa dell’es-sere, non è se non risale a prima di ciò che lo ha usurato e polluito, avendoloprestato alla dispersione pulviscolare di uno sciame di particolarità incoerenti escisse, di un Dasein frammentato e conculcato, distratto e stornato dall’ascoltodell’essere: non è se non ha matrice e sostanza archetipe e si dà, natura più checultura, come un dono gratuito, immune dalle storicità determinate e dalle infe-renze utilitarie della tecnica: ed è il linguaggio stesso convenzionalmente elettoe designato a inaugurare – così nei cerimoniali della cultura letteraria egemone– la tradizione, ad esserne il fondamento e la casa), Benjamin allontana e respin-ge ogni maliosa e ingannevole sirena ontologica (che canta il trascendimentodell’esistente e di fatto, coprendolo con un omissis e sorvolandolo con indiffe-renza, lo assolve) e guarda non all’essere senz’altra specificazione, o predicato

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che non sia infine di marca metafisica, ma all’essere sociale nelle sue stratifica-zioni complesse e nella sua puntuta dialettica storica. Benjamin sta al qui edora, ben ancorato all’utilità, nell’immediato verso il futuro, dell’opera; per que-sto compito ripristina un rapporto attivo e fecondo tra il linguaggio letterario ela tecnica: così chiaramente nell’Autore come produttore (e nell’Opera d’artenell’epoca della sua riproducibilità tecnica), e così già nel saggio su Le affinitàelettive di Goethe, dove la tecnica è indicata quale linea di confine e spazio diaccesso dal contenuto reale al contenuto di verità.

Ciò si dice non tanto per sottolineatura, che apparirebbe pleonastica, di unadiversità del pensatore berlinese da Heidegger o, meglio ancora, di una antino-mia radicale, per cui l’uno e l’altro sono schierati agli antipodi, in conflitto sututti i campi. Piuttosto, usando da cuneo Heidegger e l’heideggerismo dei nostritempi, si intende notificare un altro scarto e un’altra opposizione inconciliabili.

Se Heidegger e la sua filosofia sono, come è indubbio, linfa e nutrimentobasilari della cosiddetta postmodernità (la virtuale sostanzialità linguistica del-l’essere, a detrimento della realtà concreta e materiale dell’essere sociale, è,appunto, uno dei crediti heideggeriani riscossi dalla nouvelle vague postmoder-nista), Benjamin non rilascia alcun benestare a futura memoria, né predice eprepara l’avvento dell’ismo che oggi vediamo imperversare e correre un po’sulla bocca di tutti. Al contrario, non autorizzandolo né poco né punto e non for-nendogli giustificazioni preventive, rigettandone anzi alcuni fondamenti costitu-zionali, ci invita caldamente a combatterlo. Del resto, che il suo pensiero noncontempli alcuna fine della storia, ma, senza abbandonarsi a “irresponsabili”derive o a estatiche attese, richieda una presenza “tendenziosa” nella storia perprogettarvi esecutivamente un cammino di redenzione, resta consegnato all’in-tero corpus dei suoi scritti, che rende continua e perentoria testimonianza di unpensiero problematico ma “forte”, impermeabile a qualunque tentazione “debo-listica”.

Benjamin versus postmoderno, insomma (a contraddire quanti, arrampican-dosi sugli specchi, vorrebbero arruolarlo nel campo avverso): e infatti egli è tra ipiù acuti pensatori della modernità, ovvero tra i più efficaci produttori, dallamodernità, di un pensiero critico della modernità.

2. I conti con la modernità Benjamin li fa, tutti e distintamente, in specie neiframmenti di Parigi, capitale del XIX secolo, in L’opera d’arte nell’epoca dellasua riproducibilità tecnica e nell’Autore come produttore. Sezionando e sche-matizzando, e considerando nel mentre che il trattato “parigino” imperniato suBaudelaire è rimasto incompiuto (per alcune parti solo abbozzato con materialidi riporto dallo sterminato magazzino dei Pariser Passagen) e non ha potutoprendere la forma di summa, o di quel libro “totale” e consuntivo che avrebbedovuto essere nell’ideazione benjaminiana, si potrà attribuire, per quanto siaarbitrario e chirurgicamente riduttivo della complessità e delle ricchissime arti-

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colazioni e diramazioni interne ai tre testi (e si aggiunga pure: a tutti i testi diBenjamin, costruiti sempre su una trama fitta e minuta di motivi ed oggetti e suuna intersezione, volta ad un reciproco potenziamento, dei piani, delle angola-zioni e dei gradi di analisi): al primo (l’ordine, va da sé, non è cronologico) ladelineazione dei preliminari e del metodo; al secondo la rappresentazione delloscenario della modernità nel Novecento; al terzo l’individuazione, posto quelloscenario, del compito dell’intellettuale-scrittore.

Ora, la modernità, quale specificamente si riflette sul lavoro artistico e lo at-tende ad una significativa rifunzionalizzazione, condizionandone i presupposti etrasformandone, comunque sia, il ruolo nella dialettica sociale, si riassume nelsistema e nella logica della riproducibilità tecnica. Che è vista quale esito rile-vante di una rivoluzione tecnologica, ma non è certamente scambiata con un fe-nomeno avulso, con il portato automatico di un progresso che fa corsa a sé e,poiché assoluto e super partes, prescinde da ragioni e da interessi di economiapolitica: la riproducibilità tecnica, nell’ottica benjaminiana, sta come una mona-de, un microcosmo che trasferisce in proiezione, riproduce ed esprime il macro-cosmo della realtà politico-sociale, e dunque la modernità (su cui si estende, de-cisiva e aggressivamente prensile, la longa manus dell’economia capitalistico-borghese), con le sue potenzialità (anche impreviste e involontarie) e i suoi limi-ti, con le sue aperture (con le maglie di minor resistenza, che sembrano non te-nere e possono essere forzate) e le sue chiusure, con le sue contraddizioni intere.

Proprio sulle potenzialità della Moderne, e sulle aperture che vi si profilanoe in forza delle quali l’intellettuale è chiamato a riconvertire il suo compito,Benjamin indaga lungo tutto il saggio ospitato nel 1936 dalla «Zeitschrift fürSozialforschung». La riproducibilità tecnica, che perfeziona, diffonde e muta diprospettiva e di segno l’antica prassi della riproduzione, è, intanto, tra le causeagenti del “venir meno” dell’“aura” dell’opera d’arte. Il carattere cultuale e l’a-lone rituale, che tradizionalmente la distinguono, il suo stagliarsi in lontananza,ad interdire ogni contatto profano così che si monumentalizza come un che diirripetibile e di insindacabile, sono profondamente messi in questione: colpiti,scossi, in procinto di essere sovvertiti.

Al valore cultuale tende a sostituirsi un valore espositivo: «Con l’emancipa-zione di determinati esercizi artistici dall’ambito del rituale, le occasioni diesposizione dei prodotti aumentano». Ergo, e non in un imprecisato domani:«Coi vari metodi di riproduzione tecnica dell’opera d’arte, la sua esponibilità ècresciuta in una misura così poderosa, che la discrepanza quantitativa tra i suoidue poli si è trasformata, analogamente a quanto è avvenuto nelle età primitive,in un cambiamento qualitativo della sua natura. E cioè: così come nelle età pri-mitive, attraverso il peso assoluto del suo valore cultuale, l’opera d’arte eradiventata uno strumento della magia, che in certo modo soltanto più tardi vennericonosciuto quale opera d’arte, oggi, attraverso il peso assoluto assunto dal suovalore di esponibilità, l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni com-

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pletamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella arti-stica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale».

Alla “esponibilità”, quale è rinvenuta e puntualizzata da Benjamin, fannoriferimento due accezioni di significato e due ordini di evenienze possibili.

L’opera d’arte si pone (è spinta a porsi, può essere progettata specificamentee costruita deliberatamente per porsi) al di fuori dei confini del sacro, dove eracustodita in odore di mistero e di miracolo per essere “elargita” come da regolae sub condicione (a condizione che la cultualità dell’estetico non venisse maidismessa, per quanto mutassero e magari sembrassero erga omnes le formuledel rito); così esponendosi e laicizzandosi, essa rompe con la tradizione e sfatal’illusione che la finge urbi et orbi come una favola bella. Nell’Opera d’artenell’epoca della sua riproducibilità tecnica è detto a chiare note: «Entrambi iprocessi portano a un violento rivolgimento che investe ciò che viene tramanda-to – a un rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale edell’attuale rinnovamento dell’umanità». E ancora: «La tecnica della riprodu-zione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito dellatradizione» (ma non è soltanto questione del “riprodotto”, dacché il processo,tutt’altro che circoscritto, è esteso e invasivo, e «l’opera d’arte riprodotta diven-ta in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte predisposta allariproducibilità»); risultandone per corollario che «nulla mostra in modo più dra-stico come l’arte sia sfuggita al regno della bella apparenza, cioè a quel regnoche per tanto tempo è stato considerato l’unico in cui essa potesse fiorire».

L’opera d’arte, questa la seconda implicazione della sua “esponibilità”,incontra (è bene che si attrezzi per incontrare) il pubblico: dunque si rende per-via alla comunicazione (inficia e ricusa il sistema comunicativo fondato sullasovranità illimitata di uno stato di sacralità, che è il luogo inaccessibile da cui siparla e che assimila l’emittenza a una elargizione da distante, dalla lontananzaimpervia dell’aura), si attualizza (nel momento in cui rifiuta l’alibi di una irripe-tibile autenticità, si lascia usare – autorizza il suo uso e lo programma – in altricontesti, per altri qui ed ora, nessuno irripetibile o privilegiato), si mette a“disposizione” (e si dispone a prendere posizione, arrischiandosi nella dialetticasociale). La tecnica della riproduzione, precisa Benjamin nell’Opera d’arte nel-l’epoca della sua riproducibilità tecnica, «moltiplicando la riproduzione... poneal posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo allariproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situa-zione, attualizza il riprodotto». Che se ne determini, venuti meno il criterio e ilvalore dell’autenticità nella produzione, un mutamento dell’intera funzione del-l’arte, è quanto dal punto di vista benjaminiano si rileva con tutta evidenza: «Alposto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi:vale a dire il suo fondarsi nella politica». E, come è palese che con la sua “espo-nibilità” l’arte si porta in un circuito sociale e politico, e vi si porta pubblica-mente, non più in privato e in segreto, né più riparata dietro la maschera della

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universalità del rito e del culto, così è scontato che la riproducibilità tecnicainveste e sollecita, con una intensità e con una potenzialità di trasformazioneinusitate, e senza precedenti di analogo peso nella storia della cultura, i numeri,i modi e le logiche della ricezione. Non si tratta, soltanto, di una crescita espo-nenziale delle possibilità di fruizione e insomma di un allargamento cospicuodelle fasce di utenza; c’è, di più, che «la riproducibilità tecnica dell’opera modi-fica il rapporto delle masse con l’arte» e che il ruolo autoriale, per effetto della“esponibilità” e delle condizioni di ricezione indotte dalla riproducibilità tecni-ca, si ridisegna in ragione di una «produzione di prestazioni verificabili, anziadottabili, in determinate condizioni sociali». E c’è, di più, che alla «maggioreanalizzabilità della prestazione rappresentata» corrisponde, secondo un rapportoproporzionale, una percezione modificata, e un modo diverso di partecipazione,che Benjamin, prendendo spunto da Duhamel, definisce di «ricezione nelladistrazione». Nel «considerare le cose più da vicino», il saggio benjaminianopubblicato nel 1936 chiosa: «La distrazione e il raccoglimento vengono con-trapposti in un modo tale che consente questa formulazione: colui che si racco-glie davanti all’opera d’arte vi si sprofonda; penetra nell’opera, come raccontala leggenda di un pittore cinese alla vista della sua opera compiuta.Inversamente, la massa distratta fa sprofondare nel proprio grembo l’opera d’ar-te». E reca come esempio funzionale l’architettura: «Ciò avviene nel modo piùevidente per gli edifici. L’architettura ha sempre fornito il prototipo di un’operad’arte la cui ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività. Leleggi della sua ricezione sono le più istruttive».

Dell’architettura (ed è un sintomo, un segnale e un modello) e «delle costru-zioni si fruisce in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione».

La ricezione, nell’epoca della riproducibilità tecnica, non è disgiungibile dal-l’uso.

3. Lo scenario della modernità è, dunque, ben in vista sulle pagine diBenjamin, che ne calcola gli aspetti e gli indotti, e che punta sulla caduta del-l’aura come sulla leva di un rivolgimento capitale e decisivo.

Epperò è ingeneroso addebitare all’Opera d’arte nell’epoca della sua ripro-ducibilità tecnica una “sopravvalutazione” (a rischio di travisamento e di rimo-zione) dello stato delle cose, quasi che la socializzazione della produzione del-l’arte si annunciasse prossima ventura e reperisse nella neonata società di massae nei primi fenomeni di massificazione nella comunicazione artistica (e cioè,per traslato, e per chiamare a nome il mandante: nella nuova fase illiberale emonopolistica del capitalismo) l’humus più fertile e più pura, la tappa antece-dente di un progresso che non facit saltus, un anello necessario (di cui dunqueassicurare la tenuta e rinforzare la lega) nella catena della continuità storica.

Benjamin non fa alcuno sconto e non ignora davvero che la riproducibilitàtecnica ha i suoi detentori e i suoi manipolatori ed è appannaggio pressoché

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esclusivo dei potentati economici, proprietari dei mezzi di produzione; e gli èchiaro che il rapporto «delle masse con l’arte» risulta, nella situazione in atto,fortemente ipotecato. Basta che «il significato sociale di un’arte diminuisca»(che è esattamente quanto l’economia capitalistica persegue, ponendosi l’obiet-tivo di un maggior profitto e guardandosi bene, perciò, da una rivitalizzazionedel lavoro artistico capace di aprire spiragli di autoconsapevolezza, di produrrecontenuti rivoluzionari, di mettere in questione proprietà e logiche di controllo),e «il contegno critico e quello della mera fruizione da parte del pubblico diver-gono», sicché mentre «il convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciòche è veramente nuovo viene criticato con ripugnanza». Se si guarda al cinema,l’arte-bandiera della riproducibilità tecnica, che vi si mostra in modo illuminan-te e che ne è anzi corredo genetico e fattore costituzionale, si tocca con mano losfruttamento capitalistico di cui è fatto oggetto e per cui la “ricezione nelladistrazione” non è prestata ai fini di una maggiore analizzabilità del prodotto, ead un cosciente uso sociale dell’apparato di produzione, ma è restaurata e fun-zionalizzata a captare effetti subliminali e a indurre il pubblico ad altri sprofon-damenti, ad una full immersion ancora più ipnotica. «In questa situazione, l’in-dustria cinematografica» scrive Benjamin «ha tutto l’interesse a imbrigliare,mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, lapartecipazione delle masse». Del resto, è stretto e solido il rapporto che unisce,per il tramite del valore della “esponibilità” (quando è deviato dal valore d’uso eserve a promuovere il valore di scambio), mercificazione e riproducibilità tecni-ca, come è noto che il mercato e la sua espansione anche in aree prima protettesono da annoverare tra i corresponsabili, e insieme tra i maggiori beneficiari,della crisi e della scomparsa dell’aura, che pure restano leve e strumenti impre-scindibili per una eversione radicale e per una trasformazione qualitativamentesignificativa dell’esistente dell’arte; certo è che è notissimo a chi, intorno a que-sti fenomeni propri e anzi inaugurali della Moderne, e intorno alla loro “dop-piezza”, arrivando di gran lunga per primo, ha centrato le varie sequenze dellasua straordinaria baudelairiana.

Ma il fatto è questo, per Benjamin: per costruire un altro qui ed ora, o almenoper prefigurarne la possibilità futura dagli spazi della sovrastruttura, che è il compi-to primario di ogni intellettuale non arreso né asservito (e comunque consapevoleche la sua è la via più lunga), necessariamente il faut être modernes e necessaria-mente, mentre si sta nella modernità e la si usa e se ne sfruttano le contraddizioni,bisogna criticare la modernità come essa è, come è data dai rapporti sociali di pro-duzione regolati dal capitale: collaborare nello specifico a costruire un altro hic etnunc richiede che la modernità come la conosciamo, e la scontiamo, sia criticata erichiede che si stia nella modernità per prefigurare un moderno di segno profonda-mente mutato, un moderno versus il moderno di cui ci tocca fare esperienza.

La fuga dal moderno è inutile e inoltre è dannosa: chi si ritrae dal modernofinisce per lasciare campo libero al moderno quale è (non ottengono risultato

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diverso quanti oggi “si ritirano” dal moderno al punto di dirlo finito, sostituitoda una condizione come postuma, e limbica, in cui tutto si tiene schiacciato sulpresente nell’indifferenza e nell’impossibilità di qualunque progetto); e si ritro-va, volente o nolente, in compagnia di coloro che il moderno lo accettano senzatentennamenti, e senza un ette di critica, o perché condividono la base economi-co-politica che ne determina l’assetto e l’ideologia capitalistico-borghese che viha prevalso e che lo esprime, o perché presumono di astrarne e di assolutizzarnegli elementi tecnici dandoli per impregiudicati da qualsivoglia ideologia (spac-ciandoli per neutre conquiste della scienza e dello sviluppo tecnologico, dausarsi come vengono) e attribuendoli positivisticamente alla corsa inarrestabile,e autoregolamentata, del progresso.

Se, tra i frammenti di Parigi, capitale del XIX secolo, non mancano quelliche demistificano la fede assoluta nel progresso e ne sottolineano la pertinenzaal mito e, per esso, la prossimità all’idea dell’eterno ritorno (eccone un excerp-tum: «Di fronte a questo [il concetto dialettico del tempo storico] l’idea dell’e-terno ritorno appare frutto proprio di quel “piatto razionalismo” di cui si accusala fede nel progresso, e quest’ultimo si rivela altrettanto appartenente al pensie-ro mitico quanto l’idea dell’eterno ritorno»), nell’Opera d’arte nell’epoca dellasua riproducibilità tecnica Benjamin giudica conservatrici e improduttive lepoetiche che reagiscono alla modernità con una mera strategia autodifensiva,estraniandosi e cercando riparo in un illusorio porto franco («... quando, con lanascita del primo mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario... l’arteavvertì l’approssimarsi di quella crisi che passati altri cento anni è diventatainnegabile, essa reagì con la dottrina dell’arte per l’arte, che costituisce una teo-logia dell’arte. Successivamente da essa è proceduta addirittura una teologianegativa nella forma dell’idea di un’arte “pura”, la quale, non soltanto respingequalsivoglia funzione sociale, ma anche qualsiasi determinazione da parte di unelemento oggettivo»): reagiscono, insomma, confermando l’arte nella «sua esi-stenza parassitaria nell’ambito del rituale». Quanto al futurismo italiano poi, suun versante che appare diametralmente opposto a quello dell’arte pura, il capodi imputazione registrato agli atti da Benjamin è di particolare gravità: la conti-guità al fascismo, di cui i manifesti di Marinetti nel primo dopoguerra rendonoconfessione piena, non c’è nessuno che possa impugnarla e certamente proviene(di fatto cointeressandola) dalla estetizzazione della politica, inscenata fin daldebutto dalle colonne del «Figaro» e divenuta negli anni refrain, collante esostrato ideologico dell’avanguardia futurista; e l’estetizzazione della politica, asua volta, non è senza relazione con la mitizzazione della tecnica e con l’estetiz-zazione del moderno da Marinetti e dai suoi più ligi scolari cantati sempre entu-siasticamente e a tutta voce, quasi fossero i nuovi idoli (gli dei sopraggiunti allamorte di Dio) da assecondare e da glorificare, da propiziare e da cui sperare gra-zia. La colpa originale, per la quale è impensabile l’indulto, consiste qui nelsublimare la tecnica, nel trarla fuori dal contesto di cui è parte, nel transustan-

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ziarla in realtà di natura (in Parigi capitale del XIX secolo si dice, ragionando diuna equivalenza che concerne il futurismo: «Il tentativo reazionario di isolare leforme tecnicamente limitate dal loro contesto, trasformandole in costanti natura-li – cioè stilizzandole – compare in modo simile tanto nello Jugendstil quanto,un po’ più tardi, nel futurismo»); dove una siffatta ipostasi comporta non l’abo-lizione, ma il trasferimento dell’aura, che, venuta meno all’arte a motivo dellariproducibilità tecnica, rinasce dalle ceneri per concedersi da distintivo allamodernità, quasi ribattezzandola quale luogo fantasmagorico di magie, e investela tecnica di un valore cultuale, così che è benedetta l’ideologia di chi la detienee la produce e il suo farsi prassi è accettato (di più: è assecondato) come forza dinatura inarrestabilmente progressiva: una estetizzazione della politica, appunto,che ha portato il futurismo italiano ad un pericoloso incontro ravvicinato con ilfascismo.

Né i fautori dell’arte per l’arte o dell’arte pura (e ne spuntano numerosi inogni stagione e ad ogni latitudine; erano tornati a spuntare anche negli anni delsurrealismo, come Benjamin rileva polemicamente nella sua mappa della lette-ratura francese di quel torno di tempo), i quali si ritirano a modo di cincinnati esono convinti che l’aura sopravviva intatta nel loro orticello fuori dalla mischiadella modernità, né i chierici della religione della modernità (e pure di questaspecie abbiamo oggi non pochi esemplari), “modernolatri” i quali estetizzanol’esistente (e le sue proiezioni razionali) e trapiantano altrove, dove è più remu-nerativa, l’aura rapita all’arte dalla riproducibilità tecnica; né i transfughi dalmoderno, né del moderno gli estasiati (e ben integrati) maestri cantori; né i con-servatori, né i reazionari: non è casuale che per un moderno di segno mutato, unmoderno versus il moderno, Benjamin chiami a testimone, prima di Brecht, cheè notoriamente il testimone chiave, il dadaismo.

Sul dadaismo, ancora nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilitàtecnica: «Ogni formulazione nuova, rivoluzionaria, di determinate esigenze èdestinata a colpire al di là del suo bersaglio. Il Dadaismo lo fa nella misura incui sacrifica i valori di mercato, che ineriscono al film in così larga misura, afavore di intenzioni di maggior rilievo [...] I dadaisti davano all’utilizzabilitàmercantile delle loro opere un peso molto minore che non alla loro inutilizzabi-lità nel senso di oggetti di un rapimento contemplativo [...] Ciò che essi ottengo-no con questi mezzi è uno spietato annientamento dell’aura dei loro prodotti, aiquali, coi mezzi della produzione, imponevano il marchio della riproduzione[...] Al rapimento [...] si contrappone la diversione quale varietà di comporta-mento sociale. Effettivamente, le manifestazioni dadaiste concedevano unadiversione veramente violenta rendendo l’opera d’arte centro di uno scandalo.L’opera d’arte era chiamata principalmente a soddisfare un’esigenza: quella disuscitare la pubblica indignazione. Coi dadaisti, dalla parvenza attraente o dallaformazione sonora capace di convincere, l’opera d’arte diventò un proiettile.Venne proiettata contro l’osservatore».

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Una produzione che si apre alla riproduzione e inscrive nel prodotto la con-traddizione del riprodotto (e stralcia e anticipa con un beffardo e straniante riusodi materiali già fatti, e degradati, e incongrui, la legge della riproducibilità,rifiutandola al funzionamento previsto a regime); il calcolo per il quale la desti-nazione al mercato non è respinta con sdegno (come sarebbe, con gesto pura-mente simbolico e del tutto illusorio, da parte di chi rimanesse attardato e aso-ciale laudator temporis acti), e tuttavia è subordinata ad una qualità del prodottoche lo faccia inutilizzabile per ciò che Benjamin definisce «rapimento contem-plativo» (quel che si offre ad una «utilizzabilità mercantile» è quindi un “disva-lore”, che non ha quotazione nella borsa dei valori ideologici borghesi e che è incontrotendenza rispetto al trend – e alla ratio – del mercato capitalistico dell’ar-te, dove, comunque si travesta, domina la merce griffata e prezzata da un rapi-mento imbonitore); lo spietato annientamento dell’aura, la provocazione chesovverte dalle radici il «convenzionale» goduto senza alcuna critica, lo scandaloper cui l’opera d’arte diventa un «proiettile», e “gettata fuori”, proiettata «con-tro l’osservatore» (così da dirompere il circolo virtuoso, caro alla tradizione, cheassocia la «parvenza attraente» e colui che si accontenta di osservare, di subire edi lasciarsi sedurre), si accosta pericolosamente a chi ne fruisce (Benjamin lericonosce una «qualità tattile»), negandosi ad una degustazione disinteressata einerte (e a una ricezione da sprofondamento, da full immersion) e mettendosi adisposizione per un uso non più solo artistico, ma anche politico, specificamentepolitico: il dadaismo lavora al sabotaggio, strappa l’arte dalla morsa dell’ideolo-gia borghese, tradisce la classe che storicamente, nella modernità, è quella d’ori-gine e di riferimento per l’intellettuale. Lo fa forzando dall’interno, e trattandoper «diversione», l’apparato e il settore produttivo di pertinenza, del quale ado-pera, in modo altro dalla norma e dalla pratica invalsa, anche le risorse e i ritro-vati più recenti (e infatti, nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilitàtecnica, l’avanguardia di Tzara è posta in relazione stretta con il cinema, ancheper aver mirato ad innescare effetti di choc e per la carica di diversione di cui ècapace: «In questo modo ha favorito l’esigenza di cinema, il cui elemento diver-sivo è appunto in primo luogo di ordine tattile, si fonda cioè sul mutamento deiluoghi dell’azione e delle inquadrature, che investono gli spettatori a scatti»).

Il dadaismo per un verso e Brecht per un altro, che è un interlocutore fonda-mentale e viene fatto oggetto di analisi particolarmente acute e impegnativeanche in chiave prospettica, (e c’è poi il surrealismo, sempre nel campo delleavanguardie, campo che resta l’osservatorio privilegiato di Benjamin e l’unicolaboratorio di progettazione dove egli giudichi possibile cercare risposte cultu-ralmente e politicamente adeguate, per qualità e per tendenza, alla crisi nove-centesca dell’arte e dei ruoli intellettuali; e ciò sebbene verso il surrealismo,negli anni in cui prende corpo Parigi, capitale del XIX secolo, il pensatore berli-nese mostri, sulle pagine del suo epistolario, qualche segno di ripensamento)configurano un esempio e un modello da prendersi in esame per il “che fare”.

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Anche, e soprattutto, per il tracciato delle loro esperienze passa – e dal sensodelle loro scelte discende – la definizione benjaminiana dei compiti che attendo-no l’autore come produttore.

Nella conferenza che ha questo titolo, tenuta a Parigi nel 1934, Benjamindecostruisce la nozione volgare di realismo (quella che avrebbe ispirato la poeti-ca del realismo socialista) e insieme sfata la fascinazione massmediologica cheha cominciato a diffondersi in una con la società di massa (e che è vissuta conacritico abbandono, ovvero con una altrettanto acritica ripulsa). Data infatti l’e-quazione autore-produttore (la quale sancisce che la letteratura è un apparato diproduzione i cui componenti maggiori risultano essere: le opere con il linguag-gio che vi è messo in azione e che di per sé è latore e di valori di significato e diistanze ideologiche; il sistema comunicativo che comunque è richiamato daltesto, che sempre è implicato nei processi in corso nella comunicazione socialee che della dialettica sociale è parte; i mezzi di diffusione che hanno stretto rap-porto di coesistenza e di integrazione con i mezzi di produzione e che – mentresi giovano dei prodotti dello sviluppo tecnologico – sono legati all’industria cul-turale con i suoi assetti proprietari, con i suoi piani commerciali di crescita e diconsolidamento e, last but not least, con le sue funzioni di controllo e di propa-ganda svolte per lo più a garanzia e a favore della classe sociale che detiene ilpotere economico e politico); dato, per tutto ciò, che la letteratura è prassi speci-fica, e politica, e che la sua politicità si decide nella sua specificità; dato, percorollario evidente, che non conta tanto la posizione «rispetto ai rapporti socialidi produzione di un’epoca» (che è quel che usava chiedersi la vecchia criticamaterialistica, giudicando sulla base di una astratta «fede politica»), quanto «lafunzione che ha l’opera all’interno dei rapporti letterari di produzione di un’e-poca» (talché la critica materialistica è invitata a chiedersi piuttosto: «qual è lasua posizione in essi»); dato, infine, che l’autore come produttore manca ad unsuo dovere essenziale quando limita la sua attività ad un esercizio di ratifica del-l’esistente (o vi ravvisa, già dispiegato o in nuce, il migliore dei mondi possibi-li) e quando si astiene e riguadagna la via del rifugio deponendo le armi dellacritica e della demistificazione ideologica; date queste premesse, non possonotirarsi altre conseguenze da quelle che escludono ogni accomodamento, soffertoo rassegnato, cinico o entusiastico, all’apparato di produzione della letteraturacome esso si colloca nei rapporti sociali di produzione del Novecento. L’autore-produttore che concepisca la propria attività come concorso per un progetto direale cambiamento dello stato delle cose (e di partecipazione sociale e di incre-mento propositivo e di potenziamento critico, per intanto, della cultura) deveevitare il «semplice rifornimento» dell’apparato di produzione della letteratura(e dun-que deve sabotarne gli attuali meccanismi, invertirne la logica e l’ideolo-gia, diven-tare traditore della sua classe d’origine, dicendola con l’Aragon citatoda Benjamin), e deve correggerlo, «mirare» a sottrarlo alla classe dominante,programmarlo per la trasformazione, metterlo a disposizione di un sovvertimen-

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to rivoluzionario dell’esistente («metterlo a disposizione» scrive Benjamin «delsocialismo»), orientarlo all’allestimento di un nuovo mondo: e dunque di unmoderno versus il moderno quale è. Un processo, questo, che non ammettescorciatoie e in cui ha da essere forte la coscienza della mediazione (quella con isoggetti, attori potenziali del cambiamento, «può essere soltanto una solidarietàmediata»): per l’autore-produttore, e per l’opera che egli mette a disposizione, èil linguaggio l’avamposto decisivo, il campo di intervento nel quale il sistemacomunicativo è sollecitato e incalzato e i mezzi di produzione letterari provviso-riamente ridefiniti e convertiti, dalla loro modernità storicamente determinata,ad una ipotesi di comunicazione sociale alternativa, e cioè intanto di una «tra-sformazione della funzione del romanzo, del dramma, della poesia». Nel nessodi qualità e di giusta tendenza, il linguaggio è il legante. È il linguaggio chedecide della «posizione nel processo produttivo» dell’autore-produttore, il qua-le è investito del compito di «rielaborare e ripensare in senso veramente rivolu-zionario il proprio lavoro, il suo rapporto con i mezzi di produzione, la sua tec-nica».

Linguaggio o, con termine sinonimico, insieme più “specialistico” (l’autorecome produttore è uno specialista) e più indicativo della progettualità e delsistema di trattamento del linguaggio nell’opera, tecnica. Benjamin sottolinea il«rapporto di dipendenza funzionale in cui stanno sempre e in tutte le circostanzela giusta tendenza politica e la tecnica letteraria progressiva». E, definita la“missione” dello scrittore-intellettuale, conclude: «Quanto più compiutamentesa indirizzare tutta la sua attività verso questo compito, tanto più giusta è la ten-denza, tanto più elevata è anche e necessariamente la qualità tecnica del suolavoro».

4. Che si debbano tenere gli occhi aperti sulle «nuove invenzioni tecniche» eche lo “specialista” debba considerarne la portata e le potenzialità di incrementoin vista dell’obiettivo che Benjamin gli pone (avendosene per effetto la speri-mentazione di un confronto dialettico e di una interferenza plurilinguistica dispecifici diversi e di apparati di produzione settoriale eterogenei), questo è dettocon chiarezza nell’Autore come produttore. Ma è detto pure, in maniera inequi-voca, che una attenzione siffatta non è sufficiente e che anzi, non adeguatamen-te “motivata” e realizzata, essa è a rischio di soggiacere alla moda e di finire,sterile e imbolsita, nelle braccia capaci dell’ideologia e del mercato della societàcapitalistica. Quello delle opere fotografiche di Renger-Patsch, «in cui vediamola fotografia neorealistica al suo apice», è un caso emblematico, che vale damonito e da sollecito per le giuste contromisure: «E infatti le è riuscito di tra-sformare in un oggetto di godimento la stessa miseria, rappresentandola in unamaniera perfezionata, perfettamente alla moda. Poiché se una funzione econo-mica della fotografia è quella di mettere alla portata delle masse contenuti cheprima si sottraevano al loro consumo (la primavera, personaggi importanti,

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paesi stranieri) sottoponendo questi contenuti a una rielaborazione alla moda,così una delle sue funzioni politiche è quella di rinnovare il mondo dall’interno– in altre parole: secondo la moda –, lasciandolo così com’è». È accaduto qui (eaccade a giudizio di Benjamin anche alla “Neue Sachlichkeit”, che «ha fatto unoggetto di consumo della lotta contro la miseria») che sia stata convalidata lalegge – e favorito e precorso un esito altamente probabile e più volte verificatosi(e si guardi alla stessa storia delle avanguardie) – «che l’apparato borghese diproduzione e pubblicazione può assimilare, e anzi diffondere quantità sorpren-denti di temi rivoluzionari, senza per questo mettere seriamente in questione lapropria esistenza e l’esistenza della classe che lo possiede».

Una tecnica letteraria progressiva (se quest’ultimo aggettivo è declinatofuori dal mito che accompagna e sostiene la “fede nel progresso”), e insomma latecnica come è pensata da Benjamin, è qualcosa di più e di altro: quali che nesiano i materiali e comunque sia recente il loro brevetto o moderno il marchio difabbrica, è una logica di gestione, è una strategia di formalizzazione e d’uso, èuna filosofia compositiva. L’intero corpus degli scritti benjaminiani suggerisceche questa tecnica (che taglia i rifornimenti all’apparato di produzione della let-teratura, e lo predispone alla trasformazione, e lavora per un radicale mutamen-to «della funzione del romanzo, del dramma, della poesia») non è senza l’alle-goria, è l’allegoria. Che è quanto, opera costruita e non finita in esplicito rap-porto di continuità e di sviluppo con Il dramma barocco tedesco, confermaParigi, capitale del XIX secolo, in specie nei tanti, folgoranti frammenti focaliz-zati su Baudelaire.

5. Il solo considerare la confinanza d’area semantica e la coincidenza deldecorso, che apparentano la benjaminiana caduta dell’aura e la baudelairianaperte d’auréole, sarebbe d’avanzo per rendere conto del credito cospicuo che ilpoeta delle Fleurs du mal ha accumulato presso il pensatore dei PariserPassagen: un credito che deriva dalla modernità straordinaria – e si dice “straor-dinaria”alla lettera – della posizione di Baudelaire, testimone, interprete lungi-mirante e “allegorista” del moderno appena spuntato all’orizzonte.

E tuttavia la centralità di Baudelaire nella riflessione di Benjamin è così pro-nunciata e ribadita, e tenace negli anni, da esigere che se ne cerchino le ragioniprofonde e complessive.

Perché Baudelaire si trova (ed è tra i primi ad imboccare la strada giusta conintelligenza perfino profetica) dinanzi a un bivio e a una svolta: là dove comin-cia il moderno che Benjamin vive (e che anche noi viviamo) e là dove l’eclissidell’aura (che pure è fenomeno già conosciuto nelle epoche passate) si annunciaormai senza ritorno? Perché la sua coscienza del nuovo domicilio eletto per l’ar-te, il mercato, è tanto lucida, e lucidamente anticipatrice, che egli non ha esitatoa darne avviso e a farsene sponda con scandalosa e provocatoria trasparenza,arrivando a compilare le necessarie istruzioni per l’uso, dedicate ai giovani let-

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terati di belle speranze? Perché corre la staffetta dell’allegoria (che altri ha giàcorso in altri tempi), ma tenendo un assetto diverso e inaugurando uno “stile”più efficace, tagliato sulle misure della modernità, da aversi a riferimento nelNovecento? Ognuna di queste ipotesi è corretta di per sé. È sbagliato, invece,privilegiarne una, e individuarvi la cerniera della lettura benjaminiana diBaudelaire, come è sbagliato affastellarle un po’ caoticamente, quasi fosseroentità del tutto equiparabili e non ammettessero distinzioni di grado e di livello:da rimescolare a piacimento, perciò, (tanto il prodotto non cambia), incuranti diindebite sovrapposizioni.

In realtà non porta lontano dal vero supporre che Baudelaire si presenta aBenjamin al modo di una corposa e concreta “immagine dialettica”: che, insom-ma, egli è protagonista, o quadro vivente, di una vicenda che culmina in un“risveglio”: che questa storia, ma solo nella sua interezza, nella sequenza dialet-tica delle sue fasi, funziona come una parabola esemplare, di grande valoreanche “didattico”: che compone una possibile, illuminante allegoria del viaggiodi formazione dell’intellettuale-scrittore nella modernità, fino alla consapevo-lezza del compito da adempiere e al suo adempimento.

Sono tre gli atti della rappresentazione, e tre le parti che Baudelaire vi gioca,sulla scena affollatissima e minuziosamente campita di Parigi, capitale del XIXsecolo.

La prima è quella del flâneur e ha per teatro la piazza, per repertorio l’eccen-tricità e la clownerie. È una parte comica e tragica insieme (satanica, comeanche la baudelairiana essence du rire: «I contemporanei accennano spesso aquel che c’era di tremendo nel suo modo di ridere»): «Una parte tragica, dove ildilettante, che doveva assumerla in mancanza di altre forze, faceva spesso unafigura comica, come gli eroi profusi dalla mano di Daumier con l’approvazionedi Baudelaire. Di tutto ciò Baudelaire si rendeva certamente conto. Le eccentri-cità di cui si compiaceva erano il suo modo di manifestarlo. Egli non era quindi,certamente, un messia né un martire, e neppure un eroe. Ma aveva in sé qualco-sa del mimo, che deve recitare la parte del poeta davanti a una platea e ad unasocietà che non sa già più che farsi del vero poeta e gli dà un posto solo comemimo. Sua consapevolezza di questo». Ad un canovaccio siffatto e ad una esibi-zione strepitosa, che «per la massa piccolo-borghese dei lettori» appare riassu-mibile in «un’image», e cioè nella «illustrazione della “carriera di un liberti-no”», si deve se «la figura di Baudelaire entra, in un senso decisivo, a far partedella sua gloria». Epperò questa immagine (con la quale «nessuna analisi diBaudelaire che voglia scrutare a fondo la sua opera può rinunciare a fare iconti») «è determinata dal fatto che egli si è reso conto per primo, e nel modopiù ricco di conseguenze, che la borghesia era sul punto di ritirare la sua com-missione al poeta. Quale incarico sociale poteva subentrare al suo posto? Non sipoteva apprenderlo da nessuna classe; e si poteva tutt’al più inferire dal mercatoe dalle sue crisi [...] Ma il medio del mercato, in cui essa si manifestava, deter-

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minava un modo di produzione, e anche di vita, che era molto diverso da quellodei poeti di una volta. Baudelaire era costretto a pretendere la dignità di poeta inuna società che non aveva più da assegnare dignità di sorta. Di qui la bouffonne-rie del suo esordio». In definitiva: «Baudelaire era abilitato o costretto – dallasua profonda esperienza della natura della merce – a riconoscere il mercatocome istanza oggettiva» (ciò che faceva anche con le sue cronache d’arte daigiornali, o esercitando «una certa intolleranza» e mettendo a frutto il metododella diffamazione e della contrefaçon). Tanto che, da ultimo, «di fronte alloscarso successo della sua opera, ha messo in vendita anche se stesso. Si è getta-to dietro la sua opera, e ha verificato così fino in fondo, per se stesso, quello chepensava dell’ineluttabile necessità della prostituzione per il poeta».

Ma la sfrontata flânerie di Baudelaire, il suo mettersi in piazza per rappre-sentare con la sua maschera grottesca la mercificazione dell’arte, rappresentan-dosi nel mentre senza più l’aureola sul capo («Col flâneur l’intelligenza si recasul mercato. A vederlo, secondo lei; ma, in realtà, già per trovare un compratore.In questo stadio intermedio, in cui ha ancora mecenati, ma comincia a familia-rizzarsi col mercato, essa appare come bohême»), è il riflesso (del tipo di quelliche la fisiologia registra) stimolato da una mutazione profonda, di portata epo-cale, del quadro istituzionale dell’arte (tra committenza e destinazione, comuni-cazione e diffusione) nella modernità regolata dal capitale (sorprendono, sem-mai, i tempi di percezione dello stimolo, e di reazione, del poeta parigino, cheprecede di gran lunga i suoi compagni di ventura, in ciò assomigliando a queglianimali che “sentono” il terremoto prima ancora che la terra visibilmente tremi);è una testimonianza di uno stato di disagio, offerta su un palcoscenico dove latragedia non è più in cartellone se non accompagnata e deformata dai ghigni edai lazzi della commedia, e dove un contegno eroico e un contegno cinico fini-scono per configurare ruoli contigui e in larga misura intercambiabili; è espres-sione di un «pathos ribelle», che indirizza il flâneur «dalla parte degli asociali»e dei cospiratori, non è ancora una “interpretazione” rigorosa e tendenziosa, ouna risposta organizzata e politicamente inequivoca: è di cittadinanza, piuttosto,nel territorio dell’equivocità (per stare alle distinzioni di della Volpe) e su diesso articola il proprio discorso, costituisce il proprio atto di comunicazione.

La flânerie che scopre figure di margine (che incontra deiezioni sociali – peril cui mezzo il ciclo produttivo del moderno si assicura tenuta e sopravvivenza –e le coopta e le converte – così le prostitute, gli chiffonniers – per la poesia delleFleurs du mal) e il valore della esponibilità che è rilanciato dalle mosse del“mimo” sulla piazza (e che si dà a partire dalla caduta dell’aureola del poeta nelfango della strada metropolitana) possono essere materia di allegoria (ne sonocertamente le referenze esterne e le pre-condizioni necessarie), ma non sonoallegoria (diventano allegoria solo quando su di esse si posa lo sguardo dell’al-legorico, quando sono toccate dalla scrittura dell’allegorista). Per sé prese sonoinattive, sprovviste di tendenza: un letterale-materiale, di grande e intelligente

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novità, in attesa di contestualizzazione, di trasferirsi cioè (ancora dellavolpiana-mente) dall’equivoco al polisenso.

Che in questo trasferimento accada che il valore dell’esponibilità si commutiin una forma di adeguamento prono e servile alle imposizioni del mercato, e inuna assimilazione felice e convinta della logica e dell’imperativo della vendibi-lità (sicché il prodotto è confezionato con quest’unico scopo e il produttore, perpromuoverlo, non esita a scendere in campo, mettendosi direttamente all’incan-to), è cosa possibile, anzi frequente (alle spalle del mimo, in azione sulla scenadi Parigi, potrà profilarsi l’ombra infida del “divo”, di un D’Annunzio, pervenircene in Italia, o di un attore che seduce e trascina l’immaginario collettivo;e, a tal riguardo, un passo dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilitàtecnica è di esemplare chiarezza: «Il cinema risponde al declino dell’auracostruendo artificiosamente la personality fuori dagli studi: il culto del divo,promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia dellapersonalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere dimerce»). Che il protendersi, bordeggiando la città, verso gli «asociali» (e il far-seli compagni) non sia al riparo dalla moda e che, per via di estetizzazione, lefigure dei margini e dell’esclusione siano trasfigurate in oggetti di godimento edi consumo (che il «pathos ribelle» si stemperi in pietas), anche ciò suole acca-dere spesso, come abbiamo già notato dalle punte polemiche dell’Autore comeproduttore e come ci insegna la storia recente della cultura e della letteratura. Eavviene, non meno di rado, che la perte d’auréole (la declassazione dell’intellet-tuale, e lo spettro della sua proletarizzazione, in una società comandata daldenaro e dal profitto, che gli ha ritirato garanzie e protezioni; la reiezione delpoeta che lo spinge ad accostarsi agli altri reietti sociali e che, alienandogli pri-vilegi e marche dignitarie, lo espone da mimo tragicomico sul palcoscenicodella Moderne) trovi sistemi di compensazione. Così in Baudelaire, nella secon-da parte che gli è vista rappresentare, direttamente sulle Fleurs du mal, dall’os-servatorio di Parigi, capitale del XIX secolo.

Le correspondances non v’è dubbio che implichino un potenziale ripristinodell’aura dismessa e che vogliano raccattare l’aureola del poeta caduta nelfango: l’“a tu per tu” con la natura, che guarda (sul suo regard familier una acu-tissima osservazione di Benjamin: nei sogni soltanto, prima del risveglio, lecose hanno gli occhi davvero e possono osservarti), casta diva affrancatasi dallacultura e dalla storia, e che prende a parlare senza mediazioni, infinita risonanzadegli elementi tutti nel tutto, riporta ad una vie antérieure, che è il luogo eletto,magico e puro, della poesia del simbolo e che è l’origine e il senso di un’espe-rienza che non conosce asperità, discinesie, mutazioni, ma si trasfonde nel mitodel sempreuguale (scrive Benjamin: «Ciò che Baudelaire intendeva con questecorrespondances, si può definire come un’esperienza che cerca di stabilirsi alriparo di ogni crisi. Essa è possibile solo nell’ambito del cultuale»). Sta qui nona caso, nella teoria e nel principio delle correspondances, l’incipit del simboli-

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smo e della poesia pura, che Benjamin, quantunque vi ravvisi un valore di nega-zione dell’esistente letterario nella seconda metà dell’Ottocento, non condividedi sicuro (e intanto denuncia la comune inclinazione a un’arte totale e ricusa ilwagnerismo di Baudelaire) e taccia di inadeguatezza e di insensibilità al compi-to che attende il poeta nel vivo delle contraddizioni della modernità.

La recitazione dell’idéal, mentre sullo sfondo si disegnano scene da paradisodell’aura ritrovato, non è però di quelle che mettono il cuore a nudo, che strap-pano dal volto una maschera fittizia, che restituiscono la sostanza (una sostanzaangelica) liberata dall’apparenza (un’apparenza satanica). Questa parte diBaudelaire, nella rappresentazione delle Fleurs du mal, è funzionale, è comeuna tappa necessaria di un processo dialettico: «L’importante è che le corre-spondances fissano un concetto di esperienza che ritiene in sé elementi cultuali.Solo facendo propri questi elementi, Baudelaire poteva valutare appieno ilsignificato della catastrofe di cui egli, come moderno, si trovava ad essere testi-mone. Solo così poteva riconoscerla come la sfida rivolta a lui solo, e che egliha accettato nelle Fleurs du mal. Se esiste davvero la segreta architettura di que-sto libro, che è stato oggetto di tante speculazioni, il ciclo di poesie che inaugu-ra il volume potrebbe essere dedicato a qualcosa di irrevocabilmente perduto».E non è soltanto l’immagine di una anteriorità senza tempo, ormai inarrivabile,messa a fronte del tempo presente, è anche lo strumento perché la testimonianzadella svolta, della “catastrofe” della modernità diventi interpretazione e lamodernità non sia più semplicemente nominata, ma letta: è materia di lavoro peril lavoro contestuale, di disoccultamento e di demistificazione, dell’allegoria,che è l’atto terzo della rappresentazione trina ed una di Baudelaire, l’atto decisi-vo di straordinaria modernità critica da consegnarsi a futura memoria.

Insomma, se «fu grazie al genio dell’allegoria che Baudelaire non cadde vit-tima dell’abisso del mito, che accompagna ad ogni passo il suo cammino», purel’intelligenza geniale dell’allegoria quel mito (il mito parlato dalle correspon-dances, l’idéal di una anteriorità ritornante nella forma circolare della ripetizio-ne della storia e del sempreuguale) non se lo lascia alle spalle come la tappadimenticata di un voyage che ha portato ormai altrove, ma se lo tiene compagnoad ogni passo del cammino, come sfondo dal e contro il quale aggettino le suedeformanti e disvelanti costruzioni. Sicché, le correspondances essendo consu-stanziali al simbolo, la poesia delle Fleurs du mal appare come una continua etenace “spiegazione” del simbolo (e la spiegazione del simbolo è la stessa cosadella sua “mortificazione”: è l’allegoria).

Baudelaire, nella illuminante e insuperata lettura di Benjamin, si riassume perintero in questa folgorante chiosa aforistica di Parigi capitale del XIX secolo: «Seè la fantasia che offre al ricordo le corrispondenze, è però il pensiero che gli dedicale allegorie. Il ricordo porta fantasia e pensiero al loro punto di congiunzione».

Il passaggio dalla fantasia al pensiero e dalle corrispondenze alle allegorie faleva sugli effetti della voltura e dell’articolazione in memoria volontaria della

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memoria involontaria (la quale pure è un’ausiliaria del simbolo), e infine sulricordo, benjaminianamente Andeken, che è appunto l’oggetto-ricordo, o ilricordo assunto e classificato (collezionato; e il collezionista tiene del rimugina-tore e del sadico in una) come un oggetto (come una «reliquia secolarizzata»,come un souvenir da turisti, reificato e mercificato: «Il “ricordo” è complemen-tare all’“esperienza vissuta”. In esso si deposita la crescente autoestraneazionedell’uomo, che cataloga il suo passato come un morto possesso. L’allegoria hasgombrato, nell’Ottocento, il mondo esteriore, per stabilirsi in quello interno. Lareliquia deriva dal cadavere, [«L’allegoria barocca vede il cadavere solo dall’e-sterno. Baudelaire lo vede anche dall’interno»] il “ricordo” dall’esperienzadefunta, che si definisce, eufemisticamente, “esperienza vissuta”»). Quel checosì si produce, con il lavoro del ricordo come Andeken (questa «figura-chiavedella nuova allegoria»), è, ad un tempo, l’estrapolazione dell’oggetto dal conti-nuum della storia e la mortificazione e la demistificazione, in ciò, dell’apparen-za illusoria e della falsa coscienza della storia come decorso senza interruzioni esenza differenze (senza cadute o furti o annientamenti di esperienze, senza con-traddizioni, senza campi disseminati di cadaveri), come immutabile ed eternoritorno dell’identico: si produce qualcosa che attiene ad una esposizione mate-rialistica della storia.

Il ricordo, ponte che “congiunge” e indica nella poesia di Baudelaire la svol-ta dalla fantasia al pensiero, dalle correspondances alle allegorie, è un’immagi-ne dialettica: che inficia la tradizione (sottraendole il mito di una “naturale”consegna ereditaria, negandole la favola bella della naturalità inconcussa e dellacarica di vita di una memoria involontaria che vi agirebbe più della memoriavolontaria comandata dalla dialettica sociale), che sposta l’accento dal tout setient della natura al conflitto e alla diaspora delle culture (e acceca il regardfamilier che traluce dalla forête de symboles spontaneamente cresciuta nel tem-pio della nature), che porta il passato (e proprio perché morto possesso, espe-rienza defunta ed estraniata, capace di innescare straniamento) ad accostare inun cortocircuito il qui ed ora rendendosi pervio a una coscienza risvegliata erendendolo leggibile.

Il ricordo, figura chiave dell’allegoria nella modernità, è in Baudelaire lostrumento principe di una tecnica che, dalla modernità, non nomina, ma legge einterpreta criticamente la modernità, e individua e suggerisce per il futuro unavia nuova di scrittura letteraria in contraddizione con l’apparato di produzionedella letteratura quale, nella modernità di cui Baudelaire scorge gli albori constraordinaria intelligenza, appare storicamente determinato.

Come agisca l’oggetto-souvenir nelle Fleurs du mal può ricavarsi, a titolo diesempio, da Le cygne: dove suona a perdifiato il suo corno dissonante; e dove ècercato, traccia di una natura anteriore persa definitivamente nelle fantasmago-rie metropolitane della nebbia parigina, dall’occhio sconvolto di una negra tisicae smagrita (quanto a lui, non ha occhi per guardare) e, dicendosi assente, si dice

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morto possesso; e dove il suo fardello di morto possesso è più pesante di unaroccia. Sotto il suo peso «tout pour moi devient allégorie»: e un frammento delmito di Andromaca si secolarizza, è estrapolato e “compreso” dal pensiero peraccendere i riflettori sopra una folla di emarginati e di sfruttati, sopra una dop-pia metropoli, una Parigi sotterranea e una Parigi di superficie, la città vecchia ela nuova, quella che cambia e quella che, proprio mentre cambia, offre le suecontraddizioni alla malinconia dell’allegorista. O del flâneur che ne è qui ilsosia, autore e interprete avvertito e acutamente polemico, non stordito spettato-re, dei tableaux parisiens, e compagno inseparabile del Demonio, con cui con-divide una mobile e metamorfica inquietudine, un desiderio eterno e colpevole ela crudeltà raffinata dell’«appareil sanglant de la Destruction».

La distruzione, per un’istanza di progresso, che Benjamin riferisce all’alle-goria: «D’altra parte l’allegoria ha però a che fare, proprio nel suo furore di-struttivo, con l’eliminazione dell’apparenza illusoria che emana da ogni “ordinedato”, sia esso quello dell’arte o quello della vita, come apparenza della totalitàe dell’organico, destinata a trasfigurarlo al fine di farlo apparire sopportabile. Èquesta la tendenza progressiva dell’allegoria». E che ottiene un “risveglio”, unacquisto di coscienza critica di fondamentale importanza: cosa per la quale «ilsignificato» di Baudelaire deve ritenersi «straordinario», avendo egli «per primoe più coerentemente di chiunque altro “stabilizzato”... l’uomo estraniato a sestesso, nel senso di averlo individuato e di avergli fornito una corazza contro ilmondo reificato».

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