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Lex Aquilia Curatore Giovanni Pascuzzi Lex Aquilia - prima pagina Anno 2005 - Numero 1 - L’ingiustizia del danno - parte I Opera didattica sulla responsabilità civile REDAZIONE: Mara Bertotti Carlo Bona Roberto Caso Fulvio Cortese Paolo Guarda Giorgia Guerra Giulia M. Lugoboni Matteo Macilotti Matteo Marcolin Franco Ronconi Anna Rossato Benedetto Sieff Stefano Talassi Silvia Winkler VIGNETTISTI: Massimiliano Cecchini Patrizia Divina Roberta Piazza Zanichelli Zanichelli L’ingiustizia del danno CARLO BONA L a dottrina e la giuri- sprudenza degli anni ’50 offrivano un’in- terpretazione dell’ “ingiusti- zia” del danno ex art. 2043 c.c. profondamente diversa rispetto a quella oggi radica- ta. L’ingiustizia veniva riferi- ta al fatto e veniva letta come illiceità, come violazione di un comando o di un divieto. Da ciò due conseguenze: una prima, che all’illecito civile si attribuiva una funzione es- senzialmente sanzionatoria, in quanto volto a sanzionare un illecito; una seconda, che risultavano risarcibili i soli danni da lesione di un diritto soggettivo, come situazione giuridica favorevole scatu- rente per l’appunto da norme che ponevano comandi o di- vieti. A questa rigorosa impo- stazione si accompagnava la netta ostilità mostrata dalla giurisprudenza verso la tute- la dei diritti di credito. Osti- lità che si riteneva trovasse fondamento in due principi. Anzitutto, nella massima per la quale i diritti di credito conferiscono solo una pretesa da far valere nei confronti del debitore e non attribuiscono pretese da far valere nei con- fronti di terzi. In secondo luogo, nell’osservazione che, normalmente, nell’ipotesi di lesione del credito, il danno subito dal creditore non può essere considerato conse- guenza immediata e diretta dell’illecito perché mediato dal danno subito dal debitore, donde l’assenza di un valido nesso causale. Tale rigorosa impostazione presentava dei limiti eviden- ti. In primo luogo, ricostruen- do la norma di cui all’art. 2043 c.c. come norma san- zionatoria -- destinata a san- zionare illeciti configurati da altre norme -- e non come clausola generale, si ostaco- lava gravemente l’evoluzione del sistema e l’adeguamento dell’illecito aquiliano ad una società in costante mutamen- to. Poi, ponendo alla ripara- zione l’ostacolo invalicabile della lesione di un diritto sog- gettivo assoluto, si lasciava- no sfornite di tutela svariate situazioni dotate di un sicuro rilievo economico. Nel 1999 la svolta tanto attesa La Cassazione: risarcibili anche i danni da lesione di situazioni diverse dai diritti soggettivi Dopo trent’anni piena adesione alle proposte dottrinali La dottrina italiana Alcune indicazioni bibliografiche per iniziare PASCUZZI, La responsabilità civile - Percorsi giurisprudenziali, in Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Trento, 2001 RODOTÀ, Modelli e funzioni della responsabilità civile, in Riv. crit. dir priv., 1984, 595 BUSNELLI, La lesione del credito da parte di terzi, Milano, 1964 TRIMARCHI, voce Illecito, in Enc. Dir., Milano, 1970, 90 ss. RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964 SACCO, L’ingiustizia di cui all’art. 2043 c.c., in Foro pad., 1960, I, 1421 ss. SCHLESINGER, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, in Jus, 1960, 338 VISINTINI, Itinerario dottrinale sulla ingiustizia del danno, in Contratto e imp., 1987, 73 SCOGNAMIGLIO, Ingiustizia del danno [voce nuova - 1996] in Enc. Giur. Treccani, Roma, vol. XVII Negli anni ’60 i primi segni di una rivoluzione epocale La dottrina della svolta: dall’ingiustizia del fatto all’ingiustizia del danno Si fa largo la regola che ammette la risarcibilità di ogni interesse meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento A PAGINA 3 L’ingiustizia ed il problema dell’atipicità dell’illecito D etto semplicistica- mente, il proble- ma della tipicità od atipicità dell’illecito consiste nell’accertare se il sistema giuridico cono- sca norme che consentono il risarcimento in una serie aperta di casi (nel qual caso quel sistema si dirà atipico) o se piuttosto il risarcimento venga ammesso nei soli casi espressamente previsti da norme specifiche (nel qual caso l’illecito sarà tipico). Accogliendo questa di- stinzione, è d’uso affermare che il sistema italiano della responsabilità civile è ati- pico, vista l’ampia formu- lazione dell’art. 2043 c.c., che ammette la risarcibilità di ogni danno ingiusto. E’ parimenti d’uso affermare che sono atipici il sistema francese (cfr. artt. 1382 e 1383 c.c.: tout fait quelcon- que de l’homme, qui cause à autrui un dommage, obli- ge celui par la faute duquel il est arrivé, à le réparer), il sistema greco (art. 914 del codice), il sistema austriaco (§ 1295 ABGB), i quali tutti presentano norme analoghe a quella di cui all’art. 2043 c.c., tali cioè da ammettere una serie aperta di casi di responsabilità. L’opinione SEGUE A PAGINA 5 SEGUE A PAGINA 4 L’opinione di un pratico sull’ingiustizia Tra Guglielmo di Ockham e gli Stati Uniti d’America: cenni ad una possibile sistemazione alternativa dell’ “ingiustizia” Verso criteri extralegali per la selezione dei danni risarcibili? A PAGINA 6 Solo nel 1971 un parziale accoglimento dell’evoluzione dottrinale Quando la Cassazione ammise la tutela del diritto di credito Con la sentenza Meroni il revirement che tutti aspettavano A PAGINA 2 ROMA — Il signor Giorgio Vitali, da Fiesole, deve essere quel che si suol dire una perso- na tenace. Stipulata nell’ormai lontanissimo 1964 una con- venzione di lottizzazione col Comune, nel 1971 se l’è vista porre nel nulla. Una fila di giudizi, ma non s’è intimorito. Ha voluto arrivare per forza di cose al 1999, ed è entrato nella storia. Anche l’avvocato del signor Vitali deve essere quel che si suol dire un avvocato tenace. Occorreva parecchia tenacia per chiedere il risarcimento del danno da lesione di un in- teresse legittimo, e per portare avanti la questione, di fronte ad una giurisprudenza a dir poco cristallizzata. Da queste due persone – o quantomeno grazie anche a queste due persone – è scatu- rita la monumentale sentenza 22 luglio 1999, n. 500 con cui la Corte di Cassazione ha am- messo la risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi pretensivi, passando per una completa risistemazione dell’ “ingiustizia” del danno. La Corte è chiamata a de- cidere su un regolamento preventivo di giurisdizione, promosso dal Comune di Fie- sole nel giudizio risarcitorio instaurato dal Vitali. Assume il Comune che non essendo la domanda risarcitoria da lesio- ne di interessi legittimi preten- sivi prevista dall’ordinamento va dichiarata improponibile per difetto assoluto di giurisdi- zione. La Cassazione ha gioco facile nel dichiarare inammis- sibile il ricorso per essere la questione di merito e non di giurisdizione. In breve, osserva che con la domanda ri- sarcitoria il Vitali ha fatto valere un diritto (contempla- to dall’art. 2043 c.c.) pacificamente previsto dall’or- dinamento. Tutto, ovviamente, con- siste nel valutare se il danno subi- to per effetto del contegno della P.a. sia “ingiusto”. Ma questa è, per l’ap- punto, questione di merito, che nulla ha a che fare con la giurisdizione o le condizioni dell’azione. Ma la Cassazione non si fer- ma a ciò, ed affronta nello spe- cifico il tema della risarcibilità dei danni da lesione di interes- si legittimi pretensivi. SEGUE A PAGINA 2 L ALLEGATO Le principali sentenze richiamate in questo numero sono contenute nel CdRom allegato 1.1 Cass. 2085-1953 1.2 Cass. 174-1971 1.3 Cass. 500-1999

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Lex AquiliaCuratore Giovanni Pascuzzi

Lex Aquilia - prima pagina

Anno 2005 - Numero 1 - L’ingiustizia del danno - parte I

Opera didattica sulla responsabilità civile

REDAZIONE: Mara BertottiCarlo BonaRoberto Caso

Fulvio CortesePaolo GuardaGiorgia GuerraGiulia M. Lugoboni

Matteo MacilottiMatteo MarcolinFranco RonconiAnna Rossato

Benedetto Sieff Stefano TalassiSilvia Winkler

VIGNETTISTI:Massimiliano CecchiniPatrizia DivinaRoberta Piazza

Zanichelli

Zanichelli

L’ingiustizia del danno

CARLO BONA

La dottrina e la giuri-sprudenza degli anni ’50 offrivano un’in-

terpretazione dell’ “ingiusti-zia” del danno ex art. 2043 c.c. profondamente diversa rispetto a quella oggi radica-ta. L’ingiustizia veniva riferi-ta al fatto e veniva letta come illiceità, come violazione di un comando o di un divieto. Da ciò due conseguenze: una prima, che all’illecito civile si attribuiva una funzione es-senzialmente sanzionatoria, in quanto volto a sanzionare un illecito; una seconda, che risultavano risarcibili i soli danni da lesione di un diritto soggettivo, come situazione giuridica favorevole scatu-rente per l’appunto da norme che ponevano comandi o di-vieti.

A questa rigorosa impo-stazione si accompagnava la netta ostilità mostrata dalla giurisprudenza verso la tute-la dei diritti di credito. Osti-lità che si riteneva trovasse fondamento in due principi. Anzitutto, nella massima per la quale i diritti di credito conferiscono solo una pretesa da far valere nei confronti del debitore e non attribuiscono pretese da far valere nei con-fronti di terzi. In secondo luogo, nell’osservazione che, normalmente, nell’ipotesi di lesione del credito, il danno subito dal creditore non può essere considerato conse-guenza immediata e diretta dell’illecito perché mediato dal danno subito dal debitore, donde l’assenza di un valido nesso causale.

Tale rigorosa impostazione presentava dei limiti eviden-ti.

In primo luogo, ricostruen-do la norma di cui all’art. 2043 c.c. come norma san-zionatoria -- destinata a san-zionare illeciti configurati da altre norme -- e non come clausola generale, si ostaco-lava gravemente l’evoluzione del sistema e l’adeguamento dell’illecito aquiliano ad una società in costante mutamen-to.

Poi, ponendo alla ripara-zione l’ostacolo invalicabile della lesione di un diritto sog-gettivo assoluto, si lasciava-no sfornite di tutela svariate situazioni dotate di un sicuro rilievo economico.

Nel 1999 la svolta tanto attesa

La Cassazione: risarcibili anche i danni da lesione di situazioni diverse dai diritti soggettivi

Dopo t rent’anni piena adesione al le proposte dot t r inal i

La dottrina italianaAlcune indicazioni bibliografiche per iniziare

PASCUZZI, La responsabilità civile - Percorsi giurisprudenziali, in Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Trento, 2001RODOTÀ, Modelli e funzioni della responsabilità civile, in Riv. crit. dir priv., 1984, 595BUSNELLI, La lesione del credito da parte di terzi, Milano, 1964TRIMARCHI, voce Illecito, in Enc. Dir., Milano, 1970, 90 ss.RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964SACCO, L’ingiustizia di cui all’art. 2043 c.c., in Foro pad., 1960, I, 1421 ss.SCHLESINGER, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, in Jus, 1960, 338VISINTINI, Itinerario dottrinale sulla ingiustizia del danno, in Contratto e imp., 1987, 73SCOGNAMIGLIO, Ingiustizia del danno [voce nuova - 1996] in Enc. Giur. Treccani, Roma, vol. XVII

Neg l i a n n i ’60 i p r i m i s eg n i d i u n a r ivolu z ione e p o ca le

La dottrina della svolta: dall’ingiustizia del fatto

all’ingiustizia del dannoSi fa largo la regola che ammette la risarcibilità di ogni

interesse meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento

A PAGINA 3

L’ingiustizia ed il problema dell’atipicità dell’illecito

Detto semplicistica-mente, il proble-ma della tipicità

od atipicità dell’illecito consiste nell’accertare se il sistema giuridico cono-sca norme che consentono il risarcimento in una serie aperta di casi (nel qual caso quel sistema si dirà atipico) o se piuttosto il risarcimento venga ammesso nei soli casi espressamente previsti da norme specifiche (nel qual caso l’illecito sarà tipico).

Accogliendo questa di-stinzione, è d’uso affermare che il sistema italiano della responsabilità civile è ati-pico, vista l’ampia formu-lazione dell’art. 2043 c.c., che ammette la risarcibilità di ogni danno ingiusto. E’ parimenti d’uso affermare che sono atipici il sistema francese (cfr. artt. 1382 e 1383 c.c.: tout fait quelcon-que de l’homme, qui cause à autrui un dommage, obli-ge celui par la faute duquel il est arrivé, à le réparer), il sistema greco (art. 914 del codice), il sistema austriaco (§ 1295 ABGB), i quali tutti presentano norme analoghe a quella di cui all’art. 2043 c.c., tali cioè da ammettere una serie aperta di casi di responsabilità.

L’opinione

SEGUE A PAGINA 5

SEGUE A PAGINA 4

L’opinione di un pratico sull’ingiustizia

Tra Guglielmo di Ockham e gli Stati Uniti d’America: cenni ad una possibile sistemazione alternativa dell’ “ingiustizia”

Verso criteri extralegali per la selezione dei danni risarcibili?

A PAGINA 6

Solo ne l 1971 u n pa r z i a le a c c og l i me nt o de l l’evolu z ione do t t r i n a le

Quando la Cassazione ammise la tutela del diritto di credito

Con la sentenza Meroni il revirement che tutti aspettavano

A PAGINA 2

ROMA — Il signor Giorgio Vitali, da Fiesole, deve essere quel che si suol dire una perso-na tenace. Stipulata nell’ormai lontanissimo 1964 una con-venzione di lottizzazione col Comune, nel 1971 se l’è vista porre nel nulla. Una fila di giudizi, ma non s’è intimorito. Ha voluto arrivare per forza di cose al 1999, ed è entrato nella storia.

Anche l’avvocato del signor Vitali deve essere quel che si suol dire un avvocato tenace. Occorreva parecchia tenacia per chiedere il risarcimento del danno da lesione di un in-teresse legittimo, e per portare avanti la questione, di fronte ad una giurisprudenza a dir poco cristallizzata.

Da queste due persone – o quantomeno grazie anche a queste due persone – è scatu-rita la monumentale sentenza 22 luglio 1999, n. 500 con cui la Corte di Cassazione ha am-messo la risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi pretensivi, passando per una

completa risistemazione dell’ “ingiustizia” del danno.

La Corte è chiamata a de-cidere su un regolamento preventivo di giurisdizione, promosso dal Comune di Fie-sole nel giudizio risarcitorio instaurato dal Vitali. Assume

il Comune che non essendo la domanda risarcitoria da lesio-ne di interessi legittimi preten-sivi prevista dall’ordinamento va dichiarata improponibile per difetto assoluto di giurisdi-zione. La Cassazione ha gioco facile nel dichiarare inammis-

sibile il ricorso per essere la questione di merito e non di giurisdizione. In breve, osserva che con la domanda ri-sarcitoria il Vitali ha fatto valere un diritto (contempla-to dall’art. 2043 c.c.) pacificamente previsto dall’or-dinamento. Tutto, ovviamente, con-siste nel valutare se il danno subi-to per effetto del contegno della P.a. sia “ingiusto”. Ma questa è, per l’ap-punto, questione di merito, che nulla ha a che fare con la

giurisdizione o le condizioni dell’azione.

Ma la Cassazione non si fer-ma a ciò, ed affronta nello spe-cifico il tema della risarcibilità dei danni da lesione di interes-si legittimi pretensivi.

SEGUE A PAGINA 2

L’ALLEGATO Le principali sentenze richiamate in questo numero sono contenute nel CdRom allegato

1.1 Cass. 2085-1953

1.2 Cass. 174-1971

1.3 Cass. 500-1999

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- cronaca italiana- 2 LEX AQUILIA ANNO 2005NUMERO 1 —— L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I

Nel 1999 la svolta tanto attesa

La Cassazione: risarcibili anche i danni da lesione di situazioni diverse dai diritti soggettiviDopo trent’anni piena adesione alle proposte dottrinali

La giurisprudenza si è sempre mostrata estre-mamente cauta ad in-

tervenire sull’ingiustizia. Basti considerare che la nuova impo-stazione del problema offerta dalla dottrina nella prima metà degli anni ’60 – volta a ritenere ingiusta la lesione di qualsiasi interesse meritevole di tutela, a prescindere dalla sua qualifi-cazione come diritto soggettivo assoluto – è rimasta lettera morta per un decennio, fino a quando la Suprema Corte, con un’apertura tutto sommato timida rispetto all’estensione delle nuove pro-poste dottrinali, ha quantomeno riconosciuto la tutelabilità in via aquiliana del credito. Questo con la notissima sentenza Meroni.

Busnelli, nel commentare la sentenza per Il Foro Italiano, ha parlato di un “clamoroso revire-ment” confrontando l’arresto con un’altra notissima sentenza della Cassazione, quella pronuncia 4 luglio 1953, n. 2058 con la quale la Suprema Corte aveva deciso il caso Superga.

Il 4 maggio 1949 l’intera squa-dra del Torino calcio periva in un disastro aereo per essersi il veli-volo che la trasportava schianta-to contro la collina di Superga. L’Associazione chiedeva le ve-nisse riconosciuto il diritto al ri-sarcimento del danno da lesione del credito, non potendo più go-dere delle prestazioni dei propri calciatori, e la Corte lo negava. Osservava la Cassazione come i giocatori non potessero consi-derarsi elementi del patrimonio aziendale, in ordine ai quali poter predicare l’esistenza di un diritto reale risarcibile. Osservava altre-sì che, pur non dovendosi esclu-dere che il diritto al risarcimento

potesse sorgere anche dalla lesio-ne di un diritto relativo, nel caso di specie difettava un “nesso di immediata e diretta dipendenza del fatto lesivo” perché i danni lamentati dal Torino “si ricolle-gano alla lesione di un diritto che a sua volta è conseguenza della lesione di altro diritto su quello prevalente e preminente”. In al-tre parole, il fatto che la lesione del credito fosse “mediata” dalla morte dei giocatori impediva di ritenere la sussistenza di un vali-do nesso causale.

Nel 1971 la Suprema Corte si trova ad affrontare un caso non molto dissimile. Un minore, tale Romero, provoca nel 1967 un in-cidente stradale nel quale perde la vita Luigi Meroni, calciatore titolare nella squadra del Torino.

Il Torino Calcio, parimenti a quanto fatto nel 1949, chiede il risarcimento del danno da lesio-ne del credito. La Cassazione, con la sentenza delle Sezioni Unite 26 gennaio 1971 n. 174, conferma la sentenza d’appello con riguardo all’inconfigurabili-tà di un diritto reale assoluto del-la società sportiva sui propri gio-catori, ma passa alla storia per la soluzione offerta al problema della tutelabilità in via aquiliana del credito.

Osserva la Suprema Corte che il giudice d’appello s’è attenuto in modo rigoroso al principio dell’irrisarcibilità della lesione del credito muovendo dai due tradizionali argomenti della re-latività degli effetti del contrat-to (secondo l’art. 1372 c.c.) e

dell’assenza di un valido nesso causale.

Ma in tal modo si è anzitutto attribuito all’art. 1372 c.c. un si-gnificato che certamente non ha. La norma, infatti, vale solo ad escludere l’indebita proiezione degli effetti propri del contratto nella sfera giuridica dei terzi. Ma ciò non significa che i terzi pos-sano liberamente interferire nel rapporto contrattuale impedendo al creditore di ottenere l’adempi-mento.

Orbene, osserva la Corte, l’in-giustizia contemplata dall’art. 2043 c.c. sussiste in quanto il danno sia arrecato contra ius e non iure. Il danno può dirsi con-tra ius quando venga a ledere una situazione giuridica tutelata dall’ordinamento nella forma del diritto soggettivo. Questa interpretazione, largamente con-divisa, porta ad escludere la tu-telabilità in via aquiliana delle situazioni giuridiche che non as-surgano al rango di diritti sogget-tivi, ma non consente in nessun modo di operare indebite distin-zioni tra diritti tutelabili, come quella che ammette la tutela dei diritti assoluti e non quella dei diritti di credito.

D’altra parte, continua la Cor-te, nel senso dell’irrilevanza del-la distinzione tra diritti assoluti e relativi opera anche il richiamo al precedente del 1953 (la Cor-te, abbiamo visto, in quell’occa-sione non aveva escluso in via di principio la tutelabilità di un diritto relativo) e, soprattutto, giocano gli indirizzi giurispru-

denziali che hanno ammesso la tutelabilità del credito alimen-tare e sanzionato in via aquilia-na il comportamento del terzo estraneo al rapporto contrattuale che abbia partecipato alla vio-lazione di obblighi da parte del contraente. Ribadire l’esclusione della tutela aquiliana del credito significherebbe, quindi, fare un passo indietro rispetto a posizio-ni giurisprudenziali ormai acqui-site e, soprattutto, si rivelerebbe socialmente ed economicamente antistorico.

Quindi, conclude la Corte, l’art. 2043 c.c. offre tutela anche ai diritti soggettivi di credito, restando del tutto irrilevante la distinzione rispetto ai diritti sog-gettivi assoluti.

Precisato questo la Corte af-fronta il secondo argomento addotto sia nel 1953, sia dalla Corte d’Appello di Torino per escludere la risarcibilità dei dan-ni subiti dal Torino, ossia quello dell’assenza di un valido nesso causale. In breve, si affermava che il danno subito dalla società per la morte dei propri giocatori non fosse conseguenza imme-diata e diretta dell’illecito che direttamente ed immediatamente aveva inciso solo sul preminente diritto delle vittime alla vita ed all’integrità personale.

In ordine a questo punto os-serva la Corte come anzitutto non si debba confondere il pro-blema della causalità con quello della correlazione tra il bene leso e la norma di protezione. Dire, come la Corte d’Appello, che

manca un rapporto di immedia-tezza ogniqualvolta il portatore dell’interesse (come il Torino Calcio) sia un soggetto diverso da quello primariamente con-templato dalla norma invocata a tutela (ossia, nell’omicidio colposo, la vittima), significa far questione di correlazione tra nor-ma e bene, e non certo questione di causalità.

E la questione del rapporto tra norma ed interesse leso può es-sere agevolmente risolta richia-mando l’indirizzo consolidato in tema di costituzione di parte civile, laddove l’azione civile nel processo penale è consentita non già alle sole persone offese dal reato (ossia ai soggetti verso i quali è diretta l’azione crimino-sa contemplata dalla norma), ma più in generale a chiunque abbia risentito un danno dal reato. Evi-dentemente, quindi, non è neces-sario che ad invocare la tutela risarcitoria sia proprio la persona contemplata dalla norma prima-ria. Ciò, tra l’altro, emerge anche dalla giurisprudenza civilisti-ca in tema di danno subito dai prossimi congiunti della vittima dell’illecito, laddove il prossimo congiunto può pacificamente chiedere ed ottenere iure proprio il risarcimento pur non essendo direttamente contemplato dalla norma primaria di protezione.

Il discorso, quindi, non deve impostarsi sulla correlazione tra norma ed interesse leso, quanto piuttosto sulla causalità propria-mente intesa.

E sotto questo profilo la Corte

ritiene che il nesso immediato e diretto previsto dall’art. 1223 c.c. “non può aprioristicamente escludersi per il solo fatto che l’unico evento lesivo attinga il diritto del creditore per il tramite della lesione del diritto del debi-tore alla propria vita. Se così fos-se (…) si opererebbe, ancora una volta, la già rilevata trasposizio-ne del problema della causalità sul diverso piano dell’esistenza di una situazione giuridica tute-labile ex art. 2043 c.c. Si tratta piuttosto di stabilire in quali casi, e nel concorso di quali condizio-ni, l’esistenza del credito stretta-mente dipenda dalla permanenza in vita dell’obbligato”. La Corte ritiene necessario accertare che la morte determini l’estinzione dell’obbligazione senza possi-bilità di trasmissione agli eredi e che la perdita sia definitiva ed irreparabile per insostituibilità del debitore, ossia che il credi-tore non possa procurarsi da altri le stesse prestazioni. Nel concor-so di queste condizioni si potrà dire che il danno è conseguenza immediata e diretta dell’illecito e quindi sarà pienamente risar-cibile.

Un clamoroso revirement, per-tanto, che non va peraltro ad in-cidere sulla rigorosa impostazio-ne giurisprudenziale nel senso della risarcibilità del solo danno da lesione di diritti soggettivi. Per la risarcibilità di ogni danno da lesione di interessi meritevoli di tutela occorrerà attendere il 1999. Il che, come s’anticipava, è perfettamente spiegabile in chiave storica col timore della giurisprudenza di un eccessivo allargamento dell’area dei danni risarcibili.

Solo nel 1971 un parziale accoglimento dell’evoluzione dottrinale

Quando la Cassazione ammise la tutela del diritto di creditoCon la sentenza Meroni il revirement che tutti aspettavano

E’noto che la giurisprudenza sino a quel momento presso-ché univoca escludeva la tutela. L’argomento, seppur espresso per sommi capi, era questo: l’ ingiustizia di cui all’art. 2043 c.c. sussiste in quanto si possa rilevare la lesione di un diritto soggettivo. L’interesse legittimo pretensivo sorge come tale (e non dall’affievolimento del dirit-to soggettivo) e tale è destinato a rimanere anche dopo l’eventuale annullamento del provvedimento lesivo (normalmente di diniego su un’istanza del privato). Ne segue che non potrà mai trovare tutela risarcitoria, non assumen-do mai la consistenza di diritto soggettivo perfetto.

A questo punto, per affermare la tutelabilità in via aquiliana de-gli interessi legittimi era neces-sario rivedere a fondo la sistema-zione dell’ingiustizia.

Era in particolare necessario rimeditare cinquant’anni di giu-

risprudenza e finalmente aprire le porte a quella dottrina che già negli anni ’60 aveva concluso che risarcibile è ogni danno da lesione di una situazione merite-vole di tutela, a prescindere dal-la sua qualificazione in termini di diritto soggettivo. E questo è quanto fa la Cassazione.

Osserva la Suprema Cor-te che l’opinione tradizionale della risarcibilità dei soli danni da lesione di diritti soggettivi muoveva dalla asserita funzione sanzionatoria dell’art. 2043 c.c. La norma, si diceva, sanziona la commissione di un illecito. Ed un illecito in tanto si dà in quan-to vi sia la violazione di una nor-ma che pone comandi o divieti, e quindi che faccia scaturire diritti soggettivi. In quest’ottica, “in-giusto” si riteneva il fatto (come fatto illecito) e non il danno.

Già da tempo (diciamo noi, almeno dai primi anni ’60) la dottrina aveva osservato come la suddetta interpretazione muo-vesse da una forzatura del tenore

letterale dell’art. 2043 c.c., lad-dove l’ “ingiustizia” è riferita al danno e non al fatto, e non v’è elemento alcuno dal quale si pos-sa o debba inferire la tutelabilità dei soli diritti soggettivi.

In realtà, osserva la Cassazio-ne aderendo a questa dottrina, l’art. 2043 c.c. non è una norma meramente secondaria, volta a sanzionare la violazione di altre norme che pongano comandi o divieti e quindi costituiscano diritti soggettivi, ma piuttosto una clausola generale, volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto.

Quali siano poi, gli interessi la cui lesione importa un danno “ingiusto” dovrà accertarlo il giudice, procedendo ad una com-parazione tra gli interessi in con-flitto (quello del danneggiante e quello del danneggiato), compa-razione che non sarà rimessa alla discrezionalità del giudice, ma andrà condotta alla stregua del diritto positivo.

In conclusione, si approda agli

stessi risultati della dottrina degli anni ’60: ingiusto è il danno da lesione di un interesse meritevo-le di tutela in quanto direttamen-te o indirettamente contemplato e protetto da norme positive: interesse legittimo compreso, dunque.

Ma perché la giurisprudenza approda a questo risultato pro-prio alla fine degli anni ’90? I motivi sono vari, ed in parte traspaiono dalla motivazione. Il progressivo adeguamento del-l’ordinamento italiano agli ordi-namenti comunitari, con diretti-ve che hanno imposto allo Stato di offrire tutela anche a veri e propri interessi, seppur in settori limitati (cfr., ad esempio, l’art. 13 l. 19 febbraio 1992, n. 142 sulla lesione degli interessi le-gittimi nelle procedure di aggiu-dicazione di appalti comunitari). La Corte di Giustizia CE, che ha ammesso la risarcibilità dei dan-ni da mancata o tardata attuazio-ne di una direttiva, così tutelando una situazione manifestamente

riconducibile all’interesse legit-timo. Più in generale, il sempre maggior raffronto, per effetto dell’integrazione comunitaria, con ordinamenti che non cono-scono la limitazione che passa per il concetto di diritto soggetti-vo. Poi, motivi socio-economici, come la perdita di sacralità della Pubblica Amministrazione e la conseguente avversione verso l’ “immunità” aquiliana degli enti pubblici; come ancora la sempre maggior forza delle associazioni dei consumatori ed altre associa-zioni di tutela di interessi collet-tivi (o addirittura diffusi), che ha spostato l’attenzione sulla tutela di interessi che nulla hanno a che fare col diritto soggettivo. Ancora, la giurisprudenza che ormai da tempo aveva privato di significato operazionale la rego-la della risarcibilità dei danni da lesione dei soli diritti soggettivi, offrendo tutela alle situazioni più variegate.

Ecco quindi l’abbandono della vecchia regola dell’irrisarcibilità

dei danni da lesione di interessi, ormai non più sostenibile né sul piano giuridico né su quello so-cio - economico.

D’altra parte, la Suprema Cor-te s’avvede dei possibili rischi di overcompensation, visto che con la caduta del criterio selettivo del diritto soggettivo le maglie della responsabilità aquiliana si fanno indubbiamente più ampie. E non è un caso che la stessa sentenza 500/’99 cerchi di recuperare in selettività affermando (in contra-sto con la giurisprudenza a quel tempo univoca) la necessità di provare volta per volta la colpa della P.a., che non potrà mai dir-si presunta per la semplice ado-zione di un atto illegittimo. Così come non è un caso che a distan-za di pochi anni la stessa Cas-sazione affermi, con la sentenza 27 marzo 2003, n. 4538, la c.d. pregiudizialità amministrativa, ossia la necessità, per proporre la domanda risarcitoria, della pre-via impugnazione dell’atto.

(segue dalla prima pagina)

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- cultura - ANNO 2005 3 LEX AQUILIA— NUMERO 1 L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I —

Negli anni ’60 i primi segni di una rivoluzione epocale

La dottrina della svolta: dall’ingiustizia del fatto all’ingiustizia del dannoSi fa largo la regola che ammette la risarcibilità di ogni interesse meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento

L’impostazione tradizio-nale, che ammetteva la risarcibilità dei soli dan-

ni da lesione di diritti soggettivi, e con esclusione della tutela dei diritti di credito, viene messa in discussione a partire dalla prima metà degli anni ’60.

Ad aprire le danze è Francesco Donato Busnelli, con La lesione del credito da parte di terzi, Mi-lano, 1964.

L’opera parte da valutazioni sulla configurabilità teorica del-la lesione del credito da parte di terzi. Si inizia esponendo la tesi tradizionale, quella per cui “la rilevanza dei diritti di credito si esaurisce nel rapporto obbliga-torio tra creditore e debitore, e quindi una lesione può configu-rarsi unicamente ad opera di que-st’ultimo” (pag. 3) Per Busnelli tale impostazione va radicalmen-te superata: “l’equivoco sta nel fatto di aver ritenuto a guisa di postulato che tale diritto esauri-sca la propria rilevanza giuridica all’interno del rapporto obbliga-torio (pag. 30), il che non è vero se solo si tiene conto della pos-sibilità di adempimento da parte del terzo; occorre quindi distin-guere tra un profilo “che diremo statico e che rappresenta il diritto di credito non già in considera-zione della possibilità di eserci-zio da parte del suo titolare (nei confronti del debitore e secondo le regole che disciplinano l’attua-zione del rapporto obbligatorio), bensì in considerazione della sua appartenenza (in termini di valore da conseguire e realizza-re) alla sfera giuridica del credi-tore e, quindi, della sua rilevanza giuridica erga omnes, ed un pro-filo dinamico (o potenzialmente dinamico) che s’incentra, appun-to, nella pretesa, profilo sotto il quale, indubbiamente, il diritto del creditore si pone in stretta correlazione con l’obbligo del debitore all’interno del rapporto obbligatorio” (pag. 35).

Quindi, secondo Busnelli, oc-corre distinguere tra un aspetto interno del diritto di credito, che attribuisce una pretesa al-l’adempimento del debitore, ed un aspetto esterno, che attribui-sce una pretesa all’astensione da parte di qualsiasi terzo dal ledere il diritto di credito.

Detto questo, osservato quindi come una lesione del diritto di credito ad opera di terzi sia pie-namente configurabile, si tratta di accertare “se una tale lesione debba o meno considerarsi come una fonte di responsabilità (ex-tracontrattuale, ovviamente) per il terzo che ne è l’autore. A que-sto punto, quindi, il campo del-l’indagine si sposta sul piano del diritto positivo” (pag. 49).

Osserva quindi l’Autore come vi sia una certa tendenza a ravvi-sare nell’art. 2043 c.c. una norma meramente sanzionatoria, desti-nata ad operare a fronte di lesio-ni arrecate a diritti tipici (quelli soggettivi assoluti), tendenza

questa da deprecare, dovendosi configurare l’art. 2043 c.c. alla stregua di una clausola generale, “a questo punto - afferma - sem-bra che vi siano già elementi sufficienti per negare che nella disposizione dell’art. 2043cc sia ravvisabile una sorta di necessa-rio rinvio a presunti doveri spe-cifici (di non ledere) imposti da altre norme” (pag. 65).

Ma come leggere tale clausola generale senza da una parte farne una norma meramente sanzio-natoria, né dall’altra lasciare il campo all’arbitrio del giudice? Secondo Busnelli occorre svol-gere una “doppia indagine (...) vertente da un lato sulla posizio-ne del danneggiante (onde accer-tare se costui ha agito, senza es-sere autorizzato, al di fuori della sfera dei propri diritti soggetti-vi), e, dall’altro, sulla posizione del danneggiato (onde accertare se costui è stato leso, per com-portamento del danneggiante, in una propria situazione giuridica soggettiva)” (pag. 71).

Insomma, si tratta di accerta-re che la lesione sia non iure e contra ius. I problemi maggiori si pongono ovviamente nello sta-bilire quando il comportamento possa essere considerato contra ius, quando cioè esista una situa-zione giuridica soggettiva meri-tevole di tutela. Busnelli richiede un doppio requisito: un interesse giuridicamente protetto, prote-zione giuridica che può essere diretta, ma può essere anche im-plicita in una o più norme, poi la cosiddetta “correlatività”: “si tratta di accertare se la protezio-ne di un interesse, quale risulti dal dettato di una o più norme, risulti in rapporto di “correlati-vità” con il comportamento dei terzi, nel senso che la protezione giuridica di cui gode l’interesse leso si dimostri effettivamente destinata a quel tipo d’interes-si, in conformità di quel tipo di comportamento” (pag. 88).

Una formulazione un po’ com-plessa per dire che la regola dalla quale si desume l’ingiustizia deve tutelare direttamente l’in-teresse leso, e non un altro inte-resse a questo collegato solo in forza della coesistenza nel parti-colare caso concreto.

Risolto in questo modo il

problema della configurabili-tà di una lesione del credito ad opera di terzi, e della possibilità di qualificare il relativo danno come ingiusto, si passa all’altro argomento che veniva addotto per escludere la tutela aquiliana del credito, ossia il difetto di un valido nesso causale.

Osserva Busnelli che, a parte le ipotesi in cui è fuor di discus-sione la sussistenza del nesso causale per cadere il danno solo in capo al creditore (ad esempio, nel caso di uccisione del debitore da parte del terzo, quando il de-bitore non abbia congiunti) e per l’impossibilità quindi di predica-re un danno che si frapponga tra il fatto ed il pregiudizio subito dal creditore, ed a parte anche l’evoluzione giurisprudenziale che aveva mostrato di intendere in modo estensivo il concetto di conseguenza “immediata e di-retta”, a parte ciò “non è esatto individuare nell’evento...una sorta di danno (-evento) che si interponga tra fatto del terzo e danno subito dal creditore (…) Quest’ultimo danno deriva dal fatto del terzo alla stessa stregua di danni pacificamente qualifica-ti come conseguenze immediate e dirette del fatto stesso (...), non si vede perché la stessa qualifi-ca non dovrebbe spettare anche al danno sofferto dal creditore” (pag. 136).

Così compendiato il testo, ri-sultano in tutta evidenza i punti di frattura con la tradizionale im-postazione dell’illecito.

In primo luogo, contro l’opi-

nione tradizionale si ammette che una lesione del diritto di credito possa provenire anche dal terzo; poi, nell’analisi dell’art. 2043 c.c. che ne segue, si perviene anzitutto a qualificare l’art. 2043 c.c. come una clausola generale, e poi a stabilire che il danno è in-giusto (altra novità: ingiusto è il danno e non il fatto) allorquando ci si trovi di fronte alla lesione non già di un diritto soggettivo, ma di un qualsiasi interesse giu-ridicamente protetto.

Agli stessi risultati, seppur sulla base di argomenti diversi, qualche anno dopo giunge anche Pietro Trimarchi, nella voce Ille-cito per l’Enciclopedia del Dirit-to, Milano, 1970.

Osserva Trimarchi che “se-condo una formula un tempo prevalente in dottrina e che ancor oggi riecheggia frequentemente nelle motivazioni delle sentenze (senza peraltro determinare le decisioni), il divieto e la sanzio-ne operano solo quando vi è la

lesione di un diritto soggettivo. La formula non è determinata, poiché dipende dal significato di un termine (“diritto soggettivo”) che non è definito dalla legge e il cui uso nella letteratura giuridica presenta oscillazioni talora note-voli. Certo è che la formula ha un senso limitativo, poiché tende a coprire solo le ipotesi di lesione di diritti reali o di beni quali la vita, l’integrità fisica, la liber-tà di movimento, l’onore (…) L’elenco dei “diritti soggettivi” tutelabili può essere esteso a comprendere il diritto al nome ed il diritto all’immagine, ed inoltre i cosiddetti “diritti sui beni im-materiali” (opere dell’ingegno, invenzioni industriali, marchi d’impresa); ma è chiaro che ogni ulteriore estensione svuoterebbe la formula di ogni significato” (pag. 94).

Ma allora, osserva l’Autore, varie situazioni giuridiche pur tutelate non possono essere ri-condotte alla categoria del diritto soggettivo (ad esempio, quelle lese dalla concorrenza sleale, o da false informazioni), salvo concludere che ad ogni atto ille-cito corrisponda un diritto sog-gettivo, il che priva la categoria di ogni concreta utilità operati-

va.Scartata quindi la validità del-

la tesi tradizionale, Trimarchi si interroga se quantomeno si pos-sa conservare l’altra teoria, che vede comunque nell’art. 2043 c.c. una norma sanzionatoria di atti dannosi compiuti in viola-zione di doveri o comandi posti da altre norme di legge. Per con-cludere che “L’interpretazione che rinvia a doveri risultanti da altre norme mortifica la forza espansiva della regola generale contenuta nell’art. 2043 c.c. Si è sostenuto perciò che tale arti-colo debba essere inteso non già come norma secondaria, mera-mente sanzionatoria, bensì come norma primaria, che pone essa stessa un dovere giuridico am-plissimo: quello di astenersi da ogni comportamento che possa recar danno ad altri, salvo che il comportamento stesso sia giusti-ficato. L’ingiustizia, si è scritto, va intesa non come violazione di una regola di condotta posta a protezione di un interesse spe-cifico, bensì come violazione del dovere generale dell’alterum non laedere”, in assenza di un diritto del danneggiante al compimento dell’atto che ha causato il danno: diritto che non va inteso come agere licere e la cui attribuzione non può pertanto essere ricono-sciuta ogniqualvolta manchi una norma proibitiva, bensì soltanto quando risulti, attraverso sicuri indici normativi, che l’attività dannosa è fra quelle che l’ordi-namento ritiene siano da inco-raggiare e proteggere” (pag. 96).

Ma anche quest’ultima tesi, riconducibile a Schlesinger, -- per la quale l’art. 2043 c.c. vieta qualsiasi attività dannosa salvo che sia lecita perché giustificata dall’ordinamento alla luce di si-curi indici normativi -- viene cri-ticata da Trimarchi come troppo restrittiva, in quanto non consi-dera la possibilità che un’attività debba considerarsi giustificata a prescindere da chiari indici nor-

mativi (e fa l’esempio dei dan-ni cagionati dalle informazioni commerciali bancarie): “non sembra sostenibile che l’illicei-tà venga meno solo nelle ipo-tesi in cui l’attività dannosa sia incoraggiata e protetta. Questa

proposizione, infatti, trascura la complessità delle valutazioni che contribuiscono a determinare un sistema di responsabilità per atto illecito” (pag. 96).

Precisato questo passa ad esporre la sua impostazione del problema: “Il problema dell’il-lecito civile consiste principal-mente (ma, è bene sottolinearlo fin d’ora, non esclusivamente), nella valutazione comparativa di due interessi contrapposti, l’in-teresse altrui minacciato da un certo tipo di condotta da un lato, e l’interesse che l’agente con quella condotta realizza o tende a realizzare.

Tale valutazione ha gran peso quando si tratta di disciplinare legislativamente delle figure di illecito; altrettanta importanza le compete nell’ambito delle opera-zioni che l’interprete deve com-piere allo scopo di integrare la disciplina legislativa dove questa è incompleta o generica. Vi sono campi in cui questo intervento integrativo della legge è neces-sario più spesso: così là dove si tratta di fissare i limiti alla lotta economica tra imprenditori in concorrenza (…). Altrove il con-flitto tra le esigenze contrapposte viene risolto legislativamente at-traverso la regolazione di parti-colari tipi di illecito e, in partico-lare, attraverso la configurazione di diritti soggettivi (…). Ciò non esclude tuttavia che anche qui il giudice sia chiamato ad operare valutazioni comparative di inte-ressi” (pag. 98)

Premesso ciò si tratta di chie-dersi secondo quale criterio ri-solvere questi conflitti, e per Tri-marchi il criterio va individuato nella pubblica utilità: “abbiamo detto che la soluzione del proble-ma dell’illecito civile dipende in gran parte dalla valutazione com-parativa degli interessi dell’agen-te da una parte e del danneggiato dall’altra. A questo punto occor-re aggiungere un chiarimento di estrema importanza, e cioè che

il criterio, in base al quale gli interessi in gioco vengono com-parati, è un criterio di pubblica utilità” (pag. 100).

Anche in questo caso è palese

SEGUE A PAGINA 4

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- cultura - 4 LEX AQUILIA ANNO 2005NUMERO 1 —— L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I

Basti considerare i danni da lesione del possesso, o i c.d. danni da lesione dell’integrità patrimoniale (o da lesione della libertà contrattuale).

Ancora, oltre a condurre a ri-sultati discutibili sul piano pra-tico, questa impostazione mal s’attagliava al diritto positivo, muovendo da una interpreta-zione dell’art. 2043 c.c. che ne sconvolgeva la lettera (laddove l’ingiustizia è chiaramente riferi-ta al danno e non al fatto).

Infine, sovente creava clamo-rose dissonanze tra regole decla-matorie e regole operazionali, essendo spesso la giurisprudenza costretta a vere e proprie acroba-zie concettuali per giustificare la tutela di situazioni che in senso proprio non potevano essere qualificate alla stregua di diritti soggettivi assoluti.

Agli inizi degli anni ’60 la dot-trina evidenzia con forza questi limiti e propone una sistemazio-

ne alternativa dell’illecito.Anzitutto precisa che la tutela

non può essere limitata ai soli di-ritti soggettivi assoluti, giacché è errato ritenere che i diritti di credito attribuiscano pretese da far valere nei soli confronti del debitore. Ad un aspetto per così dire dinamico del credito (con-sistente nella pretesa verso il debitore) va infatti aggiunto un aspetto statico, consistente nella pretesa attribuita al creditore nei confronti di terzi, che si astenga-no dal ledere il diritto di credito. La lesione di tale pretesa si tra-duce in un danno ingiusto.

Ma la dottrina non si ferma a ciò, ritenendo che si debba completamente rivedere lo stes-so concetto di ingiustizia. L’art. 2043 c.c., si dice, non è una norma meramente sanzionatoria destinata ad operare unicamente a fronte della violazione di nor-me che pongono comandi o di-vieti e che quindi costituiscono diritti soggettivi. E’invece una

norma che, per il tramite della clausola generale dell’ingiusti-zia, offre riparazione ad ogni danno da lesione di un interesse rilevante. Precisato che si tratta di una clausola generale, occor-rerà escludere la necessità di un rinvio a norme preesistenti che individuino illeciti tipici, ma al contempo occorrerà fare atten-zione a porre dei limiti alla ri-sarcibilità, sì da evitare possibili arbìtri. E, seppur in vari modi, tutti gli esponenti della dottrina di questo periodo sono d’accor-do nel ritenere che la selezione vada operata mediante un rinvio al diritto positivo. E’ riparabile qualunque danno da lesione di una situazione meritevole di tu-tela perché direttamente o indi-rettamente protetta dall’ordina-mento positivo.

Il sistema quindi, nella pro-spettiva della dottrina, cambia radicalmente: dalla funzione sanzionatoria e dalla tutela dei soli diritti soggettivi alla funzio-

ne compensativa ed alla tutela di ogni interesse meritevole di pro-tezione.

Ma la giurisprudenza tarda ad accogliere le proposte dottrinali.

Si dovranno attendere i primi anni ’70, con la nota sentenza Meroni, per vedere superato il primo scoglio, ossia quello della risarcibilità dei soli diritti assolu-ti e non dei diritti di credito.

Quanto al secondo, ben più rilevante ostacolo, ossia quello costituito dalla risarcibilità dei soli danni da lesione di un diritto soggettivo, la giurisprudenza si mostra intransigente a conserva-re la regola a livello declamato-rio. Ma al contempo mostra sem-pre più di abbandonarla a livello operazionale, con un florilegio di sentenze che, con vari espedien-ti concettuali, “mascherano” da diritti soggettivi dei veri e propri interessi.

Tale atteggiamento, se letto in una prospettiva storica, appare molto più giustificato di quanto a

prima vista non sembri. Il timore della giurisprudenza è quello di allargare troppo le maglie della risarcibilità, a fronte di proposte dottrinali che pur condivisibili nell’impostazione di fondo, di-ventano oscure quando si tratta di precisare secondo quali criteri selezionare gli interessi (ed in-fatti, non v’è chi non veda che il richiamo ad ogni interesse diret-tamente o indirettamente merite-vole di tutela presenta ben scarsa capacità selettiva).

Anche queste remore vengono meno quando nel 1999 le Se-zioni Unite della Suprema Cor-te, con la nota sentenza n. 500, aderiscono in pieno alle proposte dottrinali: da questo momento in poi l’art. 2043 c.c. offre tutela ad ogni interesse meritevole di tutela in quanto direttamente o indirettamente protetto dall’ordi-namento positivo.

Il tema ben presto scema di interesse, assorbito da questioni ormai più rilevanti. Sembra che,

più o meno consapevolmente, la dottrina abbandoni l’ingiusti-zia per buttarsi a capofitto alla ricerca di altri criteri selettivi. Ecco allora accesi dibattiti sul nesso di causalità e sul danno riflesso, sulla nuova figura del danno esistenziale e sulla teori-ca del “danno evento”, etc. Ma il sistema è veramente in grado di reggersi in mancanza di una valida selezione a livello d’in-giustizia? E, domanda ancor più significativa, siamo proprio sicu-ri che la selezione avvenga alla stregua di un criterio normativo e non di un criterio sociale, os-sia che vangano risarciti i danni a seconda della protezione loro accordata dall’ordinamento e non a seconda delle valutazioni sociali? Non è forse opportuno rivedere il tutto?

La svolta degli anni ’60 e la recente “ingiustizia” del dannoLe nuove frontiere dell’ingiustizia

Dall’eccesso di selezione ad un eccesso di riparazione?CARLO BONA

(segue dalla prima pagina)

la novità rispetto alla concezione tradizionale, data dalla rottura con quella sorta di tipicità legata al diritto soggettivo assoluto che era stata costruita da dottrina e giurisprudenza.

Nella posizione di Trimar-chi si rinviene peraltro qualche ambiguità. Un po’ perché nei suoi articoli non si capisce bene fin dove arrivi il distacco dal-l’orientamento tradizionale, un po’ perché non chiarisce sempre in modo evidente cosa si debba intendere per “pubblica utilità”, meglio, come questa debba es-sere circoscritta.

Basti osservare che se nel-l’intervento per l’Enciclopedia del diritto la rottura con la tesi tradizionale sembra assoluta, col ricorso per la determinazio-ne degli interessi protetti ad un criterio extralegale di stampo essenzialmente economicisti-co come la “pubblica utilità”, qualche anno dopo nel suo ma-nuale istituzionale (Istituzioni di diritto privato, Milano, l991) lo stesso Trimarchi tornerà (o sembrerà tornare) sulle proprie posizioni ribadendo sì che la selezione degli interessi è affi-

data alla pubblica utilità, ma al contempo precisando che “a sua volta il criterio della pubblica utilità verrà deter-minato dall’interprete in base ai valori desunti da leggi che regolano materie analoghe o dai principi generali dell’or-dinamento giuridico” (pag. 129). Con ciò approdando ad una soluzione non molto dis-simile da quella di Busnelli, il quale ammetteva la risarci-bilità del danno da lesione di ogni interesse meritevole di tutela in quanto direttamente o indirettamente protetto da norme positive.

Vere o presunte ambiguità a parte, l’opera di Trimarchi resta essenziale, anche (e for-se soprattutto) per aver fatto conoscere agli italiani l’im-portanza dell’analisi econo-mica nello studio del diritto civile.

Nello stesso torno di anni Stefano Rodotà dà alle stam-pe Il problema della respon-sabilità civile, Milano, 1964.

Rodotà affronta il tema da un’ulteriore prospettiva, dando inizio ad una feconda serie di studi sulla “costituzionalizzazio-ne” della responsabilità civile.

Osserva l’Autore come il no-stro ordinamento sia improntato dal principio di solidarietà, che impone di comportarsi in modo da non ledere l’interesse altrui. Tale principio trova referente sia nella normativa costituzio-nale (artt. 2 e 41 Cost.), sia in quella ordinaria: “non si può negare, infatti, che il codice vigente costituisca, proprio in questa direzione, un notevole progresso rispetto alla codifica-zione civile del 1865: basta por mente a norme del tutto nuove in esso contenute, quali sono, ad esempio, quelle relative agli atti emulativi (art. 883), al comportamento secondo corret-tezza (art. 1175), alle trattative precontrattuali (art. 1337). In proposito, le parole adoperate

nella Relazione sono significa-tive: “la correttezza che impone l’art. 1175 (…) non è soltanto un generico dovere di condotta morale; è un dovere giuridico qualificato dall’osservanza dei principi di solidarietà corpora-tiva a cui il codice, nell’articolo richiamato, espressamente rin-via. Questo dovere di solidarietà (…) non è che il dovere di com-portarsi in modo da non ledere l’interesse altrui fuori dei limiti della legittima tutela dell’inte-resse proprio, in maniera che, non soltanto l’atto di emulazio-ne ne risulti vietato (art. 883), ma ogni atto che non implica il rispetto equanime dell’interesse dei terzi” (pag. 90).

Portato sul terreno della re-sponsabilità civile, questo prin-

cipio implica la necessità di leg-gere la clausola dell’ingiustizia come clausola generale, idonea a consentire la riparazione di ogni danno arrecato in viola-zione della solidarietà e senza la necessità di far luogo ad una tipizzazione legislativa di ogni comportamento dannoso.

Aperte in tal modo le porte alla tutela di situazioni giuri-diche diverse dai diritti sogget-tivi, Rodotà affronta il conse-quenziale problema di evitare che l’atipicità dell’illecito si traduca in arbitrio dell’interpre-te: “non si tratterà (…) di una serie aperta di casi di respon-sabilità civile nel senso che il giudice potrà, secondo il modo in cui riterrà opportuno consi-derare la coscienza collettiva in un determinato momento storico, ammettere l’esistenza di un qualsiasi dovere; bensì nel senso che il limite della so-lidarietà deve ritenersi operante in tutte le situazioni per le quali è prevista una qualsiasi forma di protezione legislativa” (pag. 112).

“Introdurre in un sistema una o più clausole generali non vuol dire che il giudice, nelle materie da queste regolate, possa deci-dere secondo il suo particolare modo di sentire le esigenze della società e del tempo in cui vive: ché, infatti, la sua decisione do-vrà sempre essere fondata sui criteri indicati dalla legge, anche quando la concreta definizione della loro fisionomia abbiso-gnerà di una ricostruzione che tenga conto dei dati della realtà effettuale. Si è ben lontani, dun-que, da quel rifiuto di trovare il criterio di decisione nella legge, per attingerlo direttamente alla realtà sociale, di cui faceva pa-rola la dottrina del diritto libero” (pag. 138).

Anche in Rodotà si distinguo-

no pertanto i tratti caratteristici della “rivoluzionaria” dottrina degli anni ’60.

Anzitutto, la netta opposizio-ne a riconoscere carattere me-ramente tipico e sanzionatorio all’illecito civile. L’illecito ha funzione essenzialmente com-pensativa e, per il tramite di una clausola generale (l’art. 2043 c.c.), offre riparazione ad ogni occasione di danno giuridica-mente rilevante.

In secondo luogo, anche Ro-dotà mostra la preoccupazione che l’allargamento delle maglie della responsabilità si traduca nell’attribuzione all’interprete di una libertà idonea a sfociare in arbitrio. Sente in altre parole l’esigenza di mantenere precisi criteri di selezione del danno, anche a livello dell’ingiustizia.

Infine, tali criteri vengono co-munque individuati nel diritto positivo: è meritevole di tutela ciò che risulti direttamente o indirettamente protetto dall’or-dinamento positivo.

Sicché, se volessimo compen-diare in una massima l’orienta-mento della dottrina negli anni ’60 dovremmo concludere che “l’illecito civile ha funzione compensativa e per tramite del-la clausola generale dell’ingiu-stizia offre riparazione ad ogni danno da lesione di interessi giuridicamente rilevanti in quan-to direttamente o indirettamente contemplati da norme positive”.

Questo mentre prima de-gli anni ’60 operava la diversa massima per la quale “l’illecito civile è volto a sanzionare la violazione di norme primarie che pongono divieti o comandi facendo scaturire diritti sogget-tivi assoluti”.

La dottrina della svolta: dall’ingiustizia del fatto all’ingiustizia del danno(segue da pagina 3)

l’angolo normativo

FRANCIA

CODE CIVIL

Article 1382 Tout fait quelconque de l’homme, qui cause à autrui un dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé, à le réparer.

Article 1383 Chacun est responsable du dommage qu’il a causé non seulement par son fait, mais encore par sa négligence ou par son imprudence.

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Di converso, è d’uso affer-mare che era tipico il sistema dell’illecito romano, che cono-sceva le sole figure del furto, della rapina, dell’iniuria, del damnum iniuria datum e che sono oggi tipici i sistemi di common law, in quanto basati su precedenti specifici. Tipico sarebbe anche il sistema tede-sco, visti i §§ 823 ss. BGB che fanno riferimento alla lesione di diritti specificamente indicati (in particolare, il § 823 I com-ma fa riferimento alla lesione colposa della vita, della perso-na, della salute, della libertà, della proprietà o di un “diverso diritto”, il § 823 II comma ha riguardo alla violazione col-pevole di una norma che mira alla tutela dell’interesse di un soggetto; il § 826 disciplina i danni arrecati intenzionalmen-te ad altri agendo in difformità dal buon costume).

La distinzione è peraltro del tutto semplicistica.

Prendiamo anzitutto il siste-ma italiano dell’illecito. L’ “in-giustizia” di cui all’art. 2043 c.c. è in un primo momento stata intesa come ingiustizia del fatto, ossia come illicei-tà. Dal che il principio che la sanzione civile potesse operare solo a fronte della violazione di norme che ponevano co-mandi o divieti, costituendo o riconoscendo diritti. Come ben osservato dalla dottrina, il sistema (se così interpretato) doveva dirsi tipico. L’art. 2043 c.c. valeva solo a sanzionare la violazione di altre norme, spe-cifiche. Il sistema era quindi so-stanzialmente analogo a quello delineato dal § 823 I comma BGB per il quale, si è detto, è tra l’altro risarcibile la lesione di un “diverso diritto” (“son-stiges Recht”). In entrambi i casi la tutela risarcitoria poteva ammettersi solo a fronte della lesione di diritti specificamen-te individuati dall’ordinamento positivo.

D’altra parte, se la rego-la declamata era quella della risarcibilità dei soli danni da lesione dei diritti soggettivi, la giurisprudenza aveva gioco facile ad “inventare” dei diritti soggettivi quando riteneva ne-cessario offrire tutela a sempli-ci interessi (ad esempio il caso, eclatante, del c.d. diritto all’in-tegrità del patrimonio: Cass., 4 maggio 1982, n. 2675). Quindi la “tipicità” operante a livello declamatorio veniva già scon-fessata a livello operazionale, offrendo la giurisprudenza tutela ad una serie aperta di possibili situazioni giuridiche soggettive (cfr. FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Commenta-rio Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1993, 191). Sul piano operazionale il sistema poteva pertanto dirsi a tutti gli effetti atipico.

Una vicenda non molto di-versa ha caratterizzato la re-sponsabilità civile tedesca. La tipicità affermata e ribadita sul piano declamatorio, è stata nel tempo fortemente corretta dalla giurisprudenza sul piano operazionale, mediante inter-pretazioni sempre più elastiche del concetto di “diverso dirit-to” ex § 823 BGB. E proprio sul piano del danno economi-co il Reichsgericht ha ricono-sciuto un “diritto al rispetto dell’attività imprenditoriale” difficilmente compatibile con le norme del BGB, se intese se-condo uno stretto principio di tipicità (ZWEIGERT - KOTZ, Introduzione al diritto compa-rato, Milano, 1992, 284).

Quindi, i due sistemi, tede-sco ed italiano, seppur formal-mente l’uno tipico e l’altro ati-pico, hanno vissuto esperienze per molti versi simili, con in entrambi i casi una chiara dis-sociazione tra regole operanti a livello declamatorio e regole operazionali.

Tornando in Italia, a partire dalla recente sentenza delle Sezioni Unite 500/’99 si è am-messa la risarcibilità del danno

da lesione di ogni interesse me-ritevole di tutela, a prescindere dalla sua qualificazione in ter-mini di diritto soggettivo. Sem-brerebbe quindi di poter dire che il nostro sistema è ormai a tutti gli effetti atipico, tanto sul piano declamatorio, quanto su quello operazionale. Non fosse che la Cassazione ha precisato, conformemente alla dottrina, che un interesse può dirsi me-ritevole di tutela in quanto sia direttamente o indirettamente contemplato dall’ordinamento positivo. Sicché, se è pur sem-pre necessario individuare una norma che contempli l’interes-se leso, non è poi così semplice parlare di atipicità, rinvenen-dosi comunque degli elementi, forti, di tipicità.

Tutto sarà vedere, peraltro, come si comporterà la giuri-sprudenza quando concreta-mente dovrà operare il giudizio di meritevolezza dell’interesse. Ricorrerà veramente all’ordi-namento positivo?

E’da immaginare che la re-gola operazionale non sarà dis-simile rispetto a quella seguita prima degli anni ’90. Sul piano declamatorio, si affermerà la stretta necessità di un richiamo al diritto positivo, così dando vita ad un sistema che, a parte i vari proclami, presenterà an-cora varie affinità con i siste-mi “tipici”. Sul piano pratico è invece da prevedere che la giurisprudenza, conformemen-te a quanto fatto finora, utiliz-zerà il diritto positivo più per giustificare, ex post, scelte già previamente operate, che non come base effettiva per operare l’autentica selezione degli inte-ressi. E’ quindi da ritenere che si perpetuerà la dissociazione tra una regola declamatoria che vira verso la tipicità, ed una operazionale che procede diretta verso la piena atipicità.

Passiamo ora ai sistemi di common law. Questi, si dice, sono tipici, in quanto offrono tutela a casi già contemplati in precedenti. Ma se manca

un precedente, o se il caso ri-sulta diverso da quello trattato nel precedente, si potrà ancora parlare di tipicità? No, perché in tali casi nulla osterà al rico-noscimento di una tutela fino ad allora inedita. Per dirla con le parole di René David: “gli ordinamenti della famiglia ro-mano-germanica costituisco-no insiemi coerenti, “sistemi chiusi” (…) il diritto inglese è, invece, un “sistema aperto”; possiede cioè un metodo che permette di risolvere ogni tipo di problema, e non possiede invece norme sostanziali da applicare indifferentemente in tutti i casi. La tecnica del di-ritto inglese (…) consiste nello scoprire, partendo dalle legal rules già formatesi, la legal rule, magari del tutto nuova, che dovrà essere applicata nel caso di specie (…). Ad una situazione nuova corrisponde (deve corrispondere, secondo il giurista inglese) una regola nuova” (DAVID, I grandi si-stemi giuridici contemporanei, Padova, 1980, 319).

Ecco quindi che, a complica-re ulteriormente il quadro, nei sistemi di common law sarà necessario distinguere tra il caso già deciso, con riferimen-to al quale si potrà parlare di tipicità, ed il caso ancora non approdato davanti alle corti, per il quale i sistemi anglosas-soni e nordamericani si rive-lano decisamente più aperti e quindi meno “tipici” di quelli continentali. Ed a dimostrazio-ne di ciò sta il fatto che i siste-mi di common law si rivelano più ricettivi verso le novità di quanto non lo siano i nostri si-stemi a base legislativa.

Un discorso analogo può e deve essere fatto con riguardo al sistema romano. E’ben vero che il pretore poteva concede-re tutela sulla base di actiones tipiche, ma è pur vero che nul-la gli precludeva di innovare l’ordinamento quando ciò si rivelasse necessario. E difatti, già nel corso dell’età classica

si è assistito a varie estensioni del concetto di damnum iniu-ria datum, nonché alla con-cessione da parte del pretore di svariate actiones in factum (ad exemplum legis aquiliae) genericamente dette utiles (cfr. BURDESE, Diritto Privato Romano, Torino, 1993, 530 s.). Sia per il giudice anglosas-sone, sia per il pretore romano non opera il limite legislativo, sicché per molti aspetti il loro sistema è molto meno “tipico” di quello italiano.

Quindi, la distinzione tra ti-picità ed atipicità dell’illecito è molto meno pacifica di quanto a prima vista non sembri. Dal che due conseguenze.

La prima conseguenza è quella dell’impossibilità di trarre dalla qualificazione del sistema come tipico o atipico delle previsioni in ordine alla sua capacità di seguire l’evo-luzione sociale. Gli studi di diritto comparato hanno am-piamente dimostrato che siste-mi tipici come quello norda-mericano hanno una capacità di adattamento notevolmente superiore rispetto a quella pro-pria del sistema italiano, che pure dovrebbe essere atipico. E da studi ancor più approfonditi è emerso come le regole ope-razionali, a medio termine, non differiscano in modo significa-tivo, quale che sia il sistema preso in considerazione.

La seconda conseguenza, che si potrebbe trarre è, allora, quella della sostanziale inuti-lità dei concetti di tipicità od atipicità, ove applicati alla re-sponsabilità civile.

Il concetto di tipicità può avere infatti (ed ovviamente) due sole funzioni: una descrit-tiva, quando si limiti a “fo-tografare” l’ordinamento, od una prescrittiva, quando se ne vogliano trarre delle precise direttive.

La funzione descrittiva si è visto, è assolta così malamen-te che ci si può chiedere che utilità possa connettersi al qua-

lificare i nostri sistemi come tipici e quelli di common law come atipici. Una descrizione di questo tipo, infatti, rischia di produrre più equivoci di quanti non riesca a risolverne (dal-l’equivoco della maggior capa-cità di adattamento dei sistemi atipici di civil law, a quello della necessaria diversità delle regole operazionali).

Quanto alla funzione pre-scrittiva, l’inutilità della distin-zione salta ancor più agli occhi. Da una parte, infatti, l’asserita atipicità del nostro sistema non ha mai ostacolato l’affermazio-ne, da parte di dottrina e giu-risprudenza, della necessità del ricorso a norme positive per definire il contenuto della clau-sola generale dell’ingiustizia, con ovvia contaminazione da parte di elementi propri di un sistema tipico.

D’altra parte, è ovvio che anche nei sistemi tipici non si potrà mai immaginare una tipi-cità analoga a quella, ad esem-pio, operante in tema di diritti reali, o di azioni a cognizione sommaria nella procedura ci-vile. E ciò per l’ovvio motivo che anche i sistemi “tipici” devono presentare delle valvo-le di sfogo che consentano di adeguare l’ordinamento alla costante evoluzione sociale, particolarmente impetuosa in tema di responsabilità. Ma sono proprio queste valvole di sfogo ad annullare sul piano operazionale le differenze tra sistemi, e quindi a privare di ogni portata prescrittiva il con-cetto di tipicità.

In conclusione, in mancanza di una reale efficacia descrit-tiva o prescrittiva, ed anzi per la almeno tendenziale idoneità a creare equivoci di non poco conto, la distinzione tra sistemi tipici ed atipici di responsabi-lità civile andrebbe semplice-mente abolita.

Uno spunto critico sulla distinzione tra tipicità ed atipicità

L’ingiustizia ed il problema dell’atipicità dell’illecitoE’corretto ritenere atipico il nostro sistema e tipico quello di common law?

L’opinione

Pur non pervenendo alla nostra conclusione -- lo con-fessiamo, anche volutamente provocatoria -- di abolire la distinzione tra sistemi tipici ed atipici, Trimarchi già nel 1970 metteva in guardia contro ogni rigida schematizzazione in materia. Nel suo intervento per l’Enciclopedia del Diritto, alla voce Illecito, osservava come “la differenza tra i siste-mi fondati sull’enumerazione di figure tipiche e quelli fon-dati su un’amplissima regola generale è però meno spiccata di quanto si possa credere”.

Anzitutto, perché nei sistemi “tipici”, le figure espressamen-te contemplate possono essere così numerose e ampie da per-mettere la riparazione di ogni danno socialmente e giuridica-mente rilevante. Di converso, nei sistemi “atipici” la regola generale non può essere intesa nel senso che ogni fatto danno-so sia illecito. Operano infatti svariate limitazioni, che pos-sono anche condurre a risultati restrittivi.

Di fatto, osservava Trimar-chi, la comparazione tra gli ordinamenti occidentali mo-

stra come, a prescindere dalla loro tipicità od atipicità, “i ri-sultati ultimi presentano per lo più svariate coincidenze e, nelle zone residue, notevoli somiglianze: il che può stupi-re solo chi creda che l’attività interpretativa consista nello sviluppo sistematico di com-plessi di proposizioni immersi nel vuoto”.

Al più, osservava, la diffe-renza tra sistemi riguarda il diverso ruolo del giudice, che in quelli atipici è incaricato di porre volta per volta le neces-sarie limitazioni, in quelli tipici

trova questo compito già svolto dalla legge.

Ma anche a questo riguar-do, osservava Trimarchi, le differenze sono tutt’altro che nette. Ed infatti, spesso i si-stemi tipici contemplano delle figure tipiche sufficientemente indeterminate da lasciar spazio per l’interprete, e di converso quelli atipici finiscono con l’af-fiancare alla norma generale delle norme specifiche che co-stituiscono “delle indicazioni di massima per l’ulteriore de-terminazione e specificazione ad opera del giudice”.

(segue dalla prima pagina)

Il problema della atipicità secondo Trimarchi l’angolo normativo

GERMANIA

BGB (Codice civile)

§ 823 Schadensersatzpflicht

(1) Wer vorsätzlich oder fahrlässig das Leben, den Körper, die Gesundheit, die Freiheit, das Eigentum oder ein sonsti-ges Recht eines anderen widerrechtlich verletzt, ist dem an-deren zum Ersatz des daraus entstehenden Schadens verp-flichtet.

(2) Die gleiche Verpflichtung trifft denjenigen, welcher gegen ein den Schutz eines anderen bezweckendes Gesetz verstößt. Ist nach dem Inhalt des Gesetzes ein Verstoß gegen dieses auch ohne Verschulden möglich, so tritt die Ersatzp-flicht nur im Falle des Verschuldens ein.

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- cultura - 6 LEX AQUILIA ANNO 2005NUMERO 1 —— L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I

Guglielmo di Ockham è passato alla storia come il filosofo che

riuscì ad affondare la corazza-ta della Scolastica, chiudendo definitivamente con più di cin-quecento anni di pensiero occi-dentale.

E quest’impresa gli riuscì formulando un principio che a noi, oggi, sembra banale, ossia quello per il quale in ogni ragio-namento occorre partire dalla realtà naturale ed evitare le mol-tiplicazioni di enti. Se una cosa è spiegabile semplicemente, inutile complicarsi la vita crean-do nozioni su nozioni in un cre-scendo di concettualismo.

Fu una pugnalata mortale per il pensiero occidentale di quel periodo, che era abituato a di-scutere (seriamente, beninteso, ma in modo logicamente scor-retto) sul sesso degli angeli.

Il pensiero di Ockham da quei tempi -- eravamo nella prima metà del trecento -- ad oggi ne ha fatta di strada, tanto che a nessuno tra i tanti che oggi si occupano seriamente di scienza verrebbe mai in mente di arzigo-golare su concetti che non tro-vano un preciso riscontro empi-rico o, peggio ancora, di fornire spiegazioni complesse e sovrab-bondanti per fenomeni semplici o addirittura banali. Verrebbe semplicemente messo ai mar-gini dalla comunità scientifica. La scienza è, soprattutto, ricerca della semplicità ed aderenza ai fenomeni.

Questa direttiva metodolo-gica, ormai univoca in ambito scientifico, tarda non poco a trovare riconoscimento nell’am-biente giuridico. A volte, som-mersi dal fragore dei concetti, i giuristi non sentono la sottile voce della realtà. E sì che la realtà è spesso spiegabile in due parole, senza bisogno di fiumi di teorie.

Prendiamo quindi la nostra responsabilità civile, ed in par-ticolare il nostro tema, quello dell’ingiustizia.

Quando un danno è “ingiu-sto”? Per la dottrina di qua-rant’anni fa e la giurisprudenza di cinque - dieci anni fa, un dan-no poteva dirsi ingiusto quando veniva a ledere un diritto sogget-tivo. Stando a simili conclusio-ni, ogni volta il giudice avrebbe dovuto: a) individuare con pre-cisione quale fosse la situazione giuridica lesa e provvedere a qualificarla in termini giuridici; b) valutare se fosse direttamente protetta dall’ordinamento come diritto soggettivo, ossia se sussi-stesse una norma tale da vietare espressamente di lederla o da comandare di proteggerla.

Come si comportava concre-tamente il giudice?

E’stato osservato dalla dot-trina pressoché concorde che il giudice se riteneva di rigettare la domanda, allora richiamava la regola e negava la sussistenza di un diritto soggettivo (è stato

così, ad esempio, per il risarci-mento dei danni da lesione di interessi legittimi pretensivi), se invece riteneva che si dovesse concedere tutela, si “inventava” diritti soggettivi in realtà inesi-stenti mediante varie acrobazie concettuali (si consideri il noto diritto all’integrità del patrimo-nio).

In tal modo, grazie alla regola della risarcibilità dei soli diritti soggettivi, che poteva venire in ogni momento disattesa, il giudice riusciva a seguire, ed in parte anche a dirigere, l’evolu-

zione sociale ed economica.La società chiedeva a gran

voce nuove forme di tutela? Il giudice faceva quattro conti (così è avvenuto sia per il danno biologico, sia per la lesione degli interessi legittimi), ed a seconda che la tutela si rivelasse com-patibile o meno con le ragioni dell’economia, la riconosceva o la negava. Nessun ostacolo sul piano normativo, ovviamente, visto che -- e lo si è dimostrato -- creare nuovi diritti soggettivi ai quali riconoscere tutela era un gioco da ragazzi.

Ma allora, ciò che dirigeva le scelte dei giudici non erano le valutazioni normative, ma valutazioni sociali ed economi-che. Il giudice agiva sulla base di un crittotipo, una regola non espressa, che affondava le sue radici nel contesto sociale.

Oggigiorno, per la dottrina e la giurisprudenza pressoché univoche, il danno è ingiusto quando leda una situazione me-ritevole di tutela in quanto diret-tamente o indirettamente protet-ta dall’ordinamento giuridico.

Ciò farebbe pensare che ogni avvocato che si rispetti, quando propone una domanda risarci-toria, curi di allegare le norme che offrono protezione diretta od indiretta all’interesse asseri-tamente leso.

Chiunque abbia avuto la ven-tura di frequentare le aule dei nostri tribunali sa che le cose vanno in modo ben diverso.

L’avvocato, almeno quello dotato di un minimo di furbizia, se esistono precedenti, specie se di quel tribunale, si aggrappa ai precedenti. Se precedenti non ne esistono, richiama sì degli indici normativi, ma si guarda bene dal

richiamare solo indici normativi. Più della metà della comparsa conclusionale sarà destinata ad una minuziosa elencazione del-le ragioni economiche, sociali ed equitative che giustificano l’adozione della scelta suggerita da quegli indici normativi.

Perché l’avvocato si compor-ta in questo modo?

Perché sa perfettamente che i giudici non introducono nuove voci di danno a cuor leggero, solo perché un avvocato è stato in grado di trovare un paio di norme che sembrano fondarle,

ma, nell’ovvia considerazione di interessi pratici e della fun-zione pratica del diritto, valuta-no se la scelta ermeneutica sia o meno compatibile con la realtà socio-economica.

L’avvocato, a volte incon-sciamente, avverte che i giudici decidono sulla base di un crit-totipo, sulla base di valutazioni sociali od economiche, provve-dendo solo in seguito a dare giu-stificazione normativa alle loro innovazioni.

D’altra parte, che alla base di tutto stia il crittotipo appena descritto, emerge da una serie di considerazioni finanche banali.

Prima considerazione. Perché se tutto dipende dall’ordina-mento positivo la responsabilità civile è in costante evoluzione quando l’ordinamento resta so-vente immutato? La figura del danno biologico, ad esempio, è stata creata a prescindere dal-l’innovazione dell’ordinamen-to. Se il giudice effettivamente si fosse avvalso di criteri norma-tivi, non avremmo assistito alla costante evoluzione dell’ultimo quarantennio.

Seconda considerazione. Per-ché i giudici quando decidono di introdurre nuove voci di danno si dilungano nella considerazio-ne della loro rilevanza sociale ed economica? Se tutto dipendesse dall’ordinamento positivo, ba-sterebbe rifarsi all’ordinamento.

Terza considerazione. Il con-cetto di interesse direttamente o indirettamente protetto dal-l’ordinamento, utilizzato dalla nostra dottrina per dire quando un danno è ingiusto, è manife-stamente generico. Di per sé, stando a questo concetto, qual-siasi giudice o avvocato dotato

di un minimo di fantasia è in grado di creare qualsiasi nuova voce di danno. Tutto, o almeno, tutto quel che non è espressa-mente vietato, può dirsi protet-to. Perché allora la responsabi-lità civile non concede tutela a tutto? Verosimilmente perché il criterio di selezione è da indi-viduare al di fuori dell’ordina-mento positivo.

Quarta considerazione. Le regole di responsabilità civile dei paesi occidentali, almeno sul piano operazionale, sono per gran parte sovrapponibili, a pre-scindere dal fatto che si tratti di sistemi di common o civil law. Come è possibile tutto questo attesa la significativa differenza tra gli ordinamenti? Se stiamo a guardare le norme tedesche sulla responsabilità civile, sono profondamente diverse da quel-le italiane. Non stiamo a parlare dei sistemi di common law, che neppure conoscono il nostro concetto di norma. Eppure le soluzioni sono le stesse. Perché? Forse perché le società ed i bi-sogni sono gli stessi, ed è sulla base di questi che si decide.

Quinta considerazione. Fac-ciamo un passo oltre il mondo dei giuristi. Solo noi siamo abi-tuati a credere che il diritto sia un’entità a sé, in grado di auto-sostenersi. A parte le conclusio-ni, forse esagerate, della critica marxista che vede nel diritto una mera sovrastruttura, è fuor di discussione che di norma è la realtà a piegare il diritto, e non il diritto a piegare la realtà. Perché allora ritenere che nel mondo della responsabilità civile ope-rino delle regole diverse, e che il riconoscimento di una nuova voce risarcitoria dipenda da al-

chimie concettuali anziché dalla spinta della vita di tutti i giorni?

Ma se alla base di tutto sta un crittotipo, restando il richiamo alle norme positive come mera regola declamatoria, non è che noi giuristi siamo incorsi pro-prio in quell’errore logico - me-todologico sul quale implacabi-le si sarebbe abbattuto il rasoio di Ockham? Non è che abbiamo creato degli enti -- il richiamo, diretto od indiretto, a norme positive nella determinazione dell’ingiustizia -- assolutamente inutili?

Gran parte della dottrina ri-tiene che il richiamo alle norme positive sia utile, perché per-mette di prevenire possibili ar-bitri dell’interprete.

Come a dire: sappiamo che si decide in virtù di conside-razioni più socio-economiche che strettamente normative, ma siccome noi non ci fidiamo più di tanto dei giudici, e tantome-no degli avvocati, vale la pena porre qualche paletto, e dire che risarcibili sono solo i danni più o meno direttamente contempla-ti dall’ordinamento.

Ma un simile ragionamento reggerebbe, ed escluderebbe un’inutile moltiplicazione dei concetti se veramente questo paletto fosse indispensabile e se valesse a delimitare l’area del risarcibile.

Però, questo è il problema, il nostro paletto normativo non è indispensabile e tanto meno ha una vera efficacia selettiva.

Che non sia indispensabi-le per selezionare i danni lo si avverte già avendo riguardo al nostro ordinamento. Perché non ci si avvede una volta per tutte che l’art. 2043 c.c. individua una vera clausola generale, che come tutte le clausole generali (buona fede, equità, correttezza, etc.) esige di essere riempita di contenuti mediante il ricorso a criteri extralegali?

Se ci fidiamo dei giudici quan-do si tratta di definire quando un comportamento sia corretto, senza pretendere che si rifaccia-no ad indici normativi, perché non fidarsi di loro quando si tratta di definire se un danno è ingiusto?

Invero, il richiamo all’ordi-namento positivo per riempire

di contenuti l’ingiustizia è so-vrabbondante, contrasta con la prassi seguita nell’interpreta-zione di altre clausole generali e, soprattutto, contrasta con la stessa funzione delle clausole generali.

Ma che il nostro “paletto” normativo non sia indispensa-bile lo si comprende con ancor maggior evidenza varcando i confini della provincia italica ed approdando in uno dei paesi di common law, gli Stati Uniti, ad esempio. Questi paesi non co-noscono nulla di simile al nostro

ordinamento positivo, eppure si rivelano perfettamente adegua-ti a fronteggiare i problemi di selezione dei danni risarcibili. Anzi, sovente i loro ordinamenti si rivelano ancor più pronti del nostro ad affrontare eventuali problemi di overcompensation, e ciò in virtù di un’indiscutibile maggior elasticità. I giudici non impazziscono, e gli arbìtri non sono molti più, né molti meno di quelli ai quali si assiste nei nostri ordinamenti.

Il richiamo a norme positi-ve che tutelino direttamente o indirettamente l’interesse leso non è quindi indispensabile per selezionare i danni. Ma non è nemmeno un criterio dotato di un’autentica efficacia selettiva. Abbiamo già visto come, con un minimo di fantasia e conoscen-za dell’ordinamento, chiunque riesca a creare interessi almeno indirettamente protetti.

In altre parole, non solo il no-stro criterio non appare necessa-rio, ma non è nemmeno idoneo ad assolvere una funzione selet-tiva.

Evidente, pertanto, come il richiamo alle norme positive si traduca in una mera, disecono-mica, moltiplicazione di enti.

Quindi: si è detto che il giudi-ce, nel selezionare gli interessi riparabili in via aquiliana, fa ri-corso ad un crittotipo, ossia ap-plica criteri extralegali di natura socio-economica, sebbene sul piano declamatorio affermi la regola della risarcibilità dei soli interessi direttamente o indiret-tamente tutelati dall’ordinamen-to positivo. Questa scissione tra regole declamatorie e regole operazionali (quelle fondate sul crittotipo) è a prima vista dise-conomica, in quanto si traduce in un’inutile moltiplicazione de-gli enti. Si viene a creare cioè un ente intermedio -- il necessario richiamo alle norme positive -- che è privo di peso concreto, rimanendo la selezione affidata alla rilevanza socio-economica dell’interesse leso e, soprattutto, che sarebbe comunque privo, per la sua genericità, di qualun-que valenza selettiva.

Ed allora, partendo da Gu-glielmo di Ockham e passando per gli Stati Uniti, il modesto consiglio che questo pratico si sente di dare è quello di ricono-scere che decidiamo perché ab-biamo in mente la vita, e non le vuote formule normative.

Sveliamo il crittotipo, am-mettiamo che il danno è ingiusto quando tale appare sul piano so-ciale ed economico. Così potre-mo ragionare molto più sui reali effetti delle nostre scelte, e la responsabilità civile sarà anco-ra più adeguata a rispondere sia alle esigenze di compensation che alle esigenze selettive.

L’opinione personale di un pratico sull’ingiustizia

Tra Guglielmo di Ockham e gli Stati Uniti d’America: cenni ad una possibile sistemazione alternativa dell’ “ingiustizia”Verso criteri extralegali per la selezione dei danni risarcibili?

La citazioneErasmo da Rotterdam, Elogio della follia

Fra gli eruditi i giuristi rivendicano senz’altro per sé il primo posto e nessun altro riesce a compiacersi di sé come loro mentre rotolano assiduamente il macigno di Sisifo e mettono assieme seicento leggi senza pren-dere fiato – la coerenza alla causa è l’ultima cosa che importa – e ammucchiando glosse su glosse, opinioni su opinioni, fanno sembrare quella disciplina la più dif-ficile di tutte. Infatti credono che tutto ciò che costa fatica sia senz’altro nobile e meritorio.

— Battute celebri —

Dal film “Il cavaliere della valle solitaria”Regia di Gorge Stevens, USA, 1953

Quando parli di diritti, tu intendi dire che hai il diritto di non riconoscere quelli degli altri.

(Il contadino Van Heflin all’allevatore Emile Meyer)