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MASSIMO MIGLIETTA « SERVIUS RESPONDIT » Studi intorno a metodo e interpretazione nella scuola giuridica serviana – Prolegomena I – 2010

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MASSIMO MIGLIETTA

« SERVIUS RESPONDIT »

Studi intorno a metodo e interpretazione nella scuola giuridica serviana

– Prolegomena I –

2010

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO

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2010

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Pubblicazione finanziata dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Trento e dal progetto di ricerca locale:

‘Storia e metodo del pensiero giuridico europeo’ (Macroprogetto Area 4, responsabili: Maurizio Manzin, Diego

Quaglioni, Gianni Santucci e Massimo Miglietta).

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

© Copyright 2010 by Università degli Studi di Trento Via Belenzani 12 - 38122 Trento

ISBN 978-88-8443-326-8 ISSN 1972-1137

La prima edizione di questo libro © Copyright 2010 by Università degli Studi di Trento, Via Belenzani 12 - 38122 Trento, è pubblicata con

Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License. Maggiori informazioni circa la licenza all’URL:

<http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/>

Giugno 2010

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A Laura,

con amore

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INDICE

Pag. Parte prima. Introduzione .............................................................................

1

Capitolo I. Servio nelle testimonianze di Cicerone e di Pomponio

1.1. L’acquisizione del ‘metodo dialettico’ da parte di Servio Sulpicio Rufo e la sua valorizzazione nell’attività del ‘responde-re’ in Cic., Brut. 40.150-42.156....................................................

38 1.2. Continua: la nozione di ‘ambiguitas’ in Cic., De inv. 2.40.116; suo inserimento sistematico e sue implicazioni per l’in-terpretazione dei fenomeni giuridici...............................................

62 1.3. Continua: le attività del ‘videre’, del ‘distinguere’, del ‘ha-bere regulam’ e le finalità del metodo descritto da Cicerone...

70

2. Elementi critici intorno alla figura e all’attività di Servio de-sumibili da Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178].......

86

3.1. Il giudizio intorno alla elaborazione serviana e muciana, at-traverso il tenore delle citazioni, nel resto della produzione di Pomponio: a proposito di Servio ...................................................

134 3.2. Continua: a proposito di Quinto Mucio................................... 159 4. Conclusioni e prospettive d’indagine ........................................ 184 Parte seconda. Capitolo II. Materiali per una palingenesi serviana

1. Premessa. Valore e limiti dell’impostazione bremeriana (rin-vio) .................................................................................................

205

2. Passi con citazione espressa di Servio caratterizzati dalla struttura tripartita ‘casus – quaestio iuris – responsum’...............

216

3. Passi con parziale caduta della tripartizione retti dal verbo ‘respondere’....................................................................................

227

4. Continua: un frammento singolare retto dal verbo ‘aiere’........ 287

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INDICE

VI

5. Frammenti con assenza di tripartizione e retti da verbi diversi da ‘respondere’...............................................................................

289

6. Squarci di elaborazione serviana............................................... 358 7. Testimonianze serviane nelle fonti letterarie.............................. 458 8. Le integrazioni bremeriane......................................................... 488 9. Continua: indizi di attribuzione pervenuti attraverso l’opera dei giuristi bizantini d’epoca giustinianea Doroteo e Stefa-no.....................................................................................................

516 10. Tavole sinottiche e di sintesi dei risultati raggiunti................. 529

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PARTE PRIMA

INTRODUZIONE

1. Alcune annotazioni preliminari sono senz’altro opportune,

per quanto possa apparire, in qualche misura, una sorta di ‘clausola

di stile’ voler illustrare le ragioni sottese ad una nuova indagine sulla

giurisprudenza romana 1 e, in particolare, per quanto riguarda questi

1 Per uno sguardo d’insieme circa gli studi più recenti, pubblicati, cioè, a partire

dall’anno 2000 — che, come si può notare, spaziano dalla scienza giuridica tardore-pubblicana all’epoca dei Severi — oltre alla seconda edizione del classico di T. HO-

NORÉ, Ulpian, Oxford-New York, 2002 (a cui, rispetto alla prima, è stato aggiunto il sottotitolo, non particolarmente felice poiché anacronistico, ‘Pioneer of Human Rights’, con interventi di S. BENOIST, Rec., in « Rev. hist. », CXXVII, 2003, pp. 435 e s.; ancora, di W. WALDSTEIN, Rec., in « TR. = RHD. », LXXI, 2003, pp. 436 e ss. e di G. CRIFÒ, Rec., in « ZSS. rom. Abt. », CXXII, 2005, pp. 280-287; quanto alla stessa categoria di ‘diritti umani’ nel mondo antico rimando, da ultimo, ad E. STOLFI, Al tramonto del ‘diritto naturale classico’: ‘ius naturale’ e ‘ius gentium’ in una ‘quaestio’ di san Tommaso, pp. 5421-5422 [e nt. 1, per letteratura]), e alle pagine di A. GUARINO, I libri iuris partiti di Ofilio, in « Iurisprudentia universalis. Festschrift für Theo Mayer-Maly », Köln-Weimar-Wien, 2002, pp. 255 e ss., si vedano: T. MA-

SIELLO, Le ‘Quaestiones’ di Cervidio Scevola, Bari, 2000 (con E. DOVERE, Rec., in « SDHI. », LXVIII, 2002, pp. 640 e ss.) ed ID., Le ‘Quaestiones publice tractatae’ di Cervidio Scevola, Bari, 2004; C. ZÜLCH, Der liber singularis responsorum des Ul-pius Marcellus, Berlin, 2000 (su cui D. LIEBS, Rec. in « ZSS. rom. Abt. », CXX, 2003, pp. 243 e ss); E. DOVERE, ‘De iure’. Studi sul titolo I delle epitomi di Ermoge-niano, Torino, 2001, quindi ID., ‘De iure’. L’esordio delle epitomi di Ermogeniano, II ed., Napoli, 2005; G. NEGRI, Appunti sulle ‘antologie casistiche’ nella letteratura giuridica dell’età dei Severi. I ‘libri disputationum’ di Ulpiano, in « Cunabula iuris. Studi storico giuridici per Gerardo Broggini », Milano, 2002, pp. 263 e ss.; A. LO-

VATO, Studi sulle ‘disputationes’ di Ulpiano, Bari, 2003; intorno ai lavori di Dovere e di Lovato rinvio, rispettivamente, alle osservazioni di E. STOLFI, Pensiero ‘epiclas-sico’ e problemi di metodo, in « Labeo », XLVIII, 2002, pp. 417 e ss. (nonché la ‘segnalazione’ di F. CUENA BOY, Rec., in « Sem. Compl. », XVII, 2005, pp. 216 e

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s.); A. CENDERELLI, Rec. a Dovere, ‘De iure’, II ed., pp. 220 e ss., ed ancora STOLFI, I ‘libri disputationum’ di Ulpiano e la storiografia sulle opere dei giuristi romani [in « RDR. », III, 2003 – online]; E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pompo-nio, I. Trasmissione e fonti, Napoli, 2002 e ID., Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pom-ponio, II. Contesti e pensiero, Milano, 2002 (con E. BUND, Rec., in « ZSS. rom. Abt. », CXXII, 2005, pp. 271-279); M.D. FLORÍA HIDALGO, Quintus Cervidius Scae-vola: similitudines responsorum, in « SDHI. », LXX, 2004, pp. 345 e ss.; M. AVE-

NARIUS, Der pseudo-ulpianische ‘liber singularis regularum’. Entstehung, Eingenart und Überlieferung einer hochklassischen Juristenschrift. Alalyse, Neuedition und deutsche Übersetzung, Göttingen, 2005; C. GIACHI, Studi su Sesto Pedio. La tradi-zione, l’editto, Milano, 2005; S. RONCATI, Caio Ateio Capitone e i ‘Coniectanea’ (Studi su Capitone, I), in « SDHI. », LXXI, 2005, pp. 271 e ss.; A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, 2005 (ove l’Autore recupera, talora anche in forma integrale, riflessioni e giudizi già espressi nella precedente produzio-ne monografica dedicata alla giurisprudenza romana): vd., in proposito, A. GUARI-

NO, Padre Zappata e la ‘lex regia’, p. 7; L. LABRUNA, La grande invenzione, pp. 3 e ss.; GIACHI, L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 311 e ss., nonché, criticamen-te, F. GALLO, Travisamento del lascito del diritto romano, pp. 2007 e ss.; per contro, invece, con ampi squarci elogiativi dell’opera, F. AMARELLI – F.M. DE SANCTIS –

F.M. D’IPPOLITO – D. MANTOVANI, Ius. Quattro esercizi di lettura, pp. 315 e ss.; E. STOLFI, La genealogia – il potere – l’oblio, l’inattuale e l’antico. A proposito di al-cune recenti pubblicazioni, pp. 483 e ss. (vd. ancora le pagine dedicate al lavoro del-lo Schiavone nell’intelligente volume di A. CARANDINI, Sindrome occidentale. Con-versazione fra un archeologo e uno storico sull’origine a Roma del diritto, della politca e dello stato, pp. 97-99 [capitolo XVI, intitolato, appunto, ‘Uscendo da Giu-risprudenza (presentazione del libro di Schiavone)’], con anticipazione a p. 98); a modo di semplice indicazione ricognitiva (e astenendomi da un giudizio sul merito, che potrebbe essere severo): G. MORGERA, Studi su Masurio Sabino, Napoli, 2007. Da segnalare, finalmente, l’ampio lavoro a firma di J.G. WOLF, Die Doppelüberlie-ferungen in Scaevolas Responsenwerk, in « SDHI. », LXIII, 2007, pp. 3 e ss. e ID., Die Scaevola-Responsen in Paulus’ libri ad Vitellium, in « Studi per Giovanni Nico-sia », VIII, pp. 435 e ss. (oltre, in generale, i lavori della LIX sessione della SIHDA. — nonostante il fatto che non tutte le relazioni siano state prive di ‘eccentricità’ ri-spetto al tema generale — intorno a cui si vedano M. ARMGARDT, La réponse des juristes et des experts à la pratique du droit. LIX session de la “SIHDA” (Bochum, 20-24 settembre 2005), in « IVRA », LV, 2004-2005, pp. 480 e ss., nonché A. HI-

RATA, 59ème Session de la Societé Fernand De Visscher pour l’Histoire des Droits de l’Antiquité. La réponse des juristes et des experts à la pratique du droit. Bochum, 20-24 settembre 2005, in « Diritto@Storia », IV, 2005, p.web ‘cronache’). Possono essere segnalati, infine, due recenti lavori, non privi di elementi di pregio, che, pur non dedicati espressamente allo studio della scienza giuridica romana, incentrano la

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INTRODUZIONE

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studi, sull’attività facente capo al ‘princeps vir’ 2 Servio Sulpicio Ru-

fo 3.

loro attenzione intorno a profili ermeneutici e metodologici tipici di determinati iuri-sprudentes: alludo a Y. GONZÁLES ROLDÁN, Il senatoconsulto ‘Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum’ nella lettura di Ulpiano, Bari, 2008 e — di pros-sima pubblicazione — U. BABUSIAUX, Recth und Rhetorik – Zur juristische Methode in Papinians ‘Quaestiones’, [Habilitationsschrift] Universität des Saarlandes, 2009.

2 Così, come ricordato ancora, a distanza di poco più di un secolo dalla scompar-sa dello stesso giurista, da Plin., N.H. 28.5.26 (sulla fonte vd. infra, cap. II, § 7, frg. F .4 . ). Va subito precisato che non si può estendere alla ‘scuola di diritto’ di Servio la definizione di ‘secta’, per le ragioni illustrate da E. STOLFI, ‘Plurima inno-vare instituit’. Spunti esegetici intorno al confronto tra Labeone e Capitone in D. 1.2.2.47 (Pomp. lib. sing. ench.), passim. Vd., infatti, il noto riferimento a Capi-tone e a Labeone di Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.47 [= Pal. Pomp. 178] — così come Pap. I resp, D. 50.5.8.4 [= Pal. Pap. 393] alludeva a quelle dei filosofi — e, con lec-tio incerta (così « VIR. », V, col. 293, lin. 5: il termine, infatti, è omesso, e.g., nella celebre edizione di G. HUGO, Iulii Pauli sententiarum receptarum ad filium libri quinque ex Breviario alariciano, p. 107), anche Paul. Sent. 5.21.2 (qui in senso dete-riore, come di vere e proprie ‘sètte’ di tipo mistico-religioso, attratte dal giudizio negativo espresso nel precedente § 1 circa i vaticinatores ed i mathematici).

3 È noto, ad esempio, e come evidenziato da M. BRETONE, Diritto e tempo nella tradizione europea 4, p. 221, che il Jörs, per redigere la sua Römische Rechtsgeschi-chte, proprio « da lui [= Servio] era partito nelle [...] ricerche ». Oltre alle numerose trattazioni contenute nella manualistica (cui si fa un generico rinvio: per la più re-cente vd., però, in Italia, L. FASCIONE, Storia del diritto privato romano 2, pp. 68-69, nonché L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Storia di Roma tra diritto e potere, pp. 192 e ss., e all’estero, e.g., J.E. SPRUIT, Cunabula iuris. Elementen van het Romeinse privaa-trecht, pp. 24 e, in particolare, 25-26), ritengo sia opportuno segnalare quanto è stato prodotto direttamente sulla figura e sull’attività del nostro giurista. In effetti, nella varie opere, spesso le indicazioni bibliografiche non sono esaustive o, in alcuni casi, risultano essere parziali. Va da sé che, quanto elencato di séguito, racchiude opere di differente natura e impostazione, riportate secondo l’ordine cronologico, che si è preferito per consentire di avere l’idea dello sviluppo, nelle varie epoche, della dot-trina moderna e contemporanea. Si va da lavori di gusto, talora, prettamente antiqua-rio, a quelli di marchio prosopografico, ad altri, ancora, di carattere generale (sulla giurisprudenza romana o sulla storia delle fonti, in particolare). Ciò premesso, si ve-dano: I.V. GRAVINA, Originum juris civilis libri tres et de romano imperio liber sin-gularis, pp. 45-46; E. OTTO, De vita, studiis, scriptis et honoribus Servii Sulpicii, Lemonia, Rufi, coll. 1555 e ss. (circa il nome ‘Sulpicius Rufus Lemonia’, cfr. E. BA-

DIAN, Notes on Roman Senators of the Republic, pp. 140-141, per cui vd. Cic., Phil.

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9.7.15 e, con varie imprecisioni, Ios. Flav., Ant. 14.220); A. TERRASSON, Histoire de la jurisprudence romaine, pp. 231-234; I.A. BACH[IUS], Historia iurisprudentiae romanae, pp. 249-250; A.G. BOUCHER D’ARGIS, s.v. ‘Digeste (Hist. anc. & Jurisp.)’, p. 35; R.J. POTHIER, Praefatio seu Prolegomena in Pandectas Justinianeas, in ID., Pandectae Justinianeae, I, pp. XXII-XXIII; S.W. ZIMMERN, Geschichte des römi-schen Privatrechts bis Justinian, I.1, pp. 290 e ss.; R. SCHNEIDER, Quaestionum de Servio Sulpicio Rufo iurisconsulto romano specimina I-II; ANON., Compendio stori-co e cronologico del diritto romano. Traduzione dall’inglese con note e schiarimen-ti, pp. 86 e ss. [in realtà, a quanto mi consti, dovrebbe trattarsi della traduziona di un’opera dello Sbyschonberg, professore ad Oxford, con annotazioni dello Sto-ckman]; G. PADELLETTI – P. COGLIOLO, Storia del diritto romano, pp. 428 e ss. (in particolare); E. HUSCHKE, Kritische Miscellen, I. Servius Sulpicius bei Gell. 4, 4, pp. 315 e ss.; F.D. SANIO, Zur Geschichte der römischen Rechtswissenschaft. Ein Prole-gomenon, pp. 54 e ss.; R.J.L. DE GEER, Servius Sulpicius Rufus, pp. 637-659; G. MANTELLINI, Papiniano. Relazione sulle avvocature erariali 2, pp. 43-44; L. CECI, Le etimologie dei giureconsulti romani, pp. 79 e ss.; F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 139 e ss.; H. HEUMANN – E. SECKEL, Handlexi-kon zu den Quellen der römischen Rechts 10, p. 538, s.v. ‘Servius Sulpicius’ (in estrema sintesi); E. VERNAY, Servius et son École, passim, con P. HUVELIN, Rec., pp. 466 e ss. e H. PETERS, Rec., pp. 463 e ss.; W. STERNKOPF, Die Verteilung der römi-schen Provinzen vor dem mutinensischen Kriege, pp. 329-330 e 333 (ivi, la ‘Tabel-le’); P. KRÜGER, Geschichte der Quellen und Literatur des römischen Rechts 2, p. 66 (con C. FERRINI, Rec., pp. 230 e ss. = ID., Opere, V, pp. 436 e ss.); C.G. BRUNS – O. LENEL, Geschichte und Quellen des römischen Rechts, pp. 344-345; C. ARNÒ, Scuo-la muciana e scuola serviana, pp. 46 e ss.; ID., La grande influenza del ‘liber de do-tibus’ di Servio, pp. 220 e ss.; cfr. anche ID., Le due grandi correnti della giurispru-denza romana, pp. 1 e ss.; F. MÜNZER, Römische Adelsparteien und Adelsfamilien, pp. 405 e ss.; ID., s.v. ‘Sulpicius (Rufus)’, coll. 851 e ss.; C. SAUNDERS, The Political Simpathies of Servius Sulpicius Rufus, pp. 110 e ss.; B. KÜBLER – F. MÜNZER, s.v. ‘Ser. Sulpicius Rufus [95]’, coll. 851 e ss.; B. KÜBLER, Griechische Einflüsse auf die Entwicklung der römischen Rechtswissenschaft gegen Ende der republicanischen Zeit, pp. 79 e ss. (pp. 96 e ss., in particolare); G. LA PIRA, La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. Problemi generali, pp. 159 e ss. (pp. 169 e ss., in particola-re); ID., La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. 2. L’arte sistematrice, pp. 336 e ss. (pp. 341 e 352 e ss., in particolare); ID., La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. Il metodo, pp. 343 e ss. (e 348, in particolare); ID., La gene-si del sistema nella giurisprudenza. 4. Il concetto di scienza e gli strumenti della costruzione scientifica, pp. 131 e ss., passim (pp. 158 e ss., in particolare). Dello stesso Autore va ricordato, inoltre, il lavoro intitolato: Problemi di sistematica e problemi di giustizia nella giurisprudenza romana, p. 24 (in particolare); qualche annotazione (peraltro precisa) anche in E. BICKEL, Geschichte der römischen Litera-

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INTRODUZIONE

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tur, p. 349; E. GROAG, Die römischen Reichsbeamten von Achaia bis Diokletian, p. 6 (coll. I-II); S. DI MARZO, Pro Servio Sulpicio Rufo, pp. 261 e ss.; P. MELONI, Servio Sulpicio Rufo e i suoi tempi, pp. 67 e ss., intorno cui vd. C. LOCKWOOD, Rec., pp. 159 e s.; L. WENGER, Die Quellen des römischen Rechts, pp. 245 nt. 95, 483 e ss., 498 nt. 87; U. VON LÜBTOW, Cicero und die Methode der römischen Jurisprudenz, pp. 231-232; H.J. METTE, Ius civile in artem redactum, pp. 8 e ss. (in particolare); A. BERGER, s.v. ‘Servius Sulpicius Rufus’, p. 704; M. SCHANZ – C. HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur bis zum Gesetzbugswerk des Kaisers Justinian 4, I, pp. 593 e ss.; F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, pp. 56 e passim = ID., Storia della giurisprudenza romana [trad. G. Nocera], pp. 92 e passim; ID., Hi-story of Roman Legal Science, pp. 43 e ss. e passim; G. PIANKO, Korespondency Cyceroniana. Serwius Sulpicjusz Rufus, pp. 16 e ss.; W. KUNKEL, Die Römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung 2 [rist. ed. 1967], pp. 25 e 39; per gli aspetti storici R. SYME, The Roman Revolution, pp. 41 nt. 1, 64 nt. 2, 164, 170 e 197; F. CA-

SAVOLA, ‘Auditores Servii’, pp. 153 e ss. = ID., Giuristi adrianei, pp. 127 e ss. = ID., Sententia legum tra mondo antico e moderno, I. Diritto romano, pp. 29 e ss.; R. O-RESTANO, s.v. ‘Servio Sulpicio Rufo’, pp. 99 e s. [versione ampliata rispetto a quella comparsa in « NDI. », XII.1, pp. 142-143]; A. GUARINO, Servio Sulpicio Rufo e Ma-nilio, pp. 334 e ss. = ID., Iusculum iuris, pp. 130 e ss., e, ancora, ID., Mucio e Servio [edizione fuori commercio]; O. BEHRENDS, Die Wissenschaftslehre im Zivilrecht des Q. Mucius Scaevola pontifex, pp. 273 e ss.; ID., Le due giurisprudenze romane e le forme della loro argomentazione, pp. 200 e ss.; D. LIEBS, Rechtsschulen und Re-chtsunterricht im Prinzipat, pp. 205, 211, 213-214, 218-219 e 223-224; P. STEIN, The Place of Servius Sulpicius Rufus in the Development of Roman Legal Science, pp. 176 e ss.; F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano ed il ‘ius civile in artem redi-gere’, pp. 282 e ss. = ID., Cicerone tra diritto e oratoria. Saggi su retorica e giuri-sprudenza nella tarda Repubblica, pp. 61 e ss. = ID., Lectio sua. Studi editi e inediti di diritto romano, II, pp. 717 e ss.; M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, pp. 63 e ss. e 89 e ss. (in particolare); R.A. BAUMAN, Lawyers in Roman Transitional Politics. A study of the Roman jurists in their political setting in the Late Republic and Triumvirate, pp. 4 ss.; B.W. FRIER, The Rise of the Roman Ju-rists, pp. 144 e ss. (et passim); A. ORTEGA CARRILLO DE ALBORNOZ, Teoria y practica jurisprudencial, pp. 22 e ss.; F. WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I. Einleitung. Quel-lenkunde Frühzeit und Republik, pp. 602 e ss., e 635 e ss.; L. VACCA, La giurispru-denza nel sistema delle fonti del diritto romano. Corso di Lezioni, pp. 69 e ss.; F. D’IPPOLITO, Servio e le XII Tavole, pp. 31 e ss. [ma vd. già ID., Questioni decemvi-rali, pp. 135 e ss., e, in generale, ampio panorama problematico in ID., Le XII Tavo-le: il testo e la politica, pp. 397 e ss.]; ID., Problemi storico-esegetici delle XII Tavo-le, pp. 128 e ss.; D. MANTOVANI, Gli esordi del genere letterario ad edictum, pp. 70 e ss.; F. HORAK, Etica della giurisprudenza, pp. 179 e ss.; V. SCARANO USSANI, Tra

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scientia e ars. Il sapere giuridico romano dalla sapienza alla scienza, nei giudizi di Cicerone e di Pomponio, pp. 253 e ss. [già in « Ostraka », II, 1993, pp. 228 e ss.] = ID., L’ars dei giuristi. Considerazioni sullo statuto epistemologico della giurispru-denza romana, pp. 3 e ss.; A. SCHIAVONE, Linee di storia del pensiero giuridico ro-mano, pp. 97 e ss. (nonché ID., Giuristi e nobili nella Roma repubblicana, pp. 25 e ss. [per cui vd. ID., Pensiero giuridico e razionalità aristocratica, pp. 432 e ss.], e, per i rapporti tra ius civile e ius pontificium, in particolare, ID., I saperi della città, p. 551 e nt. 16), nonché, ultimamente, ID., Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 155 e ss. (pp. 167 e ss., 218 e ss., in particolare); C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I. Dalle origini all’opera di Labeone, pp. 266 e ss.; F. CUENA BOY, Sistema jurídico y derecho romano. La idea de sistema jurídico y su proyección en la experiencia jurídica romana, pp. 70 e ss. (in particolare) nonché, dello stesso Autore, Das Ideal der Rhetorik bei Cicero und das ‘ius civile in artem redigere’ (Nota di lettura a F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano ed il ‘ius civile in artem redigere’ – Deutsche Übersetzung von CH. BALDUS – M. MIGLIETTA) [in « RDR. », VI, 2006 – online]; J. PARICIO, La vocación de Servio Sulpicio Rufo, pp. 549 e ss. = ID., De la justicia y el derecho. Escritos misceláneos romanísticos, pp. 89 e ss.; ID., Valor de las opiniones jurisprudenciales en la Roma clásica, pp. 115 e ss. = ID., De la justicia y el derecho, pp. 193 e ss. (e, per completezza, dello stesso Autore, vd. anche Historia y fuentes del derecho romano 2, pp. 91-92); da segnalare senz’altro, in merito, le pagine di E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pompo-nio, I, pp. 315 e ss. (e vd. anche ID., Die Juristenausbildung in der römischen Repu-blik und im Prinzipat, pp. 19 e ss.); e, da ultimi, P. CANTARONE, Osservazioni sullo studio del diritto nella tarda repubblica romana, pp. 425 e ss.; T. GIARO, s.v. ‘S [ulpicius]. Rufus, Servius’, coll. 1102-1103; A. CASTRO, Crónica de un desencan-to: Cicerón y Servio Sulpicio Rufo a la luz de las ‘cartas ad Ático’, pp. 220 e ss. (in particolare) nonché — contenuta nella ponderosa opera in quattro tomi architettata da R. DOMINGO [ed.], Juristas universales, I. Juristas antiguos — la ‘voce’ di X. D’ORS, Servio Sulpicio Rufo (Servius Sulpicius Rufus) (ca. 106/105-43 a.C.), pp. 129 e ss.; L. VACCA, L’‘Aequitas’ nella ‘interpretatio prudentium’. Dai giuristi ‘qui fundaverunt ius civile’ a Labeone, pp. 31-33, ed ora F. WIEACKER – J.G. WOLF, Rö-mische Rechtsgeschichte, II. Die Jurisprudenz von frühen Prinzipat bis zum Aus-gang der Antike im weströmischen Reich und die oströmische Rechtswissenschaft bis zur justinianischen Gesetzgebung. Ein Fragment, p. 41, nonché, da ultimo, R. MARTINI, La sistematica dei giuristi romani, pp. 87 e ss. (pp. 89-94, in particolar modo). Si vedano, inoltre, le rapide, ma puntuali, voci di G.E. FARQUHAR CHILVER, s.v. ‘Sulpicio [2] Rufo, Servio’, p. 2019 e di F. HORAK, s.v. ‘Sulpicius, 4. Ser. S. Ru-fus’, coll. 428-429 nonché le varie osservazioni di J. HARRIES, Cicero and the Ju-rists. From citizen’s Law to the Lawful State, pp. 117 e ss. et passim (molto interes-santi, anche ai fini di quanto si proporrà, infra, cap. II, op. ult. cit., pp. 122 e ss. — sebbene il lavoro tenda a selezionare in modo netto la letteratura, prediligendo, di

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INTRODUZIONE

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Al contrario, l’indubbio, quanto permanente, fascino eserci-

tato sulla dottrina moderna dal patrimonio scientifico scaturito dalla

elaborazione di questa importante scuola giuridica d’epoca tardore-

pubblicana 4 è testimoniato, con evidenza, da una nutrita serie di con-

tributi dedicati al suo fondatore — il grande amico di Cicerone 5 —

fatto, soltanto quella anglosassone); A. CASTRO SÁENZ, Compendio histórico de de-recho romano. Historia, recepción y fuentes, pp. 218 e ss. (con particolare attenzio-ne a ‘Quinto Mucio Escévola y Servio Sulpicio Rufo: historia de una rivalidad’, te-ma oggetto, infra, in questi studi, del capitolo I); ID., Cuatro cόnsules en la corre-spondencia ciceroniana: Pompeyo, Cicerόn, César y Servio en la hora de la guerra civil, passim; ID., Itinerarios servianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pontifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), pp. 509 ss. (e vd. anche G. KÖBLER, Zielwörterbuch europäischer Re-chtsgeschichte 2, p. 615), nonché G. MOUSOURAKIS, A Legal History of Rome, p. 64 e P. PICHONNAZ, Les fondements romains du droit privé, p. 33 nt. 87. Di recente, si veda l’interesse manifestato da E. GABBA, Per la biografia di Servio Sulpicio Rufo, pp. 397-398 (in un contributo, breve ma particolarmente intenso, che offre un’ipotesi decisamente interessante: vd. infra, cap. I), nonché la ‘scheda’ dedicata al giurista da M. BRUTTI, Il diritto privato nell’antica Roma, p. 642.

4 Di questa i rappresentanti furono — oltre a P. Alfenus Varus — Titius Caesius, Aufidius Tucca, Flavius Priscus, Caius Ateius, Pacuvius Labeo <Antistius>, Cinna, Publicius Gellius, P. Aufidius Namusa ed Aulus Ofilius (cfr. Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.44 [= Pal. Pomp. 178] e, in letteratura, vd. A. PERNICE, Labeo. Das römi-sche Privatrecht im ersten Jahrhunderte der Kaiserzeit, I, p. 7; F. SCHULZ, Geschi-chte der römischen Rechtswissenschaft, p. 56 = ID., Storia della giurisprudenza ro-mana, p. 92; ID., History of Roman Legas Science 2, p. 48; F. CASAVOLA, Auditores Servii, pp. 2-3 = ID., Giuristi Adrianei, pp. 130-132 = ID., Sententia legum tra mon-do antico e moderno, I, Diritto romano, pp. 32-33).

5 Così M. TALAMANCA, Problemi del ‘de oratore’, p. 14. Del resto quello evi-denziato rappresenta un dato comunemente condiviso dagli autori ed espresso con lucidità già da F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 148: « Cicero amicum laudibus efferre nunquam cessavit ». Di Servio quale « amico di gioventù » dell’Arpinate parlano anche, da ultimi, ed e.g., A. EVERITT, Cicerone. Vita e passioni di un intellettuale, p. 119 (e vd. anche p. 319) e A. CASTRO, Crónica de un desencanto: Cicerón y Servio Sulpicio Rufo, pp. 220 nt. 37 e 221, il quale insi-ste sull’aspetto laudatorio legato alla affinità (« ciertamente Cicerón fue amigo de Servio y alabó su categoría jurídica ») nonché l’importante lavoro di M. FUHRMANN, Cicero und die römische Republik. Eine Bibliographie 4, p. 55. Cfr., inoltre, V. SCA-

RANO USSANI, L’ars dei giuristi, pp. 27 e ss., e J. MUÑIZ COELLO, Cicerón y Cilicia.

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e, più in particolare, all’analisi dei ‘digesta’ 6 del cremonese 7 Publio Diario de un gobernador romano del siglo I a. de C., p. 214. Da notare una veloce, ma assai puntale, sottolineatura di B. ALBANESE, Premesse allo studio del diritto romano, p. 99 nt. 63, il quale parlava di Servio come « amico » ma anche come « ri-vale » dell’Arpinate, ciò che traspare — sotto il profilo dei confronti, per così dire, ‘professionali’ — dalle orationes ciceroniane (vd., infatti, Cic., Pro Mur. 11.25-12.26, su cui anche infra, cap. I, nt. 282). Apre il proprio studio con questo profilo (a cui aggiunge C. Trebazio Testa) J. HARRIES, Cicero and the Jurists, p. 11 (‘Introduc-tion’, e vd. anche pp. 19 e 22) e cfr. A. CASTRO SÁENZ, Cuatro cόnsules en la corre-spondencia ciceroniana: Pompeyo, Cicerόn, César y Servio en la hora de la guerra civil, pp. 202-203 = in « Annaeus », II, 2005, p. 334 e K. TUORI, The myth of Quin-tus Mucius Scaevola: founding father of legal science?, p. 246. Nella manualistica vd., recentemente, L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Diritto e potere nella storia di Roma, p. 183.

6 Una selezione dei contributi esplicitamente dedicati a testi alfeniani, infatti, of-fre la misura dell’interesse suscitato sulla dottrina moderna dalla riflessione dell’auditor Servii (altri contributi verranno indicati, ovviamente, nelle sedi oppor-tune): cfr., infatti ed e.g., P. HUVELIN, Sur un texte d’Alfenus Varus (Dig. 9, 2, fr. 52, 1), pp. 559-571; E. DE SANTIS, Interpretazione del fr. 31 D. 19.2 (Alfenus libro V a Paulo epitomatorum), pp. 86-114 e, sullo stesso passo [= Pal. Alf. 71], v. anche A. WILIŃSKI, D. 19.2.31 und die Haftung des Schiffers im altrömischen Seetransport, pp. 353 e ss. (con letteratura a pp. 353-354 nt. 1); G. CERVENCA, In tema di locatio-conductio (a proposito di un recente studio), pp. 8-9 (intervento relativo a L. AMI-

RANTE, Ricerche in tema di locazione, pp. 66-74, sul punto, il quale si occupa anche di Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.2.30.3 [= Pal. Alf. 54], a pp. 74-78); F.M. DE RO-

BERTIS, D. 19.2.31 e il regime dei trasporti marittimi nell’ultima età repubblicana, pp. 92-109 = in «Riv. Dir. Navig.», XXXI.1, 1965, pp. 42-63, J.A.C. THOMAS, Tra-sporto marittimo, locazione ed ‘actio oneris aversi’, pp. 223-241, W. LITEWSKI, Le dépôt irrégulier, pp. 227-234; N. BENKE, Zum Eingentumswerb des Unternehmers bei der ‘locatio-conductio irregularis’, pp. 191-214; A. METRO, Locazione e acqui-sto della proprietà: la c.d. locatio-conductio ‘irregularis’, pp. 204-213 (sempre su D. 19.2.31), nonché S. BELLO RODRIGUEZ, La responsabilidad del naviero en el transporte de mercancías según D. 19.2.31, pp. 45 e ss.; P.W. DUFF, An Arrange-ment concerning Shortage of Measure, and Pacts in General, pp. 64-67, in partico-lare) e B. BISCOTTI, Il mercante e il contadino, pp. 368-391, dedicati ad Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 18.1.40 pr. [= Pal. Alf. 62]; U. VON LÜBTOW, Die Haftung des Pä-chters, pp. 369-373; M. SARGENTI, Osservazioni su D. 41.1.38 in rapporto alla teo-ria dell’alveo abbandonato, pp. 359-365 (e vd. anche ID., Il regime dell’alveo dere-litto nelle fonti romane, pp. 195-273); A. WATSON, D. 28.5.45 (44): An unprincipled Decision on a Will, pp. 377-391; S. SOLAZZI, Alfeno Varo e il termine ‘dominium’, pp. 218-219 = ID., Scritti di diritto romano, VI, pp. 628-630; W. HOFFMANN-RIEM,

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Die Custodia-Haftung des Sachmieteres untersucht an Alf./Paul. D.19.2.30.2, pp. 394-403; G. GROSSO, Postilla su Orazio, Ars. poet., 128-130, pp. 589-592 = ID., Scritti storico giuridici, III. Diritto privato, persone, obbligazioni, successioni, pp. 757-760 (con riferimento ad Alf. III dig. a Paul. epit., D. 33.10.6 pr. [= Pal. Alf. *60]); A. POLACEK, Strukturalismus in der Rechtsgeschichte. Methode oder Illusi-on?, pp. 44-45 (su Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 40.7.14 pr. [= Pal. Alf. 18]); S. TA-

FARO, ‘Causa timoris’ e ‘migratio inquilinorum’ in un responso serviano, pp. 49-65 (che riguarda Alf. II ab anon. epit., D. 19.2.27 [= Pal. Alf. 15]), su cui v. anche A. GUARINO, Inquilini che scappano [in ID., Iusculum iuris], pp. 201-204; A. BÜRGE, Vertrag und personale Abhängigkeit in Rom der späten Republik und der frühen Kaiserziet, pp. 112-114, con riferimento ad Alf. V dig. a Paul. epit., D. 13.7.30 [= Pal. Alf. 70]); M.R. DE PASCALE, Una esegesi di D. 11.3.16, pp. 3021-3026; M.J. GARCÍA GARRIDO – L.-E. DEL PORTILLO FERNANDEZ, El lago de Rutilia Paola, pp. 2761-2769; C. CASTELLO, D. 50.16.203 - Un passo di Alfeno Varo in tema di esen-zione dal ‘portorium’, pp. 101-113 (che è relativo ad Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 50.16.203 + D. 34.2.28 [= Pal. Alf. 29]; sul passo vd. anche F. BONA, Le ‘societates publicanorum’ e le società questuarie nella tarda repubblica, pp. 45-46 = ID., Lectio sua, I, pp. 455-456); F. EUGENIO, Flumen viam sustulit: PotamÕj ÐdÕn ¢felÒmenoj (Dig. 41.1.38: Bas. 50.1.37. Dos textos coincidentes), pp. 409-415 (contributo, pe-raltro, interessante, ma non irresistibile); J.E. SPRUIT, Nocturne. Een exegese van Alfenus D. 9, 2, 54, 2 [ma, in realtà, si tratta di D. 9.2.52.1] vanuit sociologisch perspectief, pp. 312-328, riproposto, in traduzione tedesca (e con citazione esatta della fonte citata nel titolo), in ID., Nocturne: eine Auslegung von Alfenus D. 9.2.52.1 aus soziologischer Sicht, pp. 247-262, e sullo stesso passo vd. ora, da ulti-mo, C. KRAMPE, ‘Tabernarius consulebat – Alfenus respondit’ – D. 9,2,52,1 Alfenus 2 digestorum, pp. 133 e ss. (autore anche di Alfenus D. 9,2,52 pr. – Ein Rechtsguta-chten – pp. 246 e ss.); M.J. GARCÍA GARRIDO, Due tradizioni testuali (Alfeno Varo e Ulpiano) sui danni causati da quadrupedes, pp. 159-161; G. NEGRI, Un esempio di organizzazione sistematica dell’esperienza scolastica serviana, pp. 121 e ss. (incen-trato su Alf. II ab anon. epit., D. 8.5.17 [= Pal. Alf. 4]); B. BISCOTTI, Dal ‘pacere’ ai ‘pacta conventa’. Aspetti sostanziali e tutela del fenomeno pattizio dall’epoca arcai-ca all’editto giulianeo, pp. 333-424 (cfr., in particolare, cap. V – L’istituto pattizio nel I secolo a.C., attraverso i ‘Digesta’ di Alfeno Varo): ivi si analizzano i frammen-ti contenuti in Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 40.1.6 [= Pal. Alf. 17]; Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.2.30.4 [= Pal. Alf. 54]; Alf. ibid., D. 23.4.19 [= Pal. Alf. 57] ed Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 18.1.40 pr. e 3 [= Pal. Alf. 62]); A. TRISCIUOGLIO, Sull’interpretatio alfeniana pro locatore in D.19.2.29, pp. 581-610, di cui si dirà ampiamente nella parte III di questi ‘studi’. Si veda ancora: C. KRAMPE, Eine Ausle-gungs-distinctio Alfens: D. 17.2.71 pr. Paulus 3 epitomarum Alfeni digestorum, pp. 375 e ss., lavoro dedicato al complesso, quanto discusso, caso relativo al chiarimen-to degli effetti (novatori e, quindi, della conseguente legittimazione, o meno,

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Alfeno Varo 8. Quest’ultimo, infatti, è stato l’autore di un complesso all’esperimento dell’actio pro socio) di una stipulatio intervenuta tra i « duo » i qua-li, già in un precedente pactum conventum societatis, « societatem coierunt, ut grammaticam docerent » e, da ultimo, O. LICANDRO, Domicilium: ‘emersione’ di un istituto, pp. 1 e ss. [online] (ancora espressamente su Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 50.16.203 + D. 34.2.28 [= Pal. Alf. 29]) nonché, dello stesso Autore, Domicilium habere. Persona e territorio nella disciplina del domicilio romano, pp. 1 e ss. Per quanto concerne, invece, i ‘responsa’ alfeniani riportati da altri giuristi, si vedano, sempre a titolo d’esempio, F. DE MARTINO, D. 8.5.8.5: i rapporti di vicinato e la ti-picità delle servitù, pp. 136 e ss. = ID., Diritto, economia e società nel mondo roma-no, I, pp. 521 e ss. (non sfiora, invece, l’inciso dedicato ad Alfeno — e contenuto, appunto, in Ulp. XVII ad ed., D. 8.5.8.5 [= Pal. Ulp. 601; Pal. Alf. 76] — il lavoro di G. VAN DEN BERGH, Cheese or Lavender? Elegantiae circa D 8.5.8.5, pp. 185 e ss.), e, infine, A. D’ORS, Un episodio jurídico de la guerra Sertoriana, pp. 269 e ss. (a proposito di Paul. IX ad ed., D. 3.5.20 pr. [= Pal. Paul. 191; Pal. Alf. 3]). Diversi testi alfeniani sono citati, ad esempio, anche nella Inaugural Lecture edinburghese (1969) di A. WATSON, Limits of Juristic Decision in the Later Roman Republic, pas-sim, e, soprattutto, da ultimo, vd. A. MANTELLO, Natura e diritto da Servio a Labeo-ne, pp. 201 e ss. (220 e ss., in particolare). Si veda, ancora, il contributo di Á. D’ORS, ‘Familiam non habere’ (D. 28, 5, 46 [45]), pp. 511 e ss.

7 Così, tradizionalmente, da pseudo-Acro et Porphyr., Comment. in Q. Hor. Fl., in serm. 1.3.130: « Urbane autem Alphenum Varum Cremonensem deridet, qui a-biecta sutrina, quam (abiecto sutrino, quod?) in municipio suo exercuerat, Romam petiit magistroque usus Sulpicio iuris consulto ad tantum [dignitatis] pervenit, ut consulatum gereret et publico funere efferretur » [ed. F. Hauthal, pp. 72-73]. Vd. — oltre a V. LANCETTI, Di P. Alfeno Varo cremonese console romano dissertazione, p. 4 (e, e.g., a T. FRANK, Catullus and Horace on Suffenus and Alfenus, p. 160) — P. JÖRS, s.v. ‘P. Alfenus Varus’, col. 1472, e, da ultimi, H.-J. ROTH, Alfeni Digesta. Ei-ne spätrepublikanische Juristenschrift, pp. 17-18, nonché A. CASTRO SÁENZ, Catulo y Alfeno Varo. Ecos de un jurista en la poesía latina del siglo I a.C.: del ‘corpus’ catuliano a los ‘Sermonum’ de Horacio, p. 527.

8 Intorno alla figura e all’opera di Alfeno si vedano, in particolare e con conside-razioni analoghe rispetto a quelle svolte supra, nt. 3 (a proposito di Servio), I.V. GRAVINA, Originum juris civilis libri tres et de romano imperio liber singularis, p. 48; E. OTTO, P. Alfenus Varo. Ab injuriis veterum et recentiorum liberatus, coll. 1633 e ss.; V. LANCETTI, Di P. Alfeno Varo cremonese console romano dissertazio-ne, passim; S.W. ZIMMERN, Geschichte des römischen Privatrechts, I.1, pp. 295 e ss.; F.D. SANIO, Zur Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, pp. 84 e ss.; L. CECI, Le etimologie dei giuristi romani, pp. 89 e s.; F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 280 e ss.; P. JÖRS, s.v. ‘P. Alfenus Varus’, coll. 1472 e ss.; O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I. Staatsrecht und Rechtsquel-

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len, pp. 485 e s.; B. KÜBLER, Geschichte des römischen Rechts, pp. 21 (per il com-mentario alla lex XII Tabularum) e 139; G. SEGRÈ, Miscellanea, p. 36; B.W. FRIER, The Rise of the Roman Jurists, pp. 255 e ss.; A. ORTEGA CARRILLO DE ALBORNOZ, Teoria y practica jurisprudencial, p. 24; F. WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte, I, pp. 607 e ss. (ed ora F. WIEACKER – J.G. WOLF, Römische Rechtsgeschichte, II, p. 29); G. STROUX, Summum ius summa iniuria. Un capitolo concernente la storia del-la interpretatio iuris (Versione dal tedesco di G. Funaioli, con Prefazione di S. Ric-cobono), pp. 679-670, ove si nega, in particolare, che Servio appartenesse al pensie-ro stoico (vd. E. BUND, Rahmenerwägungen zu einem Nachweis stoischer Gedanken in der römischen Jurisprudenz, pp. 133-134 e 145; su questo aspetto vd. anche F. HORAK, Rec. ad A. Mantello, Beneficium servile, p. 165 nt. 7, ma cfr. R. REGGI, L’interpretazione analogica in Salvio Giuliano (II), p. 470 nt. 18 e J.A.C. THOMAS, Form and Substantiam, p. 157 e nt. 40). Così, infatti, mi pare indichi anche Alf. VI dig. ab anon. epit., D. 5.1.76 [= Pal. Alf. 23], da cui è possibile desumere una forte attrazione verso le teorie democritee, assai probabilmente per il tramite del pensiero lucreziano-epicureo: cfr., in proposito, già M. WLASSAK, Der Judikationsbefehl der römischen Prozesse, p. 235 e le acute pagine di C.M. MOSCHETTI, Gubernare navem gubernare rem publicam. Contributo allo studio del diritto marittimo e del diritto pubblico romano, pp. 121 e ss.; H. HEUMANN – E. SECKEL, Handlexikon zu den Quellen der römischen Rechts 10, p. 27, s.v. ‘Alfenus Varus’ (ancora in sintesi estre-ma); E. VERNAY, Servius et son École. Contribution à l’histoire des ideés juridiques à la fin de la République romaine, p. 100 e nt. 1; D. NÖRR, Kausalitätsprobleme im klassischen römischen Recht, pp. 124 e nt. 40 (con bibliografia), e 144 e nt. 113 = ID., Historiae iuris antiqui, II, pp. 1166 e nt. 40, e 1186 e nt. 113, nonché M. D’ORTA, Giurisprudenza ed Epicureismo (Nota su Cic., ‘ad fam.’ 7.12.1-2), pp. 131 e ss., che parla, entusiasticamente, di « esito autentico della doctrina atomistica (p. 132) » (e cfr. già F. HORAK, Rationes decidendi, I, pp. 231 e ss. [con ampia analisi della letteratura precedente], in merito a cui G. GROSSO, Rec., p. 119 = ID., Scritti storico-giuridici, IV, p. 693, ebbe a rilanciare una intuizione del Göppert, ripresa dal Bonfante, secondo la quale si dovrebbe ritenere che « l’etichetta filosofica fosse so-vrapposta ad un antico concetto della realtà contadina, come si scorge per il gregge (unitariamente rivendicato già nell’antica legis actio sacramento in rem) » — cfr. anche D’ORTA, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa, pp. 171-172 e nt. 148 (che mi pare dia un peso eccessivo alle pur corrette osservazioni di V. SCIALOJA, Teoria della proprietà nel diritto romano, I, pp. 39-40); T. GIARO, Dogmatische Wahrheit und Zeitlosigkeit in der römischen Ju-risprudenz, p. 16 nt. 49; acutamente M. BRETONE, La tecnica del responso serviano, pp. 11-12 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, pp. 96-97; ID., Storia del diritto romano 8, p. 209 e nt. 28 e ID., I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura, pp. 78-81; espressamente R. KNÜTEL, ‘Nicht leichter, aber um so reizvoller’ – Zum methodologischen Vermächtnis Max Kasers, p. 62 e nt. 125; A. SCHIAVONE,

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Giuristi e nobili, p. 133 ed ID., Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 231-232 (che rinvia alle pp. 203, 446 nt. 18 e 454 nt. 83, ad A. SCHIESARO, Didaxis, Rhe-toric and the Law in Lucretius, passim [dato come ‘in corso di stampa’ nei Papers in Memory of Don Fowler, ed effettivamente pubblicato soltanto nel 2007]: il lavoro dello Schiesaro era, comunque, apparso nel 2003, in versione francese, nei Mélanges Mayotte Bollack, con il titolo di Rhétorique, politique et ‘didaxis’ chez Lucrèce [di cui vd. pp. 66 e ss., in particolare]; la portata del brano parrebbe essere stata, in par-te, sopravvalutata laddove è definita, secondo la cronanca di F. MARINO, L’analisi del caso, p. 504, come « un vero e proprio manifesto epistemologico del sapere giu-ridico romano » [la relazione tenuta dallo Schiavone, infatti, non è stata riprodotta negli Atti di ‘Diritto e clinica, per l’analisi della decisione del caso’ vd. infra, ‘Bi-bliografia’, dove era stata pronunciata, da cui la cronaca dell’autore patavino]). Da ultimo, invece, ampiamente A. MANTELLO, Natura e diritto da Servio a Labeone, pp. 232 e ss. Sul testo, in rapporto al mutamento dei componenti il populus romano, vd. M. VARVARO, ‘Iuris consensus’ e ‘societas’ in Cicerone. Un’analisi di Cic., de rep., I, 25, 39, p. 455. Da respingere, invece, la diagnosi inconsuetamente oltranzista di F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, pp. 101-102 e 256 nt. 1 = ID., Storia della giurisprudenza romana, pp. 158-159 e 368 nt. 1 (e vd. ID., Hi-story of Roman Legal Science, pp. 84-85 e 206 nt. 4), sebbene F.M. D’IPPOLITO, Del fare diritto nel mondo romano, p. 53 nt. 21, reputi il giudizio schulziano « una le-zione permanente » [e vd., in proposito, A. GUARINO, L’identità del tutto e il ricam-bio delle parti, in Giusromanistica elementare 2, pp. 180 e ss.]); E. HUSCHKE, Iuri-sprudentiae anteiustinianae quae supersunt, p. 99; W. KALB, Roms Juristen nach ihrer Sprache dargestellt, pp. 35 ss.; P. KRÜGER, Geschichte der Quellen und Litera-tur des romischen Rechts, p. 69; ID., Römische Juristen und ihre Werke, pp. 326-327; T. KIPP, Geschichte der Quellen des römischen Rechts 4, pp. 101-102; T. FRANK, Catullus and Horace on Suffenus and Alfenus, pp. 160 e ss.; L. DE SARLO, Alfeno Varo e i suoi ‘digesta’, passim; L. WENGER, Die Quellen des römischen Rechts, p. 484; M. SCHANZ – C. HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur bis zum Gesetzgebungswerk des Kaisers Justinian, I, p. 596; W. KUNKEL, Die römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung 2, p. 29. R.A. BAUMAN, Lawyers in Roman Transitional Politics. A study of the Roman jurists in their political setting in the Late Republic and Triumvirate, pp. 89 e ss.; L. VACCA, Contributo allo studio del metodo casistico nel diritto romano. Ristampa con appendice, pp. 103 e ss.; EAD., La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano, pp. 70 e ss.; C.A. CAN-

NATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, pp. 273 e ss.; H.-J. ROTH, Alfeni Digesta, passim (con il rilievo critico espresso, sull’analisi di D. 5.1.76, da D. LIEBS, Rec., pp. 520-521). Interessanti osservazioni in R. ORESTANO, ‘Diritto’. In-contri e scontri, pp. 281 e ss., e, per la presenza del termine ‘species’, nella sua risa-lenza aristotelica, M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, p. 215 nt. 608. Da ultimi si vedano J. IGLESIAS REDONDO, Alfeno

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INTRODUZIONE

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di testimonianze definito quale ‘splendida antologia’ dei responsi del

maestro 9, nonché l’auditor Servii più famoso e fecondo, il quale, pur

traendo le proprie origini da umile famiglia 10 — e forse proprio gra-

Varo (Publius Alfenus Varus) (s. I a.C.), pp. 139 e ss.; O. BEHRENDS, Die Spezifika-tionslehre, ihre Gegner und die media sententia in der Geschichte der römischen Jurisprudenz, pp. 216 (nt. 32) e ss.; F. VALLOCCHIA, Collegi sacerdotali ed assem-blee popolari nella repubblica romana, pp. 167 e ss., nonché il lavoro di A. CASTRO

SÁENZ, Catulo y Alfeno Varo. Ecos de un jurista en la poesía latina del siglo I a.C.: del ‘corpus’ catuliano a los ‘Sermonum’ de Horacio, pp. 523 e ss. (con il quale l’Autore iberico procede allo studio, parrebbe relativamente sistematico, di proble-matiche — dal taglio, a dire in vero, piuttosto circoscritto — relative alla scuola ser-viana o, come nel caso presente, a rapporti di matrice e inserimento culturale dei protagonisti della stessa, lavoro anche interessante ma che poco aggiunge, ai nostri fini, alla cognizione di dati più propriamente giuridici) e vd. anche ID., Compendio histórico de derecho romano, pp. 227 e ss. (‘Auditores Servii’, e pp. 230 e ss., in modo speciale per Alfeno) nonché G. MOUSOURAKIS, A Legal History of Rome, p. 64 e M. BRUTTI, Il diritto privato nell’antica Roma, p. 631.

9 Cfr. M. BRETONE, Il diritto a Roma [in M. BRETONE – M. TALAMANCA, Il dirit-to in Grecia e a Roma], p. 130 (e similmente lo stesso Autore in Diritto e pensiero giuridico romano, p. 49 e, ancora, in ID., Diritto e tempo nella tradizione europea 4, p. 25). Ivi, Alfeno è testualmente ricordato — secondo l’aspro rimprovero mòssogli dal poeta veronese — come « l’‘immemore’ amico di Catullo » (loc. cit., e cfr. Ca-tull., Carm. 30.1: « Alfene immemor atque unanimis false sodalibus iam te nil mi-seret, dure, tui dulcis amiculi? »). Cfr., inoltre, ancora BRETONE, Storia del diritto romano 8, p. 201, che, a distanza di tempo, ripropone il proprio, e invariato, giudizio (« splendida antologia ‘serviana’ di Alfeno »). Sulle ragioni che avrebbero condotto alla conservazione ‘diretta’ dei digesta alfeniani, rispetto a quella della produzione degli altri auditores Servii, e dello stesso maestro, si veda, con osservazioni condivi-sibili, G. NEGRI, Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, p. 141 e nt. 3. Da ultimo, cfr. anche M. BRUTTI, Il diritto privato nell’antica Roma, pp. 631 e 642.

10 Si legga la celeberrima — quanto discussa, nella tradizione testuale — testi-monianza di Horat., Serm. 1.3.130-133: « ut Alfenus vafer, omni abiecto instrumento artis clausaque taberna, tonsor erat, sapiens operis sic optimus omnis est opifex so-lus… »: tonsor, che rappresenta la lectio in genere accolta (ex Cod. Blandinius Vetu-stiss. depert.), concorre con sutor (ex Codd. BCDEM e dpfy) e con ustor (cfr., sul punto, E.C. WICKHAM – H.W. GARROD [edd.], Q. Horati Flacci Opera, ad h.l. [s.p.], nt. ad vers. 132, lectio accolta, ad esempio, da L. CECI, Le etimologie dei giurecon-sulti romani, p. 7: ivi acute osservazioni sul testo oraziano). Per una sapida discus-sione, cfr. ancora G. NEGRI, Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, pp. 154-155, il quale osserva che, « così, il povero Alfeno oscilla fra il mestiere di ciabattino e quel-

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zie alla sua abilità di giurisperito 11 — riuscì a raggiungere la carica

di consul (seppure soltanto) suffectus nel 39 a.C. 12, dimostrando in

lo di barbiere (per di più, di un barbiere da cadaveri), secondo lo stato della tradizio-ne manoscritta e le bizze della filologia » — o, forse, ove dovesse prevalere la ver-sione ‘ustor’, di un addetto alla cremazione delle salme. Da ultimo, invece, A. CA-

STRO SÁENZ, Catulo y Alfeno Varo. Ecos de un jurista en la poesía latina del siglo I a.C.: del ‘corpus’ catuliano a los ‘Sermonum’ de Horacio, p. 525, accoglie la lezione ‘sutor’, ma insiste piuttosto sulla attribuzione ‘vafer’, « ‘sutil’ [...] con que Horacio adorna a Alfeno » e che « parece adaptarse, como un querido topos, a lo que se supone es o debe ser un jurista, pues el poeta lo aplica al derecho mismo en otro lugar de sus Sermones ya en el libro segundo » (ossia in Hor., Serm. 2.2.31: vd. op. cit., p. 525 nt. 10): il parere e il rinvio sono senz’altro esatti.

11 Questa, infatti, fu già illazione di P. BONFANTE, Storia del diritto romano 4, I, p. 374, a parere del quale la « sua fama di giurista gli valse il consolato ». Sul ‘de-clino’ del rapporto tra l’essere giurista e attività magistratuali — forse già in Servio — almeno come raffigurato dall’autore del liber singularis enchiridii, si vedano, in particolare, F. D’IPPOLITO, I giuristi e la città 2, p. 18 ed E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 318 nt. 40 (con bibliografia).

12 Oltre alla controversa testimonianza di Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.44 [= Pal. Pomp. 178: «… Varus et consul fuit »] (su cui vd. anche, infra, il cap. I, § 2), si veda « CIL. », I.1, p. 65 [a.U.c. 715], ‘Fasti feriarum latinarum, VIII. Fasti Biondiani’ (e intorno all’alto grado di ragionevolezza circa il praenomen ‘Publius’ cfr. l’apparato critico al testo nonché, ancora in « CIL. », I.1, p. 29, ‘Fasti consulares Capitolini’ XLII [in cui si citerebbe l’omonimo figlio — con riferimento all’anno 755 a.U.C.: « P·ALFENVS·P·F·P·N·VARVS »]; vd. E. OTTO, P. Alfenus Varo. Ab injuriis veterum et recentiorum liberatus, coll. 1633-1634 [in particolare]; S.W. ZIMMERN, Geschichte des römischen Privatrechts bis Justinian, I.1, p. 295 nt. 26 [contra, però, A. WEI-

CHERT, De Lucii Varii et Cassii Parmensis vita et carminibus, p. 122] e P. KRÜGER, Geschichte der Quellen 2, p. 69 nt. 48, il quale rimanda, tuttavia, a « CIL. I, 467 »). Reentemente G. VALDITARA, Lo Stato nell’antica Roma, p. 160, si limita a dichiara-re che fu « console nel 39 a.C. », come se Alfeno fosse stato consul ordinarius.

Alfeno partecipò, dunque, attivamente alla vita politica di Roma, fino ad eserci-tare la fuzione particolare di magistrato chiamato a subentrare, per la parte residua dell’anno di carica, ad un consul ordinarius venuto a mancare per rinuncia (cfr. Suet., De vita Caes. [Div. Aug.] 26.3), per morte o malattia (Liv. 41.18.16) — o per causa rituale (vd. l’interessante passaggio di Liv. 23.31.13 [e anche Liv. 41.17.6]) ovvero per destituzione (Tac., Hist. 3.37.2: vd. W. KUNKEL – R. WITTMANN, Staats-ordnung und Staatspraxis der römischen Republik, II. Die Magistratur, p. 253 e nt. 4): per le altre fonti in materia cfr. Liv. 2.8.4; 9.44.15; 23.25.9; 23.31.14; in generale Liv. 30.39.5. Intorno ai limiti imposti ai poteri dei suffecti si veda ancora Liv.

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INTRODUZIONE

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questo modo di avere a cuore (e di dedicarsi in prima persona al)le

sorti della res publica 13.

E al fondamentale corpus alfeniano — com’è, del resto, in-

tuitivo — si farà ampio riferimento anche in questi studi, essendo in

esso racchiusa la porzione maggiormente significativa della produ-

zione ‘diretta’ 14 derivante dalla scuola e dalla riflessione del suo

41.18.16. Si registrano, infine, due casi di suffectio consolare a tribuni: in Liv. 4.7.10 e 4.8.1 (e cfr., in particolare, B.W. FRIER, Licinius Macer and the ‘consules suffecti’ of 444 B.C., pp. 79 e ss.). Si vedano, inoltre, Vell. Pat., Hist. rom. 2.20.3 (in-torno cui cfr. ancora KUNKEL – WITTMANN, op. cit., pp. 256-257, e, da ultimo, le giuste osservazioni di O. LICANDRO, In magistratu damnari. Ricerche sulla respon-sabilità dei magistrati romani durante l’esercizio delle funzioni, pp. 404-405 e nt. 47, ivi con discussione della letteratura); 2.23.2; 2.24.5 (ove, alla morte del console Cinna, non si opera la suffectio, ma resta unico detentore della magistratura il solo collega sopravvissuto Carbo); SHA. [Ael. Spart.] Ant. Car. 13.4.8; [Ael. Lampr.] Alex. Sev. 18.43.2; [Treb. Poll.] Trig. tyr. 24.8.2 (dove si richiama la vicenda del consul suffectus C. Caninio Rebilo, già menzionato, con perforante sarcasmo, da Cic., Ad fam. 7.30.1 [CCXCIX]); [Flav. Vop.] Tac. 27.9.6 e, infine, Auson., Grat. actio 7.32 (con un giudizio assai negativo sulla dignità della carica — conferita da Antonino Pio nel 143 d.C. al celebre oratore M. Cornelio Frontone — giudizio lega-to, però, al momento storico e alle modalità, per così dire, singolarmente compresse, di esercizio della stessa). Sul tema vd. KUNKEL – WITTMANN, op. cit., pp. 41 nt. 9, 595, 618, 678 e 683 (sui consoli, in particolare, oltre a citazioni, su singoli punti, relative alle fonti liviane esaminate), e, da ultimo, nuovamente O. LICANDRO, ‘Unus consul creatus collegam dixit’. A proposito di Liv. 7, 24, 11 e 37, 47, 7, pp. 734 nt. 17 e 746 nt. 64.

13 Questa osservazione può essere replicata — al di là di un giudizio etico-storico, esterno al nostro campo d’indagine — anche per Pacuvio Antistio Labeone (padre del ben più celebre Marco Antistio), altro auditor Servii, che sarebbe stato addirittura uno dei cesaricidi: cfr. A. PERNICE, Labeo, I, pp. 7 e ss.; F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 271 (e vd., sull’identificazione del nome nelle fonti, W. KUNKEL, Die Römischen Juristen, p. 32 nt. 66 nonché già A. BERGER, s.v. ‘Pacuvius (9)’, col. 2176) e vd. Plut., Brut. 12 (§§ 3-6, in particola-re, e 51.2), letto alla luce di Appian., Bell. civ. 4.135.572 . Cfr. anche le lettere di Cic., Ad Brut. 1.18 (del 27 luglio 43) e 2.7 (del 14 aprile 44).

14 Gli apici risultano assolutamente indispensabili, a segno della cautela imposta dall’esistenza delle due epitomi (anonima e paolina) che ci hanno conservato la pro-duzione di Alfeno, non essendo sopravvisuto — come è noto — alcun frammento di tradizione diretta in senso proprio, e dall’eventuale ‘mediazione giustinianea’ dei

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fondatore 15. Per gli altri auditores, infatti, così come per le stesse te- testi: cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, coll. 37-54 e F.P. BREMER, Iuri-sprudentia antehadrianae quae supersunt, I, pp. 282-330. Ma, su questi aspetti, vd. infra, cap. II (nonché cap. III, tomo II). C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, p. 275 nt. 251, osserva che, con riferimento all’epitome anoni-ma, si dovrebbe forse parlare più propriamente di « crestomanzia », poiché « i frammenti appaiono riportati con molta fedeltà rispetto agli originali ».

15 Talora, infatti, in letteratura l’uso che viene fatto dei nomi di Alfeno (o di Ser-vio) per segnalare colui che ‘respondit’ — o che afferma ‘respondi’ — è indicativo e fungibile, e non presuppone il riferimento assoluto al primo o al secondo, bensì una generica appartenenza al pensiero della scuola. Per l’attribuzione meccanicistica dei frammenti al Maestro, invece, sulla base della forma verbale ‘respondit’, conte-nuta in alcune testimonianze di Alfeno, laddove manca la citazione diretta del giuri-sta (vd. infra, in questa stessa nt.), si veda già G. HUGO, Histoire du droit romain, II, p. 119 (e vd. H. PETERS, Rec. a E. Vernay, Servius et son École, pp. 467-468, non-ché, implicitamente, A. GUARNERI CITATI, Miscellanea esegetica I, p. 87; e cfr. an-che A. PERNICE, Labeo, II, p. 352 nt. 28), ma, come osservava puntualmente F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, p. 255 nt. 1 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 366 nt. 1, la variazione tra respondi e respondit non è dirimente, poiché entrambe le forme erano espresse attraverso una sigla (R), che i copisti scioglievano arbitrariamente (e cfr. ancora SCHULZ, History of Roman Legal Science, p. 205 nt. 5; per ribadite cautele su tali forme, e forme similari, rimando anche a TH. MOMMSEN, Ueber Julians Digesten, pp. 90-91 nt. 25, nonché a L. DE

SARLO, Alfeno Varo e i suoi Digesta, p. 3 nt. 1; a J. KRANJC, Die actio praescriptis verbis als Formelaufbauproblem, pp. 449-450 e nt. 44; a U. JOHN, Die Auslegung des Legats, p. 27, e a H.-J. ROTH, Alfeni Digesta, p. 25). Più in generale, cfr. A. PERNICE, Labeo, II, p. 352 nt. 28; F. DE MARINI AVONZO, s.v. ‘Digesta’, p. 638 (§ 2, col. II).

Da ultimi, ancora nel senso della identificazione tra il segno ‘respondit’ e Ser-vio, vd. T. GIARO, Il limite della responsabilità ‘ex cautione damni infecti’. Contri-buto allo studio della forza maggiore in diritto romano classico, pp. 273-274 nt. 14, nonché, sulla di lui scorta, W. ERNST, Wandlungen des ‘vis maior’-Begriffes in der Entwicklung der römischen Rechtswissenschaft, p. 315 nt. 19 nonché S. TAFARO, Il giurista e l’‘ambiguità’. Ambigere – ambiguitas – ambiguus, p. 86 e nt. 203 (e così anche, in modo assai reciso, C.M. MOSCHETTI, s.v. ‘Nave (diritto romano)’, p. 569 nt. 25); ma vd. le osservazioni di M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi ro-mani 2, pp. 91 e ss., di B.-H. JUNG, Darlehensvalutierung im römischen Recht, pp. 61-62 nt. 154; di T. MASIELLO, Le ‘quaestiones’ di Cervidio Scevola, pp. 51-52, e di E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 316 nt. 36.

Del resto, C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, p. 8 e nt. 1 = ID., Opere, II, p. 175 e nt. 1, registrava già l’opinione risalente ad Antonio Agostino (1516-

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INTRODUZIONE

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1586: cfr. P. LANDAU, s.v. ‘Agustín (Augustinus), Antonio’, p. 21 e ora, da ultimo, F. CUENA BOY, s.v. ‘Antonio Agustín’, pp. 212 e ss.) secondo cui la sostanza del mate-riale raccolto da Alfeno doveva essere — de facto — serviana (si veda, infatti, ANT. AUGUSTINUS, De nominibus jurisconsultorum 1.3, col. 17 nt. a: « omnia Alfeni scripta sumpta esse a praeceptore Servio Sulpicio Rufo »). Ma l’esagerazione del-l’autore del XVI secolo è ormai evidente: egli, infatti, non poteva aver ancora rag-giunto considerazioni svolte in séguito dalla dottrina (su cui vd. appena supra), né, soprattutto, aveva tenuto conto di importanti indizi come, ad esempio, quelli conte-nuti in Alf. II dig. a Paul. epit., D. 33.7.16.1 [= Pal. Alf. 44; Pal. Serv. 49] — intor-no cui vd. infra, cap. II, frg. B.2 . nonché cap. III, § 1.1 — e in Alf. II dig. a Paul. epit., D. 32.60.2 [= Pal. Alf. 39]: « Lana lino purpura uxori legatis, quae eius causa parata essent, cum multam lanam et omins generis reliquisset, quaerebatur, an om-nis deberetur. Respondit, si nihil ex ea destinasset ad usum uxoris, sed omnis com-mixta esset, non dissimilem esse deliberationem, cum penus legata esset et multas res quae penus essent reliquisset, ex quibus pater familias vendere solitus esset. Nam si vina diffudisset habiturus usioni ipse et heres eius, tamen omne in penu exi-stimari. Sed cum probaretur eum qui testamentum fecisset partem penus vendere solitum esse, constitutum esse, ut ex eo, quod ad annum opus esset, heredes legata-rio darent. Sic mihi placet et in lana fieri, ut ex ea quod ad usum annuum mulieri satis esset, ea sumeret: non enim deducto eo, quod ad viri usum opus esset, reliquum uxori legatum esse, sed quod uxoris causa paratum esset » (la scelta grafica in tondo è mia, e tende a segnalare un elemento di evidente autonomia tra il pensiero serviano cui si fa implicitamente riferimento [cfr., infatti, Gell., N.A. 4.1.17 e 20] e la rifles-sione alfeniana: su questo ampio, complesso e interessante passo — intorno cui poco dice, da ultima, E. SÁNCHEZ COLLADO, De penu legata, pp. 141-142 e nt. 287, 162, 170 nt. 347 e 233 nt. 567 (in cui, peraltro, risultano fuorvianti le indicazioni nell’indice delle ‘Fuentes literarias y jurídicas’, p. 266 — ove si rimanda alle pp. 106, 122, 128 nt. 347 e 176 nt. 567) — cfr., oltre a F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 175-176, O. CLERICI, Sul legato della penus (D. 33, 9), p. 131; A. DELL’ORO, Le cose collettive nel diritto romano, pp. 174-175; R. ASTOLFI, L’oggetto dei legati in diritto romano, II, pp. 85, 88 e 267-268 e U. JOHN, Die Auslegung des Legats von Sachgesamtheiten im römischen Recht bis La-beo, pp. 52 e ss., il quale si pone il problema della effettiva paternità del passo (p. 53). Il testo è stato fortemente sospettato dalla dottrina interpolazionistica (cfr. anco-ra BREMER, op. cit., pp. 178-180; A. ORMANNI, Penus legata, p. 686 nt. 230, seppure con una critica, per così dire, molto ‘garbata’, rispetto a quella precedente, consue-tamente drastica e pedante, di G. VON BESELER, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, V, pp. 48-49. Si vedano anche « VIR. », III, col. 114 lin. 49 e, con puro rimando alla tesi del Bremer, P. HUVELIN, Études sur le furtum dans les très ancien droit romain, I, p. 773 nt. 6). Ancora, ad esempio, L. AMIRANTE, Ricerche in tema di locazione, pp. 66 e ss., reputava ‘probabilmente’ serviano il testo di Alf. V

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dig. a Paul. epit., D. 19.2.31 [= Pal. Alf. 71] — ossia in notissimo passo sulla navis Saufeii — sebbene l’autore proseguisse affermando che, « poiché non vi è modo di raggiungere la sicurezza, ritengo preferibile attenermi prudentemente all’inscriptio del frammento riferendone il contenuto ad Alfeno » (sul punto, a partire dalla pun-tuale analisi di D. 19.2.31, osservazioni da condividere in R. FIORI, La definizione della ‘locatio conductio’. Giurisprudenza romana e tradizione romanistica, pp. 66-67 e nt. 3); sempre per la probabile attribuzione a Servio vd. B.-H. JUNG, Darlehen-svalutierung im römischen Recht, pp. 61-62 nt. 154 (sul punto, maggiori cautele so-no espresse in D. SCHANBACHER, Rec. ad op. cit., p. 614).

A proposito di singole questioni, legate al tema generale, cfr. F. BONA, Contribu-ti alla storia della ‘societas universorum quae ex quaestu veniunt’ in diritto romano, pp. 404-405 nt. 26 = ID., Lectio sua, I, pp. 347-348 nt. 26; F.P. CASAVOLA, Auditores Servii, pp. 6 ss. = ID., Giuristi adrianei, pp. 135 e ss. = ID., Sententia legum, I, pp. 36 ss.; A. SCHIAVONE, Giuristi e nobili, p. 111 = ID., Linee di storia del pensiero giuri-dico romano, p. 99 = ID., Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, p. 215; S. TAFA-

RO, ‘Causa timoris’ e ‘migratio inquilinorum’, p. 61 nt. 2 [esattamente critico verso l’opposta tesi di F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 161 e ss., peraltro ancora ricordata da O. LICANDRO, ‘Domicilium’: emersione di un istituto, p. 1 nt. 1 [online] e vd. anche L. AMIRANTE, Ricerche in tema di locazione, p. 104 nt. 5, che, richiamandosi all’autorità del Ferrini, afferma: « […] il respondi indicherebbe la paternità alfeniana, il respondit quella serviana »: lo stesso Autore partenopeo segnalava spesso, in tale lavoro, la ‘possibile’ derivazione serviana dei frammenti di Alfeno, ma senza prendere espressa posizione sul problema: cfr. op. cit, passim] e A. SCHIAVONE, Il caso e la natura, p. 73 e 362 nt. 114 = ID., Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 231-232 e 454 nt. 77 (il quale, pur senza giungere ad un giudizio definitivo di attribuzione ‘diretta’ a Servio del passo conte-nuto in Alf. VI dig. ab anon. epit., D. 5.1.76 [= Pal. Alf. 23] — sul quale vd. infra, nt. 8 e cap. II, quanto osservato a proposito del frg. D.13 . — opera, sulla base di una minuziosa indagine stilistica, una attribuzione ‘complessiva’ al maestro: « Sono serviane — davvero come una sigla — alcune clausole e l’andamento sintattico vo-lutamente un po’ ridondante dello stile, simile a quello della lettera di marzo [= Cic., Ad fam. 4.5]. È serviano l’existimari [...]. È infine serviano il ricorso alla reductio ad absurdum ») e cfr. anche pp. 63-64 e 360 nt. 70 (ivi, ulteriore bibliografia), in cui, a proposito di Alf. II dig. ab anon. epit., D. 15.3.16 [= Pal. Alf. 11], si afferma che, nell’epitome anonima, « vi è [...] maggior probabilità che vi siano stati riprodotti materiali originariamente serviani ». Di parere parzialmente diverso, invece, era F.D. SANIO, Zur Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, pp. 74-75 [con ulteriore precedente bibliografia] a cui si richiamava C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, pp. 9-10 = ID., Opere, II, pp. 175-176), mentre O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 324 nt. 2, osserva — in modo non del tutto singolare — che « […] fragmenta Servii esse permulta videntur quae in Alfeni digestis referuntur, cf. fr. 29.

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INTRODUZIONE

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65 § 3 [sic: probabilmente il Lenel alludeva semplicemente a D. 41.1.38 = Pal. Alf. 65, in cui al ‘respondit’ vien fatto seguire un ‘aio’] cum Alfeni fr. 54 pr. 18 § 1 [= D. 40.7.14.1]; v. etiam Alfen. fr. 26 § 1 (‘rogavi – respondit’ ) [ivi, la contrapposi-zione tra i due verbi, se non dovuta ai Compilatori o, meglio ancora, a errori di copi-sti, potrebbe condurre verso la soluzione leneliana — in realtà potrebbe trattarsi di un ‘rogavi<t>’ relativo al medicus libertus di cui al principium del frammento XXVI della Palingenesia ossia Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 38.1.26, tanto più ove si consideri che tale forma è introdotta da ‘item’, anche se, in questo contesto, l’avverbio può essere ambiguo, e riferirsi tanto al postulante inziale quanto all’auditor, interessato ad approfondire la questione prospettata dal maestro in D. 38.1.26 pr., appunto] et Doroth. et Stephan. in Bas. 20, 1, 27 sch. 2 [= Hb. II, 354 = BS. III, 1193: « … ºrwt»qh Ð Sšrbioj… », ma vd. il rilievo dubitativo di Heimbach, ivi, nt. v: « Servii mentionem fieri in scholio, licet Digestorum locus Al-feni nomen in fronte ferat »]; 48, 1, 6 sch. 1 [= Hb. IV, 618 = BS. VII, 2812: « …

ka… ºrwt»qh Ð Seruios… »]; 48, 5, 15 sch. 1. 2 [= Hb. IV, 699 = BS. VII, 2901: «… kaˆ ™rwthqeˆj perˆ toÚtou Sšrbioj…»; «… ºrwt»qh Ð Sšrbioj…»]; 60, 2, 5 sch. 1 [= Hb. V, 262 = BS. VIII, 3089: «… 'Hrwt»qh SeRÚϊoj…»: per una pruden-te, e ragionevole, sospensionde del giudizio vd., tuttavia, C. FERRINI, Intorno ai Di-gesti di Alfeno Varo, p. 9 nt. 1 = ID., Opere, II, p. 175 nt. 2]; vd. pure F. WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte, I, p. 606 e, da ultimo, H.-J. ROTH, Alfeni Digesta, p. 24 nt. 49. Da ultimo si veda F. GALLO, Travisamento del lascito del diritto romano, p. 2017, il quale parla esattamente di Alfeno Varo come giurista « non riducibile, se-condo le attestazioni delle fonti, a mero ripetitore di pronunce del suo maestro Ser-vio ». Intorno ai testi bizantini ora menzionati si rinvia a quanto osservato infra, cap. II, § 9 (‘Continuazione: indizi di attribuzione pervenuti attraverso la tradizione bi-zantina’).

Si vedano, ancora, G. NEGRI, Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, pp. 138 e 151; C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, p. 277 nt. 272; V. CARRO, Su Alfeno Varo e i suoi ‘Digesta’, p. 237, che, un poco rapidamente, afferma che « molte decisioni [di Alfeno] si fanno risalire a Servio, al quale si riferi-scono le frequenti espressioni consulebatur, respondit che si incontrano nel testo » (ma sul punto si veda quanto osservato in questa stessa nota). Giova ricordare, a questo riguardo, anche una bella — e forse poco nota — pagina di M. BRETONE, Di-ritto e pensiero giuridico romano, p. 49: « nella sua splendida antologia, Alfeno a-veva raccolto i responsi del suo maestro Servio Sulpicio Rufo o che comunque erano stati discussi nella scuola di Servio. Nonostante le incerte vicende di una tradizione riduttiva e deformante, che ci consegna mutilata e alterata la scrittura alfeniana, que-sta è ancora riconoscibile: nell’evidenza descrittiva, nella vigorosa plasticità, nella icastica ricchezza dei particolari »; nonché l’analisi di R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto del legato in diritto romano, II, p. 261 e nt. 70 (che richiama BREMER, Iurispruden-tiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 164 e L. DE SARLO, op. cit., p. 213) e p. 267

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(dove, a proposito di Alf. II dig. a Paul. epit., D. 32.60.2 [= Pal. Alf. 39], ancora si evince dalla forma ‘respondit’, « con ogni probabilità », la paternità di Servio), non-ché il « tentativo », che lo stesso Autore dichiarava — con estrema onestà — essere « non riuscito — di stabilire chi dei due abbia dato il responso », operato da C. CA-

STELLO, D. 50.16.203, pp. 101 e ss., con riguardo al passo indicato nel titolo stesso del lavoro, a cui si rifà ancora, da ultimo, O. LICANDRO, Domicilium: ‘emersione di un istituto’, p. 1 nt. 1 [della versione online] (è frutto di una semplice svista l’attribuzione di un simile scopo, da parte del Licandro [loc. ult. cit., ma vd. corret-tamente, ora, ID., Domicilium habere. Persona e territorio nella disciplina del domi-cilio romano, pp. 59-60, nell’ampia e documentata nt. 43], a F. BONA, Studi sulla società consensuale in diritto romano, p. 15 nt. 23, poiché ciò si rinviene, infatti, in ID., Le ‘societates publicanorum’, p. 46 = ID., Lectio sua, I, p. 455). Cfr. ancora U. JOHN, Die Auslegung des Legats von Sachgesamtheiten im römischen Recht bis La-beo, pp. 27-28 (e nt. 68) e 53; H.-J. ROTH, Alfeni Digesta, pp. 23 e ss. nonché W. LITEWSKI, Die Zahlung bei der Sachmiete im römischen Recht, p. 280 (sulla scorta di M. KASER, Periculum locatoris, p. 158; J. MIQUEL, Periculum locatoris, p. 176; N. PALAZZOLO, Evizione della cosa locata e responsabilità del locatore, p. 393; e H. HONSELL, Quod interest im bonae-fidei-iudicium, p. 120). Manifestava, invece, una sorta di disinteresse sostanziale e metodologico per il problema F.M. DE ROBERTIS, Damnum iniuria datum, I, p. 69 e nt. 53. Da ultimi, su questo aspetto, si vedano F. D’IPPOLITO, Il diritto e i cavalieri, pp. 31 e ss.; R. FIORI, La definizione della ‘loca-tio conductio’, pp. 66-67 nt. 3 e 89 nt. 89; A. TRISCIUOGLIO, Sulla interpretatio alfe-niana pro locatore, p. 584 nt. 5; E. STOLFI, ‘Bonae fidei interpretatio’, p. 124 nt. 7 nonché, da ultimo, O. LICANDRO, Domicilium habere, p. 57 nt. 42.

Alla luce di quanto ora osservato, risulta, quindi, poco indicativa — in punto at-tribuibilità delle testimonianze, ma non certo per l’indagine in sé considerata — la visione dei singoli frammenti alfeniani, in cui compare per ben cinquantadue volte la forma ‘respondit’ (di cui soltanto due, però, nella epitome paolina, legate al nome espresso di Servio, a cui si aggiunga — a maggior conferma — Paul. IX ad ed., D. 3.5.20 pr. [= Pal. Paul. 191; Pal. Alf. 3] e vd. anche Iavol. V ex post. Lab., D. 28.1.25 [= Pal. Iavol. 216 con i dubbi, tuttavia, di assegnazione manifestati da O. LENEL, Palingensia iuris civilis, I, col. 312 nt. 2; Pal. Alf. 1]).

Cfr., pertanto, Alf. II dig. ab anon. epit., D. 39.2.43 pr.-2 [= Pal. Alf. 5]; ibid., D. 15.3.16 [= Pal. Alf. 11]; ibid., D. 18.6.12(11) [= Pal. Alf. 12]; ibid., D. 19.2.27.1 — ma a cui si riferisce, attraverso l’apertura con « iterum interrogatus… respon-dit », il principium — [= Pal. Alf. 15]; Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 40.1.6 [= Pal. Alf. 17]; ibid., D. 40.7.14 pr.-1 [= Pal. Alf. 18]; Alf. V dig. ab anon. epit., D. 28.5.45(44) [= Pal. Alf. 19]; ibid., D. 33.8.14 [= Pal. Alf. 20]; ibid., D. 35.1.27 [= Pal. Alf. 21]; Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 40.1.7 [= Pal. Alf. 25]; ibid., D. 38.1.26 pr.-1 [= Pal. Alf. 26]; ibid., D. 39.4.15 [= Pal. Alf. 28]; ibid., D. 50.16.203 [= Pal. Alf. 29]. Alf. II dig. a Paul. epit., 28.5.46(45) [= Pal. Alf. 34:

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‘Servius respondit’]; ibid., D. 33.1.22 [= Pal. Alf. 35]; ibid., D. 35.1.28 pr.-1 [= Pal. Alf. 36]; ibid., D. 32.60.2 [= Pal. Alf. 39]: tuttavia, significativamente, il § 1 dello stesso passo presenta, invece, la forma ‘respondi’ (probabile spia della intercambia-bilità tra la forma alla prima e quella alla terza persona singolare: vd. anche infra, cpv. seguente); ibid., D. 33.7.16.1-2 [= Pal. Alf. 44: nel § 1 troviamo per la seconda, ed ultima, volta ‘Servius respondit’; che si tratti sempre di Servio, in entrambi i pa-ragrafi, lo segnalava anche, giustamente, O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 329, il quale li univa sotto uno stesso frammento palingenetico = Pal. Serv. 49]; ibid., D. 21.2.44 [= Pal. Alf. 45]; ibid., D. 33.8.15 [= Pal. Alf. 46]; Alf. III dig. a Paul. epit., D. 6.1.58 [= Pal. Alf. 49]; ibid., D. 17.2.71 pr.-1 [= Pal. Alf. 51]; ibid., D. 18.6.15.1 [= Pal. Alf. 52]; ibid., D. 19.2.30 pr.-4 [= Pal. Alf. 54]; ibid., D. 14.2.7 [= Pal. Alf. 55]; ibid., D. 19.5.23 [= Pal. Alf. 56]; ibid., D. 23.5.8 [= Pal. Alf. 58]; ibid., D. 24.1.38 pr. [= Pal. Alf. 59]; Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 8.3.30 [= Pal. Alf. 61]; ibid., D. 18.1.40 pr.-5 [= Pal. Alf. 62]; ibid., D. 39.3.24 pr. [= Pal. Alf. 64]; ibid., D. 41.1.38 [= Pal. Alf. 65]; ibid., D. 10.4.19 [= Pal. Alf. *66]; Alf. V dig. a Paul. epit., D. 12.6.36 [= Pal. Alf. 69]; ibid., D. 13.7.30 [= Pal. Alf. 70]; ibid., D. 19.2.31 [= Pal. Alf. 71]; Alf. VI dig. a Paul. epit., D. 42.1.62 [= Pal. Alf. 72]; Alf. VIII dig. a Paul. epit., D. 32.61 [= Pal. Alf. 73].

Risultano essere, invece, quattordici i passi in cui, sempre nell’opera alfeniana, emerge la forma ‘respondi’: cfr. Alf. II dig. ab anon. epit., D. 8.5.17.2 [= Pal. Alf. Alf. 4]; ibid., D. 9.1.5 [= Pal. Alf. 6]; ibid., D. 9.2.52.1-4 [= Pal. Alf. 7]; ibid., D. 10.3.26 [= Pal. Alf. 8]; ibid., D. 11.3.16 [= Pal. Alf. 10]; Alf. VI dig. ab anon. epit., D. 5.1.76 [= Pal. Alf. 23]; ibid., D. 6.1.57 [= Pal. Alf. 24]; Alf. VII dig. ab a-non. epit., D. 19.2.29 [= Pal. Alf. 27]; ibid., D. 4.8.50 [= Pal. Alf. 30]. Per quanto riguarda il compendio paolino, soltanto in Alf. II dig. a Paul. epit., D. 32.60.1 [= Pal. Alf. 39] si trova la forma ‘respondi’, ma sul punto vd. quanto appena detto supra, in queste stessa nota, con riferimento al § 2 (e ribadisco il concetto: qui il se-gno della alternatività delle due espressioni mi pare evidente) e ibid., D. 8.3.29 [= Pal. Alf. 43].

Gli altri passi (o paragrafi) sono, per così dire, adespoti (ossia privi di forme verbali che possano avere la funzione di riferire i testi, anche implicitamente, ad un autore): cfr. Alf. II dig. ab anon. epit., D. 8.5.17 pr.-1 [= Pal. Alf. Alf. 4]; ibid., D. 9.2.52 pr. [= Pal. 7]; ibid., D. 44.7.20 [= Pal. Alf. 9]; ibid., D. 19.2.27 pr. [= Pal. Alf. 15], ma vd. quanto precisato appena sopra, in questa stessa nota e in ordine al § 1; ibid., D. 50.16.202 [= Pal. Alf. *16]; Alf. V dig. ab anon. epit., D. 33.8.14 [= Pal. Alf. 20], ma sulla pertinenza di questa parte del frammento palingenetico con la con-tinuazione tratta da D. 35.1.27 non c’è da dubitare (se ne tratterà espressamente nel corso di questi ‘studi’); ibid., D. 4.6.42 [= Pal. Alf. *22]; Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 34.2.28 [= Pal. Alf. 29]: anche in questo caso l’inserzione del passo all’interno delle parti compositive di D. 50.16.203 mi pare del tutto corretto (cfr. O. LENEL, Pa-lingenesia iuris civilis, I, col. 44, frg. Alf. 29: se ne tratterà espressamente sempre in

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questi ‘studi’).

Più marcato, ovviamente, il fenomeno appena registrato nel sunto di Paolo, me-no fedele alla struttura dei testi originali: cfr. Alf. I dig. a Paul epit., D. 8.4.15 [= Pal. Alf. Alf. 31]; ibid., D. 41.3.34 [= Pal. Alf. 32]; ibid., D. 48.22.3 [= Pal. Alf. 33]; Alf. II dig. a Paul. epit., D. 30.106 [= Pal. Alf. 37]; ibid., D. 50.16.204 [= Pal. Alf. 38]; ibid., D. 32.60 pr. e § 3 [= Pal. Alf. 39]; ibid., D. 33.2.12 [= Pal. Alf. 40]; ibid., D. 7.1.11 [= Pal. Alf. 41]; ibid., D. 8.2.16 [= Pal. Alf. 42]; ibid., D. 33.7.16 pr. [= Pal. Alf. 44]; ibid., D. 46.3.35 [= Pal. Alf. 47]; Alf. III dig. a Paul. epit., D. 5.4.9 [= Pal. Alf. 48], ove si trova la singolare forma ‘responsum est’; ibid., D. 10.3.27 [= Pal. Alf. 50]; ibid., D. 18.6.13 e D. 18.6.15 pr. [= Pal. Alf. 52]; ibid., D. 19.1.27 [= Pal. Alf. 53]; ibid., D. 23.4.19 [= Pal. Alf. 57]; ibid., D. 24.1.38.1 [= Pal. Alf. 59]; ibid., D. 33.10.6 pr.-1 [= Pal. Alf. *60]; Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 18.1.40.6 + D. 50.16.205 [= Pal. Alf. 62]; ibid., D. 21.2.45 [= Pal. Alf. 63]; ibid., D. 39.3.24.1-3 [= Pal. Alf. 64]; ibid., D. 47.2.58 [= Pal. Alf. 67]; Alf. V dig. a Paul. epit., D. 8.2.33 [= Pal. Alf. 68] e Alf. VIII a Paul. epit., D. 33.2.40 [= Pal. Alf. 74]).

Per i responsa attribuiti direttamente ad Alfeno, si vedano, oltre a Aul. Gell., N.A. 7.5.1 [= Pal. Alf. 2], i frammenti in cui ‘Alfenus laudatur non indicato libro’ (secondo la dizione di LENEL, op. cit., I, col. 53, rubr.): Pomp. l.s. ench., D. 50.16.239.6 [= Pal. Pomp. 179; Pal. Alf. 90]; Pomp. IX ad Sab., D. 18.1.18.1 [= Pal. Pomp. 547; Pal. Alf. 79]; Marcell. XII dig., D. 50.16.87 [= Pal. Marcell. 146; Pal. Alf. 89]; Pap. XXVII quaest., D. 31.74 [= Pal. Pap. 330; Pal. Alf. 80]; Paul. XLIX ad ed., D. 39.3.2.5 [= Pal. Paul. 632; Pal. Alf. 85]; Ulp. XVI ad ed., D. 6.1.5.3 [= Pal. Ulp. 549; Pal. Alf. 75]; Ulp. XVII ad ed., D. 8.5.8.5 [= Pal. 601 Ulp.; Pal. Alf. 76]; Ulp. XVIII ad ed., D. 9.2.29.4 [= Pal. Ulp. 625; Pal. Alf. 77]; Ulp. LIII ad ed., D. 39.2.9.2 [= Pal. Ulp. 1272; Pal. Alf. 84]; Ulp. LV ad ed., D. 40.12.10 [= Pal. Ulp. 1296; Pal. Alf. 86] e, infine, Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.12.2 [= Pal. Ulp. 2609; Pal. Alf. 83].

Sono presenti, infine, brani in cui Alfeno è menzionato come relatore del pensie-ro di Servio: cfr. Iavol. II ex post. Lab., D. 32.29.2 [= Pal. Iavol. 171; Pal. Serv. 43; Pal. Alf. 81]; ibid., D. 33.4.6 pr. [= Pal. Iavol. 178; Pal. Serv. 46; Pal. Alf. 82]; Marcell. XIII dig., D. 46.3.67 [= Pal. Marcell. 157; Pal. Serv. 77; Pal. Alf. 87]; Paul. XXXII ad ed., D. 17.2.65.8 [= Pal. Paul. 495; Pal. Serv. 24; Pal. Alf. 78] nonché, ancora, Paul. XLIX [LIX, Lenel] ad ed., D. 50.16.77 [= Pal. Paul. 715; Pal. Serv. 84; Pal. Alf. 88]. Questi dati verranno ripresi (e sviluppati) infra, cap. II e III, § 1 (e cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 151 e ss.

Circa gli altri allievi di Servio normalmente viene ricordato, da parte dei giuristi che li citano, che essi — semplicemente (e pedissequamente) — ‘referunt (o rettule-runt) Servium respondisse’ (ovvero, per le citazioni individuali, che il giureconsulto richiamato ‘refert’, ‘scribit [oppure ‘scripsit’] Servium respondisse’). Cfr., infatti, i frammenti in cui si parla, genericamente, degli auditores che ‘rettulerunt’ o ‘refe-runt’ e che si possono riferire a tutti i componenti la scuola serviana: Iav. II ex post.

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INTRODUZIONE

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stimonianze residue del pensiero del Maestro, siamo costretti a ricor-

rere alla relazione indiretta che ne hanno fatto i giuristi posteriori e

che si concretizza, in alcuni episodi, in menzioni poco più che riepi-

logative del pensiero originale 16. E questo laddove non vi sia addirit-

tura difficoltà ad identificare quanto possa essere attribuito a Servio,

ovvero al singolo auditor e quanto ad altri giuristi contestualmente

rievocati oppure ancora, infine, a quello che svolge la funzione di re-

latore del pensiero altrui 17.

Si potrebbe, infatti, riadattare, in qualche misura e mutatis

mutandis, quanto affermato dal Bremer a proposito dell’opera di Au-

Lab., D. 33.4.6.1 [= Pal. Iavol. 178]; Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.12.6 [= Pal. Ulp. 2609]. Dei quattro frammenti relativi a C. Ateio, due si manifestano attraverso l’esplicito riferimento di responsa di Servio (cfr. Iavol. VI ex post. Lab., D. 23.3.79.1 [= Pal. Iavol. 221; Pal. At. 1] e Iavol. II ex post. Lab., D. 34.2.39.2 [= Pal. Iavol. 185; Pal. At. 3]) mentre nell’ultimo — il cui ricordo è di Paul. XLIX ad ed., D. 39.3.2.4 [= Pal. Paul. 632; Pal. At. 4] — si afferma che « apud Ateium vero relatum est… », et rell., che potrebbe rinviare ancora al pensiero serviano. Il fenomeno osservato si manifesta ancora in P. Aufidio Namusa: dei nove frammenti estrapolati (cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, coll. 75-76) due riferiscono espressamente il pensiero del maestro — Ulp. XXXI ad ed., D. 17.2.52.18 [= Pal. Ulp. 922; Pal. Nam. 3]; Iavol. II ex post. Lab., D. 35.1.40.3 [= Pal. Iavol. 186; Pal. Nam. 6] — uno rappresenta che ‘apud Namusam relatum est’ (Paul. XLIX ad ed., D. 39.3.2.6 [= Pal. Paul. 632; Pal. Nam. 8]) e due, nella ricostruzione leneliana, sono costituiti da D. 33.4.6.1 e da D. 33.7.12.6 [= Pal. Nam. 4 e 5] già visti. Fa eccezione Cinna, la cui attività scientifica ci è stata avaramente conservata — quale inserzione tra D. 35.1.15 e D. 23.1.4 — in Ulp. XXXV ad Sab., D. 23.2.6 [= Pal. Ulp. 2797; Pal. Cin. 1] e in Iavol. II ex poster. Lab., D. 35.1.40.1 [= Pal. Iavol. 186; Pal. Cin. 2]: nel primo viene riportato un parere dell’auditor Servii attraverso la formula « Cinna scribit »; e così, similmente, nel secondo (« idem Cinna scribit »). Degli altri giuristi nulla ci è stato, invece, conservato (e per altre osservazioni di tipo stilistico sugli auditores Servii, cfr., da ultimo, E. STOLFI, Per uno studio del lessico e delle tecni-che di citazione dei giuristi severiani, pp. 368-369).

16 Cfr., e.g., V. SCARANO USSANI, Tra scientia e ars. Il sapere giuridico romano dalla sapienza alla scienza, nei giudizi di Cicerone e di Pomponio, p. 247 nt. 50 = ID., L’ars dei giuristi, p. 33 nt. 50. Rimando, inoltre, ai capitoli II e III di questi ‘stu-di’.

17 Vd. supra, ntt. 14 e 15.

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lo Ofilio, applicando il suo giudizio alla tradizione giurisprudenziale

del pensiero serviano: « Sulpicii responsa, non pauca referuntur

[etiam] a Labeone, Iavoleno, Paulo, Ulpiano, neque ubique ab eorum

sententiis certo secerni possumus » 18.

2. Come accennavo in apertura, queste indagini sono vòlte a

studiare la scuola nel suo complesso. In questo volume, in particola-

re, si presentano i ‘prolegomena’, i quali prendono avvio da una ana-

lisi ‘sub specie methodi’, seguita, da un lato, dal tentativo di isolare e

restituire il pensiero di Servio e, dall’altro lato, dall’esame dei ‘temi’

serviani filtrati nella produzione alfeniana 19.

In certo qual modo, si intende rappresentare ― se così mi

posso esprimere ― una sorta di dissodamento dell’ampio terreno co-

stituito da quanto ci è stato conservato (ed è veramente molto) della

elaborazione scientifica di Servio e, quindi, dei suoi auditores. Si po-

trebbe affermare, dunque, come questo sia uno ‘studio preliminare’

rispetto all’analisi dei singoli giuristi appartenuti alla scuola, analisi

che si vorrebbe condurre in tempi successivi, e in altrettante parti. Di

qui anche il sottotitolo — rispetto al titolo generale ‘Servius respon-

dit’ — ‘Studi intorno a metodo e interpretazione nella scuola giuri-

dica serviana’ (alludendo, con questo, all’intenzione di illustrare ‘co-

18 Il testo originario suona in questi termini: « Non ipse Ofilius responsa collegit,

quae non pauca referuntur a Labeone, Iavoleno, Paulo, Ulpiano, neque ubique a ce-teris eius sententiis certo secerni possunt » (così F.P. BREMER, Iurisprudentiae an-theadrianae quae supersunt, I, p. 335).

19 Cfr., rispettivamente, parte prima (cap. I) e parte seconda (capp. II e III), sud-divisi in due tomi. Va detto che, contrariamente ad un primitivo progetto, nel quale si pensava di ‘esaurire’ i prolegomena nella illustrazione del metodo e la ricognizio-ne del ‘materiale serviano’, è parso ora opportuno aggiungere una ulteriore parte (corrispondente al cap. III, ed oggetto del secondo tomo) comprendente, appunto, i ‘temi serviani’ e gli (indispensabili) ‘indici’ del lavoro. Il secondo tomo dovrebbe seguire a breve la pubblicazione del primo.

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INTRODUZIONE

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me’ operava la scuola di Servio e, attraverso questa operazione, ‘co-

sa’ era oggetto della sua attenzione).

In altre parole — e pur con le difficoltà che l’operazione reca

con sé (oltre la consapevolezza di non poter approdare, al momento,

che ad ‘ipotesi di lavoro’) — ho creduto opportuno ridiscutere lo sta-

to delle fonti e di lì iniziare il cammino per lo studio del pensiero

serviano. Questo implica — di necessità — un dilatamento dei tempi

e della parte analitica (ciò che si sarebbe, forse, evitato se si fosse da-

to avvio al lavoro immediatamente tramite l’esegesi dei passi salvati,

ad esempio, nella ‘palingenesi’ leneliana) 20 — riflessione che può

essere ripetuta anche con riguardo a quasi tutti gli auditores.

Mi è parso, tuttavia, di maggiore urgenza adottare un ap-

proccio differente, a cominciare, appunto, dai testi in sé e per sé con-

siderati, dedicando al prosieguo degli studi l’analisi contenutistica

diretta.

Questo comporta, prima di tutto in me, allo stato attuale, una

latente sensazione di provvisorietà del lavoro, o, forse meglio, di at-

tesa dei suoi sviluppi (trattandosi, oggettivamente, di un ‘lavoro in

progressiva formazione’). Un sentimento che è parzialmente sedato

soltanto dalle indagini che già si stanno conducendo sulla parte ter-

za 21 e dalla redazione di alcuni studi paralleli — come quelli relativi

a delicate questioni di legittimazione attiva ad agire ovvero, su altro

versante, alla consapevolezza politica del giurista 22 — oppure anco-

ra, sempre sotto il profilo metodologico, a problemi di tensione logi-

ca tra ‘quaestio’ e ‘responsum’ nei digesta di Alfeno 23.

20 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, coll. 321-334. 21 Cfr., in quest’ordine di idee, già il capitolo III di questi ‘prolegomena’ (tomo

II: vd. supra, nt. 19). 22 Si tratta , rispettivamente, di ‘note’ dedicate ad Alf. II eod., D. 11.3.16 [= Pal.

Alf. 10] e ad Alf. II ab anon. epit., D. 44.7.20 [= Pal. Alf. 9]. 23 Questi ultimi profili sono stati analizzati in un lavoro destinato agli ‘Studi in

onore del professor Antonino Metro’ — intitolato Casi emblematici di ‘conflitto lo-gico’ tra ‘quaestio’ e ‘responsum’ nei ‘digesta’ di Publio Alfeno Varo (pp. 275-327)

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La rilevanza della speculazione sul ‘metodo’ è comprovata,

del resto, dall’esistenza di una tradizione di studi considerevoli, a

partire (almeno) 24 da quello monografico del Ferrini 25 — che rap-

presenta un autentico ‘classico’ sul tema — nonché da quello del

Vernay 26, o, ancora, da quello, a dire il vero, meno celebrato del-

l’Arnò 27, per giungere, in epoca contemporanea, agli importanti con-

tributi alla ricerca a firma di Casavola 28, di Stein 29, di Negri 30, di

Cannata 31, di Bretone 32, e ancora ultimamente di Schiavone 33, de-

— sviluppo di un primo approccio comparso come M. MIGLIETTA, Intorno al meto-do dialettico della scuola serviana. Cenni in materia di conflitto logico tra ‘quaestio’ e ‘responsum’ nei ‘digesta’ di Alfeno Varo, in « Diritto@Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana », III, 2004 [online]. Vd. anche infra, cap. II, a proposito del frg. B.2 . e, ivi, nt. 92.

24 Oltre, cioè, ai numerosi altri lavori ricordati supra, ntt. 3 e 8. 25 Cfr. C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, pp. 1-15 = ID., Opere, II,

pp. 169-180. La relativa brevità dello studio non ne diminuisce — neppure oggi, a distanza di oltre un secolo dalla pubblicazione avvenuta nel 1891 — il valore scien-tifico e, soprattutto, la ricchezza di spunti d’indagine offerti dal grande romanista lombardo.

26 Cfr. E. VERNAY, Servius et son École. Contribution à l’histoire des idées juri-diques à la fin de la République romaine, passim.

27 Cfr., in particolare, C. ARNÒ, Scuola muciana e scuola serviana, pp. 35 e ss (e, specialmente, pp. 46-67).

28 Cfr., infatti, F. CASAVOLA, ‘Auditores Servii’, pp. 153 e ss. = ID., Giuristi A-drianei, pp. 127 e ss. = ID., Sententia legum tra mondo antico e moderno, I. Diritto romano, pp. 29 e ss.

29 Cfr. P. STEIN, The Place of Servius Sulpicius Rufus in the development of Ro-man legal science, pp. 175 e ss.

30 Cfr. G. NEGRI, Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, pp. 135 e ss., nonché ID., Un esempio di organizzazione sistematica dell’esperienza scolastica serviana, pp. 121 e ss.

31 Cfr. C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I. Dalle origini all’opera di Labeone, pp. 279 e ss.

32 Vd. M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, pp. 63 e ss. e 89 e ss. Parimenti interessanti risultano le osservazioni di BRETONE, I fondamenti del di-ritto romano. Le cose e la natura, pp. 78-79 e 255-256.

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INTRODUZIONE

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dicati alle peculiarità (anche) stilistiche della elaborazione servia-

na 34.

Più in dettaglio è necessario rimarcare l’esistenza di una pro-

duzione capillare di studi fiorita intorno a singoli passi, o a tematiche

circoscritte, che ha dato vita a molteplici lavori specifici o che ha co-

stituito, per contro, parte non secondaria di diverse monografie 35.

Singolarmente, però, per quanto concerne una ricognizione

analitica del patrimonio lasciato da questa importante ‘scuola’ giuri-

dica tardorepubblicana — patrimonio, s’intende, considerato nella

sua interezza, e ove si prescinda dal lavoro, di necessità fermo al

1909, di Vernay 36 — esistono solamente due opere monografiche,

peraltro dedicate in via esclusiva al corpus alfeniano.

La prima di queste, com’è noto, è dovuta agli studi di Luigi

de Sarlo 37, alla cui ideale sequela si è posto, a distanza di più di mez-

zo secolo, il tedesco Hans-Jörg Roth 38.

33 Cfr. A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 134 e ss.,

214 e ss. (ma, ovviamente, anche gli interventi precedenti dello stesso Autore censiti supra, ntt. 3 e 8).

34 Va da sé che, ove non sia altrimenti specificato, la locuzione ‘elaborazione serviana’ (et similia) rappresenta una convenzione espositiva, con la quale s’intende alludere — genericamente — alla produzione della ‘scuola serviana’ (maestro o au-ditor[es] che sia[no]). Vd. supra, nt. 15.

35 Per quanto riguarda Publio Alfeno Varo si veda, ad esempio, supra, nt. 6; per Servio e gli altri auditores, la bibliografia di riferimento sarà segnalata nei luoghi opportuni.

36 Richiamato supra, nt. 26, il quale, a sua volta, denunciava l’« absence de mo-nographie récente sur Servius, malgré l’importance de son rôle » (VERNAY, op. cit., p. 7). Il pregio del lavoro dello studioso francese è stato senz’altro quello di cercare di condurre un’analisi a ‘tutto tondo’ sulla esperienza serviana; il limite maggiore, tuttavia, quello di affrontare i testi in modo tangenziale, senza approdare, in altri termini, ad esegesi approfondite degli stessi.

37 Cfr. L. DE SARLO, Alfeno Varo e i suoi Digesta, pp. X-231, uno studio, in sé, anche encomiabile (almeno nello sforzo di presentare una visione d’insieme e di mettere in luce alcune correlazioni rinvenibili nell’opera alfeniana), ma che oggi ap-pare, a tratti, abbastanza modesto. L’Autore, del resto, non poteva, comprensibil-mente, sfuggire dal leggere i testi alla luce della critica interpolazionistica più orto-

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28

Questo secondo lavoro, in particolare, ispirato ad una meto-

dologia più raffinata rispetto a quella di cui poteva avvalersi (e di

cui, di fatto, comunque si avvalse) l’Autore italiano 39, omette in al-

cune occasioni di trattare frammenti a mio giudizio centrali nel-

l’economia interna all’indagine 40. Con questo non intendo ancora

sostenere che il Roth avrebbe dovuto, di necessità, vagliare punti-

gliosamente l’intero lascito alfeniano (sebbene una simile soluzione

non sarebbe stata affatto censurabile). Anche in questi studi 41 ,

infatti, verranno operate selezioni di testi 42, poiché non tutti risultano

essere fondamentali 43. Il rilievo che, tuttavia, può essere mosso allo dossa, ipotecando, in questo modo, il raggiungimento di risultati cui sarebbe giunta, invece, per strada (parzialmente) diversa, la dottrina posteriore.

38 Si tratta di H.-J. ROTH, Alfeni Digesta. Eine spätrepublikanische Juristen-schrift, pp. 211.

39 Vd. supra, nt. 37. 40 Del resto, pur nel contesto di giudizio complessivamente positivo, anche la re-

cente ‘lettura’ di V. CARRO, Su Alfeno Varo e i suoi ‘Digesta’, pp. 235 e ss. (ove, alle pp. 242-243 nt. 2, è offerto un ragguaglio bibliografico, tuttavia, piuttosto esiguo), non manca di sottolineare, da ultima e nelle conclusioni, « alcuni limiti della monografia, riscontrabili soprattutto nel mancato approfondimento di alcune tematiche » (cfr. p. 242).

41 Vd. supra, quanto osservato in apertura di § 2. 42 Intendo chiarire di non essermi posto l’obiettivo di analizzare interamente il

corpus serviano e dei suoi auditores quale conservatosi fino a noi: verranno indivi-duati, invece, passi di particolare importanza per l’illustrazione della applicazione del metodo dialettico. In questa sede, infatti, vorrei promuovere una indagine in qualche modo prodromica a future ricerche specificatamente dedicate ai corpora serviano, alfeniano e ofiliano.

43 A modo di semplice esempio, dubito si possa trarre più di tanto (soprattutto sotto il profilo dello studio del metodo, e nonostante la contiguità tematica con Gai. VII ad ed. prov., D. 50.16.30 pr. [= Pal. Gai 174; Pal. Serv. 83]) da un passo come quello di Alf. II dig. a Paul. epit., D. 7.1.11 [= Pal. Alf. 41]: « Sed si grandes arbo-res essent, non posse eas caedere » (vd., infatti, L. DE SARLO, Alfeno Varo e i suoi digesti, p. 83; G. ASTUTI, s.v. ‘Cosa in senso giuridico (diritto romano e interme-dio)’, p. 10; A. WATSON, The Law of Property in the Later Roman Republic, p. 214; A.M. HONORÉ, The Editing of the Digest Titles, p. 287 [Table I], nonché, da ultimo, H.-J. ROTH, Alfeni Digesta, p. 75, che, mi pare, abbiano individuato tutto quanto era possibile dire in argomento). Si vedano anche, per completezza, le deduzioni indiret-

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INTRODUZIONE

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studioso tedesco è di aver tralasciato alcuni importanti brani che, ad

una analisi attenta, risultano essere del tutto pertinenti rispetto alle

tematiche trattate, e di averne presentati altri con eccessiva

concisione 44.

3. Comunque sia, l’attrazione esercitata dalla tematiche de-

scritte cerca, dunque, di tradursi in questi studi, che, spero, possano

aggiungere un tassello alla perlustrazione di una fra le produzioni

giurisprudenziali (non solo dell’epoca antica) più affascinanti, anche

per la sua singolare capacità di restituirci numerosi, diversificati, vi-

vidi — e, per questo, assai spesso convincenti — spaccati di ‘vita

romana’, rielaborati alla luce del metro di valutazione dell’interprete

professionale del diritto, il iurisprudens 45.

Come si evince, dunque, dal titolo del lavoro, obiettivo è

quello di mettere in luce gli aspetti peculiari della metodologia adot-

tata da Servio (e, per riflesso, dai suoi allievi) e di verificare se le no-

tizie in nostro possesso intorno alle qualità della stessa, e ai suoi li-

miti eventuali, trovino conferma, per così dire, ‘sul campo’.

Alludo, a questo proposito, e in particolare, alla testimonian-

za contenuta nel Brutus di Cicerone 46, quando messa in contrapposi-

te di V. ARANGIO-RUIZ, La cosiddetta tipicità delle servitù e i poteri della giurispru-denza romana, p. 12 nt. 7 = ID., Scritti di diritto romano, II, p. 494 nt. 7.

44 Di questo, ove opportuno, si tratterà nel corso del lavoro (e vd. supra, nt. 40). Comunque sia, e nel terminare, tra altro, questa rapida segnalazione dello ‘stato della dottrina’, è necessario menzionare anche la ‘dispensa’ ad uso didattico (con testo e traduzione italiana) a cura di G. NEGRI, I frammenti dei digesti di Alfeno Varo, in « Testi per i seminari romanistici. Collana a cura di G. Luraschi e G. Negri », Como, 1989, 46 pp.

45 Sulla peculiarità degli (e le ragioni, anche di classe, sottese agli) interessi og-getto della considerazione di Servio, si veda, in particolare, M. TALAMANCA, Dévé-loppements socio-économiques et jurisprudence romaine à la fin de la République, pp. 777 e ss.

46 Cfr. Cic., Brut. 41.152 (vd. infra, cap. II, § 1).

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zione critica rispetto a quella recata dal liber singularis enchiridii di

Sesto Pomponio 47, delle quali si tratterà, ampiamente, all’interno del

primo capitolo di questo volume 48.

Quanto alla convinzione circa l’‘utilitas’, per il giurista mo-

derno, di presentare i frutti scientifici di una scuola giuridica fiorita

al volgere estremo dell’epoca repubblicana di Roma antica, credo di

poter riaffermare la persistente attualità e fecondità del ‘metodo dia-

lettico’ inteso quale ‘metodo induttivo’ — vera peculiarità della giu-

risprudenza romana — ispirato alla individuazione della ‘regula iu-

ris’ a partire dal ‘caso concreto’ e, dunque, particolarmente efficace

per un’idonea risoluzione delle controversie 49.

47 Cfr. Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178] (vd. infra, cap. II, § 2). 48 A questo riguardo, mi pare opportuno riportare, fin da queste annotazioni ini-

ziali, una bella pagina del Mantovani, in F. AMARELLI – F.M. DE SANCTIS – F.M. D’IPPOLITO – D. MANTOVANI, Ius. Quattro esercizi di lettura, p. 342: « Viene poi il tempo della ‘media e tarda repubblica’, dal III secolo a. C. alla fine del I secolo a. C., in cui si inizia a pronunciare il nome di qualche giurista, e soprattutto — è un elemento cruciale — lo storico odierno può appoggiarsi ad alcune valutazioni anti-che (Cicerone e Pomponio in prima linea) intorno al ruolo e al lavoro dei giuristi stessi, valutazioni antiche che, in alcuni pochi casi fortunati (Quinto Mucio e Servio su tutti), possono essere messe a confronto con tracce delle opinioni dei personaggi cui si riferiscono ».

49 Sul metodo, in quanto tale, si vedano anche le riflessioni di L. RAGGI, Il meto-do della giurisprudenza romana, pp. 38 e ss. (si tratta della seconda di diciotto le-zioni del romanista prematuramente scomparso, ora rese di comune disponibilità grazie alla cura di U. Vincenti, M. Campolunghi, S.-A. Fusco e A. Mancinelli); di TH. VIEHWEG, Topica e giurisprudenza, pp. 49 e ss., nonché gli studi di U. VINCEN-

TI, Lezioni di metodologia della scienza giuridica, pp. 22 e ss., e ID., Categorie del diritto romano, pp. 1 e ss. Cfr. poi, su temi specifici, M. GARCIA GARRIDO, Casuismo y jurisprudencia romana. Pleitos famosos del Digesto, nonché, nella parte iniziale, ID., Realidad y abstracción en los casos jurisprudenciales romanos (Estratos casuísticos en los supestos de comodato de caballerias), pp. 249 e ss. [pp. 249 e ss., in particolare]; con maggior approfondimento L. VACCA, Contributo allo studio del metodo casistico nel diritto romano, 1967 [e 1982], passim, nonché, ora, EAD., Metodo casistico e sistema prudenziale. Ricerche, passim (volume che racco-glie, in particolare, i seguenti contributi: Casistica giurisprudenziale e concettualiz-zazione ‘romanistica’, pp. 29 e ss.; Analogia e diritto casistico, pp. 105 e ss.; I pre-

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INTRODUZIONE

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cedenti e i responsi dei giuristi, pp. 129 e ss. [pp. 136 e ss., in particolare]; L’interpretazione analogica della legge e il diritto casistico nell’esperienza romana, pp. 159 e ss.; Casistica e sistema da Labeone a Giuliano, pp. 175 e ss.; L’interpretazione casistica fra storia e comparazione giuridica, pp. 257 e ss.); si vedano anche A. GUZMÁN, Dialéctica, casuística y sistemática en la jurisprudencia romana, pp. 17 e ss.; A. D’ORS, Singularidad intelectual del jurista y cosmos casuí-stico en el estudio actual del Derecho Romano, pp. 283 e ss. [nonché H. KLAMI, Ka-suistiikkaa vai käsiteilanoppia. Roomalaisten juristen ajattelun tutkimuksesta, pp. 145 e ss., vista grazie al prezioso ‘Refernt’, in lingua tedesca, ivi, pp. 158-159, dove l’Autore, sulla base della precedente produzione, dà un quadro sintetico del proprio pensiero]. A questo proposito, è opportuno ricordare anche le acute osservazioni di C. BEDUSCHI, Tipicità e diritto. Contributo allo studio del razionalismo giuridico, passim e pp. 5 e ss.: ivi, già all’interno della densa introduzione [‘Avvertenza’] lo Studioso osserva, con riguardo all’operazione della ‘tipizzazione’, che essa è « ha come risultato di trasformare concrete esperienze di vita in modelli ideali di compor-tamento, alla stregua dei quali diventa poi possibile commisurare e giudicare quella medesima realtà empirica che li ha suggeriti » (una sorta, quindi, di operazione cir-colare, che descrive in modo estremamente efficace le caratteristiche della datio re-gulae propria della iurisprudentia romana, che va dal caso alla sua generalizzazione per tornare, in qualche modo, al caso di partenza). Non mancano, inoltre, contributi calibrati sul-l’approccio ‘casistico’ dei giuristi romani, in settori determinati del di-ritto privato, in cui siano stati studiati passi della scuola serviana: cfr., a mero titolo di esempio, M.D. FLORIA HIDALGO, La casuistica del ‘furtum’ en la Jurisprudencia romana, pp. 99-101 (in riferimento ad Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.5.23 [= Pal. Alf. 56], la quale, assai singolarmente, arriva a sostenere che il caso in esame, e quanto salvato in Ulp. XVIII ad ed., D. 9.2.27.21 [= Pal. Ulp. 624], rappresentano « dos versiones de un mismo caso ». La studiosa, infatti, manifesta il proprio stupore in ordine alla circostanza che né Huvelin né Albanese « ponen en relación estos te-xtos ». Si tratta, però, di una relazione evidentemente vista per errore dalla Floria Hidalgo (e dalla stessa ribadita in op. cit., p. 101). Infatti, mentre si sarebbero dovute sottolineare, certamente, le affinità tra i testi — compresa la concessione dell’actio in factum in entrambi — maggiore attenzione sarebbe dovuta andare, soprattutto, agli elementi che caratterizzano D. 19.5.23 e D. 9.2.27.21 nei termini di profonda differenziazione: diversa è la modalità di avveramento del fatto; diversi sono i mezzi di tutela, a seconda del differente esito dell’azione nel testo ulpianeo; non ultimo, diverso è il genere letterario utilizzato dai due giuristi severiani per formalizzare i rispettivi frammenti); C.A. CANNATA, Una casistica della colpa contrattuale, p. 422 (con riguardo ad Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.2.30.4 [= Pal. Alf. 54]: e vd. I. DE

FALCO, ‘Diligentiam praestare’. Ricerche sull’emersione dell’inadempimento colpo-so delle ‘obligationes’, pp. 70 e ss.); J.H. LERA, El contrato de sociedad. La casui-stica jurisprudencial clásica, pp. 40 e ss., 144 e ss. (a proposito di Alf. III dig. a

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Ultima, ma non per questo meno importante, la considerazio-

ne secondo cui un approfondimento delle caratteristiche proprie della

elaborazione serviana potrà rivelarsi proficuo anche per il giurista

moderno, teorico o pratico del diritto 50 , che non appartenga alla

schiera di coloro che guardano con diffidenza all’ingente patrimonio

costituito dal mondo giuridico romano 51.

Paul. epit., D. 17.2.71 [= Pal. Alf. 51]). Non saprei dire, infine, se l’esperimento proposto (di recente, e per questo segnalato) da J. GARCÍA CAMIÑAS, Metodología casuística: un proyecto de investigación y práctica docente, pp. 329-333, possa es-sere percorribile, efficace o, più semplicemente, corretto, ma certo l’idea, in sé con-siderata, è meritevole di riflessione e di ulteriori approfondimenti. Da ultimo, per cenni, F.J. CASINOS MORAS, Jurisprudencia y sistema de fuentes en la experiencia jurídica romana y moderna, pp. 1928-1929 e nt. 39.

50 E che non sia, però, dominato dal « enemigo declarado » del ‘metodo giuridico’ (inteso come « modelo histórico que podemos llmar el modelo de la tradición » storico-giuridica’), ossia « el nuevo dominio cultural del saber técnico-económico », come sa-gacemente appuntato da M. FIORAVANTI, Lo que está en juego. El papel de las disci-plinas histórico-jurídicas en la formación del jurista europeo, pp. 16-17 (et passim, la cui parte analitica è molto acuta). Il pensiero non può non correre, a questo proposito, all’insipenza che ha ispirato le fasi più o meno recenti delle (varie) riforme (e controriforme) universitarie italiane.

51 Appaiono significative, a questo riguardo, le note tesi recentemente propugna-te dal Monateri su ‘Gaio’ e sulle origini del diritto romano (come « ricostruzione della tradizione giuridica occidentale [...] volta a celarne le componenti orientali e con esse il carattere intimamente multiculturale », componenti antiche e antichissime — a parere del compratista torinese — « taciute al fine di individuare radici storiche di comodo per il nuovo diritto comune europeo »), con le quali il comparatista tori-nese dimostra, almeno sul punto, di muovere da conoscenze piuttosto approssimati-ve, e a tratti sgangherate, circa l’esperienza giuridica romana: cfr. P.G. MONATERI, Black Gaius. A Quest for the Multicultural origins of the Western Legal Tradition, in « Hastings Law Journal », LI.3, 2000, pp. 479 e ss. (su cui vd. K. TUORI, Ancient Roman Lawyers and Modern Legal Ideals. Studies on the impact of contemporary concerns in the Interpretation of ancient Roman legal history, pp. 122 e ss.); in ver-sione italiana in P.G. MONATERI – T. GIARO – A. SOMMA, Le radici comuni del diritto europeo. Un cambiamento di prospettiva, Roma, 2005, pp. 19-76 (p. 9, per la citazione, tratta dalla ‘Avvertenza’) nonché ID., Gaio nero. Una ricerca sulle origini multiculturali della ‘Tradizione Giuridica Occidentale’ [versione pdf.], in « The Cardozo Electronic Law Bulletin » - www. jus.unitn.it/cardozo/Review/home.html). Contro tali teorie hanno reagito E. CANTARELLA, Diritto romano e diritti orientali.

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INTRODUZIONE

33

A questo proposito, infatti, resta quale monito e, più ancora,

quale direttiva di condotta quanto suggeriva Luigi Mengoni — altro

insigne giurista, appartenente ad una generazione di grandi civilisti

che va scomparendo, alle cui lezioni ho avuto il privilegio di assiste-

re, non per nulla attento al momento storico, e romanistico, in parti-

colare, del diritto privato.

Questi, infatti, a proposito dell’interpretazione « contro la te-

si positivistica del primato dell’esegesi letterale », osservava che « il

testo deve essere interrogato con una domanda relativa a un caso (re-

ale o pensato) da risolvere: chi non ha domande da porre non è in

grado di comprendere un testo » 52.

Da ‘Black Athena’ a ‘Black Gaius’: recenti ipotesi sulle origini e caratteristiche del diritto romano, in « Scritti in ricordo di Barbara Bonfiglio », Milano, 2004, pp. 101 e ss.; A. MANTELLO, ‘Diritto europeo’ e ‘diritto romano’: una relazione ambigua, pp. 102-103; F. ZUCCOTTI, Tutti i colori di Gaio, in « RDR. », IV, 2004 [online]; A. GUARINO, La metafora del diritto europeo, p. 6; V. MAROTTA, Cittadinanza imperia-le e britannica: le riflessioni di James Bryce, pp. 424-427 nt. 67; F. MERCOGLIANO, Su talune recenti opinioni relative ai fondamenti romanistici del diritto europeo, pp. 86 e ss., 97 e ss. = ID., Fundamenta, pp. 35 e ss.; A. PALMA, Giustizia e senso comu-ne, p. IX; E. STOLFI, La genealogia – il potere – l’oblio, l’inattuale e l’antico. A pro-posito di alcune recenti pubblicazioni, pp. 521 e ss. nonché, ampiamente, G. SAN-

TUCCI, La scienza Gaia e la strana idea del diritto romano non romano, pp. 1057 e ss. (e vd., più in generale, F. GALLO, L’interpretazione del diritto è affabulazione?, pp. 35 e ss. [= cap. III], in particolare); da ultimi, F. KLINCK, Rec. a MONATERI –

GIARO – SOMMA, op. cit. (con un giudizio elegantissimo ma inesorabile circa il valo-re delle idee propugnate dagli autori esaminati); C. PELLOSO, Studi sul furto nell’an-tichità mediterranea, p. 298 nt. 58; e la ‘relazione di sintesi’ dei problemi relativi di L. GAROFALO, Diritto romano e scienza del diritto, pp. 321 e ss. Sul punto mi per-metto, infine, di rinviare anche a qualche spunto offerto in M. MIGLIETTA, ‘Open Access’ e ‘Diritto romano’: il contributo al progetto dell’area storico-giuridica, pp. 128-130 nt. 2).

52 Così L. MENGONI, A proposito della ‘Teoria generale della interpretazione’ di Emilio Betti, p. 156. Più in generale è opportuno rinviare, da ultimo, a G. SANTUCCI, Il dialogo con la storia giuridica nel metodo di Luigi Mengoni. Riflessioni minime su un esempio da coltivare, in « Luigi Mengoni o la coscienza del metodo [L. No-gler – A. Nicolussi, curr.] », pp. 211 e ss. (e rinvio ancora a MIGLIETTA, op. et loc. ult. cit.).

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« SERVIUS RESPONDIT »

34

4. Il primo incoraggiamento a procedere lungo questa strada

— come spesso accade nell’Università — è provenuto proprio dai

‘miei’ Studenti della Facoltà di Giurisprudenza di Trento, ai quali va

il mio cordiale, quanto costantemente affettuoso, pensiero.

E se, come osservavo più sopra, studi di questa natura, con-

dotti direttamente sulle fonti, che richiedono lungo, paziente e meti-

coloso lavoro, inducono ad un sentimento (che, a tratti, pare dover

essere incolmabile) di distanza rispetto ai risultati ‘immediati’ che

possano essere raggiunti, incita in ogni caso a proseguire lungo la

strada intrapresa (mutatis mutandis, naturalmente) l’incoraggiamento

contenuto nelle sagge parole di Karl Eduard Zachariae von Lingen-

thal.

Il grande bizantinista tedesco, infatti, nella breve, ma incisi-

va, ‘praefatio’ al terzo prezioso tomo degli ‘Anecdota’ così scrive-

va 53: « Sunt enim non pauci, qui, si vel libris iuris Graeco-Romani

ad interpretationem iuris Iustinianei uti neutiquam dedignentur, ta-

men editores illorum philologis magis quam iuris peritos esse existi-

ment. Quodsi libro singulari de actione in factum adversus eum, qui

locupletior factus est, somniaveris, vel longum ac taediosum tracta-

tum de mora eiusque effectibus spisso volumine compilaveris, cuncti

te laudare properant, arreptaque manu in gremium Iureconsultorum

recipiunt. Sin recondita exquiras, semina spargas, ex quibus laeta

messi sperari potest, — segetem tuam teque ipsum pauci sunt, qui

colant! ».

Ho, comunque, fiducia che non sia così: in realtà, ho già ri-

53 Così K.E. ZACHARIÄ VON LINGENTHAL, 'Anškdota, III, pp. III-IV. Nel sottoli-

neare il valore dell’affermazione, e fornendone, peraltro, una scorrevole traduzione italiana, vi aveva fatto riferimento anche G.S. MARCOU, Zachariae von Lingenthal Karl Eduard, in « NNDI. », XX, Torino, 1975, p. 1093. Per ulteriori dati biografici, e ragguaglio di letteratura, sullo Zachariae mi permetto di rinviare ancora, da ultimo, a M. Miglietta, ‘Open Access’ e ‘Diritto romano’: il contributo al progetto dell’area storico-giuridica, p. 143 nt. 31.

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INTRODUZIONE

35

cevuto numerosi e talora anche consistenti segnali di apprezzamento.

E parimenti nutro la speranza, attraverso un laborioso percorso, di

poter giungere, infine, all’offerta dello studio complessivo — in pun-

to tradizione delle testimonianze e, sulla base di questa, del contenu-

to — del corpus serviano, in uno con la sua palingenesi.

* * * *

Al termine di questa ‘Introduzione’, mi corre l’obbligo di

ringraziare sentitamente l’amico professor Christian Baldus, per a-

vermi gentilmente ospitato, durante i mesi estivi tra il 2005 e il 2009,

nell’Institut für geschichtliche Rechtswissenschaft (della Ruprecht-

Karls-Universität di Heidelberg), di cui è direttore (oltre che attuale

Dekan della Juristische Fakultät), mettendo a mia più completa di-

sposizione la splendida biblioteca romanistica (oltre alla sua acco-

gliente abitazione), in cui ho potuto lavorare, ‘a scaffale aperto’, per

ampi squarci di tempo, con una intensità resa ormai inconsueta, in

Italia, dagli intensi impegni didattici e istituzionali.

Allo stesso modo, esprimo viva riconoscenza ai colleghi e

amici professori Ruggero Maceratini, Luca Nogler (preside alla fa-

coltà giuridica tridentina) e Gianni Santucci (direttore del diparti-

mento di Scienze Giuridiche), componenti la prescritta ‘commissione

di lettura’, per aver espresso parere favorevole alla pubblicazione di

questo lavoro nella collana delle pubblicazioni del dipartimento ap-

pena menzionato.

Ai professori Carlo Beduschi e Fausto Goria, e agli amici

professori Santucci, Emanuele Stolfi e Ferdinando Zuccotti rivolgo

un ringraziamento sincero per le acute osservazioni e per i fruttuosi

scambi di opinione; ai dottori Saverio Masuelli (ricercatore

nell’Università degli Studi di Torino) ed Enrico Sciandrello (assegni-

sta di ricerca nell’Università degli Studi di Trento) per l’aiuto prezio-

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« SERVIUS RESPONDIT »

36

so prestato in sede di revisione editoriale del testo.

Un encomio va, infine, al servizio ‘acquisizione monografi-

che, prestito, prestito interibliotecario e internazionale’ dell’Ateneo

di Trento, e, in particolare, alla responsabile, signora Ivana Eccher.

Grazie alla sollecitudine e alla professionalità di ciascun operatore ho

potuto disporre, in tempi sempre rapidi, di opere indispensabili per la

mia ricerca, anche non possedute dal Sistema Bibliotecario Trentino

e, talora, neppure da altre biblioteche nazionali.

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CAPITOLO PRIMO

SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

SOMMARIO: 1.1. L’acquisizione del ‘metodo dialettico’ da parte di Servio

Sulpicio Rufo e la sua valorizzazione nell’attività del ‘respondere’ in Cic.,

Brut. 40.150-42.156 – 1.2. Continua: la nozione di ‘ambiguitas’ in Cic., De

inv. 2.40.116; suo inserimento sistematico e sue implicazioni per l’interpre-

tazione dei fenomeni giuridici – 1.3. Continua: le attività del ‘videre’, del

‘distinguere’, del ‘habere regulam’ e le finalità del metodo descritto da Ci-

cerone – 2. Elementi critici intorno alla figura e all’attività di Servio desu-

mibili da Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178] – 3.1. Il giudizio

intorno alla elaborazione serviana e muciana, attraverso il tenore delle ci-

tazioni, nel resto della produzione di Pomponio: a proposito di Servio – 3.2.

Continua: a proposito di Quinto Mucio – 4. Conclusioni e prospettive d’in-

dagine.

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1.1. L’acquisizione del ‘metodo dialettico’ da parte di Servio Sulpi-

cio Rufo e la sua valorizzazione nell’attività del ‘respondere’ in Cic.,

Brut. 40.150-42.156

In una pagina particolarmente articolata, quanto descrittiva-

mente efficace 1, del Brutus 2, Cicerone offre una dettagliata testimo-

nianza in ordine al perfezionamento nell’arte dialettica 3, conseguito

1 Per lo studio delle raffinate costruzioni ciceroniane pare utile rimandare ancora

alle ricerche di V. LONDRES DA NÓBREGA, Cicero perante o asianismo e o aticismo, pp. 111 e ss. (e 128-129, 131-132, in modo particolare).

2 Cic., Brut. 40.150-42.156. 3 Si allude alla dialettica — come arte in grado di creare un « sistema, che predi-

spone concetti formali capaci di sussunzione » — applicata all’interpretazione giuri-dica (e cfr. O. BEHRENDS, Le due giurisprudenze romane e le forme delle loro argo-mentazioni, pp. 200-201; in ID., Die Spezifikationslehre, ihre Gegner und die media sententia in der Geschichte der römischen Jurisprudenz, p. 229, il Behrends defini-sce Servio, addirittura, come « der Gründer der dialektischen oder klassischinstituti-onellen Rechtswissenschaft »), a fronte di altre possibili identificazioni come ‘meto-do della divisione’ (in Platone); come ‘logica del probabile’ (in Aristotele) e, infine, come ‘sintesi degli opposti’ (che sarà, però, soltanto in Hegel): cfr. N. ABBAGNANO, s.v. ‘Dialettica’, pp. 218 e ss. A tal proposito, si veda, ad esempio, l’affermazione di Rabano Mauro (VIII-IX sec.), secondo il quale dialettica e retorica concorrono — in quanto species — a costituire il genus ‘logica’: « Logica autem dividitur in duas species, hoc est dialecticam et rhetoricam. Dialectica est disputatio acuta, verum distinguens a falso. Rhetorica est disciplina ad persuadendum quaeque idonea » (così Raban. Maur., De univ. 15.1, in « PL. », CXI, col. 414B: sul concetto di « ve-rum distinguens a falso » vd. ancora Cic., Brut. 41.152 [fin.] e Orat. 4.16: vd. infra, ntt. 11 e 15); per la valorizzazione di Cic., Brut. 42.153 si vedano anche A. GUZMÁN

BRITO, Adrés Bello codificador. Historia de la fijación y codificación del derecho civil en Chile, I, pp. 394-395 nt. 921; ID., Historia de la interpretación de las normas en el derecho romano, pp. 323-324 e nt. 992 nonché ID., Dialéctica, casuística y sistemática en la jurisprudencia romana, p. 22 nt. 11 e D. MANTOVANI, L’elogio dei giuristi romani nel proemio al III libro delle ‘Elegantiae’ di Lorenzo Valla. ‘Per quotidianam lectionem Digestorum semper incolumis et in honore fuit lingua romana’, pp. 174-175 e nt. 67; approfondimenti bibliografici infra, nel corso del capitolo (e vd., sempre infra, nt. 23). Quanto all’acquisizione della ‘forma dialo-gica’, si può rinviare ancora alle riflessioni di J. BURCKHARDT, Griechische Kultur-geschichte, II. Künste und Forschung, pp. 437 e ss.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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dal giurista e amico 4 Servio Sulpicio Rufo 5, presso la celebre scuola

di Rodi 6, nel corso dei primi anni della maturità 7. Un’arte, quella

4 Cfr. Cic., Brut. 42.156, e vd. supra, ‘Introduzione’, nt. 5 (con testo di riferi-

mento). 5 Servio Sulpicio Rufo — definito come « die bedeutendste Persönlichkeit unter

den republikanischen Juristen », e similmente, come « il più grande giurista dell’età di Cesare » (così, rispettivamente, W. KUNKEL, Die Römischen Juristen, p. 25 ed A. SCHIAVONE, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, p. 195) — è fre-quentemente ricordato dagli Autori latini (soprattutto da Cicerone: vd., ad esempio, Cic., Pro Mur. 3.7; 7.16; 20.42; Cic., Phil. 9.7.15 e ss.; la notissima lettera riprodotta da Cic., Ad fam. 4.5 [e cfr. Ambros., Ep. ad Faustinum 2.8], lettera che J. CARCOPI-

NO, Les secrets de la correspondance de Cicéron, I, p. 278 definiva « quelque peu compassée et scholastiques » (contro la « admiration » del classico G. BOISSIER, Ci-céron et ses amis, pp. 107-108, in effetti, qui, nonostante i tanti pregi dell’opera, par-ticolarmente enfatico); Ad fam. 6.1; Sall., Hist. 1.7; Aul. Gell., N.A. 2.10.1; 7(6).12.1; vd., inoltre, Quint., Inst. or. 4.2.106; 6.1; 10.1.116; Plin., Nat. hist. 28.2.26; Plin., Ep. 5.3.5; Varr., De ling. Lat. 5.40) nonché, ancora, nel ‘Chronicon’ di Sicardus Cremonensis († 1215 [cfr. R. LARUE, G. VINCENT, B. ST-ONGE, Clavis Scriptorum Graecorum et Latinorum, 3, p. 2285 ad h.n.]), in « PL. », CCXIII, col. 444D, ove si afferma quanto segue: « His temporibus [‘de Iulio Caesare’ ], Servius Sulpicius jurisperitus, et Publius Servilius Isauricus claruerunt » (in tale passo — oltre al richiamo, inconsueto per l’epoca intermedia, di un giurista così risalente, ma che parrebbe testimoniare della fama che, in ogni caso, Servio ancora godeva per qualche via di tradizione — risulta di qualche interesse l’impiego del verbo ‘cla-resco’ — si veda, a titolo d’esempio, Suet., Nero 1 — verbo peraltro ignoto alla giu-risprudenza romana [cfr. « VIR. », I, col. 761] ma valorizzato dal Lenel per indicare il periodo di massima attività dei giuristi), sia per il Nostro che per l’Isaurico — praetor nel 54 a.C. e sostenitore di Catone, quindi cesariano (su cui si vedano F. MÜNZER, s.v. ‘Servilius, 67, (Isauricus)’, coll. 1798-1802 e G.E.F. FARQUHAR CHIL-

VER, s.v. ‘Servilio Isaurico, Publio’, p. 1923): i due nomi compaiono ancora accop-piati in Hieron., Ad Chron. Eus. 137 [Schöne ed.] (cfr. P. MELONI, Servio Sulpicio Rufo e i suoi tempi, p. 168 e nt. 67), laddove si menziona il fatto che Servio ricevette funerali a spese della res publica.

6 Cfr. Cic., Brut. 41.151 (e, in generale, F. MÜNZER – B. KÜBLER, s.v. ‘Sulpicius (Rufus)’, col. 852; P. MELONI, Servio Sulpicio Rufo e i suoi tempi. Studio biografico, pp. 9-10; A. LA PENNA, Aspetti del pensiero storico latino, p. 11; E. BUND, Rahme-nerwägungen zu einem Nachweis stoischer Gedanken in der römischen Jurispru-denz, pp. 133 e nt. 41, 145 e nt. 151, nonché A. SCHIAVONE, Il caso e la natura. Un’indagine sul mondo di Servio, pp. 41, 55, 354 nt. 3 e 359 nt. 41). Celebrato fon-datore e maestro della scuola retorica rodina, visitata da Scevola (121 a.C.) e da M.

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Antonio (98 a.C.), fu Apollonio di Alabanda, o Apollonio Molone, detto « Ð mala-

kÒj » (vd. Cic., De orat. 1.75: cfr. già O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, p. 483 e MÜNZER – KÜBLER, op. et loc. cit.). Dalle stesse testimonianze dell’Arpinate emerge che questi studiò con Apollonio, intorno alla fine degli anni 70 a.C., il quale viene definito abile teorico e pratico della disciplina nonché eccellente maestro (« … cum actorem in veris causis scriptoremque praestantem tum in notan-dis animadvertendisque vitiis et in instituendo docendoque prudentissimum »: Cic., Brut. 91.316 e cfr. Plut., Vitae [Caes.] 3.1: « œpleusen [= Ð Ka‹sar] e„j `RÒdon

™pˆ scol¾n prÕj 'Apollènion tÕn toà MÒlwnoj, oá kaˆ Kikšrwn ºkrÒato... », et rell.): vd., inoltre, in buona sintesi, T.B.L. WEBSTER, s.v. ‘Apollonio [4]’, p. 155. Sugli studi di retorica di Servio, si vedano le osservazioni di E. OTTO, De vita, stu-diis, scriptis et honoribus Servii Sulpicii, Lemonia, Rufi, coll. 1582-1583: « ... ut Servius una cum ipso, Athenas reliquente, Rhodum iter susceperit: maxime quia ple-rique nobiles Romani studiorum caussa illuc tunc excurrebant ut de Attico Nepos, de Bruto Victor: Athenis Philosophiam, Rhodi eloquentiam didicit ». Si veda anche C.M. MOSCHETTI, Gubernare navem gubernare rem publicam, p. 121 e nt. 57 (e cfr. E. LEPORE, Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda repubblica, pp. 51-52 nt. 118).

7 Il viaggio di Servio a Rodi fu effettuato, probabilmente, nel 78 a.C. (vd. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 130 e F. MÜNZER – B. KÜBLER, s.v. ‘Ser. Sulpicius Rufus’, col. 852), quando Servio aveva circa ventisette anni (essendo nato intorno al 106-105 a.C.) e — come è noto — in Roma l’età che faceva da confine tra la giovinezza e la maturità coincideva con il raggiungimento del venticinquesimo anno (si veda, per tutti, B. ALBANESE, Le persone nel diritto privato romano, pp. 514 ss.).

Sulle motivazioni del viaggio cfr. G. NEGRI, Per una stilistica dei Digesti di Al-feno, p. 152 (« quo melior esset et doctior »), nella arguta segnalazione di un paralle-lo linguistico tra Cic., Brut. 41.151 e Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 10.4.19 [= Pal. Alf. 66] (« quia […] doctior et melior futurus esset »: sul passo alfeniano vd., da ultimo, M. MIGLIETTA, ‘Open Access’ e ‘Diritto romano’: il contributo al progetto dell’area storico-giuridica, pp. 133 e ss.), ed ora A. CASTRO SÁENZ, Itinerarios ser-vianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pontifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), pp. 528 e ss. (a proposito di questo interessante lavoro — pubblicato nel primo tomo degli ‘Studi in onore di Remo Martini’ — va detto che è stato, di fatto, condotto parallelamente al mio e dal quale possono essere tratti interessanti spunti di riflessione. Se ne terrà puntualmente conto nel prosieguo dell’esposizione. Si noti, fin da ora, che l’apporto originale del lavoro consiste nel tentativo di calare in un preciso contesto ideologico, ed anche cronologico, gli elementi desumibili dalle narrazioni ciceroniana e pomponiana, più che procedere ad una minuta analisi dei testi fondamentali coinvolti).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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acquisita da Servio 8 , che, trasferita sul piano dell’interpretazione

giuridica 9, risulta consistere in una composita serie di operazioni lo-

giche 10 così articolate:

Per la data più recente circa la nascita del giurista, cfr. C. ARNÒ, Scuola muciana

e scuola serviana, p. 47 ed ora F. D’IPPOLITO, Servio e le XII Tavole, p. 31 = ID., Questioni decemvirali, p. 174 ed ora, da ultimo, A. CASTRO, Crónica de un desen-canto: Cicerón y Servio Sulpicio Rufo, p. 221 nt. 38. Il dato è congetturale, ma è re-so attendibile dalle testimonianze contenute in Cic., Brut. 40.150 (ove l’Arpinate pone sulle labbra di Bruto, a proposito di se stesso e di Servio, che « aetatesque ve-strae [...] nihil aut non fere multum differunt ») e in Cic., Brut. 42.156 (in cui, allo stesso modo, Cicerone, e sempre per bocca di Bruto — instaurando un parallelismo complessivo d’età, capacità e sentimenti — afferma: « simul illud gaudeo, quod et aequalitas vestra et pares honorum gradus et artium studiorumque quasi finitima vicinitas tantum abest ab obtrectactione et invidia, quae solet lacerare plerosque, uti ea non modo non exulcerare vestram gratiam sed etiam conciliare videatur »; cfr. anche Cic., Brut. 41.151 [« ineunte aetate »: con ogni evidenza v’è una equipa-razione] e si veda ancora, seppure solo per accenno indiretto, Cic., Fam. 4.3.3 [CCIX]: sul punto cfr. F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano ed il ‘ius in artem re-digere’, p. 364 nt. 282 = ID., Cicerone tra diritto e oratoria. Saggi su retorica e giu-risprudenza nella tarda repubblica, I, p. 145 nt. 262 = ID., Lectio sua, II, p. 811 nt. 282), poiché Cicerone era nato il 3 gennaio dell’anno 106 a.C. (cfr. Aul. Gell., N.A. 15.28.3 [con una svista — probabilmente del copista — sul prenome del console, Quinto scritto al posto di Gaio Atilio Serrano: vd., infatti, G. COSTA, I fasti consolari dalle origini alla morte di C. Giulio Cesare, I.2, Milano, 1910, pp. 14 e 103 ad ann. 648 a.U.c.]; Cic., Ad Att. 7.5.3 e 13.42.2 [che allude, però, solo al giorno del proprio genetliaco] nonché Plut., Vitae [Cic.] 2.1, secondo cui la madre avrebbe messo al mondo Marco Tullio senza subire travagli: « ¹mšrv tr…tV tîn nšwn Kalandîn, ™n

Î nàn oƒ ¥rcontej eÜcontai kaˆ qÚousin Øpr toà ¹gemÒnoj »). 8 Arte, del resto, ritenuta ‘comune a tutte le scienze’, poiché « tutte le scienze

mirano a ricercare, argomentare, dedurre etc. » (vd. G. LA PIRA, La genesi del siste-ma nella giurisprudenza romana, 4. Il concetto di scienza e gli strumenti della co-struzione scientifica, p. 139, commentando Aristot., Anal. post. 1.9.5-6 e Rhet. 1.1.1, nell’illustrazione del pensiero ciceroniano). Sulle tesi, per così dire, ipersistematiche del La Pira si vedano, però, in via generale, le osservazioni di M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus’ e ‘species’, pp. 10 (e nt. 27) e ss., nonché di A. MANTELLO, ‘Benefi-cium’ servile – ‘debitum’ naturale, pp. 239-240 nt. 80.

9 In una operazione che, secondo la dottrina, nessun contemporaneo di Cicerone sarebbe riuscito a perfezionare in modo compiuto, « ni siquiera su íntimo amigo Servio Sulpicio Rufo, que conocía perfectamente desde joven, como él, la dialécti-ca » (così, da ultimo, J. PARICIO, Los proyectos codificadores de Pompeo y César en

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San Isidoro de Sevilla, p. 39 [e nt. 25 per ulteriore, essenziale, bibliografia]). M. BRETONE, Cicerone e i giuristi del suo tempo, p. 62 = « Quaderni di storia », p. 253, a questo proposito, già parlava di Servio come di « un giurista ‘dialettico’ », « nel senso pieno per termine », che, però, non è « solo questo » poiché « alla competenza logico-giuridica e retorica aggiunge un’estesa cultura letteraria e un’estrema preci-sione stilistica ».

10 Il perfezionamento di questa ars è di sicuro interesse per lo studioso dei diritti dell’antichità ma, sotto un profilo squisitamente metodologico, può dimostrarsi fe-condo anche per la formazione del giurista moderno (vd. supra, ‘Introduzione’, § 3). Si pensi, infatti, che, senza alcun dubbio, « si deve all’attività di Servio Sulpicio Ru-fo e della sua scuola » — tra altro — « la piena maturazione della tecnica che per-mette l’elaborazione casistica del diritto, ricorrendo ad un particolare metodo di a-strazione dai casi »: così L. VACCA, I precedenti e i responsi dei giuristi, p. 51 (si vedano, pur in un contesto parzialmente differente, anche le osservazioni di R. ORE-

STANO, s.v. ‘Diritto romano’, p. 1031 [II col.]). Sulla multiforme attività intepretativa della scuola serviana — con riferimento,

ad esempio, alla lex duodecim tabularum (su cui, ampiamente, F. D’IPPOLITO, Servio e le XII Tavole, pp. 29 ss. = [ma con ampia rielaborazione] Questioni decemvirali, pp. 135 ss. e 169 ss.) — si vedano le dense riflessioni di F. BONA, La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, pp. 107-110 nt. 17 = ID., Lectio sua, II, pp. 925-927 nt. 17, che, allo stato della dottrina, mi paiono rappresentare una pagina — anzi, una sorta di ‘voce’ scientifico-enciclopedica — ancora insuperata, in cui si ribalta l’assunto secondo cui « Servio, adottando nell’interpretazione dei ver-setti decemvirali i moduli dell’ermeneutica filologica coeva », lo avesse fatto senza sfruttarli « in funzione di una interpretazione volta a coglierne il valore ‘normativo’ attuale » (forse con una speciale attenzione per gli « aspetti giurisdizionali »: cfr. an-cora F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole. I. Gli ‘auctores’ di Verio Flacco, pp. 220-221 = ID., Lectio sua, I, pp. 570-573, ripreso — mi pare di capire, adesivamente, per quanto concerne l’esclusione di un’opera ‘ad hoc’ sul co-dice decemvirale — da O. DILIBERTO, Materiali per la palingenesia delle XII Tavo-le, I, p. 27 nt. 62, con bibliografia, in particolare, a p. 5 nt. 2: vd., per contro, anche R. SCHNEIDER, Quaestionum de Servio Sulpicio Rufo iureconsulto romano specimen II, pp. 78-79; R. SCHOELL, Legis duodecim tabularum reliquiae, p. 34; M. VOIGT, Die XII Tafeln, I, pp. 64-65 e nt. 5 [e vd. pure F.P. BREMER, Iurisprudentiae anteha-drianae quae supersunt, I, pp. 228-230]; O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, coll. 325 nt. 1, 333 nt. 1 e 334 nt. 2 e, sul versante della mera possibilità, E. VER-

NAY, Servius et son École, p. 28), nonché F. D’IPPOLITO, Forme giuridiche di Roma arcaica 2, pp. 238 e ss.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Cic., Brut. 41.152 11: « […] rem universam tribuere in par-

11 Intorno ai rapporti tra il passo di Cic., Brut. 41.152 e il simile passo contenuto

in Cic., Orat. 32.113-117 (almeno nelle parti che contengono richiami espressi al precedente: cfr., ad esempio, § 115: « Noverit primum vim, naturam, genera verbo-rum et simplicium et copulatorum; deinde quot modis quidque dicatur; qua ratione verum falsumne sit iudicetur; quid efficiatur e quoque, quid cuique consequens sit quidve contrarium; cumque ambigue multa dicantur, quo modo quidque eorum divi-di explanarique oporteat » — e per acute osservazioni di natura filologica si veda il classico O. JAHN, Ciceros Orator 2, pp. 92 e ss.; e intorno ai §§ 116 e 117, in partico-lare, vd. M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, pp. 16, 160-161 nt. 466 e 220-221 nt. 626 [con ampia discussione della let-teratura]), e F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano, pp. 355-360 = ID., Cicerone tra diritto e oratoria, pp. 135-140 = ID., Lectio sua, II, p. 800-810 (in particolare, con indicazione e discussione della letteratura), in una lettura contestualizzante — e non ‘necessariamente’ conciliativa — che mi pare ancora la più convincente (cfr., infatti, A. SCHIAVONE, Nascita della giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero giuri-dico nella Roma tardo-repubblicana 2, p. 104 ss., intorno cui si vedano i rilievi di BONA, L’ideale retorico ciceroniano, p. 295 nt. 54 = ID., Cicerone, p. 75 nt. 54 = ID., Lectio sua, II, p. 732-733 nt. 54, accolti, parzialmente, da SCHIAVONE, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana, p. 204 nt. 58 [ma la precisazione — anzi, l’intera nota — non compare in ID., Linee di storia del pensiero giuridico romano, p. 159]; vd. ancora SCHIAVONE, Forme normative e generi letterari. La cristallizzazione del ius civile e dell’editto fra tarda repubblica e primo principato, p. 58). Sul riflesso che gli studi di Bona in materia hanno avuto sulla dottrina posteriore, si vedano F. CASAVOLA, Cicerone e Giulio Cesare tra democrazia e diritto, pp. 281-282; M. TA-

LAMANCA, Trebazio Testa fra retorica e diritto, p. 47 nt. 46; ID., Problemi del ‘De oratore’, pp. 3 e ss.; S. SCHIPANI, Andrés Bello romanista-istituzionista, pp. 3419 e ss. = ID., La codificazione del diritto romano comune, pp. 210 e ss.; M. D’ORTA, Per una storia della cultura dei giuristi romani, pp. 257 e ss.; ID., La giurisprudenza tra Repubblica e Principato, p. 41 nt. 9; M. BRETONE, La storia del diritto romano fra scienza giuridica e antichistica, p. 21; L. VACCA, La giurisprudenza nel sistema del-le fonti del diritto romano, pp. 55 e ss., e 68; C.A. CANNATA, Potere centrale e giu-risprudenza nella formazione del diritto privato romano, p. 73 e nt. 15; V. SCARANO

USSANI, L’ars dei giuristi, pp. 7, 15 e ss.; F.M. D’IPPOLITO, Del fare diritto nel mon-do romano, pp. 32-33; A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las nor-mas en el Derecho romano, pp. 315 e ss.; F. CUENA BOY, Sistema jurídico y derecho romano. La idea de sistema jurídico y su proyección en la experiencia jurídica ro-mana, pp. 73 e ss., 81 e ss. (su cui vd. CH. BALDUS, Sistema giuridico europeo stori-camente fondato?, p. 128); vd. anche, da ultimi, V. SCARANO USSANI, Il retore e il potere, pp. 63 e 79 nt. 53, e, approfonditamente, F. CUENA BOY, Nota di lettura a F.

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tis 12, latentem explicare definiendo, obscuram explanare interpre-

Bona, Das Ideal der Rhetorik bei Cicero und das ‘ius civile in artem redigere’ [trad. ted. di Ch. Baldus – M. Miglietta], passim.

Appare opportuno, infine, l’accostamento tra questi passi e Cic., De orat. 1.42. 188-191, accostamento proposto da F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechts-wissenschaft, pp. 83-84 = ID., Storia della giurisprudenza romana, pp. 132-133 (cfr. ID., History of Roman Legal Science 2, pp. 68-69 e 336-337 ntt. M e N); A. BÜRGE, Die Juristenkomik in Ciceros Rede Pro Murena, p. 36 e nt. 16; in particolare, le trat-tazioni di BONA, op. cit., pp. 299 ss. = ID., Lectio sua, II, pp. 736 ss. (ma cfr. anche i rilievi di T. GIARO, Über methodologische Werkmittel der Romanistik, p. 203 nt. 82), di S. SCHIPANI, Sull’insegnamento delle istituzioni, pp. 190-191 nt. 86 e di SCHIA-

VONE, Giuristi e nobili, pp. 38 e ss. ~ ID., Linee di storia del pensiero giuridico ro-mano, pp. 52 e ss.; si veda anche R. MARTINI, ‘Genus’ e ‘species’ nel linguaggio ga-iano, p. 464. Per i testi del de oratore, appena citati, vd. M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, pp. 211 e ss.

12 Circa l’operazione del ‘tribuere in partis’, si noti il parallelo — ma con le pre-cisazioni che a quel riguardo verranno fatte circa la diversa disposizione degli ele-menti (dividere e definire) — contenuto in Cic., Orat. 4.16 (citato infra, nel testo e nt. seg.) e 15.15. Intorno a tale attività si veda, nella manualistica, in particolare, L. AMIRANTE, Una storia giuridica di Roma. Dai re a Cesare. Sesto quaderno di lezio-ni, p. 367; per la dottrina specialistica, O. BEHRENDS, Le due giurisprudenze romane e le forme delle loro argomentazioni, pp. 200-201 e, da ultimo, M. AVENARIUS, Der pseudo-ulpianische ‘liber singularis regularum’, pp. 88-90, e 88-89 nt. 11-12 (il quale sottolinea il debito contratto con Servio dalla « klassische Rechtswissen-schaft » circa l’adozione del metodo della partizione — come indicherebbero anche i libri iuris partiti dell’allievo Ofilio (su cui vd. già F.D. SANIO, Rechtshistorische Abhandlungen und Studien, pp. 70 e ss., e 92 e ss. in particolare): cfr. anche O. BEH-

RENDS, Feste Regelungsstruktur oder auslgegungsfähiges Pflichtenverhältnis. Exe-gesen zu den beiden Vertragsbildern der römischen Verkehrsrechts am Biespiel der bezifferten Gefahrübernahme für überlassene Sachen, p. 76 nt. 75 = ID., Institut und Prinzip, II, pp. 970-971 nt. 75; ed ancora AVENARIUS, op. cit., pp. 468-469. Sui libri ofiliani vd., da ultimo, A. SCHIAVONE, Forme normative e generi letterari, p. 70 e nt. 39; ma si consideri, soprattutto, la pregevole proposta ricostruttiva di P. CERAMI, Il sistema ofiliano, pp. 83 e ss., secondo cui, « in particolare, i ‘libri iuris partiti’, lungi dal contrassegnare un’opera autonoma, distinta dai ‘plures libri’ de iure civili, di cui parla Pomponio, dovevano costituire l’effettiva denominazione ‘unificante’ di tutte le ‘partes operis’ » (ivi, pp. 92-93; cfr., inoltre, F. D’IPPOLITO, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della Repubblica, pp. 106 e ss.).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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tando, ambigua primum videre, deinde distinguere 13, postremo ha-

bere regulam qua vera et falsa iudicarentur et quae quibus proposi-

tis 14 essent quaeque non essent consequentia 15 » 16.

13 Sull’attività del ‘ambigua distinguere’, v. paralleli ancora in Cic., Orat. 4.16

(idem c.s.) e Cic., Fin. 1.7 (e cfr. l’epilogo di Sen., Epist. mor. 109.18, significativo poiché ripercorre i temi — oltre che del ‘inplicta solvere’ — del ‘ambigua distin-guere’ e del ‘obscura perspicere’, in quest’ordine, ove tornano i temi dell’ambiguitas e della obscuritas, come in Cic., Brut. 41.152, seppure in ordine in-verso). Sul tema vd. anche S. TAFARO, Il giurista e l’‘ambiguità’. Ambigere – ambi-guitas – ambiguus, p. 88-89 e nt. 204.

14 Su ‘propositis’ vd., da ultimo, M. AVENARIUS, ‘Neque id sine magna Servii laude…’. Historisierung der Rechtswissenschaft und Genese von System und Me-thode bei Donellus, p. 72 nt. 61 (e cfr. ID., Das „gaiozentrische“ Bild vom Recht der klassischen Zeit, p. 113 e nt. 78). Per il tratto « postremo habere regulam qua vera et falsa iudicarentur » vd. anche infra, nt. 35.

15 E vd. ivi fino a Cic., Brut. 42.154, ove si ha « il ritratto che Cicerone delinea di Servio, paragonandolo con i suoi maestri L. Lucilio Balbo e C. Aquilio Gallo » (vd. infra, § 2, in merito a Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178] e, per la citazione, M. BRETONE, Diritto e tempo nella tradizione europea 4, p. 17. Sul punto cfr. già E. KÜBLER, s.v. ‘Sulpicius (Rufus), 95’, coll. 858-859).

16 Sull’intero passo e sulle sue parti costitutive, oltre alla letteratura citata in que-sta pagine, vd. A. WATSON, Law Making in the Later Roman Republic, pp. 159 e ss.; C. RATHOFER, Ciceros ‘Brutus’ als literarisches Paradigma eines Auctoritas – Ver-hältnisses, pp. 249 e ss.; V. SCARANO USSANI, Tra ‘scientia’ e ‘ars’, pp. 243 e ss. = ID., L’‘ars’ dei giuristi, pp. 27 e ss. Da ultimi, C.A. CANNATA, ‘Iura condere’. Il problema della certezza del diritto fra tradizione giurisprudenziale e ‘auctoritas principis’, p. 44 (in particolare, ove il testo è indicato per svista come « Cic., Brut. 40,152 », e vd. pp. preced.); A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en el derecho romano, pp. 323-324 (il quale sottolinea, molto opportuna-mente [in loc. cit. e ntt. 993-995], il ritorno di temi analoghi in Cic., Acad. priora 2.28.91 [vd., ad es., l’incipit: « dialecticam inventam esse dicitis veri et falsi quasi disceptatricem et iudicem »] e in Cic., Tusc. 5.24.68 [in forma implicita] e 5.25.72 [laddove, in particolare, si dice « ... quae per omnis partis sapientae manat et fundi-tur, quae rem definit, genera dispertit, sequentia adiungit, perfecta concludit, vera et falsa diiudicat, disserendi ratio et scientia »]) e M. AVENARIUS, ‘Neque id sine ma-gna Servii laude…’, pp. 72 e ss. (su cui vd. F. THEISEN, XXXV deutscher Rechtshis-torikertag. Verleihung des VI premio Boulvert (Bonn, 12-17 settembre 2004), p. 411; O. BEHRENDS, Der Kommentar in der römischen Rechtsliteratur, pp. 448-449; per un’analisi delle varie posizioni dottrinali, cfr. W. WALDSTEIN, Cicero, Servius und die ‘Neue Jurisprudenz’, pp. 104 e ss., in particolare). Una lettura ‘in negativo’

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Tale progressione 17 verrà ripresa dall’Arpinate — nello stes-

so anno, ossia nel 46 a.C. 18 — all’interno dell’Orator, con corri-

del passo, non priva di qualche risvolto interessante (poiché raffrontato a Cic., De orat. 1.42), si trova, invece, in J. IGLESIAS-REDONDO, La jurisprudencia romana: entre tradición y progreso, p. 141 (« se lamentaba Cicéron — con su modo de pensar, pudiera decirse a lo griego — de que los juristas romanos no hayan construi-do, a fuerza de particiones en géneros y especies, y sobre la base de definiciones claras y reglas abstractas, un hermoso y bien pautado edificio sistemático »). Vd. anche J. KIROV, Die soziale Logik des Rechts. Recht und Gesellschaft der römischen Republik, pp. 112-113 nonché A. CENDERELLI – B. BISCOTTI, Produzione e scienza del diritto: storia di un metodo, pp. 197 e ss. (dalla parte II, a firma della Biscotti) e K. TUORI, The myth of Quintus Mucius Scaevola: founding father of legal science?, p. 246 e nt. 12 e ID., Ancient Roman Lawyers and Modern Legal Ideals, pp. 26 e 31; D.O. EFFER-UHE, Die Wirkung der ‘condicio’ im römischen Recht, pp. 21 e nt. 30 e 25 (e nt. 51) nonché R. DOMINGO, Ex Roma ius, pp. 34 e ss. Da ultimo cfr. ancora G. CALBOLI, Introduzione alla inventio, pp. 200-201 (e mi permetto di rinviare, in gene-rale, a M. MIGLIETTA, Intorno al metodo dialettico della scuola serviana: cenni in materia di conflitto logico tra ‘quaestio’ e ‘responsum’ nei ‘digesta’ di Alfeno Varo, passim, nonché, più ampiamente, a ID., Casi emblematici di ‘conflitto logico’ tra ‘quaestio’ e ‘responsum’ nel ‘digesta’ di Publio Alfeno Varo, pp. 275-289, in parti-colare).

17 Da notare, sul punto (oltre alla sintesi efficace di G. MANTELLINI, Papiniano, pp. 43-44, secondo cui fu « il primo [Servio] a trattare del diritto con arte dialettica, nel distribuire in parti l’universa materia, nel definire le cose da spiegare, nell’interpretare le oscure, nello scorgere le ambiguità per poi scioglierle, nello avere insomma una regola per scernere il vero dal falso, e le cose le quali conseguissero e quelle no dalle premesse »), la traduzione moderna di N. ABBAGNANO, s.v. ‘Dialetti-ca’, p. 217, al cui proposito si parla dell’« arte che insegna a distribuire una cosa in-tera nelle sue parti, a spiegare una cosa nascosta con una definizione, a chiarire una cosa oscura con una interpretazione, a scorgere prima, poi a distinguere ciò che è ambiguo e da ultimo a ottenere una regola con la quale si giudichi il vero ed il falso e se le conseguenze derivino dalle premesse assunte». Tale traduzione è stata ripre-sa, sul versante degli studi romanistici, da F. GALLO, Synallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revi-sione di impostazioni moderne. Corso di diritto romano, I, p. 85 (e nt. 28), mentre altre ne hanno offerte M. BRETONE, Storia del diritto romano 8, p. 205 (la dialettica « insegna a distribuire in parti un oggetto intero, a chiarire definendolo ciò che è na-scosto, a spiegare con l’interpretazione ciò che è oscuro; insegna anche a riconoscere le ambiguità e a distinguerle; infine a ottenere un criterio su cui giudicare il vero e il falso, e stabilire quali conseguenze discendono e quali no da certe premesse ») ed A.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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spondenze che appaiono immediatamente alla lettura sinottica, seb-

bene in una formalizzazione dotata di minor sistematicità e riferita

peraltro, in prima battuta, al ‘sapere filosofico’ (la cosiddetta ‘philo-

sophorum disciplina’ ) 19.

Si veda infatti

Cic., Orat. 4.16: « Nec vero sine philosophorum disciplina

genus et speciem cuiusque rei cernere neque eam definiendo explica-

re nec tribuere in partis possumus nec iudicare quae vera quae falsa

SCHIAVONE, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana, pp. 42-43 = ID., Linee di sto-ria del pensiero giuridico romano, p. 55, ed ora, con qualche ritocco, ID., Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, p. 167: « quella scienza che insegna a dividere in parti un tutto, a spiegare il nascosto definendo, a chiarire l’oscuro interpretando, a vedere innanzitutto le ambiguità, poi a precisarle, e infine a possedere una regola con la quale giudicare il vero e il falso, e quali conseguenze si possano trarre e quali no, date certe premesse »). Per una ‘summa’ dei concetti racchiusi in Cic., Brut. 41.152, si veda, da ultima, L. VACCA, L’‘Aequitas’ nella ‘interpretatio prudentium’, p. 32 (cit. più avanti, nel testo). Per completezza, e per una sintesi, si veda già C. FERRINI, Le scuole di diritto in Roma antica, in ID., Opere, II, p. 2. Tali versioni, in sé ben congegnate, mi pare, tuttavia, lascino ancora ampio spazio ad uno studio mi-nuzioso delle singole parti compositive (nonostante la presenza di un’articolata pro-posta già in A. CARCATERRA, Le definizioni dei giuristi romani. Metodo, mezzi e fini, pp. 84 e ss.). Per la letteratura di lingua spagnola si veda, per tutti, A. GUZMÁN BRI-

TO, Dialéctica, casuística y sistemática en la jurisprudencia romana, p. 22 nt. 11. 18 La redazione del Brutus precedette, di alcuni mesi, quella dell’Orator (e, nello

stesso anno, avvenne anche la stesura dei Paradoxa stoicorum): cfr. S. ROCCA, Cice-rone, p. 476; G. NORCIO, Opere retoriche di M. Tullio Cicerone, I. De Oratore, Bru-tus, Orator, pp. 38 ss. e 48 ss.; cfr. anche G. CAVALLO – P. FEDELI – A. GIARDINA [dir.], Lo spazio letterario di Roma antica, V. Cronologia e bibliografia della lette-ratura latina, p. 67. Cfr., inoltre, l’importante lavoro di K. BRINGMANN, Untersu-chungen zum späten Cicero, pp. 13 e ss. e 41 e ss., e, per gli studi romanistici, F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano, p. 354 nt. 266 = ID., Cicerone tra diritto e ora-toria, p. 134 nt. 266 = ID., Lectio sua, II, p. 800 nt. 266.

19 Sul punto, vd. G. LA PIRA, La genesi del sistema nella giurisprudenza roma-na. 2. L’arte sistematrice, pp. 344 e ss. (dove la sequenza del partire e del definire sono analizzate nell’ordine dell’Orator).

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sint neque cernere consequentia, repugnantia videre, ambigua di-

stinguere » 20.

Focalizzando l’attenzione sul primo brano 21 — poiché diret-

tamente ascritto all’operato di Servio 22 — emerge che le attività spe-

cifiche della ‘dialettica’ 23 si snodano, dunque, lungo due livelli 24.

20 Per quanto riguarda le differenze tra i due brani, queste sono di carattere strut-turale ma non contenutistico: il ‘tribuere in partis’ e il ‘definiendo explicare’ aprono l’esposizione delle operazioni logico-dialettiche in entrambi i passi, mentre, nel se-condo, l’individuazione del vero e del falso anticipa l’‘ambigua distinguere’ (a cui manca, peraltro, l’operazione preliminare del ‘videri’, sebbene debba considerarsi logicamente presupposta: non si può valutare una entità che presenti i contorni della ambiguità se non intercettandone il veicolo semantico). Cfr., inoltre, per alcune ana-logie, Cic., Orat. 29.102: « Tota mihi causa pro Caecina de verbis interdicti fuit: res involutas definiendo explicavimus, ius civile laudavimus; verba ambigua distinxi-mus », su cui, da ultimo, O. BEHRENDS, Selbstbehauptung und Vergeltung und das Gewaltverbot im geordneten bürgerlichen Zustand nach klassischem römischen Recht, pp. 122-123 nt. 156. Per un rimando di sostanza a Cic., De orat. 1.41.186-42.191 si veda, di recente, U. VINCENTI, Categorie del diritto romano, p. 2 (e) nt. 3.

21 Circa le ascendenze euclideo-aristoteliche della lectio ciceroniana (e le suc-cessive reminiscenze tomistiche: cfr., infatti, Tom. Aq., Comm. in post. analyt. 1.1. lect. 1), cfr. G. LA PIRA, La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. L’arte sistematrice, pp. 348-350 e, più nel dettaglio, ID., La genesi del sistema nella giuri-sprudenza romana. Il metodo, pp. 319 e ss.

22 Questa, infatti, l’ampia pagina dedicata a Servio in Cic., Brut. 40.150-42.156: « 150 – Tum Brutus: cum ex tua oratione mihi videor, inquit, bene Crassum et Scae-volam cognovisse, tum de te et de Ser. Sulpicio cogitans esse quandam vobis cum illis similitudinem iudico. Quonam, inquam, istuc modo? Quia mihi et tu videris, inquit, tantum iuris civilis scire voluisse quantum satis esset oratori et Servius elo-quentiae tantum adsumpsisse, ut ius civile facile possit tueri; aetatesque vostrae ut illorum nihil aut non fere multum differunt. – 151. Et ego: de me, inquam, dicere nihil est necesse; de Servio autem et tu probe dicis et ego dicam quod sentio. non enim facile quem dixerim plus studi quam illum et ad dicendum et ad omnes bona-rum rerum disciplinas adhibuisse. nam et in isdem exercitationibus ineunte aetate fuimus et postea una Rhodum ille etiam profectus est, quo melior esset et doctior; et inde ut rediit, videtur mihi in secunda arte primus esse maluisse quam in prima se-cundus. atque haud scio an par principibus esse potuisset; sed fortasse maluit, id quod est adeptus, longe omnium non eiusdem modo aetatis sed eorum etiam qui fuissent in iure civili esse princeps. – 152. [vd. supra, nel testo]. – 153. Hic enim

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adtulit hanc artem omnium artium maxumam quasi lucem ad ea, quae confuse ab aliis aut respondebantur aut agebantur. Dialecticam mihi videris dicere, inquit. Recte, inquam, intellegis; sed adiunxit etiam et litterarum scientiam et loquendi ele-gantiam, quae ex scriptis eius, quorum similia nulla sunt, facillime perspici potest. – 154. Cumque discendi causa duobus peritissumis operam dedisset, L. Lucilio Balbo C. Aquilio Gallo, Galli hominis acuti et exercitati promptam et paratam in agendo et in respondendo celeritatem subtilitate diligentiaque superavit; Balbi docti et eru-diti hominis in utraque re consideratam tarditatem vicit expediendis conficiendisque rebus. sic et habet quod uterque eorum habuit, et explevit quod utrique defuit. – 155. Itaque ut Crassus mihi videtur sapientius fecisse quam Scaevola — hic enim causas studiose recipiebat, in quibus a Crasso superabatur; ille se consuli nolebat, ne qua in re inferior esset quam Scaevola — sic Servius sapientissume, cum duae civiles artes ac forenses plurimum et laudis haberent et gratiae, perfecit ut altera praesta-ret omnibus, ex altera tantum adsumeret, quantum esset et ad tuendum ius civile et ad obtinendam consularem dignitatem satis. – 156. Tum Brutus: ita prorsus, inquit, et antea putabam — audivi enim nuper eum studiose et frequenter Sami, cum ex eo ius nostrum pontificium, qua ex parte cum iure civili coniunctum esset, vellem co-gnoscere — et nunc meum iudicium multo magis confirmo testimonio et iudicio tuo; simul illud gaudeo, quod et aequalitas vestra et pares honorum gradus et artium studiorumque quasi finitima vicinitas tantum abest ab obtrectatione et invidia, quae solet lacerare plerosque, uti ea non modo non exulcerare vestram gratiam, sed e-tiam conciliare videatur. quali enim te erga illum perspicio, tali illum in te voluntate iudicioque cognovi ».

23 Lo dichiara esplicitamente il protagonista in Cic., Brut. 42.153: « Dialecticam mihi videris dicere, inquit [= Brutus] ». Nello stesso paragrafo « si afferma che la dialettica è la massima di tutte le arti e che Servio Sulpicio Rufo la applicò come una luce in campo giuridico, togliendo la confusione prima esistente nei pareri e nei pro-cessi » (così F. GALLO, Synallagma e conventio nel contratto, I, p. 85 nt. 29; sulla robusta preparazione retorica di Servio, e sulle sue interrelazioni con l’attività di giu-rista cfr., in particolare, G. LA PIRA, La genesi del sistema nella giurisprudenza ro-mana. L’arte sistematrice, pp. 339 e ss.; B. VONGLIS, Sententia legis. Recherches sur l’interpretation de la loi dans la jurisprudence classique, p. 122 nt. 3; M. TALA-

MANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, pp. 8 e ss.).

24 Sia detto, a modo di precisazione, che in questa sede, oltre alla valenza retori-ca del brano in sé e per sé considerata, verranno evidenziate, soprattutto, le implica-zioni per così dire ‘giuridiche’ (ermeneutiche) del metodo: cfr. F. CUENA BOY, Si-stema jurídico y derecho romano, pp. 86 e ss.; B. SCHMIDLIN, Die römischen Re-chtsregeln, pp. 172-173 (pur criticamente sulla ‘originalità’ della elencazione cice-roniana: ma non deve stupire affatto che l’Arpinate ricalchi fonti retoriche avendo egli studiato approfonditamente quest’arte, insieme a Servio: vd., sul punto, già gli

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Un primo livello, per così dire immediato, impone all’inter-

prete di operare la ‘partitio’ 25 e, quindi, la trattazione dell’argomen-

to complesso per segmenti successivi (« rem universam tribuere in

partis ») 26.

studi del La Pira, più volte evocati in questo capitolo; R. VOLKMANN, Die Rhetorik der Griechen und Römer in systematischer Übersicht, p. 100 [e passim] nonché M.L. CLARKE, Die Rhetorik bei den Römern. Ein historische Abriß, passim) e, anco-ra, SCHMIDLIN, Regola e fattispecie nella giurisprudenza romana, pp. 9 e ss.; non senza una qualche utilità espositiva, A. TORRENT, Derecho público romano y siste-ma de fuentes, p. 253). Da ultimo, su questi aspetti, si veda R. SCEVOLA, La respon-sabilità del ‘iudex privatus’, p. 291 nt. 87 (e cfr. anche op. cit., pp. 291 e ss.), in un’ottica generalizzante del brano, rispetto alla sua contestualizzazione storica (ossia espressamente riferita, da Cicerone, a Servio).

25 Si veda, da ultimo, M. AVENARIUS, Il ‘liber singularis regularum’ pseudo-ulpianeo: sua specificità come opera giuridica altoclassica in comparazione con le ‘Institutiones’ di Gaio, p. 457 e nt. 5. Sui rapporti tra attività definitoria, ‘divisio’ e ‘partitio’ vd., in particolare, M. FUHRMANN, Interpretatio. Notizien zur Wortgeschi-chte, pp. 96-97; D. NÖRR, Divisio und Partitio. Bemerkungen zur römischen Re-chtsquellenlehre und zur antiken Wissenschaftstheorie, p. 50 nt. 208 (in particolare) = ID., Historiae iuris antiqui, II, p. 760 nt. 208; M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, pp. 18 e ss., nonché F. GALLO, Un modello di romanista, p. 12 = ID., Un modelo de romanista, pp. 242-243: secondo lAutore torinese, infatti, pur « consapevole dei rischi inerenti all’operazione defini-toria e allo stesso uso delle parole », il giurista « utilizza, insieme al tipo comune di definizione per genere e differenza specifica, altre tecniche definitorie, quali la divi-sio e la partitio. Mentre nel primo tipo di definizione viene individuato il genere in cui includere il definiendum e sono indicate le caratteristiche della specie da questo rappresentata, nella divisio e nella partitio il definiendum, considerato come un ge-nere e, rispettivamente, un tutto, viene ripartito nelle specie (elementi omogenei) o nelle parti (elementi disomogenei), che lo compongono e che vengono quindi defini-te ad una ad una solitamente per genere e differenza specifica ». Ora si vedano anche le acute osservazioni di A. GUZMÁN BRITO, El carácter dialéctico del sistema de las ‘Institutiones’ de Gayo, pp. 439-440.

26 Cfr. Cic., De orat. 3.115: « cum res distribuitur in partes, ut... », et rell., ri-chiamato da L. CALBOLI MONTEFUSCO, La dottrina degli ‘status’ nella retorica gre-ca e romana, p. 82 (che non pare individuare, tuttavia, il parallelismo con Cic., Brut. 41.152), nonché Cic., De inv. 1.22.31-32 (e vd. anche Cic., De orat. 3.113) e, e.g., Quint., Inst. or. 3.9.1-3 e 4.2.49 — vd. anche il sapido passo 1.2.13 (nonché Fortu-nat., Rhet. Schol. 2, de partitione; Alcuin. Alb., De arte rhet. p. 398 nonché Sulpic.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Egli deve procedere, quindi 27, alla ‘definitio’, vòlta non sol-

tanto a ‘fissare i confini’ 28 della questione, ma anche a portare ad

Vict., Inst. or. p. 249 [ed. C. Capperonnerius, Antiqui rhetores latini, 1756]): cfr. I.C.T. ERNESTI, Lexicon technologiae latinorum rhetoricae, pp. 278-279, ad v. ‘par-titio’.

27 L’operazione, per così dire, deve essere condotta necessariamente in due stadi (ossia quelli del dividere e del definire), senza che l’uno possa sostituire l’altro, poi-ché « sono […] le due leggi della costruzione scientifica » (cfr. G. LA PIRA, La gene-si del sistema nella giurisprudenza romana, 4. Il concetto di scienza e gli strumenti della costruzione scientifica, p. 137, concetto ribadito ivi, p. 159).

28 Vd., infatti, Quint., Inst. orat. 7.3 (intorno cui cfr. I.C.T. ERNESTI, Lexicon te-chnologiae latinorum rhetoricae, p. 279, ad v. ‘definitio, definitivus’). Sull’immane problema del definire, rinvio al fondamentale lavoro di L. LANTELLA, Pratiche defi-nitorie e proiezioni ideologiche nel discorso giuridico, pp. 6 e ss. (e alle numerose classificazioni presentate, che vanno ben oltre i cenni svolti in questa nota, che ha il solo scopo di indicare gli ultimi sviluppi della dottrina; sul tema, infatti, si tornerà più ampiamente — alla luce dell’analisi dei testi — nella parte terza di questi ‘stu-di’). Da ultima, specificatamente, si veda L. PIRO, Definizioni ‘perimetrali’ e ‘loca-tio conductio’, pp. 414 e ss. (e pp. 423-424, in particolare, con riferimento alle ri-flessioni di R. FIORI, La definizione della ‘locatio conductio’. Giurisprudenza roma-na e tradizione romanistica, pp. 261-283, in cui l’Autrice sottolinea la visione della ‘definizione perimetrale’, proposta dal Fiori, alla luce delle fonti: in realtà — o, sol-tanto, più probabilmente — la definitio non può con(cen)trarsi sulla sola ‘fissazione dello spazio interno’ (perimetrale), che presuppone, in sé, l’isolamento del contenuto rispetto a ciò che rimane (escluso) all’esterno (cfr., e.g., in tema con il pensiero ser-viano — che credo sia, qui, testualmente riportato [vd. infra, cap. II, frg. E .7 . — Pomp. XXX ad Sab., D. 32.57 Pal. Serv. 44 → Pal. Pomp. 749]: « Servius re-spondit, cui omnis materia legata sit, ei nec arcam nec armarium legatum esse »). Vd. anche R. BÖHR, Das Verbot der eigenmächtigen Besitzumwandlung im römi-schen Privatrecht. Ein Beitrag zur rechtshistorischen Spruchregelforschung, pp. 17 e ss. (20-22, in particolare), e 59 e nt. 180. Sul tema, e per fonti, si veda anche F. PRINGSHEIM, Beryt und Bologna, pp. 251 e ss. = ID., Gesammelte Abhandlungen, I, pp. 424 e ss. Per quanto riguarda la cosiddetta ‘causa definitiva’ (cfr. Cic., De inv. 1.8) rimando a I.C.T. ERNESTI, Lexicon technologiae latinorum rhetoricae, pp. 104-105, ad v. ‘definitio, definitivus’.

In questi termini, ha senz’altro ragione R. MARTINI, ‘Definitio’ come ‘delimita-zione di fattispecie’?, pp. 464 e ss., nel censurare l’impostazione proposta da M.A. MESSANA, Sui ‘libri definitionum’ di Emilio Papiniano, p. 269, secondo cui, con il segno ‘definizione’ si dovrebbe intendere una ‘delimitazione-distintiva’, che se sotto il profilo semantico potrebbe coinvolgere il tema-confini, finisce, tuttavia, per im-

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emersione ciò che sottostà — poiché letteralmente celato ‘tra le pie-

ghe’ del discorso (‘ex–plicare’ ) — all’oggetto analizzato: « latentem

explicare 29 definiendo » 30. prigionare l’operazione in una sorta di isolamento. Quanto mai opportuna, allora, l’orma ciceroniana individuata dal Martini (op. cit., p. 464) — ossia Cic., De inv. 1.8.11 (nella parte in cui si afferma: « Quare in eiusmodi generibus definienda res erit verbis et breviter describenda, ut, si quis sacrum ex privato subrupuerit, utrum fur an sacrilegus sit iudicandus. Nam id cum quaeritur, necesse erit definire utrum-que, quid sit fur, quid sacrilegus, et sua descriptione ostendere alio nomine illam rem de qua agitur appellare oportere atque adversarii dicunt »). Come osserva l’Autore esaminato, « qui non si diceva che ‘va definito il fatto di fronte all’alternativa che si tratti di furto o di sacrilegio’, ma che ‘bisogna definire cosa sia da intendersi per furto e cosa per sacrilegio’ per poter risolvere il caso » (op. et loc. ult. cit.): il testo, infatti, richiama la ‘necessità di definire’ ‘utrumque, quid sit fur, quid sacrilegus’, ciò che riporta alla visione dei confini che separano due realtà (mentre la ‘delimitazione’, intesa come emarginazione, offre una realtà in positivo eclissando, in negativo, la parte restante della medesima). Si veda, da ultima, l’ampia digressione di R. SCEVOLA, La responsabilità del ‘iudex privatus’, pp. 291-303 nt. 87 (con bibliografia, cui rinvio), sull’argomento del definire nella attività interpretativa dei giuristi romani.

29 È significativamente ‘latens’, ossia ‘nascosto, non visibile’ (ricorre anche il binomio ‘res obscura et latens’ in Cic., De orat. 2.269 e vd. pure, alla forma negati-va, Amm. Marcell., Hist. 14.7.3), quanto descritto in Plaut., Mil. 4.8.7; Cic., De orat. 1.35.161 (nel senso di ‘non srotolato’) e 163 (sul verbo, più in generale, spesso uti-lizzato dall’Arpinate, cfr., e.g., Brut. 67.237; Verr. 2.64.156; Divin. in Caec. 8.27 e 12.39; Acad. post. 1.4; 1.7, ancora in rapporto alla obscuritas; 1.32-33; 1.35; De o-rat. 1.34.155; Ad fam. 5.12.4; Ad Att. 9.7.4). Quanto al ‘definire’ ciò che è ‘latens’ vd. ancora Cic., Fin. 3.10.33 (« Bonum autem, quod in hoc sermone totiens usurpa-tum est, id etiam definitione explicatur »).

30 La ‘definitio’ non dovrà, infatti, esaurirsi in una formula apodittica e tale da restare confinata all’interno delle discussioni tra specialisti, ma dovrà servire allo scopo di fornire un senso al concetto esaminato, in una funzione ‘sociale’ sorpren-dentemente ‘democratica’ (« ad commune iudicium popularem ») — ossia di com-prensibilità da parte del ‘commune iudicium’ e della ‘popularis intellegentia’ — così come chiarisce lo stesso Cic., Orat. 33.117: « Erit igitur haec facultas in eo quem volumus esse eloquentiem, ut definire rem possit nec id faciat tam presse et anguste quam in illis eruditissimis disputationibus fieri solet, sed cum explanatius tum etiam uberius et ad commune iudicium popularemque intellegentiam accomodatius ».

Sui rapporti tra dividere e definire — e sulla (necessaria) posizione che essi as-sumono, in quest’ordine, in Cic., Orat. 4.16 — si veda già ampiamente G. LA PIRA,

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Si dovrà approdare, infine, alla ‘interpretatio’, tesa a rendere

logicamente ‘percorribile’ — quindi ad appianare (‘explanare’) —

tutto quanto costituisca res obscura (« obscuram explanare 31 inter-

pretando » 32). Che, poi, tali attività si coinvolgano vicendevolmente La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. L’arte sistematrice, pp. 344 e ss.; ID., La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. Il metodo, pp. 341-342 nonché ID., La genesi del sistema nella giurisprudenza romana, 4. Il concetto di scienza e gli strumenti della costruzione scientifica, pp. 133 e ss. (vd. anche supra, nt. 12). Ora, da ultimo, F. CUENA BOY, Una storia dell’interpretazione, pp. 14-15 e 61-62.

31 L’espressione ‘obscuram explanare’ si giustifica, del resto, attraverso l’idea che, per mezzo della interpretatio, si consente a chi — figurativamente — cammini in un ‘terreno oscuro’ di avere chiari punti di riferimento, per potersi muovere senza rischio di caduta (scl.: di errore). Sul concetto di oscurità vd., ora, S. MASUELLI, In-terpretazione, chiarezza e oscurità in diritto romano e nella tradizione romanistica, pp. 152-153 e 159 (in particolare), cui adde — per l’etimologia di « skÒtoj » (vd., infatti, op. ult. cit., pp. 152-153 nt. 68) — il classico repertorio di H. FRISK, Griechi-sches Etymologisches Wörterbuch, II, pp. 739-740; op. cit., III, p. 308 (corrigenda ad p. 739, 4 e s.). Per la possibile origine interpretativa sacerdotale, tesa a « ricavare un significato chiaro da segni oscuri », vd. A. CARCATERRA, Le definizioni dei giuri-sti romani. Metodo, mezzi e fini, pp. 84 e ss. nonché ID., Facti interpretatio nella epistemologia di Nerazio (D. 22, 6, 2), pp. 39-41; R. ORESTANO, I fatti di normazio-ne nell’esperienza romana arcaica, pp. 119-120 nonché ID., Introduzione allo studio del diritto romano, pp. 54 e ss. (54-55, in particolare); M. FUHRMANN, Interpretatio. Notizien zur Wortgeschichte, pp. 84 e ss. e 96-97 (in particolare su Cic., Brut. 41. 152); J. GAUDEMET, L’interprétation des lois et des actes juridiques dans le monde antique, p. 235 (che apre proprio il lavoro con l’adozione di una sostanziale coinci-denza tra l’atto dell’interpretare — in sé considerato — e il chiarimento di elementi oscuri) e, infine, A. BURDESE, Note sull’interpretazione in diritto romano, pp. 185-186 = ID., s.v. ‘Interpretazione (diritto romano)’, p. 3. Cfr., inoltre, L. LANTELLA –

E. STOLFI – M. DEGANELLO, Operazioni elementari di discorso e sapere giuridico, pp. 180-181.

32 Si pensi, per contro, al noto brocardo ‘in claris non fit interpretatio’, che è fat-to comunemente risalire a (rectius: ritenuto quale precipitato di) Paul. I ad Ner., D. 32.25 [= Pal. Paul. 1016]: sul passo, e sul problema, cfr. G. CHIODI, L’interpretazione del testamento nel pensiero dei Glossatori, pp. 232-234, 265 e nt. 80 (in particolare) nonché V. FROSINI, La lettera e lo spirito della legge 3, pp. 61 e ss.; P. PERLINGIERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologia. Il brocardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 Disp. Prel. C.C. e la nuova scuola dell’esegesi, pp. 273 e ss.; R. DOMINGO – J. ORTEGA – B. RODRÍGUEZ-

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è provato, anche in via sintattica, dal fatto che, nel brano, i termini

‘universam’, ‘latentem’ e ‘obscuram’ costituiscono, tutti, attributi del

soggetto — è appena il caso di ricordare, all’accusativo — ‘rem’ del-

la infinitiva 33. Lungo un secondo versante 34 l’indagine si rivolge,

invece 35, alle res che appaiono essere ambiguae 36. Si tratta, in altre

ANTOLÍN, Principios de Derecho Global. Aforismos jurídicos comentados, p. 108 (§ 277); ancora — in trattazione monografica e con indicazione completa della lettera-tura — S. MASUELLI, ‘In claris non fit interpretatio’: alle origini del brocardo, pp. 401-425, e, da ultimi, M. NARDOZZA, Tradizione romanistica e dommatica moderna. Percorsi della romano-civilistica italiana nel primo Novecento, p. 85 e nt. 44 (con letteratura civilistica); D. VELO DALBRENTA, Brocardica. Una introduzione allo stu-dio e all’uso dei brocardi. Principî di filosofia forense, p. 122. Cfr., inoltre, in gene-rale, F. STURM, Zur Etymologie des Ausdrucks ‘brocardicum’, pp. 279-280 (con bi-bliografia sul tema).

33 Sui rapporti tra ‘latentem explicare definiendo’ e ‘obscura explanare interpre-tando’ si veda A. CARCATERRA, Le definizioni dei giuristi romani, p. 85, secondo cui tali ‘terzine in correlazione’ presenterebbero « figurae di ornatus », quali l’omoteleuto e l’allitterazione (e, per quanto riguarda osservazioni linguistiche — circa i rapporti tra ‘explicare’ ed ‘explanare’ — cfr. K.F. VON NÄGELSBACH, Lateini-sche Stilistik, p. 604).

34 Segnalato dal fatto che si passa dal soggetto delle infinitive ‘rem’ (esplicito o implicito, accompagnato da attributi specifici) al neutro plurale ‘ambigua’.

35 Ma sui rapporti intercorrenti tra obscuritas e ambiguitas, non in forma di ne-cessaria contrapposizione, bensì anche di parziale correlazione (nei termini dell’esistenza del « rapporto di genere a specie »), si veda, ora, e approfonditamente, S. MA-SUELLI, Intepretazione, chiarezza e oscurità, pp. 152 e ss. (con ampia biblio-grafia e pp. 167 e ss. per le fonti giuridiche romane in cui è ravvisabile questa rela-zione: cfr., infatti, Pap. V quaest., D. 2.14.39 [= Pal. Pap. *117] da vedersi in rela-zione con Paul. V ad Sab., D. 18.1.21 [= Pal. Paul. 1708]). E, a giudizio dell’autore, « ragioni teoriche (avvertite già nella retorica antica) appaiono forse in favore della collocazione dell’ambiguità all’interno dell’oscurità » (op. cit., p. 154 e nt. 70: cfr., infatti, J. AISSEN – J. HANKAMER, s.v. ‘Ambiguità’, pp. 418 e ss., per l’individuazione dei tria genera ambiguitatuum: grammaticale, sintattica e lessicale [ulteriormente scandita e classificata da W. EMPSON, Seven Types of Ambiguity, passim = ID., Sette tipi di ambiguità, passim]). L’accenno fatto dal Masuelli alla ‘retorica antica’ non è di per sé smentito dalla fonte ciceroniana. Le operazioni degli obscura explanare interpretando, da un lato, e degli ambigua videre, quindi distinguere, dall’altro, in-dicati, in quest’ordine, dal passo del Brutus qui analizzato, scandiscono, infatti, ope-razioni logicamente consecutive ma non per questo escludentesi a vicenda. Ché, an-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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parole, di quegli oggetti d’analisi che, a differenza delle precedenti

res (quelle, come si è già osservato, attinenti al ‘primo livello’), non

sono semplicemente ‘nascoste’ o ‘lontane dalla luce’ ma, allo stesso

tempo, di meccanica individuabilità 37. Per gli ambigua, infatti, deve

essere compiuta un’operazione ermeneutica più complessa 38, poiché

essi possiedono — letteralmente — un significato plurimo 39 (o al-

zi, la chiusura di Cic., Brut. 41.152 (« postremo habere regulam… ») suona negli evidenti termini dell’esito necessario cui deve approdare l’applicazione del metodo indicato. L’(eventuale) alternativa, situata tra la prima parte del discorso (« rem uni-versam – interpretando ») e la seconda (« ambigua – distinguere »), in realtà pare dettata dalla minore o maggiore complessità dell’operazione ermeneutica; ma di questo si è già detto nel testo.

36 Da ultimi, sul tema della ambiguitas, oltre ai citati lavori del MASUELLI (su-pra, ntt. preced.), si veda ancora A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en el Derecho romano, pp. 99 e ss. e F. CUENA BOY, Una storia dell’interpretazione, pp. 13-14 e 60-61. Come osservava, nel suo fortunato trattato, già H. BLAIR, Cours de rhétorique et de belles-lettres, I, p. 233, «l’ambiguité peut provenir de deux causes: d’un mauvais choix de mots, ou d’un arrangement vi-cieux», alludendo, con questo, all’ambiguità letterale e all’ambiguità sintattica (o logica). Per il primo profilo, e per quanto riguarda l’esperienza della scuola serviana, si può rinviare agli interessanti brani salvati in Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 50.16. 203 + D. 34.2.28 [= Pal. Alf. 29], in ordine alla determinazione delle espressioni ‘domum ducere’ e ‘suo usu ducere’, contenute nella lex censoria portus Siciliae. Per il secondo profilo, invece, oltre a quanto verrà osservato infra (testo cui si riferisce la nt. 46, a proposito di Cic., De inv. 2.41.121), il BLAIR evocava (in op. cit., p. 241, ma senza indicazione di luogo) il noto exemplum recato da Quintiliano (si tratta, in-fatti, di Quint., Inst. or. 7.9.8 — e cfr. 7.9.11 — di cui si dirà nel séguito: vd. infra, nt. 44).

37 Mi riferisco, in altri termini, alle attività connesse del ‘tribuere in partis’, del-l’‘explicare definiendo’ e dell’‘explanare interpretando’.

38 La testimonianza ciceroniana sul metodo inaugurato (o, meglio, portato a ma-turazione) da Servio pare consenta di sciogliere la prudenziale riserva espressa da S. MASUELLI, Interpretazione, chiarezza e oscurità, p. 166, laddove egli afferma che « i giuristi [scl. romani] (come vedremo a partire ‘più o meno da Servio’ e fino a tutte la giurisprudenza dei Severi) erano quantomeno perfettamente a conoscenza del ‘trattamento’ retorico in tema di ambiguitas » (gli apici all’interno della citazione sono miei); cfr. ancora ID., op cit., pp. 172-173 (e p. 172 nt. 103, in particolare).

39 In accezione strettamente giuridica, quanto non è ‘ambiguus’ è, infatti, (pale-semente) univoco: mi permetto di rinviare a M. MIGLIETTA, ‘Servus dolo occisus’,

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meno ‘doppio’ 40: da ‘amb–ago’, e, quindi, ‘amb–iguus’) 41 come, in-

fatti, sottolinea ancora

pp. 240-241 e nt. 118. Sul tema di vedano, soprattutto, S. TAFARO, Il giurista e l’‘ambiguità’. Ambigere, ambiguitas, ambiguus, pp. 59 e ss. (in particolare) ed anco-ra ID., Ambiguitas, pp. 97-150; da ultimi, L. LANTELLA – E. STOLFI – M. DEGANELLO, Operazioni elementari di discorso e sapere giuridico, p. 170, nonché, soprattutto, S. MASUELLI, Interpretazione, chiarezza e oscurità, p. 153, secondo il quale « l’ambiguità individuerebbe, tendenzialmente, i casi in cui la non-chiarezza è de-terminata dalla ‘concorrenza di (due o) più significati’ » (gli apici sostituiscono, qui, la parte in carattere espanso dell’originale).

40 Così, ad esempio, nella elaborazione retorica greca (ma non solo, come preci-sa correttamente S. MASUELLI, Intepretazione, chiarezza e oscurità, p. 160 nt. 82), l’omologo concetto di « ¢µφιβολία » designa per lo più la proposizione (o il termi-ne) recante un doppio significato (vd. Quint., Inst. or. 7.9.1): cfr. Hermag., Fragm. 20a, 20b e 20d, possibile fonte di Cic., De inv. 1.17.13 [vd., in questa direzione, D. MATTHES, ed., in Hermag., Fragm. 20c]; De orat. 2.26.110 e di Quint., Inst. or. 7.9.4-6 — sul punto vd., oltre al classico repertorio dello STEPHANUS, Thesaurus Linguae Graecae, II, pp. 208-209 (con fonti), J. MARTIN, Antike Rhetorik. Technik und Methode, pp. 50-51 e MASUELLI, op. ult. cit., pp. 160-161 nt. 82. Si può aggiun-gere, pertanto, che tendenzialmente la retorica greca ha mantenuto un contatto più stretto con la valenza sematica del termine, il quale, come l’ambiguitas latina, coin-volge necessariamente il concetto di ‘bi–valenza’ (per il prefisso ¢µφι — e per il rinvio diretto ad amb(i) latino — si veda, infatti, H. FRISK, Griechisches Etymologi-sches Wörterbuch, I, p. 98 ad h.v.); cfr. ancora MASUELLI, op. cit., pp. 161 e ss., il quale richiama — sebbene ad altri fini, ma pertinentemente — Fest., s.v. ‘ambi-guum’ [L. 17], significativo sia per la corrispondenza ambiguitas–¢µφιβολία, sia per la definizione (tratta dall’epitome paolina) di « ambiguum » come id « quod in am-bas agi partes animo potest » (la forma in tondo, all’interno della citazione, è mia). Ulteriore elementi di riflessione sono desumibili da Quint., Inst. or. 7.10.2 (pur con le opportune cautele espresse, ancora, da MASUELLI, op. ult. cit., pp. 163-164, e con la presentazione di una suggestiva, non improbabile, ipotesi che tali contatti fossero precedenti di un secolo [o, comunque, non escluderei che, più risalenti ancora, vi avessero potuto lasciare un segno] nella riflessione di Pap. V quaest., D. 2.14.39 [= Pal. Pap. *117: « veteribus placet pactionem obscuram vel ambiguam venditori et qui locavit nocere, in quorum fuit potestate legem apertius conscribere »]: cfr. op. ult. cit., p. 169 nt. 98).

Per una « netta distinzione tra i concetti di ‘obscuritas’ e ‘ambiguitas’ », invece, si veda nuovamente MASUELLI, op. ult. cit., p. 171 nt. 101, il quale segnala e com-menta l’interessante costituzione greca salvata in C.I. 8.10.12, § 2 in particolare [Ze-no, loc. et a. incerti, ma, sicuramente, Costantinopoli: cfr., infatti, rubr. graec. e § 1,

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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in cui si fa menzione di ‘questa gloriosa Città’, e § 6b, con la sicura conferma di C.I. 8.10.13 Iustinian., a. 531 — per il § 5 vd. J. STRAUB, Pescennius Niger und die ‘Luftsteuer’, p. 177 — conferma già intravista da G. GROSSO, Sulle servitù ‘altius tollendi’ e ‘stillicidi non avertendi’, p. 489 = ID., Scritti storico giuridici, II, p. 85; ID., Rec. a B. Biondi, La categoria romana delle ‘servitutes’, p. 242 = ID., Scritti storico-giuridici, IV, p. 73; N. SCAPINI, I limiti legali della proprietà nell’evoluzione storica del diritto romano, p. 73; vd. ancora, sulla ratio sottesa al divieto di impedire la veduta altrui (C.I. 8.10.12.2a), L. CAPOGROSSI COLOGNESI, s.v. ‘Proprietà (diritto romano)’, p. 222, e, per la datazione, non si può dire molto più del lasso di tempo comprendente il regno di questo ΑÙτοκράτωρ Κα‹σαρ, ossia gli anni che vanno dal 474 al 491. Cfr. anche Nov. 63 e, soprattutto, Nov. 165] — dal « testo più volte cen-surato » (come osserva ancora il Masuelli, ma passato indenne sotto il filtro di G. BROGGINI, Index interpolationum quae in Iustiniani Codice inesse dicuntur, p. 130).

Tale constitutio (per la cui disamina particolareggiata vd., ora, M.R. CIMMA, La costituzione di Zenone perˆ kainotomiîn, pp. 171 e ss.) trattando, infatti, di distan-ze legali, altezza delle costruzioni, aperture, sporti e scale, erezione di colonne e di portici pubblici, e decoro della Città (vd. ancora CAPOGROSSI COLOGNESI, op. cit., p. 196), intende risolvere espressamente problemi interpretativi suscitati da precedenti disposizioni emanate dallo stesso imperatore (cfr. C.I. 8.10.12 pr.: letteralmente, la volontà imperiale è finalizzata a sciogliere [vb. tipico: λύω] gli argomenti sottili, difficili, capziosi, ossia, in ultima analisi, i dubbi [τ¾ δυσχέρεια]). Emblematico il fatto che Zenone dichiari, fin dal § 1 del provvedimento, di voler utilizzare ‘espres-sioni del linguaggio comune, note ai più’ [« kaˆ mikrÕn ¢post£ntej tîn pre-

pwdestšrwn tÍ polite…v ·hm£twn to‹j tù pl»qei gnwrimwtšroij crhsÒme-

qa…»], onde evitare il protrarsi, meglio, il sorgere di (nuove) collisioni ermeneuti-che [« … Ópwj ¨n ›kastoj aÙtîn ™ntugc£nwn tù nÒmJ m¾ dšoito ˜tšrou bo-

hqoà prÕj t¾n o„ke…an cre…an »]. Si noti bene: l’affermazione va correlata, proba-bilmente, ai termini ‘tecnici’ (relativi, cioè, all’oggetto delle disposizioni: distanza, tipi di costruzioni e così via), più che ad altri segni linguistici. Ma appare certo, dal complesso del testo, una sorta di lodevole (quanto inusitata, per la Cancelleria impe-riale d’Oriente) preoccupazione semplificatrice. Anche termini come ‘ambiguità’, dunque, si pongono in questa ottica e non paiono essere, pertanto, irrilevanti ai fini della nostra indagine. Il termine « ¢mfibol…a » compare, dunque, all’interno del § 4, sotto comando imperiale che (‘ogni’ ¢mfibol…a ) venga eliminata [« …kaˆ ta-

Úthn ¢nairoàntej t¾n ¢mfibol…an qesp…zomen toàto aÙtÕ krate‹n »]. Ma più significativo ancora si manifesta quanto sancito nel § 2 di C.I. 8.10.12, laddove, in una sintomatica incidentale, Zenone osserva che ‘il dubbio [tÕ ™ndoi£zon] non è idoneo ad eliminare l’ambiguità [« oÙk ™pit»deion e„j ¢mfibol…aj ¢na…resin »; « Dubium non tollit ambiguitatem », sarà la coerente postilla di D. GOTHOFREDUS, Corpus Iuris Civilis Romani, II, p. 345 nt. 20 ad h.l.]’.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Il dubbio, cui rimanda il testo imperiale, sorge in rapporto alla fissazione della

distanza legale di dodici piedi — che in un precedente, non meglio noto provvedi-mento zenoniano (o, forse, del padre Leone I: vd. § 1 e cfr. G. GROSSO, Rec. ad A. Rodger, Owners and Neighbours in Roman Law, p. 528 = ID., Scritti storico-giuridici, IV, p. 815 e B. BIONDI, La L. 12 Cod. de aed. priv. 8,10 e la questione del-le relazioni legislative tra le due parti dell’impero, p. 364 = ID., Scritti giuridici, II, p. 28 [e cfr. ID., La categoria romana delle ‘servitutes’, p. 109], nonché le annota-zioni di G. LOMBARDI, Ricordo di Valentino Capocci, pp. 7-8) era accompagnato dal temperamento linguistico-normativo ‘più o meno’ [« … kaˆ dèdeka podîn crÁnai

... kaˆ tÕ plšon À œlatton prosqe…shj »], tale da creare, per la sua indetermina-tezza, evidenti problemi pratico-interpretativi. A questo proposito, l’edizione del Krüger di C.I. 8.10.12.2 [cfr. P. KRÜGER, Corpus Iuris Civilis, II. Codex Iustinianus, p. 335 ad h.l.] accoglie la seguente lectio del giudizio che accompagna tale richia-mo: « Ö meg…sthn ¢sf£leian e„kÒtwj poie‹ » (a cui si rifà — per testuale citazio-ne — MASUELLI, op. et loc. ult. cit.).

Una diversa lectio, invece, segnalata dall’editore ottocentesco nell’apparato cri-tico (cfr. KRÜGER, op. cit., p. 335 nt. 9 ad h.l.) propone la sostituzione di « ¢sf£leian » (come sicurezza) con « ¢s£feian » (come oscurità, concetto pe-raltro usuale anche nella Patristica: cfr., nei secoli IV e V, Philost., Hist. eccl. 6.2 [= « PG. », LXV, col. 533B] — e Athan. Alex., Epist. syn. Arim.12 [= « PG. », XXVI, 701C], limitatamente all’oscurità della terminologia teologica — e Basil. Caes., Hom.3.1 [= « PG. », XXXI, col. 200A]; è richiamata, soprattutto e compren-sibilmente, con riferimento alla lettera delle Sacre Scritture: cfr. già Orig., Sel. in psal. 1 [= « PG. », XII, col. 1080B], lo stesso autore, poi, in Hom. 12.13 in Jer. [= « PG. », XIII, col. 397B], tratta di oscurità delle parabole; Basil. Caes., De Spir. sanct. 66 [= « PG. », XXXII, col. 189B] e attribuito allo stesso Padre della Chiesa di Cappadocia, Is. proem. § 6 [= « PG. », XXX, col. 128C]; nuovamente nel V secolo, cfr. Cyr. Alex., Am 75 [3.335E] e Theodoret. Cyrr., Dan. 5.12 [= « PG. », LXXXI, col. 1256] nonché, ancora, Isid. Pel., epist. 4.113 [= « PG. », LXVIII, col. 1184B], il quale sottolinea, per converso, come il termine si possa opporre alla « saf»neia » [cfr. Isid. Pel., epist. 5.145 = « PG. », LXXVIII, col. 1412C]. Più di ogni altra ri-correnza, è, tuttavia, particolarmente significativa, infine, la « ¢s£feian » della ‘legge’: cfr., a cavaliere tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, Ioa. Chrysost., Hom. 7.3 in 2Cor. [= « PG. », LXI, coll. 441 e ss. = de Monfaucon, Joannis Chryso-stomi opera omnia 2, 10, 484D]. Per la rilevanza del sinonimo « skÒtoj » vd. supra, nt. 31, che, tuttavia, se vedo bene, nella Patristica acquista sempre una valenza mo-ralistico(-negativa) e non interpretativa: vd. G.W.H. LAMPE, A Patristic Greek Lexi-con, pp. 242 e 1242 ad hh.vv., così come in quella che mi risulta essere l’unica ricor-renza di tale sostantivo nel linguaggio giuridico [greco-]romano: cfr., infatti, la non inconsuetamente violenta praefatio alla Nov. 45). Ancora più interessante sarebbe l’approfondimento — in questa sede non necessario — dell’impiego da parte dei

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Patres graeci di « gnÒfoj », ossia quale mistica ‘ombrosità della divina oscurità’ sotto il profilo della conoscibilità (la resa in italiano è praticamente impossibile, se non con la trasposizione in ‘impero delle tenebre’: cfr., infatti, FRISK, op. cit., I, p. 317 ad h.v., « ‘Finsternis’ »): vd., in collegamento con il termine finora censito, Greg. Nyss., Hom. 1 in Cant. [= « PG. », XLIV, col. 773B] e cfr. LAMPE, op. cit., p. 317 ad h.v.

Ora, tornando alle due congetture circa la lettura di C.I. 8.10.12.1, esse appaiono immediatamente inconciliabili tra loro. Nella prima (lectio « ¢sf£leia »), inoltre, il senso è sibillino, in quanto, affermare che l’aggiunta dell’espressione ‘più o meno’ sia di ‘certa sicurezza’, appare come una contraddizione in adiectum (tanto più che essa è sconfessata dalla prosecuzione con la parentetica cui già si è fatto riferimento, che ha contenuto di verso opposto). E l’aporia dovette essere tanto chiara al Goto-fredo che questi, nel tentativo di dare un senso compiuto al passaggio, provvide a correggere il testo aggiungendovi un dativo, che io riporto in corpo tondo (e tra un-cini, poiché assente nel corrispondente testo greco): « quod magnam sane <ædifi-cantibus> securitatem præstat » (cfr. GOTHOFREDUS, op. cit., p. 345 ad h.l.). L’addizione della eccezione legislativa, che consentiva di ‘vìolare’ di qualche spazio la regola dei dodici piedi, sarebbe stata posta a sicurezza dei costruttori, i quali, dun-que, non avrebbero dovuto temere di incorrere nelle sanzioni in caso di ‘accettabile’ discostamento dalla misura legale tassativamente contemplata. Ma l’aporia non pare ugualmente superata (nonostante il parere di GROSSO, op. et loc. ult. cit.: « Zenone (C. 8. 10, 12, 2) presenta la libertà di costruire e sopraelevare al di là dei dodici piedi come risoluzione di una ambiguità insita in una precedente legge »). Diversamente, invece, se si accetta la seconda lectio (« ¢s£feia »), grazie a cui tutto appare più coerente: la clausola di salvezza prevista dalla precedente normativa — proprio per la sua intrinseca resistenza ad essere incanalata entro canoni di qualche certezza — avrebbe creato ‘oscurità’ interpretative. Tant’è vero che lo stesso Krüger, pur acco-gliendo la versione che è stata riportata, nella versio latina della di£taxij si esprime in questo modo: « quod summam sane obscuritatem inducit » (cfr. KRÜGER, op. cit., p. 335 ad h.l. latina vers.; per onestà, va detto, tuttavia, che « ¢s£feia » costitusce [costituirebbe] un ¤pax legÒmenon nel Codex Repetitae Praelectionis poiché non testimoniato altrove, diversamente da « ¢sf£leia », presente in molti testi [cfr. R. MAYR, Vocabularium codicis Iustiniani, II [M. San Nicolò, cur.], pp. 46-47, s.h.v.], ma compare, invece, con una qualche incidenza statistica nelle novellae giustiniane-e: cfr. l’interessante Nov. 47.2; Nov. 54 praef. e Nov. 107 praef.; anche in questo caso, però, in novelle ed edicta giustinianei, il vocabolo « ¢sf£leia », e forme verbali e avverbiali (simili a caute) connesse, con la loro ricchezza significante, su-pera di gran lunga il precedente (rivestendo, peraltro, il corrispettivo di cautela, an-che come ‘osservanza [scl. di disposizioni: vd. infra, Nov. 88]’, di custodia, di mu-nimen — che, nella versione dell’Authenticum, rinvengono spesso con il segno secu-ritas — o anche tecnico di cautio, in ordine a cui appare emblematica la rubrica del-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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la Nov. 112): cfr., infatti, Nov. 1 praef. 1 e 1.1 (ivi con tre presenze); Nov. 1.2.2; Nov. 2.4 (con quattro); Nov. 4.3 pr. (con due ricorrenze); Nov. 14 praef. 1; Nov. 17.7 pr. (con doppia presenza); Nov. 18.7 (due incidenze); Nov. 22.41, 43 (ivi con due presenze), 44.3 e 9 (ivi con tre ritorni), 45 pr. e 2 (ivi con due); Nov. 25.4.1; Nov. 40.1 pr. e 1; Nov. 46.1; Nov. 53 praef., 1, 3 pr. (con doppio ritorno) e 3.2; Nov. 58; Nov. 59 praef.; Nov. 66 epil.; Nov. 69.4. 3; Nov. 72.6 (doppia presenza) e 8; Nov. 74.4.2 e 5.1; Nov. 79.1; Nov. 82.11.1 (doppia presenza) ed epil.; Nov. 88.2.1; Nov. 94 epil.; Nov. 96.1 (due incidenze); Nov. 108 praef. 1; Nov. 108.2 (due ricor-renze); Nov. 115.5 pr.; Nov. 116 praef.; Nov. 117.15.1; Nov. 123.2.1 e 21.1-2; Nov. 128.18; Nov. 134.2 (con tre presenze); Nov. 137 praef.; Nov. 147.2 (con due); Nov. 164.1; Ed. 2 praef. pr. e 1; Ed. 7. 2.1 e 4; Ed. 11.2; Ed. 13.10 pr.; Ed. 13.12 pr. e 25. Per le forme aggettivali — ¢sfal»j — e verbali — ¢sfal…zw — si vedano: Nov. 1.1.1; Nov. 1.2.2; Nov. 8.11 e 14; Nov. 17.17; Nov. 18.7 e 10; Nov. 22.1; Nov. 22.24; Nov. 44.1.1, 3 e 4; Nov. 46.1; Nov. 61.1.2 e 3; Nov. 67.4; Nov. 68.1.1; Nov. 69.4.2 e, ancora, 3; Nov. 72.1, 6, 7 e 8; Nov. 73.1 e 73.7 pr.; Nov. 113.3; Nov. 120.6.2; Nov. 123.43; Nov. 133.1 e 6; Nov. 134.2; Nov. 149 rubr. praef. 1 e 2; Nov. 161.2; Nov. 163. praef. e 2; Nov. 164.1; Ed. 9 praef. e 1).

Per concludere, ha, dunque, ragione il MASUELLI, op. et loc. ult. cit., nel dichia-rare che il provvedimento di Zenone distingue nettamente tra obscuritas e ambigui-tas, ma può essere fuorviante, per il lettore, laddove, per probabile svista, àncora questo giudizio alla lectio krügeriana (« ¢sf£leia »). Per ulteriori approfondimenti, oltre alla bibliografia già menzionata su singoli aspetti, cfr. P. BONFANTE, Corso di diritto romano, II.1. La proprietà, pp. 336 e ss.; N. VAN DER WAL, La constitution de Zénon perˆ kainotomiîn te sa place dans le Code de Justinien, pp. 725 e ss. (e vd., inoltre, ID., Die Textsfassung der spätrömischen Kaisergesetze in des Codices, p. 19 nt. 34; J. PLESCIA, The Developmen of the Exercise of the Ownership Right in Ro-man Law, pp. 196 e ss.); A. RODGER, Owners and Neighbours in Roman Law, pp. 78 e ss.; C. SCOFONE, Abusi edilizi nella Costantinopoli di Giustiniano: a proposito di Nov. 63, pp. 164 e ss. (a tale costituzione parrebbe riferirsi indirettamente anche P.E. PIELER, Byzantinische Rechtsliteratur, p. 396 [vd., infatti, H.J. SCHELTEMA, Rec. a Pieler, op. cit., p. 273]).

41 Ancora una volta pertinente la lectio di D. GOTHOFREDUS, Corpus Iuris Civilis Romani, I, p. 638 nt. 37 ad h.l.: « In ambiguo ſermone etfi duplex aut multiplex eſt interpretatio, tamen, qui ambigue loquitur, non ad omnes eas interpretationes ſimul ſe refert, ſed ad unam tantum: nimirum ad eam quam vult: de qua denique intelligit. Nam id demum dixiſſe videri debemus, quod ipfi dicere voluimus. Itaque futurum eſt, ut qui aliud dicat, quam velit, hoc eſt, ut qui ſermone ambiguo utatur, neque id dicat quod vox ſignificat, neque id quod velit. Non enim dicit id quod vox ſignificat, quia aliud plane vult: neque id quod vult, quia vox, qua ipſe utitur, aliud ſignificat », a proposito di un passo in materia di stipulationes (così già secondo O. LENEL, Palin-genesia iuris civilis, I, col. 1212 nt. 5; e così, ora, anche A. CORBINO, Il formalismo

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Cic., De inv. 2.40.116: « ‘In scripto’ versatur ‘controver-sia’, cum ex scriptionis ratione aliquid dubii nascitur. Id fit ‘ex ambiguo’, ‘ex scripto et sententia’, ‘ex contrariis legibus’, ‘ex ratiocinatione’, ‘ex definitione’. ‘Ex ambiguo’ autem nascitur controversia, cum, quid senserit scriptor, obscurum est, quod scriptum duas pluresve res significat » 42,

e che possono dare vita, per loro natura, a ius controversum 43.

negoziale nell’esperienza romana, pp. 92-93) di Paul. XIV quaest., D. 34.5.3 [= Pal. Paul. *1392]: « In ambiguo sermone non utrumque dicimus, sed id dumtaxat quod volumus: itaque qui aliud dicit quam vult, neque id dicit quod vox significat, quia non vult neque id quod vult, quia id non loquitur ».

Sull’etimologia di ambiguus e del correlato greco ¢mf…boloj vd., acutamente, C.A. CANNATA, ‘Iura condere’. Il problema della certezza del diritto fra tradizione giurisprudenziale e ‘auctoritas principis’, p. 41 e, soprattutto, nt. 22 (con letteratura specialistica, cui adde: É. BOISACQ, Dictionnaire étylomogique de la langue grec-que, p. 58, ad v. ¢mf…, il quale ribadisce il coessenziale concetto di ‘duplicità’ insito nel termine che costituisce la parte iniziale di quello composto: « autour, des deux côtés »); nonché L. LANTELLA – E. STOLFI – M. DEGANELLO, Operazioni elementari di discorso e sapere giuridico, p. 170.

42 Vd. già I.C.T. ERNESTI, Lexicon technologiae latinorum rhetoricae, pp. 17-18, ad v. ‘ambiguum, ambiguitas’ ed A.B. SCHWARZ, Das strittige Rechts der römischen Juristen, p. 210 nt. 3, entrambi con indicazione del calzante parallelo rappresentato da Auct. ad Her., Rhet. 1.12.20 (« ex ambiguo controversia nascitur, cum res unam sententiam scriptam , scriptum duas aut plures sententias significat…, et rell. »: vd. anche infra, nt. 45) e con rivio, da parte del primo, anche alla ampia trattazione con-dotta da Quint., Inst. orat. 7.9 e 6.3.62. Sul passo di Cic., De inv. 2.40.116, vd. L. CALBOLI MONTEFUSCO, La dottrina degli ‘status’ nella retorica greca e romana, p. 2 nt. 3, tesi ripresa e approfondita da S. MASUELLI, Interpretazione, chiarezza e oscu-rità, pp. 161-162 (e p. 174 e nt. 106 sul passo dell’Auctor ad Herennium), e, da ul-timo, vd. R. MARTINI, Antica retorica giudiziaria (gli ‘status causae’), pp. 85 e ss. (con analisi, inoltre, di Auct. ad. Her., Rhet. 2.11.16: « si ambiguum esse scriptum putabitur, quod in duas aut plures sententias trahi possit, hoc modo tractandum est »). In quest’ottica è assai rilevante, ad esempio, il frammento di Alf. VII ab an. epit., D. 19.2.29 [= Pal. Alf. 27].

43 Cfr. Cic., De orat. 1.57.241-242, nell’acuta interpretazione che suggerisce P. CANTARONE, ‘Ius controversum’ e controversie giurisprudenziali nel II secolo a.C., pp. 408-409, con riferimento particolare al tratto « iu s quod ambig i tur inter pe-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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1.2. Continua: la nozione di ‘ambiguitas’ in Cic., De inv. 2.40.116;

suo inserimento sistematico e sue implicazioni per l’interpretazione

dei fenomeni giuridici

Prima di procedere oltre — ossia continuando l’analisi parti-

colareggiata di Cic., Brut. 41.152 — è opportuno operare una digres-

sione, inserendo il brano ciceroniano appena estrapolato nel suo pre-

ciso contesto. Il passo del De inventione, infatti, offre nel seguito

immediato un esempio — e proprio singolarmente di natura giuridi-

ca 44 — finalizzato ad illustrare il principio appena espresso: « Pater-

r i t i ss imos » (la spaziatura dei caratteri è mia: sul punto vd. già A.B. SCHWARZ, Das strittige Recht der römischen Juristen, pp. 204 e ss.).

44 Il dato è probabilmente frutto della elaborazione ciceroniana, ma è certamente significativo il fatto che, in tema di ambiguità, si faccia ricorso ad un esempio legato al mondo del diritto e che, anzi, il successivo esempio (§ 40.119) riporti nuovamente il lettore nello stesso àmbito. Parimenti, anche Quintiliano adotta lo stesso criterio: vd. Quint., Inst. or. 7.9.8: « Unde controversia illa: ‘testamento quidam iussit poni s ta tuam auream hasta m t enen tem’. Quaeritur, statua hastam tenens aurea esse debeat, an hasta esse aurea in statua alterius materiae? » (passo già richiamato supra, nt. 36). Il problema nasce(rebbe) dalle modalità di scrittura dell’onere impo-sto (v’è da ritenere) agli heredes, ossia di porre — forse sul monumento funerario del de cuius — una ‘statua aurera l’asta reggente’ (credo questo sia l’unico modo per rendere in lingua italiana la stessa ambiguità del testo latino: qui si potrebbe giocare con l’uso delle virgole: ‘statua, aurea l’asta tenente’ oppure ‘statua aurea, l’asta te-nente’), non potendosi comprendere de plano e in modo univoco se debba trattarsi di una statua, interamente d’oro, che regga una lancia ovvero una statua, di qualsiasi altro materiale, che tenga un’asta d’oro — causa, infatti, dell’amphibolía. Va da sé che la soluzione graverà, sotto il profilo economico, in modo ben diverso sugli one-rati a seconda di quale delle due letture si ritenga più aderente alla realtà (scl. alla voluntas testatoris): sul punto vd. l’interessante lavoro di T. WYCISK, Quidquid in foro fieri potest – Studien zum römischen Recht bei Quintilian, p. 167 e nt. 1203 (in cui, probabilmente, per il lodevole intento di suscitare nel lettore il desiderio di vi-sionare per esteso il testo, si presenta un dettagliato quanto sistematicamente diligen-te ‘Quellenverzeichnis’[pp. 363-394], totalmente privo, però, di indicazione dei luo-ghi in cui esse si trovano all’interno del corposo libro).

Tutto questo è il segno che, a parere dei due Scrittori antichi, ai quali dobbiamo queste teorizzazioni della ambiguitas e (a Cicerone) dello strumentario idoneo a su-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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familias, cum filium heredem faceret, vasorum argenteorum centum

pondo uxori suae sic legavit: ‘Heres meus uxori meae vasorum ar-

genteorum pondo centum, quae volet, dato’. Post mortem eius vasa

magnifica et pretiose caelata petit a filio mater. Ille se, quae ipse vel-

let, debere dicit » (45).

perarla praticamente, il ‘luogo privilegiato’ di comparsa della stessa sia fatto coinci-dere con quello (della interpretazione) del diritto. Cicerone, e Quintiliano, infatti, avrebbero potuto servirsi di altri exempla, tratti, per ipotesi, dal linguaggio comune o dalle arti figurative: non può sfuggire, infatti, il ricordo di un famoso passo di Plauto (autore di cui l’Arpinate mostra di conoscere senz’altro con una certa profondità l’opera, e di cui parla, brevemente ma con cognizione di causa, in Cic., De sen. 14.50) in cui sorge una sottile ambiguità di linguaggio a proposito del termine ‘ma-lum’, che può significare sia un ‘male (fisico)’ sia un ‘frutto’. Si veda, infatti, Plaut., Amphitr. 2.2.84 [719-723]: « Alcumena: Equidem sana sum et deos quaeso, ut salua pariam filium; Verum tu malum magnum habebis, si hic suum officium facit. Ob istuc omen, ominator, capies quod te conduceret. – Sosia: Enim vero praegnanti oporte t e t malu m e t malu m dari , ut quod obrodat sit, animo si male esse occeperit » (la forma espansa dei caratteri è mia).

45 Il principio e il caso esemplificativo tornano in un passo « più succinto del-l’Auctor ad Herennium » (come [an]notato già da E. COSTA, Cicerone giureconsul-to, I, p. 246), ossia 1.12.20: « Ex ambiguo controversia nascitur, cum res unam sen-tentiam scripta, scriptum duas aut plures sententias significat, hoc modo: Paterfami-lias cum filium heredem faceret, testamento vasa argentea uxori legavit [Tullius]: ‘Heres meus [Terentiae] uxori meae XXX pondo vasorum argenteorum dato, qua<e> volet’. Post mortem eius vasa pretiosa et caelata magnifice petit mulier. Filius se, quae ipse vellet, in XXX pondo ei debere dicit. Constitutio est legitima ex ambiguo » (vd. anche supra, nt. 42), e cfr. anche Cic., Verr. 2.4.45 (per un parallelismo lessica-le).

Sembra interessante notare la specificazione dell’Auctor, costruita a chiasmo, secondo cui « controversia nascitur, ‘cum res unam sen t en t ia m scripta, scrip-tum duas au t p lures sen t en t ias significat’ », poiché viene rimarcato il fatto che, pur essendo stata indicata (scritta) una volontà univoca (« res unam sententiam scripta ») — dal punto di vista del redattore — (nello scritto) in realtà si dà luogo al-l’emersione di volontà discordanti (o, meglio, è suscettibile di più interpretazioni, più « sententiae: scriptum – plures sententias significat »); vd. anche la sintesi rac-chiusa in Auct. ad Her. 2.11.16.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Il problema ermeneutico — legato al thema della ambiguitas

— è generato dal fatto che l’espressione ‘quae volet’ 46, contenuta

nella disposizione di ultima volontà, risulta sintatticamente priva

dell’indicazione esplicita del soggetto, e, in ragione di ciò, può adat-

tarsi sia alla mulier sia al filius (e, quindi, al legatario o all’erede e

alle relative, divergenti volontà) 47, non potendosi accertare in modo

incontrovertibile ‘quid senserit scriptor’ 48. Tutto questo, infatti, dà

luogo ad una controversia — quasi paradossale, e che, già per questo

solo motivo, meriterebbe di essere rilevata — tra madre e figlio, co-

me circostanzia lo stesso Cicerone: « vasa magnifica et pretiose cae-

lata petit a filio mater », naturalmente post mortem eius (scl.: del te-

statore, marito della donna e padre dell’erede), con tanto di replica

— simmetrica e contraria rispetto alla pretesa della madre — « ille

(scl. heres) se, quae ipse vellet, debere dicit ».

L’escerto del De inventione costituisce parte di una più am-

pia trattazione in tema di ambiguitas, che è bene sia riportata per e-

steso, sia per la riuscita rappresentazione data dall’autore antico, sia

per la suggestività delle fattispecie esemplificative:

Cic., De inv. 2.40.116-41.119-121: « [40.116] Primum, si

fieri poterit, demonstrandum est non esse ambigue scriptum, propte-

rea quod omnes in consuetudine sermonis sic uti solent ex verbo uno

pluribusve in eam sententiam, in quam is, qui dicet, accipiendum es-

se demonstrabit. [117] Deinde ex superiore et ex inferiore scriptura

46 Si veda, infatti, Cic., de inv. 2.41.121. 47 Così prosegue il suggestivo testo ciceroniano, esempio dell’adozione del τό-

πος greco dei verba (scriptum) contro la voluntas (mens, aequitas): cfr. F. SCHULZ, History of Roman Legal Science, p. 76 e nt. 7 = ID., Geschichte der römischen Re-chtswissenschaft, p. 92 e nt. 3 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 145 e nt. 2.

48 Si noti, per ora, l’uso del verbo latino ‘sentire’, sul quale si tornerà nel corso del lavoro, a proposito di D. 35.1.27 (Alf. 5 dig. ab anon. epit.): vd. infra, nt. 191, in particolare.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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docendum id, quod quaeratur, fieri perspicuum. Quare si ipsa sepa-

ratim ex se verba considerentur, omnia aut pleraque ambigua visum

iri; quae autem ex omni considerata scriptura perspicua fiant, haec

ambigua non oportere existimare. Deinde, qua in sententia scriptor

fuerit, ex ceteris eius scriptis et ex factis, dictis, animo atque vita eius

sumi oportebit et eam ipsam scripturam, in qua inerit illud ambi-

guum, de quo quaeretur, totam omnibus ex partibus pertemptare, si

quid aut ad id appositum sit, quod nos interpretemur, aut ei, quod

adversarius intellegat, adversetur. Nam facile, quid veri simile sit

eum voluisse, qui scripsit, ex omni scriptura et ex persona scriptoris

atque iis rebus, quae personis attributae sunt, considerabitur. [118]

Deinde erit demonstrandum, si quid ex re ipsa dabitur facultatis, id,

quod adversarius intellegat, multo minus commode fieri posse, quam

id, quod nos accipimus, quod illius rei neque administratio neque e-

xitus ullus exstet; nos quod dicamus, facile et commode transigi pos-

se; ut in hac lege — nihil enim prohibet fictam exempli loco ponere,

quo facilius res intellegatur: ‘Meretrix coronam auream ne habeto;

si habuerit, publica esto’, contra eum, qui meretricem publicari dicat

ex lege oportere, possit dici neque administrationem esse ullam pu-

blicae meretricis neque exitum legis in meretrice publicanda, at in

auro publicando et administrationem et exitum facilem esse et in-

commodi nihil inesse. [41.119] Ac diligenter illud quoque adtendere

oportebit, num illo probato, quod adversarius intellegat, res utilior

aut honestior aut magis necessaria ab scriptore neglecta videatur. Id

fiet, si id, quod nos demonstrabimus, honestum aut utile aut necessa-

rium demonstrabimus, et si id, quod ab adversariis dicetur, minime

eiusmodi esse dicemus. Deinde si in lege erit ex ambiguo controver-

sia, dare operam oportebit, ut de eo, quod adversarius intellegat, a-

lia in re lege cautum esse doceatur. [120] Permultum autem proficiet

illud demonstrare, quemadmodum scripsisset, si id, quod adversa-

rius accipiat, fieri aut intellegi voluisset, ut in hac causa, in qua de

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vasis argenteis quaeritur, possit mulier dicere nihil adtinuisse a-

dscribi ‘quae volet’, si heredis voluntati permitteret. Eo enim non

adscripto nihil esse dubitationis, quin heres, quae ipse vellet, daret.

Amentiae igitur fuisse, cum heredi vellet cavere, id adscribere, quo

non adscripto nihilominus heredi caveretur [121] Quare hoc genere

magnopere talibus in causis uti oportebit: ‘Hoc modo scripsisset, i-

sto verbo usus non esset, non isto loco verbum istud conlocasset’.

Nam ex his sententia scriptoris maxime perspicitur. Deinde quo tem-

pore scriptum sit, quaerendum est, ut, quid eum voluisse in eiusmodi

tempore veri simile sit, intellegatur. Post ex deliberationis partibus,

quid utilius et quid honestius et illi ad scribendum et his ad conpro-

bandum sit, demonstrandum; et ex his, si quid amplificationis dabi-

tur, communibus utrimque locis uti oportebit. Ex scripto et sententia

controversia consistit, cum alter verbis ipsis, quae scripta sunt, uti-

tur, alter ad id, quod scriptorem sensisse dicet, omnem adiungit dic-

tionem » 49.

49 Il tema costituisce una estensione della parte introduttiva del trattato retorico

(cfr., infatti, Cic., De inv. 1.13.17), laddove l’Arpinate analizzava gli ‘status lega-les’, le ‘controversiae’, ossia gli ζητήµατα νοµικά, di Ermagora: vd., in tema, M. BRETONE, Il giureconsulto interprete della legge, in Labeo 15 [1969], p. 300 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 313 e cfr. R. VOLKMANN, Die Rhetorik der Griechen und Römer in systematischer Übersicht 2, p. 90; A.E. CHAIGNET, La rhétorique et son histoire, passim; B. RIPOSATI, Studi sui ‘Topica’ di Cicerone, p. 255; J. STROUX, Römische Rechtswissenschaft und Rhetorik, pp. 81 e ss.; J. HIM-

MELSCHEIN, Studien zu der antiken Hermeneutica iuris, p. 387 e nt. 1 e ss.; J. SANTA

CRUZ, Der Einfluß der rhetorischen Theorie der Status auf die römische Jurispru-denz, insbesondere auf die Auslegung der Gesetze und Rechtsgeschäfte, pp. 91 ss. e 101 ss.; U. WESEL, Rhetorische Statuslehre und Gesetzesauslegung der römischen Juristen, pp. 24 e s., nonché L. CALBOLI MONTEFUSCO, Logica, retorica e giurispru-denza nella dottrina degli ‘status’, pp. 216-217 nt. 14. Ivi, infatti, Cicerone già anti-cipava: « Nam tum verba ipsa videntur cum sententia scriptoris dissidere, tum inter se duae leges aut plures discrepare, tum id, quod scriptum est, duas aut plures res significare, tum ex eo, quod scriptum est, aliud, quod non scriptum est, inveniri, tum vis verbi quasi in definitiva constitutione, in quo posita sit, quaeri ».

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Naturalmente, in questa sede, Cicerone si attesta (volutamen-

te) sul versante dell’analisi retorica, che ha il sopravvento su quello

più strettamente giuridico 50, secondo cui, salvo diversa indicazione,

« la scelta nel caso di legato generico spettava al legatario se il testa-

tore l’aveva disposta con legato di proprietà, all’erede se con legato

d’obbligazione » 51. Nel presente caso saremmo in presenza di un le-

gato per damnationem (« heres – dato ») 52 e, quindi, l’opzione do-

vrebbe appartenere all’erede. Ma, qui, l’ipotesi pare essere inversa 53.

Comunque sia, e in primo luogo, la parte interessata dovrà

(cercare di) dimostrare che non sussistono ambiguità, e che la formu-

Si veda, poi, in generale, già VOLKMANN, op. cit., 42; E. BALOGH, Der Urheber

und das Alter der Fiktion des Cornelischen Gesetzes (nebst einigen einleitenden Be-merkungen über die Bedeutung des römischen Rechts für das moderne), p. 666; W. KROLL, s.v. ‘Rhetorik’, pp. 1085 ss.; F. SCHULZ, History of Roman Legal Science, p. 76 e nt. 7 = ID., Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, p. 92 e nt. 3 = ID., Storia della giurisprudenza romana [trad. it. Nocera, G.], p. 145 e nt. 2; M. FUHR-

MANN, Philologische Bemerkungen zur Sentenz ‘summum ius summa iniuria’, pp. 62 e s. Si vedano ancora le riflessioni di S. TAFARO, Il giurista e l’‘ambiguità’. Ambige-re – ambiguitas – ambiguus), pp. 15 ss.; ID., Ambiguitas, pp. 102-103 nt. 14 e 110 e ss. (specialmente), nonché, ultimamente, MASUELLI, op. ult. cit., 138-139 nt. 37, il quale richiama, pertinentemente, i passi di Cic., Top. 25.96 (« id autem contingit, cum scriptum ambiguum est, ut duae sententiae differentes accipi possint »), e di Cic., Or. 34.121 (« nam si quando aliud un sententia videtur esse aliud in verbis, genus est quoddam ambigui quod ex praeterito verbo fieri solet, in quo quod est ambiguorum proprium res duas significari videmus »). Per un’analisi complessiva del brano, vd., in particolare, P. VOCI, Diritto ereditario romano 2, II, pp. 930 e ss.

50 In ordine al primo, vd. H. COING, Zur Methodik der republicanischen Juris-prudenz, p. 381 nt. 78, e, per il secondo, P. CIAPESSONI, Sul Senatoconsulto Nero-niano, p. 708 e nt. 198 — con ricchezza di fonti, lette, però, con soffocante metodo interpolazionistico.

51 Così già C. FERRINI, Studi sul ‘legatum optionis’, in ID., Opere, IV, pp. 274 nt. 1, 282 e 318; E. COSTA, Cicerone giureconsulto, I, pp. 246-247 e nt. 1; più recente-mente P. VOCI, Diritto ereditario romano 2, II, p. 264 e nt. 61. Vd. anche infra, nt. 59.

52 Vd., infatti, Gai. 2.201. 53 Cfr. § 120 di Cic., De inv. 2.41, e, giustamente, C. FERRINI, op. cit., pp. 282 e

318; non, invece, P. CIAPESSONI, op. cit., p. 708.

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lazione impiegata — nel caso di specie, dal testatore — corrisponde

al comune modo di esprimersi: naturalmente ‘si [tutto ciò] fieri pote-

rit’, come osserva lo stesso Cicerone. Per questo, l’interpretazione

andrà condotta ‘contestualizzando’ nel ‘tutto’ il punto discusso. E in

questa sede l’Arpinate risulta essere di una modernità metodologica

sorprendente. Egli osserva, infatti, che l’operazione (consapevole o

inconsapevole che sia) la quale conduce a svincolare dal contesto il

tratto oggetto di discussione è, in sé e per sé considerata, la vera fon-

te dell’ambiguità, poiché non esiste elemento espressivo che, fuori

dal quadro di riferimento, non dia luogo a più d’una interpretazio-

ne 54.

Ancora, ulteriormente, andranno propedeuticamente identifi-

cati tutti gli elementi, per così dire, di contorno, attraverso e grazie ai

quali sia possibile ‘ricostruire’ compiutamente la volontà del dispo-

nente — quali ‘altre scritture, eventi significativi, affermazioni, in-

tenzioni (evidentemente manifestate), comportamenti concludenti’

(« ex ceteris eius scriptis, factis, dictis, animo atque vita eius ») 55.

Per restare ancorati alla fattispecie proposta nel § 116, si pensi all’i-

potesi in cui il de cuius avesse in più occasioni manifestato la propria

volontà, corredandola dell’ulteriore dato secondo cui ‘la moglie’ o,

alternativamente, ‘l’erede’ avrebbero potuto scegliere il vasellame

d’argento oggetto del legato 56 (§ 117).

54 Cfr., e.g., Cels. IX dig., D. 1.3.24 [= Pal. Cels. *86]: « Incivile est nisi tota le-

ge perspecta una aliqua particula eius proposita iudicare vel respondere » — paral-lelo indicato da G. STROUX, Summum ius summa iniuria, pp. 21-22 e nt. 40, in parti-colare [= ID., Römische Rechtswissenschaft und Rhetorik, pp. 31 ss. e nt. 40], su cui E. LEVY, Rec. a Stroux, op. cit., p. 674 = ID., Recht und Gerechtigkeit, p. 25).

55 Cfr., in proposito, E. BETTI, Zur Grudlegung einer allgemeiner Auslegungs-lehre, p. 102 nt. 25a, mentre P. VOCI, op. cit., p. 931, parla di « descrizione chiaris-sima di quella che i giuristi chiamano consuetudo testatoris ».

56 Un analogo principio potrà essere applicato, ad esempio, a proposito di Alf. V dig. ab anon. epit., D. 35.1.27 [= Pal. Alf. 21] laddove fosse, per ipotesi, consentito appurare che il testatore aveva indicato verbatim l’esatto modello da seguire per

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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A questo proposito, non va omessa l’emersione dell’ulteriore

eventualità che, dai dati ambientali, sorga la prova della fondatezza

della tesi contraria, ovverosia dell’avversario (« si quid aut ad id ap-

positum sit, quod nos interpretemur, aut ei, quod adversarius intelle-

gat, adversetur »): questo non è detto esplicitamente nella testimo-

nianza, che implica, invece, il modo di snidare gli argomenti contrari

a quelli avanzati dalla controparte, ma credo possa essere desunto dal

senso complessivo di essa e, testualmente, dall’inciso « si quid ex re

ipsa dabitur facultatis ». L’erede viene a conoscenza del fatto che —

per restare sempre nell’àmbito dell’esempio illustrato nel De inven-

tione — il de cuius aveva più volte indicato la legataria come sogget-

to attivo della scelta di vasellame. Colui che ne abbia interesse, allo-

ra, dovrà cercare di convincere gli uditori (o il giudice: il « trattato di

retorica presuppone sempre la controversia giudiziaria ») 57 che la

soluzione avanzata dall’antagonista non è praticabile (a differenza di

quella sostenuta) — e qui Cicerone riporta un altro esempio (« nos

quod dicamus... ‘meretrix coronam auream ne habeto; si habuerit,

publica esto’ »), per cui si dimostrerà che, oggetto passivo della ven-

dita all’incanto non potrà essere la meretrix bensì la corona d’oro da

essa portata in contrasto — parrebbe — con i mores, che serve a cor-

roborare il principio espresso (§ 118). A proposito dell’esempio della

meretrix si fa riferimento, evidentemente, ad una « lex ficta », ideata

da Cicerone, come egli stesso si premura di sottolineare (§ 118) 58.

Dove, poi, le argomentazioni della controparte appaiano do-

tate di fondamento, si cercherà di paralizzarne la forza attraverso

l’obiezione che si tratta di soluzione, in ogni caso, disonesta, ovvero

l’edificazione del monumento. Sul passo ora evocato si veda M. MIGLIETTA, Casi emblematici di ‘conflitto logico’ tra ‘quaestio’ e ‘reponsum’ nei ‘digesta’ di Publio Al-feno Varo, pp. 301 e ss.

57 Così, in particolare, P. VOCI, op. cit., p. 931. 58 Vd. già [K. VON] ORELLI, M. Tullii Ciceronis opera, VIII. Onomasticon Tul-

lianum, p. 402.

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inutile ovvero, ancora, non necessaria (mentre si proverà l’opposto

con riferimento alla propria) — utilizzando, infine, l’arte presuntiva,

a partire dalla supposizione che il disponente non avrebbe impiegato

certe espressioni, se la spiegazione data dall’avversario fosse accolta

— ovvero che l’avversario si sta rifacendo a una diversa disposizione

di legge — qui non applicabile (§ 120).

In virtù di tale costruzione, il legatario (la mulier nonché ma-

ter del caso in esame) opporrà che il testatore non avrebbe aggiunto

l’inciso ‘quae volet’ se avesse inteso alludere all’erede, cosa che sa-

rebbe emersa chiaramente da una clausola priva di tale precisazione

(§ 121) — e, come tale, conforme alla regula iuris 59.

1.3 Continua: le attività del ‘videre’, del ‘distinguere’, del ‘habere

regulam’ e le finalità del metodo descritto da Cicerone

Tutto ciò doverosamente considerato, e sempre alla luce del

brano tratto dal Brutus, l’opera dell’interpres non può esaurirsi,

quindi, in un unico atto — per quanto, in sé considerato, anche com-

plesso 60 — ma richiede il compimento di una sequenza di operazio-

ni 61 ‘necessariamente’ consecutive (così come segnalato dalla pro-

gressione degli avverbi di tempo « … primum… deinde… postre-

mo… ») 62 rappresentate dal ‘videre’, dal ‘distinguere’ 63 e finalizzate

59 La regola è già testimoniata in Iavol. II post. ex Lab., D. 33.5.20 [= Pal. Iavol.

179], tratta dai probabili libri digestorum di Aufidio Namusa, allievo di Servio: cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, coll. 75 [= Pal. Namus. 1] e 304 [= Pal. Iavol. 179]. Vd. già supra, nt. 51 (e testo di riferimento).

60 Mi riferisco alle espressioni ciceroniane ‘rem universam tribuere in partis’, ‘latentem explicare definiendo’ e ‘obscuram explanare interpretando’ (cfr. Cic., Brut. 41.152 cit.).

61 Si tratta, infatti, di un ‘procedimento’ (o ‘processo’) interpretativo. 62 Su quest’ultimo avverbio, e sulle conclusioni che vengono tratte dal periodo

finale in oggetto (quale ‘cifra’ dell’applicazione del metodo scettico-accademico),

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al ‘habere regulam’, ossia, rispettivamente, dall’analisi attenta della

quaestio (se è ‘amb–igua’ deve esserne osservata, e accuratamente,

ogni sfaccettatura 64); dalla identificazione di ogni parte (‘di–stinguo’

cfr., da ultimo, O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, p. 53 nt. 58 (nonché p. 61 nt. 76). Non credo sia da escludere, però, che il concetto di ‘verità’ (e, per simmetria, di ‘falsità’) a cui alludeva l’Arpinate, in riferimento alla dimensione operativa della regula (iuris), tenesse presente il cosiddetto ‘probabilismo’ proprio degli Accademici, cui egli (ossia Cicerone, ma non necessariamente Servio!) darà prova di aderire compiutamente nell’età matura. Si tratta, infatti, di una sorta di ‘scetticismo pragmatico’, il quale, pur non negando l’esistenza di una verità oltre il puro dato fenomenico, garantisce, principalmente, la possibilità di una conoscenza probabile, e, ciò che più rileva ai nostri fini, utile a orientare l’azione (in questo caso dell’interprete), nonché ad essa funzionale. È particolrmente illuminante, in questo contesto, l’ampio e noto dialogo — sviluppato lungo la trama di ipotesi sollecitanti e aderenti repliche — instaurato con Lucullo in Cic., Acad. 2. Da ultimo, circa il con-cetto di ‘verità’ applicato all’attività interpretativa dei giuristi romani — quale ‘ade-renza’ della soluzione ‘alla realtà’ — si veda F. GALLO, La ‘verità’: valore sotteso alla definizione celsina del diritto, pp. 83 e ss. (e, per la definizione, pp. 89-90, in particolare): cfr. M. MIGLIETTA, Casi emblematici di ‘conflitto logico’ tra ‘quaestio’ e ‘responsum’ nei ‘digesta’ di Publio Alfeno Varo, p. 283 (nt. 18). Sul tema della ‘verità’ e ‘falsità’, in relazione al passo ciceroniano, vd. ulteriori considerazioni, in-fra, nt. 68. Cfr. anche infra, ntt. 227 e 269.

63 Qui, a modo di accenno, si può richiamare, quale esempio particolarmente si-gnificativo, il passo di Alf. V dig. a Paul. epit., D. 19.2.31 [= Pal. Alf. 71], ovvero, per essere direttamente aderenti alla tradizione serviana, Ulp. XX ad Sab., D. 34.2. 19.17 [= Pal. Ulp. 2606 → Pal. Serv. 53]: quanto al contenuto, si rileva che le gem-me (gemmae) risultano essere materie trasparenti, le quali (come riferito da Sabino nei libri ad Vitellium) erano state ‘distinte’ da Servio rispetto alle pietre preziose (lapilli) in virtù, appunto, della loro trasparenza. Ora, la testimonianza non avrebbe in sé nulla di singolare se non fosse che Sabino riporta la notizia secondo cui Servio ‘distinse’ in proposito: e qui la distinctio è propriamente operazione logico-giuridica diversa dalla partitio, poiché non corrisponde a presentare in segmenti la res, ma nel dare il nome giusto alle cose. Per il testo ulpianeo si veda infra, cap. II, frg. E .36 . .

64 Uso di proposito il sostantivo ‘sfaccettatura’ — sebbene rigorosamente im-proprio ove riferito al concetto di ‘ambiguità’ così come corrispondente a ‘bi–valenza’ (cfr. A. WALDE – J.B. HOFMANN, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, I, p. 37 ad v. ‘ambiguus’) — accogliendo, in questo punto, il concetto esteso di ‘plu-ralità’ di significati. E, in questi precisi termini, l’idea di un oggetto dalle molte fac-ce — non necessariamente simmetriche o corrispondendi o equiestese — mi pare renda, meglio di ogni altra metafora, quanto si vuole affermare (trovo, peraltro, con-

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significa, infatti, ‘punteggiare’ cioè ‘marchiare’) e, quindi, dalla at-

tribuzione dei nomina (iuris) appropriati, in modo da evitare, che a

realtà sostanzialmente differenti, si attribuiscano ‘nomi’ simili, inge-

nerando ulteriore confusione (e, quindi, ambiguità) 65; dalla indivi-

ferma singolarmente calzante nell’illustre Vocabolario della lingua italiana, IV [S-Z], ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA, p. 284 s.v. ‘sfaccettatura’ e, soprattut-to, s.v. ‘sfaccettare’: « 2. In senso fig., non com., considerare ‘tutti’ i punti di vi-sta »; gli apici, all’interno della citazione, sono miei).

65 Il verbo ‘distinguo’ è assimilabile, infatti, secondo l’etimologia preferibile (cfr. A. WALDE – J.B. HOFMANN, Lateinische Etymologisches Wörterbuch, I, pp. 357 e 706, ad vv. ‘distinguo’ e ‘instigo’), al greco st…zw, impiegato, quest’ultimo, so-prattutto, con riferimento alla marchiatura degli schiavi — anche col fuoco: cfr. Ari-stoph., Ranae 1511 (« … st…xaj aÙtoÝj kaˆ sumpod…saj... ») — Herod., Hist. 7.233.2 (« … œstixan st…gmata basil»ia ») e, con marchio a forma di cavallo, Plut., Vitae [Nicias] 29 (« … æj o„kštaj ™pèloun st…zontej †ppon e„j tÕ mš-

twpon... »); segnato da tatuaggi recanti messaggi (probabilmente in codice): Herod., Hist. 5.35.2 (« … kaˆ tÕn ™stigmšnon... shma…nonta ¢p…stasqai 'AristagÒrhn

¢pÕ basilšoj »). Si veda ancora, nel senso figurato di ‘essere segnato [da lividi]’, Aristoph., Vespae 1296 e, in quello traslato, ‘notare [con infamia]’ in Æschines, Pa-rapresb. 79 (« … kaˆ mÒnon oÙk ™stigmšnoj aÙtÒmoloj »).

Tutto questo acquista, poi, particolare significato se raffrontato con il passo di Gai 1.13 (in tema di dediticii e di lex Aelia Sentia) in cui il giurista tratta dei « servi a dominis poenae nomine vincti », nonché di quelli « quibus stigmata inscripta sunt »: si tratta, in altre parole, di quegli schiavi ‘marchiati con segno d’infamia’ (sul concetto di ‘stigma’, si vedano già le osservazioni di F. ZUCCOTTI, ‘Symbolon’ e ‘stipulatio’, p. 369 e nt. 380, che cita, a proposito degli eccessi compiuti dal prin-ceps, Suet., Vitae [Cal.] 4.27.3: « Multos honesti ordinis, deformatos prius stigma-tum notis, ad metalla et munitiones viarum aut ad bestias condemnavit, aut bestia-rum more quadrupedes cavea coercuit, aut medios serra dissecuit », e Fest., s.v. ‘nota’ [L. 183], il quale, tra altri significati — tra cui quello della marchiatura delle pecore — indica, appunto, il segno stigmatizzatore (per tutti, cfr. l’incipit di Apul., Apolog. 1, dove si parla di Sicinius Aemilianus, il feroce accusatore di Apuleio, co-me di « sene[x] notissimae temeritatis », che, recentemente, Amarelli [in F. AMA-

RELLI – F. LUCREZI, I processi contro Archia e contro Apuleio, p. 155], ha reso come « vecchio di famigerata temerarietà »: del resto, il concetto di ‘stigmatizzare’ allude, come è noto, all’atto dell’attribuire, in modo permanente, un giudizio negativo, giu-ridico o morale, concetto tradizionalmente testimoniato, e senza sostanziali modifi-cazioni, anche nel periodo intermedio: cfr. C. DU CANGE, Glossarium mediae et in-fimae latinitatis, VI, p. 373 ad hh. vv.). Si noti, ancora, come il termine usato da

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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duazione, finalmente, della ‘regula’, ossia del ‘metro di valutazio-

ne’ 66 — e, quindi, dotata del carattere di « certezza normativa » 67 —

Gaio sia ‘stigma(ta)’, che ricalca direttamente l’omofono greco st…gma(ta) (peraltro — si noti bene — espressamente impiegato nel passo corrispondente di Theoph. Par. 1.5.3) appunto quale sostantivizzazione del verbo st…zw (per acute osservazioni in-torno ad altre caratteristiche stilistiche dal paragrafo teofilino vd. G. FALCONE, Il me-todo di compilazione delle ‘Institutiones’ di Giustiniano, pp. 241 e ss. [241, in parti-colare]).

66 Il vocabolo ‘regula’, ossia, tendenzialmente, la ‘riga’ (come, del resto, ‘nor-ma’ significa solitamente ‘squadra’, ovvero anche ‘angolo retto’) deriva, infatti, dal-la scienza architettonica e ha, quindi, natura tecnica: cfr. Vitruv., De archit. 1.1.6 e 17 (in questo secondo caso, è lo stesso Vitruvio a trasporre dal piano architettonico a quello dialettico il termine norma trattando di ‘norma artis grammaticae’ ); 1.2.2 (‘circini regulaeque... usus’); 1.6.6 (‘regula et libella’ ); 4.3.4-5 (contrapposto, an-che, a norma: vd. infra); 5.10.3 (‘regulae ferreae’ ); 6.2.2 (per affermare, per analo-gia, ‘cum sit tabula sine dubio ad regulam plana’ ); 7.1.3-4 (ancora ‘regula et libel-la’, nel § 3); 7.3.5 (‘ad regulam et ad lineam’ ); 7.4.5 (‘regula et livella’ ); 8.5.1 (as-sai interessante, poiché dà la definizione di coròbate: ‘est regula longa circiter pe-dum viginti. Ea habet ancones in capitibus extremis aequali modo perfectos inque regulae capitibus ad normam coagmentatos...’, et rell., in cui troviamo anche il ter-mine ‘norma’ ad indicare la posizione a squadra dei bracci); 8.5.3; 9 praef. 6 (ancora nel richiamo al regolo, significativamente posto, con altri uguali elementi, a formare un attrezzo triangolare, ossia una ‘norma’ ); 9.8.5-6 (circa le aste, anche tangenti di-schi girevoli [§ 5]); 10.2.8 (‘regula longa circiter pedes duos’ ); 10.6.2 (‘salignea tenuis aut de vitice secta regula’ ); 10.8.1, 3-4 e 6 (‘regulae... scalari forma conpac-tae’, § 1); 10.10.3 (sempre a proposito di aste di cui si determina minuziosamente la misura); 10.11.5-6 e 8 (ugualmente come nella citazione che precede).

Quanto alla ‘norma’ — nonché alle espressioni connesse, come ‘ad normam’ (per cui anche l’usuale modalità semantica ‘essere a norma’) — cfr. Vitruv., De ar-chit. 1.1.4 (qui come indicazione dell’angolo retto); 3.1.3 (in relazione alle propor-zioni — ‘ad normam’ — del canone modulare del corpo umano, conosciuto, appun-to, come ‘uomo vitruviano’, reso ancor più noto dalla trasposizione figurativa di Le-onardo da Vinci, conservata, su foglio, a Venezia, presso la Galleria dell’Accade-mia: inv. 228 [mm. 344 x 245, punta metallica e penna su carta]); 3.5.13-14 (nel si-gnificato tecnico di squadra, § 14); 4.3.5 (circa lo scavare piccoli canali a punta di squadra: ‘canaliculi ad normae cacumen inprimantur’ ); 7.3.5 (angoli a squadra); 8.5.1 (vd. appena supra); 9 praef. 6 (vd. appena supra) e 9.7.2 (si tratta dello gno-mone della meridiana, eretto perpendicolarmente ‘a squadra’). Si veda, e.g., anche Plin., Nat. hist. 7.198 (secondo cui fu Teodoro di Samo ad inventare la squadra — ‘norma’ — insieme alla livella, al tornio e alla chiave) e 36.172.

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attraverso cui stabilire cosa risulti essere vero e cosa, invece, falso 68

Si può, pertanto, arguire che, sul piano della semantica giuridica, i termini ‘regu-

la’ e ‘norma’ indicano, in qualche misura, rispettivamente, il ‘metro di valutazione’, ossia, « in senso metaforico, strumento idoneo a mostrare una conformità » (ossia a ‘conformare’ [vd. L. LANTELLA – E. STOLFI – M. DEGANELLO, Operazioni elementari di discorso e sapere giuridico, p. 183], nonché la ‘direzione’: cfr. Regula sancti Be-nedicti, incipit: « ‘regula appellatur’ ab hoc quod oboediendum ‘dirigat’ mores » [gli apici sono miei], p. 134 [S. Pricoco, ed.]) e la ‘profondità’ dell’agire umano.

67 Sul punto vd. C.A. CANNATA, La giurisprudenza romana, pp. 35-36. Secondo lo studioso, infatti, « l’impiego della dialettica di origine ellenistica per l’elaborazione del materiale giuridico costituisce la novità metodologica di questo periodo; e, trattandosi di un metodo di analisi razionale usato per mettere capo alla formazione di regole, conferisce a queste regole un carattere di certezza normativa. La enunciazione di ‘regulae iuris’ con carattere vincolante continuò pertanto a rima-nere tipica della giurisprudena di questo periodo; quando, con Labeone, alla ‘regula iuris’ con carattere normativo si sostituirà il πιθανόν (pithanon), criterio del probabi-le, cioè la regola casistica consistente in una soluzione pratica tipizzata, si respirerà già l’aria dell’epoca classica » (sul punto vd. anche P. JÖRS, Römische Rechtswis-senschaft zur Zeit der Republik, I, pp. 23 e ss.; F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, pp. 44 e ss., 57 e ss. = ID., Storia della giurisprudenza romana, pp. 75 e ss., 95 e ss. (e cfr. ID, History of Roman Legal Science, pp. 38 e ss., 49 e ss.), nonché, fondamentale, B. SCHMIDLIN, Die römischen Rechtsregeln. Versuch einer Typologie, pp. 23 e ss.; 113 e ss. e 123 e ss., nonché ID., Regola e fattispecie nella giurisprudenza romana, pp. 9 e ss.). A proposito della parte finale di Cic., Brut. 41.152 vd., però, qualche misurata riserva in F. SCHULZ, Prinzipien des römi-schen Rechts, p. 34 (« auch von Servius berichtet Cicero ausdrücklich seine Bemü-hungen um die Formung von regulae, und wenn diese Schilderung auch an starker Übertreibung leidet, so ist in ihr doch ein wenn auch nur bescheidener Wahrheits-kern enthalten ») = ID., Principles of Roman Law, p. 50 = ID., I principi del diritto romano, p. 43.

68 Già in verbo latino ‘distinguo’ partecipa di questo significato: cfr., infatti, Cic., Acad. 57 e Horat., Epist. 1.10.26. Si veda anche Raban. Maur., De cleric. inst. 3.20, in « PL. », CVII, c. 397C: « Dialectica est disciplina rationalis quaerendi, dif-finiendi et disserendi, etiam vera et a falsis discernendi potens » (sull’attività del di-stinguere il vero dal falso si veda, dello stesso autore altomedievale, anche supra, nt. 3). Circa cosa possa intendersi, poi, realmente con i segni « vera et falsa » (al punto che, ancora recentemente, D.O. EFFER-UHE, Die Wirkung der ‘condicio’ im römi-schen Recht, p. 21, si limita a tradurli letteralmente, e a riportarli tra caporali [« „wahr“ und „falsch“ »]), si veda quanto osservato supra, nt. 62. Per l’origine del dettato vd., però, R. MARTINI, ‘Regulae iuris’, pp. 303 e 307-308 ntt. 8-10, e, soprat-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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(« ambigua primum videre, deinde distinguere, postremo habere re-

gulam qua vera et falsa iudicarentur… ») 69 e quali conseguenze

possano derivare — o vadano, per contro, escluse — poste determi-

nate premesse 70 (« … et quae quibus propositis essent quaeque non

tutto, D. NÖRR, Spruchregel und Generalisierung, pp. 31e ss. = ID., Historiae iuris antiqui, II, pp. 788 e ss. (diversa, invece, la posizione di P. STEIN, Regulae iuris. From Juristic Rules to Legal Maxims, p. 52, secondo il quale, nel frammento cicero-niano, non si alluderebbe alla regula iuris, bensì ad un criterio discretivo retorico teso a distinguere, puramente, tra verità e falsità. Ma, oltre alle considerazioni svolte dal Martini — op. et loc. cit. — che si richiama giustamente alla parte finale del pa-ragrafo [« et quae quibus propositis – consequentia »], bisogna considerare il conte-sto in cui Cic., Brut. 41.152 è inserito, che non si spiega se non alla luce della illu-strazione del metodo dialettico-retorico, questo sì, ma in quanto rigorosamente ap-plicato da Servio all’interpretazione giuridica, e a questa finalizzato. Sulla linea del-lo Stein si vedano già H. OPPEL, ΚΑΝΩΝ. Zur Bedeutunggeschichte des Wortes und seiner lateinischen Entsprechungen (Regula-Norma), in Philologus, Suppl., 30, 4, 1937, p. 100 nt. 4 e L. WENGER, Canon in den römischen Rechtsquellen und in den Papyri, pp. 51-52 e nt. 4). Cfr. anche supra, nt. 62, e infra, ntt. 227 e 269.

69 Cfr. Cic., Acad. 33 e 58; De fin. 1.19.64 (e si veda anche, indirettamente, Cic., De leg. 1.19, come ‘iuris atque iniuriae regula’ ). Piuttosto sintetica su questo aspet-to, ma non erroneamente, M.A. MESSANA, Sui ‘libri definitionum’, pp. 93-94, secon-do cui « l’uso della definitio è inserito nell’ambito dell’ars attribuita a Servio Sulpi-cio Rufo, con la funzione di precisare ciò che ancora non è nettamente emerso e co-me operazione preliminare rispetto alla successiva fissazione della regula, una volta dissipati i punti oscuri e ambigui ». Non può essere accolta, invece, la soluzione of-ferta da P. STEIN, The Place of Servius Sulpicius Rufus in the development of Roman legal science, p. 176 e nt. 4, secondo il quale « regula in this passage means ‘stan-dard’ […] and does not refer to regulae in the sense of particular rules » (cfr. ID., Regulae iuris, p. 52), contro l’opinione — qui, invece, condivisa — di O. BEH-

RENDS, Die Wissenschaftslehre im Zivilrecht des Q. Mucius Scaevola pontifex, p. 278 nt. 56 e ripresa ora da M. AVENARIUS, Der pseudo-ulpianische ‘liber singularis regularum’, p. 107 nt. 14. Far riferimento, tuttavia, ad una semplice (e generica) ri-cerca della ‘regola di condotta’ può portare a velare il valore ‘giuridico’ della testi-monianza ciceroniana riferita alla attività di Servio.

70 Sull’ultima sezione di Cic., Brut. 41.152 vd. anche, espressamente, K.F. VON

NÄGELSBACH, Lateinische Stilistik, pp. 658-659.

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essent consequentia ») 71, operando, in altri termini, attraverso « el

razonamiento silogístico » 72.

71 Sul punto si veda, da ultimo, correttamente, M. AVENARIUS, Der pseudo-

ulpianische ‘liber singularis regularum’, pp. 106-107, il quale insiste sulla necessità — che la scuola di Servio si sarebbe posta come obiettivo di lavoro — di fornire una regula iuris pratica, ‘responsabile [« ein regelhaftes Recht »]’ (utilizzabile e, quindi, non meramente teorica), sul modello delle clausole edittali e della loro illustrazione. Una presentazione troppo sintetica del passaggio in questione è presente in O. BEH-

RENDS, Dalla mediazione arbitrale alla protezione giudiziaria. Genesi e vicende del-le formule di buona fede e delle cd. ‘formulae in factum conceptae’, pp. 204-205 nt. 15.

Ricorrenze di tale fenomeno si possono rintracciare, ad esempio, in Alf. II dig. ab anon. epit., D. 39.2.43 pr. [= Pal. Alf. 5] e, ancora, in Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.2 [= Pal. Alf. 7], di cui si tratterà ampiamente infra, cap. III. Ancora simile è l’andamento di Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.3 [= Pal. Alf. 7]: « Quidam boves vendidit ea lege, uti daret experiundos: postea dedit experiundos: emptoris servus in experiundo percussus ab altero bove cornu est: quaerebatur, num venditor emptori damnum praestare deberet. Respondi, si emptor boves emptos haberet, non debere praestare: sed si non haberet emptos, tum, si culpa hominis factum esset, ut a bove feriretur, non debere praestari, si vitio bovis, debere ». Ci si trova, infatti, in presenza dell’ipotesi di acquisto di una coppia di buoi, acquisto soggetto a pactum displicentiae (certamente visto come condizione sospensiva quanto a perfeziona-mento del negozio). Durante la prova per il gradimento, lo schiavo dell’acquirente viene ferito dalle corna di uno degli animali. Il problema è legato al fatto se il vendi-tore debba risarcire o meno il danno (pauperies). Alfeno, dunque, esclude in prima battuta che l’acquirente possa pretendere qualcosa dal venditore qualora abbia già sciolto la riserva di gradimento: in questo caso la vendita si è perfezionata, i buoi sono divenuti di sua proprietà e, pertanto, lo schiavo è stato danneggiato da beni ap-partenenti al medesimo dominus. Nel caso contrario, il giurista non si limita ad una risposta affermativa, ma opera una distinctio a seconda, cioè, che possa essere ravvi-sata una (cor)responsabilità dello schiavo (poiché ha, ad esempio, trattato troppo rudemente l’animale al punto da provocarne la naturale reazione) — per cui il vendi-tore non dovrà rispondere di nulla — o, al contrario, se il danno sia stato causato ‘vitio bovis’, ovvero per un inconsulto movimento dell’animale, per cui il venditor dovrà rispondere (cfr. Ulp. XVIII ad ed., D. 9.1.1.4 [= Pal. Ulp. 607; Pal. Serv. 17] su cui infra, cap. II, frg. D.14 . ).

72 Così, espressamente, A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en el derecho romano, p. 323.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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A questo riguardo, una autorevole dottrina ha recentemente

osservato come l’impiego di tale metodo recasse con sé l’effetto, per

così dire, di ‘portare in evidenza l’equità’, poiché, « nella rappresen-

tazione di Cicerone, l’aequitas sottesa all’interpretatio del giurista è

interna all’ordinamento, un’aequitas ‘civilistica’ che permette al iu-

ris peritus di proporre le sue soluzioni tenendo conto di nuove esi-

genze di tutela o chiarendo i limiti di applicazione di una ‘norma’,

ma sempre come soluzioni ‘giuste’ nel senso che sono concepite co-

me esplicative della ratio dell’ordinamento esistente » 73.

L’Arpinate non si contenta, tuttavia, di procedere a questa

(pur preziosa) descrizione metodologica, ma proclama che lo scopo

per cui Servio si dedicò — tanto assiduamente e fin dalla giovinezza

— allo studio della dialettica e delle arti liberali 74 non fu dovuto al

desiderio di gratificare un interesse meramente ‘accademico’, ma fu

mirato ad utilizzare e sfruttare al meglio le potenzialità di tali cono-

scenze (e, beninteso, di tale metodologia) « ut ius civile facile posset

73 Cfr. L. VACCA, L’‘Aequitas’ nella ‘interpretatio prudentium’, pp. 32-33 (lo

spunto testuale è fornito, infatti, da Cic., Phil. 9.5.10-11: « Nam reliqua Ser. Sulpici vita multis erit praeclarisque monumentis ad omnem memoriam commendata. Sem-per illius gravitatem, constantiam, fidem, praestantem in re publica tuenda curam atque prudentiam omnium mortalium fama celebrabit. Nec vero silebitur admirabi-lis quaedam et incredibilis ac paene divina eius in legibus intepretandis, aequitate explicanda scientia. Omnes ex omni aetate, qui in hac civitate intellegentiam iuris habuerunt, si unum in locum conferantur, cum Ser. Sulpicio non sint comparandi. Nec enim ille magis iuris consultus quam iustitiae fuit: – 11. ita ea quae proficisce-bantur a lagibus et ab iure civili semper ad facilitatem aequitatemque referebat, ne-que instituere litium actiones malebat quam controversias tollere,… », et rell.). Vd. anche A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 262 e ss.

74 Cfr. Cic., Brut. 41.151: « Non enim facile quem dixerim plus studi quam illum et ad dicendum et ad omnes bonarum rerum disciplinas adhibuisse. Nam et in isdem exercitationibus ineunte aetate fuimus et postea una Rhodum ille etiam profectus est, quo melior esse et doctior ».

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tueri » 75. Proprio questa è, del resto, una delle ragioni — la più im-

mediata — per cui l’Arpinate si sofferma a narrare, con tanta minu-

ziosa precisione, il modus agendi dell’analisi serviana — sebbene per

un obiettivo indiretto, segnalato dalla dottrina, ossia la destinazione a

coloro « che aspir[a]no ad essere ‘perfecti oratores’, e non [a]i giuri-

sti » 76, per cui si veda anche Cic., De orat. 1.212 77.

75 Cic., Brut. 40.150 (e vd. infra, nt. 77). Come osserva F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, pp. 81-82 = ID., Storia della giurisprudenza ro-mana, pp. 130-131 (cfr. ID., History of Roman Legal Science, pp. 111-112), « fu solo attraverso la dialettica che la giurisprudenza romana divenne pienamente logica, ac-quistò unità e conoscibilità, raggiunse il suo pieno sviluppo e divenne più raffinata. La dialettica non si limita a sussumere in categorie i singoli fenomeni; è anche stru-mento di scoperta, in quanto suscita, se applicata alla giurisprudenza, problemi anco-ra non sorti nella pratica ». Si veda, inoltre, quanto afferma P. STEIN, Regulae iuris, p. 42, il quale sottolinea, tra altro, il suggestivo passaggio per cui « Cicero says that Servius directed the science of dialectic quasi lucem ad ea quae confuse ab aliis aut respondebatur aut agebatur ».

76 Cfr., in particolare, F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano, pp. 351 ss. = ID., Cicerone tra diritto e oratoria, pp. 131 e ss. = ID., Lectio sua, II, pp. 795 ss. (e F. D’IPPOLITO, Questioni decemvirali, p. 178).

77 In questi temini, tuttavia e a mio parere, sopravvalutato da M. D’ORTA, Per una storia della cultura dei giuristi repubblicani, p. 258 e nt. 138, il quale (coeren-temente con le proprie premesse) sminuisce la portata di Cic., Brut. 41.152, isolan-do, per contro, il giudizio espresso sul punto da Bona (vd. nt. preced., da cui affiore-rebbe « piuttosto un esplicito riconoscimento dell’impiego dello strumentario logico della dialettica ». Il Maestro pavese continuava, però, con l’indicazione — seppure in termini di eventualità, quindi non esclusa — dell’« ambito della sua = di Servio stessa attività di respondente o nella riflessione sui risultati svolta in modo confuso dai giuristi precedenti »). Che nel De oratore l’Arpinate possa riferirsi a coloro che aspirano ad acquisire l’arte del perfetto arringatore è cosa che va da sé; che questo fenomeno possa osservarsi anche nel Brutus non si può negare; che, tuttavia, la pa-gina dell’opera in cui si parla del metodo serviano non si riferisca all’acquisizione dello stesso ai fini della migliore interpretazione giuridica (particolarmente sintoma-tico l’inciso — sempre contenuto in Cic., Brut. 40.150 — « Servius eloquentiae tan-tum assumpsisse ut ius civile facile posset tueri ») mi pare sia contraddetto dal senso complessivo del brano e dalle sue singole partizioni. Che, infine, Servio esercitasse dapprima la funzione del retore, e solo successivamente (forse dopo l’oltraggio subi-to ad opera di Quinto Mucio Scevola pontifex: vd. Pomp., l.s. enchir., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178]) si sia convertito all’attività respondente, non porta con sé uno

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Il giureconsulto — stando alla testimonianza di Cicerone —

avrebbe, in ogni caso, preferito primeggiare nella scienza giuridica 78

snaturamento della dimensione ‘giuridica’ del metodo delineato nel passo del Bru-tus. Del resto, a riprova di quanto detto, basterebbe leggere fino in fondo quanto scriveva BONA, op. cit., p. 354 (e vd. anche p. 366) = ID., Lectio sua, II, p. 799 (e vd., pure, pp. 812-813): « Sottràttici, una volta smascherata la strumentalità del con-fronto tra Quinto Mucio e Servio, dal pericolo di lasciarci irretire in una artificiosa atmosfera, che cosa possiamo trarre dal passo, per quanto più direttamente ci riguar-da? La secunda ars, nella quale Servio preferì segnalarsi ed emergere grazie all’impiego della dialettica [sic!] è la peritia iuris che trova nel respondere, nell’agere e nel cavere la sua ‘tipica’ espressione ». Su questo versante M. VILLEY, Recherches sur la littérature didactique du droit romain (A propos d’un texte de Ci-ceron ‘De oratore’ 1-188 à 190), p. 26 nt. 58; TH. VIEHWEG, Topica e giurispruden-za [G. Crifò, cur.], pp. 54-55; implicitamente, F.P. CASAVOLA, Auditores Servii, p. 159 = ID., Giuristi adrianei, p. 138 = ID., Sententia legum tra mondo antico e mo-derno, I, p. 37; F. WIEACKER, Über das Verhältnis der römischen Fachjurisprudenz zur griechisch-hellenistischen Theorie, pp. 463 e ss.; M. TALAMANCA, La schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, p. 12 nt. 39. Cfr. ancora A. SCHIAVONE, Studi sulle logiche dei giuristi romani, p. 55 nt. 37, ma, soprattutto, ID., Nascita della giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero giuridico nella Roma tardo-repubblicana, p. 111 e ss. (e vd. ID., Giuristi e nobili nella Roma repubblica-na, p. 43 nonché, ora, ID., Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 167-168) e O. BEHRENDS, Die Wissenschaftslehre im Zivilrecht des Q. Mucius Scaevola Ponti-fex, p. 268 nt. 14 (richiamati da D’ORTA, op. et loc. cit., ma, sul punto, il Behrends si riferisce a Quinto Mucio, senza di per sé escludere una connessione al campo del giuridico, affermando, più semplicemente, che « die dialektische Methode […] nicht zum Rüstzeug des Mucius gehörte », né la prosa dello Schiavone pare proporre so-luzioni simili a quelle espressa dall’Autore di cui si è riferito il pensiero).

78 Cfr. J. STROUX, Römische Rechtwissenschaft und Rhetorik, p. 59 e B. SCHMID-

LIN, Horoi, pithana und regulae. Zum Einfluß der Rhetorik und Dialektik auf die juristische Regelbildung, pp. 103-104 (sulla lettura di Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178] offerta da quet’ultimo studioso si veda la severa critica di J.W. TELLEGEN – O.E. TELLEGEN-COUPERUS, Lew and Rhetoric in the causa Curiana, pp. 190 e 193, secondo i quali « in our view Schmidlin is misinterpreting the text com-pletely » e « [he] had to distort the words of Pomponius in order to prove his point [= « ‘trench warfare’ between law and rhetoric »]»).

In altre parole, « Servio avrebbe impiegato le risorse della dialettica come luce per illuminare il campo specifico di quella attività respondente — qui [= Cic., Brut. 41.153] caratterizzata proprio dell’espressione agere e respondere — in cui altri o-peravano confuse » (così F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano, p. 354 = ID., Cice-

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piuttosto che appartenere alle seconde fila della nutrita schiera dei

retori 79 e, in questo, avrebbe superato anche il giurista Quinto Mucio

Scevola 80 (cosicché il primo avrebbe esercitato una vera ‘ars’ 81 a rone tra diritto e oratoria, p. 134 = ID., Lectio sua, II, p. 799, nell’identificare i cor-retti rapporti tra Cic., Brut. 41.152 e Cic., Orat. 4.16).

79 Il dato mette in ombra, ovviamente, gli aspetti della ‘carriera politica’ di Ser-vio, intorno cui si vedano E. VERNAY, Servius et son École, pp. 14 ss. (ma cfr. le os-servazioni critiche di J.F. LOCKWOOD, Recensione a P. Meloni, Servio Sulpicio Rufo e i suoi tempi, pp. 159-160) e A. SCHIAVONE, Il caso e la natura, passim nonché ID., Giuristi e nobili, pp. 136 e ss. ~ ID., Linee di storia del pensiero giuridico romano, pp. 116 e ss. (in particolare) e, ora, ID., Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 235 e ss.

80 Sulle ragioni stilistiche che hanno condotto l’Arpinate a confrontare le posi-zioni di Quinto Mucio e di Servio si veda la profonda lettura sistematica offerta da F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano, p. 352 = ID., Cicerone tra diritto e oratoria, p. 132 = ID., Lectio sua, II, pp. 896-798 (in particolare). Lo stesso Autore (op. cit., p. 354 = ID., Lectio sua, II, pp. 799-800) così si esprimeva, poi, a proposito del passo analizzato: « Servio avrebbe impiegato le risorse della dialettica come luce per illu-minare il campo specifico di quella attività respondente — qui caratterizzata proprio dall’espressione agere e respondere — in cui altri operavano confuse ». Né va di-menticato che sia Servio (vd. infra, § 2 a proposito di D. 1.2.2.43), sia Cicerone (vd., per tutti, M. SCHANZ – C. HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur bis zum Gese-tzgebungswerk des Kaisers Justinian, I, p. 240) furono allievi dello stesso Quinto Mucio.

81 Cfr. già V. ARANGIO RUIZ, Cicerone giurista, p. 7 = ID., Scritti di diritto ro-mano, IV, p. 267. Sul concetto di ars iuris, come ulteriormente elaborato da Celso, con le numerose implicazioni che la definizione comporta, si confronti, invece, il celeberrimo passo di apertura dei Digesta giustinianei attribuito ad Ulp. I inst., D. 1.1.1 pr. [= Pal. Ulp. 1908: « Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde no-men iuris descendat. Est autem a iustitia appellatum: nam, ut eleganter Celsus defi-nit, ius est ars boni et aequi »], intorno cui si vedano, in particolare e per tutti, le ri-flessioni di F. GALLO, Sulla definizione celsina del diritto, pp. 7 e ss. = ID., Opuscula selecta, pp. 551 e ss.; ID., Diritto e giustizia nel titolo primo del Digesto, pp. 6 e ss. = ID., Opuscula selecta, pp. 613 e ss.; ID., L’uomo e il diritto (a proposito di una «rivi-sitazione di Augusto»), pp. 239 nt. 72 e 244 e ss. = ID., Opuscula selecta, pp. 378 nt. 72, 383 ss., e ora, da ultimi, A. SCHIAVONE, Giuristi e principe nelle istituzioni di Ulpiano. Un’esegesi, pp. 1 ss.; G. FALCONE, La ‘vera philosophia’ dei ‘sacerdotes iuris’. Sulla raffigurazione ulpianea dei giuristi (D. 1.1.1.1), pp. 41 e ss.; e V. MA-

ROTTA, Iustitia, vera philosophia e natura. Una nota sulle Institutiones di Ulpiano, pp. 563 e ss. (e p. 565 ntt. 2-3 per bibliografia più recente) = in « Seminarios Com-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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differenza del secondo qualificato un ‘ottimo pratico’ del diritto ma,

in sostanza, nulla più di questo) 82. E l’Arpinate esprime questa moti-

plutenses de Derecho Romano », XIX, 2006, pp. 285 e ss. (e pp. 285-286 ntt. 2-3 per bibliografia); per ulteriori indicazioni rimando a V. SCARANO USSANI, L’ars dei giu-risti, pp. 121-122 nt. 40 e ad E. STOLFI, Die Juristenausbildung in der römischen Republik und im Prinzipat, p. 17 nt. 27. Ampie riflessioni, sul versante della traspo-sizione bizantina, in F. GORIA, La definizione del diritto di Celso nelle fonti giuridi-che greche dei secoli VI-IX e l’Anonimo sulla strategia, pp. 275 e ss.

82 Cic., Brut. 41.152: « Hic Brutus: ‘Ain tu?’ inquit. ‘Etiamne Q. Scaevolae Ser-vium nostrum anteponis?’. ‘Sic enim’, inquam, ‘Brute, existimo, iuris civilis ma-gnum usum et apud Scaevolam et apud multos fuisse, artem in hoc uno ». Sul punto si veda F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano, pp. 282 e ss. = in ID., Cicerone tra diritto e oratoria, pp. 62 e ss. = ID., Lectio sua, II, pp. 717 e ss., nonché A. SCHIA-

VONE, Nascita della giurisprudenza, pp. 110 ss., il quale, giustamente, sottolinea il pensiero ciceroniano circa quei giuristi — tra cui, in posizione emblematica, Quinto Mucio — « che del diritto hanno avuto ‘usus’ e non ‘ars’ » (ivi, p. 112 [e vd. già, e.g., A. DESMOULIEZ, Cicéron et son goût, p. 52 nt. 30], ars che, secondo la condivi-sibile puntalizzazione di L. VACCA, La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano, p. 57 [e vd. pp. 55 e ss.], « sta indubbiamente ad indicare la capacità creativa di Servio che gli permette di dare responsi andando oltre il mero usus del diritto civile […] attraverso l’utilizzazione di una tecnica argomentativa particolare, che nasce dalla padronanza degli strumenti dialettici, mediante la quale acquistano scientificità l’analisi e la discussione della struttura particolare del caso e può essere individuata la soluzione »; vd., ora sinteticamente, ancora EAD., L’‘Aequitas’ nella ‘interpretatio prudentium’, p. 31 nt. 41). Analoghe osservazioni già in G. LA PIRA, La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. L’arte sistematrice, pp. 353-354; ID., La genesi del sistema nella giurisprudenza romana, 4. Il concetto di scien-za e gli strumenti della costruzione scientifica, pp. 136-137, e in G. NOCERA, Sul significato del normativismo e delle codificazioni nell’esperienza giuridica romana, pp. 12-13 nt. 10. E questo nonostante ‘l’infortunio’ in cui era incorso lo stesso Ser-vio nell’interrogare Quinto Mucio, così come ricordato, con acribia, da Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178], riportato e commentato infra, § 2. Da ultimi, cfr. A. CENDERELLI – B. BISCOTTI, Produzione e scienza del diritto, pp. 198 e ss., e, in sintesi, M. AVENARIUS, Der pseudo-ulpianische liber singularis regularum, pp. 88-89 nt. 11. Come si vedrà nel corso di questo capitolo (§§ 3-4) il giudizio di Pom-ponio si presenterà, sostanzialmente, a parti invertite. Per un lettura ‘originale’ del passaggio di Cic., Brut. 41.152, appena riportato (in cui, ad opera della ‘riforma’ serviana, si sarebbe realizzato il passaggio da un pur ordinato sistema di diritto natu-rale, di matrice essenzialmente immanentistica, ad un nuovo sistema scettico-umani-stico), vd., ora, O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts. Die Kultu-

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vazione con felice costruzione a chiasmo 83, che pare riecheggiare

quelli che saranno gli arditi giochi linguistici agostiniani 84: « videtur

ralanthropologie der skeptischen Akademie, p. 68 (in particolare) e nt. 89. Per una posizione estremizzante, in ragione della quale la ‘grandezza’ di Quinto Mucio Sce-vola avrebbe costituito un espediente per legittimare, in realtà, quella della scienza giuridica romana, vd. K. TUORI, The myth of Quintus Mucius Scaevola: founding father of legal science?, pp. 243 e ss. Da ultimo si legga anche A. GUZMÁN BRITO, El carácter dialéctico del sistema de las ‘Institutiones’ de Gayo, pp. 440-441 (e nt. 62).

83 Sul chiasmo (definibile come ‘figura retorica di ripetizione’, dato dallo sche-ma ‘XY – YX’, poiché due elementi di discorso concettualmente paralleli sono di-sposti in ordine inverso, ovvero, consistente nella disposizione incrociata degli ele-menti costituivi di una frase, in modo che l’ordine logico delle parole risulti inverti-to) cfr., in special modo, M.P. ELLERO, Introduzione alla retorica, pp. 339 e ss.

Tale costruzione risulta essere nota (anche) alla scrittura serviano-alfeniana: cfr., infatti, le osservazioni di G. NEGRI, Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, p. 143, in ordine ad Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.4 [= Pal. Alf. 7]: « Cum pila complu-res luderent, quidam ex his servulum, cum pila percipere conaretur, impulit, servus cecidit et crus fregit: quaerebatur, an dominus servuli lege Aquilia cum eo, cuius impulsu ceciderat, agere potest. Respondi non posse, cum casu magis quam culpa videretur factum » — e ad Alf. II dig. ab anon. epit., D. 10.3.26 [= Pal. Alf. 8]: « Communis servus cum apud alterum esset, crus fregit in opere: quaerebatur, alter dominus quid cum eo, penes quem fuisset, ageret. Respondi, si quid culpa illius ma-gis quam casu res communis damni cepisset, per arbitrum communi dividundo posse reciperare ». Si tratta di un chiasmo indiretto, poiché la frase del primo frammento ‘casu magis quam culpa’ corrisponde a quella del secondo ‘culpa… magis quam casu’ (come rilevato, appunto, da Negri). In Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.3 [= Pal. Alf. 7: « Quidam boves vendidit ea lege, uti daret experiundos: postea dedit experiundos: emptoris servus in experiundo percussus ab altero bove cornu est: quaerebatur, num venditor emptori damnum praestare deberet. Respondi, si emptor boves emptos haberet, non debere praestare: sed si non haberet emptos, tum, si cul-pa hominis factum esset, ut a bove feriretur, non debere praestari, si vitio bovis, de-bere »], invece, il chiasmo — questa volta interno al passo, ed avente carattere di antimetabole (cfr. B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica 8, pp. 248-249) — si realizza tra ‘si <emptor boves> emptos haberet’ e ‘si non haberet emptos’. Si noti ancora, infine, l’esistenza della stessa figura retorica — a mio giudizio, qui raffina-tissima — che interseca la quaestio e il responsum in Alf. V dig. ab anon. epit., D. 35.1.27 [= Pal. Alf. 21].

84 Basti considerare, a modo di esempio particolarmente calzante, la seconda parte dell’esordio delle Confessiones, interamente giocata da Agostino (eccellente

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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conoscitore di Cicerone: vd. infra, in questa nota) sulla comparsa e sulla ripresa rit-miche dei verbi ‘intelligere’, ‘invocare’, ‘laudare’, ‘scire’, ‘nescire’, ‘credere’, ‘praedicare’, intessute intorno alla serie di domande che aprono ad ulteriori interro-gativi concatenati, per approdare, infine, alla certezza data dalla fede nella Incarna-zione del Figlio di Dio (vd. Aug. Hipp., Conf. 1.1.1 [in «PL.», XXXII, coll. 659-661]: « Magnus es, Domine, et laudabilis valde: magna virtus tua, et sapientiae tuae non est numerus. Et laudare te vult homo aliqua portio creaturae tuae; et homo cir-cumferens mortalitatem suam, circumferens testimonium peccati sui, et testimonium quia superbis resistis: et tamen laudare te vult homo, aliqua portio creaturae tuae. Tu excitas, ut laudare te delectet; quia fecisti nos ad te, et inquietum est cor nos-trum, donec requiescat in te. Da mihi, Domine, scire et intelligere utrum sit prius invocare te, an laudare te; et scire te prius sit, an invocare te. Sed quis te invocat, nesciens te? Aliud enim pro alio potest invocare nesciens te. An potius invocaris, ut sciaris? Quomodo autem invocabunt in quem non crediderunt? aut quomodo cre-dent sine praedicante? Et laudabunt Dominum qui requirunt eum. Quaerentes enim invenient eum, et invenientes laudabunt eum. Quaeram te, Domine, invocans te; et invocem te, credens in te: praedicatus enim es nobis. Invocat te, Domine, fides mea quam dedisti mihi, quam inspirasti mihi per humanitatem Filii tui, per ministerium praedicatoris tui »).

Assai numerosi sono gli esempi rintracciabili all’interno della prosa agostinana: un altro, significativo per la rilevanza del tema trattato, è quello creato da Aug. Hipp., Conf. 5.9.16 [in « PL. », XXXII, col. 713]: « quam ergo fa lsa mihi videba-tur mors carnis eius, tam vera erat animae meae, et quam vera erat mors carnis eius, tam fa lsa vita animae meae, quae id non credebat », dove gli attributi ‘falsa’ e ‘vera’, si intersecano in forma di chiasmo (A1-B1-B2-A2), scandendo le parti corri-spondenti (A1-B1-A2-B2) costituite dalle particelle correlative ‘quam’ e ‘tam’ e, in parte (almeno) da ‘mors carnis’ e ‘animae meae’ (che, nell’ultima ricorrenza, sosti-tuisce ‘mors’ con ‘vita’, per raggiungere la sanzione finale retoricamente costruita e voluta [‘quae id non credebat’], e, stilisticamente, per creare una simmetria con il verbo ‘videre’ — alla forma ‘mihi videtur’ — utilizzato nella proposizione A1; come è stato efficacemente osservato, « il narratore (vera erat…) giudica l’Agostino di un tempo (falsa.. videbatur); gli altri termini sono espressi in antitesi con opposizione di registri »: cfr. P. CAMBRONNE – L.F. PIZZOLATO – M. SIMONETTI – P. SINISCALCO

[cur.] – P. CHIARINI [trad.], Sant’Agostino. Confessioni, II. Libri IV-VI, p. 220 nt. ad. 5.9 vv. 8-11). Per approfondimenti, si rinvia al lavoro ancora fondamentale di F. DI

CAPUA, Il ritmo prosaico in S. Agostino, pp. 607 e ss. Come già anticipato, attento lettore di Cicerone — vd., infatti, i numerosi, indi-

cativi parallelismi espressivi segnalati da F. WALTER, Zu Cicero und Augustinus, pp. 431-432 — e forse, come vuole M. REVELLI, Cicerone, Sant’Agostino, San Tomma-so, p. 77, « convertito alla filosofia nel 372, in seguito alla lettura d[el]l’Hortensius», ma non suo pedissequo imitatore, oltre che valentissimo retore, Agostino apre il

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proprio trattato sulla dialettica con la seguente definizione: « Dialectica est bene di-sputandi scientia » (cfr. Aug. Hipp., Principia dialect. 1 incip. [in « PL. », XXXII, col. 1409]). Sulla sostanziale indipendenza dell’Ipponate rispetto a Cicerone cfr., in particolare, M. MANZIN, Ordine politico e verità in sant’Agostino. Riflessioni sulla crisi della scienza moderna, pp. 130 ss., 152 e, soprattutto, 163-170 (con ampia bi-bliografia); si veda, inoltre, l’imponente lavoro di M. TESTARD, Saint Augustin et Cicéron, I. Cicéron dans la formation e dans l’oeuvre de saint Augustin; II. Réper-toire des textes; su particolari fili conduttori si vedano invece, ad esempio, L.F. PIZ-

ZOLATO, L’amicizia in Sant’Agostino e il ‘Laelius’ di Cicerone, pp. 203 ss., ma, so-prattutto, il ‘classico’ e poderoso studio di H.-I. MARROU, S. Agostino e la fine della cultura antica [trad. M. Càssola], pp. 36 ss. (et passim: con bibliografia). I legami culturali tra l’Arpinate ed Agostino (su cui vd. P. BROWN, Agostino d’Ippona, pp. 27 e ss., nonché anche l’interessante lavoro di T. BAIER, Cicero und Augustinus. Die Begründung ihres Staatsdenkens im jeweiligen Gottesbild, pp. 123 e ss.) hanno in-fluito anche sul lessico del secondo rispetto al primo: spia ne sia, ad esempio, se è esatta — come mi pare esserlo — la scelta filologica di E. MALCOVATI, Rileggendo il ‘Brutus’, pp. 160-161, laddove, in relazione a Cic., Brut. 58.213, la grande editrice italiana di fonti classiche proponeva di leggervi la presenza di ‘inluminata’ (lette-ralmente, « insitam atque inluminatam sapientiam », come già nell’edizione teubne-riana 1965 — con qualche oscillazione nell’edizione 1970 [« atque † inluminatam † sapientiam », indotta dall’autorevole parere contrario di E. BADIAN, Cicero. Scripta quae mansuerunt omina. Fasc. 4. Ed. E. Malcovati, p. 227: « In 213 insitam atque inluminatam sapientiam (L and Malcovati) is gibberish »], e, contestualmente, indi-viduava un parallelismo molto interessante in Aug. Hipp., Serm. de script. 34.3.5 [in « PL. », XXXVIII, col. 211], in cui, nella trattazione di Psal. 149.1-2 [LXX], com-pare la forma ‘illuminatissima’, quale « aggettivo, al superlativo, in senso traslato e mistico » (letteralmente, « in illuminatissima charitate »; per la citazione cfr. MAL-

COVATI, op. cit., p. 161). Allo stesso modo, si possono trarre utili elementi dal con-fronto tra Cic., De rep. 5.6.8 ed Aug. Hipp., De civ. Dei 5.13 [in « PL. », XLI, col. 158 = Cic., De rep. 5.7.9], relativamente al concetto di princeps (e vd., al riguardo, A. MICHEL, Cicerone e l’idea di rivoluzione, p. 200 nt. 32, ove il passo dell’Arpinate è indicato semplicemente come « 5.8 »; ma vd. anche Aug. Hipp., Epist. ad Nect. 104.7 [in « CSEL. », XXXIV, 587.24]). In ogni caso, com’è noto, l’intero De re pu-blica è disseminato di ricostruzioni ottenute attraverso l’uso di testimonianze e re-miniscenze agostiniane (cfr., per tutti, N. ZORZETTI, Nota critica al ‘De republica’, pp. 85 e ss.).

Il vescovo di Ippona, tuttavia, redasse una significativa pagina in cui si elogia la contrapposizione tra la grazia del Cristo, donata ai suoi discepoli nell’opera di evan-gelizzazione universale, e la sapienza dei dotti, ‘eruditi liberalis disciplinis, periti grammatica, armati dialectica ed inflati rhetorica’: cfr., infatti, Aug. Hipp., Fragm. serm. (ex serm. de Quinquagesima resurrectionis, Florus ad 1Cor. 1) [in « PL. »,

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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mihi in secunda arte [= ius civile] primis esse maluisse quam in pri-

ma [= eloquentia] secundus » 85, a riguardo della quale potrebbe es-

sere plausibile identificare nei segni ‘secunda ars’ e ‘prima ars’, ol-

tre la immediata disposizione ordinale, anche una implicita sistema-

zione gerarchica (che corrisponde, di fatto, alla espressione di un

giudizio di valore sulla attività dei due personaggi posti a confronto).

XXXIX, col. 1729]: « Ineruditos liberalibus disciplinis, et omnino quantum ad [isto-rum doctrinas attinet] saeculi doctrinas pertinet impolitos, non peritos grammatica, non armatos dialectica [add.: non rhetorica inflatos], piscatores Christus cum reti-bus fidei ad mare [add.: huius] saeculi paucissimos misit [add.: atque ita ex omni genere tam multos pisces, et tanto mirabiliores, quanto rariores etiam ipsos philo-sophos cepit] » (le parti in parentesi quadre corrispondono alle varianti ovvero alle aggiunte del brano come riportato in Aug. Hipp., De civ. Dei 22.5 [in « PL. », XLI, coll. 755-756]). Agostino subì certamente il fascino dell’Arpinate, soprattutto in or-dine al trattato filosofico Hortensius (ma l’opera agostiniana manifesta, nel com-plesso e com’è noto, ampie rievocazioni ciceroniane: si veda, in proposito, la lettera-tura ora menzionata in questa nota): cfr., e.g., Aug. Hipp., Conf. 4.7 [in « PL. », XXXII, coll. 685-686]; Contra acad. 1.1.4 e 3; Disp. 1.4.7 [in « PL. », XXXII, coll. 907-908 e 937-938]; De vita beata 1.4 [in « PL. », XXXII, col. 961]; Contra Iulian. 5.7.29 [in « PL. », XLIV, col. 803] e vd. anche Soliloq. 10.7 [in « PL. », XXXII, col. 878 nt. 1].

85 Così Cic., Brut. 41.151 (e cfr. anche ibid. 40.150 appena riportato supra, nel testo, sebbene parzialmente: « Servius eloquentiae tantum assumpsisse ut ius civile facile posset tueri »). Cfr. P. MELONI, Servio Sulpicio Rufo e i suoi tempi, p. 169 e nt. 1 e M.J. CASADO CANDELAS, Primae luces: una introducción al estudio del ori-gen de la jurisprudencia romana, p. 62 (il quale scorge in filigrana, ma forse troppo apertamente, l’asserzione ciceroniana secondo la quale « Servio podía ir a la par con los príncipes de la elocuencia »; osservazioni più solide in R.A. BAUMAN, Lawyers in Roman Transitional Politics. A study of the Roman jurists in their political setting in the Late Republic and Triumvirate, p. 19). Che, infatti, Servio fosse ‘secondo nell’eloquenza’ soltanto all’Arpinate — in ciò confermando la aderenza alla realtà delle notizie riferite da quest’ultimo — lo si trae espressamente da Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178], su cui, ora, si veda E. STOLFI, Studi sui « libri ad edictum » di Pomponio, I, Trasmissione e fonti, p. 275 nt. 25.

Si tratta, a ben vedere (e come ha acutamente notato A. CASTRO SÁENZ, Itinera-rios servianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pontifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), p. 511), del percorso inverso che l’Arpinate ha riservato a se stesso, e svelato in Cic., De leg. 1.4.13.

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2. Elementi critici intorno alla figura e all’attività di Servio desumi-

bili da Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178]

La chiusura di Cic., Brut. 41.151 86 — ove si fa riferimento

ad un possibile ruolo (intenzionalmente) ‘defilato’ 87 di Servio nel-

l’arte retorica — sembra richiamare, in qualche modo (e a maggior

ragione, se fosse vero che il giurista del secondo secolo d.C. cono-

sceva l’opera dell’Arpinate) 88, il tema d’esordio di

Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. 178]: « Servius autem

Sulpicius cum in causis orandis primum locum aut pro certo post

86 Alludo al passaggio: « videtur mihi in secunda arte primus esse maluisse

quam in prima secundus » (sottintendendo Servius). 87 Uso volutamente questa forma (sebbene non abbia una precisa rispondenza

nella lingua latina) poiché pare idonea ad identificare la volontà di schivare le (pri-me) fila dell’esercizio dell’ars indicata (il verbo, infatti, è di origine militare e allu-de, in primo luogo, al sottrarsi all’osservazione e, di conseguenza, al tiro del nemico: vd. s.v. ‘defilare’, in Vocabolario della lingua italiana, II [D-L], ISTITUTO DELLA

ENCICLOPEDIA ITALIANA, p. 48). scansare 88 Per la conoscenza positiva del Brutus ciceroniano da parte di Pomponio vd. V.

SCARANO USSANI, = ID., Tra ‘scientia’ e ‘ars’, p. 229 = ID., L’ars dei giuristi, pp. 42-43; ancora ID., Appunti di storia del diritto romano, II, p. 334; M. BRETONE, Pomponio lettore di Cicerone, p[p]. 180[-181] e nt. 12 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 281 e nt. 12; con minor sicurezza D. NÖRR, Cicero-Zitate bei den klassischen Juristen, pp. 141-142 = ID., Historiae iuris antiqui, II, pp. 1217-1218, e, sullo stato della dottrina, E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pompo-nio, I, pp. 288-289 nt. 49. Altrettanto recentemente, sui testi posti a confronto, ma senza affrontare la questione oggetto di queste annotazioni, vd. J.W. TELLEGEN – O.E. TELLEGEN-COUPERUS, Law and Rhetoric in the causa Curiana, pp. 187 e ss.; trovo conferma, invece, ora in A. CASTRO SÁENZ, Itinerarios servianos: Servio Sul-picio Rufo ante Quinto Mucio pontifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), p. 517 (e lo stesso Autore iberico già ipotizza-va, in ID., Cuatro cόnsules en la correspondencia ciceroniana: Pompeyo, Cicerόn, César y Servio en la hora de la guerra civil, p. 206 nt. 41, che addirittura « Pompo-nio en D. 1, 2, 2, 43 » ‘si nutrisse di Cic., Phil. 9.9’ « para su descripciόn del la muerte de Servio »).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Marcum Tullium 89 optineret, traditur ad consulendum Quintum Mu-

cium de re amici sui pervenisse cumque eum sibi respondisse de iure

Servius parum intellexisset, iterum Quintum interrogasse et a Quinto

Mucio 90 responsum esse nec tamen percepisse, et ita obiurgatum es-

se a Quinto Mucio: namque eum dixisse turpe esse patricio et nobili

et causas oranti ius in quo versaretur ignorare 91. Ea velut contume-

89 Circa l’espresso richiamo dell’Arpinate nelle fonti giuridiche romane (e, se-

gnatamente, in D. 1.2.2.43) cfr., in particolare, D. NÖRR, Cicero-Zitate bei den klas-sischen Juristen, pp. 115 e ss., 136 e ss. = ID., Historiae iuris antiqui, II, pp. 1191 e ss., 1212 e ss., nonché E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, pp. 287 e ss. (con ampia bibliografia), cui adde G. PUGLIESE, Intervento di chiusura, passim (p. 198, in particolare); G. FALCONE, La ‘vera philosophia’ dei ‘sacerdotes iuris’. Sulla raffigurazione ulpianea dei giiuristi (D. 1.1.1.1), pp. 49 e ss. e V. MAROTTA, Iustitia, vera philosophia e natura. Una nota sulle Institutiones di Ulpiano, pp. 569 e ss., 577 e ss. (con bibliografia).

90 Mi pare abbastanza accessoria la precisazione di R.A. BAUMAN, Lawyers in Roman Transitional Politics. A study of the Roman jurists in their political setting in the Late Republic and Triumvirate, p. 5 nt. 6, sul fatto che, nonostante « strictly speaking » non si dica in D. 1.2.2.43 se si tratta del pontefice o dell’omonimo augur, sia necessario optare per la prima ipotesi.

91 Si vedano, in parallelo, le eloquenti affermazioni di Cic., Pro Cluent. 52.144 (« nam ut haec ad me causa delata est, qui leges eas ad quas adhibemur et in quibus versamur [!] nosse deberem ») ― in cui l’Arpinate rivendica (di avere) il dovere della conoscenza delle leggi intorno alle quali viene consultato e nelle quali, dunque, deve essere ‘versato’. Ancora una volta Cicerone sorprende per l’abilità dialettica, poiché ottiene l’effetto di trasformare i propri doveri di patrocinatore delle causae (che, quindi, potrebbero essere oggetto di attribuzione di responsabilità da parte del-la difesa avversaria) in elementi di forza del proprio agire. Si ha, in altre parole, una sorta di trasformazione della ‘ragione pratica’ in ‘ragione pragmatica’ ― e vd. Cic., Brut. 48.178 (« Erat in privatis causis Q. Lucretius Vispillio et acutus et iuris peri-tus »), in cui risuonano elementi comuni alla discussione, e, non senza importanza, nella stessa opera da cui è tratto il giudizio lusinghiero su Servio (incidenter tantum, si osservi che si tratta di uno fra i giuristi segnalati da F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 109, ma omessi, per contro, da Huschke e da Lenel: cfr. esattamente, sul punto, W. KALB, Rec. a Bremer, op. cit., col. 200). Per quanto riguarda, poi, direttamente il testo pomponiano (D. 1.2.2.43), è appena il ca-so di notare l’uso coincidente del verbo versare, appunto, con pari contenuto. Si ve-da anche, utilmente, Cic., In Pis. 13.30 in fin. (nonché, per la nobilitas della gens Sulpicia — oltre a Tac., Ann. 3.48, che riporta la notizia di un console del 500 a.C.

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« SERVIUS RESPONDIT »

88

lia Servius tactus operam dedit iuri civili et plurimum eos, de quibus

locuti sumus [= auditores Q. Mucii], audiit, institutus a Balbo Luci-

lio, instructus autem maxime a Gallo Aquilio, qui fuit Cercinae: ita-

que libri complures eius extant Cercinae confecti 92. Hic cum in lega-

ad essa appartenente — anche Cic., Pro Mur. 7.16, nobilitas ripetutamente esaltata); non è contraddittorio il fatto che lo stesso Cicerone inserisca l’amico tra gli homines novi (a cui egli si vanta di appartenere: cfr. Cic., De leg. agr. 1.9.27; 2.1.3 e ss. e 2.36.100 nonché Cic., Catil. 1.11.28: cfr., sul punto, D. MANTOVANI, ‘Iuris scientia’ e ‘honores’. Contributo allo studio dei fattori sociali nella formazione giurispruden-ziale del diritto romano (III-I sec. a.C.), pp. 640-641): questo è dovuto al fatto che né il padre, né l’avo di Servio avevano rivestito magistrature curuli (e vd. G. BEL-

LARDI, Le orazioni di M. Tullio Cicerone, II, p. 824 nt. 3). 92 Intorno agli esiti che gli ammaestramenti di Lucilio Balbo e di Aquilio Gallo

produssero sul discepolo si veda la testimonianza, ancora una volta trasformata in vera e propria laudatio, di Cic., Brut. 42.154 : « Cumque discendi causa duobus pe-ritissimis operam dedisset [scl. Servius], L. Lucilio Balbo, C. Aquilio Gallo, Galli hominis acuti et exercitati promptam et paratam in agendo et in respondendo celeri-tatem subtilitate diligentiaque superavit; Baldi docti et eruditi hominis in utraque re consideratam tarditatem vicit expediendis conficiendisque rebus. Sic et habet quod uterque eorum habuit, et explevit quod utrique defuit ». Se, dunque, stando al rac-conto di Pomponio, Servio dovette essere letteralmente ‘svezzato’ in senso giuridi-co, per l’Arpinate, quest’ultimo, superò i suoi due valenti maestri nelle classiche at-tività sia dell’agere sia del repondere (sulla seconda vd. F. BONA, Rec. ad A. Schia-vone, Nascita della giurisprudenza, p. 574 nt. 51 = ID., Lectio sua, II, p. 713 nt. 51) — con la diligentia vinse la subtilitas unita alla celeritas di Aquilio Gallo, e, con la capacità di risolvere e chiudere i casi, la proficua lentezza che caratterizzava l’attività di Lucilio Balbo sugli stessi fronti: Balbo, peraltro, dotato pure di solido bagaglio filosofico (come dimostra il binomio ‘doctus et eruditus’, secondo la lettura condivisibile di F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, p. 74 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 120; cfr. ID., History of Roman Legal Science, p. 63) e letterario (cfr. BONA, Il coordinamento delle ‘res corporales’ - ‘res incorporales’ e ‘res mancipi’ - ‘res nec mancipi’ nella sistematica gaiana, p. 424 nt. 35 = ID., Lectio sua, II, p. 1103 nt. 35, nonché ID., Il ‘docere respondendo’ e ‘disce-re audiendo’ nella tarda repubblica, in ID., Lectio sua, II, p. 1141 e nt. 30; vd. anche Aul. Gell., N.A. 2.10.1 [che definisce il Nostro « vir bene litteratus »] e 7.12.1 [ove addirittura l’Autore antico si spinge a rappresentarlo — suppure in un contesto di critica perplessa — come « vir aetatis suae doctissimus », definizione che, a sua vol-ta, potrebbe essere stata influenzata dal giudizio ciceroniano: cfr. O. DILIBERTO, Ma-teriali per la palingenesi delle XII Tavole, I, p. 143 e ntt. 452-453]; vd. anche, am-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

89

tione perisset, statuam ei populus Romanus pro rostris posuit, et ho-

dieque exstat pro rostris Augusti. Huius volumina complura exstant:

reliquit autem prope centum et octaginta libros ».

Questo ampio, istruttivo e, per certi versi, curioso brano è

stato analizzato sotto diverse angolature — a partire da quelle rico-

struttive 93, per procedere con quelle ricognitive 94, per giungere a piamente, M. BRETONE, Cicerone e i giuristi del suo tempo in ID., Tecniche e ideo-logie dei giuristi romani 2, pp. 79 e ss.) — tanto da risultare, infine, provvisto delle stesse qualità dei maestri (che Cicerone sottintende, ovviamente, migliorate; sulla acquisizione della subtilitas, propria di Gallo, ad esempio, vd. anche Cic., Ad fam. 4.4.1, su cui si sofferma BONA, L’ideale retorico ciceroniano ed il ‘ius civile in ar-tem redigere’, p. 365 nt. 283 = ID., Lectio sua, II, p. 811 nt. 283) e dotato di altre di cui i primi erano, invece, sprovvisti. E questo a prescindere dal fatto che, in altra sede (Cic., Pro Caec. 27.77.78), l’Autore del Brutus loda, a sua volta, ampiamente Aquilio Gallo.

Sulle fonti analizzate si vedano P.H. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae 6, I, pp. 32 e ss.; F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae super-sunt, I, pp. 139-141; H. FUNAIOLI, Grammaticae romanae fragmenta, pp. 422 e ss.; R. SCHNEIDER, Quaestionum de Ser. Sulpicio Rufo spec. II, pp. 1 e ss.; O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, p. 483; P. KRÜGER, Geschichte der Quellen und Litte-ratur des Römischen Rechts, p. 61 e nt. 20; E. VERNAY, Servius et son École, pp. 18-19; H. PETERS, Rec. ad op. ult. cit., pp. 463 e ss.; C. ARNÒ, Scuola muciana e scuola serviana, p. 48; C. SAUNDERS, The Political Sympathies of Servius Sulpicius Rufus, pp. 110 e ss. (da cui se ne trae che « He is conservative by training and tempera-ment »: p. 112); F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano, p. 366 e nt. 286 = ID., Lec-tio sua, II, p. 812 e nt. 286; C.A. CANNATA, Lineamenti di storia della giurispruden-za romana, I, pp. 43-44 e ntt. 9-10; ID., Per una storia della scienze giuridica euro-pea, I, pp. 267, 269 e nt. 237. Stranamente, W. KUNKEL, Die Römischen Juristen, p. 21, considera soltanto Lucilio Balbo quale « Lehrer des Serv. Sulpicius Rufus ».

93 Si veda, per un’esauriente censimento delle varie posizioni (molte delle quali, secondo gli attuali criteri filologici, non più condivisibili, e, quindi, da relegare al rango di congetture), A. SCHULTING, Notae ad Digesta seu Pandectas [N. Smallen-burg, ed.], I, pp. 68 e ss.

94 Ai cui estremi si vedano, e.g., F. SCHULZ, Geschichte der römischen Re-chtswissenschaft, p. 108 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 168 (e ID., History of Roman Legal Science, p. 92) ed E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 331 nt. 72. Ulteriori indicazioni bibliografiche infra, in questo stesso paragrafo (cui adde, fin da adesso, O. BEHRENDS, Der Schlüssel zur Hermeneutik

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90

quelle di carattere contenutistico 95. Non mi pare, tuttavia, sia state

sottolineate 96, punto per punto 97, le implicazioni teoriche, l’implicita

des Corpus Iuris Civilis. Justinian als Vermittler zwischen skeptischem Humanismus und pantheistischem Naturrecht, p. 207 nt. 29).

Una interpretazione inesatta, sia delle fonti correlate, sia del loro destinatario, si trova, ora, a mio parere, in F.J. CASINOS MORAS, Jurisprudencia y sistema de fuentes en la experiencia jurídica romana y moderna, p. 1930 e ntt. 46-47 (l’Autore, infatti, a proposito degli « otros grandes representantes de la jurisprudencia romana [...] Ca-yo Aquilio Galo y Servio Sulpicio Rufo », richiamandoli in quest’ordine, afferma che « el segundo, al que atribuye Pomponio máxima autoridad pública » — e qui evoca, in op. cit., nt. 46, D. 1.2.2.41 (che, però, in un passaggio notissimo agli stu-diosi, così recita: « Post hos Quintus Mucius Publii filius pontifex maximus ius civile primus constituit generatim in libros decem et octo redigendo »; il Casinos Moras voleva rifarsi, in realtà a D. 1.2.2.42 in cui, tuttavia, l’autore dell’enchiridion affer-ma che fu Servio ad attestare l’ascendente esercitato da Gallo Aquilio sul populus romanus, e non, al limite, il contrario: « [...] ex quibus Gal lum maximae auctorita-tis apud populum fu isse S ervius d ic i t » [la scelta grafica è mia]) — « procederá del mundo de la oratoria forense » — ove, per contro, in op. cit., nt. 47, è esatto il richiamo a D. 1.2.2.43 — « y con él se consolida la autonomía de la ciencia jurídi-ca »).

95 Vd., tra i più recenti, soprattutto, L. AMIRANTE, Una storia giuridica di Roma. Dai re a Cesare, pp. 368-369; F. D’IPPOLITO, I giuristi e la città, pp. 15-16; M. BRE-

TONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, pp. 72 nt. 28 e 83 nt. 62 (in partico-lare); A. GUARINO, Mucio e Servio, passim; O. BEHRENDS, Institutionelles und prin-zipielles Denken im römischen Privatrecht, p. 45 = ID., Institut und Prinzip, I, p. 224; U. VINCENTI, ‘Res iudicatae’ e diritto giurisprudenziale romano, p. 581 nt. 46 = ID., L’universo dei giuristi, legislatori, giudici. Contro la mitologia giuridica, p. 22 nt. 46 (in tema di dissensio tra giuristi e sui rapporti tra « responso de iure e le causae orandae »); ancora R. DOMINGO, Ex Roma ius, pp. 34 e ss. e P. CANTARONE, Osservazioni sullo studio del diritto nella tarda repubblica romana, pp. 420 e ss.; G. BASSANELLI SOMMARIVA, Lezioni di storia del diritto romano 2, pp. 173 e ss.; J. PA-

RICIO, La vocación de Servio Sulpicio Rufo, pp. 552 e ss. = ID., De la justicia y el derecho. Escritos misceláneos romanísticos, pp. 96 e ss.; A. CASTRO, Crónica de un desencanto, pp. 221-222, nonché X. D’ORS, Servio Sulpicio Rufo (Servius Sulpicius Rufus) (ca. 106/105-43 a.C.), pp. 131-132 ed A. CENDERELLI – B. BISCOTTI, Produ-zione e scienza del diritto, pp. 198 e ss. (dalla parte II, a firma della Biscotti). Parti-colarmente critico — partendo dalle testimonianze sul diritto dei pontifices, ma proiettando il giudizio sull’intera opera — circa l’attendibilità di quello che viene definito come un « centone » in cui Pomponio avrebbe (addirittura) « accattato noti-zie [...] malamente combinate », F. CANCELLI, La giurisprudenza unica dei pontefici

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

91

e Gneo Flavio. Tra fantasie e favole romane e romanistiche, pp. 212 e ss. (p. 220, per la citazione), con bibliografia; T. MASIELLO, Corso di Storia del Diritto Romano, pp. 99-100; G. VALDITARA, Lo Stato nell’antica Roma, p. 159, e, da ultimo, E. STOLFI, Die Juristenausbildung in der römischen Republik und im Prinzipat, pp. 18 e ss.

Per i commenti ‘classici’ alla testimonianza pomponiana, vanno menzionati (ol-tre a I. CUIACIUS, Commentarius ad titulos digestorum (ad titulum De origine juris), coll. 311-312), R.J. POTHIER, Praefatio seu Prolegomena in Pandectas Justinianeas, in « Pandectae Justinianeae », I, p. XXII, di cui non ho trovato richiami nelle opere posteriori); ancora F. OSANN, Pomponii De origine iuris fragmentum, pp. 79-83; G. HUGO, Histoire du dorit romain, II, pp. 118-121; S.W. ZIMMERN, Geschichte des römischen Privatrechts bis Justinian, I.1, pp. 290 e ss.; H.E. DIRKENS, Über Cice-ro’s untergangene Schrift. De iure civili in artem redigendo, in ID., Hinterlassene Schriften zur Kritik und Auslegung der Quellen römischer Rechtsgeschichte und Al-terthumskunde, I, pp. 9 e ss.; J.E. KUNTZE, Cursus des römischen Rechts, p. 117; solo per accenno alle fonti F. WALTER, Geschichte des Römischen Rechts bis auf Justinian, p. 17 nt. 23 e A.F. RUDORFF, Römische Rechtsgeschichte, p. 163 e nt. 7; già ampiamente C. FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano, pp. 31-37 (pp. 35-36 e nt. 1, in particolare); O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, p. 483-485; J. ROBY, Introduzione allo studio del Digesto giustinianeo, p. 110; L. LANDUCCI, Storia del diritto romano 2, pp. 161 nt. 3, 183 e 183-184 nt. 1; S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’, pp. 3 e ss. = in « Labeo », VII, 1961, pp. 218 e ss. (a proposito di quest’opera è opportuno segnalare che l’illustre Rivista partenopea ripropose — stranamente — l’originale soltanto fino a p. 81, mentre questo si componeva di 128 pp.); C.G. BRUNS – O. LENEL, Geschichte und Quellen des römischen Rechts, pp. 344-345.

96 Del resto alcune tematiche connesse meriterebbero più approfondite conside-razioni. Ad esempio, una circostanza fino ad ora sfuggita alla dottrina riguarda il silenzio pressoché totale delle fonti bizantine sull’enchiridion pomponiano. I libri Basilicorum, infatti, hanno omesso qualsiasi trattazione di D. 1.2.2 [= Pal. Pomp. 178], poiché si limitano, in sede di analisi « Perˆ dikaiosÚnhj kaˆ nÒmou kaˆ

makr©j sunhqe…aj » (così Bas. 2.1 rubr.; e cfr. anche, assai sinteticamente, Tip. 2.1) a considerare unicamente il titolo di D. 1.1 e — soltanto per quanto corcerne la longa consuetudo — quello di D. 1.3.

A quanto mi consti sia stato fino ad ora pubblicato, soltanto A. SCHMINCK, Das prooimion der sog. „Epitome (legum)“, in ID., Studien zu mittelbyzanistischen Re-chtsbüchern, pp. 112-116, presenta una fonte bizantina che si rifà al trattato di Pom-ponio. Il lavoro dell’Autore ora menzionato ricalca, in effetti, quanto già indicato in P. KRÜGER – TH. MOMMSEN, Corpus iuris civilis, I. Digesta, p. 30 nt. 1 (ossia: « Graecae versionis particulas quasdam servavit Epitome legum » — cfr., infatti, Leges imperatorum Isaurorum et Macedonum, pp. 278-279 [K.E. Zachariä von Lin-

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ironia (talora al limite del sarcasmo), lo scopo per cui il testo è stato

redatto e a cui pare essere improntata l’intera costruzione del para-

grafo 98.

Al di là, infatti, di un moderato giudizio espresso in dottrina

circa la tendenza all’oscuramento del profilo di Servio ad opera di

genthal, Epanagoge legis Basilii et Leonis et Alexandris]). Non mi pare, tuttavia, corretto il richiamo che viene fatto dallo Schminck (anche) a D. 1.2.2.43 in op. cit., p. 116 ad lin. 51: vd., infatti, TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, I, p. 9 ad h.l., che, in proposito, non segnala — a margine — alcun parallelo. Del resto, non può essere invocato a favore di tale soluzione il rimando che la fonte greca opera a « Serb…oj », poiché si tratta di Serb…oj Kornel…oj, accostato dalla fonte citata al-l’autore della raccolta giulianea (« kaˆ met¦ taàta 'AdrianÕj Ð basileÝj ™pitrš-

pei `Ioulianù tù nomikù met¦ Serb…ou Kornel…ou sullšxasqai ™pimelîj kaˆ

kat¦ t£xin Øpotitlîsai t¦ nomik£ »). Più recentemente, lo stesso autore (cfr. SCHMINCK, Ein rechtshistorischer „Trak-

tat“ im Cod. Mosq. gr. 445, pp. 82, 89 e nt. 11), rileva, quali fonti di parti di tale ‘trattato’ del XIV secolo (ivi, p. 81), D. 1.2.2 pr.-5; 8; 10; 12; 14-15 e 49: com’è no-to, però, soltanto i paragrafi 12 e 49 di D. 1.2.2 trattano di argomenti attinenti la giu-risprudenza — il primo, in ordine al ius civile, quod sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit; il secondo, in merito all’introduzione augustea del cosid-detto ius respondendi ex auctoritate principis — ma la cui consistenza è fortemente ridotta nell’opera èdita [f. 41r, linn. 25-27: « Kaˆ ½rxanto ™pˆ AÙgoÚstou Ka…sa-

roj nomoqete‹n kaˆ oƒ dÁmoi, Ó te cuda‹oj kaˆ Ð ™p…lektoj, kaˆ oƒ straathgoˆ

kaˆ oƒ sofoˆ kaˆ oƒ pra…twrej: kaˆ Óstij ¨n epe cr»simon, ™dokim£zeto par¦

p£ntwn kaˆ prokrinÒmenon exe t£xin nÒmou »]. 97 Se si vuole, fa eccezione — almeno in parte — soltanto l’ampio, recente (e già

richiamato) lavoro di A. CASTRO SÁENZ, Itinerarios servianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pontifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), pp. 509 ss.

98 Intuìta, però, in parte da E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 267 nt. 9 e 316 nt. 38, il quale parla, a questo riguardo, di « aneddoto non proprio lusinghiero riferito in D.1.2.2.43 », segno, assai probabile, del « mancato riconosci-mento » (da parte dell’autore dell’enchiridion) « all’opera di Servio — unico fra i grandi protagonisti dell’ultima giurisprudenza repubblicana — di una portata in qualche modo innovativa » (così ancora STOLFI, op. et loc. ult. cit.); si veda anche J. PARICIO, La vocación de Servio Sulpicio Rufo, p. 552 ss. = ID., De la justicia y el derecho, pp. 96 e ss. e, ancora, cautamente, ID., Valor de las opiniones jurispruden-ciales en la Roma clásica, p. 118 nt. 11 = ID., De la justicia y el derecho, p. 194 nt. 11. Vd. anche infra, ntt. 100, 170 e 178.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Pomponio 99, in effetti, a ben vedere, la mancata comprensione del

responso muciano da parte del maestro di Alfeno potrebbe rappre-

sentare qualcosa di più di un semplice ‘aneddoto’ 100. Nell’economia

del XLIII paragrafo di D. 1.2.2, infatti, l’episodio costituisce il bari-

centro della trattazione, ai cui estremi insistono, da un lato, l’indica-

zione della abilità dialettica di Servio nel perorare le cause (ma Pom-

ponio si affretta a rettificare — come ho già notato — che era secon-

99 Cfr. A. SCHIAVONE, Forme normative e generi letterari, p. 65, ma vd. già V.

SCARANO USSANI, Tra ‘scientia’ e ‘ars’. Il sapere giuridico romano dalla sapienza alla scienza, nei giudizi di Cicerone e di Pomponio, p. 228 e ss. = in « Per la storia del pensiero giuridico romano dall’età dei pontefici alla scuola di Servio », p. 253 e ss. = ID., L’ars dei giuristi. Considerazioni sullo statuto epistemologico della giuri-sprudenza romana, p. 1 e ss. I giudizi moderni fanno giustizia delle aspre censure di F. HOTMAN, Antitribonianus, 12, secondo cui « hanc legem [scl. D. 1.2.2, ossia l’intero liber singularis] nihil niſi fabulas & deliria Triboniani, et ſub falſo nomine ſuppoſitam » (sott.: continet); vd., inoltre, ampiamente, F. BAUDOUIN, Jurisprudentia Romana & Attica, I, p. 438.

100 Cfr. supra, nt. 98 ed A. WATSON, Law Making in the Later Roman Republic, p. 104 (« Pomponius recounts an anecdote that Servius (while still an orator) did not understand a responsum gived him by Quintus Mucius »), nonostante una certa ten-denza all’aneddotica da parte di Pomponio sia stata giustamente rimarcata da M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 220 e nt. 28 (con indicazione di fonti: Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.36; 43 e 46 [= Pal. Pomp. 178], nonché Pomp., IV ad Q.M., D. 34.2.33 [= Pal. Pomp. 238] e Pomp. XII ep., D. 40.5.20 [= Pal. Pomp. 190]). Né va dimenticata l’opinione di B. ALBANESE, Appunti su D. 1.2.2.48-50, e sulla storia del ‘ius respondendi’, p. 7: secondo l’autorevole romanista palermitano, infatti, D. 1.2.2 sarebbe stato « un sommario elaborato, realizzato da un autore non molto esperto, forse un allievo », condotto, tuttavia, « sulla solida e importante base di una trattazione di Pomponio » (e vd. già ID., D. 1,2,2,12 ed il problema della sua attribuzione, pp. 3 e ss. [pp. 26-27, in particolare, per conclusioni assai simili, in cui si parla di « un volenteroso, ma ancor rudis, uditore delle lezioni di Sesto Pompo-nio »]) = ID., Scritti giuridici, II, pp. 1457 e ss. e 1478-1479. Per contro, da ultimo, A. CASTRO SÁENZ, Compendio histórico de derecho romano, p. 218 (e nt. 2128) ri-tiene, invece, che il paragrafo pomponiano « vino a configerarse como uno de los lu-gares comunes más sólidos de la historiografía sobre la jurisprudencia », ovviamen-te, romana. Vd. anche supra, nt. 98, e infra, ntt. 170 e 178.

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da, in realtà, a quella ciceroniana 101: « … cum in causis orandis pri-

mum locum aut pro certo post Marcum Tullium optineret ») 102 e,

dall’altro lato, quella del patrimonio scientifico, lasciato ai posteri, di

circa centottanta libri 103.

In questi termini immediati, l’eredità scientifica di Servio

parrebbe essere, di per sé, grandiosa, come in effetti fu 104 (sebbene

101 Deve, pertanto, essere nettamente rettificato il giudizio dell’Autore del Com-pendio storico e cronologico del diritto romano [ed. Milano, 1856: al cui riguardo vd. supra, ‘Introduzione’, nt. 3], p. 88, il quale concludeva che « quantunque non si possa forse dire che Pomponio gli [= a Servio] abbia dato un luogo distinto nel suo catalogo, egli con tutto ciò lo nominò in maniera di lasciare poco da dubitare dell’alta opinione che aveva concepito per la di lui abilità nel diritto », cui segue, senza soluzione di continuità, la sezione d’apertura di D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178] (« Servius cum in causis orandis – optineret »).

102 Cfr. D. 1.2.2.46, intorno cui si veda V. SCARANO USSANI, Tra ‘scientia’ e ‘ars’, p. 225 e nt. 74 = in « Per la storia del pensiero giuridico romano », p. 254 e nt. 74 = ID., L’ars dei giuristi, pp. 43-44 e nt. 74. Il fatto che la lode di Pomponio, sul punto, sia in realtà solo apparente (per le ragioni che si stanno esponendo) pare esse-re sfuggita, da ultimo, alla lettura di J. PARICIO, La vocación de Servio, p. 553 = ID., De la justicia y el derecho, p. 96, che parla semplicemente di una « afirmación algo exagerada » e che offre una diversa interpretazione dell’apertura di D. 1.2.2.43.

103 Sul punto vd., da ultimi, F. CUENA BOY, Sistema jurídico y derecho romano, p. 82 nt. 255 e F. DE MARINI – C. LANZA, Critica testuale e studio storico del dirit-to 3, p. 22. A proposito dei centottanta libri, appare assai bizzarra la deduzione, data invece per ‘muy probable’, da A. ORTEGA CARRILLO DE ALBORNOZ – F. CAMACHO

EVANGELISTA, Juristas romanos y practica jurisprudencial, p. 78 nt. 15, secondo i quali « Servio dejó al morir estas amplias collecciones de responsa, publicadas por sus discípulos y circulando bajo su nombre. Aún hoy es un sistema utilizado en las Facultades de Derecho ». Circa la differenza tra i diciotto libri iuris civilis muciani e quelli dieci volte più numerosi di Servio, nei termini di una maggiore latitudine di approfondimento della materia da parte dei secondi, vd. M. TALAMANCA, Dévélop-pements socio-économiques et jurisprudence romaine à la fin de la République, p. 788. Sul significato da attribuire al ricordo pomponiano della produzione letteraria dei giuristi si veda, da ultimo, E. STOLFI, ‘Plurima innovare instituit’. Spunti esege-tici intorno al confronto tra Labeone e Capitone in D. 1.2.2.47 (Pomp. lib. sing. ench.), pp. 61 e ss.

104 Vd., infatti, quanto osservato da L. LANTELLA, Le opere della giurisprudenza romana nella storiografia (Appunti per un seminario di Storia del diritto romano), pp. 51-52.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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lo stesso numero di centottanta libri finisca, in qualche misura, per

trascolorare, nella scrittura pomponiana 105, di fronte ai ‘quadringen-

ta volumina’ 106 consegnati da Labeone, e ricordati ancora, poco ol-

tre, nel § 47 di D. 1.2.2) 107.

105 In questi termini andrebbe, dunque, leggermente corretta l’affermazione di P. KRÜGER, Geschichte der Quellen und Literatur des römischen Rechts 2, p. 67, se-condo cui « Pomponius rühmt seine [= Servius] Fruchtbarkeit als Schriftsteller; er habe 180 Bücher hinterlassen, von denen zu Pomponius Zeit noch mehrere vorhan-den waren »: che Servio sia stato uno ‘scrittore fecondo’ è vero — oggettivamente — ma Pomponio pare usare lo strumento della falsa lode (ovvero della critica dissi-mulata: soprattutto dove si rifletta sulla circostanza per cui, laddove la produzione di Servio fu esigua — come nel caso dei due libri ad Brutum — Pomponio lo dichiara espressamente [alludendo, infatti, ad Ofilio, in D. 1.2.2.44 si afferma che: « de iuri-sdictione idem edictum praetoris primus diligenter composuit, nam ante eum Servius duos libros ad Brutum perquam brevissimos ad edictum subscriptos reliquit »]: sul punto vd. anche L. LOMBARDI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, p. 8).

106 Sulla effettiva consistenza, vd. C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, p. 305 nt. 349.

107 Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.47 [= Pal. Pomp. 178]: « Post hunc maximae aucto-ritatis fuerunt Ateius Capitus, qui Ofilium secutus est, et Antistius Labeo, qui omnes hos audivit, institutus est autem a Trebatio. Ex his Ateius consul fuit: Labeo noluit, cum offerretur ei ab Augusto consulatus, quo suffectus fieret, honorem suscipere, sed plurimum studiis operam dedit: et totum annum ita diviserat, ut Romae sex men-sibus cum studiosis esset, sex mensibus secederet et conscribendis libris operam da-ret. Itaque reliquit quadringenta volumina, ex quibus plurima inter manus versan-tur. Hi duo primum veluti diversas sectas fecerunt: nam Ateius Capito in his, quae ei tradita fuerant, perseverabat: Labeo ingenii qualitate et fiducia doctrinae, qui et ceteris operis sapientiae operam dederat, plurima innovare instituit ». È appena il caso di notare — al di là di una analisi particolareggiata del brano — il tono assolu-tamente diverso usato da Pomponio nel redigere il § 43 e il § 47 di D. 1.2.2. Sulla autorità di Capitone si veda, inoltre, il riscontro di Tac., Ann. 3.75.1 (che indica an-che le motivazioni ‘politiche’ della sua carriera: sul punto si veda S. RONCATI, Caio Ateio Capitone e i Coniectanea, pp. 284 e ss., nonché E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e in Gaio, p. 100 nt. 459 ed ID., ‘Plurima innovare instituit’. Spunti esegetici intorno al confronto tra Labeone e Capitone in D. 1.2.2.47 (Pomp. lib. sing. ench.), pp. 75 e ss.), nonostante — come, forse, oggi diremmo — il suo essere ‘political correct’ — ne abbia fatto obliterare, probabilmente, gran parte della produzione scientifica (v., infatti, O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, coll. 105-106, che raccoglie cinque soli frammenti e rinvia, a col. 105 nt. 1, ad altra poca pro-duzione censita da P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt,

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« SERVIUS RESPONDIT »

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In certo modo, tuttavia, tale giudizio sarebbe confermato dal

suggello del monumento edificato a Servio dai concittadini romani,

segno perenne della loro considerazione e della loro gratitudine po-

stuma per la sua attività di giurista e per la sua abnegazione di uomo

politico, condotta, quest’ultima, fino al sacrificio di sé 108.

Proviamo, però, a percorrere una strada di lettura (parzial-

mente) diversa, analizzando la struttura del resoconto di Pompo-

nio 109.

Egli dichiara che Servio è primo « in causis orandis ». Anzi,

a dire il vero, è il secondo, ma superato soltanto da Marco Tullio Ci-

cerone 110.

pp. 115-123 e L. STRZELECKI, C. Atei Capitonis Fragmenta, passim; sul ruolo politi-co di questo giurista si veda anche la pagina di A. BERGER – B. NICHOLAS, s.v. ‘Ca-pitone, Gaio Ateio’, p. 376).

108 La scomparsa di Servio avvenne, infatti, nel 43 a.C. (lo stesso anno di Cice-rone, che verrà assassinato il 7 dicembre), nei pressi di Modena, mentre questi rive-stiva la funzione di capo della ambasceria inviata dal Senato ad Antonio (e compo-sta, oltre che dal giureconsulto, anche dai consolari L. Pisonio Cesonino e L. Marcio Filippo: vd. Cic., Phil. 6.6.15-17; 13.9.20-21; 14.2.4 e Cic., Ad fam. 11.8.1). Fu lo stesso Arpinate ad incaricarsi di pronunciare l’orazione funebre di Servio. Essa è contenuta nella IX Philippica (cfr. Phil. 9.7.9 nonché 8.7.22; 9.1.3-7 e 17; 13.24.29; inoltre Cic., Ad fam. 10.28.3 e 12.5.3): sul punto vd. R.G.M. NISBET, The Speeches, p. 72, che ne loda la rispondenza a verità (e cfr. H. FRISCH, Ciceros Kamp for Repu-bliken. Den historiske Baggrund for Ciceros Filippiske Taler, pp. 216 e ss., nonché già G. DE CAQUERAY, Explication des passages de droit privé contenus dans les Œu-vres de Cicéron, pp. 376), nonché M. BRETONE, Cicerone e i giuristi del suo tempo, pp. 60-61 e nt. 50 = « Quaderni di storia », pp. 252 e 267 nt. 50 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 79 e nt. 50. Si vedano anche le interessanti osser-vazione di D. MANTOVANI, L’elogio dei giuristi romani nel proemio al III libro delle ‘Elegantiae’ di Lorenzo Valla. ‘Per quotidianam lectionem Digestorum semper in-columis et in honore fuit lingua romana’, pp. 166 e 167 e ntt. 50-51. Per la manuali-stica si veda, in particolare, A. CASTRO SÁENZ, Compendio histórico de derecho ro-mano. Historia, recepción y fuentes, p. 44. Vd. anche infra, nt. 168.

109 A proposito di tale testimonianza si è recentemente affermato che « Servio Sulpicio Rufo [è] anch’egli ricordato da Pomponio, con un velato giudizio sulle sue dottrine » (cfr. A. SCHIAVONE, La produzione del diritto. La ‘rivoluzione scientifica’, p. 181).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Subito dopo, a dimostrazione di quanto detto, Pomponio lega

il giudizio, apparentemente lusinghiero, alla continuazione del di-

scorso per mezzo di un tradunt, il quale non apre, però, ad una esem-

plificazione della bravura oratoria di Servio — così come sarebbe

legittimo attendersi, date le premesse — bensì alla narrazione della

sciagurata incapacità da lui dimostrata, davanti all’aulico Quinto

Mucio 111, di capirne un responso (chiesto « de re amici sui ») 112 tan-

110 Probabilmente a queste parole di Pomponio si riferisce, in modo implicito, A. CASTRO, Crónica de un desencanto: Cicerón y Servio Sulpicio Rufo, p. 220, quando ricorda che « la elocuencia celebradísima de aquél [= Servio] sólo cedía ante la in-superable categoría oratoria de éste [= Cicerón] ». Che, poi, sul punto, Pomponio affermasse qualcosa di vero, lo testimonierebbero anche le parole di Quintiliano (Quint., Inst. or. 12.10.10-12) con le quali egli, dopo aver contrapposto i vari e più illustri oratori, riconosce (peraltro doverosamente) all’Arpinate un ruolo di assoluta preminenza: « At M. Tullium non illum habemus Euphranorem circa pluris artium species praestantem, sed in omnibus, quae in quoque laudantur, eminentissi-mum… » (ivi, 12), et rell. (nel prosiego [ivi, 13-14] si ricordano le critiche mosse allo stile ciceroniano dopo la tragica morte del suo rappresentante, critiche che Quin-tiliano ribatte, suppure con una qual certa ‘prudenza’, che serve a rafforzare, tutta-via, la verità del giudizio, poiché — e qui sta la grandezza del retore — non appare smaccatamente laudativo e, specularmente, appare credibile nel suo contenuto posi-tivo).

111 Dotato — a parere di M. BRETONE, Giurisprudenza e oratoria nella tarda Repubblica, p. 64 — di una oratoria « asciutta, concisa, in una parola ‘atticistica’ ».

112 A parere di D. MANTOVANI, ‘Iuris scientia e honores’. Contributo allo studio dei fattori sociali nella formazione giurisprudenziale del diritto romano (III-I sec. a.C.), p. 663 nt. 97, « Servio si sta occupando della res di un amicus, secondo il tipi-co modello della politica ‘assistenzialista’ degli aristocratici ». Ora, il concetto è chiaro — e anche condivisibile, nonostante una certa modernizzazione — e, forse, è il caso di accennare al fatto che il termine ‘amicus’ compare, qui (oltre che in Pomp. XXXII ad Sab., D. 41.2.33 [= Pal. Pomp. 758], sull’inductio in vacuam possessio-nem da parte del venditoris amicus, e, al plurale, in Pomp. XXXVII ad Q.M., D. 49.15.5 pr. e 1 [= Pal. Pomp. 319]) per la terza e ultima volta nel linguaggio — almeno come a noi pervenuto — del giurista (vd. « VIR. », I, coll. 413-415 ad h.v., e col. 414 linn. 16 e 28, in particolare), a cui si può accostare, in virtù di alcune coin-cidenze espressive, soltanto Gai II aur., D. 44.7.1.5 [= Pal. Gai. 498] (coincidenze forse enfatizzate da « VIR. », I, col. 414 lin. 28, poiché il passo delle res cottidianae allude a colui che « neglegenti amico rem custodiendam committit », per cui — nel caso di perimento della res — « de se queri debet »). In Pomp. XXXVII ad Q.M.,

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« SERVIUS RESPONDIT »

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to che, come ha scritto il Guarino, « il vecchio e irascibile Mucio

[…] prende a male parole Servio (lo obiurgat) » 113.

L’incidente — se così possiamo definirlo — è sagacemente

sottolineato e ribadito dall’autore dell’enchiridion: Servio, infatti,

non capisce — o, meglio, riesce appena ad andare al di là della soglia

del discorso, a penetrare il senso della risposta (« parum intellexis-

se ») 114 — e si trova, quindi, suo malgrado, costretto a chiedere al

giurista di ripetere il responsum (« iterum Quintum interrogasse »).

D. 49.15.5 pr. e 1 [= Pal. Pomp. 319], in particolare, il termine compare, accanto ad ‘amicitia’, a proposito del ius postliminii in tempo di guerra (in bello) e di pace (in pace) — dove, in entrambi i casi, si allude all’istituto di diritto internazionale (D. eod. pr.), e parimenti per amicitia (che, qui, è seguita da hospitium e da foedus amicitiae: D. eod. § 1). Si può, dunque, ipotizzare, pur con tutte le cautele del caso, che Pomponio avesse inteso alludere ad un rapporto (giuridicamente) più intenso rispetto al semplice legame amicale da cui sarebbe discesa l’operazione, per dirla con il Mantovani, ‘assistenzialist[ic]a’.

113 Cfr. A. GUARINO, Mucio e Servio, p. 19 (e vd. anche O. BEHRENDS, Der Kom-mentar in der römischen Rechtsliteratur, pp. 448-449). Si veda, da ultimo, E. STOL-

FI, ‘Plurima innovare instituit’. Spunti esegetici intorno al confronto tra Labeone e Capitone in D. 1.2.2.47 (Pomp. lib. sing. ench.), p. 66 nt. 36.

114 Sul significato etimologico di intellegere come ‘capacità di discernimento’ (ai fini della comprensione e, quindi, dell’intendere), si vedano A. VALDE – J.B. HO-

FMANN, Lateinisches etymologisches Wörterbuch 5, I, p. 352, s.v. ‘diligo’. Non va taciuto, peraltro, il significato tecnico-giuridico del medesimo verbo, alla forma ‘in-tellegi’ (intellegitur [= it is considered] e intellegendum est [= it is to be conside-red]), che mi pare sia stato ben sintetizzato da A. BERGER, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, p. 506: « refers to instances in which a legal or customary rule pre-scribed a definite estimation of certain doings or in which a jurist recomends a cer-tain interpretation of specific words or fact ». Tale descrizione pare, infatti, corri-spondere alle fonti giuridiche romane (si veda, e.g., Alf. V dig. ab anon. epit., D. 34.8.2 + D. 35.1.27 [= Pal. Alf. 21], di cui ci si occuperà estesamente nella parte III di questi ‘studi’).

Una disamina completa della comparsa del verbo segnalato nella giurisprudenza romana non può essere condotta in questa sede. A conferma di quanto detto può ri-sultare, tuttavia, di certo interesse l’uso che lo stesso Pomponio ne fece nella sua produzione (almeno per quanto ci è stato conservato). Nonostante ricorra solamente in questo paragrafo del liber singularis enchiridii, esso fa ampiamente parte del lin-guaggio pomponiano, comparendo praticamente in ogni sua opera di cui ci siano

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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giunti frammenti diretti, ad eccezione soltanto dei libri fideicommissorum. È, infatti, ignoto al lessico dei libri ad edictum, per quanto il fenomeno possa apparire quan-tomeno singolare, sebbene in dottrina sia già stata osservata l’assenza di verbi assai significativi in tale opera (ossia definire e, ancor più significativamente, respondere: ma non si può ragionevolmente escludere ciò sia dovuto al fatto che i libri ad edic-tum costituiscono l’unico lavoro di Pomponio trasmesso soltanto attraverso la me-diazione di giuristi posteriori: e cfr. E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pom-ponio, I, pp. 79 e ss.). Diversamente, per quanto concerne le citazioni da parte di altri giureconsulti, il verbo tornerebbe — vuoi perché direttamente inserito nel con-testo del pensiero pomponiano — in Ulp. XVII ad Sab., D. 7.2.8 [= Pal. Ulp. 2570, ma cfr. la diversa formulazione di Fragm. Vat. 88], che O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 97, propone di restituire a Pomp. V ad Sab. [= Pal. Pomp. 461] e in Paul. XVII ad Plaut., D. 45.1.91.5 [= Pal. Paul. 1239], ossia Pomp. III ex Plaut. [= Pal. Pomp. 337] — vuoi, invece, quale eco della citazione — in Paul. VI ad Sab., D. 10.3.19.2 [= Pal. Paul. 1741], ancora secondo LENEL, op. cit., coll. 116-117, co-me Pomp. XIII ad Sab. [= Pal. Pomp. 590] e, assai indirettamente (sembrerebbe più il frutto della riflessione del giurista relatore), in Paul. V ad Sab., D. 40.7.4.5 [= Pal. Paul. 1697], che O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 106, propone di inserire in Pomp. VIII ad Sab. [= Pal. Pomp. 523]. Le ipotesi di restituzione ai libri pompo-niani suggerite dall’illustre editore tedesco mi paiono ragionevoli, sebbene vada os-servato e ribadito, con lo stesso, che tali frammenti appartengono alla massa di quel-li che provengono « ex incertis libris, quorum nec numerus indicatur » (cfr., infatti, LENEL, op. cit., coll. 156-160).

Per quanto concerne, invece, i passi diretti del giurista, ove il verbo selezionato sta ad indicare — pur nella ricchezza delle diverse sfumature — cosa si debba ‘in-tendere’ in ordine ad una certa situazione di fatto, ad un termine preciso, ad un con-cetto particolare, ad una determinata regola, cfr. Pomp. II ench., D. 26.1.13 pr. [= Pal. Pomp. 175]; Pomp. XI epist. [ex var. lect.], D. 40.4.61 pr. [= Pal. Pomp. 200]; Pomp. XVIII epist. [ex var. lect.], D. 12.2.42 pr. [= Pal. Pomp. 208]; Pomp. III ad Q.M., D. 31.43.2 [= Pal. Pomp. 228]; Pomp. IV ad Q.M., D. 7.4.31 [= Pal. Pomp. 233]; Pomp. IV ad Q.M., D. 15.1.49.1-2 [= Pal. Pomp. 234]; Pomp. IV ad Q.M., D. 39.5.26 [= Pal. Pomp. 234]; Pomp. V ad Q.M., D. 36.2.22 pr. [= Pal. Pomp. 246]; Pomp. VIII ad Q.M., D. 29.2.77 [= Pal. Pomp. 256]; Pomp. VIII ad Q.M., D. 50.17.203 [= Pal. Pomp. 260]; Pomp. XXIII ad Q.M., D. 41.2.25.1 [= Pal. Pomp. 286]; Pomp. XXXVII ad Q.M., D. 49.15.5 §§ 1 e 3 [= Pal. Pomp. 319]; Pomp. XXXVIII ad Q.M., D. 47.2.77.1 [= Pal. Pomp. 322]; Pomp. III ex Plaut., D. 17.1.47 pr. [= Pal. Pomp. 334]; Pomp. l.s. regul., D. 35.1.35 [= Pal. Pomp. 376]; Pomp. I ad Sab., D. 22.5.10 [= Pal. Pomp. 379]; Pomp. I ad Sab., D. 28.2.10 [= Pal. Pomp. 388]; Pomp. II ad Sab., D. 50.16.162 pr. [= Pal. Pomp. 400]; Pomp. III ad Sab., D. 40.4.5 [= Pal. Pomp. 426]; Pomp. V ad Sab., D. 30.20 [= Pal. Pomp. 441]; Pomp. V ad Sab., D. 50.16.165 [= Pal. Pomp. 451]; Pomp. VI ad Sab., D. 33.7.15.1 [= Pal.

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La scena si sposta sul respondente, il quale mantiene un con-

tegno impassibile, confacente al proprio ruolo 115 (« … et a Quinto

Mucio responsum esse »), tanto da non sottrarsi alla richiesta — pe-

raltro incosueta — di riproporre il responso 116, pur caratterizzato da

oralità assertoria 117.

Pomp. 490]; Pomp. VI ad Sab., D. 50.16.166.1 [= Pal. Pomp. 493]; Pomp. VI ad Sab., D. 30.36.3 [= Pal. Pomp. 496]; Pomp. VII ad Sab., D. 32.54 [= Pal. Pomp. 513]; Pomp. IX ad Sab., D. 18.1.4 [= Pal. Pomp. 533]; Pomp. IX ad Sab., D. 18.2.15 pr. [= Pal. Pomp. 540]; Pomp. IX ad Sab., D. 18.1.8 pr.-1 [= Pal. Pomp. 543]; Pomp. IX ad Sab., D. 19.1.3 pr.-1 [= Pal. Pomp. 552]; Pomp. IX ad Sab., D. 19.1.6.1 [= Pal. Pomp. 554]; Pomp. XIV ad Sab., D. 23.3.6.1 [= Pal. Pomp. 595]; Pomp. XIV ad Sab., D. 30.56 [= Pal. Pomp. *606]; Pomp. XV ad Sab., D. 46.3.16 [= Pal. Pomp. 609]; Pomp. XVIII ad Sab., D. 13.7.3 [= Pal. Pomp. 652]; Pomp. XXI ad Sab., D. 46.3.19 [= Pal. Pomp. 686]; Pomp. XXII ad Sab., D. 12.1.5 [= Pal. Pomp. 701]; Pomp. XXIV ad Sab., D. 46.2.7 [= Pal. Pomp. 715]; Pomp. XXVII ad Sab., D. 12.1.3 [= Pal. Pomp. 731]; Pomp. XIX [XXIX, Lenel] ad Sab., D. 9.2.43 [= Pal. Pomp. 744]; Pomp. XXIX ad Sab., D. 43.26.15.1 [= Pal. Pomp. 748]; Pomp. XXXI ad Sab., D. 44.2.21 pr. [= Pal. Pomp. 755]; Pomp. XXXII ad Sab., D. 41.7.5.1 [= Pal. Pomp. 768]; Pomp. XXXIII ad Sab., D. 22.5.11 [= Pal. Pomp. 776]; Pomp. XXXIV ad Sab., D. 41.1.30.1 [= Pal. Pomp. 796]; Pomp. I sen. cons., D. 16.1.32.5 [= Pal. Pomp. 805]; Pomp. V sen. cons., D. 40.14.3 pr.-1 [= Pal. Pomp. 814] nonché, infine, Pomp. XIII ex var. lect., D. 20.2.7 pr. [= Pal. Pomp. 838].

115 Si vedano interessanti osservazioni sulla ‘casa del giurista’ in F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, pp. 75 e ss. (p. 77, in particolare).

116 Non si dimentichi che è ancora Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.6 [= Pal. Pomp. 178], a ricordarci, da un lato, l’investitura interpretativa ottenuta dai pontifices ad opera — forse — del re Numa: « [...] omnium tamen harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erat, ex quibus constituebatur, quis quoquo anno praeesset privatis. Et fere populus annis prope centum hac consuetudine usus est » (si veda anche Liv. 1.20.6. Sul punto cfr. C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, pp. 49-50 e 111-129; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, p. 174, e F. CANCELLI, La giurisprudenza unica dei pontefici e Gneo Flavio, pp. 212 e ss., 233 e ss.; ampia letteratura in F. WIEA-

CKER, Römische Rechtsgeschichte, I, pp. 313-314). Non v’è dubbio, stando alle fon-ti, che i loro responsa avessero forma apodittica (e, in particolare, sull’episodio nar-rato nel § 43, vd. M. BRETONE, Storia del diritto romano 8, pp. 168-169, ripreso da E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 267 nt. 9) e, per questo mo-tivo, come mi pare ragionevole supporre, non destinata alla eventuale ripetizione (cfr. i casi di responsa, non solo pontificali, ricordati da F. SCHULZ, Geschichte der

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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römischen Rechtswissenschaft, pp. 20-21 = ID., Storia della giurisprudenza romana, pp. 38-39 [e ID., History of Roman Legal Science, pp. 17-18]: cfr. Liv. 5.25.7; 8.23.14 (àuguri); 27.25.6 e ss.; 31.8.3 (feziali, in un singolare decretum non partico-larmente risolutivo); 31.9.8 (su cui vd., per la causa trattata dai pontifices, da ultimo, L. FRANCHINI, A proposito del ‘votum ex incerta pecunia’ del 200 a.C., passim, e pp. 169 e ss., in particolare); 34.44.2 (per semplice rinvio); Dio Cass. 48.44 [e cfr. Tac., ann. 1.10.5, sebbene, ivi, si ricordino, sotto Nerone, ‘consulti per ludibrium pontifi-ces’ ]; Cic., De domo 53.136 (su cui F. BONA, Sulla fonte di Cicero, ‘De oratore’, 1, 56, 239-240, p. 463 = ID., Cicerone tra diritto e oratoria, p. 43 = ID., Lectio sua, II, p. 659, ed ID., La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, pp. 117 e ss. = ID., Lectio sua, II, pp. 934 e ss.; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, pp. 153 e 172, in particolare, e vd. anche J.G. WOLF, ‘Comitia, quae pro con-legio pontifium habentur’. Zum Amtsautorität der Pontifices, p. 7) e Ad Att. 4.2.3 (omesso dagli autori citati ma valorizzato da BONA, op. et loc. ult. cit., e vd. anche ID., Cicerone e i ‘libri iuris civilis’ di Q.M. Scevola, p. 248 e nt. 118 = ID., Lectio sua, II, p. 876 e nt. 118); « CIL. » X, 8259 = « ILS. » 8381 = C.G. BRUNS – O. GRA-

DENWITZ, Fontes iuris Romani antiqui 7, p. 249 nt. 76). D’altro lato, data la solennità della funzione rivestita dal respondente, è da escludere che i pontefici potessero es-sere — di norma e liberamente — reinterrogati (sulle caratteristiche dall’interpretazione pontificale rinvio ai molti dati offerti da F. BONA, ‘Ius pontifi-cium’ e ‘ius civile’ nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana, pp. 209 e ss. = ID., Lectio sua, II, pp. 965 e ss.; vd., ora, anche U. VINCENTI, Lezioni di metodologia del-la scienza giuridica, pp. 17 e ss.).

Nella serrata prosa di Pomponio (e, soprattutto, nella dimensione retorica di D. 1.2.2.43), la seconda richiesta di Servio potrebbe sfiorare, dunque, il comporta-mento latamente sacrilego. È vero, infatti, che Servio si rivolge al giurista in quanto tale (e non in quanto sacerdos ), ma la coincidenza soggettiva sussiste, come non è escluso neppure laddove si accolga integralmente il giudizio di M. BRETONE, Storia del diritto romano 8, p. 168, secondo cui « Quinto Mucio era un giurista ormai lon-tano dalla tradizione pontificale, ma [che] in qualche modo la continuava ». Che Mucio fosse pontefice massimo all’epoca dell’incontro con Servio pare incontestabi-le: per le ragioni che sono state addotte supra, nel testo, l’episodio si sarebbe verifi-cato intorno all’anno 85 a.C.; Quinto Mucio Scevola ricoprì la carica di pontefice massimo dall’89 a.C. fino al momento della morte (l’82 a.C.: vd. anche infra, nt. 156): vd. Cic., De leg. 2.19.47; De nat. deor. 3.32.80; De off. 3.17.70; Top. 29; Var-ro, De ling. lat. 5.15.83; Vell. Pat. 2.26.2; Flor., Hist. rom. 2.10.21; in letteratura si vedano C. BARDT, Die Priester der vier grossen Collegien aus römisch-republikani-scher Zeit, p. 57; B. KÜBLER, s.v. ‘Q. Mucius Scaevola’, pp. 437 e ss.; T. ROBERT –

S. BROUGHTON – M. PATTERSON, The Magistrates of the Roman Republic, I, p. 532; IID., op. cit., II, pp. 37 e 73; G.J. SZEMLER, The Priest of the Roman Republic, p. 124 [nr. 35] e D. MANTOVANI, ‘Iuris scientia e honores’. Contributo allo studio dei fat-

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La luce della scena torna, allora, su Servio che — horresco

referens — nonostante la replica del giurista, ancora non è in grado

di capire (« nec tamen percepisse »). Se, anzi, osserviamo l’anda-

mento retorico della narrazione, al momento della prima risposta, e-

gli ‘poco riesce a intendere’ (« parum intellexisset »: e, come si è vi-

sto, Pomponio usa in questo luogo, per l’unica volta nell’enchiridion,

il verbo specifico intellegere, quasi come a ribadire l’inettitudine

‘tecnica’ di Servio) 118 e, dopo la ripetizione del responsum, il Nostro

non riesce addirittura ‘a far proprie’ le parole del giureconsulto (‘nec

percepisse’ ) e, quindi, ad assimilare il nucleo giuridico del respon-

so 119.

tori sociali nella formazione giurisprudenziale del diritto romano (III-I sec. a.C.), p. 648.

117 Cfr. M. BRETONE, Diritto e tempo nella tradizione europea 4, p. 23 e nt. 62. 118 Per l’analisi di intellegere, v. supra, nt. 114. E, forse, non sarà un caso se —

in morte di Servio — Cicerone, dopo aver osservato che l’arte interpretativa del giu-rista fu ‘sovraumana’ (« paene divina scientia »), affermerà, con notevole impeto, che « omnes ex omni aetate qui in hac civitate intellegentiam iuris habuerunt, si u-num in locum conferantur, cum Serv. Sulpicio non sint comparandi » (Cic., Phil. 9.5.10 — le scelte grafiche sono mie).

119 Appare interessante l’uso del verbo percipere che Pomponio fa in questa se-de. Anzi, mentre nel resto della sua produzione scientifica pomponiana il verbo cen-sito si riferisce sempre alla attività fisico-giuridica di ‘far proprio’ qualcosa — in particolare i fructus naturali o civili (cfr. Pomp. XX epist. [ex var. lect.], D. 24.3.67 [= Pal. Pomp. 209]; Pomp. III ad Q.M., D. 35.1.1.3 [= Pal. Pomp. 229]; cfr. anche Pomp. VIII ad Q.M., D. 23.3.66 [= Pal. Pomp. 254]; Pomp. XXII ad Q.M., D. 22.1.45 [= Pal. Pomp. 283]; Pomp. IX ad Sab., D. 18.1.6.1 [= Pal. Pomp. 535]; Pomp. XXXIII ad Sab., D. 39.5.9.1 [= Pal. Pomp. 774]; ibid., D. 7.1.32 [= Pal. Pomp. 775]; e così pure, ad sensum, nelle citazioni di Pomponio operate da Ulp. XVIII ad Sab., D. 7.6.1.3 [= Pal. Ulp. 2594; Pal. Pomp. 465], in merito all’usufrutto, e, ancor più, da Ulp. XXXI ad Sab., D. 24.3.7.16 [= Pal. Ulp. 2755; Pal. Pomp. 596] o, indirettamente, da Paul. XXI ad ed., D. 6.1.33 [= Pal. Paul. 338; Pal. Pomp. 82]); così pure per la usura pecuniae (cfr. Pomp. VI ad Q.M., D. 50.16.121 [= Pal. Pomp. 250]) e similmente per quanto concerne i ‘meae partis pretia’ (cfr. Pomp. XIII ad Sab., D. 17.2.62 [= Pal. Pomp. 586]); e stesse osservazioni possono essere ripetute, poi, circa l’ipotesi della frode al dominus soli in pensione percipienda (cfr. Pomp. XXI ad Sab., D. 39.2.39.2 [= Pal. Pomp. 681]) e alla necessità di restituire le acces-

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La posizione di Servio, dunque, si aggrava, tanto che l’inter-

rogato perde il sussiegoso autocontrollo 120 e, divenuto sferzante, bol-

la l’insipienza del molesto (o meglio, in quest’ottica, modesto) inter-

locutore, e ciò non tanto per il fatto che questi ha ‘scarsamente capi-

to’ ed ha ‘per nulla compreso’ le sue parole (« parum intellexisset –

nec tamen percepisse »), ma, anzitutto, perché dimostra di non essere

in grado di intendere ciò che avrebbe dovuto essergli familiare per

casta e per pratica (« turpe esse 121 – ignorare ») 122.

sioni come il ‘partus et quod ex operis vicarii perceptum est’ (cfr. Pomp. XXII ad Sab., D. 18.1.31 [= Pal. Pomp. 694]) — nel liber singularis enchiridii i due paragrafi che impiegano il verbo in questione alludono ad un suo significato intellettuale.

Oltre a D. 1.2.2.43, infatti, esso compare precedentemente in D. 1.2.2.4 (« Po-stea ne diutius hoc fieret, placuit publica auctoritate decem constitui viros, per quos peterentur leges a Graecis civitatibus et civitas fundaretur legibus: quas in tabulas eboreas perscriptas pro rostris composuerunt, ut possint leges apertius percipi… », et rell.), ove ancora si allude al ‘far proprio’ nei termini della conoscenza. Per sem-plice annotazione del parallelo lessicale nella scuola serviana, si veda in Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.4 [= Pal. Alf. 7] il caso dei giocatori a palla ove « quidam ex his servulum, cum pilam percipere conaretur, impulit » (intorno cui v. supra, nt. 65).

120 Sulla base di Cic., Brut. 40.148 (riportato appena di séguito), M. BRETONE, Cicerone e i giuristi del suo tempo, p. 54 e nt. 28 = « Quaderni di storia », pp. 247 e 263 nt. 28, sostiene che « nonostante la sua proverbiale ‘severità’ il pontefice sapeva essere non meno ‘affabile’ ». Sulla ‘amabilità’ di Q. Mucio avrei, tuttavia, qualche riserva e proprio a partire dalla testimonianza ciceroniana: « Crassus erat elegan-tium parcissimus, Scaevola parcorum elegantissimus; Crassus in summa comitate habebat etiam severitatis satis, Scaevolae multa in severitate non deerat tamen co-mitas » (cfr. Brut., loc. cit.). A mio parere, nello sforzo di presentare (e comparare) le qualità precipue dei due soggetti, Cicerone impiega il consueto schema del chia-smo, attribuendo le qualità dell’uno (per Crasso la semplicità, pur elegante, dell’eloquio) all’altro (per Scevola l’eleganza, pur nella semplicità, del parlare); lo stesso si ripete per l’affabilità di Crasso (che pure ha un elemento di naturale severi-tà) e per l’austerità di Scevola, al quale, per coerente chiusura del chiasmo, ‘non può’ (intendo: per necessità stilistica) difettare la stessa virtù dell’affabilità. Ma il tutto ha il sapore della organizzata funzione ampiamente elogiativa, che dovette su-perare senz’altro l’oggettiva realtà delle cose.

121 Un interessante parallelo tra le affermazioni di Quinto Mucio — come ripor-tate in D. 1.2.2.43 — e il pensiero di Platone (cfr., infatti, Plato, Amat. 138d.1-4:

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Il Lantella così rende la rimostranza muciana: questi « disse

che era vergognoso per un patrizio, per un nobile 123, per uno che pe-

rora cause, ignorare quel diritto di cui pur si occupava 124 » 125. « pÒteron oân tù filosÒfJ, Ótan mn „atrÕj perˆ tîn kamnÒntwn ti lšgV,

a„scrÕn m»q' ›pesqai to‹j legomšnoij dÚnasqai m»te sumb£llesqai mhdn

perˆ tîn legomšnwn À prattomšnwn... », et rell.), è stato intravisto da SCIPIO GEN-

TILIS, Parergorum ad Pandectas libri duo, I, [cap. 19], col. 1292: « Idem vero, quod hic Q. Mucius de JCto & Oratore, Plato totidem fere verbis de Philosopho & Medico dixit: […] Quid itaque Philoſopho viro, quoties Medicus de aegrotantibus quicquam dixerit, turpe eſt non poſſe dicta illius aſſequi, aut huc aliquid afferre ». In realtà, però, il parallelismo non è tanto forte quanto indicato dal giurista — fratello del più noto Alberico — il quale affermava recisamente che « ratio utrobique par ». Egli, infatti, pare aver forzato, in qualche modo, il dato testuale, nel rendere il termine greco « a„scrÒj » univocamente con il latino « turpe »: vd., infatti, E.F. LEOPOLD, Lexicon graeco-latinum manuale, p. 24 ad h.v., che offre come corrispondenze an-che altri termini quali foedus, deformis, turpis e inhonestus), sebbene nella sostanza il pensiero presenti qualche innegabile affinità, in relazione al presupposto della i-gnoranza. Lo stesso Scipione Gentili (op. et loc. cit.), rileva, però, un ulteriore ele-mento interessante, ossia la ricomparsa della connotazione dell’essere (qualcosa) ‘turpis’ nel linguaggio riferito da Pomponio ancora a Quinto Mucio in lib. V ad Q.M., D. 24.1.51 [= Pal. Pomp. 245; Pal. Q.M. 19]: « […] evitandi autem turpis quaestus gratia circa uxorem hoc videtur Quintus Mucius probasse ».

122 G. LEPOINTE, Quintus Mucius Scævola, I, p. 38, afferma espressamente, con una definizione ‘moderna’, ma efficace, che « Servius […] était avocat » (e il pas-saggio era già stato sottolineato da G. DE CAQUERAY, Explication des passages de droit privé contenus dans les Œuvres de Cicéron, pp. 376-377). Si veda anche la lettura generalizzante che, di questo inciso di D. 1.2.2.43, ha fatto P. VOCI, Manuale di diritto romano. Parte generale, I 2, Milano, 1998, p. 116 (e nt. 5) e cfr. il parallelo contenuto in Cic., Orat. 34.120, che F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechts-wissenschaft, p. 51 nt. 1 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 85 nt. 5 [cfr. ID., History of Roman Legal Science, pp. 44 nt. 1 e 334 nt. E], ipotizza fosse stato udito dall’Arpinate dalle stesse labbra di Quinto Mucio. Si veda anche J. PARICIO, Los juristas y el poder político en la antigua Roma, p. 48 nt. 38 (e, per completezza, p. 84). Da ultimo, si rinviene un suggestivo richiamo a questa sezione del brano di Pomponio in A. LOVATO, La voce del giureconsulto, pp. 2983-2984, e, infine, A. CASTRO SÁENZ, Itinerarios servianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pon-tifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42. 154), p. 521.

123 Sul binomio ‘nobile e patrizio’ si veda anche F. CÀSSOLA, Lo scontro fra pa-trizi e plebei e la formazione della ‘nobilitas’, p. 474 (e ntt. 71-72), il quale osserva,

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inoltre, che « la famiglia di Murena era di rango pretorio da tre generazioni; Cicero-ne la definisce ‘antica e illustre’, sostiene che ambedue i rivali possono vantare la dignitas della propria stirpe [Pro L. Mur. 18], ma parla di nobilitas solo a proposito di Servio [Filipp. 3.15] ». Questo a dire che, nella visione dell’Arpinate, Servio in quanto « nobile e patrizio » (CÀSSOLA, op. et loc. cit.), mantiene una posizione di assoluta supremazia (così come posto in evidenza più sopra, nel corso di questo stes-so capitolo), anche rispetto ad altre stirpi o personalità, pur degne di somma conside-razione.

124 Addirittura A. TERRASSON, Histoire de la jurisprudence romaine, p. 231, sce-glieva di tradurre il brano in questi termini: « il étoit honteux à un Patricien d’ignorer la science du Droit, lui qui devroit l’enseigner aux autres ». La versione è palesemente libera (e, nella parte finale, si discosta in modo pesante dal testo latino, né gli è fedele nella sostanza); essa rende bene, tuttavia, la gravità della censura mu-ciana.

125 Così L. LANTELLA, in Il latino del diritto e la sua traduzione. Traduzione ita-liana dei Digesta di Giustiniano, in collaborazione con Istituto di Linguistica Com-putazionale del CNR, I, Digesta. Libro I, pp. 17-18 ad D. 1.2.2.43 (per la attribuzio-ne delle versioni vd. op. cit., p. I): la traduzione dello studioso è stata trasfusa in Iu-stiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Testo e traduzione, I. 1-4 [a cura di S. SCHI-

PANI], p. 90, e riprende, praticamente alla lettera, quella già offerta da LANTELLA, Metastoria, I. Prelettura teorica per un seminario sull’Enchiridion di Pomponio, p. 116 (l’unica variante è data dalla più esplicita dizione « per un avvocato », al posto di « per uno che perora cause »: la prima versione appare più efficace, poiché più immediata; la seconda, tuttavia, gode di una più stretta aderenza al significato pro-prio e, soprattutto, al concetto che Pomponio intendeva esprimere). Merita poi un chiarimento, per contro, il giudizio di F. CUENA BOY, Sistema jurídico y derecho ro-mano, p. 73 nt. 222, secondo il quale « la reprimenda de Q. Mucio al elocuentísimo Servio (in causis orandis primum) » [è dovuta] « por su desconocimiento del dere-cho: Pomp. D. 1.2.2.43 »: la ragione finale è esatta, ma le ‘reprimenda’ non può es-sere rivolta a Servio ‘già’ (a quel tempo) ‘eloquentissimo’ (ossia ‘in causis orandis primus’), poiché questo è un grado di abilità raggiunto solo in età più matura, e che Pomponio richiama sì, come si è visto, ma con la ‘premeditata’ intenzione di ero-derne il fondamento attraverso il racconto dell’incidente intercorso con il pontifex. Sul punto vd., bene, anche T. MASIELLO, Corso di Storia del Diritto Romano, p. 99, il quale, tuttavia, afferma che Servio, dopo aver mancato di comprendere la risposta di Q. Mucio, « torna alla carica per altre due volte » e, per questo, « alla fine viene aspramente rimproverato » (in realtà Servio pare chiedere soltanto una volta la repli-ca del responsum).

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Suona addirittura come feroce la conclusione « ius in quo

versaretur ignorare » 126, poiché il versare dovrebbe implicare un

cognoscere approfondito e non l’ignorare (rappresentando, in quanto

sinonimo equipollente di agnoscere, l’esatto contrario) 127: nel nostro

caso, la contrapposizione muciano-pomponiana equivale a qualifica-

re Servio come un semplice mestierante non dotato, però, di alcuna

cultura specifica 128.

126 Nonostante vi sia chi (come F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswis-

senschaft, p. 66 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 108, e ID., History of Roman Legal Science, p. 55), sulla base di Cic., Brut. 42.155, ha escluso che Servio frequentasse — se non saltuariamente — il tribunale (ma cfr. L. AMIRANTE, Una storia giuridica di Roma. Dai re a Cesare, p. 369, che opera una esatta distinzione tra Servio, per così dire, (già) ‘avvocato’ e Servio (successivamente) ‘giureconsulto’, identificando, quindi, la prima funzione con quella oratoria, anche alla luce del pa-rallelo rivenuto dall’Amirante in Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.46 [= Pal. Pomp. 178], a proposito del quale si afferma « che anche di Tuberone Pomponio […] ricorda che, patrizio, « transit a causis agendis ad ius civile », come a dire, da avvocato si fece giureconsulto »).

127 Cfr. A. WALDE – B. HOFMANN, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, II, pp. 176-177, ad v. ‘nosco’.

128 In questi termini — ma soltanto in questi termini — si può parlare, nel senso deteriore, di Servio come « avvocato », così come lo qualifica G. VALDITARA, Lo Stato nell’antica Roma, p. 159. A ragione T. MASIELLO, Corso di Storia del Diritto Romano, p. 99, osserva: « l’episodio narrato da Pomponio indica con chiarezza un problema, i confini tra diritto e oratoria » e che « il ‘rimprovero’ di Quinto Mucio sottende una concezione totalizzante, enciclopedica, dell’educazione intellettuale ». Le parole pronunciate dal pontifex contro Servio (« turpe esse patricio et nobili et causas oranti ius in quo versaretur ignorare »), del resto, paiono riecheggiare, nei contenuti, una convinzione che, si può presumere con gran margine di ragionevolez-za, Quinto Mucio traesse dall’insegnamento del padre Publio Mucio: si veda, infatti, la testimonianza di Cic., De leg. 2.19.47: « ‘Saepe, inquit Publii filius, ex patre au-divi pontificem bonum neminem esse, nisi qui ius civile cognosset’ »).

Questa fonte (la cui pertinenza circa D. 1.2.2.43 pare essere sfuggita agli autori che la hanno studiata, compresi, tra questi, F. SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts, p. 18 nt. 29 = ID., I principi del diritto romano, p. 22 nt. 28 [il quale vi acco-sta espressamente altri paragrafi dell’Enchiridion, ossia il § 35 e il § 38, ma non il § 43]; F. BONA, ‘Ius pontificum’ e ‘ius civile’, pp. 211 e ss., 242-243 = ID., Lectio sua, II, pp. 967 e ss., e 1005-1006 — che pure ne ha analizzato minutamente struttura,

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Si potrebbe osservare, a questo riguardo, la perfida contrap-

posizione lessicale adottata da Pomponio tra Servio che interroga il

pontefice « de re amici sui », che « de iure parum intellexisse » e che

è accusato di « ius in quo versaretur ignorare ». Ossia: chiede un pa- contenuto e rapporti intrinseci sia con il prosieguo del brano, sia con il pensiero ci-ceroniani — e così, da ultimo, anche ad A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, p. 151 (che pure parla, a tal proposito di « osservazione — quasi un ammonimento — [in cui] c’è tutta l’aria dei tempi », riprendendo le riflessioni pre-cedentemente svolte in ID., Giuristi e nobili, p. 18) potrebbe apportare un ulteriore tassello a favore della storicità (o, in ogni caso, della non completa creazione) del-l’episodio narrato in Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178] (vd., infatti, A. CASTRO SÁENZ, Itinerarios servianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pon-tifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), pp. 518-519 — e a ragione, contro le tesi di J. HARRIES, Cicero and the Ju-rists, p. 117 — e pp. 520 e 532).

Pomponio, infatti, pone sulla bocca di Quinto Mucio in termini negativi (ossia quale mancanza della conoscenza del ius civile, da parte del giovane Servio) quello stesso concetto che, Cicerone, invece, fa risalire al di lui padre Publio Mucio (quale sua convinzione tenace). Che si tratti, infatti, di uno di quegli aforsmi che (proba-bilmente) il Mucio più antico era solito ripetere, facendosene magari vanto, lo dimo-stra il contesto della menzione che opera il più giovane. In genere, infatti, ed è espe-rienza empirica comune, non si trasmette il ricordo di un detto paterno se non in quanto esso costituisca una ‘frase tipica’ (ergo, un convincimento più volte ribadito, o affermato almeno una volta in un contesto particolarmente solenne, o che deve essere apparso almeno significativo alla sensibilità filiale).

Intorno a Cic., De leg. 2.19.47 vd. F. SCHULZ, Geschichte des römischen Re-chtswissenschaft, p. 48 e ntt. 3-4 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 81 e ntt. 1-2 (e ID., History of Roman Legal Science, p. 41 ntt. 7-8 — e cfr. ID., Prinzipien des römischen Rechts, p. 18 = ID., I principi del diritto romano, p. 22). Ma sulla cri-tica che l’Arpinate instaura contro i Mucii, nella prosecuzione immediata del ‘De legibus’, vd. G. LA PIRA, La genesi del sistema nella giurisprudenza romana, 2. L’arte sistematrice, p. 340 ed ID., op. cit., 3. Il metodo, p. 347; F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano, pp. 286-287 = ID., Cicerone tra diritto e oratoria, pp. 66-67 = ID., Lectio sua, II, pp. 721-723; ID., Sulla fonte di Cicero, ‘De oratore’, I, 56, 239-240, pp. 459 e ss. = ID., Cicerone tra diritto e oratoria, pp. 39 e ss. = ID, Lectio sua, II, pp. 655 e ss.; ID., Cicerone e i ‘libri iuris civilis’ di Quinto Mucio Scevola, pp. 242 e ss., 267 e ss. = ID., Lectio sua, II, pp. 870 e ss., 897 e ss.; ancora, con riserve sulla ‘pacificità’ del dato, SCHIAVONE, Giuristi e nobili, pp. 197-198 nt. 54 (cfr., in-fatti, già ID., Nascita della giurisprudenza, pp. 84-85). Un cenno (seppure indiretto) si trova anche in F. D’IPPOLITO, I giuristi e la città, p. 46.

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rere relativamente ad ‘una questione’ riguardante un proprio intimo;

capisce ben poco della risposta ‘in diritto’ (come diremmo noi) e che

proprio in punto ‘diritto’ viene insultato da Mucio 129.

Ancora una osservazione.

L’ira manifestata — in quei precisi termini (« namque – i-

gnorare ») — dal pontifex non lascia spazio alla congettura circa

l’anteriorità dell’infelice episodio all’esercizio dell’attività di difen-

sore processuale da parte di Servio 130. Il tenore letterale delle parole

di Quinto Mucio si adegua, infatti, in un contesto generale, ad ‘ogni’

patricius et nobilis, ma nello specifico è certamente diretto all’ogget-

to della infastidita risposta 131 (si noti, infatti, il parallelismo lingui-

stico tra l’apertura di D. 1.2.2.43: « Sulpicius… in causis orandis », e

le parole del punto in discussione: « et causas oranti… ») 132. Del re-

129 Vd., in proposito, K. TUORI, The myth of Quintus Mucius Scaevola: founding

father of legal science?, pp. 250-251 e nt. 37, e ID., Ancient Roman Lawyers and Modern Legal Ideals, p. 34.

130 Di questo parere sembra essere A. GUARINO, Mucio e Servio, p. 10, il quale afferma che Servio « abbracciò [la professione del giurista] dopo aver inizialmente esercitato l’attività dell’orator, del difensore in cause giudiziarie », e, in questi ter-mini, si veda anche F. GALLO, L’officium del pretore nella produzione e applicazio-ne del diritto. Corso di diritto romano, p. 74 nt. 43 = ID., Un nuovo approccio per lo studio del ‘ius honorarium’, p. 18 nt. 43 = ID., Opuscula selecta, p. 957 nt. 43, che parla di Servio come ‘oratore già affermato’, e vd., da ultimo, T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, pp. 226-227.

131 In questo senso sembra avere ragione R.A. BAUMAN, Lawyers in Roman Transitional Politics. A study of relations between the Roman jurists and the emper-ors from Augustus to Hadrian, p. 9, quando conclude nell’affermare che « Scaevola Pontifex’s attack on Servius » avviene « when the latter was still an orator (D. 1.2.2.43) »: ossia, non era ancora un giurista — nel senso proprio del termine — ma era già pratico di ‘cose di diritto’.

132 Sulla appartenenza di Servio alla ‘nobilitas’ si vedano, per le fonti, Tac. Ann. 3.48; Cic., Pro Mur. 7.15; in Cic., Phil. 1.3 e Pro Deiot. 11.32 è « clarissimus vir »; Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178]. In letteratura cfr.: M. GELZER, Die Nobilität der römischen Republik, pp. 24-25 e nt. 20, 34 e nt. 20 (in particolare); W. KUNKEL, Die Römischen Juristen, p. 25; D. LIEBS, Rechtsschulen und Rechtsunter-richt im Prinzipat, p. 213 e nt. 106; D. MANTOVANI, ‘Iuris scientia e honores’. Con-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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sto, un acuto osservatore come il Ferrini così traduce la parte in og-

getto della reprimenda: « essere vergogna che un patrizio e nobile,

che pur si professava oratore, ignorasse il diritto, in cui versava » 133.

Si va ben al di là, dunque, di benevoli « repoches » ed « e-

xhortations du grand pontife Q. Mucius Scaevola » intravisti — con

eccessivo candore — dal Vernay 134, se si tiene conto del fatto che,

probabilmente a partire da questo episodio, il maestro di Alfeno è

tributo allo studio dei fattori sociali nella formazione giurisprudenziale del diritto romano (III-I sec. a.C.), p. 648; J. PARICIO, La vocación de Servio, p. 554 nt. 21 = ID., De la justicia y el derecho, p. 98 nt. 21. Cfr. anche BAUMAN, Lawyers in Roman Transitional Politics, pp. 4 ss. e F. WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte, I, pp. 602 ss.

133 In questi termini C. FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano, pp. 35-36 nt. 1, che, per quanto riguarda la portata (anche) generale delle espressioni di Quinto Mucio, così prosegue: « Da queste parole si può anche rilevare quanto fosse già uni-versale la cultura giuridica: se poteva essere vergogna non possederla ».

134 Cfr. E. VERNAY, Servius et son École, p. 16; né, altrettanto, mi parrebbe in alcun modo deducibile dalla testimonianza di D. 1.2.2.43 una manifestazione di ar-guzia — e, quindi, di un improbabile senso dell’umorismo — da parte del tronfio pontefice, come vorrebbe, invece, TH. KIPP, Geschichte der Quellen des römischen Rechts 3, p. 102, il quale conclude la riproposizione dell’episodio nel senso che « fuhrt ihn [= Servius] Q. Mucius an ». Assai più aderente alla realtà delle cose pare essere il giudizio di R.J. POTHIER, Praefatio seu Prolegomena in Pandectas Justi-nianeas, in « Pandectae Justinianeae », I, p. XXII: « Refert Pomponius quomodo ad Juris studium Servius – Sulpicius se contulerit. Quum forte de aliquo negotio Mu-cium consuluisset, et responsum ejus non percepiret; ‘durius increpuit Mucius’: TURPE ESSE […] IGNORARE. Qua objurgatione stimulatus Servius Juri operam navare cœpit » (gli apici sono miei). Del resto già J. VOET, Commentariorum ad Pandectas libri quinquaginta, I, p. 12 ad h.l., osservava che Servio « non ante juris civilis scientiam eloquentiæ fertur adjunxisse, quam acri Mucii reprehensione: Turpe esse […] ignorare, velut contumelia ad id stimulatus » [§ 9] (e, in termini molto simili, ma più concisi, lo stesso VOET, Compendium Juris juxta seriem Pandectarum, p. 7 ad h.l., « Servius, cum jam orator esset, objurgatione Mucii, turpe esse […] ignora-re, juris peritiam eloquentiæ adjunxit » [§ 7]); analogamente I.A. BACHIUS, Historia iurisprudentiae romanae, p. 249, osservava che il Nostro « […] a Q. Mucio, propter ‘ignorantiam iuris civilis’, obiurgatus es[se]t ».

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« SERVIUS RESPONDIT »

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stato definito (addirittura) come « fervido, ma ragionatissimo avver-

sario » del pontifex 135.

135 Cfr. A. GUARINO, Inquilini che scappano, p. 201; similmente, parla di « fero-

ce oppositore del metodo di Quinto Mucio » (pur con la apprezzabile cautela « per quanto ne sappiamo ») L. VACCA, La giurisprudenza nel sistema delle fonti del dirit-to romano. Corso di Lezioni, p. 70, e di « grande avversario di Q. Mucio », invece, C.A. CANNATA, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, I. La giurispru-denza e il passaggio dall’antichità al medioevo, pp. 44-45, traendo il giudizio, diret-tamente ed esclusivamente da D. 1.2.2.43 (ivi, p. 45 nt. 10); cfr. anche O. BEHRENDS, Le due giurisprudenze romane, pp. 202-203 e 220 nt. 81. M. TALAMANCA, Problemi del ‘de oratore’, p. 14, contrappone, del resto, un Servio Sulpicio Rufo qualificato come « il grande amico di Cicerone » ad un Servio Sulpicio Rufo quale « grande antagonista » di Quinto Mucio Scevola. Queste soluzioni trovano, del resto, prece-denti il letteratura anche in F.D. SANIO, Zur Geschichte der römischen Rechtswis-senschaft, pp. 60 e ss. e in C. ARNÒ, Scuola muciana e scuola serviana, pp. 48 e ss. Per inciso si noti che qualche autore ha implicitamente esteso, per così dire, la critica — questa volta, ciceroniana — sia a Quinto, sia a Publio Mucio: cfr., infatti, E.F. BRUCK, Cicero vs. the Scaevolas. Re: Law of Inheritance and Decay of Roman Reli-gion (de legibus, II, 19-21), pp. 1 e ss., poiché, nella sostanza, « P. Mucius Scaevola and Qu. Mucius Scaevola were men imbued with the traditional Roman views », come dimostrebbe il fatto che « particulary of the younger Scaevola a rigid adher-ence of the law is characteristic » (p. 17), mentre — va da sé — « the retoricians, among them Cicero, were in the opposite camp » (p. 18; e cfr., e.g., F. PRINGSHEIM, Bonum et aequum, p. 82), sebbene non si escluda che la ‘riprensione’ dell’Arpinate possa essere stata causata, fondamentalmente, da una « inadequate comprehension of the legal technique of the Scaevolas » (p. 19).

In realtà, tale giudizio è di per sé plausibile, non fosse altro — al di là della at-tendibile supposizione che si può trarre dal tenore complessivo di D. 1.2.2.43, e che in questa sede si sta cercando di rimarcare — che per l’incursione, all’interno della giurisprudenza romana, del genus dei reprehensa capita di Servio e proprio contro Quinto Mucio (cfr., per la denominazione dell’opera, Aul. Gell., N.A. 4.1.20 e, con espressione indiretta, anche Paul., VI ad Sab., D. 17.2.30 [= Pal. Paul. 1732]; sul punto specifico si vedano — oltre alla rapida annotazione di J. ROBY, An Introduc-tion to the Study of Justinian Digest, p. CXII — le osservazioni di F.P. BREMER, Iu-risprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 220; J.E. KUNTZE, Cursus des rö-mischen Rechts, p. 119, che parla espressamente di opera corrispondente ad « eine Kritik des Mucius »; TH. KIPP, Geschichte der Quellen des römischen Rechts, p. 103 e nt. 20, che unisce, di fatto, le due fonti (e vd. anche P. KRÜGER, Geschichte der Quellen und Literatur des römischen Rechts 2, pp. 67-68, sulla consistenza delle ‘correzioni’ serviane). Più recentemente P. STEIN, Regulae iuris, p. 44, ha parlato di

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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« a work devoted expressly to criticism of Q. Mucius »; cfr. anche le osservazioni di C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, p. 269 e nt. 238). Peraltro, già S. RICCOBONO, s.v. ‘Iurisprudentia’, p. 355 [I col.] (sul presupposto che « se può avere un nucleo di verità », D. 1.2.2.43 « ha assunto il colore di una leg-genda »), affermava che « se Servio scrisse un’opera nella quale sottopose a revisio-ne critica dottrine di Q. Mucio, ciò risponde perfettamente all’intensa attività scienti-fica di questo momento storico, che suscitava contrasti di opinioni e controversie su punti essenziali teorici e pratici » (da ultimo, è più che opportuno segnalare anche le osservazioni contenute in D. MANTOVANI, L’elogio dei giuristi romani nel proemio al III libro delle ‘Elegantiae’ di Lorenzo Valla. ‘Per quotidianam lectionem Dige-storum semper incolumis et in honore fuit lingua romana’, p. 154 nt. 28). Da notare, però, che già nel 1936, V. ARANGIO-RUIZ, s.v. ‘Sulpicio Rufo, Servio’, p. 982, avan-zava il giudizio secondo cui l’opera serviana non fosse stata scritta « già allo scopo, supposto dai moderni scrittori, di opporre alla scuola muciana una scuola serviana, ma per la necessità di affinare attraverso la critica del già fatto gli strumenti dell’indagine giuridica ».

Sul genus dei « polemische Kommentare », e sul precedente dei reprehensa capita (reprehensio, secondo Cicerone, è l’attività « per quam argumentando adver-sariorum, confirmatio diluitur [aut infirmatur, om. codd. DF Vns.] aut elevatur »: cfr. Cic., De inv. 1.42.78, e, per il linguaggio della giurisprudenza romana, vd. « VIR. », V, coll. 95-96 s.vv. ‘reprehendo’ e ‘reprehensio’), si veda quello indivi-duato da F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, p. 107 nt. 6 = ID., Storia della giurisprudenza romana, pp. 166-167 nt. 6 [e ID., History of Roman. Legal Science, p. 91 nt. 5], nell’opera del medico greco Erofilo di Calcedone [c.a * 330/320, † 260/250 a.C., tra altro, acutissimo sostenitore della teoria che vedeva nel « cervello [la] sede del pensiero, della sensibilità e dei movimenti », contro l’autorità di Aristotele — così da M. CONTI, Scientifici (scrittori), p. 1958 — tanto da poter essere considerato colui che ha inaugurato « eine neue Ära der medizini-schen Wissenschaft » cfr. H. BENGSTON, Griechische Geschichte von den Anfängen bis in die römische Kaiserzeit, p. 461] contro il celebre ‘Prognostikón’ di Ippocrate sempre che non ne abbia compilata egli stesso una rielaborazione, come prudente-mente riporta A. TOUWAIDE, s.v. ‘Herophilos 1]’, col. 485, dalle teorie del quale fu, in ogni caso, influenzato secondo il parere di F. CAPPONI, Didascalici (poeti), p. 637, ma che se distanziò grazie agli insegnamenti del proprio maestro Prassagora vd. I. MAZZINI, Medici (scrittori), p. 1316: sul genus segnalato cfr. già F. SUSE-

MIHL, Geschichte der griechischen Literatur in der Alexandrinerzeit, I, p. 795; più in generale, vd. H. GOSSEN, s.v. ‘Herophilos’, col. 179 ed E. MAAS, Commentariorum in Aratum reliquiae, pp. XI-XII).

Ora, il giudizio da cui si è partiti può trovare consolidamento sulla base dei testi (non molti, a dire il vero) in cui affiora uno scontro di pensiero tra Quinto Mucio e Servio. Infatti, i (pochi) passi superstiti tratti propriamente dall’opera dei ‘reprehen-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Tutto ciò premesso, Pomponio sembra quasi giustificare una

spontanea volontà di Servio di porre rimedio alla sua deficienza tec-

nica 136, ciò che in effetti il lettore attento — date le premesse — non

può non attendersi: « ea velut contumelia Servius tactus operam de-

sa Scaevolae capita’ (di cui, come afferma RICCOBONO, op. cit., p. 363 [I col.], « non ci è nota la forma ») — e sui quali cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 323, frr. 5-8 — derivanti dalla scrittura di Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30 + Gai 3.149 = Inst. 3.25.2 [= Pal. Paul. 1732; Pal. Serv. 5], infra, cap. II, frg. D.12 . , su cui vd. CANNATA, op. et loc. cit.; di Aul. Gell., N.A. 4.1.17 e 20 [= Pal. Serv. 6], in-fra, cap. II, frg. E .38 . ; di Ulp. XXII ad Sab., D. 33.9.3.6 [= Pal. Ulp. 2641; Pal. Serv. 7], infra, cap. II, frg. E .37 . , e, ancora, di Paul. XXI ad ed., D. 50.16.25.1 [= Pal. Paul. 339; Pal. Serv. † 8], infra, cap. II, frg. E .20 . ; a questo riguardo, nel frammento 5 e, ancor più, nel frammento 7, viene adottato il verbo ‘notare’, che ri-sulta, dunque, coerente col titolo dell’opera. Qui il verbo ‘notare’ è inteso nel senso di ‘reprehendere, improbare’, come riporta il « VIR. », IV, col. 286 ad v. ‘noto’: si consideri, tuttavia che i curatori del Vocabularium hanno riservato questo significato a pochi passi, che non sono relativi al testo polemico di Servio (cfr., infatti, Paul. III ad ed., D. 2.1.9 [= Pal. Paul. 108; Pal. Pomp. 846]; Ulp. IV disp., D. 29.2.42 pr. [= Pal. Ulp. 91]; Ulp. V ad ed., D. 5.1.16 [= Pal. Ulp. 271]; Ulp. XI ad ed., D. 4.2.9.8 [= Pal. Ulp. 374]; Ulp. II fideicom., D. 31.24 [= Pal. Ulp. 1858] e, infine, Ulp. VII ad Sab., D. 28.5.17.5 [= Pal. Ulp. 1488]); per contro, i frammenti oggetto di queste osservazioni, sono stati inseriti nella categoria di quelle evenienze ove l’uso del verbo corrisponde(rebbe) ad ‘adnotare’ (vd. « VIR. », IV, col. 285 ad v. ‘noto’).

Oltre a queste testimonianze si dovrebbero considerare (così secondo LENEL, op. cit., col. 323 nt. 1) anche Gai 1.188 [= Pal. Serv. 34], infra, cap. II, frg. E .12 . ; Lab. II post. a Iav. epit., D. 32.29.1 [= Pal. Iavol. 171; Pal. Serv. 43], infra, cap. II, frg. D.1 . ; Iavol. IV post. Lab., D. 40.7.39 pr. [= Pal. Iavol. 196; Pal. Serv. 65], infra, cap. II, frg. E .2 . ; Venul. II interd., D. 43.24.4 [= Pal. Venul. 13; Pal. Serv. 72] , infra, cap. II, frg. D.7 . , e cfr. Q.M. l.s. Órwn, D. 50.17.73.2 = D. 43.24.1.5 + Ulp. LXXI ad ed., D. 43.24.5.8 [= Pal. Q.M. 49; Pal. Ulp. 1593]; Pomp. XXXVIII ad Q.M., D. 47.2.77.1 [= Pal. Pomp. 79]; Pomp. VIII ad Q.M., D. 50.16.122 [= Pal. Pomp. 255; Pal. Serv. 85], infra, cap. II, frg. D.6 . . Cfr., in particolare, O. BEH-

RENDS, Le due giurisprudenze romane, pp. 203 e ss. 136 CH.A. RUPERTUS, Ad Enchiridion Pomponii JC. De origine juris, eiusq. in-

terpret. libri III animadversionum, p. 401, ebbe ad osservare che, proprio « Q. Mucii dictum, […] Ser. Sulpicium Rufum ad ſtudium juris civilis exstimulavit ». Per i mo-derni si veda ancora K. TUORI, Ancient Roman Lawyers and Modern Legal Ideals, p. 34.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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dit 137 iuri civili » 138 (poiché — ancora con le parole di Guarino —

« si è trattato di una contumelia, di una ingiuria verbale, e Servio se

ne va profondamente risentito, tactus ») 139.

La modalità con la quale, però, l’autore dell’enchiridion rive-

la la reazione, per così dire ‘scientifica’, di Servio non è strutturata

per far onore alla intelligenza del protagonista. L’inciso suona, infat-

ti, in questi termini: « ea velut contumelia tactus »: il fatto che Servio

si senta ‘colpito 140 da quella che gli suona come un’offesa’ (ovvero

‘una specie di offesa’ — così credo si debba rendere il periodo, al-

meno nel suo significato intrinseco), pare sfidare il buon senso, poi-

ché ad una lettura oggettiva delle parole di Quinto Mucio ci si avve-

de che l’offesa è grave, reale e, soprattutto, radicale (« namque eum

dixisse turpe esse patricio et nobili et causas oranti ius in quo versa-

retur ignorare ») 141.

Servio, ad ogni buon conto 142, prende l’iniziativa di dedicar-

si allo studio del ius civile e si pone al séguito — diventa auditor —

non già dello stesso Mucio (come avrebbe dovuto fare se avesse vo-

luto dimostrare al suo severo censore di essere persona di valore) e

137 Sull’espressione ‘operam dare’, e sul suo significato « più generico » rispetto

a D. 1.2.2.46, cfr., da ultimo, B. ALBANESE, Quattro brevi studi, III. I ‘libri de iure civili’ di Ofilio, p. 368 nt. 24 (con indicazione dei paralleli nei §§ 40 e 47 di Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2 [= Pal. Pomp. 178]).

138 Qui ‘ius civile’ sarebbe da intendere nel senso più « limitato di interpretatio prudentium » (ossia, credo, di acquisizione del metodo interpretativo giurispruden-ziale): così secondo M. BRETONE, Publius Mucius et Brutus et Manilius, qui funda-verunt ius civile (D. 1. 2. 2. 39), in ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 262 nt. 18.

139 Così A. GUARINO, Mucio e Servio, p. 19. 140 Cfr., sul punto, A. WALDE – J.B. HOFMANN, Lateinisches Etymologisches

Wörterbuch, II, pp. 647-648 ad h.v. 141 Sul punto si veda, sia pur brevemente, anche R.A. BAUMAN, Lawyers and

Politics in the Early Roman Empire. A study of relations between the Roman jurists and the emperors from Augustus to Hadrian, p. 9.

142 Egli, nella prospettiva di Pomponio, sfigura doppiamente: per non conoscere il diritto e per essersi adombrato a causa del conseguente rimprovero.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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neppure di un altro giurista (ove avesse inteso, al contrario e com-

prensibilmente, recidere ogni possibile rapporto con Quinto Mucio),

bensì a quella degli auditores di colui che lo aveva pesantemente of-

feso 143: Lucilio Balbo e, soprattutto (maxime) 144, Gallo Aquilio 145.

143 La scelta di porsi al seguito degli allievi — di ‘tutti’ gli allievi (come aveva

già annotato, a suo tempo, L. LANDUCCI, Storia del diritto romano, p. 161 nt. 3) — di Quinto Mucio potrebbe essere segno tanto di modestia quanto di sfida (o, in ogni caso, di rivalsa). La testimonianza non scioglie, tuttavia, l’alternativa, né io intendo forzare la fonte affermando che il senso complessivo del brano debba spingere verso il secondo corno (anche se può apparire quantomeno stravagante ‘scegliere’ ben cin-que maestri). In ogni caso, come aveva osservato, con la finezza che gli era consue-ta, B. ALBANESE, Premesse allo studio del diritto romano, pp. 98-99 nt. 63, Servio fu « legato alla tradizione di Quinto Mucio, in quanto allievo di Lucilio Balbo e di Aquilio Gallo », ma questo non gli impedì di essere « critico di Quinto Mucio nel-l’opera Reprehensa Scaevolae capita o Notata Mucii ». Del resto, per quanto con-cerne il dato del ‘legame tradizionale’, lo stesso Autore (op. cit., p. 107 nt. 78) sog-giunge che Servio operò « più tardi » ma « con metodi analoghi » a quelli di Quinto Mucio, che consistevano nella « esposizione sistematica del ius civile » attraverso l’applicazione del « metodo analitico per genera e species (qualche interessante trac-cia, ad es., in Gai 1, 188 e 3, 183; D. 41, 2, 3, 23) », oltre a quanto derivato dalla scrittura di « un’opera intitolata « “Oroi » (« Definizioni»; il titolo fornisce indizio e del metodo e dell’influsso della cultura greca) », da parte di Mucio stesso (sul punto cfr. anche M. TALAMANCA, Dévéloppements socio-économiques et jurisprudence romaine à la fin de la République, pp. 779 e ss. [e vd., in particolare, il giudizio di p. 780, secondo cui « Servius n’a pas réalisé une ars iuris », giudizio ribadito a pp. 787-788, « malgré Cic. Brut. 152 », poiché, come è vero, dai reprehensa capita, pur affiorando la critica di Servio verso Q. Mucio, non traspare una ‘vera frattura’ a li-vello di metodo adottato; l’elaborazione serviana è, e continua ad essere, infatti, una elaborazione casistica: cfr. ancora p. 780]). Scettico, invece, si dimostra C.A. CAN-

NATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, p. 269, secondo cui appari-rebbe « un poco paradossale, che Servio fosse discepolo degli allievi di Scevola, ma ciò nonostante non potesse essere annoverato fra i seguaci di Scevola stesso » (ma, in realtà, egli sarebbe stato ‘allievo di allievi’; A. TERRASSON, Histoire de la juris-prudence romaine, p. 231, già apriva la citazione di Servio descrivendolo, invece, come « d’abord le plus foible de tous les disciples de Scevola », ossia — secondo il termine francese arcaico — in ogni caso ‘il più debole’ degli allievi).

144 La precisazione pomponiana sembra rispondere alla realtà dei fatti poiché, come ha osservato, T. MASIELLO, Corso di Storia del Diritto Romano, p. 99, se non fosse per l’intervento in qualità di ‘primo istruttore’ su Servio, Lucilio Balbo ci sa-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

115

C’è, infatti, chi ha parlato, a questo riguardo, di una vera e propria

« ‘conversione sulla via di Damasco’ » del nostro personaggio 146.

Comunque sia — come racconta Pomponio — Servio è « in-

stitutus a Balbo » ed « instructus maxime a Gallo Aquilio » 147. rebbe « altrimenti ignoto ». Dal combinato disposto della precisazione di Pomponio, e dell’osservazione di Masiello se ne potrebbe dedurre che Servio fu accostato ai ru-dimenti sistematici del ius civile da un giurista, comunque, di non elevatissime qua-lità scientifiche.

145 Tanto da diventare — secondo la deduzione che crede di poter trarre dalle nostre fonti A. WATSON, The Law of Obligations in the Later Roman Republic, p. 259 nt. 8 — « Aquilius’ pupill ». Per fonti relative ai due giuristi cfr. Cic., De orat. 3.21.78; Ad Att. 1.1.1 (e cfr. Div. in Caec. 7.24); Verr. 1.12.35; 2.2.31 e 77; Top. 12.51 (puntualmente segnalate da M. BRETONE, Cicerone e i giuristi del suo tempo, p. 67 nt. 69 = « Quaderni di storia », pp. 271-272 nt. 69 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, pp. 86-87 nt. 71).

146 Letteralmente « ‘Damaskus-Erlebnis’ des Servius Sulpicius »: cfr. D. NÖRR, Pomponius oder ‘Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen’, p. 529 (e nt. 152) = ID., Pomponio o ‘della intelligenza storica dei giuristi romani’ [con una ‘No-ta di lettura’ di A. Schiavone, trad. it. M.A. Fino – E. Stolfi], p. 193 (e nt. 155). Cfr., ancora, dello stesso NÖRR, Cicero-Zitate bei den klassischen Juristen, p. 137 nt. 96 = ID., Historiae iuris antiqui, II, p. 1231 nt. 96.

147 Intorno ai maestri di Servio, e amici a diverso titolo dell’Arpinate, vd. anche i dati offerti da M. BRETONE, Cicerone e i giuristi del suo tempo, pp. 60-61 e nt. 50 = « Quaderni di storia », pp. 252 e 267 nt. 50 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, pp. 79-80 nt. 51. Su questi profili cfr. pure J. PLANTSCHEK, Studien zu Ci-ceros Rede für P. Quinctius, p. 4 e nt. 14, e, da ultimo, vd. E. STOLFI, ‘Plurima inno-vare instituit’. Spunti esegetici intorno al confronto tra Labeone e Capitone in D. 1.2.2.47 (Pomp. lib. sing. ench.), pp. 68-69 e nt. 44 (concetti ripresi in ID., Die Juristenausbildung in der römischen Republik und im Prinzipat, pp. 18 e ss.), il qua-le — per similitudine alla costruzione e alla progressione verbale di Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.47 [= Pal. Pomp. 178], in cui scorge che i segni ‘audire’ ed essere ‘institu-tus’ si presentino « (si noti l’autem) in termini di forte alterità » — propone di legge-re il passaggio del § 43 come indicativo del fatto che Servio sarebbe divenuto audi-tor degli auditores del pontefice ‘dopo’ essere (scl.: già) stato institutus e, quindi, instructus. A me pare, invece, che il punto in questione, riferito a Servio, sia volu-tamente improntato a suggerire l’idea (sempre in malam partem, nelle intenzioni di Pomponio) secondo cui il protagonista del racconto sia stato istruito e specializzato solo in secondo momento rispetto alla reprimenda muciana e, quindi, all’essersi po-sto al séguito di suoi coetanei. Del resto, nello specifico contesto, la progressione « plurimos eos... audiit, institutus (sott.: est) a Balbo Lucilio – instructus (sott.: est)

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« SERVIUS RESPONDIT »

116

Ancora una volta, però, sembra che l’autore dell’enchiridion

non riesca a non cedere alla sottile tentazione di insistere sulla po-

chezza della cultura giuridica di Servio 148: egli è institutus — secon- autem maxime a Gallo Aquilio » non credo consenta di scorgere una anteriorità sto-rica dei due participi rispetto al verbo al modo indicativo (tutti, peraltro, allo stesso tempo). Al contrario, mi pare suggerisca una sequenza logica di atti, l’uno derivato dall’altro. E, qui, la presenza della congiuzione ‘autem’ — posta a corredo della ter-za parte del discorso (« instructus... ») — scandisce il rapporto con il secondo ele-mento (« institutus... »), ed entrambi la dipendenza dal primo (« audiit... »). Del re-sto, almeno con riguardo al § 43, una diversa lettura annullerebbe il senso dell’espressione da cui inevitabilmente dipende la sequenza dei verbi segnalati: « ea velut contumelia Servius tactus operam d ed i t iur i c i v i l i ... », et rell. (sul cui valore generico — nel senso, crederei, del compimento di operazioni basilari — si veda B. ALBANESE, Quattro brevi studi, p. 368 e nt. 24). Mi pare, dunque, che non si possa negare che Servio si sia ‘dedicato’ al ius civile (nel significato più stretto del termine: vd. M. BRETONE, Sesto Elio e le Dodici tavole, p. 69 e nt. 18) se non dopo il grave rimprovero muciano; si sia, per questo, messo alla sequela degli auditores del pontifex e, tra questi, sia stato « institutus a Balbo Lucilio » e quindi (autem) « in-structus maxime a Gallo Aquilio ». In questi termini si veda già, ad esempio, C. AR-

NÒ, Scuola muciana e scuola serviana, p. 48 e, recentemente, O. BEHRENDS, Der Kommentar in der römischen Rechtsliteratur, pp. 448-449 (almeno così credo vada interpretato il pensiero dell’Autore tedesco laddove, ribadendo il fatto che Servio non comprese le argomentazioni di Quinto Mucio nelle motivazioni di fondo, così prosegue: « was ihm nach seiner eiginen Vorbildung, die der Ciceros entsprach, ü-berzeugend erschien » [p. 449], ponendo in contrapposizione la perizia giuridica del pontefice rispetto alla preparazione — esclusivamente retorica — di Servio, coinci-dente, cioè, con quella di Cicerone, come acquisita a Rodi). Peraltro, esplicitamente di Servio quale « Schüler des Aquilius Gallus » (e che « hatte wie » — mit? — « Ci-cero in Rhodos Rhetorik studiert »), parlano G. DULKEIT – F. SCHWARZ – W. WAL-

DSTEIN, Römische Rechtsgeschichte 9, p. 172: intorno a questi ultimi profili si veda anche quanto ipotizzato infra, nt. 298.

Tutto questo, dunque, non può far altro che aggravare la posizione di Servio nel perseguimento della finalità denigratoria pomponiana.

148 Intuitivamente differente — e, in ogni caso, a posteriori — il giudizio cicero-niano, che pone Servio come giurista in grado di « sostenere favorevolmente il con-fronto con gli antichi » (così M. BRETONE, Cicerone e i giuristi del suo tempo, p. 62 nonché nt. 54 = « Quaderni di storia », p. 253 nonché p. 269 nt. 54 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 80 e nt. 54): cfr., con riferimento implicito, ma sicuro (vd., infatti, E. RAWSON, The Interpretation of Cicero’s ‘de legibus’, p. 336), Cic., De leg. 1.5.17 (nonché Cic., De off. 2.19.65 e Phil. 9.5.10). Su questi passi vd.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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do gli elementi della prima erudizione — ed instructus — ossia per-

fezionato (segno, dunque, che il lavoro su di lui necessitava di essere

profondo, sistematico, totale, a partire da una situazione di nessuna

consistenza cognitiva, che al contrario — come aveva sentenziato

Quinto Mucio — da lui ci si sarebbe dovuto attendere per stirpe e per

prassi) 149. E questa delicata operazione di riconversione di Servio

alla scienza giuridica è operata, per di più, da un coetaneo suo e di

Cicerone: Gallo Aquilio, infatti, fu praetor della quaestio de ambitu

nel 66 a.C. 150.

anche F. BONA, Cicerone e i ‘libri iuris civilis’, pp. 276-277 = ID., Lectio sua, II, pp. 906-907 e, segnatamente, sul brano del De legibus, ancora ID., Intervento in ‘Una discussione su A. Schiavone, Società romana e produzione schiavistica’, pp. 415-416 = ID., Lectio sua, II, pp. 915-916, e cfr. anche assai utilmente F. CANCELLI, L’interpretazione del ‘de legibus’ di Cicerone, pp. 205 e ss. (211 e ss., in particola-re). In ordine a Cic., Phil. 9.5.10 si veda, ora, L. VACCA, L’‘Aequitas’ nella ‘inter-pretatio prudentium’, p. 32.

149 Sul punto, vd. C.G. BRUNS – O. LENEL, Geschichte und Quellen des römi-schen Rechts, p. 344; cfr. anche, sull’instruere, F.P. BREMER, Die Rechtslehrer und Rechtsschulen im Römischen Kaiserreich, pp. 7-8; E. VERNAY, Servius et son École, pp. 18-19, e, in tempi a noi più prossimi, S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana, II, pp. 438-439 (che insiste sul profilo della institutio); F. D’IPPOLITO, Que-stioni decemvirali, p. 178 (« il secondo [= termine, ‘instructus’] segnala un momen-to più elevato e complesso di quanto non manifesti il primo [= ‘institutus’], che sem-bra indicare gli aspetti più elementari di un processo educativo »); ID., Forme giuri-diche di Roma arcaica 2, p. 239, offre, invece, una lettura ‘in positivo’ del paragrafo, affermando che « allievo dei migliori fra gli auditores di Q. Mucio Scevola il Ponte-fice, egli potette attingere al patrimonio giuridico di cui erano in possesso soprattutto Lucilio Balbo e Aquilio Gallo ». Sulla distinzione tra instituere ed instruere si veda — seppure solo implicitamente — anche A. WATSON, Law Making in the Later Ro-man Republic, p. 109, il quale osserva che « Servius learned from several jurists, was taught by Lucilius Balbus, and was above all instructed by Aquilius Gallus » (i corsivi sono miei). Vd. anche P. JÖRS, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Re-publik, pp. 236 e nt. 2, 237 e nt. 2, e, più recentemente, G. CRIFÒ, Lezioni di storia del diritto romano in età monarchica e repubblicana, p. 174.

150 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, coll. 55-56, ad rubr., e F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, p. 49 = ID., Storia della giurispru-denza romana, p. 83 (e ID., History of Roman Legal Science, p. 43). Questo aspetto sembra essere stato sottovalutato da A. CASTRO, Crónica de un desencanto: Cicerón

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Pomponio, in altre parole, pare non si lasci sfuggire

l’occasione per ribadire, attraverso l’uso dei due verbi (instituere e

instruere) 151, che Servio non solo venne ‘perfezionato’ 152, ma che y Servio Sulpicio Rufo, p. 221, il quale sostiene che Servio « había acudido para a-hondar su formación jurídica con Aquilio Galo, lo que explica su temprana supre-macía en el ámbito jurisprudencial »: la conclusione può valere per il seguito della vita di Gallo Aquilio, ma non certo per l’epoca della ‘tutela’ su Servio. Cfr., inoltre, F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, p. 69 nt. 7 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 113 nt. 3 (e ID., History of Roman Legal Science, p. 58 nt. 5). B.W. FRIER, The Rise of Roman Jurists, p. 154, afferma che « he [= Ser-vius] took instruction with of Scevola’s students, L. Lucilius Balbus and Aquilius » (concedendo, però, a Servio d’essere « a swift learner »).

151 Cicerone, invece, avrà modo di osservare, e dal suo punto di vista, come Ser-vio sia giunto a superare sia Lucilio Balbo, sia Gallo Aquilio (vd. Cic., Brut. 42.154 e, sul punto, cfr. J. PARICIO, Valor de las opiniones jurisprudenciale en la Roma clá-sica, p. 117 nt. 7 = ID., De la justicia y el derecho, p. 193 nt. 7; vd. anche D. LIEBS, Rechtsschulen und Rechtsunterricht, p. 213 e nt. 105, e ora A. CASTRO SÁENZ, Itinerarios servianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pontifex, entre la hi-storia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), pp. 511-512).

Sul significato dei verbi segnalati si vedano (pur in visioni non sempre conver-genti) P. JÖRS, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republick, pp. 236-237; D. LIEBS, Rechtsschulen und Rechtsunterricht im Prinzipat, p. 224, (da cui si discosta)

M. TALAMANCA, Per la storia della giurisprudenza romana, p. 318 nt. 279; F. WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I, pp. 615-616; F. BONA, Il ‘docere respondendo’ e ‘discere au-diendo’ nella tarda repubblica, in ID., Lectio sua, II, p. 1145; F. GALLO, Synallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di diritto romano, I, p. 73 nt. 4; P. CANTARONE, Osservazioni sullo studio del diritto nella tarda repubblica, pp. 420 e ss.; S. RONCATI, Caio Ateio Capitone e i Coniectanea (Studi su Capitone, I), pp. 278-279; T. MASIELLO, Le ‘Quaestiones’ di Cervidio Scevola, p. 22; C.A. CAN-

NATA, Qualche considerazione sull’ambiente della giurisprudenza romana al tempo delle due scuole, p. 74, nonché E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e in Gaio, p. 101 nt. 465, e, ancora di recente, con alcuni mutamenti di opinione, ID., ‘Plurima innovare instituit’. Spunti esegetici intorno al confronto tra Labeone e Ca-pitone in D. 1.2.2.47 (Pomp. lib. sing. ench.), pp. 69-70 nt. 44, e ID., Die Juristen-ausbildung in der römischen Republik und im Prinzipat, p. 20 e ntt. 44-45, ed ora O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, pp. 98-99 nt. 150 (con usuali richiami ad ascendenze filosofiche).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

119

dovette ricevere, precedentemente, l’insegnamento ‘elementare’ del

diritto 153 e questo, si noti con attenzione, non per effetto di una spon-

tanea ricerca culturale, bensì soltanto a séguito dell’aspro rimprovero

mòssogli da Quinto Mucio, mentre — come pare di poter leggere tra

le righe — egli avrebbe continuato, imprudentemente (ed impuden-

temente), a svolgere l’attività di oratore, senza preoccuparsi del pro-

prio livello di cognizione giuridica, se non si fosse scontrato con la

rude, ma carismatica, personalità del pontifex 154. Il tutto ad una età

già discretamente matura (come ha chi possa chiedere un parere ad

un giurista illustre e possa, nel contempo, attendersi di ottenere un

152 E, se è altrettanto corrispondente a verità quanto Pomponio riporta nel § 42,

appena precedente, Servio riconosce il proprio debito descrivendo Aquilio come giu-rista di grandissimo e popolare prestigio, superiore a tutti i colleghi nati dalla scuola muciana (« Mucii auditores fuerunt complures… ex quibus Gallum maximae aucto-ritatis apud populum fuisse Servius scribit »).

153 Sul punto vd. già P. FREZZA, Corso di storia del diritto romano 2, p. 377 (« si sottolinea il contrapposto fra una istruzione preparatoria (instituere) e la vera e pro-pria istruzione professionale (instruere) »). Il Frezza, però, giustificava la presenza delle due forme verbali senza soffermarsi sull’implicita malizia della narrazione pomponiana (nonostante avesse notato la particolarità — come dimostra l’inserimento dei termini ‘in ogni caso’): « Si tratta ‘in ogni caso’ di una differenzia-zione di gradi di istruzione che non è in nessun modo indice di un mutamento nel metodo tradizionale di formazione del giureconsulto. Nella qual formazione (occorre appena notarlo) il futuro giurista poteva iniziare la sua educazione professionale solo dopo esser passato attraverso gli studi preparatori di grammatica e di retorica, ai quali era costume far seguire studi di perfezionamento presso maestri delle scuole di retorica e di filosofia ancora fiorenti nei paesi di cultura greca » (gli apici sono miei). Si potrebbe obiettare che lo stesso Pomp., l.s. ench., D. 1.2.2.47 [= Pal. Pomp. 178] usa lo stesso verbo (instituere) anche in riferimento all’attività svolta da Treba-zio nei confronti di Labeone (così come notato da F. WIEACKER, Römische Re-chtsgeschichte, I, p. 616), ma il contesto è senz’altro differente, non potendosi rile-vare, all’interno del § 47, alcun profilo censorio né verso l’istruttore, né, tantomeno, verso il soggetto passivo della institutio.

154 Su quest’ultimo aspetto del carattere di Quinto Mucio, si veda, recentemente, A. FERNÁNDEZ DE BUJÁN, Quinto Mucio Escévola el Pontífice (Quintus Mucius Sc[a]evola) (140-82 a.C.), p. 120: « Hombre severo y amante de su patria, culto y excelente orador ».

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responsum) 155 , potendosi, inoltre, legittimamente presumere che

Servio avesse, presso a poco, vent’anni 156.

155 F. D’IPPOLITO, Servio e le XII Tavole, p. 32 = ID., Questioni decemvirali, p.

174, afferma: « così si intende dal rimprovero mosso a Servio dal Pontefice, che lo considerava oratore e, in certo senso, praticante del diritto ». Si veda come, al con-trario, il tono del discorso sia del tutto differente per Labeone in D. 1.2.2.47 (cit. su-pra, nt. 107), anch’egli institutus, ma in forma del tutto ‘naturale’. Comunque sia, la lettura del D’Ippolito vale, evidentemente, in una visione ‘ex post’ (rispetto, cioè, al-la ‘specializzazione’ giuridica conseguita da Servio).

156 Vd. M. BRETONE, Storia del diritto romano 8, pp. 168-169, sulla base della data di morte del pontifex, conclude nel senso che Servio fosse « più o meno venten-ne » all’epoca dell’incontro risultato fondamentale per la sua carriera (argomento ripreso da C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, p. 268; conformi, da ultime, le deduzioni di J.W. TELLEGEN – O.E. TELLEGEN-COUPERUS, Law and Rhetoric in the causa Curiana, p. 192 e nt. 40). Quinto Mucio, infatti, ven-ne assassinato durante gli eccidi mariani — nell’82 a.C. — da « Damasippo, parti-giano di Mario, nonostante che egli, con grande nobiltà, in precedenza si fosse rifiu-tato di dichiarare questi nemico della patria » (così R. ORESTANO, s.v. ‘Scevola Q. Mucio’, p. 686; un accenno indiretto alle stragi reciproche, tra i seguaci di Mario e quelli di Silla, con riferimento all’assassinio di Q. Mucio, si trova in Cic., Pro Rosc. Amer. 12.33: « Quo populus Romanus nihil vidit indignius nisi eiusdem viri [scl. Quinti Mucii] mortem, quae tantum potuit, ut omnis occisus perdiderit et adflixerit, quos quia servare per compositionem volebat, ipse ab iis interemptus est »).

Il brutale, cruento delitto sarebbe avvenuto presso l’ara di Vesta — scenografi-camente, ma efficacemente, contrastante per un pontifex maximus — o, secondo al-tra tradizione, presso la Curia (cfr. Cic., De orat. 3.10 e Cic., De nat. deor. 3.32.80; Liv., Perioc. 86, che cita il ‘vestibulum aedis Vestae’, e, con una descrizione di par-ticolare efficacia teatrale — riprendendo Lucan., Bell. civ. (Phars.) 2.126-129 [su cui R. SEGUIN, Sacerdoces et magistratures chez les Mucii Scaevolae, p. 107 e nt. 6] e Flor., Epit. 2.9 (3.21) — Augustin., De civ. Dei 3.28: « Mucius Scaevola pontifex, quoniam nihil apud Romanos templo Vestae sanctius habebatur, aram ipsam ample-xus occisus est, ignemque illum, qui perpetua virginum cura semper ardebat, suo paene sanguine extinxit »; cfr. inoltre Cic., Brut. 90.311; Cic., Ad Att. 9.15.2, ma solo per riferimento indiretto; Vell. Pat., Hist. 2.26.2; indicano invece la Curia, o le immediate vicinanze, come luogo dell’omicidio sia Diod. Sic., Hist. 37.29.5 [e cfr. fragm. 38-39.17.1] sia App., Bell. civ. 1.88.403-404, sia, infine, Oros., Hist. 5.20.4. Sull’argomento vd., per tutti, oltre a G. LEPOINTE, Quintus Mucius Scævola, I, pp. 32 e ss.; T.N. MITCHELL, Cicero. The Ascending Years, pp. 88 e ss.; W. KUNKEL, Die römischen Juristen, p. 18, e, in particolare, E. MONTANARI, Identità culturale e con-flitti religiosi nella Roma repubblicana, pp. 86-87, anche T. ROBERT – S.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Alla menzione di Gallo Aquilio segue, poi, una informazione

a prima vista innocua: « ea velut contumelia Servius tactus operam

dedit iuri civili et plurimum eos, de quibus locuti sumus, audiit, insti-

tutus a Balbo Lucilio, instructus autem maxime a Gallo Aquilio, qui

fuit Cercinae: itaque libri complures eius extant Cercinae confecti ».

La lettura del brano, che viene data tradizionalmente 157 —

anche per il fatto di non essere grammaticalmente scorretta — porta

a ritenere che l’eius della frase « itaque – confecti » sia da riferire an-

cora ad Aquilio, il quale, in altre parole, essendo di Cercina avrebbe

colà composto ‘molti’ 158 dei suoi libri 159. BROUGHTON – M. PATTERSON, The Magistrates of the Roman Republic, II, p. 73 e G.J. SZEMLER, The Priest of the Roman Republic, p. 124 e nt. 10) e, da ultimo, per la prima soluzione, A. FERNÁNDEZ DE BUJÁN, Quinto Mucio Escévola el Pontífice (Quintus Mucius Sc[a]evola Pontifex) (140-82 a.C.), p. 120. F.M. D’IPPOLITO, Del fare diritto nel mondo romano, p. 27 nt. 14, ricorda che « il partito mariano aveva già tentato di sopprimere il Pontefice, mediante un’azione orchestrata da C. Flavio Fimbria, nel gennaio dell’86 », tentativo andato a vuoto, e che si sarebbe dovuto consumare addirittura « in funere C. Marii » (cfr. Cic., Pro Rosc. Am. 12.33 e, prati-camente con lo stesso tenore, Val. Max., Fact. et dict. 9.11.2: « id egerat ut Scaevo-la in funere C. Marii iugularetur »). M. AVENARIUS, Il ‘liber singularis regularum’ pseudo-ulpianeo: sua specificità come opera giuridica altoclassica in comparazione con le ‘Institutiones’ di Gaio, p. 457, afferma che « con l’assassinio di Q. Mucio Scevola Pontefice […] terminò la tradizione dei veteres. Al suo posto subentrò la giurisprudenza classica ». Vd., ora — in uno scritto, come sempre, dotto, raffinato e assai suggestivo — J. CAIMI, Uomini e animali in pericolo: Esseni, Gesù, Q. Mucio Scevola (secoli I a.C. – I d.C.), p. 73, e, ampiamente, J. HARRIES, Cicero and the Jurists, pp. 17 e ss. (cap. I. ‘Death of a Pontifex’). Vd. anche supra, nt. 116.

157 E questo al di là delle questioni di certezza circa l’autenticità storica dell’episodio — ma, personalmente, non vedo alcun motivo per dubitarne — formu-late da M. BRETONE, Cicerone e i giuristi del suo tempo, p. 64 nt. 61 = « Quaderni di storia », p. 270 nt. 61 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 83 nt. 62 (sui dubbi di Bretone vd. anche F. D’IPPOLITO, Sulla data dell’‘actio de dolo’, pp. 247-248 e nt. 1); da R.A. BAUMAN, Lawyers in Roman Transitional Politics, p. 44 e da A. SCHIAVONE, Giuristi e nobili, p. 223 nt. 14 = ID., Linee di storia del pensiero giuridico romano, p. 175 nt. 226 (contra, però, ora in ID., Ius. L’invenzione del dirit-to in Occidente, p. 462 nt. 61).

158 Si noti, tuttavia, che il dato dei ‘complures libri’ non trova alcun riscontro quantitativo in D. 1.2.2.42, poiché ivi, a proposito di Gallo Aquilio, si afferma sem-

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Debbo confessare, tuttavia, una sensazione avvertita alla

prima lettura del passaggio in questione e che, sinceramente, non rie-

sco ad abbandonare completamente.

E mi spiego subito: la sintassi del tratto in questione — chia-

ra, come anticipato, per il riferimento all’istruttore di Servio — è,

tuttavia, ‘maligna’ poiché se leggessimo il dato puramente quale no-

tizia riferita alla vita di Gallo Aquilio, essa avrebbe le caratteristiche

plicemente che « Mucii auditores fuerunt complures, sed praecipuae auctoritatis Aquilius Gallus », mentre tale precisazione ben si legherebbe con i circa CLXXX libri di Servio. Nessun autore, infatti, parrebbe aver testimoniato — al di là della auctoritas — una mole consistente di produzione di Aquilio Gallo (cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, coll. 55-56). Che, poi, Aquilio Gallo (al pari di Cascel-lio) non avesse scritto alcun libro è interpretazione che dà delle fonti F. SCHULZ, Ge-schichte der römischen Rechtswissenschaft, p. 70 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 114 (e ID., History of Roman Legal Science, pp. 58-59; diversamente, invece, TH. KIPP, Geschichte der Quellen des römischen Rechts, p. 102).

159 Cfr., in questo senso, D. GOTHOFREDUS, Corpus Iuris Civilis Romani, I, p. 112 nt. 36 ad v. ‘ejus’ ad h.l. [« Gallii Aquilii scilicet »], ma la precisazione del Go-tofredo è, evidentemente, tesa a chiarire un punto ambiguo e, similmente, si pone l’interpretazione — pur senza esplicita menzione del passo pomponiano — operata da S. RICCOBONO, Lineamenti della storia delle fonti del diritto romano. Compendio dei corsi di storia e d’esegesi del diritto romano, p. 60: « Contemporaneo e maestro di Servio è C. AQUILIO GALLO [...]. A Cercina, dove spesso si ritirava, attendeva a scrivere opere giuridiche ». Cfr. anche, espressamente, P. KRÜGER, Geschichte der Quellen und Litteratur des Römischen Rechts, p. 66 e nt. 14 (che, per pura svista, E. GABBA, Per una biografia di Servio Sulpicio Rufo, p. 397 nt. 1 indica come « p. 6 nt. 4 », unitamente, però, all’importante segnalazione di P. DE FRANCISCI, s.v. ‘Aquilio Gallo Caio’, p. 809). Vd. anche F. D’IPPOLITO, Sulla data dell’‘actio del dolo’, p. 247. L. LANTELLA, Metastoria, I. Prelettura teorica per un seminario sull’Enchiridion di Pomponio, p. 116, così rende il passaggio di D. 1.2.2.43: Servio « fu introdotto agli studi da Balbo Lucilio e si perfezionò poi con Aquilio Gallo, che era di Cercina, cosicché son rimasti parecchi libri di lui composti a Cercina » (la versione del Lantella è stata ripresa in Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Testo e traduzione, I. 1-4 [a cura di S. SCHIPANI], p. 90, a sua volta come formaliz-zazione di quella proposta da LANTELLA, in Il latino del diritto e la sua traduzione. Traduzione italiana dei Digesta di Giustiniano, in collaborazione con Istituto di Linguistica Computazionale del CNR, I, Digesta. Libro I, pp. 17-18 ad D. 1.2.2.43 (per la attribuzione delle traduzioni vd. op. cit., p. I).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

123

della assoluta ovvietà: che egli fosse di Cercina e che, pertanto, nel

luogo di origine (e, alla luce dell’informazione così interpretata, di

residenza) avesse scritto la maggior parte dei suoi libri è, certo, un

dato legittimo 160, ma irrilevante in una esposione tendenzialmente

sintetica ed analitica qual è quella offerta dall’enchiridion.

Potremmo, però, provare a percorrere una strada (almeno in

parte) differente, considerando il dato certo secondo cui la struttura

del paragrafo di D. 1.2.2.43, inteso nella sua completezza, è (come

sarebbe naturale attendersi) incentrata, sotto il profilo sistematico (e

anche sintattico), sulla figura serviana. Ne avremmo, in questo modo,

il risultato che, se di Cercina era Aquilio (« qui fuit Cercinae »), e

questi rimase scientificamente legato alla sua patria, e se Servio si

pose sotto la sua guida, in certo qual senso Servio ebbe necessità di

una sorta di ‘ritiro culturale’ (ergo di una tutela isolata) 161. Tutto

questo farebbe pensare ad una sorta di ‘sorveglianza scientifica’ con-

tinua del maestro sull’allievo, come se questi avesse avuto necessità

di stare a lungo ‘sotto osservazione’ 162. Al di là del gioco logico,

credo si possa insinuare, almeno, il dubbio che anche in questo ele-

160 Vd. R. SCHNEIDER, Quaestionum de Servio Sulpicio Rufo iureconsulto roma-

no specimen I, pp. 18-20, ripreso da F.M. D’IPPOLITO, Del fare diritto nel mondo ro-mano, p. 31 nt. 24.

161 Da ultimo, su questa linea — proposta, almeno, come eventuale — E. STOLFI, ‘Plurima innovare instituit’. Spunti esegetici intorno al confronto tra Labeone e Ca-pitone in D. 1.2.2.47 (Pomp. lib. sing. ench.), p. 62 nt. 18 (dubbi, invece, in A. CA-

STRO SÁENZ, Itinerarios servianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pontifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), p. 543). Utili osservazioni — seppure nel contesto più ampio dell’essere un giurista ‘pupil’ di un altro — in O.F. ROBINSON, The Sources of Roman Law. Problems and Methods for Ancient Historians, p. 43.

162 E questo a prescindere dall’indizio di possibili multipli ritorni di Servio nell’isola (tra cui quello — probabilmente — del 49 a.C.: vd. F. MÜNZER – B. KÜ-

BLER, s.v. ‘Ser. Sulpicius Rufus’, col. 854, ed ora E. GABBA, Per la biografia di Ser-vio Sulpicio Rufo, p. 397 e nt. 5), il che renderebbe ancora più credibile la scrittura dei libri serviani in quel luogo (e rafforzerebbe la soluzione della ‘tutela’ di Aquilio Gallo).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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mento si palesi una propensione pomponiana alla voluta ambiguitas

in Servium, in modo che il tratto « itaque l ibri complures eius

extant Cercinae confecti », possa leggersi come riferita ai libri scritti

da Servio 163.

Se, poi, si volessero ritenere ‘estreme’ queste osservazioni, si

pensi che la scrittura di Pomponio è riuscita a trarre in inganno alme-

no un lettore 164, che, peraltro, non v’è dubbio fosse assai avvertito

circa i temi trattati 165.

163 Questa è, del resto, la lettura — priva di esitazioni — di M.T. FÖGEN, Römi-

sche Rechtsgeschichten. Über Ursprung und Evolution eines sozialen Systems 2, p. 177 [= ID., Storie di diritto romano. Origine ed evoluzione di un sistema sociale, p. 171] (« Servius Sulpicius zog sich zu Gallus Aquilius auf die Insel Cercina vor der tunesischen Küste zurück, um dort Bücher zu schreiben (D. 1.2.2.43) ») e ora, da ultimo, anche da A. CASTRO SÁENZ, Itinerarios servianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pontifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), p. 540. Naturalmente mi si è rappresentata la seguente, facile obiezione: non è pensabile che Servio abbia scritto la maggior parte della sua opera a Cercina. Certo, ma in questa ipotesi — e ribadisco che di ipotesi si tratta — va ri-cordato che il punto non riguarda la ‘storia (reale)’ di Servio, bensì la ‘narrazione (aneddotica)’ che Pomponio intende consegnare ai posteri. Vd. anche supra, ntt. 98 e 100, ed infra, ntt. 170 e 298.

164 Da ultimo, però, e recentemente, anche Alfonso Castro ha desunto da questo frammento la conclusione secondo cui « una gran parte de las obras jurisprudencia-les servianas las escribío en su juvendud, según explica Pomponio, desde la isla afri-cana de Cercina, adonde había acudido para ahondar su formación jurídica con A-quilio Galo »: e qui l’autore richiama espressamente D. 1.2.2.43 (così A. CASTRO, Crónica de un desencanto: Cicerón y Servio Sulpicio Rufo, p. 221 e nt. 40), e si veda già — seppure in modo perplesso — B.W. FRIER, The Rise of Roman Jurists, pp. 148-149 (« a strange and somewhat garbled notice in Pomponiu’s Enchiridion (D. 1.2.2.43) states that he lived at Cercina, and that Ser. Sulpicius Rufus, while vis-iting him, was able to write libri complures »).

165 Da ultimo, E. GABBA, Per la biografia di Servio Supicio Rufo, p. 397, propo-ne un’interpretazione — sotto questo profilo — ancora più ‘eversiva’, se così mi posso esprimere (anche per le conseguenza che se ne traggono, e sui cui, in questa sede, è possibile soprassedere con un rimando): « È bene subito sgombrare il terreno da due pregiudiziali: la frase itaque confecti non si riferisce, malgrado l’opinione di P. Kruger ad Aquilio, ma, come è già stato visto da tempo, a Sulpicio. Inoltre, sem-bra errato ritenere con il Meloni che la frase qui fuit Cercinae indichi che Aquilio

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Alludo al Cuiacio, il quale, chiosando il nome geografico

‘Cercinæ’, così osservava: « Bis dicit Cercinæ: itaque nihil mutari

volo. Servius Sulpicius fuit Athenæ, fuit Rhodi, fuisse etiam eum Cer-

cinæ insula Siciliæ vicina ex eo coarguit, quod libri ejus complures

extent Cercinæ confecti » 166, legando, pertanto, la presenza di Servio

all’isola prossima alla cosiddetta Piccola Sirte, Kšrkina o Kšrkin-

na 167, con la conseguente opera di fissazione, in quel luogo e in

forma scritta, del suo pensiero.

Gallo era nato a Cercina: l’intonazione del passo e specialmente la frase successiva itaque etc. rettamente interpretata mostrano che Gallo fu sì a Cercina, ma per istruire Sulpicio, e che a residenze di quest’ultimo nell’isola sirtica si allude sostanzialmen-te ».

166 Così I. CUIACIUS, Commentarius ad titulos digestorum (ad titulum De origine juris), col. 312 nt. 1.

167 Cfr., in particolare, Plin., Nat. hist. 5.7.41 (che, a proposito della descrizione dell’Africa, afferma: « ipsa [= Meninx] a dextro Syrtis Minoris promumturio passi-bus MD sita. Ab ea C p. contra laevum Cercina cum urbe eiusdem nominis libera, longa XXV, lata dimidium eius, ubi plurimum, at in extremo non plus V »), nonché Tac., Ann. 1.53.4 e Liv. 22.31.2; 33.48.3-4 e 11 (luogo che fu, peraltro, rifugio di Annibale dopo l’abbandono della patria); Mela, De situ orbis. 2.7 e Hirt., Bell. Afr. 8.3; 34.1 e 3. Si noti, per inciso, che Æ. FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis, Ono-masticon, V, p. 357 ad. h.n., indica quale testimonianza significativa su Cercina proprio D. 1.2.2.43 (sul punto cfr. anche FRIER, op. et loc. cit.) — residenza del mae-stro Gallo Aquilio — con l’attività di scrittura di complures libri, riferita a Servio anche perché omette ogni riferimento al nome di Aquilio. Anzi, e meglio, il Cuiacio deduceva (vb. coarguo) la prova del periodo di soggiorno nell’isola « ex eo…, quod libri eius… confecti », ossia proprio dal fatto che lì Pomponio affermerebbe essere stata scritta la maggior parte dei libri serviani. Va detto, infatti, che il Cuiacio (op. et loc. cit.) dava questa punteggiatura della parte in esame di D. 1.2.2.43: « … qui fuit Cercinæ. Itaque libri complures ejus extant Cercinæ confecti » — a differenza della versione maior mommseniana, ove, al posto del punto fermo, vi è il doppio punto — che può meglio indirizzare al corretto senso del periodo finale, e, soprattutto, alla sua riferibilità soggettiva (cfr., infatti, TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani augusti, I, p. 9 ad h.l.; identica opzione in MOMMSEN – P. KRÜGER, Corpus Iuris Civilis, I. Di-gesta, p. 32 ad h.l., seguito da P. BONFANTE – C. FADDA – C. FERRINI – S. RICCOBO-

NO – V. SCIALOJA, Digesta Iustiniani augusti, p. 36 ad h.l.). Ho affermato che ‘me-glio può indirizzare’ poiché D. GOTHOFREDUS, Corpus Iuris Civilis Romani, I, p. 112

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Comunque sia, il dato potrebbe rappresentare la premessa,

per contrasto, con il séguito. Il discorso pare, infatti, cambiare rotta

— anche in modo piuttosto repentino — ed assumere i contorni della

valorizzazione di Servio, poiché Pomponio informa che, morto questi

nel corso di una ambasceria 168, il popolo gli edificò una statua in

nt. 36, nonostante l’inserimento del punto fermo, tale quale a Cuiacio, scoglie l’« ejus » come « Galli Aquilii scilicet ».

La stessa prospettiva si ritrova — oltre che nelle segnalazioni di F. OSANN, Pomponii de origine iuris fragmentum, pp. 81-82 (il quale testimonia che « ceterum quaesitum est a VV.DD., verba ‘qui fuit Cercinae’ quo referenda sint, utrum ad A-quilium, an ad Servium » [p. 81], optando egli per il secondo corno del dilemma [p. 82], e cfr., per contro, R. SCHNEIDER, Quaestionum de Servio Sulpicio Rufo iuri-sconsulto romano specimen, II, pp. 15 e ss.) — in epoca (relativamente) più recente, in J. ROBY, An Introduction to the Study of Justinian Digest, p. CXI: « ‘He’ [= Ser-vius] went to Aquilius to Cercina for this purpose and there ‘he’ wrote several works » (gli apici sono miei), nonché in F. SCHULZ, Geschichte der römischen Re-chtswissenschaft, p. 70 nt. 4 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 114 nt. 2 (e ID., History of Roman Legal Science, p. 58 nt. 9), che attribuisce lo stesso pensie-ro a M. SCHANZ – C. HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur bis zum Gesetzge-bungswerk des Kaisers Justinian, I, p. 594 (§ 198), opera che, a dire il vero, non mi pare così esplicita sul punto (inserendo, infatti, la citazione nel contesto delle notizie su « γ) die Lehrer » di Servio). Si può, dunque, concludere nei seguenti termini: la questione proposta non pare affatto oziosa, né priva di interesse storiografico (ma anche contenutistico) se, talora, gli Studiosi si sono soffermati sulla analisi del testo e, implicitamente, sulla verifica delle reali intenzioni, almeno sul punto, dell’autore del liber singularis enchiridii.

168 Vd. supra, nt. 108. Sulla natura dell’espletamento dell’incarico ‘diplomatico‘ affidatogli dal Senato, nel corso del quale Servio morì, vd. Cic., Phil. 9 (cfr. R. SYME, The Roman Revolution, pp. 170 e nt. 4 e 197) nonché Quint., Inst. orat. 7.3.18; Servio, del resto, fu praetor della quaestio peculatus, console con M. Mar-cello nel 51 a.C. (già sconfitto nella competizione del 63 a.C.: cfr. M. GELZER, Die Nobilität der römischen Republik, p. 45; T.P. WISEMAN, The census in the First Cen-tury B.C., p. 66 e, da ultimo, A. CASTRO SÁENZ, Cuatro cόnsules en la correspon-dencia ciceroniana: Pompeyo, Cicerόn, César y Servio en la hora de la guerra civil, pp. 201 e 204), col quale combattè valorosamente contro i Galli (vd. Sall., Hist. 1.7; Cic., Pro Mur. 20.42; accusò di ambitus il console designato, e rivale nella competi-zione, L. Licinio Murena: ibid. 3.7: sul punto v., in particolare, J.-H. MICHEL, Le droit romain dans la ‘Pro Murena’ et l’oeuvre de Servius Sulpicius Rufus, pp. 181-182) e proconsul Achaiae nel 45 a.C. (vd. Cic., Ad fam. 6.1 [CCXLVIII]). Anche

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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bronzo — ma non equestre 169 — presso i Rostri, statua che « hodie

exstat pro rostris Augusti » (che, cioè, ancora esiste al tempo della

nella funzione di interrex egli avrebbe dimostrato la propria influenza escogitando la soluzione di attribuire a Pompeo il consolato sine conlega « probabilmente per evita-re che gli fosse conferita la dittatura » (così, realisticamente, D’IPPOLITO, I giuristi e la città, p. 97, e cfr. D. NÖRR, Rec. ad op. cit., p. 401 = ID., Historiae iuris antiqui, II, p. 1255): sull’interregnum di Servio, vd. Ascon., In Milon. 36 [Clark] e Plut., Vi-tae [Pompeius] 54.5. Intorno alla proposta serviana tesa a modificare il sistema elet-torale, attraverso la proposizione di una rogatio ‘de ambitu’, vd. Cic., Pro Mur. 23.46-47, su cui, in particolare, C. NICOLET, L’idéologie du système centuriate et l’influence de la philosophie politique grecque, pp. 123-124 (nonché WISEMAN, op. et loc. cit.).

169 Si confronti – oltre a Pomp., l.s. ench., D. 1.2.2.43 in fin. [= Pal. Pomp. 178: « ... hic cum in legatione perisset, statuam ei populus Romanus pro rostris posuit, et hodieque exstat pro rostris Augusti »] – Cic., Phil. 9.1.3; 9.3.7; 9.5.10-11; 9.6.13 (« Mihi autem recordanti Ser. Sulpici multos in nostra familiaritate sermones gra-tior illi videtur, si qui est sensus in morte, aenea statua futura, et ea pedestris, quam inaurata equestris, qualis L. Sullae primum statuta est. Mirifice enim Servius maio-rum continentiam diligebat, huius saeculi insolentiam vituperabat. Ut igitur, si ip-sum consulam, quid velit, sic pedestrem ex aere statuam tamquam ex eius auctorita-te et voluntate decerno; quae quidem magnum civium dolorem et desiderium honore monumenti minuet et leniet» ); 9.6.14 e 9.7.16. Si vedano, in proposito, G. LAHUSEN, Untersuchungen zur Ehrenstatue in Rom. Literarische und epigraphische Zeugnisse, pp. 15-16, 47 nt. 19, 89, 98-99, 121, 134-135 e 138-139, nonché M. BRETONE, Storia del diritto romano 8, p. 159 e nt. 27 e, da ultimo, X. D’ORS, Servio Sulpicio Rufo (Servius Sulpicius Rufus), p. 131.

Sulla ‘auctoritas’ di Servio — mai riconosciutagli, significativamente, da Pom-ponio (che sembra, anzi, giocare col termine facendo di Servio un mero relatore dell’auctoritas altrui, distribuita, in modo generoso, per contro, sia agli allievi di Quinto Mucio, e a Gaio Aquilio in particolare (cfr. D. 1.2.2.42: « … ex quibus [= Mucii auditores… praecipuae auctoritatis] Gallum maximae auctoritatis apud popu-lum fuisse Servius dicit », il quale, ultimo, « libros suos complevit, pro cuius scriptu-ra ipsorum quoque memoria habetur »…), sia allo stesso Alfeno Varo (cfr. D. 1.2.2.44), sia, ancora, agli allievi di allievi (come Ateio Capitone, « qui Ofilium secutus est »: cfr. D. 1.2.2.47), sia, addirittura, a colui che si reputava pronipote di Servio (ossia Gaio Cassio Longino: cfr. D. 1.2.2.51) — si veda, oltre a Cicerone, nel passo ora riportato, Scaev. II quaest., D. 21.2.69.3 [= Pal. Scaev. 138; Pal. Serv. 30]: « Quid ergo, qui iussum decem dare pronuntiat viginti dare debere, nonne in condi-cionem mentitur? Verum est hunc quoque in condicionem mentiri et ideo quidam existimaverunt hoc quoque casu evictionis stipulationem contrahi: sed auctoritas

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scrittura dell’enchiridion – ‘exstat’ ) 170. Singolarmente, però, in con-

clusione, si torna al tema dell’opera serviana: « huius volumina com-

plura exstant reliquit autem prope centum et octoginta libros » 171. Servii praevaluit existimantis hoc casu ex empto actionem esse, videlicet quia puta-bat eum, qui pronuntiasset servum viginti dare iussum, condicionem excepisse, quae esset in dando » (vd., infatti, ancora un contrasto tra l’auctoritas Tuberonis e il ‘pa-rere’ di Servio — per il quale, seppure in toni non contrari al secondo, non si replica il richiamo all’auctoritas stessa — in Cels. XIX dig., D. 33.10.7.2 [= Pal. Cels. 168; Pal. Serv. 51], intorno cui infra, nt. 202, e cap. II, frg. D.4 . ). In letteratura vd. F.M. D’IPPOLITO, I giuristi e la città, pp. 14 e ss.; F. WIEACKER, Römische Rechtsge-schichte, I, p. 552 e nt. 5 nonché E. STOLFI, ‘Plurima innovare instituit’. Spunti ese-getici intorno al confronto tra Labeone e Capitone in D. 1.2.2.47 (Pomp. lib. sing. ench.), pp. 67-68 e nt. 40.

170 Naturalmente va abbandonata alla temperie culturale del tempo l’idea (piutto-sto singolare) espressa da E. ALBERTARIO, Rec. a G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, II, p. 246 = ID., Studi di diritto romano, VI, p. 541, secon-do cui il brano « statuam ei – pro rostris Augusti » dovrebbe essere « eliminato, per-ché non si riferisce ad un principio giuridico », avendo l’Autore italiano sottovaluta-to la natura (anche) aneddotica dell’enchiridion pomponiano (su cui vd. supra, ntt. 98 e 100, in particolare). Il BESELER, op. cit., p. 105, dal canto suo, ipotizzava la emblematicità dell’avverbio di tempo ‘hodie’ (ma il dubbio è privo di qualsiasi fon-damento: non si può ragionevolemnte negare che Pomponio si riferisse ad un dato positivo e verificabile nella sua epoca, poiché difficilmente egli si sarebbe posto nel-la condizione di essere smentito da qualunque lettore della sua opera). Sulla dedica-zione del monumento vd., da ultimo, J. HARRIES, Cicero and the Jurists, p. 117 (« a small statue of Servius Sulpicius Rufus on foot »: l’aggettivo non si trae dalle fonti ma risulta, in ogni caso, in grado di descrivire il fatto che non fu equestre — viene da chiedersi, allora, se l’Autore inglese abbia inteso interpretare il passo di Cic., Phil. 9.6.13 [riportato supra, nt. precedente] come allusivo ad una giustificazione ‘ex post’ da parte dell’Arpinate — ossia la morigeratezza dei costumi serviani rispetto all’ampollosità dell’epoca — in ordine alla gretta decisione assunta dal popolo ro-mano di innalzare [scl.: soltanto] un monumento di dimensioni contenute; il passag-gio « aenea statua futura – et voluntate decerno » potrebbe suonare, infatti, come un ‘messaggio trasversale’, a critica dei contemporanei).

171 Del resto, A. GUARINO, Mucio e Servio, p. 15, non considera la parte finale del paragrafo, ritenendola, coerentemente, non pertinente rispetto al punto di vista espresso circa « il vero e proprio sentimento di inimicizia di Servio per Mucio ». Dal canto suo, invece, V. SCARANO USSANI, Tra ‘scientia’ e ‘ars’, p. 230 nt. 78 = « Per la storia del pensiero giuridico romano », p. 255 nt. 78 = ID., L’ars dei giuristi, p. 46 nt. 79, rilegge, positivamente, il tratto nel senso per cui « i ‘volumina complura’ ser-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

129

Potrebbe essere un caso — segno, forse, della consistente e

costante appartenenza del verbo al linguaggio di Pomponio — ma i

temi libri, statua, volumina sono retti, tutti, dal segno ‘exstare’: « li-

bri complures exstant confecti… – (statua) hodie exstat pro rostris

Augusti… – volumina complura exstant ».

Volendo leggere la monotonia verbale con un poco di circo-

spezione, si potrebbe rilevare, in positivo, l’assimilazione dell’opus

serviano a qualcosa di perenne (ossia di monumentale) 172, che anco-

ra si può vedere — come ancora è visibile la sua statua 173 — segno

della « sua perdurante validità » 174.

Nello stesso tempo, tuttavia, e in negativo, si potrebbe inten-

dere l’inserzione del ricordo del monumento come similitudine a

qualcosa di ‘statico’ (che, come l’erma, il lettore ha la possibilità di

vedere di persona, toccando con mano la verità del giudizio di Pom-

ponio), ove alla sottolineatura della mole non corrisponde — come

dovrebbe, o potrebbe — alcuna sottolineatura (positiva) di merito sul

valore scientifico della elaborazione serviana da parte dell’autore

dell’enchiridion. Pertanto, se nelle altre parti del liber singularis, il

verbo ‘exstare’ esplica la sua funzione indicativa di ciò che è stato

tramandato, o meno, ai posteri (e che a questi è rimasto), la relazione

tra il monumento e l’opera — retti entrambi dalla forma verbale ana-

viani ebbero anche, nel giudizio di Pomponio, il merito di tramandare la memoria degli scritti degli auditores di Quinto Mucio ».

172 Cfr. E. STOLFI, Per uno studio del lessico e delle tecniche di citazione dei giuristi severiani, p. 367, nonché M. AVENARIUS, Der pseudo-ulpianische ‘liber sin-gularis regularum’. Entstehung, Eingenart und Überlieferung einer hochklassischen Juristenschrift. Analyse, Neuedition und deutsche Übersetzung, p. 98 nt. 67, che rammenta espressamente la sopravvivenza cronologica delle opere di Servio al tem-po di Adriano (quindi, di Gaio e, naturalmente, di Pomponio).

173 E si notino, in parallelo, i ‘Manilii monumenta’ che ‘exstant’ citati in Pomp., l.s. ench., D. 1.2.2.39 [= Pal. Pomp. 178], in un contesto che mi pare segnare la di-stanza rispetto al § 43 di D. eod.

174 La citazione è tratta da E. STOLFI, Per uno studio del lessico e delle tecniche di citazione dei giuristi severiani, p. 367 (e vd. anche ivi, p. 368 e nt. 144).

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lizzata — mi pare sia funzionale a dare all’espressione una connota-

zione meno neutrale 175. Tanto più dove si consideri lo svolgimento

retorico della sezione (libri complures – statuam eius – volumina

complura) per cui il membro centrale, oltre a fungere da luogo di

comunicazione del pensiero, sembra riflettere la luce nel senso appe-

na ipotizzato (anche per il ritorno, che non può essere casuale, del-

l’aggettivo complures all’interno dei membri estremi) 176.

In un giudizio di sintesi, non nego, almeno in linea di princi-

pio, che possa essere vicina al vero l’interpretazione del Guarino,

quando afferma che, in realtà, da D. 1.2.2.43 « traluc[e] un brano in-

genuo e pasticciato » 177. Tuttavia, e a parte la considerazione che si

potrebbe militare a favore della lettura qui presentata se avesse ra-

gione quella parte della dottrina che ha dubitato della autenticità del-

l’episodio 178 (ma poiché non vi è uniformità d’opinione non intendo

175 La forma verbale, infatti, viene ripetutamente impiegata da Pomponio in l.s.

ench., D. 1.2.2 [= Pal. Pomp. 178] — oltre che in § 2 (« quae omnes [= leges curia-tae] conscriptae exstant in libro Sexti Papirii ») — in § 36 (a proposito di Appio Claudio ‘Centemmano’, il cui liber de usurpationibus « non exstat »); in § 38 (« post hos fuit Tiberius Coruncanius... cuius tamen scriptum nullum exstat... et exstat illius [= Sextii Aelii] liber qui inscribitur ‘tripertita’... deinde Marcus Cato princeps Por-ciae familiae, cuius et libri exstant »); in § 39 (vd. supra, nt. 173); in § 42 (« alio-quin per se eorum [= auditores Mucii] scripta non talia exstant, ut ea omnes appe-tant »); ovviamente in § 43; in § 45 (« Cascellii scripta non exstant nisi unus liber bene dictorum, Trebatii complures [evidentemente sott.: exstant], sed minus fre-quentantur ») e, infine, in § 46 (« exstat eius [= Ciceronis] oratio satis pulcherrima, quae inscribitur pro Quinto Ligario »). Vd. anche E. STOLFI, ‘Plurima innovare in-stituit’. Spunti esegetici intorno al confronto tra Labeone e Capitone in D. 1.2.2.47 (Pomp. lib. sing. ench.), pp. 61 e ss. (ntt. 13 e ss.).

176 Questo particolare rafforza ulteriormente nel convincimento che anche l’ambiguo sermone (« itaque libri e ius exstant Cercinae confecti ») debba essere attribuito, in realtà, a Servio.

177 Cfr. A. GUARINO, L’esigenza giurisprudenziale della sintesi e la sua storia generale, p. 17 (si veda anche ID., Mucio e Servio, p. 22).

178 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt 2, I, p. 139 (« Utrum factum an fictum Pomponius narret [in D. 1.2.2.43] nescimus »), ma per la sostanziale storicità si veda già B. KÜBLER – F. MÜNZER, ‘Ser. Sulpicius Rufus’, col.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

131

avvalermi di questo argomento) 179, Servio non pare ottenere miglior

fortuna (rectius: onore) dalle altre menzioni contenute nel liber sin-

gularis pomponiano.

852 (« die Anekdote kann an einen tatsächlichen Vorgang anknüpfen »). Da ultimi: M. BRETONE, Storia del diritto romano 8, pp. 168-170, il quale assume una posizione equilibrata, rivalutando, opportunamente, l’eventualità del valore ‘comunque’ sim-bolico dell’episodio (e questo spiegherebbe il perché della scelta di un [del] pontifex quale interlocutore), quale manifestazione della « concezione nella quale giurispru-denza ed eloquenza sono strettamente unite » (e, in questa setssa linea, va ricondotto il parere di J.-H. MICHEL, Le droit romain dans la ‘Pro Murena’ et l’oeuvre de Ser-vius Sulpicius Rufus, p. 193 nt. 36: « Sur les relations entre Servius Sulpicius et Q. Mucius Scaevola, voir l’anecdote (vrai ou fausse) [!] racontée par POMPONIUS, Dig. 1,2,2[43] »: l’esclamativo è mio) e, con altrettanta moderazione, riprendendo il complesso delle discussioni, J. PARICIO, La vocación de Servio, p. 554 = ID., De la justicia y el derecho, p. 99. Opportune considerazioni in C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, pp. 268-270. Vd. anche supra, ntt. 98, 100 e 170.

179 Si veda già, sul punto, E. VERNAY, Servius et son École, pp. 16-17. A monte dell’attendibilità dell’episodio sta(rebbe) il problema della stessa autenticità del liber singularis enchiridii di Pomponio, su cui vd. D. NÖRR, Pomponius oder ‚Zum Ge-schichtsverständnis der römischen Juristen’, pp. 512-513 = in ID., Historiae iuris antiqui, pp. 1000-1001 = ID., Pomponio o ‘della intelligenza storica dei giuristi ro-mani’, pp. 181 e ss. (pp. 181-182, in particolare), che così si esprime (dalla traduzio-ne italiana di M.A. Fino ed E. Stolfi): « il testo tramandato nel Digesto è talmente in cattivo stato che sono sicuri alcuni interventi postclassici, i quali, verosimilmente, hanno interessanto meno la sostanza della forma » (su questi aspetti cfr. F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, pp. 204 e ss. = ID., Storia della giuri-sprudenza romana, pp. 302 e ss. (e ID., History of Roman Legal Science, pp. 168 e ss.); D. LIEBS, Gaius und Pomponius, p. 66 nt. 40, forse in quanto esito di annota-zioni tratte da lezioni: ID., Variae lectiones, p. 63 nt. 50 [con bibliografia]; ID., Rechtsschulen und Rechtsunterricht im Prinzipat, p. 198 (che parla di ‘anspruchslos’ enchiridion) e vd., specialmente, M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi ro-mani 2, pp. 209 e ss. [specialmente pp. 221 e ss., in cui sono assorbite, e in parte in-tegrate, le riflessioni contenute in ID., Motivi ideologici dell’‘Enchiridion’ di Pom-ponio, pp. 9 e ss. e in ID., Linee dell’Enchiridion di Pomponio 2, pp. 44 e ss.] nonché O. BEHRENDS, Rec. a M. Bretone, op. cit., pp. 796-797); P. JÖRS, Römische Re-chtswissenschaft, pp. 8-9; F. WIEACKER, Textstufen Klassischer Juristen, p. 163; L. BOVE, La consuetudine in diritto romano, I. Dalla Repubblica all’età dei Severi, p. 116). Utile consultazione (e presentazione di bibliografia specialistica), inoltre, in K. SALLMANN [ed.], Die Literatur des Umbruchs von der römischen zur christlichen

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« SERVIUS RESPONDIT »

132

Si vedano, infatti, a tal proposito, i paragrafi 42 180, 44 181 e

51 182 di D. 1.2.2, ove i toni hanno ben poco della laudatio — anche

quando si ricorda la pur encomiabile opera di Servio nella trasmis-

sione del sapere della scuola muciana [§ 42, in fin.] — circa la brevi-

tà (a dire il vero: marginalità) dei suoi due libri ad Brutum (§ 44, in

fin., intorno cui, in particolare, lo Scarano Ussani ha affermato che

« quasi il giurista antonino cercava di sottrarre a Servio anche il me-

rito di aver pubblicato il primo autonomo commento all’Editto preto-

rio. Scriveva infatti che Ofilio « de iurisdictione... edictum praetoris

Literatur 117 bis 284 n. Chr., pp. 144 e ss. (pp. 146-147, in particolare, e per l’ancora recente accettazione della tesi secondo cui l’opera pomponiana — come giunta a noi — possa essere stata in realtà « tratta dagli appunti di uno studente », si veda U. AGNATI, Le Dodici Tavole: il versetto VII, 8 e l’‘actio pluviae arcendae’, p. 43).

180 Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.42 [= Pal. Pomp. 178]: « Mucii auditores fuerunt complures, sed praecipuae auctoritatis Aquilius Gallus, Balbus Lucilius, Sextus Papirius, Gaius Iuventius: ex quibus Gallum maximae auctoritatis apud populum fuisse Servius dicit. Omnes tamen hi a Servio Sulpicio nominantur: alioquin per se eorum scripta non talia exstant, ut ea omnes appetant: denique nec versantur omnino scripta eorum inter manus hominum, sed Servius libros suos complevit, pro cuius scriptura ipsorum quoque memoria habetur ».

181 Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.44 [= Pal. Pomp. 178]: « Ab hoc plurimi profece-runt, fere tamen hi libros conscripserunt: Alfenus Varus Gaius, Aulus Ofilius, Titus Caesius, Aufidius Tucca, Aufidius Namusa, Flavius Priscus, Gaius Ateius, Pacuvius Labeo Antistius Labeonis Antistii pater, Cinna, Publicius Gellius. Ex his decem li-bros octo conscripserunt, quorum omnes qui fuerunt libri digesti sunt ab Aufidio Namusa in centum quadraginta libros. Ex his auditoribus plurimum auctoritatis ha-buit Alfenus Varus et Aulus Ofilius, ex quibus Varus et consul fuit, Ofilius in equestri ordine perseveravit. Is fuit Caesari familiarissimus et libros de iure civili plurimos et qui omnem partem operis fundarent reliquit. Nam de legibus vicensimae primus conscribit: de iurisdictione idem edictum praetoris primus diligenter composuit, nam ante eum Servius duos libros ad Brutum perquam brevissimos ad edictum subs-criptos reliquit ».

182 Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.51 [= Pal. Pomp. 178]: « Huic successit Gaius Cas-sius Longinus natus ex filia Tuberonis, quae fuit neptis Servii Sulpicii: et ideo proa-vum suum Servium Sulpicium appellat. Hic consul fuit cum Quartino temporibus Tiberii, sed plurimum in civitate auctoritatis habuit eo usque, donec eum Caesar civitate pelleret ».

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

133

primus diligenter composuit ». Aggiungendo poi che, in realtà, l’o-

pera ofiliana era preceduta dai serviani due Libri ad Brutum, che pe-

rò, a sminuirne il valore anche innovativo, Pomponio definiva bre-

vissimi ») 183 e, finalmente, circa la notizia secondo la quale Gaio

Cassio Longino, « natus ex filia Tuberonis, quae fuit neptis Servii

Sulpici », lo appellava, per questa ragione, « proavum suum » [§ 51].

Il che, a dire il vero, pare una seppur minima concessione finale ad

un certo prestigio di Servio (poiché, a distanza di tempo, poteva an-

che costituire motivo di orgoglio vantare un vincolo di parentela con

il medesimo).

183 Così V. SCARANO USSANI, Tra ‘scientia’ e ‘ars’, p. 225 = in « Per la storia

del pensiero giuridico romano dall’età dei pontefici alla scuola di Servio », p. 254 = ID., L’ars dei giuristi. Considerazioni sullo statuto epistemologico della giurispru-denza romana, p. 45. Non è escluso, poi, che il giudizio negativo sull’attività di Ser-vio fosse dettato anche dalla « estrema brevità del commentario serviano all’Editto » — cfr. Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.44 [= Pal. Pomp. 178] — « che a Pomponio, autore al contrario di un commento vastissimo, non poteva non apparire un requisito nega-tivo » (cfr. ID., Tra ‘scientia’ e ‘ars’, pp. 225-226 nt. 77 = « Per la storia del pensiero giuridico romano. Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio », p. 254 nt. 77 = ID., L’ars, p. 45 nt. 78). Quanto alla possibilità che i libri duo ad Brutum di Servio non fossero un vero e proprio trattato sull’editto, bensì una sorta di edizione commentata dello stesso, vd. G. MANCUSO, Praetoris edicta. Riflessioni terminologiche e spunti per la ricostruzione dell’attività edittale del pretore in età repubblicana, pp. 338-339; N. PALAZZOLO, La ‘propositio in albo’ degli ‘edicta perpetua’ e il ‘plebiscitum Cornelium’ del 67 a.C., p. 2447 nt. 76; L. PEPPE, Note sull’editto di Cicerone in Ci-licia, pp. 62-63 e ntt. 160-170 [laddove l’Autore, accogliendo sostanzialmente la proposta di O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 322, reputa essere soltano uno il frammento dell’opera a noi giunto: per una diversa soluzione F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 230-237, in cui si identificano ben 23 frammenti], e cfr. F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, pp. 107 e 148 = ID., Storia della giurisprudenza romana, pp. 166 e 225 (e ID., Hi-story of Roman Legal Science, pp. 91 e 126). Vd., tuttavia, le osservazioni di A. GUARINO, ‘Libri ad’, pp. 769-770 = ID., Pagine di diritto romano, V, pp. 301-302 e, soprattutto, di G. FALCONE, Ofilio e l’editto, pp. 105-106. Per equilibrate valutazioni cfr. D. MANTOVANI, Gli esordi del genere letterario ‘ad edictum’, p. 70, ed E. STOL-

FI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, pp. 3 nt. 1, 319 nt. 43.

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« SERVIUS RESPONDIT »

134

3.1. Il giudizio intorno alla elaborazione serviana e muciana, attra-

verso il tenore delle citazioni, nel resto della produzione di Pompo-

nio: a proposito di Servio

Va da sé che, per possedere un quadro maggiormente defini-

to intorno al giudizio pomponiano sulla attività scientifica di Servio,

si renda necessario indagare il tenore delle citazioni che lo stesso

giureconsulto posteriore ha fatto del collega tardorepubblicano nel

resto della sua produzione scientifica, e verificare se questo dia luo-

go, nel suo insieme, ad un giudizio di condivisione ovvero di critica

— o, addirittura, di rifiuto 184.

Ad una prima osservazione si può immediatamente notare

che, nella maggior parte dei casi, quanto Pomponio ha registrato di-

rettamente della elaborazione serviana corrisponde a poco più di una

definizione, priva, in ogni caso, del giudizio — sempre che esso sia

stato effettivamente espresso 185 — da parte del referente 186.

Un dato pare, tuttavia, rimarchevole: le citazioni di Servio

contenute nei libri ad Sabinum di Pomponio — e, ciò che più conta,

solo quelle contenute in quest’opera — sono tutte caratterizzate dal-

l’uso della forma ‘Servius respondit’ e dalla proposizione (neutra)

del pensiero serviano, senza alcuna discussione 187.

184 Circostanza che si manifesta, inoltre, nel fatto che non « è frequente che dot-trine di Servio si trovino in punti nevralgici dell’argomentazione di Pomponio » — e questo conferma, ai nostri fini, l’idea di una ubicazione abbastanza ‘laterale’ del pensiero di Servio nella concezione del giurista posteriore — ma, soprattutto, che l’autore dell’enchiridion neppure, di per sé, « modelli la propria soluzione tramite una loro [= dottrine di Servio] approvazione o censura » (cfr. E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, pp. 315-316 e nt. 36).

185 Non si può negare, infatti, in modo assoluto che tale carenza possa essere frutto di scelte compilatorie.

186 Sul testo dei frammenti, in quanto tale, si veda infra, cap. II. 187 Cfr. Pomp. II ad Sab., D. 5.1.80 [= Pal. Pomp. 392; Pal. Serv. 14]: « Si in iu-

dicis nomine praenomine erratum est, Servius respondit, si ex conventione litigato-rum is iudex addictus esset, eum esse iudicem, de quo litigatores sensissent », vd.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

135

Fa eccezione — peraltro parziale — soltanto Pomp. III ad

Sab., D. 35.1.6.1 [= Pal. Pomp. 423] 188, luogo nel quale la riflessione

del giurista repubblicano viene accolta con la significativa modalità

« sed Servius respondit… », in cui l’avversativa è finalizzata a intro-

durre, « quasi fosse la replica di un giurista posteriore, la diversa in-

terpretazione di Servio a proposito di un caso sostanzialmente analo-

go » 189.

A porre attenzione, tuttavia, al tenore del brano, la condivi-

sione del pensiero di Servio pare dovuta più alla forza attrattiva ope-

rata dai pareri di Labeone, Sabino stesso e Cassio, parimenti riferiti

— i quali, unanimemente, sostengono il medesimo indirizzo giuri-

sprudenziale (« quae sententia admittenda est ») 190, contro l’opposto

infra, cap. II, frg. B.10 . ; Pomp. VI ad Sab., D. 33.7.15 pr. [= Pal. Pomp. 490; Pal. Serv. 48]: « Si ita testamento scriptum sit: ‘quae tabernarum exercendarum in-struendarum pistrini cauponae causa facta parataque sunt, do lego’, his verbis Ser-vius respondit et caballos, qui in pistrinis essent, et pistores, et in cauponio instito-res et focariam, mercesque, quae in his tabernis essent, legatas videri », vd. infra, cap. II, frg. B.12 . , nonché Pomp. XXX ad Sab., D. 32.57 [= Pal. Pomp. 749; Pal. Serv. 44]: « Servius respondit, cui omnis materia legata sit, ei nec arcam nec arma-rium legatum esse », vd. infra, cap. II, frg. E .7 . , ma anche nei casi riportati pare difficile poter contestare il contenuto dei responsa serviani (vd. E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 316 nt. 36).

188 Pomp. III ad Sab., D. 35.1.6.1 [= Pal. Pomp. 423; cfr. Pal. Serv. 40]: « Si ser-vos certos quis manumisisset, heres esse iussus erat. Quibusdam ex his ante mortuis Neratius respondit defici eum condicione nec aestimabat, parere possit condicioni nec ne. Sed Servius respondit, cum ita esset scriptum ‘si filia et mater mea vivent’ altera iam mortua, non defici condicione. Idem est et apud Labeonem scriptum. Sa-binus quoque et Cassius quasi impossibiles eas condiciones in testamento positas pro non scriptis esse, quae sententia admittenda est ». Vd. infra, nt. 191 e cap. II, frg. B.11 . .

189 Cfr. ancora E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e in Gaio, p. 19. 190 La sanzione finale del passo è stata sospettata da V. SCIALOJA, Ancora sulle

condizioni impossibili nei testamenti. Nuove considerazioni, p. 23 (che pure la defi-nisce come « decisivo inciso », ma senza rendere esplicite le ragioni del sospetto), ripreso da TH. MOMMSEN – P. KRÜGER, Corpus Iuris Civilis, I, p. 541 nt. 2 ad.h.l.; C. COSENTINI, Condicio impossibilis, pp. 115 e ss., e P. VOCI, Diritto ereditario roma-no 2, II, p. 613 (contra, però, a ragione, data l’omogeneità complessiva risultante

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« SERVIUS RESPONDIT »

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parere di Nerazio — che a un vero sentimento di adesione a Servio

da parte dell’autore dell’enchiridion.

La sententia, che admittenda est, riguarda, infatti, l’apposi-

zione di condizioni impossibili — in questo caso all’istituzione di

erede — che, secondo Nerazio, deficiunt — rendendo, quindi, im-

possibile al designato acquistare il titolo di successore universale —

ma che, a partire dalla riflessione di Servio (tramite l’esempio della

premorienza anteriore alla redazione del testamento di una delle due

donne, la cui sopravvivenza, post mortem testatoris è condizione) 191, dall’analisi dei vari testi in materia, E. RABEL, Origine de la règle: “impossibilium nulla obligatio”, pp. 489-490, cui adde gli altri autori citati da STOLFI, op. ult. cit., p. 19 nt. 79, in implicita difesa della genuinità del testo).

191 Si tratta di un tema caro alla elaborazione della scuola serviana: cfr., infatti, pur con una parziale differenza — ma il tópos è quello — Alf. II dig. a Paul. epit., D. 28.5.46(45) [= Pal. Alf. 34]: « ‘Si Maevia mater mea et Fulvia filia mea vivent, tum mihi Lucius Titius heres esto’. Servius respondit, si testator filiam numquam habuerit, mater autem supervixisset, tamen Titium heredem fore, quia id, quod im-possibile in testamento scriptum esset, nullam vim haberet ».

Il testo alfeniano è decisamente interessante per almeno due ragioni. Intanto il responsum è direttamente attribuito a Servio e tale paternità è comprovata proprio dal ritorno del tema (e della regula) nel frammento di Pomp. III ad Sab., D. 35.1.6.1 [= Pal. Pomp. 423], tant’è vero che O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 328, utilizza le due testimonianze in questione per restituire un unico testo palingenetico (e vd. infra, cap. II, frg. B.1 . e B.11 . ). In secondo luogo, il significato proprio del responso — che pure crea qualche problema di ordine logico, se non addirittura più squisitamente ‘psicologico’, poiché resta, in ogni caso, oscura la ragione per cui un testatore debba menzionare una filia che ‘numquam’ [sic !] abbia avuto, salvo voler ipotizzare una filiazione putativa che qualcuno, ad esempio l’erede legittimo, interessato a far valere la defectio condicionis, sia riuscito a dimostrare solo in ségui-to all’apertura del testamento (ma non si deve dimenticare che l’esempio è funziona-le al chiarimento del tema dell’id, quod in testamento impossibile scriptum esset) — diventa assai più lineare se raffrontato con il ritorno del tema nella testimonianza pomponiana: la quaestio iuris è relativa al fatto se la condizione debba ritenersi non avverabile (con conseguente perdita della possibilità di acquisto del titolo di erede) o se, invece, debba ritenersi impossibilis e quindi ‘come non scritta’. Il tutto è ancor più significativo, poiché la regula è ribadita — in tema di clausole di impossibile comprensibilità — in Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 34.8.2 [+ D. 35.1.27 = Pal. Alf. 21], di cui si tratterà approfonditamente nella parte III di questi ‘studi’ (e vd. già M.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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per proseguire con quella di Labeone, Sabino e Cassio devono consi-

derarsi, invece, come se non fossero state apposte (« pro non scriptis

esse »).

Parimenti ‘neutra’ appare la citazione di Servio (con la forma

‘Servius ait’ ) in Pomp. XI ex var. lect., D. 4.8.40 [= Pal. 832] 192.

L’unico caso di espressa — e, in questi termini, a prima vista

sorprendente — approvazione (« Servius recte dicebat ») si registra

in

Pomp. I ench., D. 38.10.8 [= Pal. Pomp. 174; Pal Serv. 60]:

« Servius recte dicebat socri et socrus et generi et nurus appellatio-

nem etiam ex sponsalibus adquiri ».

In realtà, ove si presti attenzione al dato letterale e sostanzia-

le del brano, sarebbe difficile trovare spunti per dubitare che la preci-

sazione serviana fosse stata emessa ‘recte’ 193, anche da parte di un

MIGLIETTA, Casi emblematici di ‘conflitto logico’ tra ‘quaestio’ e ‘responsum’ nei ‘digesta’ di Publio Alfeno Varo, pp. 301 e ss.).

192 Pomp. XI ex var. lect., D. 4.8.40 [= Pal. Pomp. 832; Pal. Serv. 13]: « Arbiter calendis Ianuariis adesse iussit et ante eum diem decessit: alter ex litigatoribus non adfuit. Procul dubio poena minime commissa est: nam et Cassium audisse se dicen-tem Aristo ait in eo arbitro, qui ipse non venisset, non esse commissam: quemadmo-dum Servius ait, si per stipulatorem stet, quo minus accipiat. Non committi poena ». vd., infra, cap. II, frg. E .8 . .

193 Sulla valenza giuridica della progressione ‘recte-rectius-rectissime’ — intesa come struttura discorsiva tesa a (confermare,) correggere (o integrare la portata di) posizioni interpretative precedenti — si vedano F. BONA, La certezza del diritto nel-la giurisprudenza tardo-repubblicana, pp. 121 e ss. = ID., Lectio sua, II, pp. 937 e ss.; M. MIGLIETTA, ‘Servus dolo occisus’, p. 313 e nt. 89; E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, pp. 88 e ss., nonché, ancora, ID., Per uno studio del les-sico e delle tecniche di citazione dei giuristi severiani: le ‘sententiae prudentium’ nella scrittura di Papiniano, Paolo e Ulpiano, p. 351 (e nt. 30), che, da ultimo, lega l’impiego della terminologia (limitatamente al binomio ‘recte-rectissime’ ) al « giu-dizio di ‘correttezza’ » che « implica così un apprezzamento del procedimento inter-pretativo posto in essere, che ha condotto a una disciplina in sé non sempre o del

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« SERVIUS RESPONDIT »

138

eventuale commentatore prevenuto 194. L’argomento, infatti, è ogget-

to di una riflessione, in chiave definitoria, priva di ‘sussulti’ interpre-

tativi e che si rifà — allo stato delle fonti a nostra disposizione —

alla puntualizzazione serviana 195.

Due frammenti, tuttavia, si manifestano come particolarmen-

te apprezzabili nell’ottica esaminata, in quanto tratti dai libri ‘ad

Quintum Mucium’, gli unici superstiti di quest’opera in cui, del resto,

si evoca esplicitamente Servio.

Mi riferisco, in primo luogo, a

Pomp. XXXVIII ad Q.M., D. 47.2.77(76).[pr.-]1 [= Pal.

Pomp. 322; Pal. Serv. 79]: « pr. Qui re sibi commodata vel apud se

deposita usus est aliter atque accepit, si existimavit se non invito

domino id facere, furti non tenetur. Sed nec depositi ullo modo tene-

bitur: commodati an teneatur, in culpa aestimatio erit, id est an non

debuerit existimare id dominum permissurum. – 1. Si quis alteri fur-

tum fecerit et id quod subripuit alius ab eo subripuit, cum posteriore

fure dominus eius rei furti agere potest, fur prior non potest, ideo

quod domini interfuit, non prioris furis, ut id quod subreptum est sal-

vum esset. Haec Quintus Mucius refert et vera sunt: nam licet intersit

furis rem salvam esse, quia condictione tenetur, tamen cum eo is

cuius interest furti habet actionem, si honesta ex causa interest. Nec

utimur Servii sententia, qui putabat, si rei subreptae dominus nemo

exstaret nec exstaturus esset, furem habere furti actionem: non magis

tutto nuova, ma tale da soddisfare le esigenze della fattispecie concreta nell’osser-vanza delle disposizioni preesistenti ».

194 Nessun sospetto, del resto, è registrato in E. LEVY – E. RABEL, Index interpo-lationum, III, col. 68, ad D. 38.10): cfr., infatti, e a questo proposito, Ulp. V ad l. Iul. et Pap., D. 38.10.6.1 [= Pal. Ulp. 2004]; Gai. IV ad l. Iul. et Pap., D. 25.5.5 [= Pal. Gai. 452] e, indirettamente, Inst. 1.10.9.

195 Per il testo vd. infra, cap. II, frg. E .5 . .

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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enim tunc eius esse intellegitur, qui lucrum facturus sit. Dominus igi-

tur habebit cum utroque furti actionem, ita ut, si cum altero furti ac-

tionem inchoat, adversus alterum nihilo minus duret: sed et condic-

tionem, quia ex diversis factis tenentur ».

Il passo, per quanto ampio, merita di essere riportato per in-

tero, poiché rappresenta l’unico modello, a noi giunto nella relazione

pomponiana, di parere espressamente contrastante tra Quinto Mucio

e Servio. Tant’è vero che il Bremer lo inseriva nei reprehensa Scae-

volae capita 196, a differenza del Lenel, il quale, per contro, teneva

semplicemente (e ordinariamente) 197 conto della cadenza interna al

Digesto.

La dissensio si sviluppa in tema di furto, in ordine a cui

Pomponio « emenda e completa » 198 il parere riferito dal primo giu-

rista (« haec Quintus Mucius refert et vera sunt ») contro l’opinione

di Servio (« nec utimur Servii sententia »), la quale viene respinta

ancora prima di essere illustrata — inversamente a quanto avvenuto

per la decisione condivisa (« nam licet intersit… », et rell.).

Questo sarebbe segno, secondo parte della dottrina, di una

perdurante apprezzabilità della riflessione di Quinto Mucio, rifles-

sione che l’autore dell’enchiridion dimostra di prediligere, poiché

« quattro volte approva la tesi richiamata, per prenderne le distanze

in una sola circostanza » — cioè in Pomp. IX ad Q.M., D. 34.2.34 pr.

[= Pal. Pomp. 261; Pal Q.M. 6] — sebbene, emblematicamente,

196 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 223-

224, frg. 11; O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, coll. 332-333, ad h.l.; vd. infra, cap. II, frg. E .6 . .

197 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, ‘Praefatio’, § III. 198 Cfr. S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’,

p. 119 (vd. supra, nt. 95, in fin.).

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« SERVIUS RESPONDIT »

140

« con una formulazione (‘… hoc ex parte verum est, ex parte fal-

sum…’ ) di particolare prudenza » 199.

In secondo luogo, deve essere considerato il frammento at-

tribuito a

Pomp. VIII ad Q.M., D. 50.16.122 [= Pal. Pomp. 255; Pal.

Serv. 85]: « Servius ait, si ita scriptum sit: ‘filio filiisque meis hosce

tutores do’, masculis dumtaxat tutores datos, quoniam a singulari

casu hoc ‘filio’ ad pluralem videtur transisse continentem eundem

sexum, quem singularis prior positus habuisset. Sed hoc facti, non

iuris habet quaestionem: potest enim fieri, ut singulari casu de filio

senserit, deinde plenius omnibus liberis prospexisse in tutore dando

voluerit. Quod magis rationabile esse videtur ».

Nel testo appena riportato — quale « superamento della pro-

spettiva serviana » 200 — si accusa addirittura il maestro di Alfeno di

non essere stato in grado di operare una (corretta) distinzione tra

‘questione di fatto’ 201 e ‘questione di diritto’ (alludendo al tratto

« sed hoc facti, non iuris habet quaestionem: potest enim… », et

rell.) e, pertanto, di aver prodotto una spiegazione poco ragionevole

o, forse meglio, ‘priva di adeguata, accettabile ratio’ (arg. ex verb.:

« quod magis rationabile esse videtur » 202) 203.

199 Così E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 313 (e nt. 29

per le fonti): del resto, in Pomp. IX ad Q.M., D. 34.2.34.2 [= Pal. Pomp. 261; Pal. Q.M. 6], sullo stesso tema, ritorna il giudizio elogiativo « tunc rectissime scribit Quintus Mucius » (sul testo vd. infra, § 4).

200 Così ancora STOLFI, op. cit., p. 316 nt. 36. 201 Cfr. P. VOCI, s.v. ‘Interpretazione del negozio giuridico (diritto romano)’, p.

263 (e nt. 71). 202 Quasi nella stessa epoca della storia giuridica di Roma, anche Celso trova

modo di respingere un parere serviano, in modo quasi sprezzante (peraltro secondo uno stile consueto al giurista del II secolo d.C.: cfr. F. WIEACKER, Amoenitates Iu-ventianae. Zur Charakteristik des Julius Celsus, pp. 1 e ss.; M. BRETONE, Note mi-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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nime su Celsus filius, pp. 331 e ss. [p. 336, particolarmente] = ID., Tecniche e ideo-logie dei giuristi romani 2, pp. 191 e ss. [p. 203, in particolare]); H. HAUSMANINGER, Publius Iuventius Celsus: Persönlichkeit und juristische Argumentation, pp. 385 e ss.; E. STOLFI, Le ‘sententiae prudentium’ nella scrittura di Papiniano, Paolo e Ul-piano, pp. 362 nt. 98 e 367). La testimonianza, infatti, sembrerebbe raffigurare un parere di Servio nuovamente improntato ad una logica di eccessiva rigidità, tanto da discostarsi sia dai verba sia dalla voluntas del defunto. Mi riferisco, infatti, a Cels. XVII dig., D. 30.63 [= Pal. Cels. 137; Pal. Serv. 42]: « Si ancillas omnes et quod ex his natum erit testator legaverit, una mortua Servius partum eius negat deberi, quia accessionis loco legatus sit. Quod falsum puto et nec verbis nec voluntati defuncti accommodata haec sententia est », vd. infra., cap. II, frg. D.3 . . Come ha afferma-to P. CERAMI, ‘Verba’ e ‘voluntas’ in Celso figlio, pp. 485-486, « Celso irride quanti prospettano verba e voluntas come meri elementi alternativi dell’ermeneutica nego-ziale: si pensi, in particolare, alla polemica frase quod falsum puto et nec verbis nec voluntati defuncti accomodata haec sententia est di D. 30, 63 (Cels. 17 dig.), in cui Celso critica Servio, sottolineando mordacemente come la soluzione di quest’ultimo non si giustifichi né alla luce di una isolata considerazione dei verba e della voluntas (accomodata), né alla luce di una più pregnante analisi dell’assetto di interessi sotte-so alla disposizione testamentaria (falsum) ».

Qualche profilo di anelasticità parrebbe affiorare ancora in Servio (e Ofilio) an-che nella testimonianza di Iavol. IV ex post. Lab., D. 40.7.39 pr. [= Pal. Iavol. 196; Pal Serv. 65] — vd. infra, cap. II, frg. E .2 . , ma va, tuttavia, osservato che, in altro luogo, e sempre in materia di legati, lo stesso Servio dimostra di prediligere un’in-terpretazione che supera il dato contingente: si veda, ad esempio, Iul. l.s. de ambig., D. 32.62 [= Pal. Iul. 2; Pal. Serv. 45]; e così parrebbe essere pure in Iavol. II ex post. Lab., D. 33.4.6 pr. [= Pal. Iavol. 178; Pal. Serv. 46], ove ciò che pare essere vincola-to alla lettera del testamento rispetta, in realtà, anche la voluntas, e favorisce, coeren-temente, la posizione della mulier.

Sulla testimonianza offerta da D. 30.63, e sulla sua chiusa — che qui interessa, e che è stata sottoposta a vaglio critico (vd. anche nt. immediatamente seg.) — si ve-dano: O. GRADENWITZ, Interpolationen in den Pandekten, p. 214, seguito, più o me-no strettamente, da F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 181; G. DONATUTI, Dal regime dei verba al regime della voluntas (I. Nei legati), pp. 202-203 (con osservazioni non semplicemente formali, ma probabilmente legate ad una visione ‘purista’ della scrittura dei giuristi romani) richiamato da J. HIMMEL-

SCHEIN, Studien zu der antiken Hermeneutica iuris, p. 405 e nt. 2 (il pensiero di que-st’ultimo Autore sembrerebbe, però, essere stato caricato di diverso significato da M. KASER, Partus ancillae, p. 197 nt. 193). Per la genuinità del testo si vedano, invece, C.A. MASCHI, Studi sull’interpretazione dei legati. Verba e voluntas, pp. 44-45 (il quale dichiara irrilevante, a p. 45, la disputa sulla parte finale) e, più recentemente, quanto recisamente, H.J. WIELING, Testamentsauslegung im römischen Recht, p. 32

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nt. 53. Ancora: G. GANDOLFI, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano, pp. 61 e ss. (p. 66, in particolare); F. HORAK, Rationes decidendi, p. 168; A. WATSON, Narrow, Rigid and Literal Interpretation in the Later Roman Republic, p. 357 (il quale afferma che la decisione di Servio è sconcertante [« puzzling »]) e nt. 22, sul punto di nostro interesse; E. HERMANN-OTTO, Ex ancilla natus. Untersu-chungen zu den ‘hausgeborenen’ Sklaven und Sklavinnen im Westen des römischen Kaiserreiches, p. 281.

Celso, tuttavia, sembra dimostrare maggior obiettività in un altro frammento (cfr. Cels. XIX dig., D. 33.10.7.2 [= Pal. Cels. 168; Pal. Serv. 51], vd. infra, cap. II, frg. D.4 . ), in cui, nello scontro di pensiero tra Servio e Tuberone, in materia di definizione di ‘suppellettile’, e conseguente problema di interpretazione dei ‘verba’ e della ‘voluntas testatoris’ (e sul punto si veda ancora la precisazione di P. VOCI, s.v. ‘Interpretazione del negozio giuridico (diritto romano)’, p. 263) — pur dichia-rando la propria ammirazione per il secondo — non può esimersi dal seguire la solu-zione adottata dal primo (« sed etsi magnopere me Tuberonis et ratio et auctoritatis movet, non tamen a Servio dissentio… », et rell.): sul punto vd., in particolare, M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 286 e nt. 8; V. SCARANO US-

SANI, Valori e storia nella cultura giuridica fra Nerva e Adriano. Studi su Nerazio e Celso, p. 178 (e cfr. ID., Empiria e dogmi. La scuola proculiana fra Nerva e Traia-no, pp. 110-111 nt. 92, il quale ribadisce il concetto secondo cui « Celso difendeva la posizione di Servio Sulpicio Rufo »). Cfr., inoltre, GRADENWITZ, op. cit., p. 214; C.A. MASCHI, Studi sull’interpretazione dei legati, pp. 53 e ss.; E. BETTI, Lezioni di diritto romano. Rischio contrattuale, p. 350 (in particolare; una ricca pagina del grande giurista che merita senz’altro di essere riportata: « Celso, nell’esporre i ter-mini della disputa fra Servio e Tuberone, appoggia decisamente la tesi del primo, nonostante il rispetto profondo per la ‘ratio’ e la ‘auctoritas’ di Tuberone: e la ragio-ne del suo prender parte a favore della opinione di Servio è chiaramente illustrata dal giurista classico mediante un paradosso: egli, infatti, conduce alle conseguenze e-streme il ragionamento di Tuberone, per dimostrarne l’infondatezza: nessuno nega — dice Celso — che la mens dicentis — cioè l’intendimento soggettivo del dispo-nente — costituisca, in sede d’interpretazione di negozi mortis causa, il punto di rilevanza ermeneutica, rispetto alla carica semantica della lingua e delle parole; ma ciò non vuol dire punto che la mens sia tutto e le parole non abbiano da adempiere nessun ufficio: se fosse così, dovremmo anche essere d’accordo nel dire che qualun-que suono inarticolato, purché si sforzi di rappresentare foneticamente un pensiero, potrebbe essere ‘linguaggio’ »); R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, p. 376 (in particolare, che insiste sulla adesione di Celso all’opinione serviana; sul pas-so, più in generale, vd. anche ID., Ancora su D. 33.10.7.2, pp. 83 e ss. = ID., Ancora sul legato di vesti, pp. 157 e ss.); G. GANDOLFI, Studi sull’interpretazione dei negozi giuridici, p. 66, che non mi pare possa essere seguito laddove afferma che « il giuri-sta [= Celso] conclude che non solo l’evidente intendimento del testatore, ma anche

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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L’aver arguito, infatti, che la dizione ‘filius’ — al genere ma-

schile — seguita dall’indicazione al plurare ‘filiisque’, debba consi-

derarsi riferita solamente ai discendenti di sesso maschile (poiché ri-

comprensiva e assorbente, la seconda, rispetto alla prima) viene con-

lo stesso tenore obbiettivo dei verba escludono la soluzione di Servio » (e che il giu-dizio non sia del tutto condivisibile lo mostrerebbe quanto precedentemente espresso dalla stesso Autore in ID., Lezioni sull’interpretazione dei negozi giuridici, p. 22, quando annotava che « nonostante il raziocinio e l’autorità di Tuberone meritino profondo rispetto, Celso non dissente dall’opinione di Servio »); A. WATSON, Mora-lity, Slavery and the Jurists in the Later Roman Republic, p. 296; ID., The Law of Succession in the Later Roman Republic, p. 86 (con bibliografia in nt. 1 sul[l’eventuale] fondamento filosofico della visione contrastante: vd. anche WIE-

LING, op. cit., pp. 38 e ss. — vd., tuttavia, diversa soluzione in A. WATSON, Law Making in the Later Roman Republic, pp. 123 e ss. (p. 124, in particolare); HORAK, op. cit., pp. 225 e ss.; U. JOHN, Die Auslegung des Legats von Sachsgesamtheiten im römischen Recht bis Labeo, pp. 78 e ss.; ancora WIELING, op. cit., p. 42, nonché, ampiamente, R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati, II, pp. 161 e 166 (« Celso a-derisce sostanzialmente a Servio e critica Tuberone »), 167 e 203 in particolare (e vd. anche pp. 182 e ss.); ID., Legato di una categoria economico-sociale, p. 374 e ss. (in risposta critica ai rilievi del Martini, vd. opp. cit. supra); F. WIEACKER, Zur Rolle des Arguments in der römischen Jurisprudenz, pp. 20 nt. 66 e 21 nt. 69 (per indica-zioni bibliografiche sul passo, inteso nel suo complesso); P. STEIN, The Place of Ser-vius Sulpicius Rufus in the Development of Roman Legal Science, p. 178; anora R.M. THILO, Der Codex accepti et expensi im Römischen Recht. Ein Beitrag zur Lehre von der Literalobligation, pp. 154 e ss.; O. BEHRENDS, Gesetz und Sprache. Das römische Gesetz unter dem Einfluß der hellenistischen Philosophie, p. 141 nt. 15 = ID., Institut und Prinzip, I, p. 99 nt. 15; M.A. LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica, pp. 132 e ss. (in particolare); implicitamente G. CALBOLI, Rhé-torique en droit romain, p. 167. Sul passo vd. anche CH. PAULUS, Die Idee der postmortalen Persönlickeit im römischen Testamentsrecht. Zur gesellschaftlichen und rechtlichen Bedeutung einzelner Testaments Klauseln, p. 186.

203 Vd. ancora P. VOCI, s.v. ‘Interpretazione del negozio giuridico (diritto roma-no)’, p. 254 (e nt. 9). Sulla chiusa si vedano anche, emblematicamente, i dubbi critici espressi dall’Albertario — che trovava insopportabile l’espressione, che segnalava in questi scandalizzati termini: « Magis rationabile! » (cfr. E. ALBERTARIO, Contri-buti alla critica del digesto, p. 118), nonché da S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’, pp. 70-71 [= in « Labeo », VII, 1961, pp. 374-375: vd. supra, nt. 95, in fin.], e p. 127.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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siderata da Pomponio — e non certo a torto — come cavillosa e,

quindi, non dotata di adeguata ‘ratio’ 204.

Attraverso il tratto « sed hoc facti, non iuris habet quaestio-

nem » torna anzi, in qualche modo, seppure quale labile eco (ma for-

se non troppo labile), il contenuto del rimprovero mosso, a suo tem-

po, dal pontifex Quinto Mucio a Servio, nell’aneddoto salvato — e

sempre secondo quanto ci riferiscono le parole di Pomponio — in

D. 1.2.2.43: « ... traditur ad consulendum Quintum Mucium de re

amici sui pervenisse... de iure Servius parum intellexisset ...

namque eum dixisse turpe esse patricio et nobili et causas oranti

ius in quo versaretur ignorare » 205.

Del resto, e per concludere, la risonanza profonda dell’atteg-

giamento critico nei confronti del pensiero serviano — sempre in

204 Come si è accennato appena supra, nt. 202, possediamo un altro frammento

in cui Servio sembrerebbe adottare una soluzione differente. Alludo alla versione riportata da Iul. l. de ambig., D. 32.62 [= Pal. Iul. 2; Pal. Serv. 45], vd. infra, cap. II, frg. B.9 . : « Qui duos mulos habebat ita legavit: ‘mulos duos, qui mei erunt cum moriar, heres dato’: idem nullos mulos, sed duas mulas reliquerat. Respondit Ser-vius deberi legatum, quia mulorum appellatione etiam mulae continentur, quemad-modum appellatione servorum etiam servae plerumque continentur. Id autem eo ve-niet, quod semper sexus masculinus etiam femininum sexum continet ».

Stando al contenuto del brano ora riportato parrebbe che Servio avesse adottato, sul punto, una soluzione opposta rispetto a quella criticata da Pomponio nel passo salvato in D. 50.16.122 (laddove si osserva, con molto buon senso, che l’espressione ‘muli’ ricomprenda tanto gli esemplari maschi quanto quelli appartenenti al sesso femminile, così come deve intendersi per l’espressione ‘schiavi’, alludendosi, quin-di, al genus). Queste semplici considerazioni potrebbero far insorgere il dubbio che, anche nell’ipotesi di D. 50.16.122, si celi, in realtà, l’intervento dell’autore dell’en-chiridion teso a screditare, in qualche misura, il pensiero del giurista repubblicano.

205 Alludo al periodo contenuto in Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178], intorno cui vd., ampiamente, supra, § 2. La diversa spaziatura dei caratteri è mia. Ancora più fondata potrebbe essere l’ipotesi proposta nel testo se risultasse ve-ro che tale episodio fu « perhaps derived from Servius’ own writings » (cfr. B.W. FRIER, The Rise of the Roman Jurists, p. 153 [ma vd. nt. 61, per letteratura discor-de]).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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comparazione con quello di Quinto Mucio 206 — mi pare possa esse-

re còlto (sebbene in termini apparentemente sfumati) ancora in un

frammento paolino, ossia in

Paul. XXI ad ed., D. 50.16.25.1 [= Pal. 339; Pal. Q.M. 51;

Pal. Serv. 8 207]: « Quintus Mucius ait partis appellatione rem pro

indiviso significari: nam quod pro diviso nostrum sit, id non partem,

sed totum esse. Servius non ineleganter partis appellatione utrumque

significari » 208.

206 Esistono, infatti, posizioni adesive rispetto all’elaborazione serviana e contro

il parere di Quinto Mucio: si veda, per tutte, la notissima ‘magna quaestio’ in mate-ria di ripartizione dei profitti e delle perdite nella società, registrata da Gai 3.149, da Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30 [= Pal. Paul. 1732; Pal. Q.M. 8; Pal. Serv. 5], e ripresa in Iust. Inst. 3.25.2 (intorno cui vd. F. BONA, Contributi alla storia della ‘societas universorum quae ex quaestu veniunt’ in diritto romano, p. 448 e nt. 104 = ID., Lec-tio sua, I, p. 393 e nt. 104; M. TALAMANCA, s.v. ‘Società (diritto romano)’, pp. 835 e ss.; F. HORAK, Etica della giurisprudenza, p. 181, nonché G. SANTUCCI, La ‘socie-tas’ nella casistica giurisprudenziale romana, p. 154 (implicitamente, e 173 nt. 23); ID., Il socio d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabilità, pp. 35 e ss., ed ora, per il passo gaiano, E. STOLFI, Per lo studio del lessico e delle tecniche di ci-tazione dei giuristi severiani, p. 368 e ntt. 137-138, nonché K.-M. HINGST, Die so-cietas leonina in der europäischen Privatrechtsgeschichte, pp. 63 nt. 172). Vd. an-che infra, cap. II, frg. D.12 . .

Mi pare opportuno segnalare, però, che la differenza tra il passo paolino salvato in D. 50.16.25.1, da un lato, e quello contenuto in Gai 3.149 (con D. 17.2.30 e Iust. Inst. 3.25.2), dall’altro, risiede nel fatto che il primo manifesta un giudizio diretto, espresso dal giurista severiano, sulla definizione serviana, mentre nell’altro viene descritta la nota dissensio giurisprudenziale, che vide (storicamente, e, quindi, come dato di fatto) prevalere l’opinione serviana (« cuius praevaluit sententia », in Gaio e, quindi, nelle Istituzioni imperiali: e vd. STOLFI, op. et loc. ult. cit.) su quella muciana (a prescindere, dunque, da un giudizio di valore).

207 « Ex reprehensis Scaevolae capitibus » (cfr. Aul. Gell., N.A. 4.1.20, e vd. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 323, nonché, supra, nt. 135).

208 Sulla testimonianza si vedano, in particolare, F.C. VON SAVIGNY, Das Obliga-tionenrecht als Theil des heutigen Römischen Rechts, I, p. 315; P. SOKOLOWSKI, Die Philosophie im Privatrecht: Sachbegriff und Korper in der klassischen Jurisprudenz und der modernen Gesetzgebung, pp. 442 e 597 nt. 807 (circa la valutazione della « concezione filosoficamentemente più evoluta » di Servio rispetto a quella di Quin-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Nell’operazione tesa a fissare cosa sia ‘pars’, Paolo accoglie

la soluzione di Quinto Mucio (specificando la ratio stessa: « nam

quod – sed totum esse »).

Il giurista severiano fa, quindi, seguire l’opinione di Servio,

caratterizzandola attraverso una litote (‘non ineleganter’ ), che, a pa-

rere di una parte della dottrina, « come ogni altra figura retorica —

va intesa per quello che è deputata a fare: e cioè ottenere, con la ne-

gazione del contrario, un grado superlativo », per cui, il ‘non inele-

ganter’, corrisponderebbe, secondo questa lettura, ad « elegantissi-

me » 209.

to Mucio vd. G. PROVERA, La pluris petitio nel processo romano, I, p. 39 nt. 21 e vd. anche, ma con critiche sottili, le motivazioni proposte da F. HORAK, Rationes deci-dendi, p. 118 e 230; STEIN, Regulae iuris, p. 45, che, tuttavia, non mi pare così espli-cito sul punto); M. PHILONENKO, Elegantia, pp. 519-520; O. BEHRENDS, Le due giu-risprudenze romane, pp. 205-206. Cfr., infine, anche D. NÖRR, Divisio und partitio, p. 48 e nt. 200a = ID., Historiae iuris antiqui, II, p. 758 nt. 200a, su cui i rilievi di M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, pp. 189-190 nt. 539 (ad altri fini, invece, si occupa di D. 50.16.25.1 anche R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, p. 99 e nt. 24) e, da ultimo, A. VALIÑO, La facul-dad de hipotecar en el condominio romano, pp. 74 nt. 12 e 75 nt. 19. Ancora, sugli aspetti più squisitamente filosofici implicati dal passo, si veda E. BUND, Rahmener-wägungen zu einem Nachweis stoischer Gedanken in der römischen Jurisprudenz, pp. 133-134 e 145.

209 Cfr. L. ZURLI, Dig. 50.16 tra ‘iuris prudentia’ e ‘rhetorica’, p. 30. Tuttavia, anche in un lettura, per così dire, ‘in positivo’ della litote, non si ottiene un risultato tanto entusiastico se stiamo al pensiero espresso dai giuristi romani — e da Servio, in particolare — come si può osservare in Gai. V ad l. XII tab., D. 50.16.237 [= Pal. Gai. 439; Pal. Serv. 86], vd. infra, cap. II, frg. E .17 . : « Duobus negativis verbis quasi permittit lex magis quam prohibuit: idque etiam Servius animandvertit ». Al di là del contesto specifico (legato al commento della normativa decemvirale e alle par-ticolarità del suo linguaggio tecnico) — la cui ricerca pare frustrata dall’opera di riduzione compilatoria (vd. anche O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 245 ad h.l.) — non sembra si possa dubitare dell’adozione di un criterio interpretativo assai prudente, per cui la presenza di due negazioni (così come potrebbe aversi nell’e-spressione non ineleganter, ad esempio) ha, sì, valore positivo, ma che va accolto con qual certa circospezione (« quasi permittit – quam prohibuit »), tanto che è lo stesso Servio — ricordato da Gaio — ad animadvertere tale concetto, ossia a ‘soste-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Mi permetto di dissentire, sul punto, da quanto ora riportato:

intanto in questo giudizio si è considerata soltanto la parte finale del

passo (« Servius – significari »), operando, in questo modo, una de-

contestualizzazione del brano, la cui struttura, al contrario — ripeto

— mostra la preferenza paolina per il pensiero muciano.

In secondo luogo, la lettura qui discussa omette di ricordare,

come è stato invece autorevolmente sostenuto, che « l’effetto » della

litote « è, non di rado […], ironico » e può corrispondere ad una « i-

ronia di dissimulazione » ossia ad « una metafora ironica » 210, con-

traria, quindi, alla finalità della lode.

Certo, in questa sede, non sembra che Paolo abbia inteso

‘prendersi gioco’ dell’opinione serviana; eppure, nel confronto tra

quest’ultima e quella di Quinto Mucio, il giurista opta a favore della

soluzione sostenuta da Servio 211, limitandosi, con molta prudenza,

nere’ (più come opinio che come statuizione; cfr., in questi termini, anche Iul. XXIII ad ed., D. 37.5.6 [= Pal. Iul. 372] e Ulp. XXXII ad Sab., D. 24.1.11.2 [= Pal. Ulp. 2768]), che così, in genere, pare volere la lex. Sul passo gaiano vd., in particolare, M. LAURIA, Ius romanum, I.1, p. 44; P. STEIN, Regulae iuris, p. 62 (quale segno del-l’interesse, peculiare in Servio, « in linguistic problems ») e, in particolare, B. ALBA-NESE, Su alcuni frammenti di Gaio ‘al legem XII Tabularum’, pp. 191 e ss., con la consueta acuta disamina delle tesi altrui sul possibile riferimento a norme del codice decemvirale del principio enunciato in D. 50.16.237 (i.e. a XII Tab. 9.2: cfr. M.H. CRAWFORD [ed.], Roman Statutes, II, p. 699).

210 Così, limpidamente, B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica 8, p. 178. 211 Questa conclusione è resa ancor più credibile dal fatto che Paolo dimostra —

oltre che, altrove, apprezzamento per le soluzioni serviane (come in Paul. L ad ed., D. 40.4.35 [= Pal. Paul. 641; Pal. Serv. 62], vd. infra, cap. II, frg. D.10 . ) — molta autonomia nei confronti del pensiero muciano. A partire, infatti, dalla implicita ap-provazione delle tesi di Quinto Mucio testimoniata da Paul. X ad Sab., D. 9.2.31 [= Pal. Paul. 1807], si passa attraverso la registrazione del netto prevalere dell’opinione serviana su quella muciana in Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30 [= Pal. Paul. 1732] (sul passo vd. supra, nt. 182 e infra, cap. II, frg. D.1 2 . ) — e cfr. Gai inst. 3.149 ed Inst. 3.25.2, sulle cui differenze si veda, per tutti, F. BONA, Studi sulla società consensuale in diritto romano, p. 33-34 e, in generale, G. SANTUCCI, Il socio d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabilità, p. 35 ss. — e attraverso le precisazioni, che paiono proprie del giurista severiano, contenute in Paul. L ad ed.,

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D. 40.12.23 pr. [= Pal. Paul. 642], per giungere al fulminante rigetto del parere (re-sponso) muciano in Paul. LIV ad ed., D. 41.2.3.23 [= Pal. Paul. 659] in quanto defi-nito ‘ineptissimum’ (in altre parole, addirittura ‘sconsiderato’ — sempre ammetten-do, per brevità, che il giudizio di valore sia paolino poiché tale aggettivo, alla forma superlativa, non trova altro riscontro che nel passo ora segnalato; nulla, tuttavia, an-notano in proposito E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, III, col. 184 ad h.l.).

L’analisi dei riferimenti paolini all’opera di Quinto Mucio richiede, a mio giudi-zio, che si osservi anche quanto accade, per contro, nella scrittura ulpianea, dove assai più neutre si manifestano le citazioni del giurista repubblicano. Ulpiano, infatti, ne propone, in genere, il contenuto dispositivo senza esprimere giudizi di valore (co-me può essere, al contrario, quello, in ogni caso improntato a moderazione, di Iul. XXXII dig., D. 33.5.9.2 [= Pal. Iul. 465]: « puto Mucianae sententiae adsentien-dum » [e v. appena infra, a proposito di D. 26.1.3 pr.], ovvero quelli spesso laudatori di Pomponio (abbastanza intuitivamente, visti i termini contenuti in Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.41 [= Pal. Pomp. 178: « Post hos Quintus Mucius Publii filius pontifex ma-ximus ius civile primus constituit generatim in libros decem et octo redigendo »], con uno stile opportunamente segnalato, da ultimo, da E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, pp. 330-331 e nt. 72): cfr. Pomp. V ad Q.M., D. 34.2.10 [= Pal. Pomp. 244]: « tunc aeque erit vera Quinti Muci sententia »; Pomp. IX ad Q.M., D. 34.2.34.2 [= Pal. Pomp. 261]: « tunc rectissime scribit Q.M. »; Pomp. XXVI ad Q.M., D. 8.2.7 [= Pal. Pomp. 294]: « Mucius ait, et recte,… », nonché, an-cora, Pomp. XXXVIII ad Q.M., D. 47.2.77.1 [= Pal. Pomp. 322]: « haec Q.M. refert et vera sunt » — naturalmente limitandosi lo studioso, in quella sede, a considerare solamente le menzioni dirette — intorno cui si veda ancora STOLFI, op. cit., p. 309 e ss. [p. 313 nt. 29, in particolare, ove si segnala, inoltre, l’eccezione rappresentata da D. 34.2.34.pr., già registrata supra, nel testo].

A questi casi, io aggiungerei — in un’ottica di implicita approvazione — anche Pomp. V ad Q.M., D. 24.1.51 [= Pal. Pomp. 245], nonché Pomp. XVII ad Q.M., D. 9.2.39 [= Pal. Pomp. 274], ove l’apprezzamento per la soluzione muciana si de-sume dal commento (in particolare: « sed – recipiat »). Parimenti di valutazione po-sitiva risultano le parole di Cels. VII dig., D. 17.1.48 [= Pal. Cels. 68]: « hoc bene censuit Scaevola »; Cels. VIII dig., D. 18.1.59 [= Pal. Cels. 75]: « verum est, quod Quinto Mucio placebat » o ancora Cels. XXXIX dig., D. 50.16.98.1 [= Pal. Cels. 274], forse ridotto da esigenze compilatorie, ove non risulta essere approvata espres-samente — ma neppure respinta — l’opinio muciana; al contrario, in Iavol. II ex post. Lab., D. 32.29.1 [= Pal. Iavol. 171 Labeo; Pal. Serv. 43 – vd. infra, cap. II, frg. D .1 . ] si evince la preferenza accordata alla tesi di Servio e Ofilio contro quel-la di Q. Mucio e Gallo: tuttavia, Iavol. IV ex post Lab., D. 40.7.39 pr. [= Pal. Iavol. 196; Pal. Serv. 65 – vd. infra, cap. II, frg. E .2 . ], presenta l’inversione dei ruoli: Mucio e Gallo prevalgono su Servio e Ofilio — sebbene con un distinguo; una ap-provazione implicita parrebbe presente in Pap. II quaest., D. 45.1.115.2 [= Pal. Pap.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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79], mentre soltanto in Mod. III reg., D. 49.15.4 [= Pal. Mod. 208], non è possibile capire chi sia — tra Bruto e Quinti Mucio — il latore della tesi che prevalse: « Eos, qui ab hostibus capiuntur vel hostibus deduntur, iure postliminii reverti antiquitus placuit. An qui hostibus deditus reversus nec a nobis receptus civis Romanus sit, inter Brutum et Scaevolam variae tractatum est: et consequens est, ut civitatem non adipiscatur » — e cfr. Pomp. XXXVII ad Q.M., D. 50.7.18(17) [= Pal. Pomp. 320] — né di più si ottiene, dato il rinvio ad una trattazione che non ci è pervenuta [cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 219 nt. 2 e col. 251, frg. 481], da Gai inst. 1.188, in materia di species tutelarum ).

Il giurista di Tiro, invece, si limita generalmente ad amplificare la portata della muciana sententia: cfr. Ulp. IV disp., D. 28.5.35.3 [= Pal. Ulp. 87], con ampliamen-to della relativa riflessione; Ulp. XVIII ad ed., D. 9.1.1.11 [= Pal. Ulp. 607], adesi-vamente; Ulp. LXXI ad ed., D. 43.24.5.8 [= Pal. Ulp. 1593]; Ulp. XVII ad Sab., D. 7.8.4.1 [= Pal. Ulp. 2575], con deduzione aderente di Ulpiano rispetto al parere che Quinto Mucio « primus admisit »; Ulp. XVIII ad Sab., D. 35.1.7 pr. [= Pal. Ulp. *2595], sulla specificazione circa ciò in cui « consistit » la « utilitas Mucianae cau-tionis »; Ulp. XXII ad Sab., D. 33.9.3 pr. e § 9 [= Pal. Ulp. 2641], in materia defini-toria ‘de penu legata’; Ulp. XXV ad Sab., D. 32.55 pr. [= Pal. Ulp. 2679], con e-stensione del parere muciano attraverso argomento per induzione; Ulp. XXVIII ad Sab., D. 18.2.13 pr. [= Pal. Ulp. 2711], soltanto per relationem di opinioni giuri-sprudenziali; Ulp. XXX ad Sab., D. 17.2.7.11 [= Pal. Ulp. 2739], ove si completa, attraverso Q. Mucio, ciò che Sabino « non adiecit » (cfr. eod. § 9); Ulp. XLIV ad Sab., D. 34.2.27 pr. [= Pal. Ulp. *2915], in cui si ha una semplice definizione di ‘ar-gentum factum’ (in ordine a cui cfr. anche Ulp. XX ad Sab., D. 34.2.19.9-10 [= Pal. Ulp. 2606], con dilatazione della definizione del giurista antico). Non mi risulta, poi, vi siano casi di rigetto da parte di Ulpiano, il quale, inoltre, presenta un significativo frammento (Ulp. XXII ad Sab., D. 33.9.3.6 [= Pal. Ulp. 2641; Pal. Serv. 7 – vd. in-fra, cap. II, frg. E .37 . ], che sarebbe interessante leggere tenendo presente — ra-tione disputatae materiae — Alf. VII dig. ab anon. ep., D. 50.16.203 + D. 34.2.28 [= Pal. Alf. 29] — e cfr. anche, per il ‘thema serviano’ delle schiave tessitrici, Alf. II dig. a Paul. epit., D. 33.7.16.2 [= Pal. Alf. 44; Pal. Serv. 49 Pal. Serv. 49 – vd. infra, cap. II, frg. A.1 . ]), in cui, dopo aver posto a confronto l’elaborazione muciana e quella serviana, ribadisce, attraverso una replica in precisazione, il pensiero di Mu-cio, ma in evidente adesione (simile struttura in Ulp. LIII ad ed., D. 39.3.1.3-4 [= Pal. Ulp. 1285]); ovvero, ancora, Ulp. XXVIII ad ed., D. 13.6.5.3 [= Pal. Ulp. 802], ove ‘verior est Quinti Mucii sententia’ (mentre già « vera est Q.M. sententia » in Venul. XVI stipul., D. 21.2.75 [= Pal. Venul. 73]: su quest’ultimo aspetto si veda ancora STOLFI, Per uno studio del lessico e delle tecniche di citazione dei giuristi severiani, p. 367 e ntt. 130-132, che rinvia pure, puntualmente, ad Ulp. XXXVII ad Sab., D. 26.1.3 pr. [= Pal. Ulp. 2836], in cui il giurista si adegua, a sua volta, all’ap-

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non disgiunta da una certa tortuosità, ad asserire che quella di Servio,

alla lettera, ‘non è scelta male’ (letteralmente ‘non è scelta non-

bene’, poiché si consideri che eleganter non costituisce un mero giu-

dizio di valore, ma si rifà, al contrario, al concetto di ‘scelta’ [elige-

re] 212 di una opinione su altre logicamente concorrenti e che, per di

più, ineleganter significa ‘scegliere non-bene’ o ‘non-scegliere be-

ne’) 213.

provazione giulianea di una Mucii sententia [e si veda ancora supra, a proposito di D. 33.5.9.2]).

212 Si veda, espressamente, F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissen-schaft, p. 64 nt. 6 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 106 nt. 6 (cfr. ID., History of Roman Legal Science, p. 54 nt. 3; e vd. infra, nt. seguente).

213 Sul significato di eleganter — quale condivisibile (e valorizzata) opera di di-scernimento (dal verbo ‘eligo’, appunto) tra più soluzioni ipoteticamente praticabili — si veda, recentemente, T. DALLA MASSARA, Alle origini della causa del contratto. Elaborazione di un concetto nella giurisprudenza classica, p. 101 e nt. 119 (che ri-manda, tra altro, a F. BONA, Studi sulla società consensuale in diritto romano, p. 129 e nt. 77, per il quale ‘eleganter’ sarebbe stato un ‘Lieblingswort’ ulpianeo; il Dalla Massara, che si adegua alla lettura tradizione dell’avverbio analizzato [su cui vd. infra, in questa nota], avrebbe, forse, potuto approfondire il prosieguo del pensiero del Maestro pavese, ove questi sottolineava, per primo, che « con ‘eleganter’ […] il giurista non qualifica quasi mai l’eleganza stilistica, la purezza del linguaggio dei diversi giuristi che richiama, ma solitamente la soluzione suggerita in contrapposi-zione con altra, la maggior adeguatezza del nuovo pensiero, talvolta la posizione di una stessa quaestio », e cfr. « VIR. », II, col. 456 ad h.v.). Si veda, invece, E. STOL-

FI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, pp. 119-125 e ID., Per uno studio del lessico e delle tecniche di citazione dei giuristi severiani, pp. 352-353 e nt. 35, con critica pertinente del pensiero corrente e, in modo particolare, di quello di M. PHI-

LONENKO, Elegantia, pp. 525-526 e nt. 3, giudizio che, appunto, potrebbe estendersi, a mio parere, anche alla simile posizione assunta da T. HONORÉ, Ulpian. Pioneer of Human Rights 2, p. 72 [~ p. 80, I ed.], il quale afferma, a proposito di Ulpiano, che egli « is a neat and lucid, rather than [not, I ed.] an ‘elegant’, writer, but he admired ‘elegance’. He uses the adverb in 39 texts [add. out, I ed.] of the 42 in which it oc-curs in the Digest » (gli apici sono miei); e così, e.g., anche N.D. LUISI, Considera-zioni sulla determinatezza normativa della legislazione romana in materia di crimen repetundarum, p. 169, il quale — con riferimento ad Ulp. I de off. proc., D. 1.16.6.3 [= Pal. Ulp. 2145] — trasferisce, sul piano della versione, la duplice espressione ‘e-legantissime epistula’ (« quam rem divus Severus et imperator Antoninus e legan-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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t i ss ime ep is tu la sunt moderati ») per mezzo di un non certo ineccepibile, unifi-cante complemento di mezzo (« con un’elegantissima epistola imperiale ») [la spa-ziatura dei caratteri, nella citazione, è mia].

Va detto, tuttavia, che tali soluzioni potrebbero valersi in qualche misura — ma soltanto all’interno di un contesto agiuridico — della definizione di Auct. ad Her., Rhet. 4.12.17, secondo cui: « elegantia est, quae facit, ut locus unus quisque pure et aperte dici videatur », e vd. anche — come riferito a Servio — Cic., Ad fam. 4.4.1 [CCX]: « Et ego ipse, quem tu per iocum (sic enim accipio) divitias orationis habere dicis, me non esse verborum admodum inopem agnosco: e„rwneÚesqai enim non necesse est; sed tamen idem (nec hoc e„rwneuÒmenoj) facile cedo tuorum scripto-rum subtilitati et elegantiae ».

Sul tema generale si osservino, già in precedenza, P. GEIGENMÜLLER, Quaestio-nes Dionysianae de vocabulis artis criticae [Diss. Phil.], p. 30; M. RADIN, Eleganter, p. 312 ss.; G. SCIASCIA, Elegantiae iuris, p. 372 ss.; P. STEIN, Elegance in Law, pp. 242 ss. = ID., The Character and Influence of the Roman Civil Law. Historical Es-says, pp. 1 e ss.; C.A. MASCHI, La critica del diritto nell’ambito degli ordinamenti giuridici romani, pp. 734 ss.; C. CASTELLO, Tre norme speciali romane in tema di filiazione, pp. 340-347, citato in proposito, a quanto mi risulti, soltanto da R. MAR-

TINI, Le definizioni dei giuristi romani, pp. 79-80 e nt. 44; G. MELILLO, In solutum dare. Contenuto e dottrine negoziali nell’adempimento inesatto, pp. 30-31 e nt. 68 (con interessante difesa della classicità delle espressioni censite, contro l’ipercritici-smo di G. BESELER, Romanistische Studien [in « ZSS. rom. Abt. », LIV, 1934], pp. 19-20, che colpiva, in particolare, ma senza fondamento nelle fonti, le espressioni ‘ait, aiebat, aiebant’, coinvolte dal tema; di F. EBRARD, Die Lehre von Rechtsschu-len und Rechtsliteratur römischer Juristen im Licht eines vorjustinianischen Dige-stentitels, p. 131 nt. 2 [indistintamente anche contro l’unione con i verbi ‘dicere’, ‘definire’, ‘scribere’, ‘tractare’, ‘distinguere’], e infine di U. VON LÜBTOW, Der E-diktstitel ‘Quod metus causa gestum erit’, p. 116 nt. 72); H. ANKUM, Towards and Rehabilitation of Pomponius, pp. 3 e 12 nt. 9; ID., Elegantia iuris, p. 137 ss. = « AHFD. », XXVIII, 1972, pp. 341 ss.; ID., Julianus eleganter ait, p. 1 ss.; H. AL-

DINGER, Zur Bedeutung des Begriffs ‘eleganter’ in den römisch-rechtlichen Quellen [Diss.], passim; F. BONA, Studi sulla società consensuale, p. 129 e ntt. 77-78; H. HAUSMANINGER, Publius Iuventius Celsus: Persönlichkeit und juristische Argumen-tation, p. 389 ss.; A. DIAZ BIALET, ‘Elegantia’, p. 165 ss.; A. CARCATERRA, Conce-zioni epistemiche dei giuristi romani, p. 60-63, che tratta dell’espressione nei termini di forma di « elogio della ‘capacità inventiva’ d’un giurista »).

Quale ‘elegantia’ nella lettura dottrinale, ove il termine è considerato sinonimo di raffinatezza di pensiero, si vedano, infine, G. VAN DEN BERGH, Cheese or Laven-der? Elegantiae Circa D 8.5.8.5, p. 185 ss., A. CENDERELLI, Una ‘elegantia’ di Se-sto Pedio: D. 3,5,5,11-13, pp. 143 ss. nonché F. GALLO, La ‘verità’: valore sotteso alla definizione celsina del diritto, pp. 83 (implicitamente), 94 e 97 (e cfr. Ulp. I

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inst., D. 1.1.1 pr. [= Pal. Ulp. 1908]). Con riferimento all’avverbio eleganter, conte-nuto in Ulp. XXIV ad ed., D. 10.4.3.11 [= Pal. Ulp. 719], parla, invece, di « rifles-sione colta » — ma non mi sembra che tale identificazione, al di là della pregevole ricercatezza espressiva, si addica al termine analizzato — L. PELLECCHI, La prae-scriptio. Processo, diritto sostanziale, modelli espositivi, p. 109 nt. 29. Da ultimo, intorno a Paul. XXI ad ed., D. 50.16.25.1 [= Pal. Paul. 339], vd. CH. BALDUS, Dritt-berechtigung und Untergang des Objekts: Eine Lehre vom Rechtsobjekt bei Claudi-us Tryphoninus? [in « RDR. », V, 2005 – online], nt. 50 [dal manoscritto gentilmen-te offerto dall’Autore]. Anche C. GIACHI, Studi su Sesto Pedio. La tradizione, l’editto, pp. 223-224 nt. 241, si è occupa ampiamente del tema, con osservazioni in parte originali (sebbene sembri adeguarsi, nella sostanza, alla lettura consueta). L’Autrice, infatti, a proposito del termine oggetto di queste riflessioni, offre una in-teressante distinzione tra l’uso dell’avverbio (mi pare di capire, in senso generale) quale segno di « un atteggiamento di vera e propria valutazione positiva » (p. 223 nt. 241) — e questo è il concetto che comunemente viene isolato dalla dottrina — e le varie manifestazioni in cui, concretamente, si esplica il « giudizi[o] di valore di di-scorsi giuridici […] che si articola a livello puramente estetico » e, poi, anche attra-verso la mediazione delle retorica, quale « elegantia del ragionamento ». Per questo — sulla scorta del pensiero dello Stein — la Giachi osserva che, « per i giuristi, l’e-leganza è una questione di idee e non di parole » (forse, meglio, più di formulazione di soluzioni e di definizioni, da un punto di vista anche sostanziale, che di termini positivamente adottati).

Detto tutto questo incidentalmente, mi sembra opportuno riportare la varie cate-goria in cui l’avverbio selezionato è stato inserito, invece, da H. ALDINGER, Zur Be-deutung des Begriffs ‘eleganter’ in den römisch-rechtlichen Quellen, proprio in ra-gione del fatto che l’‚Inaugural-Dessertation‘ dell’Autore heidelbergense (della qua-le furono relatori Karlheinz Misera e Hubert Niederländer) è sfuggita — o, assai più probabilmente, è risultata irreperibile in ragione della sua naturale limitata ‘tiratura’ (non è censita, infatti, neppure in « BIA. ») — a coloro che si sono occupati, expres-sis verbis, del tema, mentre si tratta dell’unica monografia, a mia conoscenza, e che si propone di analizzare la questione sotto un profilo complessivo.

Dopo una prima sezione dedicata alla storia del significato del termine (nelle fonti non giuridiche e in quelle giuridiche) — in cui un posto centrale è occupato dal celeberrimo testo di Ulp. I inst., D. 1.1.1 pr. [= Pal. Ulp. 1908], a cui l’Autore acco-sta Pomp. VI ad Sab., D. 34.2.21.1 [= Pal. Pomp. 489], non giuridicamente signifi-cativo sul punto — e all’impiego dello stesso quale sintomo dell’apprezzabilità di qualità contenutistiche o formali (ossia secondo la opinio più frequentata dagli autori moderni) — come in Ulp. I de off. proc., D. 1.16.6.3 [= Pal. Ulp. 2145] (già visto più sopra, in questa stessa nota) e in Ulp. XI ad ed., D. 4.3.7 pr. [= Pal. Ulp. 385] — l’Aldinger offre una seconda sezione, che si occupa, rispettivamente, del termine in ordine al giudizio sulla trattazione differenziata di un problema giuridico di fondo

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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(cfr. Ulp. IV ad ed., D. 2.14.10 pr. [= Pal. Ulp. 245] ed Ulp. XL ad ed., D. 37.8.1.16 [= Pal. Ulp. 1128]); di quello sulla enucleazione di una fattispecie per indivuare l’appartenenza dogmatico-teoretica di una questione particolarmente complessa (cfr. Ulp. XX ad ed., D. 10.3.7.13 [= Pal. Ulp. 642]; Ulp. XXX ad ed., D. 13.7.24 pr. [= Pal. Ulp. 903] — con la singolare forma « eleganter apud me quaesitum est, si… » — e Ulp. XLIII ad Sab., D. 17.1.19 [= Pal. Ulp. 2900]) o sulla formulazione di un ‘caso-limite’ (se vedo bene, correttivo della regola generale [cfr. § 3 D. 10.2.18], come in Ulp. XIX ad ed., D. 10.2.18.4 [= Pal. Ulp. 633] e in Ulp. XXXI [XXXII, recte Haloander e Lenel] ad Sab., D. 24.1.7.4 [= Pal. Ulp. 2766]). Una ter-za sezione — la più ampia — è deputata, infine, a presentare l’uso del termine stesso (‘eleganter’) nella veste di soluzione dei problemi — sotto il profilo della semplicità della stessa (cfr. Ulp. IV ad ed., D. 2.14.7.10 [= Pal. Ulp. 245]; Ulp. V fideicomm., D. 40.5.30.14 [= Pal. Ulp. 1893]; Ulp. XXVIII ad Sab., D. 18.2.4.5 [= Pal. Ulp. 2708]; Ulp. XXIX ad Sab., D. 21.2.21.1 [= Pal. Ulp. 2727], ove si ha una definizio-ne; Ulp. XXX ad Sab., D. 17.2.14 [= Pal. Ulp. 2740]; Ulp. XXXVI ad Sab., D. 24.3.14.1 [= Pal. Ulp. 2803], anche se, a mio giudizio, a parte D. 21.2.21.1, la inquadratura dei passi potrebbe risultare un poco più complessa rispetto a quella data dall’Autore), o della soluzione per mezzo di distinzioni (sebbene non sempre sia chiaro il concetto di ‘distinzione’, e, soprattutto, il criterio unificante cui l’Autore riconduce i passi — nonostante le premesse generali di p. 84: cfr., infatti, Pomp. XX epist. [et var.], D. 26.7.61 [= Pal. Pomp. 210], qui nella forma comparativa « ele-gantius »; Pomp. II ad Q.M., D. 32.85 [= Pal. Pomp. 226], sebbene in questo luogo l’espressione sia, più propriamente, « et ideo elegans est illa distinctio »; Ulp. IV disp., D. 29.2.40 [= Pal. Ulp. 90]; Ulp. XXX ad ed., D. 16.3.1.33 [= Pal. Ulp. *896]; Ulp. XXXVIII ad ed., D. 13.1.12.1 [= Pal. Ulp. 1058]; Ulp. XXIV ad Sab., D. 32.52.7 [= Pal. Ulp. 2661]; Ulp. XLI ad Sab., D. 9.2.41.1 [= Pal. Ulp. 2863]) o dell’analogia (cfr. quella, suggestiva, tra il peculio e l’uomo di Papirio Frontone in Marcian. V regul., D. 15.1.40 pr. [= Pal. Marcian. 276]; mentre risulta essere mag-giormente celata in Ulp. IV fideicomm., D. 36.1.17(16).6 [= Pal. Ulp. 1880]) o dell’argomento ‘per assurdo’ (o, comunque, spinto alle conseguenze estreme: cfr. Gai. I ad ed. prov., D. 2.2.4 [= Pal. Gai. 58], ove il giudizio è rivolto alla clausola pretoria, più che al ragionamento in sé considerato; Gai. VI ad leg. XII Tab., D. 22.1.19 pr. [= Pal. Gai. 440], qui, però, forse più prossimo al significato di ‘ra-gionevolmente’ [« … neque usus fructus rursus fructus eleganter computabitur »]; si veda anche quello che, a mio parere, è l’interessantissimo Ulp. III ad ed., D. 5.1.2.5 [= Pal. Ulp. 213], poiché la forma in esame (‘eleganter’ ) accompagna un secondo parere, successivo ad un primo, definito con ‘quod verum est’, dal che se ne deduce che l’avverbio in oggetto, almeno sul punto, conferma la tesi secondo cui il suo uso costituisca lo strumento logico e linguistico ritenuto idoneo ad apportare una correzione persino a ciò che risulta essere, di per sé, ‘conforme alla realtà delle cose’ (ossia, appunto, ‘vero’, e quindi a ricondurre a ciò che è ‘scelto bene’); Ulp. X ad

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ed., D. 3.5.9(10).1 [= Pal. Ulp. 354], assai interessante poiché il giudizio sull’essere eleganter del parere di Celso è correlato al fatto che, a sua volta, quest’ultimo « i-stam sententiam […] deridet » evidentemente per la sua paradossalità (tanto è vero che, nel caso di specie — ipotesi limite di gestione di affari altrui — il giurista si spinge ad affermare che « istam sententiam Celsus eleganter der idet [sic!] », for-ma verbale, quest’ultima, impiegata, complessivamente, soltanto due altre volte, ri-spettivamente ancora dal giurista di Tiro e da Paolo: cfr. « VIR. », II, col. 183, s.v. ‘derideo’); Ulp. XI ad ed., D. 4.2.9.1 [= Pal. Ulp. 372]: ivi il concetto di ‘electio’ è palese, poiché riflette il giudizio circa l’interpretazione ‘restrittiva’ operata da Pom-ponio in ordine alla portata, riferita come di per sé ‘generale’, della clausola pretoria ‘quod metus causa’ ; Ulp. XIII ad ed., D. 4.8.21.11 [= Pal. Ulp. 460], ancora di mol-to interesse, vuoi per il rapporto instaurato tra ‘eleganter’ e ‘recte’, vuoi per l’esplicita affermazione che il ragionamento è portato alle estreme proporzioni (« absurdum enim esse iussum in alterius persona ratum esse, in alterius non »); Ulp. XXIV ad ed., D. 10.4.3.11 [= Pal. Ulp. 719]: nonostante vi si affermi che « e-leganter igitur def in i t Neratius », la testimonianza non sfugge alla catalogazione fino ad ora condotta — il concetto di ‘definire’ viene attratto, infatti, dalla modalità dell’essere ‘eleganter’ e approda al significante di operare una scelta (sempre in un àmbito dialettico di ‘ragionamento per assurdo’, che finisce per non poter essere conforme alla realtà delle cose: si veda, infatti, la pregevole costruzione « sed hoc non sufficit: alioquin et qui... cum neque... neque... et... quod nequaquam verum est »); Ulp. XXXIV ad ed., D. 25.3.1.10 [= Pal. Ulp. 981], anche se, nel caso, l’argomentazione non mi pare portata all’eccesso (e parrebbe rappresentare piuttosto il concetto di opportunita nell’analisi del problema giuridico, a prescindere dalla so-luzione data); ancora, della finzione (cfr. Ulp. VIII disp., D. 35.2.82 [= Pal. Ulp. 144]; Ulp. XXIX ad ed., D. 15.1.9.4 [= Pal. 852], a proposito del quale, tuttavia, GIACHI, op. ult. cit., p. 554, si esprime in questi termini « ... la formulazione pediana era giudicata da Ulpiano elegante », tornando all’ambigua lettura tradizionalmente offerta dalla dottrina; Ulp. XVII ad Sab., Vat. Fragm. 77 – D. 7.2.1.3 [= Pal. Ulp. 2563]) — per chiudere con l’uso di eleganter quale sintomo di giudizio verso ‘deci-sioni relative a posizioni in equilibrio’ [ — o, forse, ‘in bilico’ — così credo sia pos-sibile rendere la rubrica del lavoro del’Aldinger — che può essere giudicata come singolare — « Entscheidungen bei Schwebelagen »] (cfr. Maecian. II fideicomm., D. 46.3.103 [= Pal. Maecian. 13], ove si afferma che « Iulianus elegantissime pu-tat » (anche se non mi paiono convincenti le motivazioni dell’Autore tedesco circa l’appartenenza alla categoria dallo stesso enucleata [cfr. ID., op. cit., pp. 166 e ss.]; Ulp. L ad ed., D. 29.5.1.12 [= Pal. Ulp. 1235], che pare, invece, dimostrare maggior aderenza alla classificazione ora enunciata, sebbene possa anche soltanto rappresen-tare un caso di estensione della regula iuris (decidendosi, infatti e in tema di SC. Silaniano e Claudiano, per la sottoposizione a tortura e a supplicium dei servi, quan-do sia stato ucciso il filius familias, trovandosi il di lui pater in prigionia di guerra, o

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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morto anche quest’ultimo e prima che il figlio ne divenisse erede. Cfr., infatti, D. 29.5: in altri termini, si trattava di estendere la portata del provvedimento senato-rio mirato a sanzionare il comportamento dell’erede che adisse l’eredità, o procedes-se all’apertura delle tavole testamentarie sigillate, prima che fosse eseguito l’interrogatorio mediante tortura degli schiavi presenti nell’abitazione del testatore, morto per mano altrui. Per effetto del senatoconsulto Silaniano (dell’anno 10 d.C.: vd. E. VOLTERRA, s.v. ‘Senatus consulta’, p. 1064; cfr., però, D. DALLA, Senatus consultum Silanianum, p. 30), infatti, si intendeva raggiungere la prova che gli schiavi fossero stati nell’impossibilità di soccorrere il dominus agonizzante, poiché, diversamente sarebbero stati messi, a loro volta, a morte. Va da sé che — con ri-guardo all’illecito commesso dall’erede — lo scopo della norma era di accertare se questi avesse, in qualche modo, partecipato al-l’omicidio onde poter succedere al de cuius. Nel caso di specie, la soluzione estensiva della regola di partenza al caso del figlio non ancora divenuto erede, soluzione avanzata da Scevola — contro l’opposta, restrittiva, evidentemente circolata negli ambienti giurisprudenziali, anche solo in termini di ipotesi — viene giudicata positivamente, come ‘buona scelta’, da Ulpia-no: « eleganter Scaevola ait »; sul tema mi permetto di rinviare, da ultimo, alla voce enciclopedica di M. MIGLIETTA, ‘Azione popolare’, nt. 16 [e testo di riferimento]); Ulp. LIII ad ed., D. 39.2.15.28 [= Pal. Ulp. 1278]), in cui l’elegantia cade, invece, sull’azione del quaerere (ossia « eleganter quaeritur... », et rell.), ed è questo, a mio parere, l’unico brano che risponde in forma più aderente all’idea della ‘Entscheidung bei Schwebelagen’ isolata dall’Aldinger (il caso, infatti, riguarda gli effetti del dan-no effettivamente avveratosi nelle more della deliberazione del magistrato in un pro-cedimento per damnum infectum e se il primo sia, pertanto, risarcibile; è, dunque, senz’altro ‘raffinata (elegans)’ la questione giuridica individuata — qui l’avverbio potrebbe anche raffigurare un giudizio di valore, in sé considerato — ma certo, an-che sintatticamente [« eleganter quaeritur, si... an... »], rimanda ad un punto cruciale della discussione ‘sapientemente individuato [ergo: scelto]’ dai giuristi); con ritorno al pensiero fondamentale, cfr. il noto passo di Ulp. IV ad ed., D. 2.14.1.3 [= Pal. Ulp. 240], laddove « ut eleganter Pedius dicat nullum esse con-tractum, nullam o-bligationem, quae non habeat in se conventionem » (il che è vero, trattandosi, com’è noto, di una regula relativa a ‘pacta et conventiones’ [E. IV.10]); Ulp. XXXVIII ad ed., D. 13.1.12 pr. [= Pal. Ulp. 1058], con la costruzione, degna di segnalazione, « et ideo e leganter Marcellus de f in i t libro septimo: a i t en im: si... sed et si... »; Ulp. XLIII ad Sab., D. 12.6.23 pr. [= Pal. Ulp. 2897], ancora una volta — come vi-sto appena supra — si ha l’unione di ‘eleganter’ con ‘quaerere’ [« Eleganter Pom-ponius quaerit, si... an... Et ait... »], ma non muta la sostanza della affermazione, come mostra « et ait... », che segue alla (‘opportunamente individuata’: vd. avver-bio) proposizione della quaestio iuris; Ulp. XLI ad Sab., D. 47.2.7.1 [= Pal. Ulp. 2875], con disposizione ‘eleganter’ e ‘scribere’, il cui interesse mi pare dato, soprat-tutto, dal fatto che — approvata la soluzione scelta da Pomponio — Ulpiano fa se-

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La litote paolina 214 cela, dunque, a mio parere, una modula-

zione stilistica assai più complessa di quanto la dottrina abbia finora

voluto scorgere (e questo a prescindere da problemi contenutistici del

testo in sé considerati) 215.

guire [al § 2 D. eod.] una correzione celsina: « Pomponius eleganter scripsit... Sed Celsus... adicit »): qui, però, non è immediata la comprensione del fatto se la addic-tio sia a quanto sostenuto da Pomponio [« deprehensione fieri manifestum furem »], o se anche il prosiego del § 1 sia dello stesso giurista [« ceterum si cum tibi... », et rell.] e non già invece di Ulpiano stesso [ma io propenderei per questa seconda ipo-tesi, essendo le due parti del discorso separata da caeterum, che suggerisce un inter-vento altrui a commento del precedente]. Se quanto sostenuto può essere accettato, allora ciò che Celsus adicit non modifica, di per sé, la regula pomponiana, che man-tiene, pertanto, la sua validità e il giudizio positivo che le è stato riservato. In caso contrario, si dovrebbe ammettere che l’autore dell’enchiridion abbia ‘scelto bene’, ma, per così dire, logicamente ‘non troppo’, se è accolta anche la messa a punto cel-sina); si veda, infine, come ‘soluzione del problema’, Ulp. IV ad ed., D. 2.14.7.2 [= Pal. Ulp. 242], con il celeberrimo responsum di Aristone in tema di causa obliga-tionis e sun£llagma, nonché Ulp. XXXII ad ed., D. 18.3.4.2 [= Pal. Ulp. 937], in cui l’avverbio di nostro interesse è appena successivo all’uso della non frequente aggettivazione di una sententia Neratii (contenuta in § 1 D. eod.) come « humana » (e appena prima definita come dotata di ‘ratio’ [« sed quod ait Neratius habet ratio-nem... igitur sententia Neratii tunc habet locum, quae est humana... Eleganter Papi-nianus libro... scribit... », et rell.]), che potrebbe rendersi come ‘confacente alla na-tura (delle cose)’ e, quindi, forse, all’aequitas (almeno a vedere gli altri luoghi in cui, come nel presente, compare soprattutto ‘praedicative usurpatum’ : cfr. « VIR. », III, col. 278, ad h.v., I. Positivus. A – II. Comparativus. A.).

214 Sul passo salvato in D. 50.16.25.1 si veda, infine, A. GUARINO, Mucio e Ser-vio, pp. 20-21, in cui viene proposta una lettura differente (senz’altro suggestiva, ma che presuppone, forse, una maturità culturale non ancora raggiunta da Servio) dello scontro tra i due giuristi tardorepubblicani: « la congettura che più si raccomanda è che alle perentorie risposte di Mucio su una determinata questione » — ad esempio « su ciò che debba intendersi per “parte” » — « Servio abbia opposto ripetute e sotti-li (“eleganti”, come si usava dire) obiezioni che abbiano finito per mandare Mucio, l’ostinato, in bestia ».

215 Anche per confronto ad Ulp. XXVIII ad Sab., D. 8.4.6.1 [= Pal. Ulp. 2704]: si veda, in proposito, F. HORAK, Rationes decidendi. Entscheindungsbegründungen bei älteren römischen Juristen bis Labeo, I, p. 230 e nt. 18-19): cfr. TH. MOMMSEN –

P. KRÜGER [ingl. transl., A. Watson], The Digest of Justinian, IV, p. 935 ad h.l. [« e-legantly »] ed A. D’ORS – F. HERNANDEZ-TEJERO – P. FUENTESECA – M. GARCIA-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Si noti, comunque, come nelle fonti romane l’avverbio inele-

ganter 216 non sia mai rappresentato isolatamente, bensì sempre unito

al segno di negazione (‘non’ ) a formare, cioè, il sintagma ‘non ine-

leganter’ 217, con una intensità lessicale che mai raggiunge il grado

GARRIDO – J. BURRILLO, El Digesto de Justiniano, III, p. 847 ad h.l. [« no sin acier-to »], segnalati da ZURLI, op. et loc. cit.; parimenti si possono vedere G. PROVERA, La pluris petitio nel processo romano, I. La procedura formulare, p. 39 nt. 21, che parla semplicemente di « sottile finezza del ragionemento », in esplicito richiamo al pensiero di M. PHILONENKO, Elegantia, pp. 519-520 [erroneamente citate come pp. 63 ss.]; sull’interpretazione del Provera cfr., in particolare, M. BRETONE, I fonda-menti del diritto romano, p. 273).

216 Da notare – incidenter tantum – che T. HONORÉ, Ulpian. Pioneers of Human Rights 2, non ha registrato l’avverbio ora censito (cfr. op. cit., p. 236 - Table I. List of Latin Words and Phrases, nonché p. 248 – Table II. References to Legal Texts, ad D. 4.4.3.1), sebbene sia presente nel linguaggio ulpianeo, anche se soltanto nella ri-correnza appena menzionata (e vd. infra, nt. 219).

217 Questa particolarità era stata (an)notata dagli acuti redattori del « VIR. », III, col. 713 ad v. ‘ineleganter’: « semper in figura Litotis. non i. … », et rell., e cfr. an-che « VIR. », IV, col. 243 linn. 33-35.

Solamente in Gai 3.100 si ha la (simile) forma ‘inelegans’ priva della negazione (« inelegans esse visum est ab heredis persona incipere obligationem »), che rappre-senta un ¤pax legÒmenon gaiano (vd. P.P. ZANZUCCHI, Vocabolario delle Istituzioni di Gaio, p. 52 ad h.v.), ma, anche in questo caso, non si allude ad una ‘ineleganza’, bensì ad una ‘pessima (opzione) della prassi’ di porre in esse le cosiddette ‘stipula-tiones post mortem’, che vengono, infatti, considerate ‘inutiles’ (una concezione si-mile tornerà, solo una volta, nell’‘emendazione’ che Giustiniano apporterà alla pro-pria normativa in tema di pagamento degli interessi dilatori per soccombenza: cfr. C.I. 7.54.3.1 [Iohanni p.p., a. 531]: « Si enim sine emendatione relinquatur, aliquid absurdum atque inelegans necesse est evenire… », et rell.). Allo stesso modo, in Gai 1.84-85 si tratta di ‘inelegantia iuris’, quale censura mossa da Adriano al regime del Senatusconsultum Claudianum e, quindi, alla ‘scelta — diremmo noi — di politica legislativa’ operata di concedere alla donna libera, che si unisca con un servus, di mantenere lo stato di libertà, generando figli che avranno la condizione servile (la stessa censura è presente in Gai 1.85, ad opera di Vespasiano — il quale « inelegan-tia iuris motus restituit iuris gentium regulam », forse avverso una lex, di cui, co-munque, il Palinsesto veronese non conserva il nome — per il caso nel quale « etiamsi masculi nascantur, servi sint eius cuius et mater fuerit »): cfr. ancora ZAN-

ZUCCHI, op. et loc. cit. ad v. ‘elegantia’.

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superlativo — come indicato dallo Zurli 218 — bensì che accompagna

(o introduce) sempre un’affermazione moderata, soprattutto quando

si rimanda alla elaborazione altrui 219.

A ben vedere, soltanto in una costituzione giustinianea il te-

nore dell’espressione si adegua — per la formulazione complessiva

di ampia lode rivolte ad Ulpiano — alla lettura suggerita dallo stu-

dioso appena ripreso:

218 Si veda supra, nt. 209. 219 Oltre, ovviamente, a Paul. XXI ad ed., D. 50.16.25.1 [= Pal. Paul. 339; Pal.

Serv. 8], oggetto di queste riflessioni, cfr. Iul. LXIV dig., D. 28.5.43(42) [= Pal. Iul. 767]: ‘non ineleganter defendi poterit’; Valens III fideicom., D. 36.1.69(67) pr. [= Pal. Val. 12; Pal. Octaven. 16]: ‘quod Octaveno non ineleganter videbatur’; Afr. II quaest., D. 34.2.2 [= Pal. Afr. 11]: ‘non ineleganter dicetur’; Pap. XVII quaest., D. 31.66.1 [= Pal. Pap. 261]: ‘non ineleganter probatum est’; ancora Paul. XXI qua-est., D. 35.1.81 pr. [= Pal. Paul. 1411]: ‘non ineleganter… dicetur’, e, infine, Paul. X ad Sab., D. 46.3.8 [= Pal. Paul. 1823; Pal. Pomp. 697]: ‘non ineleganter scriptum esse Pomponius ait’ e, infine, Ulp. XI ad ed., D. 4.4.3.1 [= Pal. Ulp. 397]: « unde illud non ineleganter Celsus epistularum libro undecimo et digestorum secundo tractat », ricorrenza stranamente sfuggita ai curatori del « VIR. », III, col. 713 ad v. ‘ineleganter’ (che rinvia, expressis verbis, a « VIR. », IV, col. 423, linn. 33-35, al-trettanto privo della registrazione del passo ulpianeo; vd. anche supra, nt. 216).

Per completezza, e per quanto ha attinenza con le fonti imperiali (giustinianee, poiché nel Codex Theodosianus non compare alcuna delle forme analizzate: cfr. O. GRADENWITZ, Heidelberger Index zum Theodosianum mit Ergänzungsband, pp. 70 e 111), si veda, oltre a C.I. 6.51.1.9 (citato nel testo), C.I. 11.48.22.3 [Iustinian., a. 531: « illud quoque non ineleganter dubitabatur »] oltre ad Inst. 1.2.10 (che F. GAL-

LO, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto. Lezioni di diritto ro-mano 2, p. 369, rende così: « Il diritto civile appare distribuito, non senza eleganza, in due specie »; nessun accenno al sintagma — anzi, all’intera frase iniziale di cui ora è stata riportata la traduzione — è fatto in Theoph. Par. 1.2.10: nonostante il consistente, complessivo ampliamento del titolo 1.2 delle Istituzioni imperiali ad opera del Parafraste, il § 10 risulta essere, in controtendenza, assai ridotto rispetto all’originale; sulle caratteristiche del testo — con « chiaro impiego della divisio in genera o species » — vd. G. FALCONE, Sul metodo di compilazione dell ‘Institutio-nes’ di Giustiniano, pp. 357 [e nt. 338, per la citazione] e 358).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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C.I. 6.51.1.9 [Iustinian., a. 534]: « Ne autem hoc, quod non

ineleganter summi ingenii vir Ulpianus in hac parte cum omni subti-

litate disposuit, praetereatur, nostra sanctione hoc apertius induci-

mus » 220.

Del resto, la fonte giustinianea aumenta il valore dell’espres-

sione ‘non ineleganter’ — privandola della connaturata valenza mo-

derata — solo in quanto unita, e immediatamente seguita, dalla lode

superlativa del giurista severiano: « … non ineleganter summi ingenii

vir Ulpianus… ».

Se, in altre parole, fosse stato taciuto il riferimento al sum-

mum ingenium del giurista di Tiro, l’espressione avrebbe avuto la ca-

ratterizzazione fin qui evidenziata.

3.2. Continua: a proposito di Quinto Mucio

Come si è visto nelle pagine che precedono, il giudizio di

Pomponio relativo alla produzione scientifica di Servio lascia traspa-

rire — nella sostanza e, talora, anche nella forma — una qual certa

freddezza, che trabocca, in alcuni casi, in aperta critica.

Per completare il quadro, vi è da analizzare — e sempre nei

termini della visione di quelle testimonianze in cui si rinviene una

220 A questo proposito, G. BROGGINI, Index interpolationum quae in Iustiniani

Codice inesse dicuntur, p. 117, ad h.l., non registra alcun dubbio sulla autenticità del titolo ‘de caducis tollendis’ (anche perché la constitutio esaminata esaurisce il mate-riale compositivo di C.I. 6.51 ed è giustinianea, e precisamente del 1° giugno del 534), salvo una questione relativa al titolo della rubrica, posto in luce da G. SCHE-

RILLO, Teodosiano, Gregoriano, Ermogeniano, pp. 289 e ss. — ma vd. già G. RO-

TONDI, Studi sulle fonti del codice giustinianeo, pp. 255 e ss., quindi, ID., Studi sulle fonti del codice Giustinianeo, p. 169 [XXIX, 1916] = ID., Scritti giuridici, I, pp. 253-254, e, da ultima, A.M. GIOMARO, Il Codex repetitae praelectionis, p. 280 — che, tuttavia, non sposta i termini delle considerazioni svolte in questa sede. Su questo testo, vd. ancora GIOMARO, op. cit., pp. 210 nt. 189 e 246 nt. 114.

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citazione espressa del giurista 221 — come si esprima Pomponio nei

confronti della produzione scientifica di Quinto Mucio.

Oltre alle citazioni che si rinvengono, appunto, nel liber sin-

gularis enchiridii 222 — e che hanno il loro apice nel § 43 di D. 1.2.2,

221 Cfr. A. SCHIAVONE, Nascita della giurisprudenza, p. 124 e nt. 106; ID., Giuri-

sti e nobili nella Roma repubblicana, p. 205 nt. 70; ID., Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, p. 438 nt. 23; M.G. SCACCHETTI, La presunzione muciana, p. 176 nt. 234; e cfr. E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, pp. 312-313 ntt. 26-29. Non è possibile, in questa sede, analizzare l’intera, originariamente poderosa opera dei XXXIX libri ‘ad Quintum Mucium’ di Pomponio (cfr. O. LENEL, Palinge-nesia iuris civilis, II, coll. 60-79 [= frgg. 219-325]). Per un primo approccio d’insieme — ma in lavori rimasti fino ad oggi isolati — si vedano S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’, pp. 3 e ss. = in « Labeo », VII, 1961, pp. 218 e ss., 352 e ss. (vd. supra, nt. 95, in fin.); M. LAURIA, Ius roma-num, I.1, pp. 70 e ss., e un intero capitolo in M. D’ORTA, Saggio sulla ‘heredis inti-tutio’. Problemi di origine, pp. 144 e ss. Sullo stile delle citazioni pomponiane di Quinto Mucio, si vedano F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae super-sunt, I, pp. 55 e 65 e ss. (e dati in H. FITTING, Alter und Folge der Schriften römi-scher Juristen von Hadrian bis Alexandre 2, p. 39); F. SCHULZ, Geschichte der römi-schen Rechtswissenschaft, pp. 253-354 = ID., Storia della giurisprudenza romana, pp. 364-365 (e ID., History of Roman Legal Science, pp. 204-205); G. WESENBERG, s.v. ‘Sex. Pomponius’, col. 2419, nonché F. BONA, Società universale e società que-stuaria generale in diritto romano, pp. 376-377 e nt. 21-23 = ID., Lectio sua, I, pp. 308-309 e nt. 21-23.

222 Cfr. Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2 § 41 (il celeberrimo luogo in cui si afferma che « Quintum Mucius Publii filius pontifex maximus ius civile primus constituit genera-tim in libros decem et octo redigendo »), § 42 (per la menzione dei suoi auditores, « omnes tamen hi a Servio Sulpicio nominantur »), § 43 (ampiamente esaminato nel corso di questo capitolo) e § 45 (a proposito del quale si osserva che, un altro dei suoi allievi, peraltro indiretto, il giurista Aulo Cascellio, fu talmente legato alla me-moria del predecessore da istituirne il di lui nipote, omonimo del padre, Publio Mu-cio, quale proprio erede: « Aulus Cascellius, Quinti Mucii auditoris Voncacii audi-tor, denique in illius honorem testamento Publium Mucium nepotem eius reliquit he-redem ») [= Pal. Pomp. 178].

In ordine ai §§ 41-43 e 45 di D. 1.2.2, ora menzionati, non è fuor di luogo anno-tare l’andamento, per così dire, dialettico della prospettazione pomponiana. Alla ci-tazione di Quinto Mucio — sorta di capostipite di questa sezione dell’enchiridion — a cui si riallaccia il (grande, agli occhi di Pomponio) merito di essere stato il primo giurista della storia di Roma a ‘ius civile generatim constituere’, segue l’elenco de-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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in cui è racchiuso lo scontro tra il pontifex ed il giovane Servio 223, da

cui esce senz’altro vincitore il giurista più anziano 224 — diverse e-

vocazioni di Mucio sono racchiuse nell’opera a lui dedicata.

Oltre ai casi nei quali il pensiero dell’antico giurista viene ri-

cordato con modalità ‘neutre’ 225 — ma senza che per questo se ne

gli allievi, dai quali (nonostante quanto verrà affermato nel § 43) viene escluso pro-prio Servio, il quale assume una mera funzione ancillare (§ 42). Servio che, ricorda-to a questo scopo, è ‘ripescato’ all’interno del successivo § 43, ma allo scopo più volte richiamato e ampiamente illustrato di sminuirne il valore, almeno nei termini di sottolinearne — come è stato osservato — « l’eloquenza [...], ma non il contributo innovativo » (cfr. E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’, I, p. 275 nt. 25). Chiude, in una sorta di cerchio perfetto, il ricordo della disposizione di ultima volontà di Aulo Cascellio, che riporta il baricentro della trattazione, due generazioni successive, alla memoria del pontifex (§ 45). E tutto questo parrebbe confermare l’idea di una de-scrizione — in questa sezione dell’enchiridion (§§ 40 e ss.) — « prospettata [...] in termini di dipendenza intellettuale » dei giuristi evocati (così S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana, II, pp. 437-438). Si vedano, da ultime, anche le rapide annotazioni — a livello di struttura dei paragrafi interessati — di M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano, II.2, pp. 504 e 514 nt. 62, nonché STOLFI, ‘Plurima innovare instituit’, pp. 61 e ss. e ID., Die Juriste-nausbildung in der römischen Republik und im Prinzipat, pp. 18 e ss., e per la ‘tri-partizione’ complessiva del ‘manualetto’ pomponiano rinvio a P. CANTARONE, ‘Ius controversum’ e controversie giurisprudenziali nel II secolo a.C., p. 405 e nt. 1 (os-sia, com’è noto: ‘origo atque processus iuris’, ‘nomina et origo magistratuum’, ‘successio auctorum’: a quest’ultimo proposito, si segnala la pagina di sintesi, per elenco — con alcune ripetizioni e diversi errori — di G. KÖBLER, Zur Geschichte der römischen Rechtsgeschichte, pp. 211-212 con nt. 23), e così, in sintesi, da ultimo anche F.J. CASINOS MORAS, Jurisprudencia y sistema de fuentes en la experiencia jurídica romana y moderna, p. 1923 (e nt. 22, con approfondimento di singole tema-tiche nelle pp. ss.).

223 Vd. appena supra, § 2. 224 Cfr. ancora E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, pp. 290-

291 nt. 56. 225 Per i casi nei quali, senza esplicita menzione del pontifex, nell’opera a lui de-

dicata, viene riprodotto il suo pensiero, rinvio a STOLFI, op. cit., pp. 312-313 nt. 27 — con letteratura e con citazioni da S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’ (citata dallo Stolfi dalla riedizione di « Labeo », VII, 1961: a questo proposito, vd. supra nt. 95, in fin.).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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respinga il contenuto 226 — alcuni testi manifestano un’aperta condi-

visione del suo pensiero. E questo è reso possibile, in prima battuta,

226 Per questo motivo, non pare inopportuno segnalarne il contenuto semplice-

mente qui, in nota. Vd., infatti, Pomp. IV ad Q.M., D. 34.2.33 [= Pal. Pomp. 238; Pal. Q.M. 20] « Inter vestem virilem et vestimenta virilia nihil interest: sed difficul-tatem facit mens legantis, si et ipse solitus fuerit uti quadam veste, quae etiam mu-lieribus conveniens est. Itaque ante omnia dicendum est eam legatam esse, de qua senserit testator, non quae re vera aut muliebris aut virilis sit. Nam et Quin tu s T i t ius <Mucius> ai t scire se quendam senatorem mulieribus cenatoriis uti soli-tum, qui si legaret muliebrem vestem, non videretur de ea sensisse, qua ipse quasi virili utebatur »: la parte medio-finale del brano è comunemente attribuita a Quinto Mucio (cfr. TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 155 nt. 7, ad h.l.; P. BONFANTE – C. FADDA – C. FERRINI – S. RICCOBONO – V. SCIALOIA, Digesta Iusti-niani Augusti, p. 856 nt. 8, ad h.l. nonché S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’, p. 36 = in « Labeo », VII, 1961, p. 243 (vd. supra, nt. 95, in fin.); ma il testo è direttamente emendato in « Nam & Quintus Mucius ait... », et rell., in Infortiatum Pandectarum Iuris Civilis Tomus Secundus, p. 581 = D. 34.2.35, con semplice indicazione marginale: « ↑ In P. Flo. Quintus Titius », men-tre D. GOTHOFREDUS, Corpus Juris Civiilis Romani, I, p. 631, ad h.l., optava per la proposta di soppressione di ‘Titius’: « nam & Quintus [Titius] ait... », et rell.). La riflessione appare, dunque, di natura per così dire ‘neutra’: il pensiero muciano fun-ge solamente da exemplum di quanto sostenuto da Pomponio (ma, certamente, non viene smentito il giurista più antico). Cfr. M. D’ORTA, Saggio sulla ‘heredis institu-tio’, p. 148 (« Pomponio avrebbe condiviso il responso di Q. Mucio »), e, da ultimo, in tema, B. ALBANESE, Quattro brevi studi, p. 352.

Andamento simile al caso precedente si può osservare anche in Pomp. XXXVII ad Q.M., D. 50.7.18(17) [= Pal. Pomp. 320; Pal. Q.M. 43]: « Si quis legatum ho-stium pulsasset, contra ius gentium id commissum esse existimatur, quia sancti ha-bentur legati. Et ideo si, cum legati apud nos essent gentis alicuius, bellum cum eis indictum sit, responsum est liberos eos manere: id enim iuri gentium convenit esse. Itaque eum, qui legatum pulsasset, Quin tus Mu cius ded i hostibus, quorum e-rant legati, so l i tus es t r espo ndere . Quem hostes si non recepissent, quaesitum est, an civis Romanus maneret: quibusdam existimantibus manere, aliis contra, quia quem semel populus iussisset dedi, ex civitate expulsisse videretur, sicut faceret, cum aqua et igni interdiceret. In qua sententia videtur Publius Mucius fuisse. Id au-tem maxime quaesitum est in Hostilio Mancino, quem Numantini sibi deditum non acceperunt: de quo tamen lex postea lata est, ut esset civis Romanus, et praeturam quoque gessisse dicitur » (da vedersi anche in rapporto a Mod. III reg., D. 49.15.4 [= Pal. Mod. 208; Pal. Q.M. ibid.]).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Il passo è estremamente interessante sotto il profilo della questioni giuridiche

analizzate, che coinvolgono tanto il ius gentium, il diritto internazionale romano di guerra, il rispetto dovuto ai legati hostium, le conseguenze legate alla violazione dell’immunità degli stessi legati da parte di cittadini romani, con conseguente identi-ficazione dei limiti entro i quali può essere persino perduto lo status civitatis (si veda il caso di Ostilio Mancino che parrebbe averla mantenuta, nonostante l’oltraggio perpetrato a danno del legatus dei Numantini), con richiamo, persino, dell’antico istituto giuridico-religioso dell’aqua et igni interdictio. In questo complesso contesto — in cui interviene anche il parere di Publio Mucio Scevola (che pare ancora ri-chiamato da Modestino, in D. 49.15.4) — a proposito del figlio Quinto Mucio, Pom-ponio dà notizia che questi « solitus est respondere » che il percussore (romano) del-l’ambasciatore inviato da altro popolo debba essere consegnato a quest’ultimo. Ai fi-ni della nostra rilevazione, l’informazione non va oltre a ribadire l’usanza consueta, ma, nuovamente, non si oppone alla soluzione muciana.

Se vogliamo, appare ancora più scarna la testimonianza salvata in Pomp. XXXI [rectius: XXXII, Lenel così anche S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’, p. 112 (vd. supra, nt. 95, in fin.)] ad Q.M., D. 8.3.15 [= Pal. Pomp. 311; Pal. Q.M. 40]: « Qu in tus Mu cius scr ib i t , cu m iter aquae vel cot-tidianae vel aestivae vel quae intervalla longiora habeat per alienum fundum erit, licere fistulam suam vel fictilem vel cuiuslibet generis in rivo ponere, quae aquam latius exprimeret, et quod vellet in rivo facere, licere, dum ne domino praedii aqua-gium deterius faceret ».

La struttura espositiva del frammento prende avvio dal fatto che « Quintus Mu-cius scribit », e di cui si riporta — e si sarebbe portati a credere in una forma assai prossima (per il linguaggio, o, almeno, contenutisticamente fedele, per il thema di-sputandi) alla versione originale — il contenuto della decisione muciana, senza al-cuna sottilineatura di tipo critico. Se ne deve dedurre, pertanto, l’accoglimento inte-grale da parte dell’autore dell’enchiridion (anche per la ragione che il principio non è contraddetto in altri punti di trattazione della materia: cfr. Pomp. eod., D. 8.3.14 [= Pal. Pomp. 310] e Pomp. eod., D. 39.3.21 [= Pal. Pomp. 312]).

Finalmente si ha, con un incipit pari a quello del brano precedente, Pomp. XXXI ad Q.M., D. 19.1.40 [= Pal. Pomp. 306; Pal. Q.M. 38]: « Quin tu s Muciu s scr i -b i t : dominus fundi de praedio arbores stantes vendiderat et pro his rebus pecuniam accepit et tradere nolebat: emptor quaerebat, quid se facere oporteret, et verebatur, ne hae arbores eius non viderentur factae. POMPONIUS: arborum, quae in fundo con-tinentur, non est separatum corpus a fundo et ideo ut dominus suas specialiter arbo-res vindicare emptor non poterit: sed ex empto habet actionem ».

Il passo non manca di qual certa suggestione, poiché casus e quaestio iuris pre-sentano particolari affinità con le modalità espositive dei frammenti alfeniani (so-prattutto nella versione dell’epitome anonima), così come il responsum (pomponia-no) non è molto distante dallo stile consueto per la scuola serviana (si veda, in parti-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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attraverso l’uso dell’avverbio ‘recte’ o l’indicazione che la sententia

‘risponde alla realtà delle cose’ (« haec Quintus Mucius refert, et ve-

ra sunt... », et rell.) 227, così come avviene, rispettivamente, in

colare, l’espressione « quid se facere oporteret », per cui cfr., e.g., Alf. V dig. ab anon. epit., D. 35.1.27 [= Pal. Alf. 21], che sarà oggetto di più ampie riflessioni nella ‘parte terza’ di questi ‘studi’). Le parole di Quinto Mucio, quindi, risultano essere funzionali alla comunicazione della fattispecie concreta (vendita di alberi separata-mente dal fondo, e diniego del proprietario di operare la relativa traditio) e del dub-bio che attanaglia l’emptor, ossia di conoscere se abbia, e quale tutela giuridica pos-sa utilizzare, nel timore (peraltro fondato, come risulta anche dalla risposta di Pom-ponio) che la proprietà dell’oggetto della emptio-venditio non sia stata a lui trasferi-ta. La prima e la seconda parte del brano risultano, dunque, meramente funzionali al-l’esplicazione della soluzione (tutela esclusiva in via di responsabilità contrattuale, con la concessione dell’actio empti), ma — è bene ribadirlo, ancora una volta — non presenta alcun segno di attrito con quanto riferito della elaborazione muciana.

227 Del tema si è occupato, in particolare, E. STOLFI, Per uno studio del lessico e delle tecniche di citazione dei giuristi severiani, p. 368 e nt. 141 (e pp. 350-351 ntt. 24 e 29, 352 e nt. 31), con riguardo appunto all’epoca segnalata. Lo studioso osserva giustamente che « una valutazione di ‘verità’ troviamo anche nell’unico testo di Pao-lo in cui ricorra, per Servio, il nostro termine » (cfr. anche ivi, pp. 348 e nt. 12, 351 e ntt. 24 e 29, 352 nt. 31, in particolare). Tale espressione (‘vera sententia’ ) compare per ben cinquantanove volte all’interno della giurisprudenza romana (cfr. « VIR. », V, coll. 346, linn. 20-31, s.v. ‘sententia’; ivi, col. 1316, linn. 10-11, s.v. ‘verus’ ) e riflette, in ultima analisi, come già esplicitato, una indicazione di conformità del det-tato giurisprudenziale alla realtà delle cose (vd., infatti, la composita definizione che ne dà STOLFI, op. cit., pp. 353-354; sul tema, da ultimo, rimando anche a M. MI-

GLIETTA, Riflessioni intorno a Bas. 23.1.31.1, pp. 729-730 e nt. 141), che parrebbe poter essere superato (soltanto?) dall’uso dell’avverbio ‘recte’ (vd. Ulp. III ad ed., D. 5.1.2.5 [= Pal. Ulp. 213], su cui supra, nt. 213). Si noti, incidenter tantum e con una prova in negativo, che allorché Cels. XVII dig., D. 30.63 [= Pal. Cels. 137; Pal. Serv. 42; vd. infra, cap. II, frg. D.3 . ] muove un’aspra critica ad una sententia ser-viana in materia di ‘partus ancillae’ afferma che ciò « falsum puto » — ossia l’op-posto dell’essere ‘verum’ — poiché (e questo mi pare importante, trattandosi della ratio del giudizio di valore) « nec verbis nec voluntati defuncti accomodata haec sententia est », ossia non è conforme né ai verba né alla mens testatoris (quindi: è difforme dalla [inadeguato rispetto alla] realtà). Si vedano anche F. GALLO, La ‘veri-tà’: valore sotteso alla definizione celsina del diritto, pp. 83 e ss. (già richiamato supra, ntt. 62 e 68) nonché M. MIGLIETTA, Casi emblematici di ‘conflitto logico’ tra ‘quaestio’ e ‘responsum’ nei ‘digesta’ di Publio Alfeno Varo, p. 283 nt. 19.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Interessante anche la progressione ‘verior’ e ‘verissima’, con un uso delle forme

comparativa e superlativa che, vale ricordarlo, è stato tipico strumento retorico della giurisprudenza romana (vd., ad esempio, per ‘recte’ – ‘rectius’ – ‘rectissime’, quan-to osservato supra, nt. 193): cfr. Pomp. XXXIII ad Sab., D. 8.3.24 [= Pal. Pomp. 788], nel porre a confronto due diverse opinioni di Labeone e di Proculo (« Proculi sententia verior est »), in cui, pur non essendo del tutto destituita di fondamento la prima, la seconda pare maggiormente rispondente alla realtà (cfr. E. STOLFI, Il mo-dello delle scuole in Pomponio e in Gaio, pp. 27 e ss.), e simili significati paiono da desumere anche dai restanti frammenti, ossia da Pap. XXVI quaest., D. 42.8.18 [= Pal. Pap. 321], senza esplicita citazione di giuristi; da Pap. XXIX quaest., D. 35.2.11.6 [= Pal. Pap. 353] « verior est diversa sententia… », et rell.; dall’interessante Paul. XXXIII ad ed., D. 18.1.1.1 [= Pal. Paul. 502], che raffigura la tensione presente tra le sententiae, rispettivamente di Sabino e Cassio, e quella di Nerva e Proculo; Paul. XLIX ad ed., D. 39.3.2.9 [= Pal. Paul. 632], a favore di una soluzione labeoniana; più sfumato, invece, il giudizio in Paul. LIV ad ed., D. 41.2.3.3 [= Pal. Paul. 658], ove « quidam putant Sabini sententiam veriorem es-se », adesione condivisa dallo stesso giurista severiano (« quibus consentio »); Paul. LXII ad ed., D. 42.8.9 [= Pal. Paul. 742], con preferenza accordata ad un’altra sen-tentia sabiniana (restando, però, ignoti i fautori della diversa soluzione); Paul. LXXV ad ed., D. 45.1.85.3 [= Pal. Paul. 810], similmente al caso precedente, ma senza menzione di alcun giurista; parimenti Ulp. XXVI ad ed., D. 12.4.3.7 [= Pal. Ulp. 772], nel confronto tra sententiae di Celso padre e Celso figlio (con prevalere di quella del secondo, poiché — parrebbe — ispirata alla ‘naturalis aequitas’, quindi, ad una giustizia sostanziale che rende la decisione adeguata alla realtà); Ulp. XXVIII ad ed., D. 13.6.5.3 [= Pal. Ulp. 802], sulla nota « Quinti Mucii sententia » in tema di responsabilità del comodatario; Ulp. XXIX ad ed., D. 14.4.7.4 [= Pal. Ulp. 846], sulla concessione dell’actio tributoria, con parere positivo di Labeone; Ulp. ibid., D. 15.1.9.6 [= Pal. Ulp. 852], interessante, poiché, dopo aver illustrato le posizioni conflittuali, il giurista afferma: « sed prior sententia verior est, ut… », et rell.; Ulp. ibid., D. 15.4.1.5 [= Pal. Ulp. 864], che dà preferenza ad un « ait Marcellus… idem scribit… », et rell.; Ulp. LIII ad ed., D. 39.2.13.6 [= Pal. Ulp. 1274] sulla preferibili-tà di una sententia sabiniana, che opera una interpretazione più ampia — e così, pa-rimenti, in Ulp. ibid., D. 39.2.15.12 [= Pal. Ulp. 1278]; particolarmente interessante, poi, la struttura in cui si presenta Ulp. II fideicomm., D. 33.1.14 [= Pal. Ulp. 1866], che è opportuno riportare per intero: « Si cui annuum fuerit relictum sine adiectione summae, nihil videri huic adscriptum Mela ait: sed est verior Nervae sententia, quod testator praestare solitus fuerat, id videri relictum: si minus, ex dignitate personae statui oportebit » (ancora una volta vi è marcato il conflitto tra ciò che è stato — o, meglio, non è stato — espresso dal testatore, e quella che è la ricostruibilità del so-strato fattuale, a cui pare opportuno adattare la soluzione giuridica); Ulp. XVII ad Sab., Vat. Fragm. 60 [= Pal. Ulp. 2548], ove è Giuliano a prevalere su Labeone; in-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Pomp. XXVI ad Q.M., D. 8.2.7 [= Pal. Pomp. 294; Pal. Q.M.

34]: « Quod autem aedificio meo me posse consequi, ut libertatem

usucaperem, dicitur, idem me non consecuturum, si arborem eodem

loco sitam habuissem, Mucius ait , et recte, quia non ita in suo

fine, Marcian. VII inst., D. 40.5.50 [= Pal. Marcian. 126], ove il giurista severiano, pur riproponendo una tesi di Cervidio Scevola, di cui non se ne contesta — almeno immediatamente — la ratio, ne affianca, per così dire, un ‘correttivo’, forse ispirato da altri (« mihi quoque »), e che insinua attraverso la formula oculata « quae senten-tia mihi quoque verior esse videtur ».

Può essere ‘verissima’, invece, la sententia, ma solo nel linguaggio ulpianeo (almeno per quanto a noi pervenuto), segno della più piena corrispondenza alle esi-genze della vita del diritto: cfr., infatti, Ulp. XXXII ad ed., D. 19.1.11.16 [= Pal. Ulp. 931], in cui, dopo aver ricordato una sententia giulianea (vd. § 15, D. eod.), il giurista di Tiro la estende — ritenendola di assoluta adattabilità al contesto cui egli è ulteriormente interessato — anche ‘in pignoribus’ (« sententiam Iuliani verissimam esse arbitror in pignoribus quoque: nam si… », et rell.); nonché Ulp. II fideicomm., D. 32.11.20 [= Pal. Ulp. 1869], « est haec sententia Marcelli verissima » (in materia ‘cui et adversus quem competat fideicommissi petitio’: cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 909 rubr. ad h.l.), e finalmente Ulp. IV fideicomm., D. 36.1.15.3 [= Pal. Ulp. 1879], « et Iulianus libro quinto decimo [scl.: digestorum; XXV, LENEL, op. cit., I, coll. 362 e 386-387] scribit et sequentes tabulas confirmari: quae senten-tia verissima est » (l’attribuzione ad Ulpiano si deve addirittura a I. CUIACIUS, Ob-servationum et emendationum libri 2.27, in ID., Opera, I, coll. 69-70 [col. 70, in par-ticolare], e vd., per tutti, LENEL, op cit., II, col. 915 nt. 1).

In due ricorrenze, al contrario, la sententia appare essere ‘non vera’ (come in Ia-vol. VII epist., D. 50.16.116 [= Pal. Iavol. 108], in cui viene contestata una interpre-tazione ‘nominalistica’ di Labeone, in materia testamentaria, interpretazione che, secondo una icastica annotazione, « videtur verborum figuram sequi », contro l’op-posto parere di Proculo, che « mentem testantis » [sott., sempre, videretur sequi], e in Ulp. V ad ed., D. 5.1.16 [= Pal. Ulp. 271], in aperto ripudio [« quae sententia vera non est et a multis notata est »] della teoria giulianea secondo cui potrebbe essere convenuto in giudizio il « heres iudicis, qui litem suam fecit »: su D. 5.1.16 vd., da ultimo, e in modo esauriente, per discussione e indicazioni bibliografiche, R. SCE-

VOLA, La responsabilità del ‘iudex privatus’, pp. 467 e ss.). Si vedrà infra, nel corso del cap. II, come il giudizio di ‘veritas’ legato ad un parere giurisprudenziale non sia infrequente (anche) con riferimento alla relazione del pensiero serviano. Vd. anche supra, ntt. 62 e 68, e infra, nt. 269.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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statu et loco maneret arbor quemadmodum paries, propter motum

naturalem arboris » 228

e in

Pomp. XXXVIII ad Q.M., D. 47.2.77(76).[pr.-]1 [= Pal.

Pomp. 322; Pal. Q.M. 9], il cui contenuto è stato riportato più so-

pra 229, e che rappresenta, nello stesso contesto, il giudizio positivo

su ciò che è riferito da Quinto Mucio, e la repulsa, per contro, di

quanto sostenuto da Servio (« nec utimur Servii sententia, qui puta-

bat... non magis enim... ») 230.

228 Sul passo, A. WATSON, The Law of Property, pp. 181 e ss., in particolare, as-

simila il pensiero di Quinto Mucio e quello di Pomponio, offrendo così lo spunto per l’implicita adesione del secondo a quanto elaborato dal primo (da cui l’idonea pre-senza dell’avverbio ‘recte’).

229 Vd. supra, § 3. Si riporta, per comodità del lettore, nuovamente il (solo) § 1 di D. 47.2.77(76): « Si quis alteri furtum fecerit et id quod subripuit alius ab eo su-bripuit, cum posteriore fure dominus eius rei furti agere potest, fur prior non potest, ideo quod domini interfuit, non prioris furis, ut id quod subreptum est salvum esset. Haec Quin tus Mu cius re f er t e t vera sun t : nam licet intersit furis rem sal-vam esse, quia condictione tenetur, tamen cum eo is cuius interest furti habet actio-nem, si honesta ex causa interest. Nec u t imur Servi i s en ten t ia , qu i pu ta-ba t , si rei subreptae dominus nemo exstaret nec exstaturus esset, furem habere furti actionem: non magis en im tunc eius esse intellegitur, qui lucrum facturus sit. Dominus igitur habebit cum utroque furti actionem, ita ut, si cum altero furti actio-nem inchoat, adversus alterum nihilo minus duret: sed et condictionem, quia ex di-versis factis tenentur ».

230 Sul testo e per il confronto delle opinioni racchiuse vd. O. BEHRENDS, Le due giurisprudenze romane, p. 204. Poco peso era dato, invece, al giudizio di Pomponio da F.M. DE ROBERTIS, La legittimazione nell’actio furti, I. Sulla questione ‘an fur furti agere possit’, p. 56, il quale osservava soltanto che se il giurista, « da una parte, aderisce alla opinione radicalmente negativa di Q. Mucio, dall’altra, sente il bisogno di ricordare una sententia di Servio, il quale, pur nello stesso orientamento di mas-sima, non esitava a riconoscere al fur la legittimazione attiva nel caso eccezionale in cui ‘dominus nemo extaret nec extaturus esset’ ». Dal canto suo D. LIEBS, Die Kla-genkonkurrenz im römischen Recht, p. 133, dà per genuino responso muciano il trat-to iniziale, fino a « salvum esset ».

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« SERVIUS RESPONDIT »

168

In un altro luogo, relativo alle donazioni ‘inter virum et uxo-

rem’ (almeno così stando alla sistematica compilatoria di D. 24.1

rubr.), e, quindi, alla cosiddetta ‘praesumptio muciana’ 231, il pensie-

ro dell’antico pontifex viene dato (« Quintus Mucius ait – pervenis-

se ») e, per così dire, ‘interpretato autenticamente’ da Pomponio 232.

Quest’ultimo, pertanto, manifesta la volontà di approvare — seppure

in modo implicito — il contenuto dispositivo e, insieme, la ratio —

non espressa, obiettivamente, da Quinto Mucio 233, ma dal primo u-

gualmente individuata (« evitandi – Quintus Mucius probasse »). Si

allude a

Pomp. V ad Q.M., D. 24.1.51 [= Pal. Pomp. 245; Pal. Q.M.

19]: « Quintus Mucius ait , cum in controversiam venit, unde ad

mulierem quid pervenerit, et verius et honestius est quod non demon-

stratur unde habeat existimari a viro aut qui in potestate eius esset

231 Per l’importante tema si vedano, in particolare (con indicazioni bibliografi-

che), M. KASER, Praesumptio Muciana, pp. 215 e ss. = ID., Ausgewählte Schriften, I, pp. 313 e ss.; M.J. GARCIA GARRIDO, El patrimonio de la mujer casada en el dere-cho civil, I. La tradición romanistica, pp. 93-95; G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al principato, pp. 169 e ss. (p. 171, in particolare); G. HEYSE, Mulier non debet abire nuda. Das Erbrecht und die Versorgung der Wit-we in Rom, pp. 81-82; R. ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, p. 105 (in particolare); M.G. SCACCHETTI, La presunzione muciana, pp. 162 e ss. (per una ‘lettura esegetica’ di D. 24.1.51), e, da ultima, F. LAMBERTI, Giusromanistica e formazione del giurista europeo, pp. 193-194 e nt. 21, la quale parla di « formula-zione (l’unica realmente compiuta) della regola contenuta in D. 24.1.51 ».

232 Per i vari rilievi critici mossi al tratto « evitandi – probasse » si veda SCAC-

CHETTI, op. cit., pp. 171 e ss., ed ivi, p. 178, per la conclusione secondo cui si tratti di « una nota del giurista classico » al tema muciano.

233 Questo sta a significare che non abbiamo una testimonianza diretta di riscon-tro, ma Pomponio afferma che ‘sembra (‘videtur’) Quinto Mucio aver ritenuto buona (‘probasse’)’ la ragione di evitare turpi guadagni muliebri. Si noti che l’aggettivo ‘turpis’ si riallaccia con buona simmetria alla precedente osservazione che ‘verius et honestius est’ risolversi per la presunzione di provenienza dei beni dal marito o da coloro che sono soggetti alla sua potestas.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

169

ad eam pervenisse. Evitandi autem turpis quaestus gratia circa uxo-

rem hoc videtur Quintus Mucius probasse ».

In altre tre citazioni, l’elaborazione del pontifex trova impli-

cito apprezzamento, poiché viene accolta e trasmessa sviluppando un

ragionamento — dal respiro più o meno ampio — che si situa nel

solco della opinione più antica, la quale viene, in questo modo, riba-

dita 234. Così in

Pomp. XXXI ad Q.M., D. 18.1.66.2 [= Pal. Pomp. 303; Pal.

Q.M. 37]: « Quintus Mucius scribit, qui scribsit ‘ruta caesa quaeque

aedium fundive non sunt’, bis idem scriptum: nam ruta caesa ea sunt

quae neque aedium neque fundi sunt » 235

e, quindi, in

Pomp. XVII ad Q.M., D. 9.2.39 pr.-1 [= Pal. Pomp. 274; Pal.

Q.M. 27]: « pr. Quintus Mucius scribit: equa cum in alieno pascere-

tur, in cogendo quod praegnas erat eiecit: quaerebatur, dominus

eius possetne cum eo qui coegisset lege Aquilia agere, quia equam in

iciendo ruperat. Si percussisset aut consulto vehementius egisset, vi-

sum est agere posse. – POMPONIUS. Quamvis alienum pecus in agro

suo quis deprehendit, sic illud expellere debet, quomodo si suum de-

prehendisset, quoniam si quid ex ea re damnum cepit, habet proprias

actiones. Itaque qui pecus alienum in agro suo deprehenderit, non

iure id includit, nec agere illud aliter debet quam ut supra diximus

234 Questo mi pare possa essere ribadito, contro l’opposto parere di S. DI MARZO,

Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’, p. 43 = in « Labeo », VII, 1961, p. 354 (vd. supra, nt. 95, in fin.).

235 Per l’appartenenza del thema al pensiero muciano cfr. anche Q.M. Órwn l.s., D. 50.16.241 [= Pal. Q.M. 47]: vd., sul punto, M. MARRONE, Considerazioni sui ‘ru-ta ea caesa’, pp. 215-216.

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« SERVIUS RESPONDIT »

170

quasi suum: sed vel abigere debet sine damno vel admonere domi-

num, ut suum recipiat ».

Come osservato poco sopra, dunque, nel primo brano l’ap-

provazione si ottiene attraverso l’impiego della costruzione « Quin-

tus Mucius scribit... nam... », che non può che aprire ad una specifi-

cazione adesiva. Nel secondo, invece, Pomponio, aderisce alla regola

fissata da Quinto Mucio 236 (« si percussisset aut consulto vehemen-

tius egisset, visum est agere posse ») 237, ma « tenta di costruire una

sorta di regola secondaria, diretta a precisare quale sia il comporta-

mento da tenersi da chi sorprenda un animale altrui sulla propria ter-

ra » 238 (e di qui il § 1 del passo esaminato). Nel terzo, infine, che ha

ad oggetto un legato di prestazioni periodiche a fini alimentari 239,

riportato l’intero, tripartito responsum muciano — di cui è conve-

niente notare le fortissime assonanze non solo di struttura ma, soprat-

tutto, di stile con la prosa serviano-alfeniana 240 — interviene il

236 E vd. A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia. Corso di diritto ro-

mano, p. 119. 237 Rilievi critici in B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, I. Actio utilis e actio

in factum ex lege Aquilia, p. 194 nt. 1 (contra, però, D. PUGSLEY, On the lex Aquilia and culpa, p. 10 e vd. anche P. ZILIOTTO, L’imputazione del danno aquiliano, pp. 194-195).

238 Così C.A. CANNATA, Il terzo capo della ‘lex Aquilia’, pp. 138 e ss.; si veda-no, ancora, K. VISKY, La responsabilité dans le droit romain à la fin de la Républi-que, pp. 448 e ss.; D. NÖRR, Causa mortis. Auf den Spuren einer Redewendung, pp. 130 e ss. (p. 131, in particolare). Per l’analisi contenutistica del testo vd., soprattutto, S. SCHIPANI, Responsabilità ‘ex lege Aquilia’. Criteri di imputazione e problema della ‘culpa’, pp. 446-447; A. BIGNARDI, ‘Frangere’ e ‘rumpere’ nel lessico norma-tivo e nella ‘interpretatio prudentium’, pp. 51 e ss. (alla luce del solo pensiero mu-ciano), nonché A. WACKE, Notwehr und Notstand bei der aquilischen Haftung, pp. 490 e ss. = ID., Defence and Necessity in Aquilian Liability, pp. 391 e ss.

239 Cfr. M. LAURIA, `O gnèmwn toà „d…ou lÒgou. Retractatio, p. 5 nt. 19 (con ampia indicazione di fonti, tra cui D. 33.1.7).

240 Questa circostanza potrebbe far riflettere sulla influenza della cifra stilistica muciana esercitata (indirettamente) su Alfeno, ossia per il tramite di Servio, da cui la

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

171

commento del giurista referente, il quale, tuttavia, non persegue altro

apparente scopo che quello di ribadire la prima parte del frammen-

to 241.

Ancora

Pomp. VIII ad Q.M., D. 33.1.7 [= Pal. Pomp. 258; Pal. Q.M.

16]: « Quintus Mucius ait: si quis in testamento ita scripsit: ‘filii fi-

liaque meae ibi sunto, ubi eos mater sua esse volet, eisque heres

meus in annos singulos inque pueros puellasque singulas damnas e-

sto dare cibarii nomine aureos decem’: si tutores eam pecuniam da-

re nolunt ei, apud quem pueri atque puellae sunt, nihil est, quod ex

testamento agere possit: nam ea res eo pertinet, uti tutores sciant,

quae voluntas testatoris fuit, uti possint eam pecuniam sine periculo

dare. POMPONIUS. In testamentis quaedam scribuntur, quae ad auc-

toritatem dumtaxat scribentis referuntur nec obligationem pariunt.

Haec autem talia sunt. Si te heredem solum instituam et scribam, uti

monumentum mihi certa pecunia facias: nullum enim obligationem

ea scriptura recipit, sed ad auctoritatem meam conservandam pote-

ris, si velis, facere. Aliter atque si coherede tibi dato idem scripsero:

nam sive te solum damnavero, uti monumentum facias, coheres tuus

agere tecum poterit familiae herciscundae, uti facias, quoniam inte-

rest illius: quin etiam si utrique iussi estis hoc facere, invicem actio-

nem habebitis. Ad auctoritatem scribentis hoc quoque pertinet, cum

quis iussit in municipio imagines poni: nam si non honoris municipii

gratia id fecisset, sed sua, actio eo nomine nulli competit. Itaque ha-

ec Quinti Mucii scriptura: ‘liberi mei ibi sunto, ubi eos mater sua es- deduzione dell’armonia tra quella di Servio e quella di Quinto Mucio (il quale, se-condo, appunto, fu indirettamente maestro del primo).

241 Anche sotto questo profilo, dunque, non sarebbe esatto affermare che Pom-ponio non apprezzasse l’approccio casistico di Servio, poiché, in questa sede, dimo-stra di approvare quello di Quinto Mucio, in una testimonianza che, se per avventu-ra, i Commissari di Giustiniano avessere errato nell’attribuirne la paternità a Servio o ad uno dei suoi auditores (ad Alfeno, in particolare), non avremmo probabilmente esitato a leggere come testo germinato dalla scuola serviana.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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se volet’ nullam obligationem parit, sed ad auctoritatem defuncti

conservandam id pertinebit, ut ibi iusserit ibi sint. Nec tamen semper

voluntas eius aut iussum conservari debet, veluti si praetor doctus sit

non expedire pupillum eo morari, ubi pater iusserit, propter vitium,

quod pater forte ignoravit in eis personis esse, apud quas morari

iussit. Si autem pro cibariis eorum in annos singulos aurei decem re-

licti sint, sive hoc sermone significantur, apud quos morari mater

pupillos voluerit, sive ita acceperimus hunc sermonem, ut ipsis filiis

id legatum debeatur, utile erit: et magis enim est, ut providentia fi-

liorum suorum hoc fecisse videatur. Et in omnibus, ubi auctoritas so-

la testatoris est, neque omnimodo spernenda neque omnimodo ob-

servanda est. Sed interventu iudicis haec omnia debent, si non ad

turpem causam feruntur, ad effectum perduci ».

Il passo — apprezzabile, in sé, per contenuto (ossia « l’ampia

disquisizione sull’auctoritas testatoris ») 242 e per stile 243, nonostante

sia rimasto un poco a margine nelle considerazioni della dottrina

moderna 244 — non introduce elementi di tensione specifica rispetto a

quanto si sta cercando di dimostrare in questa pagine.

242 Così, ad esempio, F. GALLO, Sul potere normativo imperiale, p. 436 nt. 65 =

ID., L’‘officium’ del pretore nella produzione e applicazione del diritto. Corso di diritto romano, p. 202 nt. 65 = ID., Opuscula selecta, p. 295 nt. 65.

243 Giudicato, però, come indice di un ‘atteggiamento da maestro di scuola’: cfr. D. NÖRR, Pomponius oder ‘Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen’, p. 550 = ID., Historiae iuris romani, II, p. 1038 = ID., Pomponio o ‘della intelligenza storica dei giuristi romani’ [trad. it. Fino – Stolfi], p. 208. Critiche testuali, fondate su illazioni, invece, in F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 87-88, in parte riprese da S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’, pp. 67-68 = in « Labeo », VII, 1961, pp. 372-373 (vd. supra, nt. 95, in fin.).

244 Cfr. M. LAURIA, Ius romanum, I.1, pp. 98-99; succintamente L. BOYER, La fonction sociale des legats d’après la jurisprudence classique, p. 365 e nt. 9; F. HO-

RAK, Rationes decidendi, pp. 216-217; R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, III, pp. 91 e nt. 1, 107 e nt. 45, 128 e nt. 82, e, soprattutto, 132 (ove

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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La discussione scaturisce, infatti, dall’interpretazione di una

clausola testamentaria ricordata da Quinto Mucio: « ‘filii filiaque

meae ibi sunto, ubi eos mater sua esse volet, eisque heres meus in

annos singulos inque pueros puellasque singulas damnas esto dare

cibarii nomine aureos decem’ ».

Il tema sottostà ad una prima analisi da parte dello stesso

pontifex (« si tutores – sine periculo dare ») a cui segue quella di

Pomponio, il quale, a sua volta, riprende, almeno in parte, il contenu-

to della clausola (qui con le parole: « ‘liberi mei ibi sunto, ubi eos

mater sua esse volet’ »).

L’ampia discussione (con ampliamenti, funzionali del resto

all’economia del discorso, come la parte centrale « haec autem...

scribam, uti monumentum mihi certa pecunia facias... » fino ad « ac-

tio eo nomine nulli competit ») presenta alcune diversificazioni tra il

pensiero serviano e quello pomponiano, ma non v’è dubbio che sia

assente ogni tensione critica o ritrattazione della elaborazione attri-

buita al giurista più antico.

il passo è riportato dall’inizio fino alle parole « uti possint eam pecuniam sine peri-culo dare », con analisi contenutistica); A. WATSON, The Law of Persons, pp. 143-144, per la difesa della genuinità del testo (e cenni anche in ID., The Law of Succes-sion, p. 161 nt. 4, in particolare); più estesamente S. DI SALVO, Il legato modale in diritto romano. Elaborazioni dommatiche e realtà sociali, pp. 318 e ss. (pp. 320-322, in particolare, con indicazione di letteratura interpolazionistica); D. JOHNSTON, Prohibitions and perpetuities: family settlements in Roman law, pp. 254 e 274 e nt. 185; ancora A. TORRENT, ‘De conservando iure civili’. Los antagonismos forenses en la ‘causa Curiana’, p. 157 (che insiste sulla presenza di elementi interpretativi sia letterali sia legati alla voluntas testatoris nella elaborazione muciana); ampiamente CH. PAULUS, Die Idee der postmortalen Persönlickeit im römischen Testamentrecht, pp. 161 e ss., nonché M. D’ORTA, Saggio sulla ‘heredis institutio’, pp. 144 e 152-153, i quali, però, non si soffermano sui rapporti testuali intercorrenti tra Mucio e Servio.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Ma di ancor maggiore interesse — a mio giudizio — sono le

ultime tre testimonianze coinvolte da questo punto dell’indagine. Si

tratta, in primo luogo, di

Pomp. XVIII ad Q.M., D. 40.7.29.1 [= Pal. Pomp. 275; Pal.

Q.M. 28]: « Quintus Mucius scribit: pater familias in testamento

scripserat ‘si Andronicus servus meus heredi meo dederit decem

<viginti, ?> 245, liber esto’. Deinde de his bonis coeperat controver-

sia esse: qui se lege heredem aiebat esse, is eam hereditatem ad se

pertinere dicebat, alter, qui hereditatem possidebat, aiebat testamen-

to se heredem esse. Secundum 246 [<contra, ?>, Mommsen ex Cuia-

cio] eum sententia dicta erat, qui testamento aiebat se heredem esse.

Deinde Andronicus quaerebat, si ipsi viginti dedisset, quoniam se-

cundum eum sententia dicta est, futurusne esset liber an nihil videa-

tur sententia, qua vicit, ad rem valere? Quapropter si viginti heredi

scripto dedisset et res contra possessorem iudicata esset, illum in

servitute fore. Labeo hoc, quod Quintus Mucius scribit, ita putat ve-

rum esse, si re vera lege ab intestato heres fuit is qui vicit: nam si

245 Così I. CUIACIUS, Observationum et emendationum libri 2.7, in « Opera », I,

col. 49: « ubi loco: decem: credo legendum XX. quod paulo post duobus in locis XX. statu liberum dedisse ponat, et ita etiam tÕ pl£toj », il che è vero, poiché lo Sch. 2 ad Bas. 48.5.30 (vd. infra, nt. 252), così si esprime: « ™¦n 'AndrÒnikoj Ð

o„kšthj mou tù klhronÒmJ mou par£scV e‡k o s i n o m … s m a t a [!] , ™leÚqeroj

œstw ». 246 TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 705 nt. 2, richiamandosi

anch’egli all’autorità del Cuiacio (che reputatva il § 1 di D. 40.7.29 una lectio « val-de... depravata »: cfr. CUIACIUS, Observationum et emendationum libri 1.37, ma so-prattutto, 2.7 [laddove si dice: « ubi loco etiam horum verborum: qui testamento, legendum statim lex ait »], rispettivamente in ID., Opera, I, coll. 36 e 49), suggerisce la possibile emendazione in ‘contra eum’, ma, in questo caso, a differenza di quello evidenziato appena supra, la versione greca dello Sch. 2 ad Bas. 48.5.30 (per il testo completo vd. infra, nt. 252), parrebbe confermare la lettura tradizionale: « kaˆ ™n…-

khsen t¾n d…khn Ð gegrammšnoj » (ossia che vinse la causa colui che era stato isti-tuito erede per testamento).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

175

iniuria iudicis victus esset scriptus verus heres ex testamento, nihilo

minus eum paruisse condicioni ei dando et liberum fore 247. Sed ve-

rissimum est, quod et Aristo Celso rescripsit, posse dari pecuniam

heredi ab intestato, secundum quem sententia dicta est, quoniam lex

duodecim tabularum emptionis verbo omnem alienationem complexa

videretur: non interesse, quo genere quisque dominus eius fieret et

ideo hunc quoque ea lege contineri, secundum quem sententia dicta

est, et liberum futurum eum, qui ei dedisset pecuniam. Hunc autem,

id est possessorem hereditatis, cui data esset summa, si victus esset

hereditatis petitione, cum ceteris hanc quoque pecuniam victori re-

stituere debere ».

Il noto e suggestivo brano è costellato da una serie di opinio-

ni giurisprudenziali concatenate tra loro 248 (« Quintus Mucius scri-

bit... Labeo hoc, quod Quintus Mucius scribit, ita putat... quod et A-

risto Celso rescripsit... ») l’ultima delle quali è addirittura retta da un

247 Sul tratto « Labeo – liberum fore » vd. le riserve critiche riportate da H. SI-

BER, Präjudizialität festellender Zwischenurteile, p. 31 e ntt. 54-55, che non incido-no, però, sulla sostanza sulle considerazioni qui svolte (e vd. M. MARRONE, L’effica-cia pregiudiziale della sentenza nel processo civile romano, pp. 45 e ss. e, soprattut-to, 129 e ss., e ID., L’effetto normativo della sentenza (corso di diritto romano), pp. 37 e ss., 79 e ss.).

248 Per questi profili cfr. M. KASER, Das altrömische ius. Studien zur Rechtsvor-stellung und Rechtsgeschichte der Römer, pp. 112 e ss.; H.J. WOLFF, The ‘constituti-ve’ effect of ‘in iure cessio’, pp. 534 e ss.; A. WATSON, The Law of Persons in the Later Roman Republic, p. 169. Per un’ampia e puntuale esegesi cfr. E. STOLFI, Il mo-dello delle scuole in Pomponio e in Gaio, pp. 43 e ss., e, da ultima, per i profili so-stanziali e, soprattutto, processuali, vd. P. STARACE, D. 40.7.29.1: l’interpretazione di Aristone, pp. 379 e ss., tesi riprese ampiamente in EAD., Lo ‘statuliber’ e l’adem-pimento fittizio della condizione. Uno studio sul ‘favor libertatis’ fra tarda Repub-blica ed età antoniniana, passim (e pp. 101 e ss., in particolare). Si veda, inoltre, qualche rilievo formale in S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium, p. 126, e commento di G. PAPA, Noterelle in tema di ingiustizia e nullità della sentenza, pp. 39-40 (e pp. 48-49, per ampie indicazioni bibliografiche).

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« SERVIUS RESPONDIT »

176

richiamo all’autorità della lex duodecim Tabularum 249, e da relativi

giudizi espressi sulle medesime attraverso la classica progressione

retorica ‘verum est... sed verissimum...’ 250 (« Labeo hoc, quod Quin-

tus Mucius scribit, ita putat verum esse... sed verissimum est,

quod et Aristo Celso rescripsit ») 251. Alla lettura del passo è oppor-

tuno accostare, inoltre, quella dello Sch. 2 ad Bas. 48.5.30 252, desun-

249 Peraltro espressamente ricordata ancora dallo scoliaste: « ™peid¾ kaˆ Ð du-

wdek£deltoj nÒmoj tù tÁj ¢goras…aj ·»mati p©san ™kpo…hsin perišla-

ben... », et rell. Sul punto vd. D. NÖRR, Pomponius oder ‘Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen’, pp. 585-586 = ID., Historiae iuris antiqui, pp. 1073-1074 = ID., Pomponio o ‘della intelligenza storica dei giuristi romani’ [trad. it. Fino –Stol-fi], pp. 66-67.

250 Cfr. già H. HELLWIG, Erbrechtsfeststellung und Rescission des Erbschaftser-werbes, pp. 91 e ss. (95-96, in particolare) e vd. F. STURM, Alienationis verbum e-tiam usucapionem continet, p. 317. La forza espressiva di questa struttura si stempe-ra, invece, un poco nello Sch. 2 poiché, se di Quinto Mucio è definito come « ¢lh-

qj... to... gegrammšnon » (ossia ‘verum’), nella prosecuzione è « ¢lhqšsteron » (ossia ‘verius’) ciò che Aristone a Celso « ¢pekr…nato » (e cfr., per tutti, F. GALLO, Synallagma e conventio nel contratto, II, p. 42 e nt. 7).

251 Nella versione greca, tra la parte che corrisponde a « nihilo minus eum pa-ruisse condicioni ei dando et liberum fore » (cfr. « oÙdn Âtton doke‹ peplhrwkš-

nai t¾n a†resin Ð o„kšthj, tù skr…ptJ klhronÒmJ dedwkèj, kaˆ ™leÚqeroj

gšgonen ») e l’immediata ripresa « sed verissimum est, quod et Aristo Celso rescrip-sit » (ossia, « ¢lhqšsteron dš ™stin, Óper ¢pekr…nato tù KšlsJ Ð 'Ar…stwn ») si inserisce un periodo di questo tenore: « ¢ll¦ taàta mn Ð KÒϊntoj MoÚkioj

kaˆ Ð Labeèn », che appare più come un’insistenza dell’autore della versione gre-ca, o di chi ha tratto lo scholium, piuttosto che il corrispondente di un’incidentale, o di una frase, originalmente esistente e caduta in D. 40.7.29.1.

252 È necessario dire che il passo seguente costituisce l’unica testimonianza, tra quelle corrispondenti ai passi pomponiani con menzione esplicita di Quinto Mucio, in cui sono state mantenute le citazioni dei vari giuristi coivolti dalla discussione scientifica. Le corrispondenze tra Digesta e libri Basilicorum relative agli altri passi sono indicate — per completezza — al termine di questa nota, dopo la trascrizione di:

Sch. 2 ad Bas. 48.5.30 [BS. VII, 2907; Hb. IV, 705]: « `O KoÚϊntoj MoÚkioj

gr£fei qšma toioàton. DiatiqšmenÒj tij epen: ™¦n 'AndrÒnikoj Ð o„kšthj mou

tù klhronÒmJ mou par£scV e‡kosi nom…smata, ™leÚqeroj œstw. 'All¦ perˆ

tÁj toÚtou toà diaqemšnou klhronom…aj ™gšneto filoneik…a. Kaˆ tij æj ™x

¢diaqštou suggen¾j œlegen, ˜autù diafšrein ™x ¢diaqštou t¾n klhronom…an

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

177

aÙtoà: Ð d gegrammšnoj œlegen, ™k tÁj diaq»khj ˜autù proj»kein t¾n klh-

ronom…an. Kaˆ ™n…khsen t¾n d…khn Ð gegrammšnoj. Kaˆ ™z»tei 'AndrÒnikoj Ð

o„kšthj, ™¦n t¦ k/. nom…smata par£scV tù nik»santi tÕn perˆ tÁj klhrono-

m…aj ¢gîna, e„ g…netai ™leÚqeroj, À m»ti oÙdn poie‹ ¹ perˆ tÁj klhronom…aj

¢pÒfasij, oÙd sumb£lletai prÕj tÕ tÁj ™leuqer…aj pr©gma. Kaˆ di¦ toàto

e„ dšdwke t¦ e‡kosi m»pw nik»santi tù gegrammšnJ klhronÒmJ, met¦ taàta

d kat' aÙtoà ™xhnšcqh ¹ perˆ tÁj klhronom…aj ¢pÒfasij, ½melle mšnein

o„kšthj. Kaˆ lšgei Labeèn, tÒte ¢lhqj enai tÕ ØpÕ Kontou Mouk…ou ge-

grammšnon, e„ aÙtÍ tÍ toà pr£gmatoj ¢lhqe…v ™x ¢diaqštou suggen»j ™kl»-

qh prÕj t¾n klhronom…an toà teleut»santoj. E„ g¦r kat¦ ¢dik…an toà di-

kastoà ¹tt»qh Ð gegrammšnoj, ka…toi ™n „scur´ diaq»kV kat¦ ¢l»qeian ge-

grammšnoj, oÙdn ¹tton doke‹ peplhrwkšnai t¾n a†resin Ð o„kšthj, tù

skr…ptJ klhronÒmJ dedwkèj, kaˆ ™leÚqeroj gšgonen. 'All¦ taàta mn Ð

KÒϊntoj MoÚkioj kaˆ Ð Labeèn. 'Alhqšsteron dš ™stin, Óper ¢pekr…nato tù

KšlsJ 'Ar…stwn, Óti dÚnatai mn Ð o„kšthj kaˆ tù ™x ¢diaqštou klhronÒmJ

paršcein ¢sfalîj, Øpr oØ kaˆ ¹ ¢pÒfasij ™xhnšcqh: ™peid¾ kaˆ Ð duwde-

k£deltoj nÒmoj tù tÁj ¢goras…aj ·»mati p©san ™kpo…hsin perišlaben, éjte

mhkšti perierg£zesqai ¹m©j, kat¦ po‹on trÒpon ™gšnetÒ tij despÒthj toà

statoul…beroj: kaˆ di¦ toàto perišcesqai tù nÒmJ kaˆ toàton tÕn ™x ¢dia-

qštou e„pÒnta, ˜autÕn enai klhronÒmon, kaˆ nik»santa, kaˆ ™leÚqeron ge-

nšsqai tÕn o„kšthn parascÒnta aÙtù t¦ nom…smata. DÚnatai d tù skr…ptJ

katabale‹n t¦ nom…smata Ð toioàtoj o„kšthj. Toàton mšntoi tÕn skr…pton,

tÕn ™n nomÍ tÍj klhronom…aj Ônta, útini kaˆ ™dÒqh t¦ nom…smata, ™¦n ¹tthqÍ

tÕn perˆ tÁj klhronom…aj ¢gîna, met¦ tîn ¥llwn tÁj klhronom…aj pragm£-

twn kaˆ taàta t¦ ¢rgÚria Ñfe…lein ¢pokatastÁsai tù ™x ¢diaqštou nikînti

t¾n perˆ tÁj klhronom…aj d…khn ». In ordine a quanto detto supra, I cpv. di questa nota, mancano di riferimento ai

giuristi citati nei testi originari i seguenti passi greci: D. 8.2.7 → Bas. 58.2.7 [BT. VII, 2629; Hb. V, 193]; D. 8.3.15 → Bas. 58.3.15 [BT. VII, 2635; Hb. V, 196]; D. 9.2.39 pr.-1 → Bas. 60.3.39 [BT. VIII, 2763; Hb. V, 310]; D. 18.1.66.2 → Bas. 19.2.64 [ma solo in Hb. II, 267]; D. 19.1.40 → Bas. 19.8.40 [soltanto in Hb. II, 295]; D. 24.1.51 → Bas. 30.1.48 [solo in Hb. III, 509]; D. 33.1.7 → Bas. 44.4.7 [BT. VI, 2008; Hb. IV, 390]; D. 34.2.10 → Bas. 44.15.10 [BT. VI, 2032; Hb. IV, 421]; D. 34.2.33 → Bas. 44.15.31 [solamente in Hb. IV, 424]; D. 34.2.34 pr.-2 → Bas. 44.15.32 [esclusivamente in Hb. IV, 424-425]; D. 40.7.29.1 → Bas. 48.5.30 [BT. VI, 2207; Hb. IV, 705, e Sch. Pc 1-2, BS. VII, 2906-2907]; D. 46.3.81.1 → Bas. 26.5.81 [BT. IV, 1283; Hb. III, 124]; D. 47.2.77(76).1 → Bas. 60.12.77(76) [BT. VIII, 2848; Bas. 60.12.76, Hb. V, 526, di cui, anche gli scholia Pe 5-10* BS. VIII, 3432-3433; sch. 7-9, Hb. V, 526-527 non aggiungono nulla a tal proposito] e D. 50.7.18(17) → Bas. 54.9.18 [BT. VII, 2499 = Bas. 54.9.16, Hb. V, 135].

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« SERVIUS RESPONDIT »

178

to dall’‘Indice’ di Doroteo 253, una versione abbastanza fedele rispet-

to al prototipo latino 254, e che si presenta di qualche utilità per lo

studio del testo originario.

Quanto emerge dalla lettura D. 40.7.29.1 — in termini di di-

sposizione formale del discorso, dei temi coinvolti, e del relativo di-

battito giurisprudenziale — si può riassumere nella seguente propo-

sizione. Quanto nella scrittura di Pomponio può apparire finalizzato

ad esaltare una sorta di limitazione al pensiero di Quinto Mucio, ap-

portata da Labeone, viene, invece, rigettata dall’autore dell’enchiri-

dion attraverso la tesi di Aristone 255.

Retoricamente ancora più suggestiva è la testimonianza rac-

chiusa in

Pomp. V ad Q.M., D. 34.2.10 [= Pal. Pomp. 244; Pal. Q.M.

18]: « Quintus Mucius ait: si pater familias uxori vas aut vestimen-

tum aut quippiam aliud ita legavit ‘quod eius causa emptum para-

tumve esset’, id videtur legasse, quod magis illius quam communis

usus causa paratum esset. POMPONIUS: sed hoc verum est non

solum, si ipsius viri et uxoris communis usus, sed etiam si libe-

253 Così almeno secondo la restituzione di C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri

LX, VI. Manuale Basilicorum, p. 319, ad h.l. 254 Cfr. TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 465 ntt. 2-3 ad h.l. Oltre

al numerale ‘venti’, al posto di ‘dieci’, di cui supra, nt. 245, fanno eccezione soltan-to — più nella ridondanza espositiva, però, che nel contenuto — la sezione conclu-siva « toàton mšntoi tÕn skr…pton, – in fin. », che appare, ‘ictu oculi’, maggior-mente estesa rispetto all’originale (« Hunc autem, id est possessorem hereditatis, cui data esset summa, si victus esset hereditatis petitione, cum ceteris hanc quoque pe-cuniam victori restituere debere »), nonché la presenza della proposizione segnalata supra, nt. 251.

255 Sul punto (e sulla parziale autonomia della prospettiva pomponiana rispetto a quella di Aristone) si veda M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nel-l’esperienza romana, I, pp. 312-313. Per il contenuto del frammento, e relativa lette-ratura, si rinvia a R. SCEVOLA, La responsabilità del ‘iudex privatus’, pp. 329-330 nt. 116.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

179

rorum eius aut alterius alicuius communis usus fuerit: id enim vide-

tur demonstrasse, quod proprio usui uxoris comparatum sit. Sed

quod Quintus Mucius demonstrat ‘vas aut vestimentum aut

quid aliud’, ef f icit , ut falsa sint quae subiecimus: multum

enim interest, generaliter an specialiter legentur haec. Nam si gene-

raliter, veluti ita ‘quae uxoris causa comparata sunt’, vera est illius

definitio 256: si vero ita scriptum fuerit ‘vestem illam purpuram’, ut

certa demonstraret, licet adiectum sit ‘quae eius causa empta para-

tave essent’, licet neque empta neque parata neque in usum ei data

sint, legatum omnimodo valet, quia certo corpore legato demonstra-

tio falsa posita non peremit legatum. Veluti si ita sit scriptum: ‘Sti-

chum, quem ex venditione Titii emi’: nam si neque emit aut ex alia

venditione emit, legatum nihilo minus valet. Plane si i ta legatum

fuerit ‘vas, aut vestimenta, aut quae uxoris causa parata sunt’,

tunc aeque erit vera Quinti Muci sentent ia: quo casu

sciendum est, etiam si alienae res hae fuerint, quas putavit testator

suas esse, heredem teneri, ut eas det ».

In questa sede, Pomponio — evidenziata e commentata la

clausola testamentaria avente ad oggetto il legato di cose che sono

uxoris causa paratae, ossia ‘destinate alla moglie’ 257 — procede a

esporre una serie di difficoltà interpretative che risolve alla luce della

256 Intorno a questa espressione, vd. R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi ro-mani, p. 72.

257 Per l’appartenenza del tema alla riflessione muciana vd. già le osservazioni di S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’, p. 44 = in « Labeo », VII, 1961, pp. 354-355 (vd. supra, nt. 95, in fin.). Sul concetto di ‘parare causa alicuius’, si veda, in particolare, infra, cap. II, nt. 284, e vd. G. CRIFÒ, Fun-zione alimentare dell’usufrutto e problemi connessi in diritto romano, pp. 460-461 e, con riguardo a D. 34.2.34.2 — di cui appena infra — già B. BIONDI, Successione testamentaria e donazione 2, pp. 402-403, nonché P. VOCI, Diritto ereditario roma-no 2, II, pp. 530 e ss.; R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, pp. 197 nt. 83, 228, 233, 267; U. JOHN, Die Auslegung des Legats, pp. 98 e ss., nonché H.J. WIELING, Testamentsauslegung im römischen Recht, p. 131.

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sententia muciana (o di princìpi che dalla stessa ritiene possano esse-

re desunti) 258, sulla base della quale il legato di cose dichiarate come

acquistate ad uso della mulier, dichiarate tali nonostante la falsità

dell’indicazione (falsa demonstratio), o di cosa altrui, parimenti at-

tribuito alla stessa, sarebbero stati comunque validi (poiché, in so-

stanza, rispondenti alla volontà del de cuius finalizzata a volerne, in

ogni caso, l’adempimento) 259.

In altri termini, lo scopo perseguito è quello di proporre o-

biezioni (addirittura contro quanto appena sostenuto: ‘sed quod

Quintus Mucius demonstrat ‘vas aut vestimentum aut quid aliud’, ef-

ficit, ut falsa sint quae subiecimus’) per abbatterne la validità attra-

verso la prospettazione di contro obiezioni — create, appunto, ad arte

alla luce dalla riflessione di (o su) Quinto Mucio — che ottengono,

in ogni caso, l’effetto di ribadire la correttezza del pensiero del giuri-

sta repubblicano 260.

Al termine, però, va indicato il passo di

Pomp. IX ad Q.M., D. 34.2.34 pr.-2 [= Pal. Pomp. 261; Pal.

Q.M. 6]: « pr. – Scribit Quintus Mucius: si aurum suum omne

pater familias uxori suae legasset, id aurum, quod aurifici faciundum

258 Cfr., infatti, M. LAURIA, Ius romanum, I.1, p. 92 (secondo cui Pomponio « ri-

ferisce le opinioni di Q. Mucio Scevola » e « le commenta con adesioni e riserve varie »); O. FORZIERI VANNUCCHI, Studi sull’interpretazione giurisprudenziale ro-mana, pp. 139-140 nt. 44 (che scorge soltanto i profili di contrapposizione) e M. D’ORTA, Saggio sulla ‘heredis institutio’, pp. 145-146, il quale — dopo aver osser-vato che « solo Pomponio [rispetto a Scevola, Ulpiano e Modestino] avanzerà riser-ve » sui criteri fissati dal più antico giurista — riconosce, infine, che « si tratta di limitazioni non tali da alterare il senso della interpretatio muciana ».

259 Vd. ancora P. VOCI, Diritto ereditario romano 2, II, p. 255. 260 Cfr. anche DI MARZO, op. cit., p. 45 = in « Labeo », VII, 1961, pp. 355-356

(vd. supra, nt. 95, in fin.): in questa stessa direzione (seppure in sintesi) si veda R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, II, p. 262.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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dedisset aut quod ei deberetur, si ab aurifice ei repensum non esset,

mulieri non debetur. POMPONIUS. Hoc ex parte verum est , ex

parte falsum. Nam de eo, quo debetur, sine dubio <verum

est , add. Momm.> 261: ut puta si auri libras stipulatus fuerit, hoc au-

rum quod ei deberetur ex stipulatu, non pertinet ad uxorem, cum il-

lius factum adhuc non sit: id enim, quod suum esset, non quod in ac-

tione haberet, legavit. In aurif ice falsum est , si aurum dederit

ita, ut ex eo auro aliquid sibi faceret: nam tunc, licet apud aurifi-

cem sit aurum, dominium tamen non mutavit, manet tamen eius qui

dedit et tantum videtur mercedem praestaturus pro opera aurifici:

per quod eo perducimur, ut nihilo minus uxori debeatur.

Quod si aurum dedit aurifici, ut non tamen ex eo auro fieret sibi

aliquod corpusculum, sed ex alio, tunc, quatenus dominium transit

eius auri ad aurificem (quippe quasi permutationem fecisse videa-

tur), et hoc aurum non transibit ad uxorem. – 1. Item scribit

Quintus Mucius, si maritus uxori, cum haberet quinque pondo

auri, legasset ita: ‘aurum quodcumque uxoris causa paratum esset,

uti heres uxori daret’, etiamsi libra auri inde venisset et mortis tem-

pore amplius quam quattuor librae non deprehendentur, in totis

quinque libris heredem esse obligatum, quoniam articulus est prae-

sentis temporis demonstratione in se continens. Quod ipsum quantum

ad ipsam iuris obligationem pertineat, recte dicetur, id est ut ipso

iure heres sit obligatus. Verum sciendum, si in hoc alienaverit

testator inde libram, quod deminuere vellet ex legato uxoris suae,

tunc mutata voluntas defuncti locum faciet doli mali exceptioni, ut, si

perseveraverit mulier in petendis quinque libris, exceptione doli mali

submoveatur. Sed si ex necessitate aliqua compulsus testator, non

261 Vd. TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 155 nt. 8, ad h.l., inte-

grazione — che, per ragioni di carattere stilistico (« nam... sine dubio <verum est>... in aurifice falsum est... »), appare essere ineccepibile — espressamente accolta an-che da P. BONFANTE – C. FADDA – C. FERRINI – S. RICCOBONO – V. SCIALOIA, Dige-sta Iustiniani Augusti, p. 856 nt. 9, ad h.l.

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quod vellet deminuere ex legato, tunc mulieri ipso iure quinque li-

brae auri debebuntur nec doli mali exceptio nocebit adversus pe-

tentem. – 2. Quod si ita legasset uxori ‘aurum quod eius causa

paratum erit’, tunc rectissime scribit Quintus Mucius, ut

haec scriptura habeat in se et demonstrationem legati et argumen-

tum: ideoque ipso iure alienata libra auri amplius quattuor pondo

non remanebunt in obligatione, nec erit utendum distinctione, qua ex

causa alienaverit testator ».

Il frammento — nella scansione del principium e dei due pa-

ragrafi che lo seguono — sviluppa una prima parziale critica pompo-

niana a Quinto Mucio che, tuttavia, viene progressivamente ricompo-

sta, nel prosieguo del passo, attraverso l’inserzione di alcuni distin-

guo (§ 1) e un giudizio, relativo ancora all’opinione del giurista re-

pubblicano, connotato dall’avverbio alla forma superlativa ‘rectissi-

me’ (§ 2) 262, quasi a voler — per così dire — sanare il vulnus aperto

all’inizio della trattazione 263.

262 Per un ampio esame di struttura del principium si rinvia, in particolare, a N.

BENKE, Zum Eigentumswerb des Unternehmers bei der ‘locatio conductio irregula-ris’, pp. 158 e ss.; A. METRO, Locazione e acquisto della proprietà: la c.d. locatio-conductio ‘irregularis’, pp. 195 e ss. (196-200, in particolare); M. D’ORTA, Saggio sulla ‘heredis institutio’, pp. 151 e ss. e R. FIORI, La definizione della ‘locatio con-ductio’, pp. 50 e ss. (e, da ultima, per bibliografia, B. COCHIS, Una presunta disputa di scuola in Gai., inst. 3.147, pp. 281-282 nt. 30).

263 Come ha osservato R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto roma-no, II, p. 197 nt. 83, trattando degli argomenti connessi, « Pomponio [...] può trala-sciare di mettere in evidenza le sue divergenze di opinioni con Quinto Mucio (cfr., infatti, D.34, 2, 19, 5) circa l’equiparazione del legato dell’aurum factum con quello del legato di un certo peso di aurum factum ». Vd., inoltre, P. KOSCHAKER, L’alie-nazione della cosa legata, p. 101 nt. 40 e P. VOCI, Diritto ereditario romano 2, II, pp. 530 e ss. In parte differenti, invece, le conclusioni cui perviene S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’, pp. 74 e ss. = in « Labeo », VII, 1961, pp. 377 e ss. [vd. supra, nt. 95, in fin.] (poiché sviluppa l’analisi a partire da diversi presupposti, ossia che il testo sia — ora — rispondente alla versione iniziale e — ora — frutto di interpolazione, e cfr. anche J.A.C. THOMAS, Non solet locatio

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Vediamo con ordine le parti interessate.

Nel principium, la fattispecie (clausola testamentaria con la

quale il de cuius dispone del legato di tutto l’oro) e, per quanto ci ri-

guarda, la relativa decisione muciana (« si aurum suum omne – mu-

lieri non debetur ») sono giudicate da Pomponio parzialmente ri-

spondenti alla realtà delle cose e parzialmente lontane da tale realtà

(« Nam de eo, quo debetur, sine dubio <verum est>: ut ... in

aurif ice falsum est , si ... nam tunc, licet ... per quod eo

perducimur, ut nihilo minus uxori debeatur. Quod si – in fin. »).

Non vi è dubbio che la soluzione del pontifex incontri nume-

rosi (e pertinenti) rilievi da parte del giurista relatore 264.

Nella prosecuzione (§ 1), alla nuova fattispecie (« si maritus

uxori, cum haberet quinque pondo auri, legasset ita: ‘aurum quo-

dcumque uxoris causa paratum esset, uti heres uxori daret’ ») si ri-

collega un commento che non chiarisce immediatamente se si tratti

di un prolungamento del pensiero di Quinto Mucio o non, invece, di

quello di Pomponio 265. Forse si può aderire alla prima soluzione, alla

luce della presenza di « recte dicetur », che potrebbe apparire, dun-

que, come una condivisione del giurista posteriore ad un (opportuno)

dominium mutare, pp. 356-357 [più, però, attento al dato delle annotazioni pompo-niane in ID., Locatio conductio emptio venditio und specificatio, p. 118], e vd. anche M. GARCÍA GARRIDO, Ius uxorius. El régimen de la mujer casada en el derecho ro-mano, p. 118 nt. 23, nonché A. WATSON, The Law of Obligations, pp. 107 e ss.). In ogni caso, nella sostanza, si afferma che « i criteri accolti nella decisione validamen-te confermano, che essa appartiene al nostro Scevola » (p. 74). Una critica radicale, che finisce, però, per eliminare la ricchezza espositiva del testo, in TH. MAYER MA-LY, Locatio conductio, pp. 38 e ss. (quindi più prudentemente, invece, L. AMIRANTE, Ricerche in tema di locazione, pp. 65-65).

264 Sulle ragioni (sostanziali) dei rilievi pomponiani si veda ancora M. D’ORTA, Saggio sulla ‘heredis institutio’, pp. 151-152.

265 Cfr. G. MACCORMACK, ‘Dolus’ in Decisions of the Mid-classical Jurists (Iu-lian-Marcellus), p. 111 (e vd. anche R. REZZONICO, Il procedimento di compensa-zione nel diritto romano classico, p. 77, con citazione — non del tutto esatta — del testo di D. 34.2.34.1).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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distinguo operato da quello più antico. E questo anche per la ragione

che, all’interno del § 2, compare — come sopra osservato — quel-

l’espressione « tunc rectissime scribit 266 Quintus Mucius », che, in

qualche modo, chiude il cerchio della riflessione e riconduce il tratta-

to entro l’alveo della complessiva approvazione per lo sforzo intellet-

tuale del pontefice 267.

4. Conclusioni e prospettive d’indagine

Alla luce delle riflessioni che sono state condotte nelle pagi-

ne precedenti pare emergere una profonda diversità di approccio, da

parte di Cicerone e di Pomponio, nei confronti dell’opera di Servio,

diversità che si concretizza — come osservato — in un giudizio di

verso (in apparenza) diametralmente opposto 268. E non credo sia me-

todologicamente scorretto domandarsi — almeno come ‘ipotesi di

lavoro’ — quale dei due convincimenti sia, per così dire, ‘più vero’

(ossia, in questi termini, maggiormente ‘rispondente alla realtà dei

266 Si noti, peraltro, che tutti e tre i paragrafi di D. 34.2.34 richiamano l’elabo-

razione muciana attraverso l’uso del verbo scribere (sul quale, in rapporto alle cita-zioni di Quinto Mucio, vd. E. STOLFI, Studi intorno ai ‘libri ad edictum’ di Pompo-nio, I, pp. 312-313 e nt. 28), che, pertanto, sembra rendere più forte anche il legame tra « recte dicetur » e « rectissime scribit ». Del resto, la circostanza per cui, nella prima espressione, il verbo sia ‘dicere’ non toglie forza alla deduzione, poiché indi-ca genericamente ciò che è stato sostenuto ‘recte’ (anche, eventualmente, in forma scritta).

267 Per la trattazione puntuale del frammento cfr. N. BENKE, Zum Eigentumser-werb des Unternehmers bei der ‘locatio conductio irregularis’, pp. 158 e ss.

268 Il giudizio si conferma anche se riguardato dalla parte di Cicerone nei con-fronti del pontefice: vd., per tutti, G. CALBOLI, Aspetti prosopografici nella cultura giuridica tardo-repubblicana, pp. 47 e ss. (in particolare: « E il diritto cominciava solo con Servio — nel giudizio di Ciceron e, ovviamente, poco d isposto nei con fron t i d i Q. Mucio — ad arrivare a questo punto, cioè al livello di una vera ars » [p. 47, la forma in espanso dei caratteri è mia]).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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fatti’) 269 — poiché se l’assetto complessivo della giurisprudenza ro-

mana, quale si trovava a commentare Pomponio nel secondo secolo

d.C., era mutato considerevolmente rispetto all’epoca tardorepubbli-

cana, caratterizzata da una analisi ‘essenzialmente’ topica 270 — al

punto da sconsigliare apparentemente di indagare lungo tale versante

— è certo, invece, che lo stesso Pomponio manifesta in modo palese

il suo apprezzamento per l’attività di Quinto Mucio 271. E questo è

‘tanto vero’ che — come si è avuta occasione di osservare 272 — pro-

prio Pomponio pone a confronto il pontifex e il giurista amico del-

l’Arpinate, creando le premesse per uno scontro che vede, in questo

ordine di idee, vincitore il primo sul secondo 273, nonostante a Servio

269 Mi riferisco, qui, al concetto di veritas come applicato dai giuristi romani,

con la consueta formula ‘et verum est’, intorno a cui rinvio a quanto indagato supra, ntt. 62, 68 e, soprattutto, 227.

270 È appena il caso di accennare al fatto che tale caratteristica non viene meno con la giurisprudenza posteriore, ma subisce certo adattamenti e, in ogni caso, perde la centralità detenuta in epoca tardorepubblicana.

271 Particolarmente incisive, sul punto, le riflessioni di V. SCARANO USSANI, Tra ‘scientia’ e ‘ars’, pp. 224 e ss. = in « Per la storia del pensiero giuridico romano dal-l’età dei pontefici alla scuola di Servio », pp. 252 e ss. = ID., L’ars dei giuristi, pp. 43 e ss., e vd. anche E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e in Gaio, p. 102 nt. 465.

272 Vd. supra, § 2. 273 Tale contrapposizione (creata da Pomponio) appare ancora più evidente se

confrontata con il giudizio di A. SCHIAVONE, Il pensiero giuridico fra scienza del di-ritto e potere imperiale, p. 11: « Sarebbe sbagliato distinguere i giuristi e i dotti tar-dorepubblicani coinvolti nel dibattito sulla ‘modernizzazione’ del diritto in ‘conser-vatori’ e ‘innovatori’: essi si mossero tutti, invece, in un orizzonte che conteneva entrambi questi punti di vista. A dividerli erano soltanti i diversi modelli di rielabo-razione della tradizione che essi cercarono di realizzare. Possiamo considerare Quin-to Mucio Scevola, Servio Sulpicio Rufo e Cicerone come i tre grandi protagonisti della discussione » (cfr. anche ID., Pensiero giuridico e razionalità aristocratica. II La rivoluzione scientifica, pp. 432 e ss., e ID., Ius. L’invenzione del diritto in Occi-dente, pp. 155 e ss.).

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sia riconosciuta la posizione di « figura fortemente innovatrice » ri-

spetto a Quinto Mucio 274.

Non va dimenticato, a questo riguardo 275, che, probabilmen-

te, dovette influire sul variegato giudizio pomponiano — analitico

conoscitore dell’opera del pontefice — l’intuita considerazione del

fatto che, mentre Quinto Mucio avrebbe « costruito nel suo insieme il

Ius civile attraverso l’uso della categoria del genus » e sarebbe « sta-

to il primo in questo tentativo », per contro, Servio, avrebbe « ab-

bandonato in realtà persino l’idea muciana di una esposizione com-

pleta » 276 — e, quindi, sistematica — « del ius civile » 277.

274 Vd., sul punto specifico relativo alla « elaborazione di una (più o meno) pre-

cisa sistematica relativa alla contrattualità consensuale », con giudizio estensibile ad un contesto più ampio, C. CASCIONE, Consensus. Problemi di origine, tutela proces-suale, prospettive sistematiche, p. 413 (e nt. 54).

275 Il giudizio è espresso pur rinviando una dettagliata analisi della metodologia intepretativa di Servio alla parte terza di questi ‘studi’.

276 Senza dimenticare, tuttavia, ciò che sottolineava R. ORESTANO, s.v. ‘Scevola Q. Mucio’, p. 686, laddove affermava che « egli [= Quinto Mucio] eccedette in di-stinzioni e suddistinzioni, e tal altra in raggruppamento di rapporti e istituti in gene-ra, da cui poi desume norme e princìpi generali », per cui « risultava ispirato a con-cetti errati e false somiglianze, onde si prestava facilmente alla critica, di lì a poco iniziata da Servio Sulpicio Rufo ».

277 Cfr. A. SCHIAVONE, Pensiero giuridico e razionalità aristocratica, pp. 436 e 463 (vd., inoltre, ID., Giuristi e nobili, pp. 31 e 110). Ancora più incisivamente, A. GUARINO, L’esigenza giurisprudenziale della sintesi e la sua storia generale, p. 18, osserva che « la verità, nel dualismo Mucio-Servio » — e che si riflette, e a mio giu-dizio, nella lettura di Pomponio — consiste nel fatto che, a differenza di Quinto Mu-cio Scevola, « l’estroverso e brillante Servio, ascoltatissimo dai suoi numerosi audi-tores, preferì al lavoro sistematico l’attività casistica, dunque quella dei responsa e delle quaestiones, nello svolgimento della quale dette rilievo tanto al ius civile quan-to alle soluzioni alternative emergenti dalla giurisdizione inter cives e, in particolare, dagli editti programmatici pubblicati dai magistrati giusdicenti all’inizio dell’anno di carica. Se Servio si differenziò da Quinto Mucio, fu perché, avendo in uggia l’inevi-tabile lentezza comportata dallo scritto, si compiacque di affidarsi alle osservazioni e alle idee fluenti copiose dalla discussione e dall’insegnamento a viva voce e riuscì pertanto ad andare molto al di là del ius civile ».

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Appare, dunque, legittimo cercare di individuare se il metodo

attribuito a Servio — tratteggiato con tanta e articolata meticolosità

da Cicerone — trovi effettivo riscontro nella produzione sua e della

scuola giuridica da lui fondata 278. Una qualche ragione, tuttavia, de-

ve pur esserci se Petronio, nel primo secolo d.C. — e, pertanto, non

molto tempo dopo l’epoca dei giuristi posti a confronto — ancora

accosta Servio (e non già Quinto Mucio) a Labeone, per riferirsi evi-

dentemente a due nomi rappresentativi della scienza giuridica, sep-

pure, nei termini descritti, della tecnica di sottilizzare sull’interpreta-

zione dei verba: « iurisconsulto ‘parret, non parret’ habeto, | atque

esto quicquid Servius et Labeo » 279.

Se tutto quanto premesso è accettabile, risulta necessario, al-

lora, tornare al brano tratto dal Brutus da cui ha preso avvio la prima

parte di questo lavoro 280. Infatti, per quanto entusiastico 281 — come

278 Ulteriore indizio a favore dell’ingegno di Servio può desumersi anche dalla

testimonianza recata da Quint., Inst. or. 12.10.11 (valorizzata da F.P. BREMER, Iuri-sprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 157), in cui si prospetta un singola-re ‘catalogo’ delle migliori personalità dedite all’oratoria — sulle quali, tutte, preva-le, però, Cicerone (ivi, 12): « Mediam illam formam [rispetto a quella dei Lelii, dei Catoni e dei Gracci: ivi, 10] teneant L. Crassus, Q. Hortensius. Tum deinde efflore-scat non multum inter se distantium tempore oratorum ingens proventus. Hic vim Caesaris, indolem Caeli, subtilitatem Calidi, diligentiam Pollionis, dignitatem Mes-salae, sanctitatem Calvi, gravitatem Bruti, acumen Sulpicii, acerbitatem Cassi repe-riemus: in his etiam quos ipsi vidimus copiam Senecae, vires Africani, maturitatem Afri, iucunditatem Crispi, sonum Trachali, elegantiam Secundi ».

Pertanto, tra il vigore di Cesare, la naturale inclinazione di Celio, la capacità di penetrazione di Calidio, il rigore di Pollione, la (nobile) compostezza di Messalla, la purezza di Calvo, la solennità di Bruto e la mordacità di Cassio, da un lato, e la ric-chezza, la forza, la pienezza, l’amabilità, l’intonazione (ossia il fragore) e la squisi-tezza, rispettivamente, di Seneca, di Afro, di Crispo, di Tracalo e di Secondo, dal-l’altro lato, si inserisce l’acume di Servio.

279 Cfr. Petron., Satyr. 137.9.7-8. 280 Cfr. Cic., Brut. 40.150-42.156 (e vd. supra, § 1). 281 In dottrina si è parlato di « affermazione di preminenza che l’arpinate — que-

sta volta [scl.: in Brut. 41.152] in prima persona — non esita ad assegnare a Servio

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consuetudine dell’Autore verso i propri amici 282, seppure all’interno

Sulpicio Rufo di fronte a tutti i giuristi coevi e precedenti »: cfr. F. BONA, Cicerone e i ‘libri iuris civilis’ di Q. Mucio Scevola, p. 240 = ID., Lectio sua, II, p. 869.

282 Si vedano, a titolo d’esempio, le lodi umane e scientifiche tributate dall’Arpi-nate a Servio in Cic., Phil. 9.5.10 (« Semper illius gravitatem, constantiam, fidem, praestantem in re publica tuenda curam atque prudentiam omnium mortalium fama celebrabit. Nec vero silebitur admirabilis quaedam et incredibilis ac paene divina eius in legibus interpretandis, aequitate explicanda scientia »: vd. sul punto L. VAC-

CA, L’‘Aequitas’ nell’‘interpretatio prudentium’, p. 32, che parla di « enfasi laudati-va con cui Cicerone commemora il suo amico Servio Sulpicio ») al punto che egli si spinge a dichiarare che la sua competenza non può essere oggetto di comparazione: Cic., Phil. 9.5.10-11: « Omnes ex omni aetate, qui in hac civitate intellegentiam iu-ris habuerunt, si unum in locum conferantur, cum Ser. Sulpicio non sint comparan-di. Nec enim ille magis iuris consultus quam iustitiae fuit. Ita ea quae proficisceban-tur a legibus et ab iure civili, semper ad facilitatem aequitatemque referebat neque instituere litium actiones malebat quam controversias tollere ». Si veda, infine, an-che Cic., Pro Deiot. 11.32 (in cui si richiama il giurista con il titolo onorifico morale di ‘clarissimus vir’). Sulla testimonianza dell’amicizia ciceroniana — in riferimento a Cic., Brut. 42.154 — vd. M. BRETONE, Il giureconsulto e la memoria, p. 15; utili osservazioni, con opportuni distinguo, anche in V. GIUFFRÈ, Sull’origine della ‘bo-norum venditio’ come esecuzione patrimoniale, p. 361 (e pp. 361-362 ntt. 153-155). Si veda, infine, D. MANTOVANI, L’elogio dei giuristi romani nel proemio al III libro delle ‘Elegantiae’ di Lorenzo Valla. ‘Per quotidianam lectionem Digestorum semper incolumis et in honore fuit lingua romana’, p. 175 nt. 68 (il quale annota acutamente che « proprio grazie agli elogi ciceroniani — i più diffusi che l’antichità ci abbia la-sciato su un giurista — Servio Sulpicio ha goduto di un prestigio eminente in età moderna, prima di essere soppiantato da Quinto Mucio, che è assurto nel corso del-l’Ottocento a precursore della sistematica giuridica »; cfr. anche K. TUORI, Ancient Roman Lawyers and Modern Legal Ideals, pp. 35 e ss. e M. AVENARIUS, ‘Neque id sine magna Servii laude…’. Historisierung der Rechtswissenschaft und Genese von System und Methode bei Donellus, pp. 61 e ss.).

Significativamente F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 148, afferma: « Cicero amicum laudibus efferre nunquam cessavit ». In un con-testo più ampio, interpreta bene il senso dell’agire ciceroniano L. CALBOLI MONTE-

FUSCO, Presentazione, in C.J. CLASSEN, Diritto, retorica, politica. La strategia reto-rica di Cicerone, pp. 7-8, quando afferma che l’Arpinate « sempre, poi, gioca sulla mozione dei sentimenti per influenzare in modo decisivo gli ascoltatori ». In ordine a tematiche affini, ho avuto occasione di occuparmi, ad esempio, del modo in cui l’Arpinate parla dell’attore e, parimenti, amico Q. Roscio nell’omonima oratio (cfr., sul punto, M. MIGLIETTA, ‘Servus dolo occisus’, pp. 93-94 ntt. 222-224). Anche se

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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non mancano eccezioni, come quella segnalata, ad esempio, da M. BRETONE, Cicero-ne e i giuristi del suo tempo, pp. 61-62 e nt. 52 = « Quaderni di storia », pp. 252-253 e 268-269 nt. 52, laddove si tratta di « un’arringa [= Cic., Pro Mur. 11.25-12.26], insieme laudativa e piacevolmente beffarda, che colpiva in Servio l’ufficio e l’arte del giureconsulto », e da D. MANTOVANI, Le formule del processo privato romano. Per la didattica delle Istituzioni di diritto romano 2, p. 19, il quale, in ordine alla Pro Murena, osserva che si tratta della « arringa in cui [Cicerone] fece passare la legis actio sacramenti in rem per un rito goffo e comico ». L’Autore pavese spiega, infat-ti, che « Cicerone aveva tutte le ragioni per procedere in quel modo: doveva mettere in ridicolo la giurisprudenza, che era la professione dell’avversario (solo per quel processo, altrimenti caro amico) Servio Sulpicio Rufo », sebbene — come mi pare sia giusto annotare — anche in quello scontro, al giurista venisse riconosciuta la qualità di « homo sapientissimus atque ornatissimus » (vd. Cic., Pro Mur. 3.7; si vedano anche Ad fam. 4.3.1 e 4.6.1 nonché Cic., Phil. 1.1.3 4.9; in Cic., Ad fam. 4.3.3 egli è inoltre « omnium doctrinarum studiosus »; si veda anche Cic., De off. 2.19.65: su questi passi ancora BRETONE, op. cit., pp. 60 nt. 49, 64-65 e 67-68 = « Quaderni di storia », pp. 255, 257-258 e 267 nt. 49, e per le critiche di Cicerone ai giuristi cfr., da ultimo, E. STOLFI, Die Juristenausbildung in der römischen Republik und im Prinzipat, pp. 16-17 e ntt. 27-28), poiché, in certo qual modo, Cicerone si trovava nella condizione di non dover calcare eccessivamente la mano contro l’ami-co, come ha acutamente sottolineato G. GUARINO, Giusromanistica elementare, p. 217 (di modo che lo stesso strumento dell’ironia è, a ben vedere, in realtà, usata a nascosta salvaguardia della dignitas del giurista e sodale; vd. anche ID., Iusculum iu-ris, p. 23). E così, a ben analizzare tale oratio, Cicerone gioca astutamente — per contrasto — tra l’aspetto della stima e dell’affetto personali e reciproci, da un lato, e la volontà di palesare l’oggettiva ‘ingiustizia’ della posizione assunta sul punto del-l’interpretazione giuridica da Servio, dall’altro. I primi rappresentano, dunque, parte dello strumentario retorico per dimostrare la seconda. Si tratta, in altre parole, di una abile mossa di tecnica ‘psicologica’ — la cui efficacia è legata anche all’imme-diatezza propria dell’oralità, e che W.J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, pp. 59 ss. definisce « psicodinamica dell’oralità », richiamato da MANTOVA-

NI, op. cit., p. 20: ma si tratta, in realtà, e più semplicemente, di uno stratagemma proprio della abilità persuasoria retorica (cfr. B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica 8, pp. 52-53, in particolare, con riferimento all’importanza data alla ‘tipolo-gia dell’uditorio’). In questi termini credo possa leggersi Cic., Pro Mur. 11.24-25 (intorno cui vd. le osservazioni di F. D’IPPOLITO, Giuristi e sapienti in Roma arcai-ca, p. 41 e, implicitamente, F. BONA, La certezza del diritto, p. 112 = ID., Lectio sua, II, p. 929, nonché, dello stesso Autore, L’ideale retorico ciceroniano, p. 378 = ID., Cicerone tra diritto e oratoria, p. 158 = ID., Lectio sua, p. 826, dove si parla di « fo-ga polemica che, in quell’occasione, lo [scl.: Cicerone] opponeva a Servio Sulpicio,

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di una « funzione autoelogiativa » accortamente dissimulata 283 —

tale descrizione si pone a fondamento della opinione corrente in dot-

uno degli accusatori di Murena ». Lettura parzialmente diversa, e dal contenuto più limitato, in G. PUGLIESE, Intervento di chiusura, p. 195).

Tutto questo, tuttavia, potrebbe denunciare un punto di vista (relativamente) an-gusto, almeno a seguire le interessanti riflessioni di J.-H. MICHEL, Le droit romain dans le ‘Pro Murena’ et l’oeuvre de Servius Sulpicius Rufus, pp. 181 e ss., laddove l’Autore intende proporre la suggestione secondo la quale — nei paragrafi 26 e 27 dei capitoli 11 e 12 dell’oratio selezionata — « les dèveloppement et les allusions, — car il y a les deux —, qui touchent le droit privé romain proviennent des ouvrages juridiques de Servius Sulpicius Rufus »; in quest’ottica, dunque, si farebbe riferi-mento all’actio pluviae arcendae, ovviamente all’actio sacramenti in rem, alla tutela mulierum, alla coëmptio (anche nei termini del chiarimento di alcuni aspetti termino-logici — e vd. ‘sacra’). Cicerone, dunque, non si sarebbe limitato a tracciare una li-nea critica sopra l’operato dell’amico Servio, ma ne avrebbe — come accennavo più sopra — valorizzato ugualmente l’elaborazione scientifica, ben oltre, dunque, quello che la dottrina, anche più recente, ha generalmente voluto scorgere (se si eccettuano, appunto, le riflessioni del Michel).

283 Così espressamente F. BONA, La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, p. 137 nt. 74 = ID., Lectio sua, II, p. 953 nt. 74. Si vedano, inol-tre, dello stesso Autore, Cicerone e i ‘libri iuris civilis’, pp. 276-277 = ID., Lectio sua, II, pp. 906-907, le acute osservazioni circa l’effettiva capacità di Cicerone di manifestare la propria amicizia (nel caso di specie, verso Servio). A questo riguardo, G. CALBOLI, Aspetti prosopografici nella cultura giuridica tardo-repubblicana, p. 45, dopo il tratto « videtur mihi in secunda arte primus esse maluisse quam in prima secundus », inserisce interlinearmente — all’interno della versione del passo cicero-niano — la seguente, significativa chiosa: « Cicerone difficilmente pecca di mode-stia, e non tace di ritenersi primo nell’arte retorica » (per la contrapposizione tra Ser-vio e Quinto Mucio, come testimoniata dalle fonti ciceroniane, vd. anche J. KIROV, Die soziale Logik des Rechts, pp. 112-113). Il punto pare essere sfuggito, invece, a J. HARRIES, Cicero and the Jurists, pp. 82-83, in particolare, mentre torna opportuna-mente sul tema la Biscotti, in A. CENDERELLI – B. BISCOTTI, Produzione e scienza del diritto, p. 198, ed ora, da ultimo, A. CASTRO SÁENZ, Itinerarios servianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pontifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), pp. 510-511. Sulle contraddizioni interne al metodo adottato, poiché, « da una parte, egli loda Servio come il fondatore della giu-risprudenza come ars [...]: e, dall’altra, si propone egli stesso la fondazione della giurisprudenza come tale (de iure civili in artem redigendo) », vd. D. NÖRR, I giuri-sti romani: tradizionalismo o progresso?, p. 17 = ID., Historiae iuris romani, II, p. 1393.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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trina 284 secondo cui uno degli elementi di maggiore interesse — ol-

tre che apporto particolarmente fecondo 285 — relativo alla riflessio-

ne della scuola giuridica serviana sia rappresentato proprio dal quasi

naturale 286, consistente impiego del cosiddetto ‘metodo dialettico’ 287

nell’analisi dei casi controversi 288.

284 Ma vd. infra, il giudizio del Di Marzo (e cfr. nt. 289) nonché le osservazioni

critiche di V. ARANGIO RUIZ, Cicerone giurista, p. 7 = ID., Scritti di diritto romano, IV, p. 267.

285 Non limitato, peraltro, alla sola attività del respondere ma esteso, con pari successo, anche a quelle del ‘cavere-agere’, come testimonia una pagina del poeta Marco Manilio (vd. appena infra, in questa stessa nt.), operante tra Augusto e Tibe-rio. Così secondo l’interpretazione — a mio giudizio, condivisibile — di A. GUARI-

NO, Servio Sulpicio e Manilio, pp. 154 e ss. = « Labeo », XIV, 1968, pp. 334 e ss. = ID., Tagliacarte, pp. 114 e ss. = ID., Iusculum Iuris, pp. 130 e ss., in lettura critica di quella (a dire il vero, poco aderente alla realtà giuridica romana) offerta da E. FLO-

RES, Contributi di filologia maniliana, pp. 40 ss. (e nt. 23). Cfr., infatti, Manil., Astron. 4.209-214: « Hic etiam legum tabulas et condita iura | noverit atque notis levibus pendentia verba, | et licitum sciet, et vetitum quae poena sequatur, | perpe-tuus populi privato in limine praetor. | Non alio potius genitus sit Servius astro, | qui leges proprias posuit, cum iura retexit » (sul punto vd. anche V. SCARANO USSANI, L’‘ars’ dei giuristi, p. 36 nt. 54).

286 Come ha osservato D. NÖRR, Divisio und partitio, p. 3 = ID., Historiae iuris antiqui, II, p. 713, gli schemi retorico-filosofici diventeranno talmente ‘connaturali’ — per così esprimersi (l’Autore usa, per contro, l’avverbio « selbstverständlich ») — alla elaborazione di alcuni giuristi, che questi ne faranno un’applicazione prati-camente inconscia, quasi meccanica, al punto che tali schemi saranno funzionali alla stessa rappresentazione del metodo giurisprudenziale (e questo a prescindere dalla validità storica, o dalla domanda circa il loro uso consapevole affiorata presso gli stessi contemporanei).

287 Intorno alla ‘dialektische Methode’ cfr., in particolare, F. SCHULZ, Geschich-te der römischen Rechtswissenschaft, pp. 73 e ss., 152 ss. (e cfr. pp. 74, 76 e 82, con particolare riferimento a Servio Sulpicio Rufo) = ID., Storia della giurisprudenza romana, pp. 119 e ss., 231 e ss. (e, per Servio, pp. 120, 123 e 131-132) e ID., History of Roman Legal Science, pp. 62 e ss., 129 e ss. (specialmente pp. 63, 65, 69); M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, p. 8; M. BRETONE, La tecnica del responso serviano, pp. 7-16 = Il responso nella scuola di Servio, pp. 89-102 e, ancora ultimamente, G. CALBOLI, Introduzione alla inventio, pp. 214-215 nt. 54 (del quale vd. già le riflessioni contenute in ID., Aspetti prosopo-grafici nella cultura giuridica tardo-repubblicana, pp. 45 e ss.). Credo abbia ragio-

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ne, infine, O. BEHRENDS, Le due giurisprudenza romane, pp. 192 e 213 nt. 21, nel sottolineare i limiti della visione riduttiva proposta da P. STEIN, The Place of Servius Sulpicius Rufus in the development of Roman legal science, pp. 176 e ss., circa il ruolo esercitato dal maestro di Alfeno. Per una espressa ricezione di questo fenome-no, si veda, ad esempio, R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, II, pp. 213-214, il quale, a proposito di Ulp. XLIV ad Sab., D. 34.2.27.3 [= Pal. Ulp. 2915], afferma che « il testo offre un chiaro esempio dell’ars dialectica di Servio, ammirata da Cicerone (Brutus 41, 152) ». Cfr. anche G. MOUSOURAKIS, A Legal His-tory of Rome, p. 218 nt. 71.

288 Del resto, il metodo (quanto meno a livello di « impiego della diairesis » os-sia « della distinzione in genera e species » — e vd. già Manilio « un paio di gene-razioni prima »: cfr. Varro, De ling. lat. 7.5.105) era noto anche a Quinto Mucio: cfr. Pomp. l.s. echir., D. 1.2.2.41 [= Pal. Pomp. 178]: « Post hos Quintus Mucius Publii filius pontifex maximus ius civile primus constituit generatim in libros decem et octo redigendo »; secondo C.A. CANNATA, Lineamenti di storia della giurisprudenza eu-ropea 2, I, pp. 45-46, tuttavia, il testo starebbe a significare non tanto che Q. Mucio fosse stato il primo ad utilizzare il metodo dialettico nella elaborazione del ius civile, quanto « il primo ad impostarvi un manuale »; ID., Per una storia della scienza giu-ridica europea, I, pp. 254 e ss. — vd., però, ora ID., Materiali per un corso di fon-damenti del diritto europeo, II, p. 62 nt. 136, in cui l’Autore afferma: « sono ormai sicuro che il senso delle parole riportate non è quello che le ha dato la letteratura romanistica degli ultimi decenni, e [...] cioè che Q. Mucio avrebbe per primo scritto una trattazione del ius civile impiegando diairesi per genera [...]: il “primato” che Pomponio attribuiva a Scevola era solo che egli “per primo realizzò una trattazione complessiva del ius civile” », come prosegue lo studioso — pur non negando in li-nea di principio « classificazioni dialettiche per genera », da parte di Quinto Mucio — « in D.1,2,2,41 generatim è impiegato quale contrapposto di singillatim (come ad es. in Cic., Verr. 5,143) ».

Su questi temi si legga, in proposito, l’interessante pagina di M. BRETONE, Il te-sto giuridico, p. 443 (da cui la citazione su Manilio). Per contro, O. BEHRENDS, Le due giurisprudenza romane, p. 200, ha affermato che « l’ars dialectica di Servio Sulpicio è, in effetti, qualcosa di radicalmente nuovo, cioè un sistema, che predispo-ne concetti formali capaci di sussunzione e quindi riserva al giudice il mero atto del-la sussunzione. Il giudice non è più, qui, partecipe dello stile della grande prassi giu-diziaria che rende effettivi i valori, ma deve applicare concetti già pronti e determi-nati e definitivamente secondo caratteristiche proprie ». Sebbene la premessa del-l’argomentazione appaia esatta, forse andrebbe corretta la visione dell’Autore, trop-po ampia in relazione alle conseguenze sulla attività del iudex, che finisce per essere di natura (pressoché) residuale (lo stesso BEHRENDS, loc. cit., parla, infatti, ancora di « concettualizzazione specificamente formale, che limita la prassi viva alla sussun-zione »). Intorno al metodo adottato da Q. Mucio cfr., in dottrina, soprattutto G. LA

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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Anche una voce fortemente critica e dissonante sul valore di

Servio (o, meglio, sulla attendibilità del passo tratto dal Brutus), co-

me quella del Di Marzo, concorda su questo versante 289.

PIRA, La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. 2. L’arte sistematrice, pp. 338 e ss. (su cui le osservazioni critiche di M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus-species’, p. 10 nt. 27, e, ampiamente, di F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano, pp. 286 e ss. = ID., Cicerone tra diritto e oratoria, pp. 66 e ss. = ID., Lectio sua, II, pp. 721 e ss. e, dello stesso Autore, vd. ancora Cicerone e i ‘libri iuris civilis’ di Q.M. Scevola, pp. 264 e ss. = ID., Lectio sua, II, 892 e ss.); O. BEHRENDS, Wissenschafts-lehre im Zivilrecht des Q. Mucius Scaevola pontifex, pp. 265 e ss.; TALAMANCA, op. cit., pp. 8 e, soprattutto, 211 e ss. (e vd. anche ID., Per la storia della giurisprudenza romana, p. 314). Recentemente: F. CUENA BOY, Sistema jurídico y derecho romano, pp. 94 e ss. (e vd. anche pp. 91 e ss.; su tutti, cfr. anche le osservazioni di CH. BAL-

DUS, Sistema giuridico europeo storicamente fondato?, pp. 128-129) e, da ultimi, A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 136-137, 160 e ss. (di cui, già in precedenza, Nascita della giurisprudenza, pp. 92 e ss. [su cui vd., per tutti, BONA, Rec., pp. 556 e ss. = ID., Lectio sua, II, pp. 659 e ss.] e ID., Giuristi e nobili nella Roma repubblicana, pp. XI e 31 e ss. ~ ID., Linee di storia del pensiero giuri-dico romano, pp. 50 e ss.) nonché (sinteticamente ma efficacemente) P. CANTARONE, ‘Ius controversum’ e controversie giurisprudenziali nel II secolo a.C., p. 420.

289 Cfr. S. DI MARZO, Pro Servio Sulpicio Rufo, pp. 261-262 (in limitata emenda-zione di quanto precedentemente espresso in ID., Corso di storia del diritto romano, pp. 190 ss.): « Il giudizio di Cicerone sul valore di Scevola e di Servio è troppo par-ziale. Cicerone [...] lo emette paragonando sé medesimo a Servio e dopo aver rileva-to, che costui, suo compagno di studi negli anni giovanili, si era probabilmente deci-so a preferire la giurisprudenza all’oratoria perchè aveva scorto, che gli sarebbe stato impossibile conquistare il primato come oratore. Ora, data una premessa sì fatta, Ci-cerone, per giungere alla conclusione, che meditava di esprimere, della sua cordialità verso Servio, non poteva che esaltarne i meriti quale giureconsulto. E in questo per altro l’Arpinate era pur sempre un po’ interessato: così esagerando poneva anche in luce la eccellenza degli studi da lui compiuti con Servio. Si aggiunga, ch’egli non manca di accennare, che diversa era la opinione comune circa il valore rispettivo di Scevola e di Servio, e che i posteri non confermarono il giudizio di Cicerone. Pom-ponio racconta che un rabbuffo di Scevola spinse Servio ad apprendere il diritto civi-le e che Servio fu scrittore assai fecondo, avendo lasciato circa 180 libri, molto dei quali ancora esistevano nell’età adrianea, ma non sa poi attribuire un particolare ca-rattere a questi lavori. Inoltre, se dottrine di Servio vennero in gran copia trasfuse in opere posteriori, nessuno dei suoi scritti formò obbietto di nuove elaborazioni [...]. Servio dunque non apparisce, come Scevola, autore di un sistema di diritto civile, di

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Al di là, pertanto, delle osservazioni conclusive dell’autore

italiano 290, il concetto appare coerente con quanto espresso, sebbene

in estrema sintesi, dallo Schulz. La lettura di quest’ultimo, infatti, po-

trebbe anche non essere troppo distante dalla realtà laddove descrive

l’attività interpretativa di Servio come caratterizzata — da un lato —

dall’impiego di distinzioni 291 o differentiae (quali applicazioni della

« dia…resij » 292, propria della « dialektik» » retorica greca) 293 e

una trattazione fondamentale: critico acuto e valente dialettico, egli soprattutto fu maestro di logica giuridica nel respondere e nel discutere casi e principi singoli ».

290 Vd. nt. precedente. 291 Assai opportunamente M. BRETONE, Storia del diritto romano 8, pp. 202 ss.,

riconduce ad esempi qualificati della tecnica interpretativa serviana i passi tratti da Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.1-2 [= Pal. Alf. 7]; da Alf. VI dig. ab anon. e-pit., D. 5.1.76 [= Pal. Alf. 23] e da Alf. V dig. a Paul. epit., D. 19.2.31 [= Pal. Alf. 71]. Intorno ad ulteriori testimonianze incentrate sullo schema della distinctio, si rin-via, per ora, a J.-G. ROTH, Alfeni Digesta, pp. 45 e ss. (ma una trattazione specifica verrà offerta infra, nel corso della parte III di questi ‘studi’).

292 Sull’impiego della « dia…resij » da parte di Quinto Mucio si veda — oltre agli Autori già citati supra, nt(t). 288 (e 293) — particolarmente A. SCHIAVONE, Na-scita della giurisprudenza, pp. 86 e ss., 90 e 100-101, con i rilievi di M. BRETONE, Cicerone e i giuristi del suo tempo, p. 59 nt. 42 = in « Quaderni di storia », p. 266 nt. 42, (che si richiama ad una posizione più sfumata di F. WIEACKER, Zur Rolle des Ar-guments in der römischen Jurisprudenz, pp. 7-8) e di F. BONA, Rec. ad A. Schiavo-ne, La nascita della giurisprudenza, pp. 557 e ss. = ID., Lectio sua, II, pp. 690 e ss. Sulla portata retorica della « dia…resij » si veda, in particolare, M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, pp. 20 e ss., 46 e ss. (in particolare, su cui anche V. GIUFFRÈ, La diagnosi differenziale dei casi giuridici nell’esperienza romana, p. 46 e nt. 4) e ancora TALAMANCA, Diatribe e paralipome-ni, pp. 681 e ss. (con indicazione e analisi critica della letteratura), nonché U. VIN-

CENTI, Lezioni di metodologia della scienza giuridica, p. 23 (in particolare). 293 Cfr. Cic., De inv. 1.22.31-23.33 e Quint., Inst. or. 1.2.13 e, soprattutto, 4.5.1

(pur con le cautele espresse in Inst. or. 4.5.4-5): cfr. G. LA PIRA, La genesi del siste-ma nella giurisprudenza romana, 4. Il concetto di scienza e gli strumenti della co-struzione scientifica, p. 158 (§ 20). L’importanza del metodo era già stata sottolinea-ta da Q. Mucio: si veda A. SCHIAVONE, Il caso e la natura, p. 59, il quale osserva: « Mucio sa che i tempi sono mutati, e che l’interpretatio dei prudentes dovrà farsi ormai molto più complessa: ed egli stesso darà un contributo essenziale a questa nuova ricchezza, a una superiore articolazione: l’uso della diairesis e di concetti a-

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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— dall’altro lato — dall’attuazione di operazioni di ‘sintesi’ (ossia la

« sÚnqesij » della « sunagwg» ») 294.

In particolare, secondo la communis opinio, è attraverso i di-

gesta di Publio Alfeno Varo 295 — « iureconsultus, Servii Sulpicii di-

scipulus » 296 — i quali racchiudono la porzione più consistente tratta

stratti in funzione descrittiva e tipologica che caratterizza per primo il suo lavoro se-gnerà una svolta senza precedenti nella storia della giurisprudenza — la vera nascita di un sapere giuridico adulto ».

294 Cfr. Plato, Soph. 253D, su cui J. STENZEL, Studien zur Entwicklung der plato- nischen Dialektik von Socrates zu Aristoteles, p. 62 ss. e F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, p. 73 e nt. 2 = ID., Storia della giurisprudenza roma-na, p. 119 nt. 2 (e vd. ID., History of Roman Legal Science, pp. 62 e ss.). Su questi aspetti vd., inoltre, H.J. METTE, Ius civile in artem redactum, pp. 8-9 (anche in meri-to al tema della « ™timolog…a »), ma, soprattutto, le analisi critiche di D. NÖRR, Di-visio und Partitio, pp. 20 e ss. = ID., Historiae iuris antiqui, II, pp. 724 e ss.

295 Sulla originalità del pensiero alfeniano cfr. già E. OTTO, P. Alfenus Varo. Ab injuriis veterum et recentiorum liberatus, in « Thesaurus juris romani », V, coll. 1631-1688.

296 Cfr. Aul. Gell., N.A. 7.5.1: « Quod Alfenus iureconsultus in verbis veteribus interpretandis erravit. Alfenus iureconsultus, Servii Sulpicii discipulus rerumque antiquarum non incuriosus, in libro digestorum tricesimo et quarto, coniectaneorum autem secundo: ‘In foedere’, inquit, ‘quod inter populum romanum et carthaginien-ses factum est, scriptum invenitur, ut carthaginienses quotannis populo romano da-rent certum pondus argenti puri puti, quaesitumque est, quid esset ‘purum putum’. Respondi’, inquit, ‘ego ‘putum’ esse valde purum, sicuti novum ‘novicium’ dicimus et proprium ‘propicium’ augere atque intendere volentes novi et proprii significa-tionem’ ».

Circa le altre testimonianze letterarie intorno a P. Alfeno Varo, cfr. ancora Aul. Gell., N.A. 7 capit. nonché, disegnato nei toni non certo lusinghieri dell’amico tradi-tore, Catull., Carm. 30 (mentre non è il nostro giurista, bensì Quintilio Varo, an-ch’egli cremonese e amico del poeta, quello citato in Carm. 10 e 22: cfr., in proposi-to, il classico studio di A. WEICHERT, De Lucii Varii et Cassii Parmensis vita et car-minibus, pp. 17 e 121-122 [il quale, al di là della condivisibilità delle singole attri-buzioni, aveva dedicato un’intera sezione dell’opera per distinguere i ‘Diversi Vari, qui Ceasaris Augusti aetate vixerunt’ – così dalla rubrica dell’Excursus I, op. cit., pp. 120-138], mentre errava, in proposito, V. LANCETTI, Di P. Alfeno Varo cremone-se console romano, pp. 26-27, reputando che tutti gli epigrammi catulliani si riferis-sero al giureconsulto [e così anche, sinteticamente, ID., Biografia cremonese, I, p. 182]; vd. anche Horat., Carm. 1.18 e 24); Horat., Serm. 1.3.128; Amm. Marcell.,

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dall’esperienza e dall’insegnamento dello scolarca tardorepubblica-

no 297, che sarebbe possibile ripercorrere lo stile e, soprattutto, l’ope-

ratività del metodo della scuola di appartenenza 298. Hist. 30.4.12 (dove il nostro giurista viene richiamato, insieme a Trebazio e Cascel-lio, a proposito della critica mossa agli ‘oratores forentium’ attivi nelle regioni o-rientali [« per Eoos »], in opposizione alla antica e nobile arte della difesa proces-suale: ibid. §§ 3-7, contrapposti ai §§ 8-18 [8 e 11, in particolare]). Alfeno non deve essere confuso, infine, con l’omonimo personaggio che fu praefectus castrorum sot-to Fabio Valente, nel 69 d.C., e menzionato da Tac., Hist. 2.29.2; 2.43.2; 3.36.2; 3.55.1; 3.61.3 e 4.11.3 (per il quale vd. W. EDER, s.v. ‘Alfen(i)us [3] Varus, P.’, col. 489).

297 Sarebbe interessante domandarsi il perché, delle opere degli auditores Servii, solamente quella di Alfeno abbia avuto la sorte di esserci rappresentata da ben due epitomi, l’una composta, probabilmente, tra il principato adrianeo e quello di Setti-mio Severo, la seconda da Paolo (si veda ancora, in proposito, FERRINI, op. cit., pp. 6-7 = ID., Opere, II, pp. 173-174). Si potrebbe ipotizzare, dunque, con un certo mar-gine di attendibilità, che il corpus alfeniano fosse dotato di autonomia ed originalità maggiori rispetto alle opere redatte dagli altri auditores. Questo giudizio sembra, infatti, essere confortato dalla lettura di Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.44 [= Pal. Pomp. 178]: « […] ex his auditoribus [= Servii] plurimum auctoritatis habuit Alfenus Varus et Aulus Ofilius, ex quibus Varus et consul fuit, Ofilius in equestri ordine persevera-vit. Is fuit Caesari familiarissimus et libros de iure civili plurimos et qui omnem par-tem operis fundarent reliquit. Nam de legibus vicensimae primus conscribit: de iu-risdictione idem edictum praetoris primus diligenter composuit, nam ante eum Ser-vius duos libros ad Brutum perquam brevissimos ad edictum subscriptos reliquit ».

A proposito del brano di Pomponio appare controversa l’interpretazione del ter-mine ‘auctoritas’ — ‘somma’ rispetto a quella dei propri colleghi di scuola — ado-perato dall’autore dell’enchiridion per ricordare l’opera di Alfeno e, per relationem, quella di Ofilio. Da un lato, il termine potrebbe essere interpretato come riferito ad una maggiore autorevolezza scientifica (anche in rapporto allo stesso Servio — al-meno per quanto concerne il commento all’editto del pretore: « et libros de iure civi-li – reliquit »); dall’altro — se si dà maggior peso alla menzione del consolato (qua-le suffectus [vd. supra, ‘Introduzione’, nt. 12, e testo a cui si riferisce]) di Alfeno e, rispettivamente, all’ordine equestre di Ofilio — potrebbe leggersi come riferito, di-versamente, alla dignitas ‘politica’ (sul punto cfr., in particolare, D’IPPOLITO, I giu-risti e la città, pp. 15-16 e cfr. pp. 102 ss.; F. WIEACKER, Römische Rechtsgeschich-te, I, p. 552; A. GUARINO, L’esigenza giurisprudenziale della sintesi e la sua storia generale, pp. 20 e ss.; P. CERAMI, Il sistema ofiliano, pp. 86 e ss., e, da ultimo, E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 318 nt. 40 e ID., ‘Plurima in-novare instituit’, p. 68 e nt. 40).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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298 Credo sia opportuno anticipare, fin da ora, e, per ora, quale ipotesi di lavoro,

una sensazione (già) avverita nello studio dei materiali della scuola serviana. Non è da escludere, infatti, che Cicerone (in Brut. 40.150-42.156), da un lato, e Pomponio (in D. 1.2.2.43), dall’altro, proponessero — in realtà — giudizi non del tutto incon-ciliabili, come parrebbe, invece, emergere a prima vista.

La stessa apertura di D. 1.2.2.43 (« Servius autem Sulpicius cum in causis oran-dis primum locum aut pro certo post Marcum Tullium optineret ») può essere riletta in termini di assai minore inconciliabilità rispetto alla sua interpretazione tradiziona-le (e contestualizzante): stride, infatti, senza ombra di dubbio con il séguito — privo di soluzione di continuità (« traditur ad consulendum Quintum Mucium de re amici sui pervenisse... », et rell.: vd. supra, § 2) — ma pare insinuare una prospettiva re-condita, ossia il giudizio per cui, Servio, avesse dimostrato una particolare abilità — paragonabile (o seconda) soltanto a quella ciceroniana — nell’impiego dello stru-mentario dialettico in sede di difesa di cause (e vd. supra, ntt. 289 e, soprattutto, 293), ma non fosse stato un autentico, grande giurista (come emergerebbe dal-l’aneddoto riportato). Ciò che mi pare affiori dal confronto, per così dire, ‘interno’ ai testi (ossia a quelli riferiti a Servio, come contrapposti a quelli di Alfeno, in partico-lare, e di Ofilio) conduce verso la soluzione — per quanto da verificare approfondi-tamente — che il Maestro fosse stato, dunque, eccezionalmente abile nell’instillare il ‘metodo’, ma che, in realtà, l’applicazione casistica ‘concreta’ — e ‘feconda’, in termini di risoluzione delle controversie — di tale metodo, fosse piuttosto da ascri-vere, nella realtà delle cose, all’opera dei suoi auditores. In questi termini, potrebbe anche rivedersi l’opinione corrente, da ultimo espressa, seppure in un contesto più limitato, da A. CASTRO SÁENZ, Itinerarios servianos: Servio Sulpicio Rufo ante Quinto Mucio pontifex, entre la historia y el mito (Pomp. Enchir. D: 1.2.2.43 y Cic. Brut. 41.151-42.154), p. 539, secondo cui è difficile separare ciò che è ‘serviano’ da ciò che è ‘alfeniano’ (lèggi anche: degli allievi di Servio). Sul punto si confrontino le osservazioni di L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Storia di Roma tra diritto e potere, pp. 192-193 (il quale, tra altro, osserva che « con Servio la struttura sostanziale dei pro-blemi di fondo relativi alle grandi categorie giuridiche e alla disciplina specifica di molteplici istituti del diritto privato romano [è] stata posta in termini che non sareb-bero stati modificati granché dalla giurisprudenza dei secoli successivi. Non solo, ma in certi passaggi parrebbe addirittura affiorare in Servio il tentativo di riorganiz-zare l’intera materia giuridica all’interno di un quadro logico sistematico nuovo, i-spirato a una coerenza ‘dogmatica’ che non sarà dato di ritrovare poi neppure nei più grandi giuristi imperiali » [p. 193, in particolare]). Ancora O. BEHRENDS, Die geisti-ge Mitte des römischen Rechts, p. 98 nt. 149, osserva come Q. Mucio non censuras-se, di per sé, le doti intellettuali di Servio, bensì la sua effettiva capacità di compren-dere i fondamenti, per così esprimersi, concreti del fenomeno giuridico. Vd. anche supra, ntt. 98, 100, 163 e 170 (e, per un parziale anticipazione, nt. 147).

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Oltre, infatti, la sussistenza dei gravi problemi di riconduzio-

ne del materiale alla originaria elaborazione del giurista cremone-

se 299 — stanti, come è noto, le due epitomi, anonima e paolina, che

ce ne hanno conservato la produzione scientifica 300 — circa metà dei

settantaquattro frammenti superstiti che la compongono, nella ric-

chezza dei due compedi, avrebbero mantenuto ugualmente, secondo

299 Sul punto cfr. supra, ‘Introduzione’, nt 14. 300 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, coll. 38-45 (Digesta ab anonymo

epitomata = fragm. IV-XXX) e coll. 45-53 (Digesta a Paulo epitomata = fragm. XXXI-LXXIV). Quanto fedelmente l’anonimo epitomatore e, più ancora, Paolo — notoriamente restio alla ‘sospensione del giudizio’ sulla riflessione altrui (sul punto rimando, a titolo d’esempio, a quanto osservato, con indicazioni bibliografiche, in M. MIGLIETTA, ‘Servus dolo occisus’, pp. 271 e ss., e pp. 273-274 nt. 193 in partico-lare) — abbiano riportato il pensiero (e la scrittura) alfeniana non è giudizio che possa essere sciolto in via di deduzione generale, poiché, anche in questo caso, sa-rebbe necessaria un’analisi del linguaggio e, quindi, dei testi (in ordine a cui appare paradigmatico, in particolare, il lavoro di G. NEGRI, Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, pp. 135 e ss.). Del resto, neppure una separazione manichea tra un epitoma-tore anonimo, per così dire, ‘fedele all’originale’ e un Paolo ‘indipendente’ può reg-gere in via assoluta: cfr., infatti, quanto si osserverà, nel prosieguo di questi ‘studi’, a proposito di Alf. II dig. ab anon. epit., D. 18.6.12 [= Pal. Alf. 12] negli inevitabili rapporti con Alf. III dig. a Paul. epit., D. 18.6.13 e 15 [= Pal. Alf. 52] in tema di ‘periculum rei venditae’. Non sono mancati, poi, dubbi sulla stessa paternità paolina della seconda raccolta: A. ORMANNI, Penus legata, p. 686 nt. 230 e, prudentemente, A. DELL’ORO, Le cose collettive nel diritto romano, p. 175 nt. 23.

Ciò che a me pare più singolare — invece, e su cui mi pare nessuno abbia posto il dubbio — è rappresentato dal perfetto coordinamento giustinianeo delle due epi-tomi (cfr. LENEL, op. et loc. ult. cit.), anche dove confrontato con i frammenti che, per altra via, ci hanno conservato l’elaborazione alfeniana (ID., op. cit., coll. 37, 53-54 = frg. 1-3, 75-90). Ebbene, non pare esista un solo passo parallelo tra la prima raccolta, la seconda e gli altri frammenti, come se i Commissari del VI secolo aves-sero accolto materiale, ora, dall’anonimo, ora da Paolo, ora da altri giuristi, senza incorrere in alcuna ripetizione (o come se, ancora più singolarmente, gli epitomatori avessero raccolto materiale del tutto autonomo l’uno rispetto all’altro). Certo, è pos-sibile raffigurarsi la risposta che, in questo caso, il lavoro dei commissari di Giusti-niano sia stato particolarmente accurato e riuscito (vd. const. ‘Deo auctore’, § 1 = C.I. 1.17.1 ‘Tanta-∆έδωκεν’, § 12 = C.I. 1.17.2), ma rimane il dubbio, e la singolari-tà, di un risultato ineccepibile, ben lontano, in quanto tale, dallo stato ‘normale’ del-la collazione di testi nella silloge giustianea.

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

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l’autorevole giudizio del Ferrini, « lo spirito originale dell’opera [...]:

l’amabile semplicità del dettato, la straordinaria e quasi ciceroniana

purità del sermone, il carattere arcaico dello stile, la minuta esposi-

zione del caso pratico che dà origine al responso — tutto, insomma,

ci farebbe credere di aver davanti un giurista degli ultimi tempi della

repubblica » 301.

Tutto questo premesso, mi pare, tuttavia, che — ove si pre-

scinda da osservazioni di tipo ‘esterno’ — resti sostanzialmente inso-

luto un (vero e proprio) dilemma di ordine non solo palingenetico re-

lativo alla attribuzione della sostanza dei frammenti di Alfeno (o,

almeno, di alcuni di essi) 302 al pensiero dello stesso ovvero a quello

301 Così C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, p. 3 = ID., Opere, II, pp.

170-171 (e vd. già E. OTTO, P. Alfenus Varo, p. 1634 ss.; W. KALB, Roms Juristen nach ihrer Sprache dargestellt, p. 36; ancora C. FERRINI, Diritto penale romano. Teorie generali, p. 219 e, infine, P. HUVELIN, Sur un texte d’Alfenus Varus (Dig. 9, 2, fr. 52, 1), p. 559, nonché P. BONFANTE, Storia del diritto romano 4, I, p. 374, che si riferisce ad Alfeno come ad un « giurista assai fine e scrittore nella sua semplice dicitura elegantissimo »). Il Ferrini si riferiva espressamente ai frammenti dell’epi-tomatore anomino, ma il discorso può essere reiterato — almeno a tratti — anche per la raccolta paolina. Più attuale nel linguaggio, ma non meno suggestivo, il giudi-zio di M. BRETONE, Storia del diritto romano 8, p. 202: «Nonostante le incerte vicen-de di una tradizione testuale riduttiva e deformante, la scrittura alfeniana è ancora riconoscibile: nell’evidenza descrittiva, nella vigorosa plasticità, nella icastica ric-chezza dei particolari. Il discorso tecnico con il suo rigore interno, con le sue catego-rie ed ipotesi, si sviluppa da una rappresentazione vivace e minuta del fatto, in cui ricorrono elementi arcaici e reminiscenze del parlare quotidiano. È uno stile che non incontreremo più nella letteratura più tarda». Del resto, come già osservava KALB, op. cit., pp. 35 ss. (ripreso opportunamente da A. BRETONE, Il caso e la natura, p. 360 nt. 70), nel linguaggio stesso di Alfeno si fa ampio ricorso agli arcaismi.

302 Resta, per contro, quasi impossibile procedere alla stessa verifica per quanto concerne i frammenti di Aulo Ofilio, né la dottrina si è spinta oltre su questo fronte. La maggiore difficoltà, infatti, è rappresentata dallo ‘stato’ delle testimonianze ofi-liane (come è opportuno ribadirlo: tutte di tradizione mediata dal pensiero di altri giureconsulti e, quindi, difficile da confrontare con i testi serviani — a noi giunti in versione altreattanto indiretta). L’unico, ipotetico caso di contaminazione è segnala-to da P.F. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 195 [frg. 89 = Ulp. LXX ad ed., D. 43.20.1.17 = Pal. Ulp. 1570; Pal. Ofil. 10, ove « et exstat

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del suo maestro 303. Così come Mario Talamanca ricapitolava il pro-

blema — trattando di normativa edittale che « soltanto con Servio e

con Alfeno […] entra di per sé nel campo visuale dei iuris periti » —

rimangono attuali i « limiti entro cui sia possibile distinguere fra l’at-

tività dell’uno e dell’altro giurista » 304. Già il Frezza, peraltro, carat-

terizzava come « insuperabile » la « difficoltà di raggiungere, attra-

verso le epitomi conservateci nel Digesto di Giustiniano, l’opera ori-

ginale », sebbene ciò fosse corretto dalla considerazione secondo cui,

tutto questo, « non ci toglie la certezza che i responsi di Servio siano

il materiale di cui è fatta la opera » 305. E — tralasciando ulteriori o-

pinioni, suggestive ma prive di riscontro 306 — vi è ancora chi, da ul-

Ofilii sententia » possa stare al posto di ‘Servii sententia’], ma non è che una peti-zione di principio, poiché la relativa proposta mommseniana (mutuata dal commento del Gotofredo) è a qualcuno dei veteres (cfr. P. KRÜGER – TH. MOMMSEN, Corpus iuris civilis, I. Digesta, p. 742 nt. 9, ad h.l.).

Parimenti, e solo per Cinna, cfr. BREMER, op. cit., p. 187 [frg. 63 = Ulp. XXXV ad Sab., D. 23.2.6 = Pal. Ulp. 2797; Pal. Cinnae 1], ma il riferimento al fiume Te-vere, pari a quello racchiuso in Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.5.23 [= Pal. Alf. 56], è elemento di collegamento estremanente esile.

303 Vd. supra, ‘Introduzione’, nt. 15. 304 Cfr. M. TALAMANCA, Diritto e Prassi nel mondo antico, p. 152. 305 Cfr. P. FREZZA, Responsa e quaestiones, p. 208 = ID., Scritti, III, p. 356. 306 Si veda, in particolare, quella di P. FREZZA, Corso di storia del diritto roma-

no 2, p. 379 nt. 35, il quale parlava, a questo riguardo, di « raccolte di responsi, in cui insieme con quelli del maestro erano stati conglobati anche quelli degli audito-res: una specie di opera collettiva di scuola » — opinione che, apparentemente, po-trebbe trovare qualche supporto nei passi in cui si parla espressamente, e, soprattut-to, unitariamente, degli auditores Servii (escluso, per ovvie ragioni l’elenco di que-sti, in Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.44 [= Pal. Pomp. 178] — si vedano: Iavol. II ex post. Lab., D. 33.4.6.1 [= Pal. Iavol. 178: « Ofilius Cascellius, item et Servii audito-res rettulerunt »]; Ulp. LIII ad ed., D. 39.3.1.6 [= Pal. Ulp. 1285: « sed apud Servii auditores relatum est »] e, infine, Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.12 pr. e § 6 [= Pal. Ulp. 2609: « et ita Servium respondisse auditores eius referunt », in entrambi i paragra-fi]). In realtà, allo stato delle nostre conoscenze, la suggestione del Frezza non sem-bra poter essere seguita. Dovremmo avere, intanto, più precisa cognizione dei testi a disposizione di Ulpiano, ma, soprattutto, è necessario tenere in debito conto il fatto che quelli segnalati si inseriscono sempre all’interno di dispute giurisprudenziali

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

201

timo, nell’esasperare la qualità del rapporto scientifico tra maestro ed

allievo, esprime il netto convincimento secondo cui si possa conside-

rare il lavoro di Alfeno come « una vera e propria edizione commen-

tata dei responsi del maestro » 307. Né può essere taciuta l’esistenza

di acute ricerche tese — tra altro — a mostrare che, in alcune testi-

monianze, è possibile « rintracciare spie interessanti più per i giuristi

che, rispettivamente, coinvolgono — nominatim — ora Alfeno, ora Ofilio, ora anco-ra Alfeno, ai quali si unisce, appunto, la citazione collettiva degli auditores. Quale posizione (formale) avesse, dunque, l’opinione di questi ultimi, all’interno del dibat-tito, resta dato incerto.

307 Cfr. A. SCHIAVONE, Ius. L’invezione del diritto in Occidente, p. 215, il quale prosegue affermando che « abbiamo non pochi problemi (come già ci è accaduto per Mucio rispetto a Pomponio) nell’isolare l’autentico nucleo serviano dalle note che spesso vi aggiungeva Alfeno » (il giudizio riprende, del resto, una opinione che l’Autore ha sempre espresso con convinzione: cfr., infatti, in termini pressoché ana-loghi, SCHIAVONE, Giuristi e nobili, p. 111 = ID., Linee di storia del pensiero giuri-dico romano, p. 99; per letteratura vd. anche E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 316 nt. 36). Secondo questa interpretazione, dunque, l’opera alfe-niana avrebbe in sé ben pochi elementi di originalità, non andando al di là di singole osservazioni (più o meno accessorie), per così dire, ‘annotate a margine’ dei testi serviani (o, almeno, di un nucleo di pensiero serviano). E, coerentemente con questa impostazione, lo studioso ritiene che la definizione di dominium, « la cui nozione ricorreva per le prima volta in Servio e in Alfeno », sia desumibile dal « testo di Ser-vio-Alfeno […] in PAUL., 4 Epit. Alf. dig., in D. 8.3.30 », il quale — per restare al tema della presente indagine — ci « restitui[rebbe] la struttura originaria di un re-sponso serviano » (cfr. STOLFI, op. cit., pp. 313 e 477 nt. 97). Sulla fonte, e sul pro-blema della definizione, in particolare, vd. R. MONIER, Du mancipium au dominium. Essai sur l’apparition et le développement de la notion de propriété en Droit ro-main, pp. 68 e ss.; M. BRETONE, La nozione romana di usufrutto, I. Dalle origini a Diocleziano, pp. 28 e ss. (su cui l’ampia critica di GALLO, Rec., pp. 199 e ss.); A. BURDESE, Considerazioni sulla configurazione arcaica delle servitù, pp. 508 e ss.; L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Ricerche sulla struttura delle servitù d’acqua in diritto romano, pp. 71 e ss., 96 e ss.; ID., La struttura della proprietà e la formazione dei ‘iura praediorum’ nell’età repubblicana, I, pp. 493 e ss.; ID., op. cit., II, pp. 276 nt. 12, 278 nt. 18 (ove, invece, « sembra riportato integralmente il pensiero di Alfeno Varo »), 279 nt. 19, 281-282 nt. 20, nonché ID., s.v. ‘Proprietà (diritto romano)’, p. 186 nt. 87 (espressamente). Ora, da ultimo, sull’esistenza di una definizione di do-minium, riferendosi implicitamente anche a questo frammento, vd. U. VINCENTI, I modelli dell’appartenenza, pp. 281 e ss.

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« SERVIUS RESPONDIT »

202

d’ambiente serviano [...] che non per Servio. L’ultimo apparirà sicu-

ramente presente, un po’ come il convitato di pietra di mozartiana

memoria », mentre il ruolo di « primattore » sarà rivestito, comun-

que, da altro giurista (nel caso di specie — Paul. XLIX ad ed.,

D. 39.3.2.6 [= Pal. Paul. 632] — Labeone), il quale si manifesterà

come sorta di « pugile che abbia una serie di ‘sparring-partners’ negli

auditores serviani » 308.

Una gamma tanto ampia di ipotesi è dovuta alla circostanza

secondo cui in dottrina, oggi, come in passato 309, si è sostanzialmen-

te operato prescindendo da un disegno complessivo di ‘analisi per

confronto’ tra la produzione serviana (o, meglio, tra quanto di essa ci

è stato conservato da altri autori) e quella di Alfeno, limitandosi, per

contro, a riscontri occasionali, talora semplicemente fortuiti, ossia

individuati in modo tangenziale in occasione dello studio di singoli

frammenti, senza focalizzare il complesso della tematica 310. E —

come congetturava il Ferrini, con molto buon senso — « non sarà in-

verosimile […] che pur nei digesti alfeniani la materia dovuta a Ser-

vio sia anche maggiore di quella che una prima lettura potrebbe far

ritenere » 311.

308 Così, recentemente, A. MANTELLO, Natura e diritto da Servio a Labeone, p.

220 (nonché pp. ss., 227-228, in particolare). 309 Ove si eccettuino, parzialmente, soltanto le intuizioni di F.D. SANIO, Zur Ge-

schichte der römischen Rechtswissenschaft, p. 75 (in particolare) e di C. FERRINI, In-torno ai Digesti di Alfeno Varo, pp. 12-15 = ID., Opere, II, pp. 178-180. Soprattutto l’Autore italiano — con la consueta profondissima conoscenza dei testi — elencava i paralleli più significativi (ma senza proseguire, come anche il Sanio, nell’analisi puntuale del loro contenuto, in ciò, del resto, giustificato dai ‘confini’ della ricerca che Egli si era prefissata).

310 Sulla posizione di F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae super-sunt, I, circa l’attribuzione di passi alfeniani a Servio, rinvio all’analisi condotta e alle conclusioni raggiunte infra, cap. II.

311 Cfr. ancora C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, p. 15 = ID., Opere, II, p. 180 (in conclusione dello studio).

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CAP. I – SERVIO NELLE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DI POMPONIO

203

Credo, pertanto, che sia di qualche utilità cercare di accerta-

re, ove possibile 312, la presenza di ‘temi serviani’ come penetrati nel-

la riflessione del suo allievo più noto, ma riconducibili al pensiero

del maestro; verificare, poi, se vi sia stata una recezione, per così di-

re, pedissequa o se, invece, lo stesso auditor abbia ulteriormente am-

plificato, riveduto, approfondito gli stessi argomenti, senza limitarsi,

in altre parole, alla semplice memorizzazione del loro dettato 313.

A questa indagine — cui sarà dedicato il terzo capitolo —

deve essere premessa, però, la ricostruzione dei testi serviani — og-

getto delle pagine che seguono immediatamente.

312 Operazione, questa, indispensabile anche per un revisione della palingenesia

dell’opera serviana (e, eventualmente, di quella dei suoi auditores). 313 Una acuta motivazione, che spinge ad attuare una ricerca in tale direzione, e

che si distanzi, pertanto, dall’impianto tradizionale, è stata suggerita da F. CASAVO-

LA, Auditores Servii, pp. 6-7 = ID., Giuristi adrianei, pp. 136-137 = ID., Sententia legum, I, pp. 36-37, il quale ha espresso in modo assai incisivo il fatto che, sebbene « responsi serviani si trovassero nelle opere di Alfeno e di Namusa [questo] non au-torizza a ritenere che essi [siano] stati di peso estratti dai libri di Servio » poiché — come prosegue lo studioso — « questa posizione critica [dipende] dal non tenere presente la distinzione tra avvenimento e narrazione, tra il responso e la relazione che se ne rende per iscritto. Lo stesso responso poté essere stato trascritto da Servio nei suoi libri e dagli auditores nei loro. Dello stesso fatto si costituiscono così due o più testimonianze indipendenti, che possono essere concordi e persino coincidenti nei loro contenuti espositivi, ma ciò non toglie che esse rappresentino due o più in-dividuazioni letterarie ».

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PARTE SECONDA

CAPITOLO SECONDO

MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

SOMMARIO: 1. Premessa. Valore e limiti dell’impostazione bremeriana

(rinvio) – 2. Passi con citazione espressa di Servio caratterizzati dalla strut-

tura tripartita ‘casus – quaestio iuris – responsum’ – 3. Passi con parziale

caduta della tripartizione retti dal verbo ‘respondere’ – 4. Continua: un

frammento singolare retto dal verbo ‘aiere’ – 5. Frammenti con assenza di

tripartizione e retti da verbi diversi da ‘respondere’ – 6. Squarci di elabo-

razione serviana. – 7. Testimonianze serviane nelle fonti letterarie – 8. Le

integrazioni bremeriane – 9. Continua: indizi di attribuzione pervenuti at-

traverso l’opera dei giuristi bizantini d’epoca giustinianea Doroteo e Stefa-

no – 10. Tavole sinottiche e di sintesi dei risultati raggiunti

1. Premessa. Valore e limiti dell’impostazione bremeriana (rinvio)

Come anticipato nelle pagine inziali 1, l’obiettivo che si in-

tende perseguire in questo primo volume di studi corrisponde, innan-

zitutto, ad una analisi ragionata del materiale serviano 2, in vista della

1 Vd. supra, ‘Introduzione’, § 2. 2 A cui è dedicata la ‘Parte seconda’ di questo lavoro.

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206

verifica circa l’‘effettività’ e l’‘efficacia’ del metodo interpretativo

inaugurato da Servio — l’illustrazione del quale apre naturalmente,

in questa sede, gli studi 3 — metodo, a sua volta, applicato dagli au-

ditores, e, in modo particolarmente indicativo, da Publio Alfeno Va-

ro 4.

Sotto il primo profilo, ad una lettura incisiva dei testi servia-

ni — com’è noto, tutti di tradizione indiretta 5 — emerge l’esigenza

di sottoporre a nuova e più ampia verifica, e quindi ad eventuale re-

visione, i risultati raggiunti a distanza di pochi anni l’uno dall’altro

— ma ormai a più di un secolo rispetto ai nostri giorni 6 — da Otto

Lenel 7 e, quindi, con una articolazione ancora maggiore, da Franz

Peter Bremer 8.

3 Vd. supra, cap. I. 4 Questo è detto per l’intuitiva ragione che il materiale di Publio Alfeno Varo ci

è stato in qualche modo conservato — più o meno aderentemente alla versione ori-ginale — nelle due epitomi (vd. supra, ‘Introduzione’, nt. 14).

5 Vd. supra, ‘Introduzione’, § 1 e infra, § 10 (in particolare). 6 Nonostante sia doveroso ricordare che tali ricostruzioni mantengono intatto il

loro carattere fondamentale. 7 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, coll. 321-334. 8 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 139-

242. A questo riguardo, vorrei notare — incidenter tantum — come la sistemazione

dei materiali serviani, ad opera del Bremer, non dovette costituire un còmpito sem-plice neppure per lo stesso Autore. Se si confronta, infatti, la tabella intitolata ‘cor-rigenda et addenda’ (vd. BREMER, op. cit., p. VI), ci si accorge che, delle quattordici correzioni proposte per l’intero volume, ben sette appartengono alla sola ‘palingene-sia’ serviana (ivi, pp. 139-242), e che, in due di esse, il Bremer avanzò dubbi circa la bontà di altrettante ipotesi interpolazionistiche accolte all’interno del testo (e, peral-tro, mantenute in quella sede). A questo proposito, mi pare difficile da comprendere la ragione per cui — rubrica (‘de iudiciis publicis’) mutata in ‘de noxalibus iudiciis’ — il frg. 149 debba essere anticipato a p. 201, come afferma l’Autore, poiché colà si tratta delle seguenti materie: ‘de mancipiis venditis’, ‘de lectis venditis’ e ‘de loca-tione conductione, de fundo conducto’, di cui non riesco a ravvisare la coerenza (cfr. BREMER, op. cit., pp. 200-201 e 216-217). Probabilmente il Bremer intendeva rinvia-re ad op. cit., p. 210, dove, per contro, sono contenuti temi ‘de damno iniuria dato’ e ‘de iniuria’, che chiudono la sezione dedicata ai privata delicta. L’attuale rinvio po-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

207

Questo lavoro di revisione verrà condotto anche alla luce di

un censimento effettuato sulle fonti bizantine, troppo velocemente

(nonché, per così dire, ‘rapsodicamente’) condotto dal Bremer, del

tutto omesso dal Lenel e, sulla sua scorta, salvo pochissime eccezio-

ni, dalla dottrina successiva 9. In alcuni casi, infatti, le testimonianze

bizantine riportano il nome del giurista, e confermano, così, la tradi-

zione latina, nel fornire, talora, ulteriori spunti di riflessione.

In altri casi — che saranno oggetto di specifica valutazione

— il nome di Servio è reso esplicito dai giuristi bizantini addirittura

laddove, invece, esso è taciuto dalle relative fonti di lingua latina. E

ciò che più pare rilevare è il fatto che l’esplicitazione sia dovuta a

Stefano e a Doroteo, ossia a giuristi d’epoca giustinianea e immedia-

tamente posteriore, i quali erano in condizione di leggere anche testi

originali 10.

Il dato è tanto più rilevante ove si tenga in debito conto che

— come è stato osservato in dottrina — « talune citazioni di autori

trebbe (scl.: dovrebbe), dunque, essere frutto di un semplice, ma ulteriore, refuso.

9 Vd. infra, nt. 12. Al di là di una personale predilezione per questo genere di fonti (mi permetto di rinviare a M. MIGLIETTA, ‘Servus dolo occisus’, pp. 128 e ss., 242 e ss., 332 e ss. e 369 e ss.; nonché ad ID., Logiche di giuristi romani e bizantini a confronto in materia di stima aquiliana delle ‘causae corpori cohaerentes’, pp. 221 e ss. nonché, ancora, ID., Riflessioni intorno a Bas. 32.1.31.1: problemi testuali e prospettive di giuristi bizantini, pp. 689 e ss.), è necessario tenere in debito conto, a questo riguardo, il fatto che oggi, a differenza dell’epoca in cui lavorarono i due grandi studiosi tedeschi, disponiamo dell’edizione dei libri Basilicorum di Schelte-ma, van der Wal e Holwerda (filologicamente e criticamente assai più attendibile rispetto a quella dei fratelli Heimbach, nonostante le integrazioni avanzate attraverso i ‘Supplementa’ dello Zachariä von Lingenthal e di Ferrini e Mercati: ora, in edizio-ne anastastica, come Basilicorum libri LX. Supplementa editionis Basilicorum heim-bachianae [M. Miglietta, cur.], pp. 7-304), nonché dell’importante collezione dei ‘Fontes minores’, giunta al volume XI (2005), édita nelle ‘Forschungen zur byzanti-nischen Rechtsgeschichte’ [Frankfurt a.M., 1976 e ss.] da Dieter Simon e da Ludwig Burgmann.

10 Vd. infra, § 9 (‘Indizi di attribuzione pervenuti attraverso la tradizione bizan-tina’), con indicazioni di fonti e letteratura.

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« SERVIUS RESPONDIT »

208

classici sono più esatte in scolii di Stefano e Doroteo che non nel

manoscritto fiorentino » 11. Non è, infatti, privo di ragionevolezza

quanto affermato da Schulz, quando assume che i giuristi bizantini

potessero avere a disposizione l’epitome di Alfeno con informazioni

più precise circa l’effettivo autore del responso 12.

Allo stesso modo, non pare metodologicamente opportuno

tralasciare una rivisitazione delle ipotesi interpolazionistiche 13 (o,

almeno, di quelle più rilevanti) 14, né l’analisi della dottrina che si è

11 Così, espressamente, V. GIUFFRÈ, s.v. ‘Scolii’, p. 773 nt. 8 (e vd. anche, in ge-

nerale, le osservazioni di H.-J. SCHELTEMA, Über die Werke des Stephanus, pp. 5 e ss., nonché, e.g., ID., Les sources du droit de Justinien dans l’empire d’Orient, pp. 3 e ss. (ma ivi, pp. 8-9) = ID., Opera minora ad iuris historiam pertinentia, pp. 270 e ss.; cfr. anche ID., Opmerkingen over Grieksche bewerkingen von Latijnsche bron-nen, passim = ID., Opera minora, pp. 189 e ss.; ID., Über die Scholienapparate der Basiliken, pp. 139 e ss. = ID., Opera minora, pp. 359 e ss.). In questo senso, la ricer-ca (rectius: il censimento) delle fonti bizantine in materia si inserisce nel filone d’indagine inaugurato da S. RICCOBONO, Tracce di diritto romano classico nelle col-lezioni giuridiche bizantine, pp. 153 e ss.; ID., Il valore delle collezioni giuridiche bizantine per lo studio critico del ‘Corpus Iuris’, pp. 463 e ss.; per questi profili vd., ora, R. ORTU, Salvatore Riccobono nell’Università di Sassari, p. web ‘Tradizione Romana’ [online] nonché M. MIGLIETTA, Riflessioni intorno a Bas. 23.1.31.1, pp. 691-692 nt. 2.

12 Cfr. F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, pp. 255-256 nt. 4 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 367 nt. 2 (e vd. ID., Roman Legal Science 2, p. 206 nt. 3). Vd., però, C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, p. 9 nt. 2 = ID., Opere, II, p. 175 nt. 2.

13 Per la ‘nascita’ della stagione interpolazionistica si veda, in particolare, A. GUARINO, Sulla credibilità della scienza romanistica moderna, pp. 61 e ss. = ID., Pagine di diritto romano, pp. 403 e ss. = ID., La ricerca del diritto. Spunti di un giu-sromanista, pp. 120 e ss.

14 L’interesse per i profili di critica testuale dello studioso contemporaneo si ar-resta, inatti, di fronte ad affermazioni che hanno il sapore della mera soggettività. Risulta particolarmente emblematico del modo di ragionare e di procedere adottato, talora, dagli studiosi di fine ottocento e inizio novecento quanto annotava — a pro-posito di Alf. II dig. a Paul. epit., D. 33.1.22 [= Pal. Alf. 35] — F.P. BREMER, Iuri-sprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 183,: « vox ‘quotienscu[m]que’ ve-reor ne interpolata sit » [sic!; la forma spaziata dei caratteri è mia].

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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occupata di profili palingenetici, relativi alle testimonianze analizza-

te.

Ancora una volta, e in modo coerente con l’‘obiettivo gene-

rale’ più sopra dichiarato 15, bisogna ribadire che, in questa sede 16,

non si vuole procedere all’offerta di una nuova (o, forse meglio, in-

tegrale) ‘palingenesi serviana’, bensì a quella dei risultati relativi ad

una revisione analitica e ragionata dei testi (in punto ‘attribuibilità

contenutistica’ al giurista tardorepubblicano) 17, al fine di proporre

Si veda, ancora, ID., op. cit., p. 314, in relazione ad Alf. II dig. ab anon. epit.,

D. 19.1.26 [= Pal. Alf. 13: « Si quis, cum fundum venderet, dolia centum, quae in fundo esse adfirmabat, accessura dixisset, quamvis ibi nullum dolium fuisset, tamen dolia emptori debebit »]: « Triboniani manus aperta est » [!] (contra, però, già E. SECKEL – E. LEVY, Die Gefahrtragung beim Kauf im klassischen römischen Recht, p. 126). Cosa renda, infatti, ‘scoperto’ l’‘intervento (diretto)’ dei Compilatori, risulta avvolto dalle tenebre. Intanto — al di là del fenomeno di compressione di casus, quaestio e responsum, frutto del lavoro dei commissari giustinianei (o, forse, già dello stesso epitomatore anonimo) — i profili linguistici del frammento rimandano allo stile espressivo della scuola serviana (‘si quis...’; la costruzione cum e congiun-tivo; ‘accessura dixisset’; ‘quamvis ibi nullum dolium fuisset’; ‘tamen... deberi’). Inoltre, la testimonianza partecipa di quella particolare forma retorica dell’argomentazione per absurdum — frequente in Alfeno (cfr., in particolare, M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi 2, pp. 81 e ss. — che pure non cita il pas-so in questione, ma vd. H.-J. ROTH, Alfeni Digesta, pp. 82-83, e nt. 66 per bibliogra-fia — e, per una diversa lettura, in tema di responsabilità contrattuale del venditore, cfr., tuttavia, L. DE SARLO, Alfeno Varo e i suoi digesta, pp. 92 e ss.) — che spinge a supporre che il testo non sia affatto compilatorio ma, esattamente all’opposto, abbia mantenuto segni evidenti, formali e contenutistici, della sua origine.

15 Vd. supra, ‘Introduzione’, § 2. 16 Alludo a questa parte degli ‘studi’ e a questo capitolo. 17 In altri termini, non si intende cercare di raggiungere — per così esprimersi —

gli ‘ipsissima verba Servii’: va da sé, infatti, che si presenta come operazione parti-colarmente difficile (per non dire praticamente impossibile) poter raggiungere le ‘autentiche’ parole di giuristi, soprattutto quando il loro pensiero sia stato riportato da altri, e sia stato filtrato dalla mediazione giustinianea. Più realisticamente si tratta di individuare i ‘temi’ serviani, e, meglio ancora, le parti che il discorso serviano copre all’interno dei frammenti in cui esso è riportato. Questa operazione appare necessaria ai fini di quanto si è detto supra, cap. I, § 4 (‘Conclusioni e prospettive d’indagine’ ). Ripercorrere la ‘consistenza’ della elaborazione serviana può aiutare a

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« SERVIUS RESPONDIT »

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materiali utili per una ‘palingenesia’ delle testimonianze che lo ri-

guardano 18.

A questo proposito, va, tuttavia, aggiunto che è rimasta isola-

ta — e, sostanzialmente, non rilevata in dottrina — la soluzione per

così dire ‘estremistica’ di Bremer (che finisce, in realtà, per aggirare

il problema) 19, il quale si risolse per la riconduzione al nostro giuri-

sta (anche) di gran parte della produzione a noi pervenuta dei suoi

auditores — con una posizione del tutto preminente per le testimo-

nianze alfeniane, tant’è vero che (come mi pare non sia stato adegua-

tamente notato) egli distingue l’opera di Publio Alfeno Varo in « re-

sponsa » 20 e in « <Servii Sulpicii Alfenique Vari responsorum ab Al-

feno> digestorum libri XL » 21, proponendo, dunque, una sorta di

coincidenza (c’è da domandarsi se di natura esclusivamente sostan-

ziale) tra l’opera dell’uno e dell’altro giurista 22. Così come simil-

meglio comprendere i temi correnti in giurisprudenza, la discussione scientifica ad essi relativa, e il modo di citazione del pensiero dei giuristi anteriori da parte di quel-li posteriori (o, talora, contemporanei).

18 Penso, a questo proposito, al lavoro di Giovanni Negri, il quale sta procedendo in parallelo, e in uno con Lauretta Maganzani, all’analisi di queste testimonianze, nell’àmbito del progetto intitolato ‘Corpus scriptorum iuris romani’ (cfr. V. MA-

ROTTA – E. STOLFI, L’inizio dei lavori, p. 589 e nt. 5). 19 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 167-

242 (e vd. anche pp. 267 e ss.). 20 Cfr. ID., op. cit., p. 282, rubr. (e pp. 283-289, per i testi, tra cui, ad esempio,

inserisce Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.2 [= Pal. Alf. 7], senza alcuna annota-zione, che vedremo [nella trattazione che si farà all’interno del cap. III] contenere, invece, una tematica sicuramente serviana, tràdita dall’auditor; e vd. anche op. cit., pp. 325-326. Discorso soltanto in parte uguale può essere svolto con riguardo ad Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.1.5 [= Pal. Alf. 6], che si è appena visto essere stato indi-cato da Bremer, nella sede serviana, come testo da recuperare al pensiero del Mae-stro: cfr. op. cit., p. 286 — senza alcun appunto — ma vd. p. 327: « cf. Servii re-sponsa 138 »).

21 Cfr. ID., op. cit., p. 289, rubr. (e pp. 292-329, per i testi). 22 A ben vedere è qui accolta — dunque e nella versione più oltranzistica — la

posizione di coloro che ritengono Alfeno diligente, ma puro, trascrittore dei respon-sa del caposcuola (cfr. supra, ‘Introduzione’, nt. 15 e cap. I, § 4, ntt. 302-303). Cfr.,

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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mente e con riguardo alla produzione di Aufidio Namusa il lavoro

relativo è indicato con il titolo di « Servii Sulpicii auditorum libri ab

Aufidio Namusa digesti » 23, sebbene l’opzione bremeriana trovi, in

qualche misura, legittimazione in ciò che ricorda Pomponio in

D. 1.2.2.44 24, ma presupponendo, pur sempre, una raccolta (un ‘di-

gerere’, appunto) 25 di materiale originato dal pensiero del capofi-

la 26.

Come conseguenza della strategia adottata, il Bremer giunge

a congetturare, pertanto, l’esistenza di un’opera serviana, residua e

complessiva, di oltre duecento frammenti 27 — ai quali si potrebbe infatti, BREMER, op. cit., p. 283: « Alfenum responsa sua [= Servii] omnia in libros recepisse manifestum est » (e cfr., inoltre, p. 289).

23 Cfr. BREMER, op. cit., p. 276, rubr. (e vd. anche ivi, p. 275: « operis nomen vulgatum Aufidii Namusae Digesta fuisse videtur, sed nomen, quod auctor ipse operi dedit, hoc fere fuisse puto: ‘Servii auditorum libri ab Aufidio Namusa digesti’ » e si prosegue ipotizzando che « a posteris enim nonnunquam ‘Servii auditores’ nominantur ita quidem, ut Namusae opus hoc nomine designari videatur »). Non contrario all’ipotesi bremeriana si manifesta C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, pp. 277-278 nt. 274.

24 Cfr. Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.44 [= Pal. Pomp. 178]: « ... ex his [scl.: Servii auditores] decem libros octo conscripserunt, quorum omnes qui fuerunt libri digesti sunt ab Aufidio Namusa in centum quadraginta libros... », et rell.

25 Cfr., infatti, Ulp. XXVIII ad ed., D. 13.6.5.7 [= Pal. Ulp. 802 → Pal. Nam. 2: « Si servum tibi tectorem commodavero et de machina ceciderit, periculum meum esse Namusa ait »], a riguardo del quale BREMER, op. cit., p. 208, osserva significa-tivamente: « Servii responsum Namusam rettulisse ver i s imi l e e s t » (la forma dei caratteri è mia).

26 Cfr., per Aufudio Tucca, ID., op. cit., p. 267 (« de iure libros conscripsit, cum aliorum Servii auditorum libris ab Aufidio Namusa in unum corpus digestos »); ivi, p. 269, per C. Ateio (« a Pomponio inter eos Servii auditores refertur, qui p raecep-to r i s re sponsa l ib r i s p ro mulgaverun t quorumque libri ab Aufidio Namusa in unum corpus digesti sunt »; la forma espansa è mia); ivi, p. 271, per Pacuvio La-beone, padre del più celebre Antistio (« Pomponius § 44 [scl.: di D. 1.2.2] Pacuvium Labeonem inter eos Servii auditores nominat, qui libros conscripserunt ab Aufidio Namusa in unum corpus digestos »); nonché, infine, ivi, pp. 272 e 273, rispetti-vamente, per Cinna e per Publicio Gellio (con analoghe indicazioni).

27 Nel computo sono ricomprese, ovviamente, anche le testimonianze in cui Ser-vio è citato espressamente, e che verranno analizzate nei paragrafi successivi.

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unire, ad esempio e sulla base di indizi nelle fonti bizantine 28, la te-

stimonianza di Iavol. IV ex post. Lab., D. 19.2.28 [= Pal. Iavol. 203;

Br. 1 notae add.] 29, ma non già quella di Ulp. L ad ed., D. 29.5.1.28

[= Pal. Ulp. 1238], per le pur esatte osservazioni offerte dallo stesso

Autore tedesco, sebbene da questi collegate ad un testo diverso (ossia

a D. 29.5.1.27).

Il rimando, nella tradizione bizantina relativa al passo da ul-

timo menzionato, a « [Ð] Sšrbioj » (Sch. 1 ad Bas. 35.16.1) pare,

infatti, essere frutto di un errore facilmente individuabile, e consi-

stente nell’involontario avvicendamento fra Sšrbioj e Sšx(s)toj

(oppure, al limite, tra il primo e Sškstoj ovvero Sšxktoj) 30, in sede

di trascrizione 31.

28 Per quanto riguarda testi bizantini che suggeriscono ulteriori attribuzioni a

Servio, vd. infra, § 9. 29 Vd. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antahadrianae quae supersunt, I, p. 242

(« Krueger [...] verbum ‘putat’ fortasse ad Servium respicere existimat », ma, soprat-tutto, vd. quanto osservato infra, § 9, frg. G.1 . ), e D. 19.2.28: « pr. Quod si domi habitatione conductor aeque usus fuisset, praestaturum – 1. etiam eius domus mer-cedem, quae vitium fecisset, deberi putat. – 2. Idem iuris esse, si potestatem condu-cendi habebat, uti [ut ei? Mommsen] pretium conductionis praestaret. Sed si locator conductori potestatem conducendae domus non fecisset et is in qua habitaret condu-xisset, tantum ei praestandum putat, quantum sine dolo malo praestitisset. Ceterum si gratuitam habitationem habuisset, pro portione temporis ex locatione domus de-ducendum esse ».

30 Vd. ID., op. cit., p. 242, ad frg. 2: infatti, dove il testo originario afferma « et ait Sextus », la tradizione greca riporta « kaˆ lšgei Sšrbioj ». A questo proposito il Bremer (loc. cit.) osserva: « Quod Basil. 35, 16 habent [...], apertus error est, cum senatus consultum Silanianum, de quo agitur, imperatoriae demum aetatis sit » (an-che se si tratta, in realtà, di Sch. 1 ad Bas. 35.16.1 [Hb. III, 625], il quale, non acce-de, di per sé, a Bas. 35.16.1[.27] = D. 19.5.1.27 — in cui è citato Sextus sull’interpretazione del sintagma « eodem tecto » — bensì a Bas. 35.16.1[.28] = D. 19.5.1.28, in cui si riporta un rescritto del ‘divus Hadrianus’, per cui non v’è dubbio che sia d’epoca imperale postadrianea).

Lo scÒlion, tuttavia, coinvolge entrambe le tematiche implicate dal passo con-tenuto in D. 19.5.1.27-28 = Bas. 35.16.1[.27-28], e il punto in discussione si ricolle-ga alla interpretazione di cosa vada assunto per ‘[sub] eodem tecto’ (« ØpÕ t¾n aÙ-t¾n stšghn »). Come conclude lo stesso Bremer (sulla scorta di A. PERNICE, Labeo,

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

213

Dubbi specifici e congetture — ma non sempre persuasiva-

mente motivati — sono, rispettivamente, sollevati e proposte dal

Bremer in ordine ai singoli frammenti di altri giuristi 32.

Ora, tornando alla visione dei passi interessati, in cui non è

rievocato espressamente il nostro giurista, l’editore tedesco ne offre

un certo numero senza indicare alcuna motivazione che giustifichi

l’attribuzione al medesimo. Inoltre, sovente, egli nulla afferma espli-

citamente in sede di esposizione dei frammenti (‘responsorum’) ser-

viani 33, ovvero — nelle sezioni dedicate ai suoi auditores — non

viene operato nessun rinvio all’opera di Servio. Non solo, ma i refusi

(omissioni, appunto, di dati, e rimandi erronei) — seppure compren-

sibili in un lavoro di così ampia mole, e importanza scientifica, qual

è quello bremeriano 34 — risultano, in ogni caso, molestamente nu-

merosi per il lettore 35.

I.1, p. 86: « die Basilikenscholiasten lesen hier Servius statt Sextus. An sich scheint das unrichtig, da Servius das Sc. Silanianum sicher noch nicht kannte ») « imperato-riae demum aetatis [est] ». E questo — come si è visto — vale anche per il § 28 di D. 19.5.1. L’eco bizantino a Servio, dunque, « apertus error est », come si conclude lapidariamente (sebbene, per quanto segnalato appena sopra [ossia il riferimento a Bas. 35.16.1.27 invece che a Bas. eod. 28] la conclusione non possa essere trat-ta tanto recisamente). In ogni caso, è da notare che l’edizione olandese dei libri Ba-silicorum non ha riprodotto lo scholium di cui si sta trattando (così come è priva di ogni commento dovuto a scoliasti dal tit. II, lib. XXX a tutto il lib. XXXVII dei Ba-silici).

31 Cfr. BREMER, op. cit., p. 242: i due testi appena menzionati, rappresentano i frgg. 1 e 2 della sezione ‘Denique has notas addendas esse duxi’, peraltro conclusi-va del lavoro bremeriano.

32 Vd. infra, § 8 (‘Le intergrazioni bremeriane’ ). 33 Cfr. ID., op. cit., pp. 167 e ss., convinzione, del resto, già esplicitata ivi, p. 283

(per la quale si veda la citazione letterale riportata supra, nt. 22). 34 Ragione per la quale si comprendono giudizi come quello, da ultimo, espresso

da P. CERAMI – G. PURPURA, Profilo storico-giurisprudenziale del diritto pubblico romano, p. 48, in cui si parla di « accurati volumi del Bremer ».

35 Cfr. e.g., F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 199: « Alfeni oratio a Triboniana sic! mutata est »; p. 330, ove il rimando, interno alla stessa palingenesi alfeniana, a « Digestorum fragm. 92. » va riferito, in realtà, al

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Credo che tali sviste siano la risultante di un lavoro di siste-

mazione, per così dire, ‘stratificata’ dei testi. Assai probabilmente,

rispetto ad una prima esposizione del materiale serviano, l’Autore

tedesco deve aver aggiunto o eliminato ulteriori testi — mentre la

sua iurisprudentia antehadriana andava progredendo, con lo studio

graduale dei singoli auditores Servii — cosicché, al termine del-

l’opera di redazione, la numerazione iniziale della palingenesi ser-

viana deve aver subito consistenti variazioni (senza, peraltro, una re-

visione finale della relativa sequenza).

Si noti, infatti, che, nella sezione dedicata a Servio, trattando

dei ‘ad edictum libri duo ad Brutum conscripti’, la numerazione pro-

gressiva dei testi subisce una doppia interruzione (giustificabile sol-

tanto nei termini sopra ipotizzati): dopo il frg. 4 si riprende diretta-

mente dal frg. 7, così come il frg. 13 è seguito, in assenza del frg. 14,

dal frg. 15 36.

Particolarmente sintomatico di tale modus operandi appare,

poi, il destino subito dalla testimonianza tratta da Alf. IV dig. ab a-

non. epit., D. 40.7.14 pr. e § 1 [= Pal. Alf. 18], che il Bremer ricon-

duce — per quanto riguarda entrambi i paragrafi — alla produzione

di Servio 37. A scorrere, però, attentamente la sezione dedicata ad Al-

feno 38 ci si avvede che, nella sua sede naturale, viene riportato e-

sclusivamente il principium del brano (citato in modo esclusivo co-

me « D. 40, 7, 14 », con attribuzione del numero di frg. 29) 39.

frg. 99: vd. già W. KALB, Rec. ad op. cit., coll. 204-205. Alcuni refusi sono stati in-dividuati e segnalati, tuttavia, seppure in numero decisamente contenuto, dallo stes-so BREMER, op. cit., II.2, pp. 594 e ss. (pp. 596-600, in particolare, per i testi della scuola serviana).

36 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 230 e ss., e pp. 234 e 236 in particolare. Vd. anche infra, ‘Tavola IV’, nt. 1134.

37 Cfr. ID., op. cit., p. 185, che attribuisce loro i numeri di frg. 56 e 57 (ma il principium è, come accade talora, menzionato soltanto come « D. 40, 7, 14. »).

38 Cfr. ID., op. cit., pp. 280-330. 39 Cfr. ID., op. cit., p. 300.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

215

Con ogni probabilità, l’editore tedesco — come supponevo

— giunto all’analisi di D. 40.7.14 pr.-1, ne ha replicato integralmente

la presenza nella parte dedicata a Servio, ma, avendolo classificato

come ‘D. 40.7.14’, ha trascurato di inserire il § 1, e proprio nella ri-

partizione dedicata al suo autore, paragrafo che, pertanto, non trova

alcuna menzione nell’opus alfeniano.

Se, dunque, per avventura, un lettore si dovesse affidare alla

semplice edizione bremeriana dei testi di Alfeno, non avrebbe co-

scienza che D. 40.7.14 è composto, in realtà, da un principium (cor-

rettamente riportato) e da un ulteriore paragrafo (invece omesso).

Analogo fenomeno si registra nuovamente per quanto ri-

guarda Alf. III dig. a Paul. epit., D. 24.1.38 pr. e § 1 [= Pal. Alf. 59].

Entrambe le parti sono riprese in Servio, con i numeri di frg.

68 e 69 (ed è sempre omessa l’indicazione specifica del princi-

pium) 40, ma in Alfeno compare soltanto (e sempre implicitamente:

« D. 24, 1, 38. ») il principium, con il numero di frg. 40 41.

Nessuna traccia del § 1 è sopravvissuta nella seconda sede.

Anche con riferimento alla testimonianza di Alf. IV dig. a

Paul. epit., D. 39.3.24.3 [= Pal. Alf. 64] — inserita in Servio, auto-

nomamente, al numero di frg. 74 ? 42 — essa non trova alcuna alloca-

zione nella parte dedicata al suo autore, mentre ivi sono parallela-

mente registrati il principium e i §§ 1 e 2 43, rispettivamente come

Serv. 82 ed Alf. 55 (luogo che rimanda, ancora una volta per errore,

a Serv. 81, e cita il passo 44 unitariamente come « D. 39, 3, 24. », ciò

che deve aver fatto saltare la registrazione del § 3).

40 Cfr. ID., op. cit., pp. 188-189: « D. 24, 1, 38. » (p. 189, ad frg. 69.). 41 Vd. ID., op. cit., p. 304 42 Il punto interrogativo è del Bremer (e segnala, come di prassi, la proposta in

forma dubitativa circa la collocazione sistematica dei testi): cfr. ID., op. cit., p. 190. 43 Cfr. ID., op. cit., pp. 192-193 e 309-310. 44 Cfr. ID., op. cit., p. 309.

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Ancora: Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 50.16.205 [= Pal. Alf.

62] compare nella sezione serviana (al numero di frg. 103) 45, ma non

trova collocazione in quella alfeniana (ove dovrebbe rintracciarsi, pa-

rimenti come per la prima, nella materia ‘de fundo vendito’) 46.

Per queste ragioni, si provvederà, nel luogo ritenuto opportu-

no 47, a segnalare le varie incongruenze 48.

2. Passi con citazione espressa di Servio caratterizzati dalla struttu-

ra tripartita ‘casus – quaestio iuris – responsum’

L’analisi che si intende condurre 49 — secondo le linee appe-

na descritte — deve prendere avvio da due testimonianze in cui è sta-

45 Vd. ID., op. cit., p. 199. 46 Cfr. ID., op. cit., pp. 313-315, e vd. p. 198, rubr. 47 Si veda, infatti, a questo riguardo infra, § 8, all’interno del quale — conclusa

nei precedenti paragrafi del capitolo la disamina dei testi ‘direttamente serviani’, in quanto contenenti la citazione del nome del giurista (disamina svolta secondo il con-fronto instaurabile tra il Digesto e le altre fonti, la Palingenesia del Lenel e la iuri-sprudentia antehadriana del Bremer) — si analizzeranno le ipotesi di quest’ultimo Autore e, a seguire, i dati utili ai fini della nostra indagine recuperabili dalle fonti bizantine.

48 Ma questo, sempre nel rispetto dovuto all’autorevolezza del Bremer e alla ponderosità della sua opera: non bisogna dimenticare, infatti, che la sua analisi ‘a tappeto’ si protrae dalle origini fino a Celso.

49 È, dunque, necessario chiarire fin da subito l’uso dei segni diacritici e delle forme del carattere di cui si farà uso nel corso di questo capitolo.

Intanto, eleggendo come forma il ‘tondo’ tipografico per la relazione dei testi, le parti che appariranno essere di immediata (o, almeno, diretta) assegnabilità a Servio saranno riportate con spaziatura espansa; quelle, invece, direttamente implicate dalla logica di correlazione tra il pensiero serviano e il resto della testimonianza, in tondo non espanso; il corsivo, per contro, sarà riservato a quelle parti del discorso da asse-gnare al giurista referente, o al pensiero di altri giuristi. Laddove siano rinvenute, per così dire, zone d’ombra si adotteranno accorgimenti grafici quali l’uso dei punti di domanda nonché di parentesi quadre in apice (e la gravità o meno del dubbio sarà indicata, nuovamente, dall’uso del corsivo o del tondo). Vd. anche infra, nt. 57.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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ta conservata la struttura tripartita, tipica dello stile dei responsa,

come formalizzata nelle opere digestorum 50, e, quindi, (già) tipica

della produzione di Servio 51.

50 M. D’ORTA, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato, pp. 101-102 e nt.

2, ha rappresentato il ‘responso’ come strumento di ‘controllo sociale’. La definizio-ne attiene, a mio giudizio, più propriamente alle scienze umane moderne, e, di per sé, coincide con una presa di posizione latamente oltranzistica (nonostante i ‘distin-guo’ operati dall’autore, e di cui bisogna dargli atto). Il dato più prossimo alla realtà delle cose mi pare, forse meno esteticamente ma più correttamente, quello dello strumento tecnico teso a regolamentare in modo efficace ed immediato (attraverso una scansione che non ammette soluzione di continuità: fatto → problema giuridico → risposta [tendenzialmente ‘vincolante’: cfr., infatti, quanto espresso da C.A. CANNATA, La giurisprudenza romana, p. 36]) i rapporti sociali. Si può anche conve-nire con la considerazione secondo cui al diritto fosse riconnessa, comunque, una sorta di efficacia in termini di ‘controllo’ della società — e della società romana in particolare, in quanto peculiarmente connotata dal fenomeno giuridico (o, forse, sa-rebbe comunque meglio dire — con il Melillo — in ordine all’epoca analizzata, che « la generazione [di giuristi] a ridosso di Augusto rappresenta la fase matura, ma contemporaneamente pienamente contraddittoria, di una giurisprudenza che è scien-za nel momento stesso in cui vuol essere ‘normazione’ » [cfr. G. MELILLO, Econo-mia e giurisprudenza a Roma, p. 31]). Ma questo, oltre ad essere vero sempre, per ogni ordinamento, e con diversa intensità, non sposta i termini della (ri)definizione della funzione (o, meglio, della ‘natura’) del responsum.

51 Come osserva F. CASAVOLA, ‘Auditores Servii’, p. 157 (e v. pp. segg.) = ID., Giuristi adrianei, p. 132 (e v. pp. segg.) = ID., Sententia legum tra mondo antico e moderno, I, p. 33 (e v. pp. segg.), « è dalla scuola di Servio che nasce un nuovo ge-nere letterario tra quelli sino allora sperimentati dai giureconsulti, un genere che prende nome dalla operazione di digerere, di mettere ordine » (significato che trae origine da un noto passaggio di Cic., De or. 1.41[186]-42[190]: « [...] postea quam est editum, expositis a Cn. Flavio primum actionibus, nulli fuerunt, qui illa artificio-se d iges ta g enera t im comp oneren t – [...] aut alius quispiam... effecerit, ut primum omne ius c i v i l e in g enera d igera t , quae perpauca sunt, deinde eo-rum generum quasi quaedam membra dispertiat, tum proprium cuiusque vim defini-tione declaret, perfectam artem iuris civilis habebitis, magis magnam atque uberem quam difficilem et obscuram »; gli spaziati sono, ovviamente, miei). Cfr. ancora: L. VACCA, La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano, p. 69 e ss.; C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, pp. 273 e ss. (e vd. le riflessioni di G. NEGRI, Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, p. 141).

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Tale struttura, infatti, è notoriamente scandita dalla sequenza

‘casus – quaestio – responsum’ 52, e così affiora intatta in alcuni te-

52 Intorno a questa tripartizione è costruita, ad esempio, l’analisi di C. KRAMPE,

‘Tabernarius consulebat, Alfenus respondit’ – D. 9,2,52,1 Alfenus 2 digestorum, pp. 133 e ss. (e cfr. p. 133, in particolare, ove l’apertura del § 1, ‘Aufbau’ così recita, significativamente: « Sachverhalt, Quästio und Responsum bestimmen den Aufbau der Stelle »). Oltre a vedere, in generale, la voce enciclopedica — che è, in realtà, una vera e propria monografia — di P. JÖRS, ‘Digesta’, coll. 484 e ss. (ove, si licet parva, e se non vedo male, a col. 493 lin. 28, con riferimento all’Index della Floren-tina, « XXXIII 7 OÙlpianoà pandšktou bibl…a dška » sta al posto dell’esatto ‘ XXIV 7 OÙlpianoà …’ et rell.) nonché quella di F. DE MARINI AVONZO, ‘Dige-sta’, pp. 638-639, si rimanda ai lavori di H. PERNICE, Miscellanea zu Rechtsgeschi-chte und Texteskritik, I, pp. 1 e ss. (ossia, in particolare, cap. I, Die Bedeutung des Wortes ‘Digesta’); L. WENGER, Die Quellen des römischen Rechts, p. 495 e nt. 50-52; interessanti osservazioni anche in P. FREZZA, Responsa e quaestiones. Studi e politica del diritto dagli Antonini ai Severi, pp. 207 e ss. = ID., Scritti, III, pp. 355 e ss.; F. WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte, I, pp. 560 e ss., 575 e ss.; F. SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts, pp. 36 e ss. = ID., Principles of Roman Law, pp. 53 e ss. = ID., I principi del diritto romano, pp. 46 e ss.; L. VACCA, La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano, pp. 65 e ss. nonché C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, pp. 210 e ss., vd. anche A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 214 e ss., e, sempre per la scuola ser-viana, si rileggano le analisi di TH. MOMMSEN, Die Bedeutung des Wortes ‘digesta’, pp. 480 e ss. (nonché ID., Sextus Pomponius, p. 477, in particolare, per la proposi-zione della teoria secondo cui le opere digestorum sarebbero state, in realtà, raccolte complessive della produzione di un giurista) = ID., Gesammelte Schriften, II. Juristi-sche Schriften, II, pp. 90 e ss. (e p. 23; vd. anche P. KRÜGER, Ueber die Zusammen-setzung der Digestenwerke, pp. 94 e ss.); per Alfeno, in particolare, cfr. H.-J. ROTH Alfeni Digesta, pp. 65 e ss. Per quanto riguarda, invece, i casi più significativi di permanenza della struttura tripartita nella produzione dei singoli giuristi, con riferi-mento a Nerazio, cfr. R. GREINER, Opera Neratii. Drei Textgeschichten, pp. 12-13 nt. 23 (espressamente), e pp. 137 e ss. in rapporto anche a Marcello (per il quale è testimoniata la stabilità del binomio ‘quaestio - responsum’: cfr. C. ZÜLCH, Der li-ber singularis responsorum des Ulpius Macellus, pp. 18 [‘Das Responsenschema’, in particolare] e ss.), a Scevola (per le cui peculiarità vd., però, T. MASIELLO, Le ‘Questiones’ di Cervidio Scevola, pp. 48-49 e, in modo speciale, circa il fenomeno peculiare del ‘distacco’ dallo stile alfeniano; ID., Le ‘Quaestiones publice tractatae’ di Cervidio Scevola, pp. 131 e ss.; ma vd. anche infra, al termine di questa nota), a Papiniano (al cui riguardo rinvio a WENGER, op. cit., p. 513, con letteratura ivi cit., nt. 266, e, in particolare, per la ‘struttura’ dei suoi responsi, vd. già E. COSTA, Papi-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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sti 53, in modo da consentire la ragionevole conclusione — obietti-

vamente dotata di alta aspettativa di probabilità — che quanto ripor-

tato da altro giurista sia rimasto fedele all’originale serviano, salva

l’inserzione di alcune minime emendazioni, che hanno prevalente, o

addirittura esclusiva, natura formale.

Tutto ciò premesso, va menzionato in primo luogo 54 niano. Studio di storia interna del diritto romano, I, pp. 188-189 — omesso dal Wenger); a Paolo (vd., se ho ben compreso il senso complessivo del brano, H.T. KLAMI, Iulius Paulus, pp. 98-99 e ancora validamente F. SCHULZ, Geschichte del römischen Rechtswissenschaft, pp. 304-305 = ID., Storia della giurisprudenza ro-mana, pp. 431-433) e ad Ulpiano (su entrambi i giuristi severiani — ma con rifles-sioni comparative che coinvolgono anche gli altri — M. TALAMANCA, Per la storia della giurisprudenza romana, pp. 218-219 nt. 36, in particolare). Ancora in merito a Scevola, va segnalato il recente, e, parimenti, accurato lavoro di A. STAFFHORST, Vorsatztat und Vergleichsverhalten – Gedanken zu Scaev. D. 50,9,6, pp. 316 e ss., che offre una interessante disamina del frammento tratto dal primo libro dei suoi digesta [= Pal. Scaev. 2], frammento che, nonostante le peculiarità proprie (intorno cui vd., oltre al lavoro qui indicato, M. TALAMANCA, Particolarismo normativo ed unità della cultura giuridica nell’esperienza romana, pp. 138 e 198-199), manifesta pienamente lo stile tripartito del responso, unito alla particolarità di contenere all’interno del casus (o, meglio, nella relazione della clausola di una lex municipale: « Municipii lege ita cautum erat… » — unico episodio nella giurisprudenza romana [vd. TALAMANCA, op. ult. cit., p. 138, come ribadito da STAFFHORST, op. cit., p. 316 e nt. 8]) un testo citato espressamente in lingua greca, cui segue la prospettazione del punto di diritto problematico (« quaesitum est, an… »), ossia se la pena prevista (di espulsione dal « sunšdrion » e della contestuale corresponsione di seicento dracme a titolo di multa) si estenda anche a coloro che, pur avendo materialmente concretiz-zato il fatto sanzionato — ossia l’aver giudicato fuori dal consiglio — risultino esse-re stati vittime di uno stato di ignoranza (da ritenere, incolpevole o almeno scusabi-le) — e, infine, della soluzione data dal giurista, che esclude tale effetto, richieden-do, pertanto, la conoscenza positiva (« scientes ») del divieto in coloro che lo vìolino (« respondit et… »).

53 Per quanto riguarda i frammenti di Alfeno in cui è menzionato espressamente Servio, vd. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 161; H.-J. ROTH, Alfeni Digesta, p. 25 (in particolare), nonché supra, ‘Introduzione’, nt. 15.

54 I testi verranno censiti, in ogni sezione, secondo la progressione cronologica dei giuristi o degli autori referenti.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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A.1. – Alf. II dig. a Paul. epit., D. 33.7.16.2 [= Pal. Serv.

49 → Pal. Alf. 44; Br. 19 resp. 55] 56: « Quidam uxori fundum, uti

instructus esset, in quo ipse habitabat, legavit. Consultus 57 de

mulieribus lanificis an instrumento continerentur, r espondi t [scl.:

Servius] non quidem esse instrumenti fundi, sed quoniam ipse pa-

ter familias, qui legasset, in eo fundo habitasset, dubitari non

oportere, quin et ancillae et ceterae res, quibus pater familias in eo

fundo esset instructus, omnes legatae viderentur » 58.

Il dato secondo cui il respondente sia Servio è in genere de-

dotto dal primo paragrafo dello stesso passo 59, in cui è contenuta la

55 La sigla « Br. » corrisponde al primo volume di F.P. BREMER, Iurisprudentiae

antehadrianae quae supersunt (Leipzig, 1896), relativamente all’opera di Servio (ivi, pp. 139-242). Il numero che segue tale sigla identifica, invece, l’ordine di frammento attribuito dall’Autore tedesco al passo serviano, a cui è collegata l’opera in cui — sempre a parere del Bremer — l’escerto andrebbe (ri)collocato.

L’opzione dello studioso di attribuire i frammenti all’opera serviana di (presun-ta) origine rende, spesso, non agevole ritrovare la singola testimonianza sulla base del luogo del Digesto (o, comunque, della fonte che la contiene). Per questo motivo, ho indicato anche il luogo leneliano, e, per facilitare le ricerche del lettore, fornirò il capitolo, in appendice, di opportune ‘Tavole sinottiche’: si veda, quindi, in particola-re, infra, § 10 (e cfr., specialmente, la ‘Tavola IV’).

56 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 173 e 294 [Servius, responsorum libri, frg. 19, ‘de fundo legato’ = Alfenus, digestorum libri XL, libb. II-IV ?, frg. 7, ‘de legatis; de fundo legato’].

Il passo manca di corrispondenza all’interno dei libri Basilicorum, poiché Bas. 44.10 costituisce un titolo ‘restitutus’: cfr. BT. VI, 2023 (e, ivi, annotazione ad lin. 16: « hic adfuisse D h.t. fr. 15–28 docet Tip. s.l. » [si tratta di Tipuc. 44.10.15-27]; vd., per la precedente edizione, Bas. 44.10.15 [in Hb. IV, 409], che non presentano, in ogni caso, scholia, e che omettono ogni riferimento al giurista).

57 I segni diacritici del tipo ora utilizzato ( ) stanno ad indicare — qui e di sé-guito — che la fattispecie delineata è all’origine del responso serviano, sebbene quest’ultimo appaia come lo sviluppo di una riflessione ulteriore rispetto al caso di partenza, il quale, pertanto, necessita di essere, in qualche modo, circoscritto.

58 Intorno a questo frammento vd. anche infra, nt. 60. 59 Su questo secondo testo vd. infra, frg. B.2 . .

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

221

citazione espressa « Servius respondit » 60. Così, infatti, Alf. II dig. a

Paul. epit., D. 33.7.16.1 [= Pal. Alf. 44; Pal. Serv. 49]: « [pr. – Villae

instrumento legato suppellectilem non contineri verius est]. 1. – Vi-

nea et istrumento eius legato instrumentum vineae nihil esse Servius

60 Sul punto vd. L. DE SARLO, Alfeno Varo e i suoi digesti, p. 197 e nt. 1; A.

STEINWENTER, Fundus cum instrumento. Eine agrar- und rechtsgeschichtliche Stu-die, pp. 73-74; A. DELL’ORO, Le cose collettive nel diritto romano, p. 141 nt. 1; R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, II, p. 8; H.-J. ROTH, Alfeni Digesta, pp. 23 e nt. 45 (ma non se ne traggono le dovute conclusioni ivi, pp. 33-34; per deduzione indiretta — ossia senza accostare i paragrafi 1 e 2 del passo — anche L. DE SARLO, Alfeno Varo e i suoi digesta, p. 197 e nt. 1). Contra, tuttavia, M.A. LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’‘instrumentum fundi’ tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C., pp. 40 e ss. (e cfr. anche U. JOHN, Die Auslegung des Le-gats, pp. 26 e ss.), sulla base di quella che l’Autrice ritiene costituire una aporia nel pensiero di Servio rispetto a quanto riportato da Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.12.6 [= Pal. Ulp. 2609]; per questa via, la conclusione cui si giunge è quella di leggere, in « consultus » un richiamo allo stesso Alfeno, operato dall’epitomatore Paolo. Ora — al di là delle condivisibili osservazioni sostanziali sviluppate già dall’ASTOLFI, op. cit., pp. 8 e ss. — pare quantomeno singolare, sotto il profilo stilistico, che Paolo abbia epitomato Alfeno riferendosi allo stesso come si trattasse di un proprio com-mento, modalità di citazione, questa, che non conosce altre ricorrenze nell’opera (cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, coll. 45-53: si veda, infatti, a maggior conferma il frammento di Alf. III dig. a Paul. epit., D. 33.10.6 pr. [= Pal. Alf. *60]: « Suppellectilis eas esse res pu to , quae ad usum communem patris familias para-tae essent... », et rell.: in questa sede, e come si può notare, Alfeno interviene in prima persona — mentre nulla consente di supporre che si tratti di una intrusione diretta dell’epitomatore all’interno del discorso giuridico). L’aporia segnalata par-rebbe essere, poi, soltanto apparente, poiché una lettura sinottica dei testi di D. 33.7.16.2 e di D. 33.7.12.6 indirizzerebbe verso la conclusione che essi riguardi-no due ipotesi diverse: nel primo caso si tratta dell’intrumentum fundi; nel secondo dell’instrumentum instrumenti (più ampio, rispetto al primo, e, come tale, compren-sivo anche delle ancillae — nel caso di specie, delle lanificae: del resto, in questa stessa direzione mi pare diriga la parte finale di D. 33.7.16.2, laddove viene citata l’opinione di Servio, confermata dai suoi auditores in D. 33.7.12.6, così come ricor-dato da Ulpiano: vd. C.A. MASCHI, Studi sull’interpretazione dei legati, p. 46 e nt. 1; P. VOCI, Diritto ereditario romano, II, p. 278; vd. anche G. GANDOLFI, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano, p. 320 e M. BRETONE, La tecnica del responso serviano, p. 12 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 97).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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respondit: qui eum consulebat, Cornelium respondisse aiebat palos

perticas rastros ligones instrumenti vineae esse: quod verius est ».

Sebbene, poi, risulti essere abbastanza singolare la forma

verbale adottata, e la relativa morfologia del periodo (« consultus

de… an… respondit […dubitari non oportere] »), in quanto non di

per sé tipica dello stile alfeniano 61, l’anomalia non è tale da consen-

tire di revocare in dubbio l’attribuzione al caposcuola. In primo luo-

go, infatti, la forma adottata non tocca la sostanza del responso e, in

secondo luogo, è testimoniata con sintomatica frequenza all’interno

del linguaggio giurisprudenziale romano del II e del III secolo d.C. e,

in particolare, di quello paolino, autore dell’epitome da cui è tratto il

passo in questione 62 — mentre, a quanto mi risulta, non fa parte del

codice stilistico della cancelleria imperiale 63. Per queste ragioni, si

61 Si tratta, per la verità, dell’unica ricorrenza di questa costruzione sia nel lin-

guaggio di Alfeno, sia in quello di Servio o degli altri suoi auditores. Cfr. infra, nt. seg.

62 L’espressione si trova in Cels. XXXIII dig., D. 50.17.191 [= Pal. Cels. 246]; Afr. VIII quaest., D. 20.4.9 pr. [= Pal. Afr. 89]; IX quaest., D. 40.4.22 [= Pal. 113]; Gai. II fideicomm., D. 32.96 [= Pal. Gai 397]; Scaev. IV resp., D. 34.1.13.2 [= Pal. Scaev. 280] e Paul. l.s. ad l. Facid., D. 35.2.1.19 [= Pal. Paul. 921] (entrambi con de ed ablativo), nonché sempre Paul. XII resp., D. 28.2.25 pr. [= Pal. Paul. 1548].

Con costruzioni più complesse, si vedano anche: Afr. VII quaest., D. 44.7.23 [= Pal. Afr. 75]; Gai. I fideicomm., D. 34.5.5 pr. [= Pal. Gai 392]; Scaev. XXI dig., D. 36.1.80(78).9 [= Pal. Scaev. 90] e Paul. II ad Vit., D. 33.7.18.4 [= Pal. Paul. 2070] (con complemento di argomento); nonché Ulp. LIII ad ed., D. 39.2.7.2 [= Pal. Ulp. 1272].

63 L’uso del verbo — in quanto tale — è abbastanza diffuso nel Codex Theodo-sianus, sebbene, come detto, non trovi corrispondenza la forma qui censita (e dove è sovente appensantito dalla ridondanza espressiva curiale: vd., per tutti, poiché assai significativi, Gesta sen. 3 e 5; Const. de constitut. lin. 20; C.Th. 5.15.18 [Valentin. et Valens, a. 368-373?]; C.Th. 8.5.39 e 44 [Grat., Valentin. et Theod., a. 382: la parte di nostro interesse della const. 44 è stata, invece, soppressa in C.I. 12.50.11]; C.Th. 8.10.3 ~ C.I. 12.61(62).3 [Arcad. et Honor., a. 400]; C.Th. 11.29.1 e C.Th. 11.29.2 ~ C.I. 7.61.1 [Constantin., a. 312 313]; cfr. anche C.Th. 12.12.3 [Valentin., Valens, a. 364] nonché C.Th. 14.4.1 [Constantin., a. 334]).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

223

può ragionevolmente presumere che tale struttura discorsiva — ma

solo questa, e non la sostanza del passo — sia opera della sintesi pao-

lina.

In secondo luogo, si ha

A.2. – Iavol. V ex post. Lab., D. 18.1.80.2 [= Pal. Serv. 25

→ Pal. Iavol. 208 Lab.; Br. 147 resp.] 64: « Silva caedua in quin-

Per le sole forme verbali ‘accostabili’, ma che sono prova della profonda distan-

za espressiva rispetto al sintagma esaminato, si vedano, infatti, C.Th. 2.16.3 ~ C.I. 2.21(22).8 [Honor. et Theod., a. 414]; cfr. anche C.Th. 3.10.1 [iid., a. 409, la parte interessata scompare in C.I. 5.8.1, ma cfr., invece, Interpret. Visig. ad h.l., in fin.]; C.Th. 5.15.20 ~ C.I. 11.65(64).4.1 [Valentin. et Valens, a. 366]; C.Th. 6.27.12 [Ar-cad. et Honor., a. 399]; C.Th. 12.1.178 [Honor. et Theod., a. 415]; vd. anche Const. Sirm. 16, lin. 3: cfr. O. GRADENWITZ, Heidelberger Index zum Theodosianus, p. 45 ad h.v.

Altrettanto diffuso — oltre i casi appena censiti, e quelli, invece, cassati — è l’uso del verbo all’interno del Codex repetitae praelectionis: cfr. C.I. 1.3.26 [Leo, a. 459]; C.I. 5.62.23.1 [Dioclet. et Maximian., a. 294] C.I. 6.23.31 [Iustinian., a. 534]; C.I. 6.37.12 pr. [Alexand., a. 240]; C.I. 7.75.5 [Diocl. et Maximian., a. 293]; C.I. 10.19.8 [Leo et Anthem., a, 468] nonché C.I. 11.65(64).4.1 [Valentin. et Valens, a. 366]: cfr. R. MAYR, Vocabularium Codicis Iustiniani, coll. 713-715, con altre ricor-renze che non presentano ugualmente mai la forma analizzata). Esso, però, risulta essere presente con una incidenza assai sporadica all’interno delle Novelle giustinia-nee: vd. Nov. 34.1; Nov. 37.3 e Nov. 82.14: cfr. I.G. ARCHI – A.M. BARTOLETTI CO-

LOMBO, Legum Iustiniani Imperatoris Vocabularium. Novellae, pars latina, II, pp. 564-565 ad h.v.

64 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 152, 213 [Servius, responsorum libri, frg. 147, ‘de publicanis’] e 238, ove si registra il passo anche a proposito della sezione generale dedicata agli ‘alia opera’ serviani (ivi, il passo è menzionato, per semplice refuso, come « D. 18, 80, 2 »).

Nessuna corrispondenza a D. 18.1.80.2 vi è, poi, all’interno dei Basilici: cfr. BT. III, 923 (poiché la fonte, peraltro del solo § 3, risulta essere Pira 45.16 [ed. C.E. Za-chariae a Lingenthal, p. 191 e vd. BT. loc. cit., ‘Testimonia’ ad h.l.; cfr. C.E. ZA-

CHARIAE A LINGENTHAL, Supplementum editionis Basilicorum heimbachianae, p. 260 = Basilicorum libri LX. Supplementa editionis Basilicorum heimbachianae [M. Miglietta, cur.], p. 276] ma vd. Bas. 19.1.78, in Hb. II, 268 (che è ripreso dal paralle-lo Tipuc. 19.1.78 e, per questo, ritenuto evidentemente come inaffidabile dagli edito-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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quennium venierat: quaerebatur, cum glans decidisset, utrius esset.

Scio Servium respondisse, primum sequendum esse quod ap-

pareret actum esse: quod si in obscuro esset, quaecumque glans ex

his arboribus quae caesae non essent cecidisset, venditoris esse, eam

autem, quae in arboribus fuisset eo tempore cum haec caederentur,

emptoris ? ».

Il testo riportato da Giavoleno (appartenente alla cosiddetta

‘serie labeoniana’) 65 — che potrebbe avere ad oggetto l’affitto o la

cessione in uso di una silva caedua di proprietà dell’erario 66 « sog-

getta a tagli periodici per la durata di cinque anni » 67 — restituisce

integra (anche nell’uso delle forme verbali) la classica tripartizione

del responso 68: la forma verbale ‘quaerebatur’ che vedremo (nel ri olandesi), in ogni caso privo di scolii, e senza menzione di Servio).

65 Assumo, in questa sede, la definizione di D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘li-bri posteriores’ di Labeone, p. 303 (e vd. ivi, nt. 81): « serie Labeo ». Per quanto concerne, poi, la menzione di Servio, mi sembra abbia agito bene F. PRINGSHEIM, Id quod actum est, p. 19 nt. 55, nell’evitare di spingersi oltre la seguente, oculata os-servazione: « ob Servius etwa gegen Q. Mucius polemisierte, ist nicht auszuma-chen », poiché non risultano esserci dati tali da poter concludere per la soluzione positiva (o, per contro, per quella negativa).

66 Cfr. T. SPAGNUOLO VIGORITA – F. MERCOGLIANO, s.v. ‘Tributi. Storia (diritto romano)’, p. 89 e nt. 36. In proposito, M. TALAMANCA, s.v. ‘Vendita (diritto roma-no)’, p. 347 e nt. 435, trattando, invece, dei rapporti tra emptiones rei speratae ed emptiones spei, esclude che in tale contesto possa inserirsi D. 18.1.80.2 (poiché, « probabilmente, le piante che si sarebbero dovute tagliare al momento del contratto erano già esistenti, benché non ‘mature’ per il taglio »).

67 Così G. NEGRI, Diritto minerario romano, I, pp. 56 e 57. 68 Vd. supra, nt. 52 (e testo cui essa si riferisce). Il testo risponderebbe, dunque,

al giudizio espresso da D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘libri posteriores di Labeo-ne’, p. 303, laddove, a proposito delle citazioni serviane (quattro tratte dalla cosid-detta « serie ‘Labeone’ » e otto dalla cosiddetta « serie ‘Giavoleno’ ») si osserva che « l’opinione di Servio — sia che venga apparentemente desunta in modo diretto sia che compaia mediata attraverso una fonte dichiarata — costituisce sempre il fulcro del discorso, si potrebbe dire il punto di partenza. È molto importante osservare co-me si atteggi Labeone rispetto alla dottrina serviana. Spesso manca qualunque suo commento: il responso di Servio su una determinata questione esaurisce l’intero pas-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

225

corso del lavoro) essere tipica dei frammenti serviano-alfeniani; l’uso

del verbo ‘respondere’, sebbene posto all’infinito, ma, ovviamente,

per via dell’inserimento della perifrasi ‘scio Servium respondisse’ 69;

il responsum vero e proprio, infine, articolato altrettanto classica-

mente intorno ad una distinctio 70 (che, nel caso di specie, scaturisce

dal contrasto tra l’accertamento del « quid actum esset » — che, se

rinvenibile attraverso i criteri dell’ermeneutica giuridica, andrà ese-

guito — e ciò che, nel caso contrario, dopo tale indagine, resti infrut-

tuosamente « in obscuro » 71, da cui scaturirà l’applicazione della re-

gula fissata del giurista: « quod si in obscuro esset, quaecumque

glans… eam autem… ») 72.

La forma e la sostanza di D. 18.1.80.2 rispecchiano, dunque,

quello che sarà lo stile ampiamente utilizzato da Alfeno — come sal-

vato nell’epitome anonima 73 — e, per quanto concerne il suo ‘con-

so ». Giustamente, l’Autore ha utilizzato, in chiusura, l’avverbio di tempo. Vi sono testi, infatti, a proposito dei quali il giudizio non è applicabile: si veda, quale signifi-cativo esempio, escerpito non soltanto dalla stessa opera, ma addirittura dallo stesso libro, quello costituito da Iavol. V post. Lab., D. 28.1.25 [= Pal. Iavol. 216] – [frg. B.6 . ], in cui il commento del giurista augusteo è ampio e composito (ed è ripreso, perfino, dallo stesso Giavoleno, che intende riportarlo all’interno dell’alvo del pensiero serviano). Cfr., da ultimo, O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römi-schen Rechts. Die Kulturalanthropologie der skeptischen Akademie, p. 82 nt. 114.

69 A questo riguardo si vedano le esatte deduzioni tratte, in punto attribuzione del principio di diritto, da P. VOCI, s.v. ‘Interpretazione del negozio giuridico (dirit-to romano)’, pp. 253 e 262 (e nt. 62).

70 Tema di cui si tratterà espressamente in una successiva parte di questi ‘studi’. 71 E, a questo riguardo, non può non essere notata l’analogia con la descrizione

del metodo dialettico serviano, nella parte in cui si analizza l’operazione dell’« obscuram explanare interpretando » descritta da Cic., Brut. 41.152 (in ordine a cui vd. supra, cap. I, § 1).

72 In generale, sul passo, vd. H. KAUFMANN, Die altrömische Miete. Ihre Zusam-menhänge mit Gesellschaft, Wirtschaft und staatlicher Vermögensverwaltung, pp. 313 e ss., e, da ultima, U. BABUSIAUX, Id quod actum est. Zur Ermittlung des Par-teiwillens im klassischen römischen Zivilprozeß, pp. 213 e ss. (in particolare).

73 Tant’è vero che, per quanto possa valere a livello indizario, E. LEVY – E. RA-

BEL, Index interpolationum, I, col. 319, ad h.l., all’interno di un titolo alquanto tor-

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« SERVIUS RESPONDIT »

226

tenuto dispositivo’, o, meglio, la sua inseribilità nel contesto giuridi-

co dell’epoca tardorepubblicana, già il Bremer aveva opportunamen-

te scorto il parallelismo instaurabile tra il responso e le disposizioni,

praticamente coeve, racchiuse in un caput della lex Iulia Ursonensis.

Questo, infatti, il testo della lex coloniae Genetivae Iuliae

seu Ursonensis, LXXXII [a. 44 a.C.]: « Qui agri quaeque silvae

quaeq(ue) aedificia c(olonis) c(oloniae) G(enitivae) I(uliae), | quibus

publice utantur, data adtributa e|runt, ne quis eos agros neve eas sil-

vas ven|dito neve locato longius quam in quinquen|nium, neve ad de-

curiones referto neve decu|rionum consultum facito, quo ei agri eae-

ve | silvae veneant aliterve locentur… », et rell. 74.

mentato da rilievi critici, non registrano alcun sintomo di intrusione manifestato da questo brano. Diversamente, invece, A. HÄGERSTRÖM, Der römische Obligationsbe-griff, II, pp. 174 e 214, muove un rilievo abbastanza radicale sulla sezione attribuita a Servio (« was Seruius unmöglich gesagt haben kann »), rilievo che si risolve, tut-tavia, in una mera petizione di principio, poiché resta del tutto indimostrato « dass man die Beweisbarkeit einer Absicht, die von der in der Verhandlung hervortreten-den unabhänging ist, für die zivilrechtliche Verbindlichkeit des Verkäufers bestim-mend sein lässt » (p. 174 [Beilage 6]; e non più meditatamente si esprime l’autore laddove (in op. cit., p. 214 [Beilage 12]), la forma ‘quod actum est’, e ogni altra si-mile, vengono presentate come « immer interpoliert » (i corsivi all’interno delle cita-zioni sono del Hägerström). Sul punto si vedano, infatti, le esatte argomentazioni di G. GANDOLFI, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano, p. 121 e di G. NEGRI, Diritto minerario romano, I, pp. 56 e ss. Il Gandolfi, poi, sulla scorta di F. PRINGSHEIM, Id quod actum est, p. 19 e nt. 58, sottolinea peraltro come, in ra-gione della discussione dello stesso principio (ossia dell’id quod actum est), anche Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 18.1.40.1 e 3 [= Pal. Alf. 62], possa essere frutto della elaborazione serviana (ma non così F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 313-315, che, addirittura, non riporta i §§ menzionati). Appa-re, tuttavia, assai più ragionevole supporre che l’auditor avesse fatto tesoro dell’insegnamento del maestro.

74 Così in « FIRA. », I, p. 185 linn. 30-36 = « Roman Statutes [Crawford, ed.] », I, p. 405, e cfr., sul punto, F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae super-sunt, I, p. 215. Non si può escludere che il responso serviano fosse stato provocato dalla casistica legata all’interpretazione del testo legislativo

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

227

3. Passi con parziale caduta della tripartizione retti dal verbo ‘re-

spondere’

Ai due brani classificati nel precedente paragrafo possono

essere accostati quelli in cui, in primo luogo, pur essendo, per così

dire, caduta la quaestio (ovvero il casus sia deducibile solo indiret-

tamente), il testo riflette quanto espresso da Servio 75, e, in secondo

luogo, il posto del verbo reggente è sempre tenuto dal tecnico ‘re-

spondere’ 76.

Mi riferisco, prima di tutto, ancora ad un frammento di Alfe-

no:

B.1. – Alf. II dig. a Paul. epit., D. 28.5.46(45) [= Pal. Serv.

40 → Pal. Alf. 34; Br. 3 resp.] 77: « ‘Si Maevia mater mea et Fulvia

75 Nel corso dell’intero capitolo — e, in particolare, in queste e nelle sezioni a

seguire — sarà necessario, tuttavia, aver sempre presente la seguente indicazione (che è prima di tutto di metodo): « Nel commento a un’opera altrui è difficile che manchi il pensiero dell’autore commentato. È del pari difficile che il discorso in esso svolto non derivi — salvo le citazioni — o dall’autore commentato o da quello commentante » (così F. GALLO, Interventi, in « Ius controversum e auctoritas prin-cipis » [Atti Copanello 1998], p. 389).

76 Non avrei, invece, la (relativa) certezza di F.P. BREMER, Iurisprudentiae ante-hadrianae quae supersunt, I, p. 191, ad Alf. III dig. a Paul. epit., D. 10.3.27 [= Pal. Alf. 50: « De communi servo unus ex sociis quaestionem habere nisi communis ne-gotii causa iure non potest »], laddove suppone che Alfeno avesse scritto, in realtà, ‘de communi servum… iure non posse Servius r espondi t ’ , attribuendo, quindi, il passo direttamente al maestro. Si tratta, in definitiva, di una mera petizione di principio, e non mi pare esistano prove — neppure indirette, o indizi, o altri elementi di carattere palingenetico — che consentano di accogliere tale proposta. Peraltro, lo stesso Autore (op. cit., p. 307 ad h.l.) non replica l’osservazione all’interno della sezione dedicata alla raccolta dei testi alfeniani, segno della non definitività della ipotesi proposta.

77 Cfr. BREMER, op. cit., pp. 167 e 292 [Servius, responsorum libri, frg. 3, ‘de te-stamentis’ = Alfenus, digestorum libri XL, lib. I, frg. 2, ‘de testamentis’].

Il passo non ha riscontro nei Basilici: cfr. BT. V, 1590 (ma vd. Bas. 35.9.39

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« SERVIUS RESPONDIT »

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filia mea vivent, tum mihi Lucius Titius heres esto’. Servius re -

spondi t , si testator filiam numquam habuerit, mater autem super-

vixisset, tamen Titium heredem fore, quia id, quod impossibile in

testamento scriptum esset, nullam vim haberet ».

L’indizio (per così dire, ‘grave, preciso’ e, inoltre, ‘concor-

dante’ con la citazione espressa del nome del giurista, indizio già

scorto dal Lenel) 78 che si possa trattare di un responso serviano —

per quanto singolare 79, ma non necessariamente grottesco 80 — pro-

viene dal confronto con Pomp. III ad Sab., D. 35.1.6.1 [= Pal. Pomp.

423; Pal. Serv. 40] 81. In questa sede, infatti, viene riproposta — con

qualche trascurabile variante — la clausola « ‘si filia et mater mea

in Hb. III, 572, senza scholia, e senza citazione del nome di Servio). La ragione del-la cassazione operata da Scheltema e van der Wal non è palesata nell’apparato criti-co, ma se ne può capire il fondamento, poiché il testo adottato quale modello da Heimbach è, in realtà, quello di Tipuc. 35.9.44(= 39).

78 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 328, ad h.l. e vd. F. HORAK, Rationes decidendi, pp. 124-125. Vd. anche A. SUMAN, ‘Favor testamenti’ e ‘volun-tas testantium’. Studio di diritto romano, pp. 89 e s. 109 e s.

79 Cfr., a questo proposito, HORAK, op. cit., p. 124 ed ora Á. D’ORS, ‘Familiam non habere’ (D. 28, 5, 4 6[45]), pp. 511 e ss.

80 Cfr. F. SCHULZ, Geschichte del römischen Rechtswissenschaft, p. 108 nt. 1 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 167 nt. 3. Non si può escludere, infatti, che Servio abbia trattato (traendolo dalla pratica o presupponendolo nel ragionamen-to) di un caso in cui il testatore fosse vissuto nella onesta convizione di essere padre di Mevia, risultata, dopo la morte di lui, figlia di altro soggetto. Questo potrebbe su-perare i problemi suscitati, ma non superabili, dall’ipotesi di P. VOCI, Diritto eredi-tario romano, II, p. 613 (secondo cui la figlia potesse essere premorta al testatore), su cui vd. gli esatti rilievi di Á. D’ORS, ‘Familiam non habere’ (D. 28, 5, 4 6[45]), p. 514 (nonché dalla stessa ricostruzione proposta dallo studioso iberico — ‘numquam familiam habuerit’ — che risulta, in ogni caso, incoerente rispetto alla clausola te-stamentaria).

81 Vd. M. BRETONE, La tecnica del responso serviano, p. 11 nt. 7 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 95 nt. 7.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

229

vivent’ », a proposito della quale ancora si afferma, eloquentemente,

che « Servius respondit » 82.

Non solo. Anche una seconda tematica, e la stessa stilistica

di D. 28.5.46(45), depongono a mio avviso per l’appartenenza, sia

degli argomenti, sia dell’argomentazione, al giurista amico di Cice-

rone.

Da un lato, infatti, il tema dell’« id, quod impossibile in te-

stamento scriptum » — con la conseguenza giuridica che « nullam

vim habe[re]t » — rientra a pieno titolo nello sforzo di individuazio-

ne e di formalizzazione dei canoni ermeneutici relativi ai negozi

mortis causa 83, che avvicina sensibilmente il passo di cui si sta trat-

tando — desunto dall’epitome paolina dei digesti alfeniani —

all’altro salvato — invece, nella raccolta adespota — in Alf. V ab

anon. epit., D. 33.8.2 + D. 35.1.27 [= Pal. Alf. 21], in cui si discute,

con una evidente omologia di contenuti, delle disposizioni « quae in

testamento scripta essent neque intellegerentur quid significarent »,

a proposito delle quali si giunge a fissare la regula secondo la quale

82 Per il testo di D. 35.1.6.1 vd. appena infra, frg. B.11. ; sui due brani ora

menzionati, rinvio all’analisi che sarà condotta all’interno del cap. III (tomo II). 83 Cfr. P. VOCI, Linee storiche del diritto ereditario romano, I. dalle origini ai

Severi, pp. 417 e 438 = ID., Il diritto ereditario romano dalle origini ai Severi, pp. 35 e 64, e vd. anche M. KASER, Das römische Privatrecht, I, p. 253 nonché BRETO-

NE op. et loc. cit. (da annotare, invece, la posizione contraria dello Scialoja, condot-ta, tuttavia, sulla base di argomentazioni formali assai deboli — « basterà osservare che la parola impossibile non esisteva ancora nel linguaggio di quel tempo » [il che si risolve in una petizione di principio], né decisivo appare il confronto come opera-to con la parte finale di D. 35.1.6.1 [vd. P. VOCI, Diritto ereditario romano, II, p. 611 nt. 101 e BRETONE, op. et loc. ult. cit.] — cfr. V. SCIALOJA, Ancora sulle condi-zioni impossibili nei testamenti, pp. 26-28 = ID., Studi giuridici, II, pp. 176-177; E. COSTA, Sulle condizioni impossibili nei testamenti, pp. 26-27; A. HÄGESTRÖM, Der römische Obligationsbegriff im Lichte der allgemeinen römischen Rechtsan-schauung, II, Beilagen, I, p. 5; vd. ancora G. GROSSO, I legati nel diritto romano, pp. 437-438, secondo cui la regola sarebbe paolina, e, ivi, pp. ss., per le similitudini e le differenze tra D. 28.4.46(45) e D. 35.1.6.1).

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« SERVIUS RESPONDIT »

230

« ea perinde sunt ac si scripta non essent » (mentre, correlativamen-

te, « reliqua per se ipsa valent »).

Se è vero, inoltre, che sanzioni come ‘quod impossibile est’,

o simili, affiorano con una certa insistenza nel linguaggio della can-

celleria imperiale 84 — alla stessa maniera di formulazioni apparte-

nenti alla tipologia del ‘nullam vim habere’ 85 — esse appaiono u-

gualmente consone al linguaggio serviano-alfeniano. Se in

D. 28.5.46(45) si chiude, appunto, con l’affermazione che « nullam

vim haberet » — con riferimento alla previsione di fatti la cui realiz-

zazione è esterna al campo della possibilità — in D. 35.1.27 si asse-

risce, in modo analogo, che, nel caso di specie, « poenam quidem

84 Giustiniano utilizza sovente il termine de quo: cfr. infatti, con il verbo ‘esse’,

const. ‘Tanta’, 13(14) e 17 = C.I. 1.17.2.13(14) e 17; C.I. 4.38.15.2 [a. 534]; C.I. 5.70.6.1 [a. 530]; ‘impossibile et incognitum esse’, C.I. 6.2.21.5 [a. 530]; cfr. anche C.I. 6.41.1.1 [a. 528]; C.I. 7.40.1 pr. [a. 530]; cfr., poi, Nov. 3.1 pr. [Coll. 1.3]; Nov. 46 praef. [Coll. 5.1], ‘accipere inpossibile esse’; Nov. 97.1 [Auth. 96, Coll. 7.8], ove si riporta la celeberrima ‘regola’ « quod enim factum est infectum manere inpossibile est »; Nov. 59.2 [Auth. 60]; App. const. disp. 7.26, ‘inferre impossibile esse’ (per queste fonti particolari, cfr. I.G. ARCHI, Legum Iustiniani Imperatoris Vocabula-rium. Novellae, Pars latina, IV, p. 1701 ad h.v.); e, per un precedente, vd. C.I. 4.58.3.1 [Diocl. et Maximian., a. 286]; così, per il Codice di Teodosio, vd. C.Th. 13.11.13 [Honor. et Theod., a. 412] — « inpossibile » — e, con ‘iudicare’, nella In-terpr. Visig. ad C.Th. 8.12.1.2 [Constantin, a. 316 323]. Ma l’uso non è di certo ignoto alla giurisprudenza: cfr. Iavol. V ex post Lab., D. 19.2.60.2 [= Pal. Iavol. 212 – Labeo]; Venul. I stipulat., 45.1.137.6 [= Pal. Venul. 53], nella forma di aforisma « quod nunc impossibile est, postea possibile fieri »; Gai. VI ad ed. prov., D. 9.3.2 [= Pal. Gai 135], ‘impossibile est scire’; Ulp. XI ad ed., D. 4.4.9.6 [= Pal. Ulp. 402], ‘impossibile est subveniri’; Ulp. LXVIII ad ed., D. 43.12.1.7 [= Pal. Ulp. 1510]; Ulp. XLII ad Sab., D. 21.2.31 + D. 50.17.31 + D. 2.14.50 [= Pal. Ulp. 2886], ‘im-possibile esse’ e ‘non impossibile putare’; infine, Paul. III quaest., D. 45.1.126.3 [= Pal. Paul. 1296] (e vd. anche Interpr. Visig. ad Paul. Sent. 3.6.7, ‘impossibile ali-quid iniungere’).

85 Cfr. Consult. 1.7 = C.I. 2.3.6 [Antonin., a. 213], mentre compare come ‘nul-lam vim optinere’ in const. ‘Deo auctore’, 6 = C.I. 1.17.1.6 [Iustinian., a. 534], che pare tipico, dunque, della scrittura giustinianea. Per la giurisprudenza vd. Gai. I de verb. obl., D. 46.1.70.5 [= Pal. Gai 510]; Pap. I def., D. 35.1.79.4 [= Pal. Pap. 33]; cfr. anche Paul. XXIV ad ed., D. 45.1.73.1 [= Pal. Paul. 405].

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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nullam vim habere », dove, cioè, non sia possibile ricostruire in alcun

modo la voluntas testatoris 86.

Ora, se le premesse sono esatte, allora si può concludere che

il responso è integralmente serviano, compresa la sezione conclusiva

(« quia, id quod impossibile…, in fin. »), la quale non può essere

considerata come un rafforzamento ad opera di Alfeno del pensiero

riportato 87.

Segue, poi, nello stesso ordine di testimonianze, un corposo

drappello di frammenti tratti dai libri giavoleniani ‘ex posterioribus

Labeonis’.

È opportuno, però, che si faccia una precisazione. Le parti

che saranno (eventualmente) inserite tra parentesi quadre si debbono

attribuire alla scrittura di Giavoleno. Allo stesso modo, tale segno

diacritico racchiuderà, nel prosieguo di questo capitolo, ciò che appa-

re essere frutto della scrittura dei giuristi relatori il pensiero di Ser-

vio.

Ciò premesso, si vedano le seguenti testimonianze:

B.2. – Alf. II dig. a Paul. epit., D. 33.7.16.1 [= Pal. Serv.

49 → Pal. Alf. 44; Br. 25 resp.] 88: « Vinea et instrumento eius legato

instrumentum vineae nihil esse Servius respondit [: qui eum consule-

86 Intorno ad Alf. V ab anon. epit., D. 33.8.2 + 35.1.27 [= Pal. Alf. 21], si veda,

più estesamente, infra, nel corso di questi ‘studi’. 87 Per quanto appena detto, nel testo, intorno alla rappresentazione dei canoni in-

terpretativi relativi ai negozi mortis causa. 88 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 175 e

294 [Servius, responsorum libri, frg. 25, ‘de vinea legata’ = Alfenus, digestorum libri XL, libb. II-IV ?, frg. 10, ‘de legatis; de vinea legata’].

La versione greca del frammento, racchiusa in Bas. 44.10.15.1 [ma soltanto in Hb. IV, 409, ex Tipuc. 44.10.15], risulta essere di utilità assolutamente marginale.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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bat, Cornelium respondisse aiebat palos perticas rastros ligones in-

strumenti vineae esse: quod verius est] ».

Il brano è quanto mai singolare, non tanto per l’apertura —

con agevole riconduzione delle parole « vinea – respondit » alla ela-

borazione di Servio — quanto piuttosto per il prolungamento « qui

eum consulebat – verius est », in cui, in modo abbastanza inconsueto,

il richiedente contrappone polemicamente al giurista quanto altri (os-

sia Cornelio Massimo, il maestro di Trebazio) 89 ha già affermato sul

punto, con la approvazione finale dello stesso Alfeno (o, forse, di

Paolo) 90.

A modo di anticipazione, voglio soltanto sottolineare come il

testo trovi riprova, tuttavia, in due caratteristiche riscontrabili

all’interno dello stile alfeniano. Da un lato, una certa autonomia di

pensiero talora manifestata dall’allievo cremonese rispetto all’inse-

89 « Trebatii praeceptor »: cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, coll. 171-

172, del quale l’unico frammento superstite è costituito proprio da D. 33.7.16.1; vd. anche F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 111 [re-sponsa, frg. unico]; P. KRÜGER, Geschichte der Quellen und Literatur des römischen Rechts 2, p. 74 nt. 80; P. JÖRS, s.v. ‘Cornelius [264]’; W. KUNKEL, Die römischen Juristen, p. 24 e nt. 51.

90 Per ragioni di composizione logica del frammento dovrebbe, infatti, derivare da Alfeno il tratto « qui eum consulebat, Cornelium respondisse aiebat palos perti-cas rastros ligones instrumenti vineae esse ». Non si può escludere, in modo assolu-to, che la sanzione finale (« quod verius est »), invece, possa essere frutto della ri-flessione paolina (così F.P. BREMER, Iurispridentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 164, e, ora, T. GIARO, Römische Rechtswahrheinten, p. 270 — ma, seguendo questa ipotesi, e per amore di completezza formale, non va omesso che potrebbe trattarsi anche di una intrusione compilatoria), inserita a modo di coda o, forse, in sostituzione di ulteriore parte del ragionamento originario. A questo proposito ri-mando a quanto verrà detto infra, cap. III, § 1, ad h.l., in cui si adducono le ragioni per le quali sembra preferibile l’attribuzione allo stesso Alfeno. In ogni caso, la parte finale del brano (« quod verius est ») conferma l’uso di verus nel senso secondo cui la soluzione di Cornelio Massimo si manifestava agli occhi del commentatore (Alfe-no o, appunto, forse, Paolo) ‘più aderente alla realtà delle cose’ rispetto a quella ser-viana (vd. supra, cap. I, nt. 227, in particolare).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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gnamento del maestro 91 (nel caso di specie, obiettando alla soluzione

secondo cui non esista un ‘instrumentum vineae’); dall’altro lato, la

presenza, in alcuni escerti alfeniani, di situazioni di ‘conflitto logico’

tra quaestio e responsum 92.

B.3. – Iavol. II ex post. Lab., D. 33.4.6 pr. [= Pal. Serv. 46

→ Pal. Iavol. 178 Lab.; Br. 10 resp.] 93: « Cum scriptum esset: ‘quae

pecunia propter uxorem meam ad me venit quinquaginta, tantundem

pro ea dote heres meus dato’, quamvis quadraginta dotis fuissent,

tamen quinquaginta debere Alfenus Varus Serv ium r e spon-

d i s se scribit , [ quia proposita summa quinquaginta adiecta

sit ] ? » 94.

Il frammento in questione appartiene alla ‘serie labeonia-

na’ 95, e analizza un caso di (‘mendum in scriptura’ 96 o, meglio, di)

91 Su questo aspetto, vd. infra, cap. III (tomo II). 92 Si allude, qui, ad alcuni frammenti alfeniani nei quali è possibile individuare il

tentativo, da parte di colui che si rivolge al giurista, di condurre quest’ultimo verso una determinata soluzione (soluzione ovviamente favorevole a colui che sta ponendo la quaestio). Il tentativo viene puntualmente respinto sulla base di serrate argomen-tazioni logiche e giuridiche. Naturalmente a tacere, in questa sede, del problema re-lativo alla creazione di tali situazioni di conflitto ad opera del giurista stesso. Per rinvio bibliografico, vd. supra, ‘Introduzione’, nt. 23.

93 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 170-171 [Servius, responsorum libri, frg. 10, ‘de dote relegata’].

Passo nuovamente assente nell’edizione olandese dei Basilici [cfr. BT. VI, 2016, poiché il testo corrispondente presente in Bas. 44.7.6, Hb. IV, 402, è stato tratto da Tipuc. 44.7.6: ma, anche nel presente caso, oltre a non offrire scolii, non si fa men-zione di alcun giurista].

94 Per quanto concerne il § 1 di D. 33.4.6, si veda infra, in questo stesso capitolo, § 8.

95 Cfr. LENEL, op. cit., I, col. 304 ad h.l. e D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘libri posteriores’, p. 303 nt. 81.

96 Arg. ex Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 35.1.27 [= Pal. Alf. 21].

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falsa demonstratio 97. Nella disposizione testamentaria, infatti, si fa

riferimento al valore — che non corrisponde alla realtà — della dote

muliebre quale metro di commisurazione di quanto debba essere con-

ferito a titolo di legato alla moglie stessa. Servio — in applicazione

del principio secondo cui la falsa demonstratio non nuoce di per sé

all’identificazione della volontà del de cuius — ritiene che si debba

considerare valida, in ogni caso, la somma indicata, nonostante

l’oggettiva diversità rispetto a quanto fu dato: « la somma è legata

pro dote », infatti, e non a titolo di restituzione della stessa 98.

Nel complesso, la relazione da parte di Alfeno di quanto

‘Servio rispose’ potrebbe essere integrale, coinvolgendo, quindi, an-

che la ratio di chiusura (« quia – adiecta sit »). E, in questo, si segui-

rebbe l’opinione di Lenel e di Bremer 99. Non si può mancare, tutta-

via, di osservare che l’annotazione conclusiva potrebbe anche essere

frutto di una chiosa successiva (e, per questo motivo, sono stati im-

piegati segni diacritici minori) 100: non è sconosciuta, infatti, alla

scrittura di Servio-Alfeno la forma del responso apodittico, come

« respondi posse » (in Alf. III dig. ab anon. epitom., D. 9.1.5 [= Pal.

Alf. 6]) o come « respondit legatum videri » (in Alf. II dig. a Paul.

epitom., D. 35.1.28.1 [= Pal. Alf. 36]) o, ancora, come « respondit

97 Cfr. G. GANDOLFI, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto ro-

mano, p. 321 (B. BIONDI, Successione testamentaria e donazioni 2, p. 520 e nt. 2; A. WATSON, The Law of Succession in the Later Roman Republic, p. 96 e P. VOCI, Di-ritto ereditario romano 2, II, pp. 326 ss.).

98 Cfr. G. GROSSO, Sulla ‘falsa demonstratio’ nelle disposizioni di ultima volon-tà, p. 210 = ID., Scritti storico-giuridici, III, p. 336.

99 Cfr. opp. et locc. cit. appena sopra (e in questa direzione pare dirigersi anche G. GROSSO, Sulla ‘falsa demonstratio’ nelle disposizioni d’ultima volontà, p. 210 nt. 52 = ID., Scritti storico-giuridici, III, p. 336 nt. 52, mentre non si pronunciano sulla questione, da ultimi, R. VIGNERON – J.-F. GERKENS, The Emancipation of Women in Ancient Rome, pp. 112-113).

100 In questa ipotesi, si allude a Labeone (Giavoleno), poiché la partecipazione di Alfeno sembra limitarsi a riferire (‘scribit’) quanto Servio ‘respondit’ (ossia « tamen quinquaginta debere »).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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posse agi cum eo in factum actione » (in Alf. III dig. a Paul. epitom.,

D. 19.5.23 [= Pal. Alf. 56]) ovvero come « respondit non posse » (in

D. 42.1.62 [= Pal. Alf. 72]), o, infine, se riportato interamente —

come parrebbe — il pensiero di Servio, in Aul. Gell., N.A. 4.2.12

« redhiberi posse respondit » 101.

B.4. – Iavol. II ex post. Lab., D. 34.2.39.2 [= Pal. Serv. 55

→ Pal. Iavol. 185; Br. 32 resp.] 102: « Ateius Serv ium r e spon-

d i s se scribit, cui argentum, quod in Tusculano fundo cum morere-

tur habuisset, legatum esset, et quod antequam moreretur ex urbe in

101 L’argomento non è, di per sé, dirimente. Questo è ovvio, poiché potrebbe es-

sere il risultato dello stato in cui i frammenti ora richiamati sono giunti agli (o sono state ridotti dagli) epitomatori. Infatti, ad esempio, si può confrontare anche Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 4.8.50 [= Pal. Alf. 30], laddove alle parole « respondi non posse », segue, senza soluzione di continuità, l’indicazione di una circostanziata mo-tivazione: « ideo quod non esset arbitro permissusm ut id iuberet ». E questo simil-mente al passo oggetto della nostra attenzione (per accenare ancora ad Alf. II dig. ab anon. epit., D. 11.3.16 [= Pal. Alf. 10]: « respondi posse sed etiam furti de pecuniis, quas servus ad eam detulisset », sia che si acceda alla soluzione secondo cui la parte « sed etiam – in fin. » sia frutto di intrusione, sia che la si ritenga — come la riterrei — genuina: vd., per tutti, M.R. DE PASCALE, Una esegesi di D. 11.3.16, pp. 3021-3023 e B. BONFIGLIO, Corruptio servi, pp. 171-172, sul presupposto che « gli estre-mi del caso prospettato inducono a ritenere estranea al contesto » la parte racchiusa tra parentesi uncinate. Vd. anche infra, nt. 130). Ma ciò dimostrarebbe, peraltro, an-che la propensione di Alfeno a rappresentarci in sintesi il responsum, facendolo se-guire da una succinta ratio; proprio come in D. 33.4.6 pr. Il dato testuale, quindi, sussiste, e deve essere tenuto in qualche modo presente, fosse anche a modo di sem-plice indicazione stilistica.

102 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 177 [Servius, responsorum libri, frg. 32, ‘de auro vel argento legato’].

Quanto all’edizione bizantina di D. 34.2.39.2, assente nella versione olandese dei Basilici, si ripetono le osservazioni già svolte in precedenza, per situazioni ana-loghe [vd. BT. VI, 2034; cfr. Bas. 44.15.37 in Hb. IV, 425, tratto da Tipuc. 44.15.39(= 37)]. Si riporta il testo per via di quanto sarà osservato infra, nt. seguen-te: « Kaˆ perˆ toà, ™¦n lhgateÚsw soi tÕn ™n tùde tù ¢grù eØriskÒmenon ¥gruron ™n tù teleut´n me, pîj kaˆ Ð kat¦ gnèmhn mou metenecqeˆj ¢pÕ tÁj

pÒlewj ™ke‹ perišcetai: oÙ m¾n Ð par¦ gnèmhn mou ».

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« SERVIUS RESPONDIT »

236

Tusculanum iussu testatoris translatum esset, deberi: contra fore, si

iniussu translatum esset ».

Questo brano — che riporta un responso di Servio 103 grazie

alla mediazione di Ateio — è riconducibile, per contro, alla ‘serie

giavoleniana’, al pari del seguente (ossia D. 35.1.40.3, « ove si attri-

buisca a Giavoleno » — come anch’io ritengo sia opportuno fa-

re 104 — l’« ‘ego puto…’ ») 105.

La chiusa di D. 34.2.39.2 (« contra fore…, in fin. ») rispon-

de, di per sé, alla tipologia della distinctio serviana 106, anche se non

può essere esclusa in via definitiva l’incidenza di una qualche cesura

103 Vd. R. SAEGER, D. 34, 2, 39, 2, pp. 373-374, il quale illustra, per così dire

‘naturalmente’, il testo quale contributo serviano, pur sottolineando gli elementi an-tinomici relativi alle due parti del primo corno, « cui argentum – legatum esset, », da una parte, e « et quod – deberi », dall’altra. I criteri fondanti la distinzione parrebbe-ro, infatti, poco perspicui, dovendosi dubitare della diversità tra l’argento ‘legato’ che si trova, al momento della morte del testatore, presso il fondo e quello che, pri-ma della morte ivi è stato portato per ordine del medesimo, e sia parimenti ‘dovuto’ (e questo almeno allo stato attuale della fonte, passata per più mani: Servio, Ateio, Labeone-Giavoleno, Giustiniano) — sebbene un certo ‘stacco’ possa emergere dalla resa che del passo paiono aver fatto Bas. 44.15.37.2 [Hb. IV, 425 — vd. supra, nt. precedente], laddove l’« et quod » che (col)lega le due parti è stato riproposto con la forma « pîj kaˆ... ».

104 Contro l’opinione di CH. KOHLHAAS, Die Überlieferung der libri posteriores des Antistius Labeo, pp. 182 nt. 45 e 190, vd. l’analisi di MANTOVANI, op. cit., pp. 288-289 nt. 51, che ribadisce, nella sostanza, la validità delle riflessioni svolte in merito da A. BURDESE, Controversie giurisprudenziali in tema di capacità degli schiavi, pp. 167-168 (in particolare).

105 Cfr. ancora MANTOVANI, op cit., p. 303 nt. 81. 106 Cfr. R. SEAGER, D. 34, 2, 39, 2, pp. 373-374, che pare attribuire a Servio, con

esplicita relativa sicurezza, soltanto l’epilogo « contra fore – in fin. ». Effettivamen-te il ragionamento condotto dall’Autore (vd. appena supra, nt. 103) potrebbe anche premere verso questa conclusione, salvo il fatto che concludere recisamente per l’isolamento del solo tratto ora indicato corrisponderebbe a disattendere il dato inzia-le della fonte (« Ateius Servium respondisse scribit... », et rell.), che, in quanto tale, è difficilmente controvertibile.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

237

o di un adattamento posteriori (dovuti, forse, alla mano dello stesso

Giavoleno) 107.

B.5. – Iavol. II ex post. Lab., D. 35.1.40.3 [= Pal. Serv. 56

→ Pal. Iavol. 186; Br. 51 resp.] 108: « Dominus servo aureos quin-

que 109 legaverat: ‘heres meus Sticho servo meo, quem testamento

liberum esse iussi, aureos quinque, quos in tabulis debeo, dato’. Nihil

servo legatum esse Namusa Se rv ium r espondi sse scribit,

quia dominus servo nihil debere potuisset [: ego puto secundum men-

tem testatoris naturale magis quam civile debitum spectandum esse,

et eo iure utimur] ».

La parte attribuita da Lenel a Servio — ancora per la media-

zione di un auditor di quest’ultimo (ossia Namusa) — viene qui ri-

percorsa 110, e il frammento potrebbe rientrare nella cosiddetta ‘serie

labeoniana’; di Giavoleno, dunque, dovrebbe essere 111 l’« ego pu-

107 U. JOHN, Die Auslegung des Legats, pp. 14 nt. 21, 72 e 95 nt. 4, ascrive il brano complessivamente al pensiero di Servio; cfr. anche H.J. WIELING, Testaments-auslegung im römischen Recht, p. 30.

108 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 183-184 [Servius, responsorum libri, frg. 51, ‘de debito legato’].

Il passo non ha rispondenza nei Basilici [cfr. BT. VI, 2050; vd., però, Bas. 44.19.39 in Hb. IV, 444, sempre tratto da Tipuc. 44.19.40(= 39): ovviamente privo di scholia, resta muto sulla paternità del responso].

109 Il BREMER, op. cit., p. 184, segnala come alterata l’indicazione degli ‘aurei quinque’, che provvede ad emendare espressamente nel testo con « HSV ».

110 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 329 ad h.l. (e così, indirettamente, anche BREMER, op. cit., p. 184, poiché omette di trascrivere la parte finale « ego puto – et eo iure utimur »), criticato anche da G. GROSSO, Sulla ‘falsa demonstratio’, p. 208 nt. 48 = ID., Scritti storico-giuridici, III, p. 334 nt. 48, poiché « non parla per un mutamento di opinione quanto al problema della falsa demonstratio ». Vd., inoltre, A. MANTEL-

LO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale. Sen., de ben. 3.18.1 ss. – D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex post. Lab.), p. 202 (e cfr. A. WATSON, D.28.5.45 (44): An Unprincipled Decision on a Will, pp. 383-384).

111 Sulla critica testuale relativa al tratto « ego puto – in fin. » si veda in modo particolare — per indicazione di letteratura, ampia discussione e sostanziale confu-

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« SERVIUS RESPONDIT »

238

to » 112 di commento al responso, così come ciò che segue (« secun-

dum mentem – in fin. ») 113. E ciò è confermato dal contenuto delle

due parti di D. 35.1.40.3: nella prima, serviana (« Dominus servo –

nihil deberi potuisset »), si ha risposta negativa — il legato non è do-

vuto — poiché l’oggetto è inesistente; nella seconda, giavoleniana 114

(« ego puto..., et rell. »), si offre l’opinione opposta, segno di uno

tazione — A. MANTELLO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale, pp. 184 e ss. (e vd. già, sulla linea del « valore innovatore della seconda parte di D. 35.1.40.3 » [così MANTELLO, op. cit., p. 185, e ivi nt. 4 per ulteriore bibliografia], I. BUTI, Studi sulla capacità patrimoniale dei ‘servi’, pp. 263 e ss.), su cui cfr., da ultimo, W. WALD-

STEIN, Equità e ragione naturale nel pensiero giuridico del I secolo d.C., pp. 314 e ss.

112 Vd. appena supra, ntt. 110-111, e infra, quanto osservato a proposito dell’omologa espressione contentua nel frg. B.6 . . In merito alle attribuzioni vd. D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘libri posteriores’ di Labeone, pp. 303 e nt. 81 (per le coincidenze contenutistiche segnalate dall’Autore italiano, piuttosto che per le mere coincidenze morfologiche e sintattiche — che potrebbero essere fortuite, o, in ogni caso, restituibili alla modalità di scrittura giavoleniana, senza con questo com-promettere di necessità il problema relativo alla paternità del contenuto — di cui si è avvalso CH. KOHLHAAS, Die Überlieferung der libri posteriores des Antistius Labeo, passim), e vd. anche 304-305 nt. 88.

113 Per la prima soluzione vd. A. BURDESE, La nozione classica di ‘naturalis o-bligatio’, p. 55 (salvo « eo iure utimur », dato per insiticio) e V. DEVILLA, L’obbligazione naturale nel diritto classico, pp. 377-378; per la seconda F. HORAK, Rationes decidendi, p. 105 nt. 9, 119, 216 nt. 17 (invece per G. BESELER, Romanisti-sche Studien [in « RHD. = TR. », VIII, 1928], p. 323, « Ego = Labeo. Et eo iure u-timur gehört Javolen »). Cfr. anche la scelta di H.J. WIELING, Testamentsauslegung im römischen rect, p. 27, ove, trattando del pensiero di Servio, riporta il testo solo da « Dominus servo » a « nihil debere potuisset » (omettendo, quindi, la parte seguente ritenuta, implicitamente, di altra mano), e p. 97, in cui si confermano, condivisibil-mente, le ragioni della scelta (« in einigen Fällen wird eine alte Entscheidung ver-worfen und durch eine neue ersetzt, die sich nach dem Willen ausrichtet, vgl. etwa [...] Javolen in D. 35, 1, 40, 3 »).

114 Cfr. T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 332.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

239

sviluppo storico in materia teso a superare criteri di natura essen-

zialmente formale, ancora seguiti dal giurista repubblicano 115.

Allo stesso modo, è da ritenere frutto della scrittura del giuri-

sta relatore anche la parte finale di

B.6. – Iavol. V ex post. Lab., D. 28.1.25 [= Pal. Serv. 37

→ Pal. Iavol. ? 216; Br. 1 resp.] 116: « Si is, qui testamentum faceret,

heredibus primis nuncupatis, priusquam secundos exprimeret here-

des, obmutuisset, magis coepisse eum testamentum facere quam fe-

cisse Varus digestorum libro primo Serv ium r espondi sse

scripsit: itaque primos heredes ex eo testamento non futuros. [La-

beo tum hoc verum esse existimat, si constaret voluisse plures eum,

qui testamentum fecisset, heredes pronuntiare: ego nec Servium puto

aliud sensisse] » 117.

Anche in questa ipotesi non è particolarmente laborioso iso-

lare il materiale serviano da quello del giurista che ne ha ricordato il

responso. E, anzi, l’ampia chiusura (« Labeo – sensisse ») appare,

‘ictu oculi’, di notevoli interesse e intensità — tant’è vero che il Gua-

rino ha potuto definire il frammento quale « testo elegantissimo » 118.

115 Vd. G. GROSSO, Sulla ‘falsa demonstratio’, pp. 208 e ss. = ID., Scritti storico-

giuridici, III, pp. 334 e ss. ed ora J.D. HARKE, Liber homo bona fides serviens und Vertragsgeltung im klassischen römischen Recht, p. 177.

116 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 167 [Servius, responsorum libri, frg. 1, ‘de testamentis’].

Il passo è assente nei Basilici dell’edizione di Scheltema et all. [cfr. BT. V, 1563, e nt. ad lin. 9: « quae ex Harm. V, 1 § 31 hic ins. Hb., revera e Proch. XXI, 14 hausta sunt »; il rinvio esatto è, però, a Tipuc. 5.1.33: vd., infatti, Bas. 35.1.25 in Hb. III, 544 — e nt. m: « L. 25. D. h. t. ita exhibui ex Harm. V. 1. §. 33 auctoritate Tipu-citi motus… », et rell. — per i quali valgono le consuete considerazioni; cfr. anche Proch. 21.14 Ius Graecoromanum, II, ed. Zepos, p. 170].

117 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 327 ad h.l. 118 Così — evidentemente in relazione all’intero contenuto — A. GUARINO, La

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« SERVIUS RESPONDIT »

240

La chiusura, infatti, è eretta intorno ad una duplice integra-

zione del pensiero del giurista repubblicano. In prima battuta, a sé-

guito del responsum originario (secondo cui, se il testatore non fu in

grado di concludere la nuncupatio degli heredes per sopravvenuto

mutismo, allora nessuno potrà considerarsi successore a titolo uni-

versale ex testamento, e si produrrà, conseguentemente, l’effetto

dell’apertura della successione legittima) 119, vi è un innesto operato

dal commento labeoniano, secondo cui la regula si applicherà se, ed

in quanto, sia dimostrato positivamente 120 che il de cuius volesse

pronunciare il nome di altri, oltre a quelli già articolati prima della

(repentina e totale) perdita della voce 121.

Al giudizio adesivo di Labeone si ricollega Giavoleno, il

quale, con pregevole abilità retorica, ottiene l’effetto di assorbire tale

precisazione 122 — che egli evidentemente condivide — all’interno

forma orale e la forma scritta nel testamento romano, p. 62 = ID., Pagine di diritto romano, VII, p. 321 (F. HORAK, Rationes decidendi, p. 167, ritiene, invece, che « Servius schließt enthymematisch »).

119 E questo per la ragione, efficacemente individuata da P. VOCI, Diritto eredi-tario romano 2, II, pp. 934-935, secondo cui, « ai giuristi dell’età repubblicana, al-meno da Q. Mucio in poi », è nota « l’idea che sia testamento quello che rende la volontà compiuta dal testatore ».

120 È assai persuasivo — in tale contesto — l’uso del verbo ‘constare’. 121 La lettura che Servio dà del caso (un’ipotesi di mancipatio familiae) è conno-

tata da una certa rigidità di schema; ma questa è senz’altro imposta dall’oggetto (la nuncupatio), e, quindi, dalla solennità del negozio, per la cui produzione di effetti è necessaria (ma anche sufficiente) la pronuncia dei verba: cfr. P. VOCI, Diritto eredi-tario romano 2, I, pp. 87 e ss.; ID., op. cit. 2, II, pp. 64 e ss., 879 (e per richiami e-spressi al nostro testo, vd. ivi, II, pp. 66 nt. 8, 879 nt. 1 e 935 nt. 34). Per la difesa della ‘realtà’ del caso coinvolto da D. 28.1.25 — e con ragioni del tutto convincenti — vd. GUARINO, op. cit., pp. 62-63 = ID., Pagine di diritto romano, VII, pp. 321-322, ripreso ora da R. LAMBERTINI, ‘Bonorum possessio secundum nuncupationem’, p. 436 e nt. 8 (contro le tesi di S. SOLAZZI, Ancora del testamento nuncupativo, pp. 214-215 e nt. 6 = ID., Scritti di diritto romano, III, p. 625 e nt. 6, e di G. SCHERILLO, Corso di diritto romano. Il testamento, pp. 248-249; contra, implicitamente, anche A. KÜSTER, Blinde und Taubstumme im römischen Recht, p. 87).

122 Sull’origine di tale pensiero, troppo sinteticamente, e, comunque, in modo

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

241

della sententia di Servio (e, quindi, di convalidarla in uno). Questo

avviene attraverso l’affermazione per cui si deve ritenere che il giuri-

sta più antico avesse (già implicitamente) inteso esprimere entrambi i

concetti illustrati da quello più recente, sebbene ciò, in realtà, non sia

affatto contenuto nel responso orginale (« Servium puto… sensis-

se ») 123. Si tratta, dunque, di un mero artificio persuasorio, che ha il

pregio, tuttavia, di salvare l’autorità di Servio e, soprattutto, di ade-

guare il suo responso alla opportuna correzione introdotta da Labeo-

ne, nonché quello di evitare di scalfire la ‘credibilità’ di entrambi 124.

Stesse osservazioni, in ordine alla parte conclusiva del passo,

possono essere replicate con riguardo a 125

B.7. – Iavol. VI ex post. Lab., D. 23.3.79 [pr. e] 126 § 1

[= Pal. Serv. 31 → Pal. Iavol. 221; Br. 64 resp.] 127: « Pater filiae

nomine centum doti ita promisit [dixit, Lenel] ‘cum commodissimum

abbastanza oscuro (anche per menzione di fonti che non mi paiono tutte pertinenti, come, ad esempio, quella di Iul. XXX dig., D. 28.5.7 [= Pal. Iul. 434]), A. CASTRO

SÁENZ, Concepciones jurisprudenciales sobre el acto posesorio: un ensayo sobre la evolución del ‘animus’ en derecho romano, p. 128 (e vd. anche pp. 93 e ss.).

123 Vd., con acute osservazioni, T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 394. 124 Su tale ‘artificio’ pare, invece, non aver insistito in modo specifico W. FLU-

ME, Irrtum und Rechtsgeschäft im römischen Recht, p. 218, il quale ha pianamente osservato che « bemerkenswert ist, daß Javolen als selbstverständlich unterstellt, daß auch Servius der Meinung des Labeo gewesen sei ».

125 Cfr. D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘libri posteriores’ di Labeone, pp. 303 e nt. 81.

126 Per D. 23.3.79 pr. vd. infra, frg. E .3 . . 127 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 188

[Servius, responsorum libri, frg. 64, ‘de dotibus’]. Per quanto riguarda, invece, il testo corrispondente, contenuto in Bas. 29.1.75.1

[Labeώn: Hb. III, 425; BT. IV, 1464], esso presenta alcuni scolii [Sch. 5-10§, BS. V, 2082-2083 = sch. 4-5, Hb. III, 425], che non richiamano, invece, il giurista, a diffe-renza dello sch. 2, allegato al principium di Bas. eod. (di cui si tratterà in-fra, E .2 . ).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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esset’. Ateius scripsit Se rv ium r e spond is se , cum primum

sine turpitudine et infamia dari possit, deberi » 128.

Ovviamente, il contenuto ‘formale’ della risposta (a rigore

della quale, pur avendo promesso la somma di cento, a titolo di dote,

ed essendosi riservata la più ampia libertà d’azione, il pater sarà te-

nuto a mantenere l’impegno appena possibile, con il solo limite di

non subire nocumento al proprio onore) 129 va assegnato a Servio,

salvo voler supporre che egli avesse, laconicamente, affermato « dari

debere » (cosa che, peraltro, allo stato delle fonti, potrebbe godere di

qualche simmetria all’interno della elaborazione della stessa scuo-

la) 130.

A favore della prima soluzione milita, intanto, la sezione

« cum primum – in fin. », che solo erroneamente può essere scambia-

ta con una integrazione o una distinctio, poiché appare, contenutisti-

camente, come parte costitutiva del testo. Neppure osta a questa con-

clusione il fatto che il binomio rappresentato dai termini ‘turpitudo’ e

‘infamia’ sia oggetto di una discreta frequentazione più tarda — in

particolare ad opera della cancelleria costantiniana 131 — poiché già

128 Sulla possibile variante ‘dixit’ per ‘promisit’ vd. LENEL, op. cit., I, col. 313 nt. 2; ID., op. cit., II, col. 327 nt. 3.

129 Ossia — interpreterei così — senza privarsi, il pater, del necessario per man-tenere la propria dignità, o cercare di procurarsi le risorse necessarie per corrispon-dere la somma promessa in modo contrario alla morale.

130 Vd. supra, a proposito di frg. B.3 . a cui si può accostare, secondo una certa interpretazione interpolazionistica, anche Alf. II dig. ab anon. epit., D. 11.3.16 [= Pal. Alf. 10: « respondi posse, <sed etiam furti de pecuniis quas servus ad eam detulisset> »] (vd. anche supra, nt. 101).

131 Cfr. C.I. 3.28.27 [Constantin., a. 319]: ‘infamiae vel turpitudinis vel levis no-tae macula’ (termini che difettano nell’omologo testo di C.Th. 2.19.1, ma che sono evidentemente supposti dalla Interpr. visig. ad h.l., la quale tratta di ‘turpes perso-nae, id est infames’, e che tornano, in ordine sparso, in una riedizione della constitu-tio destinata ad un concilio di Bisanzio, in C.Th. 2.19.3 [idem, a. 332?], ma non, in-vece, nella Interpretatio); per l’uso dissociato dei termini si veda anche C.I. 12.1.2 [idem, a. 313-315].

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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in Cic., Pro Cluent. 30.83 compare la forma, parzialmente diversa

per composizione sintattica, ma non meno indicativa per uso e se-

quenza di termini, « illius turpitudinis infamia[m] ».

Quanto al testo, valutato nel suo complesso, è opportuno

considerare l’alta probabilità che Giavoleno avesse attinto i responsa

serviani servendosi del tracciato di Labeone (il quale, stando almeno

alla testimonianza riferita sopra 132 , ne riportava forma e sostan-

za) 133, così come ha fatto ancora, una generazione appena successi-

va, Aulo Gellio 134.

Si veda, infatti, in proposito:

B.8. – Aul. Gell., N.A. 4.2.12 [= Pal. Serv. 97; Br. 108

resp.] 135: « Eum vero, cui dens deesset, Serv ius redhiberi posse

r espondi t , [Labeo in causa esse redhibendi negavit: ‘Nam et

magna’ inquit ‘pars dente aliquo carent, neque eo magis plerique

homines morbosi sunt, et absurdum admodum est dicere non sanos

132 Vd. supra, frg. A.2 . . 133 Non si dimentichi, infatti, che in Iavol. V ex post. Lab., D. 28.1.25 [= Pal. Ia-

vol. 216; Pal. Serv. 37] — corrispondente al testo B.6 . di questo capitolo — il giurista relatore cita espressamente che il parere serviano è stato tratto dal ‘libro primo dei digesta di Alfeno’ (« Varus digestorum libro primo Servium respondisse scripsit »). A riprova dell’esistenza di quello che ho definito come ‘tracciato labeo-niano’, in Pomp. III ad Sab., D. 35.1.6.1 [= Pal. Pomp. 423; Pal. Serv. 40] — di cui infra, testo B.10. — dopo aver riportato il parere di Servio (« sed Servius respondit, cum ita esset scriptum ‘si filia et mater mea vivent’ altera iam mortua, non defici condicione »), il giurista autore del frammento osserva che « idem est et apud Labe-onem scriptum ».

134 Il brano gelliano viene qui anticipato, ratione disputatae materiae, rispetto al § 7 (infra), dedicato alle fonti letterarie.

135 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 200 [Servius, responsorum libri, frg. 108, ‘de mancipiis venditis’], e P.E. HUSCHKE, Iuri-sprudentiae anteiustinianae quae supersunt 4, I, p. 36 [frg. 17, ex incert. libr.: « eum vero, cui dens deesset, Servius redhiberi posse respondit ».

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nasci homines, quoniam cum infantibus non simul dentes gignun-

tur’] » 136.

In questa sede, il responso di Servio è ridotto ai minimi ter-

mini 137, poiché si concentra sulla decisione relativa la fatto che rica-

da sotto la tutela dell’editto edilizio, con la concessione dell’actio

redhibitoria, la mancanza di un dente da parte dello schiavo 138. At-

136 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 334 ad h.l.: l’Autore tedesco addita come servia-

na soltanto la parte iniziale del paragrafo, « eum vero – respondit », e così anche BREMER, op. et loc. ult. cit., né pare potersi affermare il contrario, sebbene la pre-senza del sintagma « in causa esse redhibendi », possa (ma solo apparentemente) rievocare una scelta stilistica serviana: cfr. Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.2 [= Pal. Alf. 7] — di cui si dirà all’interno del cap. III — e dell’inizio del responsum vero e proprio in cui si afferma: « respondi in causa ius esse positum ». In realtà, va detto, tuttavia, che la costruzione ‘in causa redhibitionis esse’ (che in Aulo Gellio suona come ‘redhibendi’) non è affatto episodica in tema di azione per i vizi della cosa venduta: cfr., infatti, Afr. VIII quaest., D. 47.2.62(61).2 [= Pal. Afr. 110: ‘in causa redhibitionis esse’]; Ulp. I ad ed. aed. cur. [LXXXII ad ed., Lenel], D. 21.1.10.2 [= Pal. Ulp. 1760: ‘non est in causa redhibitionis’]; Ulp. ibid., D. 21.1.31 §§ 7 e 17 [= Pal. Ulp. 1778 e 1781: ‘et sit in causa redhibitionis’ – ‘in causa redhibitionis fuerit’ – ‘agnovit… esse id in causa redhibitionis’] (cfr. anche Ulp. LXXIV ad ed., D. 21.1.59.1 [= Pal. Ulp. 1660: ‘alter [homo] in ea causa est, ut redhibeatur’]); nonché ancora Paul. V [rectius: VI, Lenel] respons., D. 21.1.58 pr. [= Pal. Paul. 1492: ‘et in causa redhibitionis esse’], di cui si vedano anche altre for-me: Paul. XXX ad ed., D. 15.2.2 pr. [= Pal. Paul. 468: ‘si ex causa redhibitionis erat’] e Paul. V quaest., D. 21.1.57.1 [= Pal. Paul. 1329: ‘in peculio autem et causa redhibitionis continebitur’ – ‘sed causa ipsius redhibitionis in peculio computatur’].

137 L’anomalia rispetto alla citazione da parte di altri giuristi di ciò che ‘Servius respondit’ — citazione che, in questo passo gelliano, apre invece alla menzione di poco più di una aforisma — si spiega, probabilmente, con la diversità di natura della fonte che ce ne ha conservato il pensiero.

138 Risulta, in ogni caso, difficile comprendere come possa trattasi di un vizio occulto: o il dente mancava fin dal momento della vendita (ed allora era vizio rico-noscibile da parte dell’acquirente), oppure cadde in un periodo successivo (e, allora, non si versa nell’ipotesi di un vizio); salvo soltanto supporre, un poco al limite, che la caduta del dente fosse stata causata da una malattia del cavo orale dissimulata dal venditore.

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traverso la discussione critica condotta da Labeone 139, se ne possono

trarre, ugualmente, gli elementi per così dire portanti, per cui mi è

parso opportuno inserirlo in questa sezione.

Quanto al merito, quest’ultima sentenza serviana potrebbe

essere stata tenuta presente ancora da Paul. XI ad Sab., D. 21.1.11

[= Pal. Paul. 1830] 140 , il quale accede alla soluzione labeoniana

[= Pal. Lab. 399], già ricordata da Aulo Gellio 141, opposta rispetto a

quella di Servio 142.

Procedendo in senso diacronico si rinviene un passo di

139 M. BRETONE, La tecnica del responso serviano, p. 15 nt. 17 = ID., Tecniche e

ideologie dei giiuristi romani 2, p. 100 nt. 17, osserva che è « arguto l’argomento per assurdo svolto da Labeone contro Servio », contro la soluzione estrema, e contraria, di Franz Wieacker (cfr., e.g., ID., Amoenitates Iuventianae. Zur Charakteristik des Juristen Celsus, pp. 13-14), che vi leggeva l’esempio di una pessima tecnica argo-mentativa, peraltro di scarsa utilità pratica: ma vd. P. CAPONE, Valore ed uso giuri-sprudenziale di ‘absurdus / e, pp. 229 e ss. (con misurata e sapiente analisi e compa-razione dei vari giudizi espressi in dottrina sul ragionamento labeoniano, che proba-bilmente — come sostiene l’Autrice — non sarà stato felicissimo, ma neppure parti-colarmente disprezzabile, se — come mi sembra non sia stato osservato e mi pare di poter aggiungere — è stato considerato degno d’essere ripreso tanto da Aulo Gellio quanto, implicitamente, ancora da Paolo: vd. nt. seguente).

140 Paul. XI ad Sab., D. 21.1.11 [= Pal. Paul. 1830]: « Cui dens abest, non est morbosus: magna enim pars hominum aliquo dente caret neque ideo morbosi sunt: praesertim cum sine dentibus nascimur nec ideo minus sani sumus donec dentes ha-beamus: alioquin nullus senex sanus esset ».

A tutto ciò, il giureconsulto severiano aggiunge una duplice, ulteriore annotazio-ne, ossia che non si è meno sani da neonati fino della dentizione e che nessun anzia-no — se si seguisse la tesi opposta — potrebbe, dunque, dirsi sanus, dato il fatto che nella età matura i denti vengono generalmente (ossia, naturalmente) perduti. Vd. L. MANNA, ‘Actio redhibitoria’ e reponsabilità per vizi della cosa nell’editto ‘de man-cipiis vendundis’, p. 37 nt. 7 e N. DONADIO, La tutela del compratore tra ‘actiones aediliciae’ e ‘actio empti’, pp. 51 e ss.

141 Vd., infatti, O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 558; ID., op. cit., II, col. 334 nt. 3.

142 Si vedano, tuttavia, le sfumature dei testi notate da R. ORTU, Aiunt aediles, p. 143.

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« SERVIUS RESPONDIT »

246

B.9. – Iul. l.s. de ambig., D. 32.62 [= Pal. Serv. 45 → Pal.

Iul. 2; Br. 42 resp.] 143: « Qui duos mulos habebat ita legavit: ‘mulos

duos, qui mei erunt cum moriar, heres dato’: idem nullos mulos, sed

duas mulas reliquerat. Respond i t Serv ius deberi legatum, quia

mulorum appellatione etiam mulae continentur, quemadmodum ap-

pellatione servorum etiam servae plerumque continentur. [ Id autem

eo veniet, quod semper sexus masculinus etiam femininum sexum

continet ] ? » 144.

Il frammento giulianeo pare rispecchiare, almeno nella so-

stanza 145 — e salvo, appunto, il dissolvimento della quaestio — il

tenore primitivo della decisione, anche per il richiamo a tematica af-

fine discussa da Servio ed illustrata, a sua volta, da Pomp. VIII ad

Q.M., D. 50.16.122 [= Pal. Pomp. 255; Pal. Serv. 85] 146. Del resto, e

143 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 181

[Servius, responsorum libri, frg. 42, ‘de iumentis et pecoribus legatis’]. Per quanto concerne, invece, la tradizione bizantina, in Bas. 44.3.62 [BT. VI,

2003 = Bas. 44.3.60, Hb. IV, 383], privi di scolii, difetta, ancora una volta, il nome del giurista.

144 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 328 ad h.l., secondo cui sarebbe serviana tutta la parte che va dall’inizio fino a « etiam servae plerumque continentur », mentre sa-rebbe giulianeo il periodo finale (cfr., ma non dirimente sul punto, M. BRETONE, ‘In-terpretatio’ e ‘constitutio’ in D. 1. 3. 11, p. 211 nt. 8 = ID., tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 320 nt. 8).

145 Cfr. F. WIEACKER, Textstufen Klassischer Juristen, p. 176 nt. 248, nonché A. GUZMÁN, El ‘communis usus loquendi’ en el derecho romano, p. 423 e ID., Historia de la interpretación de las normas en derecho romano, p. 126 e nt. 258.

146 D. 50.16.122: « Servius ait, si ita scriptum sit: ‘filio filiisque meis hosce tutores do’, masculis dumtaxat tutores datos, quoniam a singulari casu hoc ‘filio’ ad pluralem videtur transisse continentem eundem sexum, quem singularis prior positus habuisset. Sed hoc facti, non iuris habet quaestionem: potest enim fieri, ut singulari casu de filio senserit, deinde plenius omnibus liberis prospexisse in tutore dando voluerit. Quod magis rationabile esse videtur ».

Sul parallelismo tra i due passi vd. già supra, cap. I, nt. 204 (e testo di riferimen-to) — sebbene le due soluzioni paiano improntate, la presente, a maggiore duttilità, l’altra, a minore rigidità, pur provenendo dallo stesso giurista — e sulle peculiarità

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

247

non senza ragione, vi è chi ha concluso che, in D. 32.62, « Giuliano,

indicando i criteri risolutivi di ambiguitates, sembra quasi annullarsi

in un [scl.: nel] responso serviano » 147.

Il Bremer, dal canto suo, segnala come frutto di possibile in-

terpolazione la porzione del brano che va da « quia mulorum » fino

al termine 148 . In realtà, per quanto concerne almeno la sezione

« quia mulorum – continetur », appare arduo accogliere le riserve

dell’editore tedesco. Se, infatti, il sintagma ‘appellatione contineri’

(con varie forme di declinazione del verbo) è tipico della giurispru-

denza severiana — e di Ulpiano, in particolare (anche per evidenti

ragioni di carattere statistico) 149 — non meno significative paiono le

ricorrenze nella elaborazione ofiliana 150, in quella labeoniana 151, e,

per coincidenza cronologica, in quella di Mela 152. di ciascuno in rapporto alla interpretatio della mens testatoris cfr., in particolare, A. TORRENT, Salvius Iulianus, liber singularis de ambiguitatibus, pp. 64 e ss. Per altre fonti in materia, vd. P. VOCI, Diritto ereditario romano 2, II, p. 823 nt. 60 ed anche G. GANDOLFI, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano, p. 9 e nt. 10.

147 Così, con efficacia espressiva, V. SCARANO USSANI, L’utilità e la certezza. Compiti e modelli del sapere giuridico in Salvio Giuliano, p. 13 e nt. 22 (giudizio ribadito dall’Autore più oltre, op. cit., p. 195 e nt. 89, nei termini di ‘dissoluzione’ della risposta giulianea all’interno dell’autorità di Servio).

148 Vd. BREMER, op. et loc. ult. cit. (del resto, già W. RECHNITZ, Studien zu Sal-vius Julianus, p. 51, aveva sospettato del periodo finale [« id – continet »], sia per ragioni di [presunta] astrattezza, sia, soprattutto, per osservazioni di simmetria stili-stica che, però, paiono ispirate ad eccessiva rigidità dogmatica; e, infatti, ben altre considerazione offre, con riguardo al passo, E. BUND, Untersuchungen zur Methode Julians, pp. 87 nt. 49 — in particolare — e 191, pur congetturando la stesura del brano da parte di un giovane Giuliano ancora piuttosto maldestro, inesperto e, tutto sommato, sentenzioso: questa illazione, però, a ben riflettere, contraddice le conclu-sioni dell’Autore, poiché dovrebbe spingere in senso contrario alla natura interpolata del testo).

149 Cfr. « VIR. », I, coll. 247, linn. 38-51, ad v. ‘adpellatio’; 983, linn. 20-22; 984, linn. 38-40, ad v. ‘contineo’: sono censite, nel complesso, centotrentadue eve-nienze del sintagma.

150 Cfr. Iavol. III ex post. Lab., D. 33.10.10 [= Pal. Iavol. 191; Pal. Ofil. 50], ove è citato insieme ad altri, tra cui Labeone, ed Ulp. XXV ad Sab., D. 32.55.4 e 7

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« SERVIUS RESPONDIT »

248

Si tratta, dunque, di una formulazione tipica della giurispru-

denza romana — anche dell’epoca di Servio e immediatamente po-

steriore, talora con menzione espressa e diretta dell’opera da cui è

tratta la ‘massima’ del giurista citato — che pare difficilmente ascri-

vibile (scl.: in modo univoco) alla mano dei Compilatori.

Non vedo, inoltre, altre ragioni di sostanza per esitare circa la

genuinità della sezione analizzata. Al limite, si può dubitare della at-

tribuzione serviana soltanto per il periodo finale (« id autem – conti-

net ») 153, ove si voglia procedere lungo le riflessioni offerte dal Gua-

rino: « malgrado il plerumque delle schiave, il redattore del liber sin-

gularis spiega: id autem eo veniet, quod ‘semper’ sexus masculinus

etiam feminium continet. Mettendo che il plerumque sia interpolato

[…], il testo acquista certamente un senso filato, ma l’anfibolia im-

plicata dal termine mulus non è risolta attraverso una discussione ad

hoc, ma con un piatto richiamo a Servio » 154.

Molto probabilmente ha risentito, invece, di operazioni di

costrizione 155 il brano attribuito a

B.10. – Pomp. II ad Sab., D. 5.1.80 [= Pal. Serv. 14 →

Pal. Pomp. 392; Br. 142 resp.] 156: « Si in iudici nomine praenomine

[= Pal. Ulp. 2679; Pal. Ofil. 20], che, probabilmente, ha tratto il principio di diritto dai iuris partiti libri ofiliani: vd. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 798 ad h.l.

151 Cfr. Iavol. IV ex post. Lab., D. 28.8.11 [= Pal. Iavol. 194], con riferimento di-retto a Trebazio; Marcian. VII inst., D. 32.65 pr. [= Pal. Marcian. 121; Pal. Lab. 335] ed Ulp. L ad ed., D. 29.5.1.17 [= Pal. Ulp. 1236; Pal. Lab. 325].

152 Si veda, alla forma negativa, Afr. III quaest., D. 50.16.207 [= Pal. Afr. 23; Pal. Mel. 33].

153 Vd. supra, cap. I, ntt. 202 e 204. 154 Così A. GUARINO, Rec. ad A. Torrent, op. cit., p. 197 = ID., Le ragioni del

giurista, p. 253 = ID., Pagine di diritto romano, V, p. 298. 155 Nonostante nulla sia segnalato, a questo proposito, dal repertorio di E. LEVY –

E. RABEL, Index Interpolationum, I, col. 70 ed IID., op. cit., Suppl. I, col. 88, ad h.l.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

249

erratum est, Serv ius r espondi t , si ex conventione litigatorum is

iudex addictus esset, eum esse iudicem, de quo litigatores sensis-

sent » 157.

Al di là di eventuali mediazioni intervenute, per così dire, al

fine di ‘massimare’ il passo 158, il problema di diritto analizzato pare

essere di matrice serviana 159: si consideri, infatti, la circostanza per

cui anche Alf. V dig. ab anon. epit., D. 35.1.27 [= Pal. Alf. 21] tratta

di ‘mendum in scriptura’, relativamente ad un nome e in un contesto

nel quale ha un ruolo nuovamente centrale il (medesimo) verbo ‘sen-

tire’ 160.

B.11. – Pomp. III ad Sab., D. 35.1.6.1 [= Pal. Serv. 40 →

Pal. Pomp. 423; Br. 4 resp.] 161: « [Si servos certos quis manumisis-

156 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 212

[Servius, responsorum libri, frg. 142, ‘de iudice et arbitro’]. Bas. 7.5.73 [BT. I, 343; Hb. I, 282], senza scholia, sono parimenti privi di indi-

cazioni di nome. 157 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 324 ad h.l. 158 Si rileva alla semplice lettura l’assenza della ‘quaestio’, che pure si può rite-

nere esistente nell’originale e inserita tra l’esordio « si in iudici nomine – est » e la risposta « Servius – in fin. ».

159 F. HORAK, Rationes decidendi, p. 227, non manifesta dubbi sul punto: egli osserva, infatti, che si tratta di un’« Ansicht des Servius », e vd., da ultimo, O. BEH-

RENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, p. 43 nt. 37. 160 Il passo alfeniano verrà analizzato ex professo nella parte IV di questi ‘studi’,

mentre sulla valenza antico-sacerdotale del verbo segnalato si vedano, in particolare, E. NORDEN, Aus altrömischen Priesterbüchern, pp. 85 e ss. (vd. anche pp. 3-4) — e cfr. Quint., Inst. or. 8.4.29; P. VOCI, Linee storiche del diritto ereditario romano, I. dalle origini ai Severi, pp. 438-439 nt. 262 = ID., Il diritto ereditario romano dalle origini ai Severi, p. 64 nt. 262 ed A. BURDESE, Note sull’interpretazione in diritto romano, pp. 194-195 = ID., s.v. ‘Interpretazione (diritto romano)’, p. 7.

161 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 167 [Servius, responsorum libri, frg. 4, ‘de testamentis’].

Assente nei libri Basilicorum [cfr. BT. VI, 2047; vd., però, Bas. 44.19.6.1 in Hb. IV, 440-441, sempre tratto da Tipuc. 44.19.6, ove si tace sul nome di Servio].

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set, heres esse iussus erat. Quibusdam ex his ante mortuis Neratius

respondit defici eum condicione nec aestimabat, parere possit condi-

cioni nec ne.] Sed Servius respondi t , cum ita esset scriptum ‘si

filia et mater mea vivent’ altera iam mortua, non defici condicione.

[Idem est et apud Labeonem scriptum. Sabinus quoque et Cassius

quasi impossibiles eas condiciones in testamento positas pro non

scriptis esse, quae sententia admittenda est] 162 ».

Secondo la scelta del Lenel e del Bremer 163, il frammento è

stato inserito nella palingenesi serviana dall’inizio, « si servos cer-

tos », fino al tratto « non defici condicione ».

A mio giudizio, invece, la restituzione va emendata, e la

prima parte può essere esibita solo isolandola dal resto del passo.

Emerge, infatti, abbastanza chiaramente, il dato per il quale

Pomponio presenta due distinti responsa, uno di Nerazio e uno di

Servio. Il secondo, in particolare, è offerto — in una dimensione lo-

gica e non cronologica 164 — perché è considerato, nella sostanza,

funzionale alla disamina di quello neraziano (tant’è vero che è intro-

dotto da un’eloquente avversativa ‘sed’). Per il suo contenuto, però, e

per il parallelismo tematico individuato a proposito di Alf. II dig. a

Paul. epit., D. 28.5.46(45) [= Pal. Alf. 34; Pal. Serv. 40 (id. !)] 165,

162 Per una difesa ragionata della genuinità del tratto finale « idem – admittenda

est », attraverso il compimento di puntuali confronti testuali, vd., da ultimo, E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e in Gaio, p. 19 nt. 79 (con precedente letteratura critica: vd. anche supra, cap. I, nt. 190, e testo a cui essa si riferisce) e, soprattutto, ID., Per uno studio del lessico e delle tecniche di citazione dei giuristi severiani: le ‘sententiae prudentium’ nella scrittura di Papiniano, Paolo e Ulpiano, pp. 371-373 (con ntt. 181, 187 e 191).

163 Cfr. LENEL, op. cit., II, coll. 92 e 328 ad h.l.; BREMER, op. et loc. ult. cit. 164 Cfr., a ragione, T. GIARO, Römische Rechtswahrjeiten, p. 529. 165 In ogni caso, la regula finale, che riportano, in questa sede « Sabinus quoque

et Cassius » trova un calzante parallelo già nella scuola serviana: vd. supra, frg. B.1 . . Cfr. anche H.J. WIELING, Testamentsauslegung im römischen Recht, p. 67.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

251

sembra costituire una parte distinta rispetto alla premessa « Si servos

certos – necne » 166.

La conclusione secondo la quale il responso di Servio sia,

per così dire, autonomo, pare essere dimostrata dal fatto che Pompo-

nio lo trasse molto probabilmente da una pagina di Labeone (ne è in-

dice la formulazione adottata: « idem est et apud Labeonem scrip-

tum »), il quale, ultimo, non può aver certo riportato quello emesso

da Nerazio 167.

B.12. – Pomp. VI ad Sab., D. 33.7.15 pr. [= Pal. Serv. 48

→ Pal. Pomp. 490; Br. 44 resp.] 168: « Si ita testamento scriptum sit:

‘quae tabernarum exercendarum instruendarum pistrini cauponae

causa facta parataque sunt, do lego’, his verbis Servius re -

166 Parrebbe leggere in testo in questi termini anche F. HORAK, Rationes deci-dendi, p. 125 nt. 40.

167 Verso una diversa soluzione palingenetica spinge, invece, la lettura di F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 168, ad h.t., il quale, assai singolarmente, dopo aver ricordato (in modo corretto) che il passo si riconnette ad Alf. II dig. a Paul epit., D. 28.5.46(45) [= Pal. Alf. 34; Pal. Serv. 40], reputa che, in D. 35.1.6.1, « matris et filiae nomine (‘Maevia’, ‘Fulvia’) a Neratio [sic!] deleta videntur esse ». Questo significa che l’Autore tedesco ha presupposto una diversa stratificazione del testo, secondo cui la citazione di Servio sarebbe stata operata da Nerazio. Per contro va osservato che la lettura del Bremer è contraddetta dal dato testuale: infatti, come è già stato osservato, la costruzione deve essere ascritta a Pomponio, il quale ha contrapposto al parere di Nerazio (« si servos – nec ne ») quello di Servio (« sed Servius – condicione »), a cui ricollega l’ulteriore parere di Sabino e di Cassio Longino (« Sabinus – admittenda est »). Questa potrebbe inoltre essere la ragione che deve aver indotto l’Autore tedesco ad attribuire l’intera prima parte di D. 35.1.6.1 all’opera di Servio (conformandosi alla parte isolata dalla Palin-genesia del Lenel, senza che sia possibile, invece, riallineare soluzione e iter logico seguito da quest’ultimo).

168 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 182 [Servius, responsorum libri, frg. 44, ‘de tabernae pistrini cauponae instrumento le-gato’].

Per quanto concerne i Basilici, il testo manca di corrispondenza [cfr. BT. VI, 2023; vd., però, Bas. 44.10.14, in Hb. IV, 409, ex Tipuc. 44.10.14, con il consueto silenzio circa il nome del giurista].

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spondi t et caballos 169, qui in pistrinis essent, et pistores, et in cau-

ponio institores et focariam, mercesque, quae in his tabernis essent,

legatas videri ».

Il testo è giudicato serviano, e per intero, sia dal Lenel che

dal Bremer 170 — e, si potrebbe dire, a ragione — poiché Pomponio

stesso inserisce l’espressiva formulazione « ‘his verbis’ Servius re-

spondit » 171, la quale non lascia spazio a dubbi, ove si voglia —

com’è anche doveroso — rispettare il dato testuale. Essa, infatti, si

inserisce tra la relazione della clausola testamentaria (che costituisce

la fattispecie: « si ita testamentum – do lego ») e ciò che il giurista

169 Può apparire singolare la menzione del caballus (che ricompare, peraltro, sol-

tanto in Paul. Sent. 1.15.1b [cfr. « VIR. », I, col. 603, ad h.v.], passo replicato in Lex Rom. Burg. 13.3 — dov’è, invece, ‘cavallus’ — con richiamo espresso, ivi 13.1, dell’opera e del titolo delle sententiae attribuite al giurista severiano). Il termine cen-sito (ossia caballus) ritorna, infatti, nel linguaggio giuridico più tardo (cfr. C.Th. 7.4.34 [Honor. et Theod., a. 414]; ancora nella Lex Rom. Burg. 4.4; 29 rubr.; 29 e cfr., infine, anche C.I. 12.37(38).14 [impp. Arcad. et Honor., a. 414], per la menzione della caballatio, ossia la razione di cibo destinata al caballus; si veda an-che la copiosa citazione di testi intermedi in C. DU CANGE, Glossarium mediae et infimae latinitis, II, pp. 2 e ss., s.v. ‘caballus’ ed altre collegate). Giustamente, però, già il BREMER, op. et loc. cit., faceva notare come la presenza del termine si rinve-nisse nella cosiddetta lex metalli Vipascensis (del secondo secolo d.C.), alla cui lin. 17 si lègge: « Qui mulos mulas asinos asinas caballos equas sub praecone vendide-rit in k(apita) sing(ula) X III d(are) d(ebeto) » [in « FIRA. », I, p. 504] (e vd. anche « Thes.L.L. », III, coll. 3-4, s.v. ‘caballus’, dato quale « vocabulum peregrinum », e, purtuttavia, presente in numerose ricorrenze letterarie latine; ivi, col. 3 linn. 70-71, si richiama, inoltre, proprio D. 33.7.15. Sulla presenza del termine — accando a quello ‘classico’ equus — quale significativo fenomeno di incidenza del cosiddetto ‘latino volgare’, cfr. A. GRAUR, Latin vulgair?, pp. 117-119 [p. 118, in particolare], e, per le dispute tra i filologi, circa l’accettabilità della stessa definizione di ‘latino volgare’, vd., per tutti, autorevolmente, E. LÖFSTEDT, Syntactica. Studien und Beiträge zur historischen Syntax des Lateins, II. Syntaktisch-stilistische Gesichtspunkte und Pro-bleme, p. 355).

170 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 329 ad h.l. 171 Gli apici sono miei.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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tardorepubblicano ha prodotto come responso, ampliando la portata

pratica della clausola stessa (« et caballos – legatas videri ») 172.

Sebbene sia caratterizzato dalla presenza di una fattispecie

maggiormente compressa, ma comunque intuibile, va menzionato in

questa sede 173 il frammento di

B.13. – Marcell. XIII dig., D. 46.3.67 [= Pal. Serv. 77 →

Pal. Marcell. 157; Br. 99 resp.] 174: « [Si quis duos homines promise-

rit et Stichum solverit, poterit eiusdem Stichi dominium postea con-

secutus dando liberari. In nummis minor vel prope nulla dubitatio

est: nam et] apud Alfenum Servius eum, qui minus a debitore

suo accipere et liberare eum vellet, respondit posse saepius aliquos

nummos accipiendo ab eo eique retro dando ac rursus accipiendo id

172 La soluzione adottata da Servio sembrerebbe andare ‘in controtendenza’ ri-

spetto a quanto deciso, invece, restrittivamente a proposito della vigna (vd. supra, Alf. II dig. a Paul. epit., D. 33.7.16.1 [= Pal. Alf. 44; Pal. Serv. 49] → frg. B.2 . ). Il profilo discretivo potrebbe, però, essere dato dal fatto che, in D. 33.7.16.1, si trat-tava dell’instrumentum vinae che, a giudizio di Servio, non poteva considerarsi esi-stente (poiché composto, in quest’ottica, da elementi strutturali alla vinea stessa), mentre nel caso presente l’ampiamento, per così dire, deve essere stato suggerito sia dall’ampia dizione della clausola, che allude a tutto ciò che sia stato fatto e destinato per l’esercizio e per la dotazione delle aziende menzionate (« quae tabernarum exercendarum in s tru endarum pistrini cauponae causa facta para taque sunt »), sia dalla considerazione che le tipologie di schiavi individuati, i cavalli per il mulino, nonché le stesse merci finalizzate alle attività di produzione del pane e di vettovagliamento dei viandanti, non possono considerarsi — al contrario dell’ipotesi precedente — elementi organici del pistrinum o della taberna.

173 Si allude, in altri termini, a questa sezione ‘B’. 174 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 198

[Servius, responsorum libri, frg. 99, ‘de solutione ?’]: l’Autore fa seguire al testo la seguente annotazione: « Lenel (P. 157) de legato per damnationem relicto sermo-nem esse subtiliter conicit ».

Il passo corrisponde, questa volta in entrambe le edizioni, a Bas. 26.5.67 [Hb. III, 122; BT. IV, 1281], ma senza scolii, e, come di consueto, parimenti del nome del giurista.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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efficere: [ veluti, si centum debitorem decem acceptis liberare credi-

tor velit, ut, cum decem acceperit, eadem ei retro reddat, mox ab eo

accipiat ac novissime retineat: ] ? [ etsi in dubitationem a quibusdam

hoc male deducatur, quod non possit videri is qui ita accepit, ut ei a

quo accepit retro reddat, solvisse potius quam decessisse ] ? ».

L’Autore della palingenesia attribuisce a Servio la parte che

si estende da « apud Alfenum » fino al termine 175, mentre quello del-

le reliquiae iurisprudentiae antehadrianae offre il testo dal suo ini-

zio ad « efficere » 176.

Personalmente nutro forti riserve circa il fatto che l’epilogo

del brano (« etsi in dubitationem – in fin. ») possa appartenere al re-

sponso del nostro giurista in virtù del fatto che la ricomparsa del te-

ma della dubitatio — con la quale il testo di Marcello si apriva alla

seconda ipotesi, relativa al denaro — è deputata a confutare il parere

contrario dei quidam, ossia di giuristi dissenzienti, evidentemente dal

parere di Servio, e, quindi, a lui posteriori. Il richiamo a Servio-

Alfeno è, pertanto, funzionale alla dialettica giurisprudenziale con-

dotta dall’autore del passo, e il responsum del giurista antico pare in-

castonarsi adeguatamente nella parte mediana della discussione.

A questo punto, si potrebbe avanzare, con il Bremer, qualche

sospetto 177 anche sulla parte precedente (« veluti – retineat »), seb-

175 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 332 ad h.l. (il fatto che la prima parte, « si quis duos homines – dubitatio est: nam et », vada esclusa — come correttamente è stato fatto dagli editori tedeschi — dalla palingenesi serviana, pur rappresentando la pre-messa logica alla sua espansione, è dimostrato dal luogo logico di connessione costi-tuito dalle congiunzioni « nam et »).

176 Vd. BREMER, op. et loc. ult. cit.: in realtà, il brano viene riportato integral-mente, fino a « retineat », ma la parte « : veluti, si – retineat » è indicata dallo stesso come sospetta di emblematicità (contra, però, W. KALB, Rec. a Bremer, op. cit., p. 204, il quale osserva che il dubbio può essere confutato sulla base di una serena ana-lisi linguistica).

177 Alludo, qui, non già a perplessità di natura interpolatoria (vd. supra, nt. pre-cedente), bensì semplicemente relative alla resa al pensiero serviano.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

255

bene l’adozione della tecnica degli exempla posti a seguire la ‘regu-

la’ sia testimoniata con sufficiente incidenza statistica nei responsi

serviani 178, unitamente al tópos della cifra di ‘cento’ 179.

B.14. – Pap. X quaest., D. 40.4.48 [= Pal. Serv. 63 → Pal.

Pap. 176; Br. 58 resp.] 180: « Si socius testamento libertatem ita dede-

rit: ‘Pamphilus, si eum socius manumiserit, liber esto’, Servius

respondit socio manumittente communem fieri libertum familiae

atque manumissoris: [ neque enim novum aut incognitum est vario

iure communi mancipio libertatem optingere ] ? ».

Secondo Lenel il testo è integralmente serviano 181. Perso-

nalmente, in mancanza di diversi elementi, aderisco alla ricostruzio-

ne dell’Autore tedesco, sebbene mi senta di avanzare qualche riserva

sulla parte estrema, « neque enim – optingere ». In questa ipotesi non

mi trovo in completo disaccordo — almeno nella conclusione — con

178 Si vedano, per gli esempi maggiormente significativi, i passi di Alf. II dig. ab

anon. epit., D. 9.2.52.2 [= Pal. Alf. 7: « [...] illud quidem certe, quoquo modo res se haberet, cum domino posteriorum mularum agi non posse, quoniam non sua sponte, sed percussae retro redissent » (per il quale vd. infra, cap. III, § 2.1)] e di Alf. V dig. ab anon. epit., D. 35.1.27 [= Pal. Alf. 21: « ... monumentum tamen omnimodo secundum substantiam et dignitatem defuncti exstruere debere » (di cui si tratterà nella parte III di questi ‘studi’)].

179 Sebbene, infatti, tale indicazione sia tutt’altro che peregrina nella scrittura dei giuristi romani (cfr. « VIR. », I, coll. 713-716 [714-715, in particolare]), risulta pre-sente in un numero significativo di luoghi della scuola serviana: cfr. Iavol. VI ex post. Lab., D. 23.3.79.1 [= Pal. Iavol. 221; Pal. Serv. 31] → frg. B .7 . ; Pap. XXVII quaest., D. 31.74 [= Pal. Pap. 330; Pal. Alf. 80] ed Ulp. XIX ad Sab., D. 30.30.2 [= Pal. Ulp. 2597; Pal. Serv. 41] → frg. D.25 . .

180 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 185 [Servius, responsorum libri, frg. 58, ‘de libertate testamento data’].

Il brano torna in Bas. 48.3.48 [BT. VI, 2173; ”Ιδεµ. = Παπινιανός: vd. Bas. 48.3.47 Hb. IV, 640], accompagnati da uno scolio [Sch. 1, BS. VII, 2839 = Hb. IV, 640-641], ma entrambe le fonti bizantine non fanno menzione di Servio.

181 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 330 ad h.l.

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« SERVIUS RESPONDIT »

256

il Beseler, secondo il quale la coda sarebbe stata frutto, addirittura,

della improvvida riflessione di un annotatore marginale. A parere

dello studioso, infatti, non può tenersi per autentica la sanzione se-

condo cui « vario iure communi mancipi[um] libertatem op-

ting[it] » 182, in quanto da lui giudicata letteralmente ‘superflua’ 183.

Si osservi, per inciso, che lo stesso Bremer presenta il brano

limitatamente alla parte che va da ‘si socius’ a ‘manumissoris’ 184,

omettendo, dunque, la sezione finale appuntata dal Beseler 185. E, in-

fatti, quanto qui si vuole sottolineare è il dubbio sollevato circa la ri-

conducibilità dell’inciso conclusivo alla matrice serviana.

In realtà, di recente, attraverso uno studio di forme similari a

quella presente in D. 40.4.48 (ossia « neque novum aut incogni-

tum »), il Giaro ha ribadito come si tratti di espressioni caratteristiche

per la giurisprudenza d’epoca severiana 186. Anche se, quindi, il seg-

mento « neque enim – in fin. » non vada ascritto a Servio, esso non

deve essere oggetto di critica radicale.

182 Cfr. G. VON BESELER, Juristische Miniaturen, p. 39. 183 Cfr., infatti, ID., Beiträge, V, p. 36, il quale rinsalda la critica, aggiungendo

che il tratto « neque – in fin. » è, appunto, « überflüssig » (sic!). 184 Vd. BREMER, op. et loc. ult. cit. 185 Vd. anche G. ROTONDI, La ‘manumissio’ del ‘servus communis’ nel diritto

romano classico, p. 470 nt. 2 = ID., Studii varii di diritto romano ed attuale, III, p. 83 nt. 2, secondo cui « l’inciso finale può essere sospetto […] ma la parte sostanzia-le è irreprensibile », poiché, come si osserva esattamente, « Servio si era occupato anche sotto altri riguardi di problemi simili » e cfr. Paul. L ad ed., D. 40.4.35 [= Pal. Paul. 641; Pal. Serv. 62], ossia il brano palingeneticamente appena precedente, cui il Rotondi rinvia.

186 Cfr., infatti, ad esempio, Paul. IV quaest., D. 1.3.26 [= Pal. Paul. *1321]; Paul. VI quaest., D. 50.17.85.1 [= Pal. Paul. 1341]; Ulp. XIV ad ed., D. 5.2.8.11 [= Pal. Ulp. 495]; Ulp. V fideicomm., D. 40.5.24.10 [= Pal. Ulp. 1885], e vd. T. GIA-

RO, Römische Rechtswahrheiten, pp. 524-525 (e 525 nt. 17, per bibliografia prece-dente e ulteriori indicazioni di passi).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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B.15. – Pap. XIII quaest., D. 28.7.28 [= Pal. Serv. 39 →

Pal. Pap. 217; Br. 52 resp.] 187: « [Si filius sub condicione heres erit

et nepotes ex eo substituantur, cum non sufficit sub qualibet condi-

cione filium heredem institui, sed ita demum testamentum ratum est,

si condicio fuit in filii potestate, consideremus, numquid intersit,

quae condicio fuerit adscripta, utrum quae moriente filio impleri non

potuit, veluti ‘si Alexandriam ierit, filius heres esto’ isque Romae de-

cessit, an vero quae potuit etiam extremo vitae momento impleri, ve-

luti ‘si Titio decem dederit, filius heres esto’, quae condicio nomine

filii per alium impleri potest. Nam superior quidem species condicio-

nis admittit vivo filio nepotes ad hereditatem, qui si neminem substi-

tutum haberet, dum moritur, legitimus patri heres exstiterit,] argu-

mento[que] 188 est, quod apud Servium quoque relatum est:

quendam enim refert ita heredem institutum, si in Capitolium ascen-

derit, quod si non ascendisset, legatum ei datum, eumque antequam

ascenderet mortem obisse: de quo respondit Servius condicio-

nem morte defecisse ideoque moriente eo legati diem cessisse. [Alte-

ra vero species condicionis vivo filio non admittit nepotes ad heredi-

tatem, qui substituti si non essent, intestato avo heredes existerent:

neque enim filius videretur obstitisse, post cuius mortem patris tes-

tamentum destituitur, quemadmodum si exheredato eodem filio nepo-

tes, cum filius moreretur, heredes fuissent instituti] » 189.

187 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 184

[Servius, responsorum libri, frg. 52, ‘de legato sub condicione dato’]. Cfr. Bas. 35.12.28 [ex Pira 31.5; BT. V, 1617; Hb. III, 603], senza scolii e senza

individuazione del nome del giurista. 188 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit. Sul termine, e la sua origine, vd. ora TH.

MAYER-MALY, Argumentum, pp. 255-256. 189 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 327 ad h.l.

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« SERVIUS RESPONDIT »

258

La porzione serviana dell’ampio frammento papinianeo è li-

mitata alla sola sezione « argumento[que] – diem cessisse » 190, ma

non priva il lettore della possibilità di intravedere il casus nonché il

responsum originari.

Di certo interesse è l’impianto di tale parte, poiché vi si af-

ferma che « apud Servium quoque relatum est », segno che il nostro

giurista faceva, a sua volta, appello alla giurisprudenza coeva o addi-

rittura anteriore (« quendam enim refert ita heredem institutum, si in

Capitolium ascenderit, quod si non ascendisset, legatum ei datum,

eumque antequam ascenderet mortem obisse »), a cui riconnetteva

un proprio commento adesivo finalizzato a dedurre dal caso una re-

gula generalizzante (« de quo respondit Servius condicionem morte

defecisse ideoque moriente eo legati diem cessisse ») 191. E proprio

questa soluzione appare agli occhi di Papiniano funzionale alla solu-

zione del caso di partenza (« si filius sub condicione heres erit et ne-

potes ex eo substituantur – utrum quae moriente filio impleri non po-

tuit... », et rell.).

B.16. – Paul. IX ad ed., D. 3.5.20(21) pr. [= Pal. Serv. 10

→ Pal. Alf. 3 → Pal. Paul. 191; Br. 131 resp.] 192: « [Nam et] Ser -

190 Cfr. A. WATSON, D.28.4.45 (44): An Unprincipled Decision on a Will, p. 390

(contro la soluzione, peraltro priva di fondamento e persino stravagante, di W.W. BUCKLAND, Cretio and connected topics, pp. 262-263 [che Watson cita come èdita in « TR. = RHD. », III, 1922, mentre si tratta, in realtà, dell’annata II, 1920-1921], secondo cui il principium iuris potrebbe essere stato, per così dire, ‘antichizzato’ da Papiniano con il riferimento a Servio), nonché M. MEINHARD, Die bedingte Erbein-setzung des Haussohnes, p. 125 (e questo a prescindere dall’ipotesi della Studiosa tedesca che lo scopo potesse essere stato quello di operare un richiamo autorevole o, più propriamente, ‘dotto’).

191 Sul punto vd. anche T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 381. 192 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 208

[Servius, responsorum libri, frg. 131, ‘de negotiorum gestione’]. Si vedano Bas. 17.1.21 pr. [Paul. BT. III, 852-853; Bas. 17.1.21, Παàλ. in Hb.

II, 213], privi di scholia, lo sono altrettanto della menzione del giurista.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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vius r espondi t [ , ut est relatum apud Alfenum libro tri-

gensimo nono digestorum:] cum a Lusitanis tres capti essent et

unus ea condicione missus, uti pecuniam pro tribus adferret, et nisi

redisset, ut duo pro eo quoque pecuniam darent, isque reverti noluis-

set et ob hanc causam illi pro tertio quoque pecuniam solvissent:

Servius respondit aequum esse praetorem in eum reddere iudi-

cium » 193.

La testimonianza si caratterizza, intanto, per la duplice men-

zione dell’attività del respondere ad opera di Servio (« Servius re-

spondit, ut... – ... Servius respondit aequum... ») 194 — le cui ricor-

renze si situano agli estremi del casus, peraltro piuttosto curioso 195,

193 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 324 ad h.l. 194 Sul tratto « Servius respondit aequum esse praetorem in eum reddere iudi-

cium » vd., da ultimo, O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, pp. 85 e nt. 122, 88 nt. 129.

195 Si intende, con questo giudizio, riferirsi allo svolgimento concreto del caso, e pertanto, rivolgersi (come non pare abbia fatto la dottrina, salvo un acuto cenno in A. GUARINO, Servio e i prigionieri dei Lusitani, p. 238 = ID., Pagine di diritto roma-no, V, p. 424) la relativa domanda sul perché i tre ostaggi (forse della guerra serto-riana: è opinione di M.F. CURSI, La struttura del ‘postliminium’, p. 196) avessero deciso di delegare (ovvero vi fosse stato un accordo tra i raptores e) uno di essi a tornare in patria per recuperare il denaro necessario per soddisfare le richieste dei Lusitani (la seconda, ragionevole ipotesi — se vi fosse stato accordo tra i rapiti si sarebbe discusso di mandato e non di actio negotiorum gestorum — è già di U. RAT-

TI, Studi sulla ‘captivitas’ III, p. 31 nt. 1, e vd. GUARINO, op. et loc. cit.). Prima di tentare una risposta, non si può non notare che il brano presenta margi-

ni di illogicità. I tre prigionieri, infatti, avranno avuto denaro con sé — altrimenti non si comprende come, alla fine, rifiutatosi il terzo di fare ritorno in Lusitania con il riscatto, gli altri due possano aver corrisposto la somma. Ma, certo, non saranno stati in grado di ottenere — per altra via — diverso denaro da famigliari e amici (al-trimenti sarebbe irragionevole che i Lusitani si fossero privati di uno dei tre ostaggi, diminuendo la forza di coazione dell’atto, potendo comunaue ottenere in riscatto).

Si potrebbe ipotizzare che la pecunia a loro disposizione fosse inferiore rispetto a quanto preteso, e che, quindi, il terzo fosse stato mandato in patria a cercare di ot-tenere da amici e parenti quanto preteso per la liberazione (oppure riacquistare, per effetto del ius postliminii, il proprio patrimonio). Ma a questo proposito sorge spon-

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« SERVIUS RESPONDIT »

260

in tema di concessione dell’actio negotiorum gestorum 196 (« cum a

Lusitanis – pecuniam solvissem ») 197 — inoltre, per la registrazione

tanea una obiezione: perché mai i raptores non abbiano immediatamente spogliato i malcapitati del loro averi (in ciò legittimati dal diritto internazionale di guerra, anche ove non si trattasse di volgari banditi), salva, poi, la possibilità di incaricare — co-munque — uno di loro di andare alla ricerca del denaro occorrente per la liberazio-ne. Non v’è dubbio, infatti, che questi abbiano mantenuto la propria dotazione se, al punto medio della vicenda, pagano per sé e per il terzo risultato, in séguito, fedifra-go. Tanto più che del patrimonio ‘attuale’ dei rapiti i Lusitani sarebbero stati a cono-scenza, laddove sia vera l’ipotesi di Ratti, e di Guarino, che l’accordo fu stretto tra uno dei rapti e i banditi. La costruzione sintattica del frammento non lascia conclu-dere diversamente dalla conoscenza delle circostanze di fatto (e della disponibilità immediata di denaro): « unus ea condicione missus, u t i pecuniam pro tribus ad-ferret, e t n i s i redisset, u t duo pro eo quoque pecuniam darent »: il primo ‘uti’ è necessariamente correlato al seguente ‘ut’ (sottoposto alla parte eventuale della con-dizione, « nisi redisset » — ciò che sarebbe potuto avvenire anche per cause indi-pendenti dalla volontà dell’inviato: per morte, per ulteriore cattura lungo la strada, e così via).

Si potrebbe, allora, forse più ragionevolmente concludere per la presenza di un caso di scuola (frutto di « consultazioni [...] fatte a scopo teoretico e non immedia-tamente pratico », come osservava, richiamando espressamente D. 3.5.20[21] pr., già C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, p. 4 = ID., Opere, II, p. 172) mirato, attraverso la prospettazione da parte di Servio di un ‘caso limite’, a discutere della operatività dell’actio negotiorum gestorum.

196 Contro il terzo che non ha fatto ritorno e per il quale, gli altri due prigionieri, hanno versato il riscatto (e che, logicamente, si è rifiutato di rimborsare la quota sborsata a suo favore). Sul punto si veda, in special modo, G. FINAZZI, Ricerche in tema di ‘negotiorum gestio’, I. Azione pretoria ed azione civile, pp. 82 e ss. (ampia-mente, con soluzioni equilibrate e senz’altro condivisibili) nonché ID., op. cit., II.1. Requisiti delle ‘actiones negotiorum gestorum’, p. 122, in cui si ribadisce il pensiero circa la previsione, da parte di Servio, più di un’azione decretale, che di una vera e propria actio negotiorum gestorum: spunti in tal senso — ma per l’inesistenza della stessa actio prima dell’intervento serviano — già in G. PACCHIONI, Della gestione degli affari altri secondo il diritto romano, civile e commerciale, pp. 16-17, che sot-tolineava l’espressione « aequum praetorem reddere iudicium », poiché « ciò pre-supponeva che il pretore non avesse già provveduto » [p. 17]; M. BARTOŠEK, Capti-vus. Studie o právním postavení římského občana-válečného zajatce, p. 45 nt. 74 (lavoro che mi pare sia sfuggito alla dottrina posteriore) allude(rebbe) ad un’actio negotiorum gestorum utilis; e cfr. A. CENDERELLI, La ‘negotiorum gestio’. Corso esegetico di diritto romano, I. Struttura, origini, azioni, p. 163. Da ultimo, sul testo,

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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precisa e, soprattutto, credibile 198, da parte di Paolo, dell’opera e del

libro alfeniani da cui la notizia stessa è stata tratta (« ut est relatum

apud Alfenum libro trigensimo nono digestorum »).

Tutto questo considerato — che non consente di concludere

diversamente dalla paternità serviana del contenuto, e quasi per inte-

ro 199 — è opportuno sottolineare anche la presenza di spie linguisti-

che che confermano quanto appena osservato 200. Queste sono costi-

tuite dall’impiego del verbo redire [« nisi redisset »] — si veda, in-

fatti, Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.2 [= Pal. Alf. 7] 201 — e del

vd. anche S. SCHIPANI, Rileggere i ‘Digesta’. Enucleare i principii. Proporli, pp. 52-53 ntt. 4-5.

197 La prima citazione, in realtà, svolge la funzione di inserire il responso nell’opera da cui è stato tramandato; la seconda contiene il responsum vero e pro-prio.

198 È appena il caso di accennare ancora al fatto che Paolo fu il secondo epitoma-tore di Alfeno. Vd. anche C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, pp. 7-8 = ID., Opere, II, pp. 174-175.

199 L’eccezione — ma puramente di stile — è costituita unicamente dal segmen-to « ut est relatum apud Alfenum libro trigensimo nono digestorum », e cfr. A. GU-

ZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en derecho romano, pp. 238-239.

200 Sul testo si vedano, in particolare, oltre alle osservazioni di A. BECHMANN, Das ius postliminii und die Lex Cornelia, pp. 71-72, soprattutto quelle di H.H. SEILER, Der Tatbestand der ‘negotiorum gestio’ im römischen Recht, pp. 80 e ss.; K.-H. ZIEGLER, Lösegeld-Probleme im römischen Privatrecht, pp. 383-384; A. GUARINO, Servio e i prigionieri dei Lusitani, pp. 236 e ss. = ID., Pagine di diritto romano, V, pp. 423 e ss. (e per l’attribuzione a Servio cfr., de plano, TH. MAYER-MALY, Juristische Reflexionen über ius I, p. 16). Da ultimi: A. CENDERELLI, La ‘ne-gotiorum gestio’, pp. 161 e ss.; ID., In tema di origini e sviluppo delle ‘actiones ne-gotiorum gestorum’, p. 94 e ss.; M.V. SANNA, Ricerche in tema di ‘redemptio ab hostibus’, pp. 39 e ss., nonché O. BEHRENDS, Dalla mediazione arbitrale alla prote-zione giudiziaria. Genesi e vicende delle formule di buona fede e delle cd. ‘formulae in factum conceptae’, p. 205 e nt. 16.

201 Per il sintagma ‘retro redire’, come tipicamente alfeniano, rinvio infra, al cap. III.

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« SERVIUS RESPONDIT »

262

sintagma tecnico ‘reddere iudicium’ — testimoniato, per la prima

volta 202, proprio in Alf. ibid., D. 44.7.20 [= Pal. Alf. 9] 203.

B.17. – Paul. XXXIV ad ed., D. 14.2.2 pr. e § 3 [= Pal.

Serv. 20 → Pal. Paul. 521; Br. 124 e 126 resp.] 204: « pr. – [ Si labo-

202 La conclusione è tratta dalla fonte ‘formale’ (diretta e più antica) di tradizio-

ne del sintagma, poiché, in realtà, la prima testimonianza cronologicamente risalente sarebbe, infatti, recata dal passo ora in esame (che è, però, paolino): in ogni caso, questo significa che l’espressione ‘reddere iudicium’ apparteneva al lessico di Ser-vio e, probabilmente sulla sua orma, di Alfeno. Mi pare, poi, significativo il fatto che il frammento alfeniano sia contenuto nell’epitome anonima e, quindi, non si possa concludere per uno stilema proprio del giurista severiano Paolo.

203 Nel resto della giurisprudenza rimasta, a dispetto di quanto si possa presunti-vamente ritenere, l’uso del sintagma non è imponente, sebbene sia senz’altro signifi-cativo: vd., infatti, Procul. XI epist., D. 19.5.12 [= Pal. Procul. 32]; Iul. XLI dig., D. 43.20.4 [= Pal. Iul. 582]; Iul. V ad Minic., D. 3.3.76 [= Pal. Iul. 872] — qui po-trebbe trattarsi del pensiero dello stesso Minicio, auditor di Sabino (vd. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 488 nt. 3) e, pertanto, la stessa sua palingenesia do-vrebbe (potrebbe) essere emendata con la sostituzione di questo frammento al frg. 1 (ora ex Pomp. IX ad Sab., D. 19.1.6.4, che assumerebbe il numero di frg. 2); Pomp. XIII ad Sab., D. 3.4.9 [= Pal. Pomp. 588]; Pap. III resp., D. 3.5.31(32) pr. [= Pal. Pap. 450]; Pap. ibid., Vat. Fragm. 14 [= Pal. Pap. 480]; Callistr. II quaest., D. 47.9.7 [= Pal. Callistr. 107]; Ulp. V ad ed., D. 2.7.1.1 [= Pal. Ulp. 269] — e qui si riporta un parere di Pomponio [cfr., infatti, Pal. Pomp. 15]; Ulp. XXIII ad ed., D. 11.3.5.3 [= Pal. Ulp. 701]; Ulp. LVII ad ed., D. 47.10.7.2 [= Pal. Ulp. 1339]; Paul. IX ad ed., D. 3.5.20(21) pr. [= Pal. Paul. 191] — ossia il testo di cui ci stiamo occupando; Paul. LXXII ad ed., D. 45.1.83.1 [= Pal. Macer 798]; Macer II [iud.] publ., D. 48.21.2.1 [= Pal. Macer 43] — che tratta di un rescritto degli imperatori (Settimio) Severo e Antonino (Caracalla), ad un certo Giulio Giuliano, databile quindi per il 211-212 d.C. trattandosi del periodo di condivisione della porpora imperiale (D. eod. princi-pium), e di un senatoconsulto — di cui sono riportati i verba (D. eod. § 1) — che sembrerebbe relativo alla constitutio (ma, più probabilmente, precedente, utilizzato da Macro per aver trattato di materia analoga, poiché si afferma: « argumento est senatus consultum, quod factum est de his... », et rell.: l’inciso « quod factum est » farebbe pensare che il giurista citasse dalla copia consolare del provvedimento — e sul punto rimando alla lucida analisi di P. BUONGIORNO, Osservazioni sul ‘modus citandi’ delle deliberazioni senatorie nella giurisprudenza classica, postclassica e giustinianea [in corso di pubblicazione, consultato ‘in bozze’ per la cortesia del-l’Autore]).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

263

rante nave iactus factus est, amissarum mercium domini, si merces

vehendas locaverant, ex locato cum magistro navis agere debent: id

deinde cum reliquis, quorum merces salvae sunt, ex conducto, ut de-

trimentum pro portione communicetur, agere potest.] ? Servius

[quidem] respondi t ex locato agere cum magistro navis debere, ut

ceterorum vectorum merces retineat, donec portionem damni prae-

stent. [ Immo etsi non retineat merces magister, ultro ex locato habi-

turus est actionem cum vectoribus: quid enim si vectores sint, qui

nullas sarcinas habeant? Plane commodius est, si sint, retinere eas.

At si non totam navem conduxerit, ex conducto aget, sicut vectores,

qui loca in navem conduxerunt: ] ? [aequissimum enim est commune

detrimentum fieri eorum, qui propter amissas res aliorum consecuti

sunt, ut merces suas salvas haberent]. – 3. Si navis a piratis redempta

sit, Servius Ofilius Labeo omnes conferre debere a iunt . Quod

vero praedones abstulerint, eum perdere cuius fuerint, nec conferen-

dum ei, qui suas merces redemerit » 205.

204 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 206

[Servius, responsorum libri, frgg. 124 e 126, ‘de mercibus vehendis locatis’ — in-tervallati da Alf. III dig. a Paul. epit., D. 14.2.7 = Pal. Alf. 55: «Cum depressa navis aut deiecta esset, quod quisque ex ea suum servasset, sibi servare respondit, tamquam ex incendio »; la congettura non appare affatto priva di pregio].

Quanto ai Basilici, il principium e il § 3 di D. 14.2.2 non trovano corrispondenza all’interno dell’edizione tedesca [cfr. Bas. 53.3.1, in Hb. V, 115], ma sono presenti in quella olandese [Bas. 53.3.1 = pr. — ricostruiti attraverso Syn. N.I.12 ed Attal., Po…hma NomikÒn 32.9 — e Bas. 53.3.2 = § 3 — nuovamente ex Syn. N.I.12 e il Codex Vaticanus graecus 2075 — in BT. VII, 2448-2449], dove, in ogni caso, v’è assenza di scholia e di relazione del nome di Servio. Cfr. C. FERRINI – J. MERCATI, Editionis Basilicorum heimbachianae supplementum alterum, pp. 101-102 = Basili-corum libri LX. Supplementa editionis Basilicorum heimbachianae [M. Miglietta, cur.], pp. 423-424, e cfr. anche p. 182 nt. 9, col. I [= p. 504 nt. 9].

205 Cfr. LENEL, op. cit., col. 325 ad h.l.

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« SERVIUS RESPONDIT »

264

Lenel e Bremer riportano sia il principium (fino a « donec

portione damni praestent »), sia il § 3, di D. 14.2.2 come derivanti

dal pensiero del nostro giurista.

Più probabilmente — per via della conformazione del perio-

do che conserva il caso, « si laborante – agere potest », e che contie-

ne anche la soluzione di esso, e per via della sintomatica presenza

della asseverativa ‘quidem’ all’interno della porzione che ricorda

Servio (« Servius quidem respondit ») 206 — si deve isolare il periodo

di apertura, sebbene, nella sostanza, la questione paia essere quella

discussa già dal giurista repubblicano. Per ciò che attiene alla conti-

nuazione « immo etsi – merces suas salvas haberent », va osservato

che, mentre la ripresa « aequissimum – in fin. » risulta difficilmente

serviana (proprio per via del superlativo), la presenza di una compo-

sita distinctio nella parte « immo – qui loca in navem conduxerunt »

dovrebbe suggerire maggiori cautele a seguire l’opzione degli autori

tedeschi 207.

Con riferimento al § 3, manterrei integra la scelta degli edito-

ri tedeschi, poiché l’uso del verbo ‘aiere’ 208, e non ‘respondere’, ap-

206 Lo stesso BREMER, op. et loc. ult. cit., elimina, infatti, il quidem per ricondur-

re anche la prima parte del brano alla elaborazione serviana. 207 Sul principium del passo si veda M. MARRONE, D. 14. 2. 2 pr.: ‘retentio’ e

‘iudicia bonæ fidei’, pp. 172 e ss. (in particolare, con ipotesi ricostruttiva del testo a p. 174, che pare confermare la lettura qui proposta; cfr., inoltre, le riflessioni di I. KROPPENBERG, Die Insolvenz im klassischen römischen Recht. Tatbestände und Wirkungen außerhalb des Konkursverfahrens, pp. 367-368 nt. 67: adesivamente K. HACKL, Rec. ad op. cit., p. 343; di diverso avviso, invece, R. RICHICHI, Paul. D. 14.2.2 pr. e la contribuzione alle avarie comuni in diritto romano, pp. 148-149, 156 e ss., il quale si spinge a considerare responso serviano, contenuto nel princi-pium del frammento, tutta la parte racchiusa tra « Servius » ed « eas »; per ulteriore bibliografia, si rimanda a G. ZOZ, Il ruolo della buona fede nel contratto di trasporto marittimo, pp. 551-552 nt. 38).

208 Per evidenti ragioni stilistiche, riprendo e riporto la forma all’infinito di tale verbo, adottando la doppia ricorrenza registrata in Aug. Hip., Contra acad. 3.4.9 [« PL. », XXXII, col. 938], ed espressa nel binomio « aiere aut negare ». Questo verbo indica, anche nel linguaggio dei giuristi, una qual certa solennità della senten-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

265

pare come indicatore della menzione della regula per così dire sinte-

tizzata (« omnes conferre debere »), seguita da quello che, seppure si

potrebbe ipotizzare quale commento paolino, in realtà riflette parte

del pensiero espresso nel periodo immediatamente precedente: è ra-

gionevole supporre, infatti, che la stessa forma verbale sia sottintesa

anche nel periodo finale (a reggere il verbo all’infinito) 209 e, infine, è

contenutisticamente interessante la corrispondenza tra le espressioni

« navis redempta... omnes conferre debere » e « nec conferen-

dum... merces redemerit », che formano un chiasmo ben riusci-

to 210.

B.18. – Paul. LIV ad ed., D. 34.2.4 [= Pal. Serv. 52 → Pal.

Paul. 669; Br. 37 resp.] 211: « Cum quidam libertum suum in Asiam

misisset ad purpuras emendas et testamento uxori suae lanam purpu-

tia, spesso come forma di ‘massimazione’ — e di implicito riconoscimento circa la sua fondatezza e generalizzata condivisibilità — da parte del giurista che la riferisce (a modello del significato legislativo ed onorario, in cui precede e apre una statui-zione magistratuale — solitamente pretoria): mi permetto di rinviare, sul punto, alle rilevazioni condotte in M. MIGLIETTA, Elaborazione di Ulpiano e di Paolo intorno al ‘certum dicere’ nell’‘edictum ‘generale’ de iniuriis’, pp. 64-70 = ID., Intorno al ‘certum dicere’ nell’‘edictum ‘generale’ de iniuriis’, pp. 226-230 nt. 77.

209 In questo senso, la versione italiana in Iustiniani Augusti Digesta seu Pandec-tae [S. Schipani, cur.], III, p. 138, ad h.l. e così pure, da ultimo, E. STOLFI, Quae-stiones iuris. Casistica e insegnamento giuridico in romanisti e civilisti napoletani di fine Ottocento, nt. 33 [online: « le frasi in questione si trovano infatti all’infinitiva, evidentemente retta da ‘aiunt’. Sia nella prima che nella seconda parte del nostro frammento, Paolo si sarebbe quindi limitato a riportare l’orientamento dei tre giuristi precedenti e implicitamente aderirvi »].

210 Il cui punto d’incontro — e di equilibrio tra le due sezioni del § 3 (ma anche rispetto a ciò che è stato deciso nel principium di D. 14.2.2) — è dato dalla variabile dipendente « quod vero praedones abstulerint ».

211 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 180 [Servius, responsorum libri, frg. 37, ‘de lana lino purpura uxori legatis’].

Il passo non ritorna nell’edizione moderna dei Basilici [vd. BT. VI, 2032; vd., però, Bas. 44.15.4 in Hb. IV, 421 — reso sulla base di Tipuc. 44.15.4 — in ogni ca-so senza scholia e sempre privo della menzione del giurista].

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« SERVIUS RESPONDIT »

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ream legasset, pertinere ad eam, si quam purpuram vivo eo libertus

emisset, Servius respondit » 212.

Intorno a questo testo, in materia di legato dell’id quod uxo-

ris causa paratum — che ‘fece scuola’ nel diritto successivo 213, per

cui le cose acquistate dal marito (o da questi fatte acquistare essendo

egli ancora in vita, pur senza sua effettiva conoscenza dell’avvenuta

acquisizione), per quanto non consegnate materialmente alla uxor,

spettavano in ogni caso a questa 214 — non pare si debbano aggiun-

gere particolari considerazioni in punto attribuzione a Servio.

La descrizione sintetica del caso, cui segue ciò che il giurista

‘respondit’, non lascia intravedere inserimenti di altra mano 215.

B.19. – Ulp. XXIII ad ed., D. 9.3.5.12 [= Pal. Serv. 18 →

Pal. Ulp. 964; Br. 139-140 resp. = 3 ad ed.] 216: « [Si id quod positum

212 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 329 ad h.l. 213 Vd. R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, II, p. 265. 214 Vd. M. GARCÍA GARRIDO, Ius uxorium, p. 126 e, ancora, ASTOLFI, op. cit., pp.

264-265. 215 Sul testo cfr. anche P. VOCI, Diritto ereditario romano 2, II, p. 303 e nt. 181;

A. WATSON, Acquisition of ownership by ‘traditio’ to an ‘extraneus’, pp. 190 e nt. 3, 191; ID., The Law of Property, pp. 79-80 (e sull’origine serviana del responso vd. anche R. QUADRATO, s.v. ‘Rappresentanza (diritto romano)’, p. 427, nonché sostan-zialmente in questi termini F. KLINCK, Erwerb durch Übergabe an Dritte nach klas-sischem römischen Recht, pp. 194 [in particolare] e ss.).

216 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 211 [Servius, responsorum libri, frgg. 139-140, ‘de positis’: l’Autore tedesco suddivide, infatti, il frammento dei Digesta giustinianei in due passi. Questa, tuttavia, mi pare una moltiplicazione non utile, anche perché — a ben osservare — tale scelta appare contraddittoria rispetto alle annotazioni che il Bremer pone di séguito alle due parti, richiamando, in entrambe, le parole edittali « vulgo iter fieri solere »: cfr., rispetti-vamente, Ulp. XXIII ad ed., D. 9.3.1 pr. e § 2 = Pal. Ulp. 682-683 e Gai. III aur., D. 44.7.5.5 = Pal. Gai. 506, il cui fondamento è riferito alla elaborazione del mae-stro di Alfeno. È ragionevole ritenere che si trattasse di una riflessioni unitaria svolta da Servio sul tema del positum et suspensum. Tutto questo premesso, dunque, il pas-so avrebbe dovuto essere conferito unitariamente, come in LENEL, op. et loc. ult. cit.,

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

267

erat deciderit et nocuerit, in eum competit actio qui posuit, non in

eum qui habitaverit, quasi haec actio non sufficiat, quia positum ha-

buisse non utique videtur qui posuit, nisi vel dominus fuit aedium vel

inhabitator. Nam et] cum pictor in pergula clipeum 217 vel tabulam

expositam habuisset eaque excidisset et transeunti damni quid dedis-

set, Servius respondi t ad exemplum huius actionis dari oportere

actionem: hanc enim non competere palam esse, quia neque in sug-

grunda neque in protecto tabula fuerat posita. Idem servandum re -

spondi t et si amphora ex reticulo suspensa decidisset et damni de-

disset, quia et legitima et honoraria actio deficit ».

A parere sia del Lenel, sia del Bremer — isolata corretta-

mente la sezione iniziale (« si id quod – nam et ») — tutta la seconda

anche per le considerazioni di natura palingenetica che si svolganno (e questo do-vrebbe condurre a respingere anche l’ipotesi di BREMER, op. cit., p. 233, laddove replica il frg. di D. 9.3.5.12 all’interno del censimento dei libri ad edictum ‘XIV. De his quae cuiusque in bonis sunt. 2. de his qui deiecerint vel effuderint’: « An Servius responsum in libros ad edictum receperit, in incerto remanet; sed id hoc loco repetere idoneum putavi »].

In Bas. 60.4.5 [’Ulpi. BT. VIII, 2772-2773; OÙlpian. Hb. V, 333], nonostante la presenza di numerosi e interessanti scholia [Sch. Pe 33-38 e 46, BS. VIII, 3177, 3179; Sch. 42-47, Hb. V, 333-334], non v’è traccia del nome di Servio. Su alcune di tali testimonianze vd. D. ROSSI, In tema di tutela pretoria della viabilità. A proposito di D. 9.3.5.12, p. 412.

Allo stesso modo, nel cosiddetto ‘ Lexicon Magk…pioun ’ P.14 [= B.H. Stolte, ed., in « Fontes minores », VIII, 364], rinveniamo una glossa, di natura meramente esplicativa, al termine ‘pergula’ (qui traslitterato) di D. 9.3.5.12 = Bas. 60.4.5.12: « Pšrgoula : Øperùon ». Da notare che l’editore indica come riferimento, nell’apparato critico, soltanto il luogo dei Basilici; a mio avviso si sarebbe dovuto segnalare (anche o, forse addirittura, soltanto) quello del Digesto, poiché il termine ‘ pergula → pšrgoula ’ non compare affatto nel testo dei sovrani macedoni, bensì, appunto, esclusivamente nell’originale ulpianeo.

217 Vd. nt. seguente.

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« SERVIUS RESPONDIT »

268

parte sarebbe opera del giurista repubblicano (« cum pictor – in

fin. ») 218.

Il Bremer denuncia, tuttavia, un’incertezza di carattere te-

stuale sulla parte « quia neque in suggrunda neque in protecto tabula

fuerat posita » relativa al tratto « hanc enim – fuerit posita »219: a

mio modo di vedere, invece, quest’ultimo non solo è integralmente

genuino ma risulta funzionale alla trattazione ulpianea, che si serve

di un responso del giurista tardorepubblicano 220. A questa conclu-

sione si può giungere attraverso alcune osservazioni di carattere pa-

lingenetico 221.

218 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 325 ad h.l. e BREMER, op. et

loc. ult. cit.; ancora in questo senso parrebbe esprimersi F. HORAK, Rationes deci-dendi, p. 91 e, più recentemente, J.B.M. VAN HOEK, D. 9,3,5,4: Übersetzungsfragen im Bereich der actio de deiectis vel effusis als Popularklage, pp. 467 e ss. nonché A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en derecho romano, pp. 282-283 (il quale osserva acutamente che l’indicazione dello scudo potrebbe essere dovuta ad una ‘glossa’, poiché esso « non aparece mencionado después y las oracio-nes siguientes van en singular » [p. 282 nt. 846]). Sul testo vd. anche A. WATSON, Law Making in the Later Roman Republic, p. 92; ID., The Law of Obligations in the Later Roman Republic, p. 268, e ancora ID., Narrow,, Rigid and Literal Interpreta-tion in the Later Roman Republic, p. 364.

219 Peraltro, l’unico altro rilievo critico sembrerebbe essere stato quello avanzato da V. ARANGIO RUIZ, Studi formulari (I. de eo quod certo loco dari oportet), p. 162 nt. 1, il quale suggeriva l’inserimento dell’espressione ‘in factum’ dopo il periodo « Servius respondit ad exemplum huius actionis » (e cfr. E. LEVY – E. RABEL, Index Interpolationum, I, p. VI [Signorum explicatio] e col. 118; IID., op. cit., Suppl. I, col. 158, ad h.l.).

220 Per la risalenza del pensiero a Servio dell’intero tratto, si veda anche la strut-tura sintattica, come altre volte, incentrata sui verbi al modo infinito.

221 Di diverso avviso, invece, D. ROSSI, In tema di tutela pretoria della viabilità. A proposito di D. 9.3.5.12, p. 411 (« la difficoltà del testo risulta anche dalla non coordinazione tra la prima e la seconda parte ove, pur iniziandosi con un nam, si passa a commentare invece casi di estensione utile dell’azione edittale, applicati, secondo l’opinione di Servio, quando l’oggetto caduto non fosse stato posto in sug-grunda protectove »). Le ragioni della differente scelta palingenetica sono arguibili da quanto sostenuto infra, nel prosieguo della trattazione.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

269

L’inciso, oggetto della critica bremeriana, risponde, infatti,

simmetricamente, per un verso, al contenuto della clausola edittale

‘ne quis in suggrunda’ [E. 62(61)] 222, che Ulpiano riporta, all’‘in-

terno dello stesso libro XXIII del suo commentario all’editto, in

D. 9.3.5.6 [= Pal. Ulp. 690: « Praetor ait: ‘Ne quis in suggrunda

protectove supra eum locum, quo vulgo iter fiet inve quo consiste-

tur, id positum habeat, cuius casus nocere cui possit. Qui adversus

ea fecerit, in eum solidorum decem in factum iudicium dabo. Si ser-

vus insciente domino fecisse dicetur, aut noxae dedi iubebo’ »], e,

per altro verso, alla trattazione che egli offre dell’intera materia (‘de

his qui deiecerint vel effuderint’ ) 223. Il giurista severiano, infatti,

procede, come nel suo stile analitico, ad esporre partitamente i singo-

li lemmi che compongono la clausula edittale, ossia:

– ‘ne quis in suggrunda protectove’ (D. 9.3.5.8 [= Pal.

Ulp. 691]) 224;

– ‘supra eum locum, qua vulgo iter fieret inve quo consiste-

tur, id positum habeat’, con delimitazione di ciò che possa significa-

re ‘ponere’ nello specifico contesto dell’editto di cui sta trattando

(D. 9.3.5.9-10 [= Pal. Ulp. 692]) 225;

222 Parte dell’editto ‘de his qui deiecerint vel effuderint’: si veda O. LENEL, Das

Edictum Perpetuum 3, p. 173-174 e 174 nt. 3 [= Tit. XV. ‘de his quae cuiusque in bonis sunt’, § 61[60]].

223 Da ultima, sul testo ulpianeo ora riportato, e sui paragrafi successivi, vd. M.F. CURSI, Tra responsabilità per fatto altri e logica della nossalità: il problema della cosiddetta ‘exceptio noxalis’, pp. 675 e ss. (in una lettura che pare sostanzialmente condivisibile).

224 Ulp. XXIII ad ed., D. 9.3.5.7 [= Pal. Ulp. 690, § 7] non riporta parte della clausola, bensì il seguente commento ulpianeo: « Hoc edictum superioris [= de his qui deiecerint vel effunderint E. 61(60)] portio est: consequens etenim fuit praeto-rem etiam in hunc casum prospicere, ut, si quid in his partibus aedium periculose positum esset, non noceret ».

225 Sul profili pratici implicati dall’uso di verbo ‘ponere’, in questo contesto, ri-mando ancora a CURSI, op. cit., pp. 677-678.

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« SERVIUS RESPONDIT »

270

– ‘cuius casus nocere posset’ (D. 9.3.5.11 [= Pal. Ulp.

693]) 226.

Ora — salvo voler ritenere che altre esemplificazioni relative

alle singole partes edicti ‘ne quis in suggrunda’ 227 siano cadute (an-

che se di questo non v’è prova) 228, e che, quindi, se così per ipotesi

fosse avvenuto, D. 9.3.5.12 possa essere anticipato e inserito tra la

fine del palingenetico frg. 691 229 e l’inizio del frg. 692 230, ossia tra il

commento a ‘ne quis’ e quello ai verba ‘supra eum locum’, et rell.

(oppure dopo il frg. 692) 231 — non mi pare si possa contestare che,

alle parole del pretore (‘in suggrunda protectove’, di D. 9.3.5.6), e al

relativa recupero del thema in D. 9.3.5.8 232, trovi preciso riscontro

226 Intorno a problemi di coordinamento, nel pensiero ulpianeo, tra i §§ 11 e 12

di D. 9.3.5, se visti alla luce di D. 9.3.1.3 (ma che non toccano la porzione serviana) vd. W. WOLODKIEWICZ, ‘Deiectum vel effusum’ e ‘positum aut suspensum’ nel dirit-to romano, pp. 379 e ss., e, ora, T. GIMÉNEZ-CANDELA, Los Llamados Cuasidelitos, pp. 107-108.

227 Vd. anche supra, ntt. 216 e ss. 228 Un indizio potrebbe essere costituito dal fatto che, contrariamente alla punta-

le analisi di tutte le parti della disposizione pretoria, proprio i termini ‘in suggrunda protectove’ non trovano nella sequenza espositiva un commento diretto; per contro, però, bisogna onestamente osservare che D. 9.3.5.12 riprende anche i temi preceden-ti e, soprattutto, quello del ‘ponere’, equivalendo ad una sorta di sintesi dell’analisi ulpianea precedentemente esposta. E, quindi, rispetto a quanto si dirà appena infra, nel testo, si potrebbe anche ipotizzare un eventuale inserimento di D. 9.3.5.12 dopo il frammento palingenetico ulpianeo 692.

229 Corrispondente ad Ulp. XXIII ad ed., D. 9.3.5.8 [= Pal. Ulp. 691]: « Ait prae-tor: ‘ne quis in suggrunda protectove’. Haec verba ‘ne quis’ ad omnes pertinent vel inquilinos vel dominos aedium, sive inhabitent sive non, habent tamen aliquid expo-situm his locis ».

230 Coincidente con Ulp. XXIII ad ed., D. 9.3.5.9-10 [= Pal. Ulp. 692]: « ‘Supra eum locum, qua vulgo iter fieret inve quo consistetur, id positum habeat’. Accipere debemus positum sive in habitationis vel coenaculi, sive etiam in horrei vel cuius alterius aedificii ».

231 Ove si tenga conto di quanto detto supra, nella seconda parte della nt. 174. 232 Ulp. XXIII ad ed., D. 9.3.5.8 [= Pal. Ulp. 691]: « Ait praetor: ‘ne quis in

suggrunda protectove’. Haec verba ‘ne quis’ ad omnes pertinent vel inquilinos vel

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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l’inciso « quia neque in suggrunda neque in protecto tabula

fuerat posita » di D. 9.3.5.12, da cui hanno tratto avvio queste consi-

derazioni.

In altri termini, Ulpiano — in sede di analisi (o di ripresa) 233

del tema ‘ponere’ — si è avvalso del responso serviano che era fun-

zionale all’articolato della sua esposizione 234. Responso in cui, ad

essere attenti al dato testuale, si analizzava un caso non già di ‘posi-

tum’ ma di ‘ex–positum’, che andava dunque chiarito (e, quindi, di

‘suspensum’, per quanto riguarda l’amphora, che, ‘reticulo’, si tro-

vasse in tale condizione), il quale, soprattutto, escludeva l’operatività

delle parole edittali 235 ‘in suggrunda protectove’. Come conclude,

infatti, Servio — la cui ratio è opportunamente (r)accolta dal giurista

di Tiro — « neque in suggrunda neque in protecto tabula fuerit posi-

ta » 236.

dominos aedium, sive inhabitent sive non, habent tamen aliquid expositum his lo-cis ».

233 Vd. supra, nt. 225 (e testo di riferimento). 234 Circa l’ipotesi che i testi fossero, in origine, diversi (arg. ex TH. MOMMSEN,

Digesta Iustiniani Augusti, I, p. 296; vd. A. WATSON, Liability in the ‘actio de depo-sitis ac suspensis’, p. 381), o che il § 12 di D. 9.3.5 contenesse una trattazione ser-viana dell’editto, resecata dai Compilatori (vd. W.M. GORDON, The Actio de Posito Reconsidered, pp. 52 e ss.), è congettura interessante, ma non sembra dotata di solidi agganci testuali.

235 È, pertanto, opinione condivisibile quella secondo cui l’editto de quo fosse già noto al giurista tardorepubblicano: sul punto vd. A. WATSON, The Law of Obli-gations in the Later Roman Republic, pp. 267-268; ID., Law Making in the Later Roman Republic, pp. 39 e 42; T. GIMÉNEZ-CANDELA, Los Llamados Cuasidelitos, p. 91.

236 Si può osservare che il binomio ‘suggrunda – protectum’ si rinviene (soltan-to) nei passi ulpianei ora censiti. Infatti, anche Iav. II ex post. Lab., D. 50.16.242.1 [= Pal. Iav. 188] tratta della distinzione tra proiectum e immissum, a proposito della quale usa il termine suggrunda, ma fuori dal contesto edittale di riferimento. La ru-brica di D. 39.2, poi, è così strutturata: De damno infecto et de suggrundis et proiec-tionibus (interessante la variante F, ‘protectionibus’, non accolta, però, nell’edizione dei Digesta: vd. TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani augusti, II, p. 380, ad lin. 25 – e di nessuna utilità può essere la rubrica ‘parallela’ di Bas. 58.10, poiché questi tratta-

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« SERVIUS RESPONDIT »

272

Per tornare, dunque, alla soluzione interpolazionistica di par-

tenza, il Bremer non pare aver compreso la funzione del fraseggio di

natura, per così dire, ‘operativa’ (« hanc enim – fuerat posita ») con

cui Ulpiano — per mezzo della citazione di Servio — completa il

proprio commento 237.

Un’ultima considerazione è ancora opportuna.

Il periodo finale del brano (« idem – deficit ») riprende con la

seguente citazione: « idem servandum respondit... », sottintendendo

nuovamente Servio.

A questo proposito, potrebbe sembrare inconseuto che la

prosa ulpianea, dopo aver riportato il pensiero del giurista più antico

nella proposizione precedente (« Servius respondit ad exem-

plum 238…, et rell. »), riprenda — senza soluzione di continuità — il

responso serviano ribadendo che quegli ‘respondit’. La difficoltà po-

no solamente della ‘operis novi nuntiatio’: cfr. BT. VII, 2654 [R. – Titulus partim restitutus]; Hb. V, 205: « Perˆ œrgou nšou paraggel…aj toutšsti kainotom…aj kaˆ perˆ toà ¢z»mion ful£ttesqai tÕn kainotomoÚmenon par¦ toà kainoto-

moàntoj »). Per quanto riguarda il termine protectum (o, anche, in una ricorrenza, protectus), esso viene impiegato per due volte dallo stesso giurista severiano, in te-ma di lex Aquilia, in Ulp. XVIII ad ed., D. 9.2.29.1 [= Pal. Ulp. 625; Pal. Proc. 79], riportando e commentando un parere di Proculo; altre testimonianze sono presenti anche in Nerat. IV reg., D. 8.3.2 pr. [= Pal. Nerat. 67]; Pomp. XX ad Sab., D. 47.7.6.2 [= Pal. Pomp. 679: tignum aut protectum]; Pomp. XXIX ad Sab., D. 43.26.15.2 [= Pal. Pomp. 748: immissa vel protecta] e, infine, in Scaev. I resp., D. 8.2.41.1 [= Pal. Scaev. 222: tignorum protectus]. Comunque sia, come già osser-vato, l’uso del binomio di nostro interesse, legato alla clausola edittale (Tit. XV, § 62[61]: cfr. O. LENEL, Das Edictum Perpetuum 3, p. 174) è, dunque (allo stato delle nostre conoscenze), tipicamente ulpianeo.

237 Vd. ancora A.R. MARTÍN MINGULIJÓN, Fórmulas reconstruidas y acciones ‘in factum conceptae’, p. 246, che lega direttamente l’inciso « haec enim – posita » al ragionamento serviano.

238 Sul punto vd. G. WESENER, Actiones ad exemplum, pp. 229-230; per alcuni profili linguistici R. STOLMAR, Die Formula der actio utilis, p. 45 e nt. 299; ora, am-piamente, si veda P. GRÖSCHLER, Actiones in factum. Eine Untersuchung zur Klage-Neuschöpfung im nichtvertraglichen Bereich, pp. 82 e ss.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

273

trebbe essere ‘superata’ aderendo alle soluzione del Bremer che se-

parava in due responsa la sezione analizzata di D. 9.3.5.12 239.

In realtà è opportuno mantenere unitariamente il testo, poi-

ché il raddoppio sembra essere più il frutto di una scelta stilistica ul-

pianea che dell’unione di due responsi distinti (così come denuncia,

comunque, la forma adottata dal relatore: « idem servandum respon-

dit... », segno che Servio aveva tratto un’ulteriore conclusione a par-

tire dalle fattispecie iniziale — secondo un modus procedendi riscon-

trabile in altri testi) 240.

B.20. – Ulp. XXIX ad ed., D. 15.1.17 [= Pal. Serv. 22 →

Pal. Ulp. 852; Br. 9 ad ed.] 241: « [Si servus meus ordinarius vicarios

habeat, id quod vicarii mihi debent an deducam ex peculio servi or-

dinarii? Et prima illa quaestio est, an haec peculia in peculio servi

ordinarii computentur. Et Proculus et Atilicinus existimant, sicut ipsi

vicarii sunt in peculio, ita etiam peculia eorum: et id quidem, quod

mihi dominus eorum, id est ordinarius servus debet, etiam ex peculio

eorum detrahetur: id vero quod ipsi vicarii debent, dumtaxat ex ipso-

rum peculio: sed et si quid non mihi, sed ordinario servo debent, de-

ducetur de peculio eorum quasi conservo debitum: id vero, quod ip-

239 Vd. supra, nt. 216. 240 All’opposta conclusione si sarebbe dovuti giungere se il testo avesse ripreso

con l’espressione « idem servandum et si... », che avrebbe, inoltre, imposto di accol-lare il periodo finale ad Ulpiano, quale deduzione rispetto a quanto riportato: ma, evidentemente, si tratta di ipotesi da respingere.

241 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 235 [Servius, ad edictum libri duo ad Brutum conscripti, frg. 9, ‘de bonae fidei contrac-tibus’].

Il testo corrispondente di Bas. 18.5.17 [BT. III, 896; Bas. 18.5.11, Hb. II, 245-246], accompagnato da vari e ampi scolii [П 1-8, BS. III, 1124-1125; soltanto Sch. 1, Hb. II, 246, ma vd. C.E. ZACHARIAE A LINGENTHAL, Supplementum editionis Basi-licorum heimbachianae, pp. 217-219, Sch. 90-97 = Basilicorum libri LX. Supple-menta editionis Basilicorum heimbachianae M. Miglietta, cur., pp. 233-235], con questi tace sul nome del nostro.

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« SERVIUS RESPONDIT »

274

sis] debet ordinarius servus, non deducetur de peculio ordinarii servi,

quia peculium eorum in peculio ipsius est (et i ta Servius re-

spondit) , [ sed peculium eorum augebitur, ut opinor, quemadmo-

dum si dominus servo suo debeat ] ».

Il passo — che contiene una interessante quanto nota discus-

sione giurisprudenziale circa la deducibilità dei debiti contratti dai

servi vicarii dal peculio del servus ordinarius 242 — viene riportata

da Lenel solamente nella estensione ritenuta dallo stesso di pertinen-

za serviana (« debet ordinarius servus – servo suo debeat ») 243, rias-

sumendo, significativamente 244, quella precedente del medesimo te-

sto ulpianeo con le seguenti parole ‘Si de peculio servi ordinarii age-

tur, id quod vicarii’ 245. Il Bremer, per contro, allega anche il periodo

d’esordio « si servus meus ordinarius – ordinarii? » 246.

Secondo parte della dottrina resterebbe, in ogni caso, pro-

blematico poter stabilire l’ampiezza del riferimento al responso di

Servio — forse provocato dalla necessità di dare soluzione al pro-

blema emergente in Ulp. XXIX ad ed., D. 15.1.9.3 [= Pal. Ulp.

242 Si veda, con completezza di analisi e di indicazioni bibliografiche, F. REDUZ-

ZI MEROLA, ‘Servo parere’. Studi sulla condizione giuridica degli schiavi vicari e dei sottoposti a schiavi nelle esperienze greca e romana, pp. 75 e ss.

243 Così pure sembrerebbe concludere L. AMIRANTE, Lavoro di giuristi sul pecu-lio. Le definizioni da Q. Mucio a Ulpiano, p. 14. Per l’anteriorità del tema rispetto allo stesso Servio, vd. L. LABRUNA, Minima de servis. I. Il servo ‘vicario’, lo schia-vo ‘padrone’, pp. 3558-3559 = ID., ‘Servus vicarius’: l’arricchimento dello schiavo, pp. 471-472 (non tratta, invece, del punto, né dell’inserimento serviano — poiché analizza il testo sotto altri profili — T.J. CHIUSI, Contributo allo studio dell’editto ‘de tributoria actione’, pp. 384-385).

244 Adopero l’avverbio nel senso che l’Autore tedesco escludeva ogni paternità serviana diretta di quella parte, salvo l’aderenza al principium iuris così compendia-to.

245 Cfr. LENEL, op. cit., col. 325 ad h.l., scelta palingenetica già notata, e adegua-tamente segnalata, da REDUZZI MEROLA, op. cit., pp. 78 e ss.

246 Vd. BREMER, op. et loc. ult. cit.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

275

852] 247 — poiché la stessa informazione « ita Servius respondit »

parrebbe da limitare « sintatticamente [...] al ‘quia peculium eorum

in peculium ipsius est’ » 248.

Pare certo, tuttavia, che l’inciso « ut opinor » della frase fi-

nale debba farla ricondurre al pensiero del giurista di Tiro, e non, in-

vece, al responsum serviano 249.

B.21. – Ulp. XXXI ad ed., D. 17.2.52.[17-]18 [= Pal. Serv.

23 → Pal. Ulp. 922; Br. 127 resp.] 250: « [§ 17. Ibidem ait scl.: Ne-

247 Questa l’ipotesi avanzata da REDUZZI MEROLA, op. cit., pp. 80-81. Il testo ul-

tianeo è il seguente: « Huic definitioni Servius adiecit et si quid his debeatur qui sunt in eius potestate, quoniam hoc quoque domino deberi nemo ambigit » [= frg. E .29 . ].

248 Per le citazioni testuali, vd. I. BUTI, Studi sulla capacità patrimoniale dei ‘servi’, p. 133 e nt. 148. Nonostante l’indubbia relazione morfologica sottoneata dal-lo Studioso, per la ragioni di sostanza, emerse nella dottrina anche posteriore, deve ritenersi parte integrante della riflessione serviana anche la frase precedente: « debet ordinarius servus – ordinarii servi ».

249 Cfr. F. HORAK, Rationes decidendi, pp. 144-145 (che propende per la rece-zione serviana di una regula iuris — come potrebbe indicare l’espressione usata da Ulpiano: « et ita Servius respondit » — ma anche in questo caso non muterebbe la sostanza di quanto affermato dal giurista più antico: vd. conformemente anche A. WATSON, The Law of Obligations, p. 189 e AMIRANTE, op. cit., pp. 13 e ss.); A. MANTELLO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale, p. 233 nt. 71 e F. REDUZZI

MEROLA, ‘Servo parere’, p. 76. 250 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 206-

207 [Servius, responsorum libri, frg. 127, ‘de societate’]. Per le fonti bizantine, cfr. Bas. 12.1.50.17-18 [BT. II, 686; Hb. I, 758], a cui so-

no allegati alcuni scolii, di cui due di Stefano (Sch. 66-67) e uno dell’Anonimo (Sch. 65) [Ca 65-70, BS. II, 490; Sch. 41-43, Hb. I, 758-759]: ma Servio non è richiamato in alcuna di queste testimonianze.

Per quanto non coinvolga direttamente il profilo di nostro interesse, non sembra inopportuno segnalare che da `Rom. ¢gwg. 5.4.3 [linn. 30-33: R. MEIJERING, ed., in « Fontes minores », VIII, 52] emergono echi — seppure parziali — dei relativi testi dei Digesta, ossia D. 17.2.52.18 e D. 17.2.52.17: per il primo, si veda il tratto « Ð d toutÒroum bonÒrum koinwnÒj, toutšstin Ð ™pˆ p£sV tÍ perious…v ginÒme-

noj , ™¦n e„j d…khn klhqÍ kaˆ ¢d…kwj katadikasqÍ, koin» ™stin ¹ zhm…a, e„

d dika…wj, aÙtÕj mÒnoj zhmioàtai » [linn. 30-33], e, per il secondo, in maniera

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« SERVIUS RESPONDIT »

276

ratius socium omnium bonorum non cogi conferre, quae ex prohibi-

tis causis adquisierit. – § 18. Per contrarium quoque apud veteres

tractatur 251, [ an socius omnium bonorum, si quid ob iniuriarum

actionem damnatus praestiterit, ex communi consequatur ut praestet.

Et Atilicinus Sabinus Cassius responderunt ]?, si iniuria iudicis dam-

natus sit, consecuturum, si ob maleficium suum, ipsum tantum dam-

num sentire debere. Cui congruit,] quod Servium respondisse

Aufidius refert, si socii bonorum fuerint, deinde unus, cum ad iu-

dicium non adesset, damnatus sit, non debere eum de communi id

consequi, si vero praesens iniuriam iudicis passus sit, de communi

sarciendum » 252.

In questa sede casus e responsum appaiono parzialmente

frammisti, ma facilmente scomponibli 253, e riguardano, per il lato

serviano, l’ipotesi in cui un partecipante alla ‘societas omnium bono-

rum’ 254 sia risultato contumace in giudizio 255, per fatto a lui addebi-

più fedele all’originale, l’immediata prosecuzione: « 'En d to‹j ¢sšmnoij

pr£gmasi koinwn…a oÙ sun…statai » [lin. 33]. 251 Si vedano, però, le osservazioni di M. SERRANO-VICENTE, Sobre la plurali-

dad de significados del término ‘veteres’ en la jurisprudencia romana, p. 392, che riferisce la definizione a Sabino e a Cassio.

252 Cfr. LENEL, op. cit., col. 325 ad h.l. 253 Sulla opportunità di richiamare (seppure opportunamente isolato) anche il §

17 di D. 17.2.52 vd. già P. VAN WARMELO, Aspects of Joint Ownership in Roman Law, pp. 163-164 e F. STURM, Gesellschafterausgaben für Weib und Würfel, pp. 78-79. Quanto al fatto che la regula racchiuda in sé « il criterio risolutivo del problema specifico », vd. M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 94.

254 Non vi è dubbio — anche sulla base della precedente trattazione — che così debba intendersi l’espressione « si socii bonorum » del testi laddove si ricorda il pa-rere serviano (e questo dev’essere il motivo per cui M. BIANCHINI, Studi sulla ‘socie-tas’, p. 60, ha direttamente trascritto la parte relativa del testo come « Si socii omnium bonorum fuerit... », et rell.): vd. G. SANTUCCI, Il socio d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabilità, p. 232 nt. 2.

255 Rectius: in qualsiasi giudizio in personam (e, quindi, non soltanto in rapporto all’actio iniuriarum di cui si discute nella prima parte del frammento): vd., infatti, F.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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tabile 256: in tale ipotesi — come conclude Servio 257 — l’eventuale

condanna subita non potrà avere una ricaduta negativa sugli altri soci

(quindi sul patrimonio comune) 258, ma produrrà i propri effetti sola-

mente sul responsabile della condemnatio 259 (alla conclusione oppo-

sta, invece, e comprensibilmente, si dovrà giungere qualora la con-

BONA, Società universale e società questuaria generale in diritto romano (a propo-sito di Bianchini, Studi sulla societas), p. 387 = ID., Lectio sua, II, p. 323.

256 Cfr., mi pare a ragione, già L. ARU, Scritti giuridici I. Il processo civile con-tumaciale. Studio di diritto romano, p. 81 nonché M. BRUTTI, Il problema del dolo processuale nell’esperienza romana, I, p. 315; contra SANTUCCI, op. et loc. ult. cit. (con indicazione di ulteriore bibliografia relativa a questo profilo, cui adde, relati-vamente al profilo qui discusso, anche E. DEL CHIARO, Le contrat de société en droit privé romain, p. 167). A me pare, tuttavia, che se non si presupponesse il riferimento al criterio soggettivo della ‘colpa’ del socio, la decisione di Servio apparirebbe illo-gica (ossia: il socio dovrebbe sopportare in prima persona le conseguenze di un comportamento processuale a lui non ascrivibile, e, in ipotesi, ascrivibile addirittura agli altri soci) e contraddittoria rispetto al séguito dedicato all’iniuria iudicis (per cui non si scorgerebbe la presenza di alcun criterio discretivo — mentre si tratta di una chiara distintio serviana — poiché nell’uno, come nell’altro caso, il socio sarebbe privo di responsabilità; però, nel primo, risponderebbe in proprio, mentre, nel se-condo, in pari condizioni rispetto ai consoci).

257 Sempre considerando il potenziale diaframma costituito dalla mediazione di Aufidio Namusa, da cui Ulpiano ha attinto la testimonianza serviana (vd. ancora BONA, op. cit., p. 388 = ID., Lectio sua, I, p. 323). Per i rapporti e per la coerenza della seconda parte con la precedente (testimoniata, come mi pare di poter conclude-re, dall’espressione ulpianea « cui congruit »), vd. anche J. HERNANDO LERA, El con-trato de sociedad. La casuistica jurisprudencial clásica, p. 136.

258 Decisamente troppo sottile (e probabilmente non conforme al senso della te-stimonianza) si manifesta la distinzione proposta da F.-S. MEISSEL, Societas. Struk-tur und Typenvielfalt des römischen Gesellschaftsvertrages, p. 261 nt. 112, secondo cui l’espressione « ex communi » del passo non alluderebbe, in senso obiettivo, « aus dem in Miteigentum stehenden Vermögen » bensì, nel significato dei rapporti obbli-gatori, « auf gemeinsame Rechnung ».

259 Nei termini di un mancato rimborso, pro quota, dal patrimonio comune (vd. ARU, op. cit., p. 84) ovvero della deduzione dalla quota del socio condannato di una somma pari al valore della condemnatio al momento della divisione del patrimonio societario, se esperita — da parte dello stesso — l’actio pro socio contro i consocia-ti.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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danna del socius sia stata effetto di ‘iniuria iudicis’) 260. Il Bremer, a

questo proposito, salva anche la parte iniziale (« an socius omnium

bonorum – responderunt […] cui congruit quod […] 261 Servium…»,

et rell.) 262, evidentemente per rendere ragione della fattispecie inizia-

le oggetto della discussione e della opinio veterum, probabilmente a

ciò indotto dalla presenza dell’espressione « cui congruit , quod

Servium respondisse Aufidius refert », et rell. 263.

B.22. – Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.12 pr. [= Pal. Serv. 47

→ Pal. Ulp. 2609; Br. 22 resp.] 264: « [ Quaesitum est, an frumentum,

quod cibariis cultorum paratum foret, instrumento cederet. ] [Et plu-

rimis non placet, quia consumeretur: quippe instrumentum est appa-

ratus rerum diutius mansurarum, sine quibus exerceri nequiret pos-

sessio: accedit eo, quod cibaria victus magis quam colendi causa pa-

rarentur. Sed ego puto [ et frumentum et vinum ad cibaria paratum

instrumento contineri: ] ? et i ta Se rv ium r espondi sse audito-

res eius referunt. [Item nonnullis visum est frumentum, quod se-

260 In questa ipotesi, infatti, la responsabilità non sarà imputabile al socio, bensì

al iudex privatus, contro il quale la societas potrà far valere il mezzo di tutela giuri-sdizionale dell’azione contro quest’ultimo, qui litem suam fec(er)it: sul punto speci-fico si rinvia a R. SCEVOLA, La responsabilità del ‘iudex privatus’, pp. 340 e ss. (nonché a BRUTTI, op. cit., pp. 305 e ss. e 315 e ss., per la testimonianza più risalen-te, in Servio, del sintagma ‘iniuria iudicis’).

261 Così, con punti di sospensione, in BREMER, op. et loc. ult. cit., ma questi se-gni diacritici sono privi di ragione (salvo che lo Studioso tedesco volesse criptica-mente alludere alla caduta di qualche parte del testo), poiché dopo ‘quod’ il brano offre, senza soluzione di continuità, ‘Servius’.

262 Ibid. 263 Da ultimo vd. T. GIARO, Römische Rechtswarhehiten, pp. 511-512 (con giu-

dizio di ‘anacronismo’ — ma non se ne vede il motivo — della proposizione) e 527. 264 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 174

[Servius, responsorum libri, frg. 22, ‘de fundo legato’]. Passo assente nei libri Basilicorum [vd. Bas. 44.10.12, BT. VI, 2023; cfr., tutta-

via, Hb. IV, 408 — ricostruito sulla base di Tipuc. 44.10.12 e, quindi, comunque privo della menzione di Servio].

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rendi causa sepositum est, instrumento contineri, puto quia et instar

culturae esset et ita consumitur, ut semper reponeretur: sed causa

seminis nihil a cibariis differt] ».

Se il Lenel propende per l’indicazione della sola parte « puto

et frumentum – referunt », il Bremer, per contro, recupera anche

l’incipit « quaesitum est – cederet », come pare più corretto. Questo,

infatti, rispecchia il problema offerto alla valutazione del giurista, al

quale hanno dato una risposta i plures, opinione perdurante ancora

all’epoca di Ulpiano e dalla quale egli intende discostarsi (per cui, a

tal fine, riprende il pensiero di Servio, almeno come mediato, in for-

ma collettiva 265, dai suoi auditores) 266.

Sembra, infatti, che la relazione tra « sed ego puto » ed « et

ita Servium – referunt » 267, possa condurre a ritenere che la prima

affermazione (in particolare, poiché retta dal verbo putare) non indi-

chi, ovviamente, gli ipsissima verba Servii 268, bensì il nucleo della

sua presa di posizione così come metabolizzata da Ulpiano, in ragio-

ne della quale sono considerati rientrare nell’instrumentum fundi il

frumento e il vino destinati al vitto dei coltivatori, ossia le derrate a-

limentari fornite alla manodopera servile (a prescindere dalla sussi-

stenza dei requisiti di stabilità nel fondo e di continuità nell’uso, o,

265 Sulla particolarità della citazione è opportuno vedere le osservazioni di F.

CASAVOLA, Auditores Servii, p(p). 153 (e ss.) = ID., Giuristi adrianei, p(p). 129 (e ss.) = ID., Sententia legum tra mondo antico e moderno, I. Diritto romano, p(p). 31 (e ss.).

266 Vd. R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, II, pp. 3-4 (con opportuno rimando a Paul. Sent. 3.6.37 [op. cit., p. 24 nt. 70]); M.A. LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’‘instrumentum fundi’, pp. 80 (e nt. 111), 86 e ss., 212 e nt. 168, 221 e nt. 193; da ultima, con riflessioni essenziali, e che non coinvolgono tematiche palingenetiche, T. DICENTA MORENO, El legado del fun-do y el problema de sus instrumentos según D. 33.7.5., pp. 178-179.

267 Per la genuinità del tratto (e per la sua sostanziale riferibilità a Servio) cfr. U. JOHN, Die Auslegung des Legats, pp. 32-33.

268 Vd. quanto già precisato supra, nt. 17.

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sotto un altro profilo, dalla loro consumabilità — ma idonei, tra altri,

a rendere il fondo autosufficiente 269) 270.

Questa è la ragione per cui si è scelto di isolare — pur man-

tenendola in tondo — l’affermazione « et frumentum et vinum ad ci-

baria paratum instrumento contineri: ».

B.23. – Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.12.6 [= Pal. Serv. 47 →

Pal. Ulp. 2609; Br. 20 resp.] 271: « [ Sed an instrumenti instrumentum

legato instrumento continetur, quaeritur: ] ? haec enim, quae rusti-

corum causa parantur, lanificae et lanae et tonsores et fullones et fo-

cariae non agri sunt instrumentum, sed instrumenti. [Puto] igitur

etiam focarium contineri: sed et lanificas et ceteros, qui supra enu-

merati sunt: et i ta Se rv ium r e spond is se auditores eius

referunt ».

Il Lenel ha seguito l’opzione — credo, ratione materiae ‘in-

strumenti fundi’ — di unificare sotto un unico frammento palingene-

tico entrambi i paragrafi di D. 33.7.12, in cui compare la menzione di

Servio, ossia il principium e il § 6 272. Il Bremer, invece, condensa

269 Osservazione, questa, che trovo (e condivido) in LIGIOS, op. cit., p. 170 (e nt. 73).

270 Perché questo sembrerebbe essere il profilo (o, almeno, il profilo rilevante) che contrappone Servio e Ulpiano, da un lato, rispetto ai plurimi citati in apertura di D. 33.7.12 pr.: cfr. M. DE DOMINICIS, L’apicultura e alcune questioni connesse nel regolamento di un fondo imperiale africano, pp. 397-398; A. DELL’ORO, Le cose collettive nel diritto romano, pp. 96 e ss. nonché G. CRIFÒ, Studi sul quasi-usufrutto romano, I. Problemi di datazione, p(p). 151 nt. 43 (e 156 e ss.).

271 F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 174 [Ser-vius, responsorum libri, frg. 20, ‘de fundo legato’].

Per i Basilici, vale quanto già riportato supra, nt. preced., con riguardo a D. 33.7.12 pr.

272 Vd. LENEL, op. cit., II, col. 328 ad h.l. Per la scissione logica tra le due ipote-si analizzate (ossia, « derrate alimentari destinate alla manodopera servile », nel principium, e instrumentum instrumenti, nel § 6) — nonostante l’una ipotesi con-fermi la concezione serviana dell’instrumentum fundi contenuta nell’altra — vd.

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sotto un unico testo i §§ 3-6 di D. 33.7.12, ma isola il paragrafo in-

troduttivo 273.

Nonostante le intuitive connessioni tra l’uno e l’altro, còlte

dal Lenel — in ragione delle quali il principio trova conferma del

pensiero serviano in tema di instrumentum fundi nel § 6 274 — biso-

gna ritenere che le due parti della testimonianza (ripeto: il principio e

il sesto paragrafo) debbano essere separati, poiché concernono due

distinte fattispecie, sebbene in ordine allo stesso argomento.

In ogni caso, D. 33.7.12 pr. e D. 33.7.12.6 risultano di certo

interesse, in quanto nei due passi — a modo di incastro (più contenu-

to nel primo, forse più esteso nel secondo) — affiorano le decisioni

serviane nel ricordo — come mi pare si debba concludere — da parte

di tutti, o di molti (almeno) dei suoi auditores (« et… auditores eius

referunt »).

La struttura espositiva dei due paragrafi — nelle parti ricon-

ducibili al pensiero del caposcuola 275 — è, inoltre, praticamente pa-

rallela: si ha la prospettazione del problema giuridico (con uso del

verbo quaerere); la soluzione che Ulpiano ritiene preferibile (con

impiego del verbo putare); l’identica segnalazione del conforme pen-

siero di Servio (in entrambi i casi, attraverso l’identica notizia della

fonte: « et ita Servium respondisse auditores eius referunt »).

A differenza del § 6, tuttavia, nel principium si incastonano,

all’interno della struttura evidenziata, due ulteriori documentazioni:

la prima (« et plurimis – pararentur »), relativa all’opinione negativa

di molti giuristi, respinta da Ulpiano, a cui segue l’opinione contraria

M.A. LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’‘intrumentum fundi’ tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C., pp. 37-38 nt. 71, in particolare).

273 Vd. supra, testo B.21 . . 274 Vd. ancora LIGIOS, op. cit., p. 95. 275 Vd. cpv. seguente.

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« SERVIUS RESPONDIT »

282

(già sostenuta da Servio) 276; la seconda (« item – differt »), che se-

gue una simile impostazione, ma è contraddetta dallo stesso Ulpiano.

Quanto, dunque, nel principium può corrispondere alla ela-

borazione di Servio, si limita al problema giuridico (« quaesitum est

– cederet ») 277 e alla soluzione positiva (« et frumentum – refe-

runt ») 278.

Ancora più interessante appare — almeno a mio giudizio —

quanto riportato in D. 33.7.12.6. Se, infatti, in ordine alla quaestio

iuris (« sed an – quaeritur ») valgono gli stessi rilievi avanzati con

riferimento all’omologa parte del principium (« quaesitum est – ce-

deret »), l’intera continuazione può essere più vicina allo stile ser-

viano. Lo stesso Mommsen, infatti, circa le parole « lanificae et la-

nae <et> tonsores et fullones et focariae » ha sentenziato quanto se-

gue: « non sunt Ulpiani » 279.

Credo che l’intuizione del grande romanista ottocentesco — ac-

colta anche nel cosiddetto ‘Digesto Milanese’ 280 — non sia affatto

priva di fondamento. Nello stile della scuola serviana, infatti, non

mancano altri esempi per elencazione di tipologie di schiavi: si veda,

ad esempio 281 e a questo proposito, il celebre passo sulle condizioni

276 Vd. quanto osservato supra, in ordine al frg. B.21 . . 277 L’incipit di D. 33.7.12 pr. è stata omesso da LENEL, op. cit., II, col. 328 ad

h.l., poiché risponde naturalmente alla scrittura ulpianea; ma non può esservi dubbio che tale fosse il problema affrontato già da Servio. In ogni caso ho segnalato tale problema — come di cosueto in casi analoghi — attraverso l’uso delle parentesi quadre ‘in apice’.

278 Rispetto a quanto sottolineato nella nota precedente, il Lenel (loc. cit.) non ha ritenuto di isolare — come coerentemente avrebbe dovuto fare — anche questa por-zione, e, anzi, ha mantenuto anche il verbo ‘putare’, che è, al di là di ogni ragione-vole dubbio, ulpianeo.

279 Vd. TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 126 nt. 1 ad h.l. (e cfr. anche ID., Corpus Iuris Civilis, I. Digesta, p. 511 nt. 1).

280 Vd. P. BONFANTE – C. FADDA – C. FERRINI – S. RICCOBONO – V. SCIALOIA, Digesta Iustiniani Augusti, p. 829 nt. 1 ad h.l.

281 Vd. infra.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

283

(facti) necessarie per ottenere l’esenzione dal pagamento del ‘porto-

rium Siciliae’, passo contenuto in Alf. VII dig. ab anon. epit.,

D. 50.16.203 [= Pal. 29] 282, in cui si elencano i servi « dispensato-

res, insularii, vilici, atrienses, textores, operarii quoque rustici » 283

— e, si noti con attenzione, quegli stessi schiavi di cui si ci si do-

manda se siano « usus sui causa parati » da parte del dominus, così

come nel caso ora in esame, a proposito dell’instrumenti intrumen-

tum, ci si pone il problema delle cose destinate al servizio dei servi

rustici, attraverso l’espressione che manifesta innegabili analogie

semantiche « heac enim, quae rusticorum causa parantur » 284.

282 Sul quale si tornerà all’interno della parte III di questi ‘studi’. D. 50.16.203: « In lege censoria portus Siciliae ita scriptum erat: ‘Servos, quos domum quis ducet suo usu, pro is portorium ne dato’. Quaerebatur, si quis a Sicilia servos Romam mit-teret fundi instruendi causa, utrum pro his hominibus portorium dare deberet nec ne. Respondit duas esse in hac scriptura quaestiones, primam quid esset ‘domum ducere’, alteram, quid esset ‘suo usu ducere’. Igitur quaeri soleret, utrum, ubi qui-sque habitaret sive in provincia sive in Italia, an dumtaxat in sua cuiusque patria domus esse recte dicetur. Sed de ea re constitutum esse eam domum unicuique no-strum debere existimari, ubi quisque sedes et tabulas haberet suarumque rerum con-stitutionem fecisset. Quid autem esset ‘usu suo’, magnam habuisse dubitationem. Et magis placet, quod victus sui causa paratum est, tantum contineri. Itemque de servis eadem ratione quaeri, qui eorum usus sui causa parati essent? Utrum dispensatores, insularii, vilici, atrienses, textores, operarii quoque rustici, qui agrorum colendorum causa haberentur, ex quibus agris pater familias fructus caperet, quibus se toleraret, omnes denique servos, quos quisque emisset, ut ipse haberet atque eis ad aliquam rem uteretur, neque ideo emisset, ut venderet? Et sibi videri eos demum usus sui causa patrem familias habere, qui ad eius corpus tuendum atque ipsius cultum pra-epositi destinatique essent, quo in genere iunctores, cubicularii, coci, ministratores atque alii, qui ad eiusmodi usum parati essent, numerarentur ».

283 Cfr., peraltro, C.ST. TOMULESCU, Mélanges de droit romain, pp. 332 e ss. 284 Si noti che anche il principium di D. 33.7.12 fa registrare l’espressione « ci-

baria victus magis quam colendi causa pararentur », segno che Ulpiano adotta un costrutto espressivo (formato, appunto, dal verbo parare, unito a causa, costitutivo di proposizione finale) consolidato nella giurisprudenza e che ha le sue radici in quella repubblicana, con testimonianze risalenti (almeno) alla scuola di Servio (con significative anticipazioni — parrebbe — anche in Quinto Mucio; si vedano anche le riflessioni di P. VOCI, Diritto ereditario romano 2, II, pp. 303-304 e di M.A. LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica, p. 55 e nt. 31, nonché EAD., ‘Taber-

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« SERVIUS RESPONDIT »

284

na’, ‘negotiatio’, ‘taberna cum instrumento’ e ‘taberna instructa’ nella riflessione giurisprudenziale classica, pp. 112 e ss.).

Cfr., infatti, Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 50.16.203 [= Pal. Alf. 29: « quod victus sui causa para tu m est.. » – « usus sui causa para t i essent? » – « qui ad eiusmodi usum para t i essent, numerarentur »] a cui va collegato, per ragioni palingenetiche, Alf. ibid., D. 34.2.28 [= Pal. Alf. 29: « quod usus sui causa para-tum esse… quid cuiusque usus causa videretur para tum esse… et magis placet, quod victus sui causa para tum est, tantum contineri »]; Alf. II dig. a Paul. epit., D. 32.60.2-3 [= Pal. Alf. 39: « Lana, lino, purpura uxori legatis, quae eius causa parata essent… sed quod uxoris causa para tum esset » – « Praediis legatis et quae eorum praediorum colendorum causa empta para taque essent… topiarium enim ornandi, saltuarium autem tuendi et custodiendi fundi [sott.: causa] magis quam colendi para tum esse… stercorandi fundi causa pararen tur »] nonché Alf. III [rectius II?; suspicor cum O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 49 nt. 3] dig. a Paul. epit., D. 33.10.6 [= Pal. Alf. *60: « suppellectilis eas esse res puto, quae ad usum communem patris familias para tae sunt »]. Secondo i curatori di « VIR. », IV, 491, lin. 49, sarebbe da attribuire ad Ofilio anche il contenuto di Ulp. XXV ad Sab., D. 32.55.3 [= Pal. Ulp. 2679: lignis autem legatis quod comburendi causa paratum est continetur…, et rell.], ma O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 798, frg. 20, consegna all’altro allievo di Servio soltanto i §§ 1, 2, 4 e 7 del pas-so ulpianeo (probabilmente, data la configurazione espositiva di D. 32.55, penso di dover propendere per la lectio leneliana: poiché, se il principium è sicuramente ul-pianeo, con richiamo di questi all’autorità di Quinto Mucio, il § 1 si apre con la cita-zione espressa dell’opera e del libro ofiliani [Ofilius quoque libro quinto iuris parti-ti…]; il § 2 apre con un ‘idem’, che, a parere di Mommsen, alluderebbe invece anco-ra a Mucio [vd. TH. MOMMSEN – P. KRÜGER, Corpus Iuris Civilis, I. Digesta, p. 492 nt. 21 ad h.l., ripreso da P. BONFANTE – C. FADDA – C. FERRINI – S. RICCOBONO – V. SCIOLAIA, Digesta Iustiniani Augusti, p. 797 nt. 11; non così, però, LENEL, op. cit., col. 757, che, nell’opera di Q.M., si limita ad assumere il principium di D. 33.55], e la menzione di Ofilio torna nel § 4 [Ofilius libro quinto iuris partiti…] e, poi, ancora nel § 7 [… ait Ofilius libro quinto iuris partiti…]. Tutto questo premesso, il § 3 — per quanto coerente nel tema col principium — parrebbe essere frutto della riflessio-ne di ulpiano).

Comunque sia, il giurista di Tiro adotta la stessa costruzione (causa, con geniti-vo o gerundivo, e verbo parare), oltre che in D. 33.7.12 pr., nel § 1 [ea, quae expor-tandorum fructuum causa parantur]; nel § 4 [da Labeone e Pegaso: saltuarius… fructuum servandorum gratia paratus], nel § 5 [riprendendo Trebazio: pistorem et tonsorem… familiae rusticae parati – fabrum… villae reficiendae causa paratus – molitores… ad usum rusticum parati] — e cfr. anche Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.8 pr. [= Pal. Ulp. 2607: homines… vilici et monitores… boves domiti, et pecora sterco-randi causa parata] — nel § 6 [haec… quae rusticorum causa parantur]; nel § 17

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

285

[vela autem Cilicia instrumenti esse Cassius, quae ideo parantur], nel § 19 [tegu-lam… et tignum eius rei causa paratum], nel § 42 [= Pal. Ulp. 2611: artifices do-mus causa parati]; Ulp. IV disp., D. 32.58 [= Pal. Ulp. 88: ea, quae eius = mulie-ris causa parata]; Ulp. XXXII ad ed., D. 19.1.17.5 [= Pal. Ulp. 938: quod insulae causa paratum]; Ulp. XVII ad Sab., D. 7.1.9.6 [= Pal. Ulp. 2559: debet tamen con-serendi agri causa seminarium paratum semper renovare]; Ulp. XX ad Sab., D. 34.2.19.10 [= Pal. Ulp. 2606: vasa… quae aliquid in se recipiant edendi bibendi-que causa paratum]; Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.8 pr. [= Pal. Ulp. 2607: in instrumen-to fundi ea… quae fructus quaerendi cogendi conservandi gratia parata; l’enumerazione è sabiniana]; Ulp. XXII ad Sab., D. 32.45 [= Pal. Ulp. 2635: hoc legatum ‘uxoris causa paratum’, generale est… continet tam vestem quam argentum aurum ornamenta ceteraque, quae uxoris gratia parantur… – quod eius causa para-ta sint – quod… communis promiscuique usus causa paratum]; Ulp. XXII ad Sab., D. 32.47.1 [= Pal. Ulp. 2637: vd. infra, in questa stessa nota]; Ulp. XXII ad Sab., D. 32.49 §§ 2-5 e 7 [= Pal. Ulp. 2638: dicendum erit ipsius causa videri parata – item interest, ipsius causa parata sint ei legata an ipsius causa empta: paratis enim omnia continentur, quae ipsius usibus fuerunt destinata, empta vero ea sola, quae… – aurum, quod eius = mulieris causa paratum – quae eius causa empta parata sunt – quae eius gratia parata]; Ulp. XXII ad Sab., D. 33.9.3.9-10 [= Pal. Ulp. 2641: ligna et carbones… quae non vendendi causa parata… tus et cereos in dome-sticum usum paratos – chartas ad ratiunculam vel ad logarium paratas]; Ulp. XXV ad Sab., D. 32.55 pr. [= Pal. Ulp. 2679: lignum, quidquid conburendi causa para-tum]; e cfr. Ulp. XXII ad Sab., D. 32.70.7 [= Pal. Ulp. 2639: ea… quae fomentatio-nis gratia parata sunt]; Ulp. XLIV ad Sab., D. 34.2.23 §§ 1 e 2 [= Pal. Ulp. 2913: vestis… omnia… quae induendi praecingendi amiciendi insternendi iniciendi incu-bandive causa parata – virilia sunt, quae ipsius patris familiae causa parata sunt]; Ulp. XLIV ad Sab., D. 34.2.25 §§ 10 e 11 [= Pal. Ulp. 2914: ornamenta muliebra sunt… omnia, quae ad aliam rem nullam parantur, nisi corporis ornandi causa – haec quoque, quae ad ornamenta parata]; Ulp. XLIV ad Sab., D. 34.2.27.4 [= Pal. Ulp. *2915: aurum… sive id suae sive alterius usionis causa paratum]; cfr., poi, an-che (per parziali similitudini stilistiche) Ulp. XXV ad ed., D. 11.7.14.3 [= Pal. Ulp. 751: sed et si quid in locum fuerit erogatum, in quem mortuus inferretur, funeris causa videri impensum Labeo scribit, quia necessario locus paratur, in quo corpus conditur].

Per il solo uso del verbo parare vd.: Ulp. VIII disp., D. 48.5.2.8 [= Pal. Ulp. 155: accusationem parante]; Ulp. XVIII ad ed., D. 50.16.31 [= Pal. Ulp. 611: pra-tum est… quod paratum… ad fructum capiendum]; Ulp. XXVIII ad ed., D. 50.16.185 [= Pal. Ulp. 827: res et homines ad negotiationem paratis]; in Ulp. XXX ad ed., D. 16.3.7 pr. [= Pal. Ulp. 898: cum sciret, cui rei pararetur…]; Ulp. XXXI ad ed., D. 17.1.12.17 [= Pal. Ulp. 912: agere etiam cum eo qui mandavit, ut sibi pecuniam daret ad faciendum, maxime si iam quaedam ad faciendum paravit];

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« SERVIUS RESPONDIT »

286

Per questi motivi, sembra doversi concludere nel senso che Ul-

piano abbia tratto dal pensiero di Servio il principio di diritto discus-

so, rielaborandolo, certamente, per mezzo delle proprie concezioni in

materia, ma rispecchiando, di fatto, il pensiero del giurista più anti-

co 285.

Ulp. XXXII ad ed., D. 19.1.17.10 [= Pal. Ulp. 938: quae parata sunt ut imponantur, non sunt aedificii]; Ulp. XXXII ad ed., D. 19.2.19 §§ 2 e 7 [= Pal. Ulp. 951: fiscos… quibus ad premendam oleam utimur, colonum sibi parare debere Neratius scripsit… praelum dominum parare oportere – haec quae ad navigantium usum parantur]; Ulp. XLVI ad ed., D. 50.16.195.3 [= Pal. Ulp. 1203: non omnes servi, sed corpus quoddam servorum demonstratur huius rei causa paratum, hoc est vectigalis causa]; Ulp. I opin., D. 47.9.10 [= Pal. Ulp. 2298: sibique execrandam praedam parent]; Ulp. XVII ad Sab., D. 7.1.12.1 [= Pal. Ulp. 2560: navis etenim enim, Vat. Fragm. 72.2 ad hoc paratur, ut naviget]; Ulp. XX ad Sab., D. 34.2.19.12 [= Pal. Ulp. 2606: aquiminario… propter escam paratur]; Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.12.10 [= Pal. Ulp. 2609: vas aeneum, in quo sapa coqueretur et defrutum fiat et aqua ad bibendum la-vandamque familiam paratur]; Ulp. XXI ad Sab., D. 30.41.14 [= Pal. Ulp. 2622: paravit quaedam]; Ulp. XXIV ad Sab., D. 32.52.6 [= Pal. Ulp. 2661: papyrum ad chartas paratum]; Ulp. XXV ad Sab., D. 32.55.7 = D. 50.16.167 [= Pal. Ulp. 2679: ad faces… parata non erunt lignorum appellatione comprehensa]; Ulp. XXVI ad Sab., D. 1.7.17.3 [= Pal. Ulp. 2691: spes quam unusquisque liberorum obsequio pa-ret sibi]; Ulp. XLIV ad Sab., D. 34.2.23.2 [= Pal. Ulp. 2913: familiarica sunt, quae ad familiam vestiendam parata sunt].

Diversamente, invece, con il significato di ‘acquistare’ Ulp. XXIX ad ed., D. 14.4.5.14 [= Pal. Ulp. 842: « mancipia in negotiatione… ex merce parata »]; Ulp. XLV ad ed., D. 38.2.14.9 [= Pal. Ulp. 1172: « si patroni filius advocationem accusa-tori liberti praestitit, non est repellendus »]; Ulp. IV [ad l. Iul.] de adult., D. 40.9.12.2 [= Pal. Ulp. 1963: « si… servum mulier paravit »]; Ulp. II opin., D. 50.5.1.2 [= Pal. Ulp. 2313: « evitandorum maiorum onerum gratia… excusatio-nem sibi non paraverunt »]; Ulp. XXI ad Sab., D. 30.39.7 [= Pal. Ulp. 2620: « con-stat… res alienas legari posse, utique si parari possint, etiamsi difficilis earum pa-ratio sit »]; Ulp. XXII ad Sab., D. 32.47.1 [= Pal. Ulp. 2637: « inter emptum et pa-ratum… in empto paratum inesse, in parato non continuo emptum contineri… ea res… posterioris mulieris causa parata – quae prioris uxoris causa parata »]; Ulp. XXII ad Sab., D. 32.49.1 [= Pal. Ulp. 2638: « virilia… causa parata »]. Cfr. « VIR. », IV, coll. 491-493, ad v. ‘paro’ (cui rinvio per le testimonianze degli altri giuristi).

285 Vd. anche infra, cap. III, § 5.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

287

4. Continua: un frammento singolare retto dal verbo ‘aiere’

Un caso particolare è rappresentato dal frammento che segue

in cui il verbo utilizzato dal giurista che riprende il pensiero serviano

(ossia Giavoleno) non è ‘respondere’ bensì ‘aiere’ 286, ma il testo pa-

re essere rimasto prossimo alla cifra narrativa originaria:

C.1. – Iavol. IV ex post. Lab., D. 40.7.39.3 [= Pal. Serv. 65

→ Pal. Iavol. 196; Br. omiss.] 287: « ‘Dama servus cum heredi meo

annorum septem operas solverit, liber esto’ et is servus intra septem

annos in iudicio publico esset et septimus annus praeterisset, Ser-

vius ai t eum non liberari debere [, Labeo, et si postea solvisset an-

norum septem operas, liberum futurum: quod verum est] » 288.

In questo testo della ‘serie labeoniana’ 289, a conferma della

presenza dell’originaria struttura tripartita il Mommsen proponeva di

scorgere la presenza di un originario incipit dal simile tenore: « cum

ita quis scripserit: » 290.

Comunque sia, per quanto concerne la genesi del casus all’interno

della scuola serviana, si può confrontare un’altra testimonianza — di

286 Sul valore e, soprattutto, sul significato correlato alla forma verbale segnalata

si veda supra, nt. 209, ed infra, nt. 405. 287 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 238, il

quale, tanto singolarmente, quanto inspiegabilmente, dedica soltanto un cenno al frammento, senza peraltro includerlo nella ricostruzione dell’opera serviana, nono-stante la ricorrenza espressa del nome del giurista (« Servius certe et praetoris et magistratuum municipalium de servis iurisdictionem tractavit: id enim Alfenum D. 44, 7, 20 et Labeonem D. 40, 7, 39, 3 demonstrare puto »): cfr., infatti, ID., op. cit., II.2, p. 629 (‘fontes’), ad h.l.

288 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 331 ad h.l.; per quanto riguarda il principium di D. 40.7.39 vd. infra, E .2 . .

289 Ove il giurista augusteo si pone in ottica critica rispetto all’opinione di Servio (sul punto vd. D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘libri posteriores’, p. 303 e nt. 83).

290 Cfr. TH. MOMMSEN, Corpus iuris civilis, I. Digesta, p. 680 nt. 3 ad h.l.

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« SERVIUS RESPONDIT »

288

cui si tratterà più oltre 291 — ossia quella salvata in Alf. IV dig. ab

anon. epit., D. 40.7.14.1 [= Pal. 18: « Servus cum heredi annorum

septem operas dedisset, liber esse iussus erat: is servus fugerat et

annum in fuga fecerat. Cum septem anni praeterissent, respondit non

esse liberum: non enim fugitivum operas domino dedisse: quare nisi

totidem dies, quot afuisset, servisset, non fore liberum. Sed et si ita

scriptum esset, ut tum liber esset, cum septem annis servisset, potuis-

se liberum esse, si tempus fugae reversus servisset »] 292, la quale do-

cumenta la coincidenza del tema e, quindi, la comune paternità dal

nostro giurista 293.

Solamente la parte finale di D. 40.7.39.3 (« Labeo – verum est »)

deve essere esclusa, poiché si tratta — com’è anche intuitivo — di

un innesto giavoleniano. Ancora: per ciò che attiene possibili con-

ferme offerte dalle fonti bizantine, lo Sch. 4 allegato alla versione di

Bas. 48.5.40.3 (che corrispondono al frammento in questione) men-

ziona espressamente Servio, il cui pensiero è sostenuto dalla forma

verbale « epe », che parrebbe, qui, concordare con l’originale

« ait » 294.

291 Vd. infra, cap. III. 292 Vd. già TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 467, lin. 23, ad h.l.

(corrispondenze marginali). F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae su-persunt, I, p. 185, annota a D. 40.7.14 [pr. – frg. 56] « Schol. ad Basil. 48,5,15 Ser-vium respondentem laudat ». Infatti la fonte bizantina si esprime, sul punto, nei se-guenti, espliciti termini: « kaˆ ™rwthqeˆj perˆ toÚtou Sšrbioj ¢pekr…nato... », et rell.: cfr. Sch. 1 ad Bas. 48.5.15 [BS. 2901 = Hb. IV, 699]. Del passo si tratterà in-fra, cap. III.

293 Cfr. G. DONATUTI, Lo staulibero, pp. 276-277 ed A. WATSON, The Law of Persons in the Later Roman Republic, p. 216.

294 Cfr. Bas. 48.5.40 [Iabolenu. BT. VI, 2209; ’Ιαβολένος. Hb. IV, 708], o, me-glio, Sch. 4 allegato [BS. VII, 2912 = Hb. IV, 709], in cui, ricalcando sostanzialmen-te il testo latino, si riferisce che anche Labeone, come Servio, « epen » (nel testo latino, per quanto concerne Labeone, la forma verbale è, al contrario, sottintesa).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

289

5. Frammenti con assenza di tripartizione e retti da verbi diversi da

‘respondere’

Più delicata risulta essere l’impresa di ricostruzione del pen-

siero di Servio (o, meglio, della sua sostanza) in altri frammenti nei

quali, oltre all’uso di forme verbali diverse da ‘respondere’, la tripar-

tizione (‘casus – quaestio – responsum’) si oscura, e quanto appar-

tiene al giurista repubblicano si trova inserito, in modo spesso diffici-

le da isolare, all’interno del pensiero dell’autore che ne riporta la sen-

tentia.

Le forme verbali che raffigurano, in questa ipotesi, la cita-

zione serviana possono essere varie, e vanno dalle classiche espres-

sioni ‘Servius ait’, ‘dicit’, o ‘scribit’, ad altre quali ‘Servius existi-

mat’, ‘fatetur’, ‘negat’, ‘notat’, ‘placuit’, ‘probat’, e, ancora, ‘pu-

tat’ — mentre in una sola ricorrenza si ha la locuzione ‘Servii senten-

tia est’ 295.

295 Si veda, in forma riassuntiva, la seguente tabella (gli asterischi nella colonna

delle ‘corrispondenze’ rimandano a diverse espressioni rilevabili negli stessi fram-menti, e per questo censite distintamente):

FRAMMENTO FORMA CORRISPONDENZA

Pomp. VIII ad Q.M., D. 50.16.122

Servius ait D.6.

Venul. II interdict., D. 43.24.4

Servius [ait] D.7.

Paul. LIV ad ed., D. 41.4.2.8

Servius ait D.11.

Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30

Servius in notatis Mucii ait

D.12.

Ulp. XXVIII ad ed., D. 14.3.5.1

Servius ait D.15.

Ulp. XXXII ad ed., D. 19.2.15.2

Servius ait D.16.

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« SERVIUS RESPONDIT »

290

Ulp. XLI ad ed., D. 37.9.1.24-25

Servius aiebat – Idem ait

D.18.

Ulp. LVII ad ed., D. 47.10.15.32

Servius ait D.23.

Ulp. LXII ad ed., D. 43.24.7.4

Servius ait… idem ait

D.22.

Ulp. LXXI ad ed., D. 43.24.5.3-4

Servius ait – Item ait

D.21.*

Ulp. LXXXI ad ed., D. 39.2.24.5

Ait [Servius] D.24.**

Ulp. XIX ad Sab., D. 30.30.2

Ait Servius D.25.

Ulp. XXVII ad Sab., D. 40.7.3.2

Quod Servius ait D.26.***

Ulp. LXII ad ed., D. 43.24.5.6

Idem dicit D.21.*

Nerat. II membr., D. 12.4.8

Servius in libro de doti-bus scribit

D.2.

Ulp. XVIII ad ed., D. 9.1.1.4

Servius scribit D.14.

Ulp. LXX ad ed., D. 43.21.3 pr.-1

Servius scribit – Servius et Labeo scribunt

D.20.

Paul. L ad ed., D. 40.4.35

Servius existimabat D.10.

Cels. XIX dig., D. 33.10.7.2

Servius fatetur D.4.

Cels. XVII dig., D. 30.63

Servius negat D.3.

Iul. XLIV dig., D. 41.5.2.2

Negavit Servius D.5.

Paul. XXXII ad ed., D. 17.2.65.8

Servius notat D.9.

Iavol. II ex post. Lab., D. 32.29.2

Alfenus Varus Servio placuisse scribit

E.1.

Pap. XII resp., Vat. Fragm. 294

Servio Sulpicio placuisset D.8.

Paul. XIV ad Sab., D. 41.1.26 pr.

Servio placuisset D.13.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

291

Sempre secondo la progressione cronologica dei giuristi, si

vedano le seguenti testimonianze:

D.1. – Iavol. II ex post. Lab., D. 32.29.1 [= Pal. Serv. 43

→ Iavol. 171; Br. 59 resp. = 5 repr. Scaev. cap.] 296: « Cum ita le-

gatum esset, ut Titia uxor mea tantandem partem habeat quantulam

unus heres, si non aequales partes essent heredum , [ Quintus Mu-

cius et Gallus putabant maximam partem legatam esse 297, quia in

maiore minor quoque inesset,] Servius Ofilius minimam, quia cum

heres dare damnatus esset, in potestate eius esset, quam partem daret.

[Labeo hoc probat idque verum est.] ».

Ulp. XXII ad Sab., D. 33.9.3.6

Praebuit Servio E.37.

Ulp. XXXII ad ed., D. 19.2.19.1

Servio placuit D.17.

Ulp. XXVII ad Sab., D. 40.7.3.2

Servius probat D.26.***

Ulp. LXXXI ad ed., D. 39.2.24.4-5

Servius putat – Idem Servius putat

D.24.**

296 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 186

[Servius, responsorum libri, frg. 59, ‘familiae erciscundae’], erroneamente indicato dall’editore tedesco come « D. 32, 29, 2 » nonché p. 221 [Servius, reprehensa Scae-volae capita, frg. 5, ‘de legatis’], ancora indicato, per ulteriore inesattezza, come « D. 32, 39, 1 » (ma, su entrambi i refusi, cfr. ID., op. cit., II.2, p. 597 [‘Corrigenda et addenda’] ).

Il passo non trova simmetrie nell’edizione olandese dei Basilici [cfr. BT. VI, 2000; ma vd. Bas. 44.3.29, in Hb. IV, 376 — con testo tratto da Tipuc. 44.3.29 — senza scholia e senza menzione di Servio].

297 Le parole « partem legatam esse » possono essere logicamente recuperate, poiché ad esse si riallaccia la parte serviano-ofiliana « minimam... », et rell., in con-trapposizione al giudizio opposto di Quinto Mucio e di Gallo Aquilio (« maxi-mam... », et rell.).

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« SERVIUS RESPONDIT »

292

Lenel assegnava a Servio 298 l’intero paragrafo, derivato dalla

‘serie labeoniana’ 299. La scelta semplificativa dell’Autore tedesco

deve, tuttavia, essere giudicata come sovrabbondante, in ragione del

fatto che essa è smentita dalla struttura del testo 300. Così, infatti, si

può idealmente suddividere il contenuto di D. 32.29.1:

α. offerta del contenuto della clausola testamentaria — che

potrebbe ragionevolmente essere stata oggetto già della riflessione

serviana;

β. allegazione del parere di Quinto Mucio e di Aquilio Gallo,

ad opera di Giavoleno (« Quintus – inesset »);

γ. relazione del contrario pensiero di Servio e di Ofilio

(« Servius Ofilius – daret »);

δ. adesione labeoniana e giavoleniana — in coda al testo 301

— alla soluzione di Servio e di Ofilio (« Labeo hoc probat idque ve-

rum est ») 302.

298 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 328 ad h.l. (e anche BREMER,

op. et loc. ult. cit., non annota alcuna riserva sul testo). 299 Vd. LENEL, op. cit., I, col. 301 ad h.l. 300 Per l’analisi delle parti costitutive vd. A. METRO, Il ‘legatum partitionis’, pp.

297-298; F. HORAK, Rationes decidendi, pp. 94 e ss., CH. KOHLHAAS, Die Überliefe-rung der libri posteriores des Antistius Labeo, pp. 96 e ss. nonché A. GUZMÁN

BRITO, Historia de la interpretación de las normas en derecho romano, pp. 328-329. 301 Caratteristica (quella del commento, positivo o negativo, al termine) osserva-

ta da D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘libri posteriores’, p. 303 e nt. 82 (e, per con-fronti tra la citazioni labeoniane nei vari paragrafi di D. 32.29, cfr. F.B.J. WUBBE, Iavolenus contra Labeonem, p. 104 nt. 47 = ID., Ius vigilantibus scriptum, p. 299 nt. 47).

302 Si può annotare come il giudizio finale « idque verum est » sia particolarmen-te incisivo, poiché rappresenta una approvazione tanto della soluzione serviano-ofiliana, quanto della approvazione che, a sua volta, ad essa ha dato Labeone (poiché legata, immediatamente, al ‘probat’ e, quindi, per il suo tramite, al parere più anti-co).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

293

D.2. – Nerat. II membr., D. 12.4.8 [= Pal. Serv. 1 → Pal.

Nerat. 11; Br. 3 de dotib.] 303: « [Quod] Servius in l ibro de do-

tibus scribit , si inter eas personas, quarum altera nondum iustam

aetatem habeat, nuptiae factae sint, quod dotis nomine interim datum

sit, repeti posse [, sic intellegendum est, ut, si divortium intercesserit,

priusquam utraque persona iustam aetatem habeat, sit eius pecuniae

repetitio, donec autem in eodem habitu matrimonii permanent, non

magis id repeti possit, quam quod sponsa sponso dotis nomine dede-

rit, donec maneat inter eos adfinitas: quod enim ex ea causa nondum

coito matrimonio datur, cum sic detur tamquam in dotem perventu-

rum, quamdiu pervenire potest, repetitio eius non est] ».

Non è difficile aderire alle proposte precedentemente avan-

zate 304. Infatti, alla menzione del parere serviano — in materia di re-

stituzione della dote a causa di matrimonio contratto in assenza di età

pubere da parte di uno dei nubendi, a proposito del quale, responso,

si fa menzione dell’opera specifica da cui esso è stato tratto, ossia il

liber de dotibus — segue una interpretazione, per così dire, ‘autenti-

ca’ dello stesso Nerazio, segnalata dalla tipica forma perifrastica

« sic intellegendum est, ut... », e da ulteriori, correlati ‘distinguo’

(fortemente connotati dalle parti del discorso « donec autem... non

magis quam... donec... – quod enim... nondum... quamdiu... ») fun-

303 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 227 [Servius, de dotibus liber, frg. 3, ‘de dotis repetitione’].

Il passo di Nerazio torna in Bas. 24.1.8 [BT. III, 1146; Hb. III, 5], con Sch. Pa 1-3 [BS. V, 1723-1724; Hb. III, 5], ma le trasposizioni dei testi bizantini — in cui non viene menzionato il nome di Servio — non appaiono essere utili ad una migliore o, in ogni caso, diversa interpretazione del primo. E quanto è attribuibile a Servio è stato ridotto ad estrema sintesi.

304 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 321 ad h.l.; BREMER, op. et loc. ult. cit. (mentre per la critica testuale si rimanda a R. GREINER, Opera Neratii, pp. 15-16 nt. 31 — con indicazione della dottrina favorevole al testo — e H. KUPISZEWSKI, Studien zum Verlöbnis im klassischen römischen Recht I, p. 86 e ntt. 63-67).

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« SERVIUS RESPONDIT »

294

zionali a segnare la distanza esistente tra l’opinione serviana e quella

del suo commentatore 305.

D.3. – Cels. XVII dig., D. 30.63 [= Pal. Serv. 42 → Pal.

Cels. 137; Br. 40 resp.] 306: « ‘Si ancillas omnes et quod ex his natum

erit testator legaverit, una mortua’ Servius partum eius negat de-

beri, quia accessionis loco legatus sit: [quod falsum puto et nec ver-

bis nec voluntati defuncti accommodata haec sententia est] » 307.

Nel caso di specie è arduo individuare se si tratti di un re-

sponso serviano, o, meglio, se la sezione « si ancillas – una mortua »

rifletta in qualche modo i termini serviani — anche il verbo utilizzato

(‘negare’ e non ‘respondere’), unito al fatto che Celso parli di ‘sen-

tentia’, suggerisce prudentemente di propendere per la conclusione

opposta. Quanto si può dire con certo grado di sicurezza è che

l’argomento, e l’argomentazione, sono certamente da attribuire al

giurista più antico 308.

Il Bremer, tuttavia, ha rilevato un riverbero della prosa di (in

realtà, della clausola testamentaria riportata in) D. 30.63 all’interno

305 Sul testo vd. H.-H. KÖNIG, Die vor der Ehe bestellte dos nach klassischem

römischen Recht, pp. 161-162; GREINER, op. cit., pp. 15-17 A. WATSON, The Law of Persons in the Later Roman Republic, pp. 39 e 63-64; ampiamente, inoltre, S. TAFA-

RO, Pubes e viripotens nella esperienza giuridica romana, pp. 159 e ss. e 212-214 (con indicazioni bibliografiche a p. 160 ntt. 2-3; ID., La pubertà a Roma. Profili giu-ridici, pp. 182 e ss. e 247-248).

306 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 181 [Servius, responsorum libri, frg. 40, ‘de servis et ancillis legatis’].

Passo senza corrispondenze nei Basilici [cfr. BT. VI, 1976, ma vd. Bas. 44.1.59 in Hb. IV, 338, e nt. h: « L 63. D. h. t. exhibetur e Tipucito »; ovviamente senza sco-lii e, in ogni caso, senza menzione di Servio: e cfr. Tipuc. 44.1.63= 59].

307 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 328 ad h.l. 308 Cfr. G. GANDOLFI, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto ro-

mano, p. 66, nonché R. CARDILLI, La nozione giuridica di ‘fructus’, pp. 93 nt. 49, 94 e 99.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

295

del passo di Gai 2.203 (« ‘quod ex illa ancilla natum erit’ ») 309, se-

gno che l’autore delle Institutiones avrebbe riversato un dato tradi-

zionale 310. Se la proposta di restituzione è — come pare — plausibi-

le, allora la clausola potrebbe risalire (almeno) all’epoca repubblica-

na e il brano celsino potrebbe rispecchiare, pertanto, il fraseggio ser-

viano. Di qui l’aggiunta, da parte mia, degli apici nel testo del Dige-

sto.

Va da sé che deve essere esclusa la porzione finale del brano

(« quod – sententia est »), che è chiaramente indicativa del giudizio

celsino 311, in cui il giurista « critica Servio, sottolineando mordace-

mente come la soluzione di quest’ultimo non si giustifichi né alla lu-

ce di una isolata considerazione dei verba e della voluntas (accomo-

data), né alla luce di una più pregnante analisi dell’assetto di interes-

si sotteso alla disposizione testamentaria (falsum) » 312.

309 Gai 2.203: « Ea quoque res, quae in rerum natura non est, si modo futura est,

per damnationem legari potest, velut ‘fructus, qui in illo fundo nati erunt, aut quod ex illa ancilla natum erit’ ».

310 Vd. anche C.A. MASCHI, Studi sull’interpretazione dei legati. Verba e volun-tas, p. 44 nt. 3, circa la clausola « quod ex Arethusa ancilla natum erit ».

311 Cfr. F. HORAK, Rationes decidendi, p. 227; H.J. WIELING, Testamentsausle-gung im römischen Recht, p. 32 e nt. 54; E. HERRMANN-OTTO, Ex ancilla natus, p. 281; in questo luogo, del resto, « Celso considera falso un parere di Servio », come già osservato da E. STOLFI, Per uno studio del lessico e delle tecniche di citazione dei giuristi severiani, p. 367, mentre A. WATSON, Narrow, Ridig and Literal Inter-pretation, p. 357, si spingeva fino a marchiare come ‘imbarazzante’ (« puzzling », ma non se comprende la ragione: vd. F. SCHULZ, Geschichte der römische Re-chtswissenschaft, p. 94 = ID., Storia della giurisprudenza romana, pp. 148-149 e cfr. ID., History of Roman Legal Science, pp. 78-79) la decisione serviana (cfr. anche C.A. MASCHI, Studi sull’interpretazione dei legati, pp. 44-45; contra, tuttavia, SCHULZ, opp. et locc. cit.). Da ultimo vd. T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 503 (in una sintesi che mi pare eclissi la portata del giudizio celsino). Vd. anche su-pra, cap. I, nt. 202.

312 Così, acutamente, P. CERAMI, ‘Verba’ e ‘voluntas’ in Celso figlio, pp. 485-486 (e cfr. già H. HAUSMANINGER, Zur Legatsinterpretation des Celsus, pp. 23 e 43).

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« SERVIUS RESPONDIT »

296

Assai insolito — in materia di suppellex legata — il modo di

citazione espresso ancora da Celso, attraverso l’impiego del verbo

‘fateor’ 313, verbo, già di per sé, di non ampia frequentazione da parte

della giurisprudenza romana 314:

D.4. – Cels. XIX dig., D. 33.10.7.2 [= Pal. Serv. 51 → Pal.

Cels. 168; Br. 35 resp.] 315: « Servius fatetur sententiam eius qui

legaverit aspici oportere, in quam rationem ea solitus sit referre: ve-

rum si ea, [ de quibus non ambigeretur ] ?, quin in alieno genere es-

sent, ut puta escarium argentum aut paenulas et togas, suppellectili

quis adscribere solitus sit, non idcirco existimari oportere suppellec-

313 Si tratta, infatti, dell’unica ricorrenza (almeno a noi pervenuta) nel linguaggio

di questo giurista: cfr. « VIR. », II, col. 814, lin. 49. Sul punto vd., infatti, anche i dubbi espressi da A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en derecho romano, p. 174 nt. 618. E, a quanto mi risulti, la costruzione di fateor con oportere rappresenta un unicum tanto nelle fonti giuridiche, quanto in quelle lettera-rie; cfr., però, J.L. MURGA, Un original concepto de ‘officium’ en Séneca (Epist. 102,6), p. 417 nt. 44.

Nell’unica altra testimonianza celsina in cui si fa ricordo di Servio (ossia Cels. XVII dig., D. 30.63 [= Pal. Cels. 137; Pal. Serv. 42]: vd. appena supra, frg. D.3. ), viene impiegato, invece, il verbo negare: in ogni caso, non è registrato (o, allo stato delle fonti, non ci è dato conoscere) che Celso abbia usato il verbo respondere o aie-re. Cfr. supra, nt. 295 – Tabella. Sull’incipit come serviano vd., ora, O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, p. 82 nt. 114.

314 Vd. « VIR. », II, coll. 814-815. 315 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 178

[Servius, responsorum libri, frg. 35, ‘de supellectili legata’]. In maniera conforme al Lenel, anche il Bremer offre come serviana l’intera parte iniziale, che va da « Ser-vius fatetur » e si estende fino a « exaudiri debere », mentre non riporta il séguito.

Il passo non è filtrato nei Basilici [vd. BT. VI, 2028; ma cfr. Bas. 44.13.6 in Hb. IV, 415 — e nt. i : « L. 7. D. h. t. e Syn. p. 392 habet Fabr. T. V. p. 778 » — senza scolii e senza nome di Servio]. Sul passo, più in generale, si veda J. DITTRICH, Die Scholien des Cod. Taur. B.I.20 zum Erbrecht der Basiliken, in «Fontes minores», IX, 254: Sch. [1] ad « B.44.13.7 = 6? = D.33.10.7 – 1. Ka…toi e‡rhtai tit. z/ dig. ih/ qem. g/, Óti oÙ periergazÒmeqa t¾n kuriolex…an, ¢ll¦ t¾n gnèmhn toà

diaqemšnou kaˆ t¾n sun»qeian toà kl…matoj. 'An£gnwqi kaˆ bib. n/ tit. i$/

dig. siq/. » (interessante per per i rimandi testuali, soprattutto a D. 50.16.219).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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tili legata ea quoque contineri: [ non enim ex opinionibus singulorum,

sed ex communi usu nomina exaudiri debere.] ? 316 [Id Tubero parum

sibi liquere ait: nam quorsum nomina, inquit, nisi ut demonstrarent

voluntatem dicentis? Equidem non arbitror quemquam dicere, quod

non sentiret, ut maxime nomine usus sit, quo id appellari solet: nam

vocis ministerio utimur 317: ceterum nemo existimandus est dixisse,

quod non mente agitaverit. Sed etsi magnopere me Tuberonis et ratio

et auctoritas movet, non tamen a Servio dissentio non videri quem-

quam dixisse, cuius non suo nomine usus sit 318. Nam etsi prior atque

potentior est quam vox mens dicentis, tamen nemo sine voce dixisse

existimatur 319: nisi forte et eos, qui loqui non possunt, conato ipse et

sono quodam kaˆ tÍ ¢n£rqrJ fwnÍ dicere existimamus] 320 ».

In questo luogo, il giurista adrianeo Celso ci ha preservato un

passo tanto famoso quanto importante in materia di interpretazione

della volontà del testatore, che si caratterizza — oltre che, linguisti-

316 Il tratto « non enim ex opinionibus – exuadiri debere » pare essere attribuito

ancora a Servio (almeno nella sostanza) da B. BIONDI, Successione testamentaria e donazioni 2, p. 580 e vd. anche A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas, p. 81 (e cfr. anche P. KOSCHAKER, L’alienazione della cosa legata, p. 107 nt. 53).

317 B. BIONDI, Successione testamentaria e donazioni 2, p. 499, attribuisce la sanzione « vocis ministerium utimur » a Tuberone.

318 Cfr. O. BEHRENDS, Gesetz und Sprache. Das römische Gesetz unter dem Einfluß der hellenistischen Philosofie, p. 191.

319 Ancora BIONDI, op. et loc. cit., ritiene celsino il tratto « etsi prior – existima-tur » (il cui incipit — « prior – mens dicentis » — è peraltro dato, invece, per tube-roniano in op. cit., p. 298: ciò che rileva ai nostri fini è, però, l’esclusione di Servio, a cui si ricollega il principio generale contenuto nel periodo d’apertura « sententiam eius qui legaverit aspici oportere »).

320 Sulla seconda parte del brano vd. L. AMIRANTE, Lavoro di giuristi sul pecu-lio. Le definizioni da Q. Mucio a Ulpiano, pp. 4 e 8 e ss., in cui si ribadisce, anche alla luce del contenuto di Ulp. XXXII ad ed., D. 19.1.13.30 [= Pal. Ulp. 935; Pal. Tub. 4], che « Tuberone appare in veste di correttore di Servio » (cfr., ivi, pp. 8-9 nt. 3, per letteratura).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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camente, per l’uso abbastanza singolare, e appena segnalato, del ver-

bo fateor, che ricorre, infatti, qui, per l’unica volta nelle citazioni di

Servio da parte di altri iurisprudentes — per il complesso intreccio di

posizioni dottrinali 321, di cui il § 2 di D. 33.10.7 ci offre soltanto una

parte 322.

In questa sede, grazie alla dialettica del giurista relatore 323,

vediamo confrontarsi, in modo serrato, Servio (« Servius fatetur –

exaudiri debere ») 324 e Tuberone (« id Tubero – voluntatem dicen-

tis? ») 325, e prevalere, grazie a Celso, la soluzione del giurista più

321 Cfr., in particolare, G. GANDOLFI, Lezioni sull’interpretazione dei negozi giu-

ridici, pp. 21 e ss. (e cfr. ID., Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano, pp. 89 e ss.); R. MARTINI, Ancora su D. 33. 10. 7. 2, pp. 83 e ss.; H. HAS-

MANINGER, Zur Legatsinterpretation des Celsus, pp. 19 e ss. (e vd. anche P. VOCI, Interpretazione del negozio giuridico, p. 253 = ID., Studi di diritto romano, I, pp. 573-574); puntualmente U. JOHN, Die Auslegung des Legats, pp. 78 e ss., così come, ampiamente, A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación del las normas, pp. 136 e ss.

322 Al di là dell’interessante spaccato di vita sociale e giuridica rappresentato dall’intero titolo di D. 33.10, ‘de suppellectile legata’, credo che il paragrafo in que-stione debba essere letto (almeno) insieme a quello immediatamente precedente (os-sia Alf. III dig. a Paul. epit., D. 33.10.6 [= Pal. Alf. *60], che riflette il pensiero del-la scuola, così come precipitato nei digesta dell’auditor cremonese) e integrato con il principium e il § 1 dello stesso D. 33.10.7.

323 Cfr. A. WATSON, Morality, Slavery and the Jurists in the Later Roman Re-public, p. 296.

324 Sui parallelismi tematici nella scuola serviana, si veda CHR. PAULUS, Die Idee der postmortalen Persönlichkeit im römischen Testamentsrecht, pp. 186 e ss.

325 Il tratto di pertinenza (« nam quorsum – non mente agitaverit ») costituisce « l’unico riferimento integrale che tramandano, di Tuberone, le Pandette »: così, mi pare a ragione, C.A. MASCHI, Studi sull’interpretazione dei legati. Verba e voluntas, p. 72 (arg. ex O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, coll. 377-380: il punto in que-stione — oltre ad essere corredato dall’eloquente forma « inquit », che è correlata a « Tubero », poco prima evocato da Celso — è riportato in corpo tondo, e tra apici, dall’Autore tedesco, a indicare quella che egli riteneva essere la citazione testuale da parte del giurista adrianeo; vd., però, aluni ragionevoli dubbi espressi, più che sul contenuto, sulla forma della citazione diretta, in R. MARTINI, Ancora sul legato di vesti, pp. 159-160; vd. anche, in replica, R. ASTOLFI, Legato di una categoria eco-nomico-sociale, pp. 375 e ss.).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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antico (« equidem – agitaverit. Sed etsi – usus sit », con l’aggiunta

della ratio finale « nam etsi – dicere existimamus ») 326, soluzione

poi costantemente accolta dalla giurisprudenza posteriore 327.

Credo che la scelta palingenetica del Lenel, ora riportata, sia

sostanzialmente da seguire 328: risente, infatti, palesemente dello stile

serviano l’elencazione di res che vanno escluse da una rigorosa ap-

partenza al concetto di suppellex (« ut puta escarium argentum aut

paenulas et togas »), sebbene la ‘ratio’ allegata (« non enim ex opi-

nionibus singulorum, sed ex communi usu nomina exaudiri debere »)

offra la percezione del riverbero di uno stile assai meno confacente

all’epoca in discussione 329; così, parimenti, l’inserto « de quibus non

326 Sulla ‘massima’ celsina « etsi prior – dixisse existimatur » cfr. S. RICCOBO-

NO, Legati e fedecommessi, verba e voluntas, p. 359 nonché C.A. MASCHI, Studi sull’interpretazione dei legati, p. 10.

327 Sul punto vd. già G. DONATUTI, Dal regime dei verba al regime della volun-tas (I. Nei legati), p. 209 nt. 2 = ID., Studi di diritto romano, I, p. 231 nt. 47, e B. BIONDI, Successione testamentaria e donazioni 2, p. 298, e cfr., quindi, Iavol. III ex post. Lab., D. 33.10.10 [= Pal. Iavol. 191]; (Pomponio in) Ulp. V ad Sab., D. 30.4 pr. [= Pal. Pomp. 392 con rimando in O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 88 nt. 7 a D. 28.5.9 pr.-1: vd. infra, in questa stessa nota; Pal. Ulp. 2640]; Maecian. XII fideicomm., D. 50.17.96 [= Pal. Maecian. 47], citato erroneamente dal Donatuti come ‘Marciano’ in « BIDR. » (corretto, invece, dai curatori degli Studi, loc. cit.) — LENEL, op. cit., I, col. 585 nt. 3, opera, in questo punto, un rinvio a Venul. I stip., D. 46.5.9 [= Pal. Venul. 55], che è senz’altro pertinente; Paul. I ad Nerat., D. 32.25 [= Pal. Paul. *1026], che contiene la famosa regula « cum in verbis nulla ambiguitas est, non debet admitti voluntatis quaestio » (su cui vd., in particolare, ampiamente e bene, S. MASUELLI, ‘In claris non fit interpretatio’. Alle origini del brocardo, pp. 409 e ss.), nonché, finalmente, Ulp. V ad Sab., D. 28.5.9.pr.-1 [= Pal. Ulp. 2640] — qui il Donatuti non indicava anche il principium (come pare necessario fare, ratione disputatae materiae: vd., infatti, LENEL, op. cit., II, col. 1029).

328 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 329 ad h.l. Sul testo, e sulle sue parti, vd., in particolare, B. ALBANESE, Tre studi celsini, pp. 82 e ss. (ampiamen-te, e pp. 86 e ss., in particolare).

329 Cfr., infatti ed e.g., la sententia pediana ricordata da Paul. II ad l. Iul. et Pap., D. 35.2.63 pr. [= Pal. *937]: « pretia rerum non ex affectione nec utilitate singulo-rum, sed communiter funguntur… », et rell. — ‘fungi’, nel passo gemino di Paul. II ad Plaut., D. 9.2.33.1 [= Pal. 1084]. Sul punto, da ultima, C. GIACHI, Studi su Sesto

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« SERVIUS RESPONDIT »

300

ambigeretur » mostra l’influsso di una stilistica mediamente tarda,

sicuramente ascrivibile al periodo severiano e, in particolare, allo sti-

le aulico della cancelleria imperiale 330.

D.5. – Iul. XLIV dig., D. 41.5.2.2 [= Pal. Serv. 69 → Pal.

Iul. 620; Br. 79 resp.] 331: « Filium quoque 332 donatam rem a patre

Pedio, pp. 208 e ss., cui adde M. MIGLIETTA, ‘Servus dolo occisus’, pp. 271 e ss. Ma vd. supra, nt. 316.

Reputano, invece, il tratto come serviano C.A. MASCHI, Studi sull’interpretazio-ne dei legati. Verba e voluntas, pp. 53-54 (giudizio ribadito a p. 71); P. VOCI, Diritto ereditario romano, II, p. 840 (per l’analisi del passo vd. ivi, pp. 835 e ss.) e vd., ora, J.D. HARKE, Argumenta Iuventiana, p. 74; ALBANESE, op. cit., pp. 83 e, soprattutto, 86; si veda, infine, A. GUZMÁN, El ‘communis usus loquendi’ en el derecho romano, p. 444 (per la risalenza serviana, in questo contesto, del concetto di usus). Vd. anche P. STEIN, The place of Servius Rufus, p. 178. A questo proposito ribadisco, tuttavia, il mio dubbio, poiché la conformazione sintattica del periodo de quo (con l’uso dell’infinitiva) impone di non scartare — almeno in linea di principio — l’eventualità di essere in presenza di un riassunto celsino relativo al problema teore-tico dibattuto.

330 Cfr. « VIR. », I, coll. 411-412 s.v. ‘ambigo’, soprattutto alla forma negativa — e questa, di Celso, risulta essere l’unica testimonianza giurisprudenziale anteriore a Papiniano: vd., in particolare, S. TAFARO, Il giurista e l’‘ambiguità’. Ambigere, ambiguitas, ambiguus, pp. 59 e ss.; ID., Ambiguitas, pp. 97 e ss., nonché, ancora, MIGLIETTA, op. ult. cit., pp. 240-241 nt. 118 (con indicazioni di fonti e di bibliogra-fia). Dubbi sull’inciso segnalato (condotti fino alle parole ‘ut puta’) sono stati mani-festati — forse, qui, non senza motivo — da G. BESELER, Beiträge, II, p. 28 (cfr. anche ID., Juristische Miniaturen, pp. 53-54 — che, tuttavia, fa sostanzialmente sal-va la parte qui attribuita a Servio — dubbi espressamente ripresi da F. STELLA MA-

RANCA, Intorno ai frammenti di Celso, pp. 118-119 nt. 13); BESELER, op. cit., IV, p. 197 (con segnalazioni accompagnate da eloquenti, quanto caparbi, punti esclamati-vi), mentre il brano era giudicato « incontestatamente genuino » da P. KOSCHAKER, L’alienazione della cosa legata. Appendice III, p. 175 nt. 256; vd., inoltre, M. TA-

LAMANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, pp. 202-203 nt. 578. Per altre riserve critiche sul testo, oltre alle opere ora menzionate, si veda anche M. BOHÀČEK, Note esegetiche, pp. 377-378. Sulla struttura della di-scussione giurisprudenziale si vedano, infatti, le osservazioni di F. HORAK, Rationes decidendi, pp. 226-227 (in particolare).

331 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 191 [Servius, responsorum libri, frg. 79, ‘de usucapione’]. L’autore tedesco rinvia a Vat.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

301

pro herede negavit usucapere Servius, [ scilicet qui <quia?> 333

exist imabat naturalem possessionem penes eum fuisse vivo patre. ]

Fragm. 294 [= frg. 70, ‘de donationibus ad legem Cinciam’, della propria ricostru-zione], e, quanto al testo in sé considerato, lo offre nei seguenti termini: « Filium… donatam rem », et rell.

Il testo omologo di Bas. 50.5.2 [BT. VI, 2361 = Bas. 50.5.3, Hb. V, 67], non presenta scolii e non cita Servio.

332 La congiunzione ‘quoque’ (che in Bas. 5.5.2.2 è raffigurata dalla particella « dš ») lega, sintatticamente, nel Digesto il § 2 al precedente § 1 di D. 41.5.2 [« Quod vulgo respondetur causam possessionis neminem sibi mutare posse, sic ac-cipiendum est, ut possessio non solum civilis, sed etiam naturalis intellegatur. Et propterea responsum est neque colonum neque eum, apud quem res deposita aut cui commodata est, lucri faciendi causa pro herede usucapere posse »]: sul punto vd., tuttavia, in particolare, le osservazioni di G. MACCORMACK, Nemo sibi ipse causam possessionis mutare potest, p. 78.

333 Già l’Aloandro emendava in ‘scilicet quia’ (cfr. G. HALOANDER, Digestorum seu Pandectarum libri Quinquaginta, III, p. 1828, ad h.l. [= D. 41.6.2], in ciò ripre-so, almeno nel dubbio circa l’originaria scrittura, da TH. MOMMSEN, Digesta Iusti-niani Augusti, II, p. 530 nt. 3, ad h.l., e, più recentemente, G. FRANCIOSI, Usucapio pro herede. Contributo allo studio dell’antica hereditas, p. 166), forma testimoniata — così, espressamente (senza considerare, dunque, ‘quia scilicet’ o altre forme in cui vi è soluzione di continuità, come ad esempio, in Iust. Inst. 4.14.4: ‘scilicet ideo quia’) — anche in Proc. VII epist., D. 23.3.67 [= Pal. Proc. 25]; Iul. LII dig., D. 38.1.24 [= Pal. Iul. 695]; Gai. IV ad ed. prov., D. 4.4.12 [= Pal. Gai. 102]; Gai. XI ad ed. prov., D. 23.2.55.1 [= Pal. Gai. 249] — ivi con la correlazione ‘scilicet qui... alioquin qui... scilicet quia’; Gai XVIII ad ed. prov., D. 35.2.81.1 [= Pal. Gai. 321]; Gai. II de verb. obl., D. 45.1.141.7 [= Pal. Gai. 513]; Gai 1.146; 1.200; 2.102; 2.123; 2.229; 4.119 e, finalmente, 4.166; Marcell. XV dig., D. 36.1.46.1 [= Pal. Marcell. 178]; Marcell. XXIII dig., D. 40.1.15 [= Pal. Marcell. 248]; Marcell. XXV dig., D. 48.13.14 [= Pal. Marcell. 251]; Paul. III ad ed., D. 2.13.9 pr. [= Pal. Paul. 117]; Paul. LIV ad ed., D. 41.4.2 pr. [= Pal. Paul. 664]; Paul. IX quaest., D. 28.6.43.2 [= Pal. Paul. 1356]; Ulp. XXIV ad ed., D. 10.4.9.4 [= Pal. Ulp. 721] — in questa sede, commentando il pensiero di Marcello; ibid. [F, sed, rectius, XXXIV ad ed., HALOANDER, op. cit., II, p. 916, rubr.; O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 650 nt. 1], D. 25.4.1.10 [= Pal. Ulp. 984]; Ulp. LXXXI ad ed., D. 39.2.26 [= Pal. Ulp. 1754] — ivi, per contro, commentando Proculo; Ulp. III [ad l. Iul.] de adult., D. 48.5.28.2 [= Pal. Ulp. 1959] nonché Ulp. XI ad l. Iul et Pap., D. 38.2.37 pr. [= Pal. Ulp. 2024]. Il sintagma — che compare anche in Iust. Inst. 1.13.3; 2.10.1; 2.20.34; 4.6.33c; 4.7.1 nonché 4.7.2a — non solo è ricorrente, com’è anche intuiti-vo, ma appare tipico della prosa dei giuristi Proculo, Gaio, Marcello, Paolo e Ulpia-

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302

no, oltre a ricorrere anche in un altro frammento giulianeo, che qui interessa partico-larmente. La forma, omologa, ‘quia scilicet’ è registrata, invece, in Pomp. XXXII ad Sab., D. 8.6.19.1 [= Pal. Pomp. 770]; Gai 2.49; ancora Gai 2.123 (che presenta an-che la forma speculare); Gai 3.56; ai 3.84; Gai. I de verb. obl., D. 46.1.70.5 [= Pal. Gai. 510]; Paul. VIII ad Sab., Vat. Fragm. 1 [= Pal. Paul. †1782: ma vd. LENEL, op. cit., I, col. 1276 nt. 2]; per la cancelleria imperiale, soltanto C.Th. 6.4.34 [a. 408]; infine, direttamente per la Compilazione, Iust. Inst. 2.6.3; 1.2.13 pr. e 4.6.14. Sono state omesse dal censimento, per ovvie ragioni, le forme in cui l’avverbio e la con-giunzione, rispettivamente, ‘scilicet’ e ‘quia’ compaiono intervallati da altri termini, periodi o, comunque, parti del discorso.

La classicità del sintagma sembra sicura: le Istituzioni di Gaio ne testimoniano la originalità (in entrambi i versi: ‘scilicet quia’ e ‘quia scilicet’), mentre la non sover-chia presenza in quelle Giustiniaee può far escludere la sua natura insiticia (e questo al di là di qualche dubbio interpolazionistico, relativo proprio a D. 41.5.2.2, che col-pisce il periodo « scilicet – patre », però in quanto tale: vd. l’assiduo G. BESELER, Miscellanea [in « ZSS. rom. Abt. », XLIV, 1924], p. 378; H. SIBER, Confirmatio donationis, p. 127 — ma, come giustamente rilevato già da G. MAC CORMACK, Na-turalis possessio, p. 55, « yet whithout any attempt at substantiation » — e, pro par-te, ma addirittura senza toccare la validità dell’espressione analizzata, H. HEUMANN

– E. SECKEL, Handlexikon zu den Quellen der römischen Rechts 10, p. 415, s.v. ‘pe-nes’ [c) - bb)]; da ultimo ancora H. HAUSMANINGER, Die bona fides der Ersitzungs-beisitzers im klassischen römischen Recht, p. 64 nt. 124, su cui vd. A. WATSON, The Law of Property in the Later Roman Republic, p. 53 nt. 3, in ordine a cui il tratto in contestazione potrebbe manifestare la ratio che il giurista adrianeo voleva attribuire a quello repubblicano).

Per contro, ‘scilicet qui’ — in una versione che pare tipica della cancelleria giu-stinianea: ‘his scilicet, qui...’ — ritorna in C.I. 1.2.1.43 [Iustinian., a. 534]; in C.I. 4.20.18 pr. [Iustinian., a. 528] e, ancora, in C.I. 4.30.14 pr. [Iustinian., a. 528]. Si possono citare, per la giurisprudenza, Gai. XV ad ed. prov., D. 26.8.11 [= Pal. Gai. ?294: « qui scilicet si quid... »]; Gai. XVII ad ed. prov., D. 29.5.9 [= Pal. Gai. 308: « scilicet, qui senatus... »]; Gai 1.68 [« nisi quod scilicet qui... »]; Pap. X quaest., D. 18.7.5 [= Pal. Pap. 174: « ne scilicet qui careret... »]; Ulp. XXV ad ed., D. 11.7.14.15 [= Pal. Ulp. 752: « sed is scilicet, qui mandavit... »]; Ulp. XXXVI ad ed., D. 27.7.4.3 [= Pal. Ulp. 1032: « qui scilicet cum... »], e, solo per relationem, Ulp. XVIII ad ed., D. 4.9.7.4 [= Pal. Ulp. 629: « culpae scilicet suae qui... »]; Paul. III ad Sab., D. 39.6.9 [= Pal. Paul. *1667: « qui scilicet et... »]. Interessanti, infine, come sorta di sintesi, anche Iust. Inst. 4.7.1, che offrono la costruzione « scilicet quia qui... » (e cfr. anche Iust. Inst. 4.14.4: « scilicet ideo quia, qui... »). Discorso simile, per quanto riguarda la classicità, può essere svolto così come per ‘scilicet quia’ (nonostante vada notata, tuttavia, la minore incidenza statistica nelle fonti della forma ‘scilicet qui’).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

303

[Cui consequens est, ut filius a patre heres institututs res heredita-

rias a patre sibi donatas pro parte coheredum usucapere non pos-

sit] ».

Il passo — dai presupposti non immediatamente perspi-

cui 334, dedicato alla usucapionis ‘pro herede’ 335 — e che manifesta

diverse affinità 336 con quello restituito da Pap. XII resp., Vat.

Fragm. 294 [= Pal. Serv. 69 → Pal. Pap. 700] 337 — è mantenuto

fermo nella versione leneliana, condivisa dal Bremer 338, poiché è as-

Pertanto, entrambi i sintagmi sono ammissibili: per quanto riguarda, però,

D. 41.5.2.2, il periodare « negavit usucapere Servius, scilicet qui existimabat... » risulta maggiormente farraginoso, e meno scorrevole (poiché subito dopo il negare di Servius si chiarirebbe — senza bisogno alcuno — ‘ossia, il quale pensava...’ ), nonché difficile da ricollocare sul piano della coerenza dei tempi verbali (un perfet-to, sviluppato immediatamante in un imperfetto). Sotto questo punto di vista, la so-stituzione già intravista dal Haloander (vd. supra, ad inizio di nota) darebbe ragione, almeno, di una maggiore consonanza tra le parti del testo. Per questo, nella riprodu-zione del frammento, pur mantenendo la lectio della Florentina, si è scelto di indica-re anche la diversa soluzione, e di evidenziare con caratteri espansi i termini ‘qui’ ed ‘existimabat’, mantenendo, in tondo normale, il termine ‘quia’ (nel primo caso, in-fatti, si tratterebbe, in quanto pronome, di un riferimento esplicito a Servio; nel se-condo, va da sé, di una semplice congiunzione).

334 Cfr. G. MAC CORMAK, Naturalis possessio, p. 55. 335 Sul punto vd. M. LAURIA, Possessiones. Età repubblicana 2, p. 163 e TH.

MAYER-MALY, Das Putativproblem bei der usucapio, p. 81; cfr. anche la rubrica del Digesto in cui è inserito il frammento: ‘Pro herede vel pro possessore’.

336 In Vat. Fragm. 294 potrebbe trattarsi, però, della usucapio ‘pro donato’: vd. nuovamente LAURIA, op. et loc. cit.

337 Vd. infra, frg. D.8 . : il Lenel, infatti, ne costruisce un unico frammento pa-lingenetico (e cfr., in particolare, D. DAUBE, Mistake of Law in Usucapion. G. 2. 50, I. 2. 6. 5, p. 736; MAYER-MALY, op. cit., p. 53; WATSON, op. cit., p. 53). Ai fini della presente ricerca, invece, è parso opportuno separare le due parti. Interessanti osser-vazioni, a questo proposito, anche in F. HORAK, Rationes decidendi, pp. 108-109.

338 Vd. LENEL, op. cit., II, col. 331 ad h.l. nonché BREMER, op. et loc. ult. cit.; parimenti FRANCIOSI, op. cit., pp. 166-167 (il quale riporta soltanto la sezione « Fi-lium quoque – vivo patre », occupandosi anche dei dubbi interpolazionistici relativi al tratto « scilicet – in fin. », sostanzialmente respinti quali indici di « atteggiamento ipercritico » [p. 167 nt. 100]).

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« SERVIUS RESPONDIT »

304

sai probabile che la seconda parte — così come è semanticamente

concepita (« cui consequens est – usucapere non possit ») — sia ope-

ra della ulteriore riflessione di Giuliano 339, riflessione condotta a

partire dalle premesse fissate dal responso di Servio. Certo è che Bas.

50.5.2.2 [BT. VI, 2361 = Bas. 50.5.3.2, Hb. V, 67], leggono il testo

come se la seconda parte non fosse presente (« `O d uƒÕj tÕ

dwrhqn aÙtù par¦ toà patrÕj oÙd kat¦ tÕ mšroj tën sun-

klhronÒmwn dÚnatai æj klhronÒmoj di¦ tÁj cron…aj nomÁj de-

spÒsai »), compreso, a ben vedere, il tratto « scilicet – vivo patre »

(che va, tuttavia, mantenuto almeno per ragioni formali — vi è citato,

infatti, il pensiero serviano — sebbene con un minimo segno di per-

plessità) 340.

D.6. – Pomp. VIII ad Q.M., D. 50.16.122 [= Pal. Serv. 85

→ Pal. Pomp. 255; Br. 54 resp.] 341: « Servius ai t , si ita scriptum

sit: ‘filio filiisque meis hosce tutores do’, masculis dumtaxat tutores

datos, quoniam a singulari casu hoc ‘filio’ ad pluralem videtur tran-

sisse continentem eundem sexum, quem singularis prior positus ha-

buisset. [Sed hoc facti, non iuris habet quaestionem: potest enim fie-

ri, ut singulari casu de filio senserit, deinde plenius omnibus liberis

prospexisse in tutore dando voluerit. Quod magis rationabile esse

videtur] ».

339 L’ipotesi è suggerita — pur con qualche distinguo — anche da F. HORAK,

Rationes decidendi, p. 108. 340 Vd. anche supra, nt. 333. 341 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 184

[Servius, responsorum libri, frg. 54, ‘de tutela testamentaria’]. Il corrispondente passo di Bas. 2.2.118 [BT. I, 35; Hb. I, 51], privo di scolii, non

menziona Servio.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

305

Il testo, che esamina la datio tutoris testamentaria disposta

con la clausola generica ‘filio filiisque meis hosce tutores do’ 342, è

proposto in forma coincidente con quella suggerita da Lenel e da

Bremer 343.

Al parere di Servio (« Servius ait – habuisset ») segue la cri-

tica pomponiana (« sed hoc – in fin. ») 344, poiché — come ebbe ad

annotare anche lo Schulz — si è trattato di un caso di pessima inter-

pretazione letterale da parte del giurista repubblicano 345, che risulta

essere — a detta del giurista relatore — irragionevole, in negativo,

rispetto alla soluzione opposta, e causa di confusione tra il piano fat-

tuale e quello giuridico 346.

342 Sul punto cfr. M. LAURIA, Ius romanum, I.1, p. 97. Per i (possibili) rapporti

tra la testimonianza in questione e Quinto Mucio Scevola cfr. S. DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ‘ad Quintum Mucium’, pp. 7, 62-63 [ivi con una svista sul contenuto del brano] e 70 = in « Labeo », VII, 1961, pp. 221, 369 [idem c.s.] e 375.

343 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 333 ad h.l. nonché BREMER, op. et loc. ult. cit. 344 Cfr. A. WATSON, The Law of Persons in the Later Roman Republic, p. 115,

secondo cui, efficacemente, « despite the videtur [il primo, con evidenza], the sub-junctive habuisset suggests that Servius is being quoted as far as the end of that sen-tence ». Di diverso parere sembrerebbe A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpre-tación de las normas en derecho romano, p. 404, il quale parrebbe attribuire anche il séguito del ragionamento a Servio (salva la sanzione finale « quod magis rationabile esse videtur », che viene attribuita a Pomponio). Cfr. ancora WATSON, Narrow, Ri-gid and Literal Interpretation in the Later Roman Republic, pp. 359-360, nonché H.J. WIELING, Testamentsauslegung im römischen Recht, pp. 37 e 122.

345 Vd. F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, p. 95 (« schlechte Wortinterpretation ») = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 149 (giudizio approvato da F. HORAK, Rationes decidendi, p. 204; vd., ora, T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 307); contra, però, F. WIEACKER, The ‘Causa Curi-ana’ and Contemporary Roman Jurisprudence, p. 163 nt. 43, poiché « this interpre-tation, strictly insisting, on the words used ».

346 Sul punto vd. supra, cap. I, §§ 2 e 3.1, ad h.l., sebbene si possa osservare che, a stretto rigore, non si tratta di confusione di piani, bensì di operazione che privilegia il dato letterale-sintattico rispetto a quello teleologico (salvo che a questo volesse al-ludere l’Autore del liber singularis enchiridii): vd. ancora WIEACKER, op. et loc. ult.

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306

D.7. – Venul. II interdict., D. 43.24.4 [= Pal. Serv. 72 →

Pal. Venul. 13; Br. 17 ad ed.] 347: « Servius etiam clam facere

[<ait>], qui existimare debeat sibi controversiam futuram, [ quia non

opinionem cuius et resupinam existimationem esse oporteat, ne me-

lioris condicionis sint stulti quam periti ] ? » 348.

Il testo qui èdito — attraverso il cui principio 349 Servio a-

vrebbe modificato, addirittura, i fondamenti della responsabilità pre-

vista dall’editto di riferimento 350 — è formalmente conforme alla

restituzione dell’autore della Palingenesia 351, ma con segnalazione

di un’incertezza per quanto concerne in periodo « quia – periti ».

cit. (ed anche le considerazioni di A. TORRENT, Salvius Iulianus liber singularis de ambiguitatibus, p. 64).

347 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 236 [Servius, ad edictum ad Brutum, frg. 17, ‘XLII. Interdicta. 12. quod vi aut clam factum est’].

A parere degli Heimbach il testo risultava essere privo di corrispondenze nella codificazione dei Macedoni [vd. Bas. 58.23, Hb. V, 220 e nt. l]; non così, invece, in BT. VII, 2704, in cui — nel titolo ‘partim restitutus’ — appare il passo di Bas. 58.23.4 [« Uenu. “Wsper kaˆ Ð pr£ttwn Óper êfele nom…zein eÙlÒgwj filonei-ke‹sqai, »], che, a parte il nome del giurista autore del frammento (Venuleio), non fa tradizione di Servio. Per questa testimonianza si veda, inoltre, la chiara eco rac-chiusa nella prima parte di quella salvata nel ‘Lexicon’ a ‘Hexábiblos aucta’ (Cod. Par. 1355) I.88 [M.T. Fögen, ed., in « Fontes minores », VIII, 188, linn. 14-17]: « L£qra poie‹ d kaˆ Ð pr£ttwn ti, Óper Ñfe…lei nom…zein eÙlÒgwj filonei-ke‹sqai kaˆ Ð ¥llwj poiîn ½per æj ™m»nuse kaˆ Ð kat¦ ¢p£thn kaˆ Ð prî-

ton poiîn, eta mhnÚwn tù ¢ntid…kJ, Óte m¾ dÚnatai aÙtÕn kwlÚsai ». 348 Il BREMER, op. et loc. ult. cit., muta « cuius » in ‘cui’ e inserisce ‘prodi’ tra

« existimationem » ed « esse oporteat » (vd. anche O. BEHRENDS, Selbstbehauptung und Vergeltung und das Gewaltverbot im geordneten bürgerlichen Zustand nach klassischem römischen Recht, p. 109 nt. 131, per ‘prodesse’).

349 Vd. appena oltre, nt. 354. 350 Vd. A. WATSON, Juristic Decisions in the Later Roman Republic, p. 4. 351 Vd. LENEL, op. cit., II, col. 332 ad h.l. (e vd. M. BRETONE, La tecnica del re-

sponso serviano, p. 15 nt. 17 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 100 e nt. 17, per una ratio convincente).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

307

La lettura del testo — fatta salva, quindi, la sostanza del

principio di diritto — offre l’impressione, piuttosto netta, di essere

frutto della rielaborazione espressiva venuleiana. E questo trova un

qualche appoggio testuale nello Sch. 1 (PS) ad Bas. 58.23.4 (di cui

appena oltre, nel testo), in cui il tratto corrispondente a quello latino

sembrerebbe essere attribuito a Venuleio — anche se, nel testo lati-

no, l’uso del congiuntivo suggerisce di rinviare a Servio.

Quanto all’inserimento della forma verbale ‘ait’, credo possa

essere supposta l’esistenza (o, almeno, il sottendimento di essa) nel-

l’originale in ragione di quanto riportato in Ulp. LXXI ad ed.,

D. 43.24.1.11 [= Pal. Ulp. 1592] 352, ove, in esordio, si ha « idem

ait » — riferito a Labeone — paragrafo che il Lenel 353 ha utilizzato

come antecedente logico del passo venuleiano in questione.

Questa circostanza mi pare possa vincere la diversa resa che,

di D. 43.24.4, ha fatto lo Sch. 1 (PS) ad Bas. 58.23.4 [BS. VIII,

3034] 354, il quale si avvale del verbo « lšgein », che corrisponde,

invece, di preferenza a dicere. Il passo greco — che potrebbe deriva-

re dall’opera di Doroteo 355 — risulta ugualmente importante per il

ricordo espresso del nome del giurista, pur in una versione lacunosa

su altre parti: « ‘Ο Σέρβιος d kaˆ ™ke‹n[on] œλεγε doke‹n

lanq£nein, Óstij Ñfe…lei e„dšnai, æj mšllei tij aÙt[ù] perˆ toà

352 D. 43.24.1.11: « Idem ait et si te volentem ad prohibendum venire deterruerit

aliquis (armis forte) sine ullo dolo malo meo ac propter hoc non veneris, non videri me vim fecisse ».

353 LENEL, op. cit., II, col. 1210 [= Pal. Venul. 12]. 354 Presente — come già detto (supra) — nella sola edizione olandese, tratta ‘e

Cod. ms. Vat. Pii secundi (PS)’ (cfr., infatti, Hb.V, 219-220, nt. k ). Ecco il testo completo « `O Sšrbioj d kaˆ ™ke‹n[on] œlege doke‹n lanq£nein, Óstij Ñfe…lei e„dšnai, æj mšllei tij aÙt[ù] perˆ toà kr…smatoj ¢ntilšgein. E„ mšntoi kat¦

Øperb£llousan ·vqum…an ka‹ . . . 15 . . . mhdn kwlÚesqai ka…toi kaˆ Ñ-

fe…lwn e„dšnai. KwlÚesqai oÙ tÍ ¢pono…v aÙtoà prosšcomen mwr´ oÜsV,

¢ll¦ tÍ toà pr£gmatoj ¢lhqe…v, e„ m¾ a . . . 10 . . . ¢nÒhtoi belt…onoj . . . ». 355 L’ipotesi, non disprezzabile, si deve a C. FERRINI, Di un nuovo palinsesto dei

Basilici, pp. 905 e ss. (e cfr. p. 905) = ID., Opere, I, pp. 359 e ss. (e cfr. p. 363).

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« SERVIUS RESPONDIT »

308

kt…smatoj ¢ntilšgein. E„ mšntoi kat¦ Øperb£llousan ·vqu-

m…an kaˆ ... [15] ... mhdn kwlÚesqai ka…toi kaˆ Ñfe…lwn e„dšnai.

KwlÚesqai oÙ tÍ ¢pono…v aÙtoà prosšcomen mwr´ oÜsV, ¢ll¦

tÍ toà pr£gmatoj ¢lhqe…v, e„ m¾ a ... [10] ... ¢nÒhtoi belt…o-

noj... ».

D.8. – Pap. XII resp., Vat. Fragm. 294 [= Pal. Serv. 69 →

Pal. Pap. 700; Br. 70 resp.] 356: « [1. – Quod pater filiae, quam ha-

buit ac retinuit in potestate, donavit, cum eam donationem testamen-

to non confirmasset, filiae non esse respondi; nam et peculia non

praelegata communia fratrum esse constabat. Diversa ratio est con-

tra legem Cinciam factae donationis. Tunc enim exceptionem volun-

tatis perseverantia doli replicatione perimit; cum pater filiis, quos

habuit ac retinuit in potestate, donat, nihil prodest non mutari volun-

tatem, quoniam quod praecessit totum inritum est. Unde] cum filius

in divisione bonorum penes fratrem quod pater donaverat errore lap-

sus reliquit, portionem eius non esse captam usu Servio Sulpicio

placuit , quod neque frater ipse donaverat neque pater donare pote-

rat. [2. – Cur ergo quod vir uxori dedit, morte soluto matrimonio, si

voluntas perseveravit, fini decimarum auferri non oportere maximi

principes nostri suaserunt et ita senatus censuit? Sed nimirum liberi,

qui repulsam donationis auctoritate iuris tulerunt, aliis rationibus ad

bona patris perveniunt, ac plerique plus habere quam fratres iurgiis

eiusmodi contendunt] » 357.

356 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 189

[Servius, responsorum libri, frg. 70, ‘de donationibus et ad legem Cinciam’]. 357 Può non essere inutile riportare quanto annotano gli editori dei « FIRA. », II,

p. 529 nt. ad cap. 294: « Finis Sch. ad c. 294 uncis incl. aliena manu scripta est ». Sul contenuto del testo, più in generale, vd. J. GAUDEMET, Perseverantia volun-

tatis, pp. 142 e 148 (in particolare) e V. GIUFFRÈ, L’utilizzazioni degli atti giuridici mediante ‘conversione’ in diritto romano, pp. 261 e ss., 273 e ss.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

309

Come per Iul. XLIV dig., D. 41.5.2.2 [= Pal. Serv. 69 → Pal.

Iul. 620; Br. 39 resp.], di cui si è già trattato 358, e per motivazioni

sostanzialmente analoghe, il segmento del passo che rimanda, dun-

que, alla elaborazione serviana coincide con la sola parte centrale del

brano (« cum filius – donare poterat »), così come indicato anche dal

Lenel 359. Il Bremer, invece, segnalava una perplessità d’ordine criti-

co-testuale circa la parte « , quod neque – donare poterat » 360, e si

può presumere che egli pensasse alla presenza di un glossema 361. Di

più, tuttavia, non è detto e l’ipotesi resta, quindi, sostanzialmente

priva di spiegazione 362 (salvo voler insistere sul fatto che, nel tratto

358 Vd. supra, frg. D.5 . (con letteratura citata), e cfr., in questo senso, le anno-

tazioni di BREMER, op. cit., pp. 189 e 191, ad hh.ll. 359 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 331 ad h.l. 360 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit. 361 Su tale problema vd., ad esempio, E. ALBERTARIO, Glossemi in Fr. Vat. 102,

pp. 559 e ss.; ID., Ancora sui glossemi nei Frammenti Vaticani, pp. 520 e ss. = ID., Studi di diritto romano, V, pp. 551 e ss.

362 È da notare che il severo, ma acuto, critico di fonti, S. SOLAZZI, Studi sul-l’‘actio de peculio’ I, pp. 217-218 nt. 20; ID., Studi sull’‘actio de peculio’ II, pp. 236-237 e nt. 20 = ID., Scritti di diritto romano, I, pp. 168-169 e nt. 20, 213 e nt. 20, non abbia avanzato, a proposito di Vat. Fragm. 294, dubbi di critica testuale, ma si sia ‘limitato’ (per così dire) a fornire la dimostrazione — attraverso un meticoloso censimento dei testi — della classicità dell’uso del verbo ‘placere’ (che, nel passo di nostro interesse, regge sintatticamente la citazione di Servio) e, in particolare, della ampia frequenza di esso nella scrittura di Papiniano (e vd., soprattutto sull’uso del verbo segnalato nelle costituzioni imperiali, A.M. HONORÉ, The Severian lawyers: a preliminary survey, pp. 230 nt. 224, con le osservazioni critiche di P. FREZZA, Re-sponsa e quaestiones, pp 263-264 = ID., Scritti, III, pp. 411-412). Non tocca, poi, la parte di Vat. Fragm. 294, oggetto dell’indagine, la critica dello Schulz, giudicata « devastante » (da M. DE FILIPPI, Fragmenta Vaticana. Storia di un testo normativo, p. 151 nt. 126, la quale non manifesta alcuna incertezza sul testo, ivi, pp. 151-154 [e 153, in particolare]), e cfr. F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissen-schaft, p. 301 = ID., Storia della giurisprudenza romana, pp. 432-433). Il passo in oggetto non pare essere stato considerato da G. BRUNS, Quid conferant Vaticana Fragmenta ad melius cognoscendum jus romanum, pp. 112 e ss.

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« SERVIUS RESPONDIT »

310

da ultimo segnalato, l’uso del verbo all’indicativo possa far pensare

ad una motivazione papinianea) 363.

Per quanto riguarda, invece, il § 2 della testimonianza (« cur

ergo – contendunt »), il riferimento espresso ai ‘maximi principes

nostri’ toglie ogni incertezza sull’epoca di cui si sta parlando e,

quindi, sull’attribuzione di quello al giurista relatore 364.

D.9. – Paul. XXXII ad ed., D. 17.2.65.8 [= Pal. Serv. 24

→ Pal. Paul. 495; Br. 9? repr. Scaev. cap. = 5 incert. sed.] 365 :

« [ Item scriptum est posse procuratori quoque meo socium meum re-

nuntiare ]? 366. Quod Servius apud Alfenum ita notat: esse in

potestate domini, cum procuratori eius renuntiatum est, an velit ra-

tam habere renuntiationem. [Igitur is cuius procuratori renuntiatum

est liberatus esse videbitur: an autem ipse quoque qui renuntiavit

363 Senza poter escludere, in tutti i casi, che tale motivazion possa riflettere anco-

ra (almeno in parte) il pensiero del giurista tardorepubblicano. 364 Sul punto rimando a F. WIEACKER, Textstufen klassischer Juristen, p. 356 (e

vd., ora, anche M. DE FILIPPI, Fragmenta Vaticana, pp. 157 e ss.). 365 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 241

[Servius, reprehensa Scaevolae capita, frg. 9, p. 223; plane incertae sedis fragmen-ta, frg. 5, ‘de societate’; ivi, p. 242, il Bremer affermava che « inter responsa (supra p. 207) vel reprehensa Scaevolae capita (p. 221 in realtà, l’Autore alludeva, con ogni probabilità, a p. 223) sententiam recipere ausus non sum »]. Da notare che, ivi, il passo è citato, per refuso, come « D. 17, 3, 65, 8. ».

Per i Basilici vd. appena infra, nel testo. 366 Cfr. F. BONA, Studi sulla società consensuale in diritto romano, p. 43 nt. 68

(« i §§ 3-8 del fr. 65 [...] sono ricchi di richiami alle opinioni dei giuristi precedenti (nell’ordine Cassio, Giuliano, Labeone, Proculo, Servio, Alfeno) — e sarebbero an-cora più ricchi se verosimilmente non fosse stata soppressa all’inizio del § 8 la cita-zione di un altro giurista (Quinto Mucio?) secondo l’integrazione verso cui propende BESELER, Beiträge, 4, 91 ‘Item <apud —>? scriptum est... »), pensiero ribadito ivi, p. 80 nt. 4. L’ipotesi non è immediatamente da scartare, sebbene poggi sul solo dato di critica testuale dell’Autore tedesco, ragione per la quale si è preferito distinguere il tratto iniziale con parentesi quadre in apice ed espressione di dubbio.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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procuratori liberetur, in potestate eius erit, quemadmodum dixi-

mus 367 in eo, qui socio renuntiat] ».

Circa questo passo — in cui si discute della rinuncia alla so-

cietas fatta da un socio al procurator dell’altro socio, dei relativi ef-

fetti, e, in nuce, della « facoltà del socio di rilevare l’intempestività

della rinuncia » stessa 368 — sono probabilmente vicine al vero le

proposte ricostruttive degli autori tedeschi (in particolare, in ordine

alla latitudine della interposizione alfeniana) 369, mentre resta pro-

blematica l’indivuazione di una esatta sedes materiae per la parte

concernente il pensiero di Servio.

A questo proposito, già il Bremer confessava: « inter respon-

sa […] 370 vel reprehensa Scaevolae capita […] 371 sententiam reci-

pere ausus non sum » 372. La strada intrapresa dal Bremer è stata

367 Cfr. ancora BONA, op. cit., p. 42 nt. 67. 368 Per la citazione testuale vd. L. DE SARLO, Alfeno Varo e i suoi digesta, p. 33;

cfr., poi, A. WATSON, The Law of Obligations in the Later Roman Republic, pp. 133 e 205 nonché J.H. LERA, El contrato de sociedad. La casuistica jurisprudencial clá-sica, p. 212. Entrambi gli Autori segnalano, in locc. citt., la (condivisibile) opportu-nità di leggere il testo in discussione alla luce dei §§ 6 e 7.

369 Vd., in particolare, BONA, op. cit., p. 80 nt. 4; D. MANTOVANI, Gli esordi del genere letterario ‘ad edictum’, p. 107 nt. 163 e, ora, C. CASCIONE, Consensus. Pro-blemi di origine, tutela processuale, prospettive sistematiche, p. 405 nt. 24.

370 Sotto la rubrica ‘de societate’ (vd. BREMER, op. cit., pp. 207 e 242). 371 Ivi, BREMER, op. cit., p. 242, rimanda a p. 221 della propria opera, ma si tratta

di una svista, poiché il testo di D. 17.2.65.8 viene nuovamente riportato a p. 223, sub frg. nr. 9 (fatto seguire, coerentemente, da un punto di domanda, segno della diffi-coltà incontrata dall’Autore in sede di collocazione sistematica del medesimo).

372 Cfr. BREMER, op. cit., p. 242, il quale, tuttavia, a p. 223, nella sede che egli attribuisce (ipoteticamente) a D. 17.2.65.8, soggiunge: « Quod ‘scriptum est’, Ser-vius in Mucii iuris civilis libro XIV legisse videtur. Itaque in Mucii fragmentis pone-re debeam ». Per comprendere questa annotazione è necessario considerare il passo di Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30 [= Pal. Paul. 1732; Pal. Q.M. 8; Pal. Serv. 5]: « Mu-cius libro quarto decimo scribit non posse societatem coiri, ut aliam damni, aliam lucri partem socius ferat: Servius in notatis Mucii ait nec posse societatem ita con-trahi, neque enim lucrum intellegitur nisi omni damno deducto neque damnum nisi

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quella di supporre che l’espressione iniziale, « scriptum est », potesse

rimandare ad una visione diretta, ad opera di Servio, del testo mucia-

no, con identificazione del preciso libro del pontifex 373. Questo, tut-

tavia, resta, allo stato dei dati in nostro possesso, un’interessante

congettura (che non sposta, peraltro, l’oggetto della nostra indagine),

ma nulla più di questo.

Per la seconda sede — ossia per i reprehensa Scaevolae ca-

pita — potrebbe militare, il dato testuale, laddove « Servius apud

Alfenum ita notat ». L’uso del verbo ‘notare’, tuttavia, rappresenta

una traccia lessicale discretamente labile, per la ragione che non è, di

per sé, incontrovertibile 374. A questo proposito è di certo interesse

rilevare che lo Sch. 15 (Ca) ad Bas. 12.1.63.7(-8) [BS. II, 513; ad

Bas. 12.1.62.7-8, Hb. I, 775-776], ribadisce, in termini solo parzial-

mente corretti, il concetto secondo cui ‘ciò che anche Servio, come

riporta Alfeno, dice sia vero’ (« Óper kaˆ Ð SeroÚioj [Sšrbioj,

Hb.], æj ¢nafšrei aÙtÕn 'Alf‹noj, ¢lhqj ena… fhsin ») 375. A

stretto rigore di termini, il commento bizantino — tratto dagli scritti

di Stefano 376 — potrebbe rendersi nel senso di Alfeno che ‘refert’

ciò che Servio ‘ait’ essere ‘verum’, e non già, invece, come Servio

che ‘apud Alfenum notat’, come nel passo del Digesto (sebbene la

omni lucro deducto: sed potest coiri societas ita, ut eius lucri, quod reliquum in so-cietate sit omni damno deducto, pars alia feratur, et eius damni, quod similiter re-linquatur, pars alia capiatur ».

373 Vd. nt. precedente. 374 Nonstante possa considerarsi una ricostruzione ragionevole, sarebbe necessa-

rio, in ogni caso, ottenere la prova per cui Alfeno avesse citato — e direttamente — dai ‘capita’ di Servio, e che Paolo avesse avuto — come, peraltro, potrebbe avere avuto — l’originale alfeniano

375 Per il testo di Bas. 12.1.63.7-8 [BT. II, 691], si osservi che Heimbach presen-tava un solo paragrafo unificato, scelta, forse preferibile, ove si osservi che lo scho-lium segnalato accede al § 7 e non al § 8 (così Hb. I, 775-776, ma cfr. anche BT. II, 691, Testimonia, ad lin. 7).

376 Si tratta dell’Índix: vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale legum, p. 274 ad h.l.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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sostanza della citazione — per così dire, Servius per Alfenum — sia

fatta salva).

Deve essere aggiunto, infine, che in ciò che ci è stato conser-

vato dei reprehensa Scaevolae capita compare, tuttavia, e di norma,

il nome del giurista sottoposto a critica, seguito da parte del suo pen-

siero — a differenza del caso presente 377.

D.10. – Paul. L ad ed., D. 40.4.35 [= Pal. Serv. 62 → Pal.

Paul. 641; Br. 55 resp.] 378: « Servius exist imabat iis posse ser-

vis dari testamento directam libertatem, qui utroque tempore, et quo

testamentum fit et quo moritur, testatoris 379 fuerunt [: quae sententia

vera est] ».

Per richiamare la più recente dottrina, il testo di D. 40.4.35

racchiude l’approvazione paolina del ‘dogma serviano’ sulla ‘Maß-

geblichkeit’ del mortis tempus: per la validità della manomissione

testamentaria è necessario che il testatore sia titolare del dominium ex

iure Quiritium sia al momento della redazione dell’atto di ultima vo-

lontà, sia in quello del decesso 380.

377 Cfr. BREMER, op. cit., pp. 220-224 e LENEL, op. cit., II, coll. 323-324 (il qua-le, ultimo, riconnette all’opera soltanto sei passi, contro i quindici dell’altro autore). Quinto Mucio è, poi, sempre citato nei passi selezionati da Lenel, e manca soltanto in due altri — oltre a quello qui discusso — tra quelli isolati da Bremer (ossia Ulp. XXII ad Sab., D. 33.9.3.10 [frg. 4] ed Ulp. XXX ad Sab., D. 17.2.29 pr. [frg. 8d], ricondotto dal Bremer al pensiero di Servio in virtù del contenuto di Gai 3.149 [frg. 8a], Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30 [frg. 8b] e Iust. Inst. 3.25.2 [frg. 8c]).

378 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 185 [Servius, responsorum libri, frg. 55, ‘de libertate testamento data’]. Per quanto ri-guarda i libri Basilicorum, vd. appena infra, nel testo.

379 In questo punto, il BREMER, op. et loc. cit., propone l’inserimento di ‘ex iure Quiritium’, sulla base di un parallelismo instaurato, non senza acutezza, con Gai 2.267.

380 Cfr. T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 319. Su questo frammento si veda già A. WATSON, The Law of Persons in the Later roman Republic, pp. 194-195 (con bibliografia).

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314

Quanto alle parti del testo, e salvo, dunque, il finale — in cui

Paolo adotta un giudizio implicante la corrispondenza della sententia

citata alla realtà delle cose (« quae sententia vera est ») 381 — il

frammento può essere assegnato al nostro giurista 382.

Vi è da aggiungere che la struttura torna, in qualche modo, in

Sch. 1 (Pc) ad Bas. 48.3.35 383 [BS. VII, 2835; Hb. IV, 637], origina-

to dall’ ‡ndix di Doroteo 384, in cui si sposta il riferimento a Servio —

381 Su questo concetto vd. supra, cap. I, passim. 382 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 330, ad h.l. (il quale, inaspettatamente, non pro-

cede ad isolare la chiusa « quae – est »). Deve, invece, essere respinta la cassazione, che parrebbe coinvolgere l’intero frammento, ad opera di G. BESELER, Romanisti-sche Studien, in « ZSS. rom. Abt. », LIV, 1934, p. 19 [« Kontroverse gestrichen (Servius existimabat < — > —] »), poiché basata su presupposti per nulla oggettivi in ordine alla presenza del tempo verbale imperfetto nelle fonti giuridiche romane (cfr. ivi, p. 18, e cfr. ID., Beiträge, IV, 3-4 sub asterisco, con citazione — addirittura — de ‘I promessi sposi’, cap. 37, e critica molto aspra, ma abbastanza ingenerosa, al contributo di H. LÉVY-BRUHL, Examen d’un critérium grammatical de datation. Les temps des verbes employés dans les citations des Jurisconsultes romains, p. 105, in particolare).

383 I contenuti di Bas. 48.3.35 (e del relativo passo salvato in D. 40.4.35) trovano qualche riscontro di sostanza in Ecl. Bas. 2.3.20 = D. 50.17.20 [linn. 4-15, L. Bur-gmann, ed., 86]: « E„p d ¥llwj: teleutîn tij diaq»khn ™po…hse kaˆ ™n aÙtÍ œrgayen oÛtwj: “ ™leuqer…aj ¢xiî p£ntaj toÝj doÚlouj mou ” : met¦ t¾n po…hsin tÁj diaq»khj ™pšzhsen Ð diaqšmenoj kaˆ ˜tšrouj ™pekt»sato doÚ-

louj kaˆ met¦ toàto ™teleÚthsen: Ð klhronÒmoj aÙtoà doÚlouj œcein ½qele

toàj met¦ t¾n po…hsin tÁj diaq»khj tù diaqemšnJ ™pikteq»ntaj lšgwn, Óti

“ ™ke‹noi p£ntwj par¦ tÁj diaq»khj ºleuqerèqhsan, Ôsoi tù tÒte tù diaqe-mšnJ ™doÚleuon kaˆ Ãsan ™n tÍ perious…v aÙtoà ” : ¢ntšlegon dš oƒ doàloi, Óti “ Ð toà diaqemšnou skopÕj toàto ™boÚleto, †na p£ntej oƒ doàloi aÙtoà ™leÚqeroi œsontai met¦ t¾n aÙtoà teleut»n, ka…, ™peˆ Ð skopÕj ™ke…nou

toioàtoj Ãn, k¨n met¦ t¾n tÁj diaq»khj po…hsin ¹m©j ™pekt»sato, to‹j loi-

po‹j suneleuqerwqhsÒmeqa kaˆ ¹me‹j di¦ tÕn toà diaqemšnou skopÒn ”. 'Am-fibol…aj oân oÜshj perˆ tÁj ™leuqer…aj kaˆ ™pˆ toÚtou toà qšmatoj tÍ ¢pÕ

tîn nÒmwn q£lyei oƒ toàta lšgontej doàloi ™leuqerwq»sontai ». Il testo di Bas. 48.3.35 [cfr. BT. VI, 2171] e dell’unico scholium che vi accede [Sch. 1, cfr. BS, VII, 2835] offrono, per contro, una versione ridottissima del passo.

384 Vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale legum, p. 317 ad h.l.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

315

temperato soltanto dall’aggiunta della congiunzione « ka… » 385 — in

coda al commento, rispetto al testo originario, che lo vede aprire il

frammento, a cui segue il giudizio di ‘verità’ (« toàto g¦r kaˆ Ð

Serbios [Sšrbioj, Hb.] epe, kaˆ œstin ¢lhqšj »).

D.11. – Paul. LIV ad ed., D. 41.4.2.8 [= Pal. Serv. 68 →

Pal. Paul. 664; Br. 77 resp.] 386: « Tutor ex pupilli auctione rem,

quam eius putabat esse, emit. Servius ai t posse eum usucapere: [in

cuius opinionem decursum est eo, quod deterior causa pupilli non fit,

si propius habeat emptorem, et, si minoris emerit, tutelae iudicio te-

nebitur ac si alii minoris addixisset: idque et a divo Traiano consti-

tutum dicitur] ».

Il caso proposto riguarda una vendita all’asta di beni pupilla-

ri, nella quale il tutore acquista una certa res, pagando per questa un

prezzo inferiore a quello usuale di mercato 387.

La parte assegnata alla riflessione di Servio coincide, ancora

una volta, con quella proposta da Lenel e da Bremer 388: ivi si affer-

385 In D. 40.4.35, infatti, è la citazione del pensiero di Servio a ‘dominare’, in

qualche modo, l’intero andamento del passo; nella versione dei commentatori bizan-tini, Servio appare, per contro, nella parte estrema, con il ‘còmpito’ di riaffermare ‘anch’egli’ quanto è già stato illustrato.

386 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 191 [Servius, responsorum libri, frg. 77, ‘de usucapione’].

Cfr. Bas. 50.4.2.8-9 [BT. VI, 2356 = Hb. V, 64], senza scolii e senza citazione di Servio.

387 Sulla fattispecie, vd. M. TALAMANCA, s.v. ‘Vendita (diritto romano)’, p. 341 e nt. 368 (e cfr. già, e.g., J.A.C. THOMAS, The Auctions Sale in Roman Law, pp. 51-52).

388 Cfr. ibid., col. 331 ad h.l.; conforme BREMER, op. et loc. cit.: a rigore della morfologia del frammento, si potrebbe ipotizzare che l’assegnazione serviana si ri-duca al solo periodo « Servius ait posse eum usucapere », mentre la fattispecie d’apertura (« Tutor ex pupilli auctione rem, quam eius putabat, emit ») sia, in realtà, paolina. Il che, probabilmente è vero: ma Paolo non deve aver fatto altro che assu-mere la fattispecie ‘decisa’ (già) dal giurista repubblicano, dotandola di una sorta di

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« SERVIUS RESPONDIT »

316

ma che la aggiudicazione al tutore non osta all’acquisto (« tutorem –

usucapere »), visto e « considerato che la cosa doveva essere venduta

in ogni caso » 389.

Il tratto, invece, che si estende dalle parole « in cuius » fino a

« habeat emptorem » (per cui il tutore sarà tenuto, in ragione del mi-

nor prezzo d’acquisto, ad indennizzare il pupillo) 390 risulta essere

una chiara esplicazione del pensiero serviano 391, a cui segue l’ipotesi

contraria — ossia quella dell’acquisto all’incanto di cose dal pupillo,

ad opera del tutore, per un prezzo inferiore a quello reale, (« et, si –

addixisset »), la cui responsabilità è confermata attraverso il richiamo

ad una conforme statuizione dell’imperatore Traiano (« idque – dici-

tur ») 392.

D.12. – Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30 [= Pal. Serv. 5 → Pal.

Paul. 1732; Br. 8b repr. Scaev. cap.] 393: « [Mucius libro quarto de-

cimo scribit non posse societatem coiri, ut aliam damni, aliam lucri

partem socius ferat:] Servius in notatis Mucii ait nec posse societa-

tem ita contrahi, neque enim lucrum intellegitur nisi omni damno de-

autonomia. Prova di ciò è la seguente: il segmento « Servius – usucapere » non ha alcuna possibilità di godere di vita (logica) autonoma quando scollegato dall’incipit « tutor – emit ».

389 Così E. BETTI, Imputabilità dell’inadempimento dell’obbligazione in diritto romano, p. 192.

390 Ibid. 391 La sezione « in cuius – addixisset » è ritenuta integralmente insiticia da U.

VON LÜBTOW, Catos Leges venditioni et locationis dictae. Nachtrag, p. 241 (ma sen-za allegazione della ratio), e vd. A. WATSON, The Law of Persons in the Later Ro-man Republic, pp. 135-136 (anche per l’analisi della critica testuale).

392 E questo al di là dei rilievi critici (cfr. E. LEVY – E. RABEL, Index interpola-tionum, III, col. 209 ad h.l., cui in questa sede è sufficiente rinviare, poiché non coinvolgono la parte, per così dire, serviana del passo). Vd., ora, anche T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 231 (sulla forma verbale adottata).

393 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 222 [Servius, reprehensa Scaevolae capita, frg. 8b, ‘de societate’].

Per le fonti bizantine vd. appena infra, nel testo.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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ducto neque damnum nisi omni lucro deducto: [ sed potest coiri so-

cietas ita, ut eius lucri, quod reliquum in societate sit omni damno

deducto, pars alia feratur, et eius damni, quod similiter relinquatur,

pars alia capiatur ] ? ».

Il passo non presenta particolari difficoltà per quanto riguar-

da l’esordio 394, esplicitamente frutto della elaborazione muciana, di

cui è addirittura citata con precisione la fonte (« Mucius libro quarto

decimo scribit »). Si tratta, evidentemente, del XIV libro ‘de iure ci-

vili’, dedicato alla materia societaria 395. Qualche interrogativo, per

contro, può sorgere dalla parte conclusiva « sed potest – pars alia

capiatur », che potrebbe essere parte integrante dei notata Mucii ser-

viani (come indicato unanimemente sia Lenel sia da Bremer) 396, ov-

vero deduzione ulteriore di Paolo 397.

In realtà, la prima soluzione parrebbe essere quella preferibi-

le, valutato 398 anche quanto contenuto in Gai 3.149 399 e, similmente,

in Iust. Inst. 3.25.2 400.

394 Si veda soltanto, per rilievi critici, G. BESELER, Zu Gaius 3. 149, p. 206, lad-

dove propone di emendare « non <recte ita> posse » e TH. MOMMSEN, Digesta Iu-stiniani augusti, I, p. 501 nt. 6 ad h.l. (il quale suggerisce di leggere ‘probe’ per « posse »).

395 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 757-758 ad h.l. (con rubr. ad lib. e ad tit.).

396 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 323; BREMER, op. et loc. ult. cit., ma vd. anche F. WIEACKER, Societas. Hausgemeinschaft und Erwerbsgesellschaft, pp. 263 e ss.

397 Paolo avrebbe potuto, in ogni caso, far proprio il pensiero serviano: se si os-serva, infatti, la fonte bizantina appena di séguito riportata (ossia Sch. Ca 1 ad Bas. 12.1.30 [BS. II, 465; Hb. I, 740]), si noterà che il tratto (rectius: l’intero tratto) corri-spondente a « sed potest – capiatur » è espressamente riferito da Stefano a Servio (« lšgei to…nun Ð SeroÚioj – Ð d tÕ tr…ton ¢penšgkhtai mšroj »).

398 Sul punto vd., in special modo, F. HORAK, Rationes decidendi, pp. 158 e ss., con le ulteriori (e condivisibili) considerazioni critiche espresse da G. SANTUCCI, Il socio d’opera in diritto romano, pp. 39 e ss. (con letteratura; p. 41, in modo partico-lare: « così deve essere letto il ragionamento serviano nelle parole « neque enim – omni lucro deducto » [...]. Servio a questo punto [...] supera anche qui, come già in

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Gai.3,149 e I.3,25,2, la posizione di Quinto Mucio, venendo a considerare come le-cito — ecco la differenza e la correzione di Servio a Mucio — l’accordo per cui un socio riceve una specifica quota dell’utile netto e sopporta una differente quota di perdite secondo il passivo finale netto »). Cfr. anche K.-M. HINGST, Die societas leonina in der europäischen Privatrechtsgeschichte, pp. 66-67 e 94-95.

399 Gai 3.149: « Magna autem quaestio fuit, an ita coiri possit societas, ut quis maiorem partem lucretur, minorem damni praestet. Quod Q. Mucius <contra natu-ram societatis esse existimavit. Sed Ser. Sulpicius>, cuius etiam praevaluit senten-tia, adeo ita coiri posse societatem existimavit, ut dixerit illo quoque modo coiri posse, ut quis nihil omnino damni praestet, sed lucri partem capiat, si modo opera eius tam pretiosa videatur, ut aequum sit eum cum hac pactione in societatem admit-ti. Nam et ita posse coiri societatem constat, ut unus pecuniam conferat, alter non conferat, et tamen lucrum inter eos commune sit; saepe enim opera alicuius pro pe-cunia valet ». Sulle discussioni sorte in dottrina e relative all’attribuzione a Servio del tratto inserito tra parentesi uncinate vd. S. LONGO, Naturalis obligatio e debitum servi in Gai 3.119a, pp. 77 e ss. (per l’espressione « Serv. Sulpicius, cuius etiam praevaluit sententiam... existimavit... », et rell., si veda il parallelo linguistico segna-lato a proposito di Scaev. II quaest., D. 21.2.69.3 [= Pal. Serv. 30 → Pal. Scaev. 138] → frg. E .18 . , infra, nt. 694. Da notare, inoltre, la svista di J.D. HARKE, So-cietas als Geschäftsführung und das römische Obligationsystem, p. 52 nt. 32, il qua-le richiama — come « Teil von Servius’ Argumentation » — non già, come sarebbe stato corretto, Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30 [= Pal. Serv. 5 → Pal. Paul. 1732], bensì « D. 17.1.30 (Paul. 6 Sab.) » — che, per contro, è di Iul. XIII dig.: la svista, che po-trebbe anche essere, di per sé, veniale (D. 17.1.30 al posto dell’esatto D. 17.2.30) è, tuttavia, resa di certa gravità dal fatto che lo studioso riporta il testo per esteso — quello giulianeo, s’intende — senza accorgersi della incongruenza tra esso (che non contiene affatto ‘parte dell’argomentazione serviana’), da un lato, e Gai 3.149, e Iust. Inst. 3.25.2, dall’altro, a cui fa seguire comunque un commento (sulla forma del testo — come derivante dal pensiero di Servio, in polemica con Quinto Mucio — e sulla sua complessiva genuinità, contro il sospetto di F. WIEACKER, Societas. Haus-gemeinschaft und Erwerbsgesellschaft, p. 264).

400 Iust. Inst. 3.25.2: « De illa sane conventione quaesitum est, si Titius et Seius inter se pacti sunt, ut ad Titium lucri duae partes pertineant, damni tertia, ad Seium duae partes damni, lucri tertia, an rata debet haberi conventio? Quintus Mucius contra naturam societatis talem pactionem esse existimavit et ob id non esse ratam habendam. Servius Sulpicius, cuius sententia praevaluit, contra sentit, quia saepe quorundam ita pretiosa est opera in societate, ut eos iustum sit meliore condicione in societatem admitti: nam et ita coiri posse societatem non dubitatur, ut alter pecu-niam conferat, alter non conferat et tamen lucrum inter eos commune sit, quia saepe opera alicuius pro pecunia valet. Et adeo contra Quinti Mucii sententiam obtinuit, ut illud quoque constiterit, posse convenire, ut quis lucri partem ferat, damno non

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

319

Il brano salvato in D. 17.2.30 è trasferito, poi, in Bas. 12.1.30

[BT. II, 681; Hb. I, 740], che hanno per corredo quattro scholia 401, il

primo dei quali, in particolare, attribuito da Heimbach all’Índix di

Stefano 402, ripercorre con abbondanza di riflessioni ed esemplifica-

zioni, anche interessanti, il testo paolino:

teneatur, quod et ipsum Servius convenienter sibi existimavit: quod tamen ita intel-legi oportet, ut, si in aliqua re lucrum, in aliqua damnum allatum sit, compensatione facta, solum quod superest intellegatur lucri esse ». Intorno ai problemi implicati dai testi ora riportati rinvio alle ampie riflessioni di F. BONA, Studi sulla società consen-suale in diritto romano, pp. 24 e ss.

401 Gli scholia Ca 2, 3 e 4 ad Bas. 12.1.30 sono esplicitamente attribuiti a Cirillo, il primo, e nuovamente a Stefano gli altri due: cfr. BS. II, 465 ad h.l. (a proposito di Cirillo, va segnalato — in via incidentale — che si tratta del secondo giurista bizan-tino conosciuto con questo nome e soprannominato in modo sintomatico, insieme a Stefano, « Ð „ndikeut»j » [cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Prole-gomena, pp. 16, 56 e ss.]: vd. sch. 7 ad Bas. 22.5.31 [BS. IV, 1457 = sch. 2, Hb. II, 558], incipit: « 'Epˆ toÚtou toà ·»matoj ¹ ™nantiof£neia tîn „ndikeutîn dh-loàtai, toà te Kurˆllou kaˆ toà Stef£nou ». Questi, infatti, non va confuso con l’omonimo, più antico e celebrato maestro del V secolo d.C., noto con l’appellativo di « Ð ¼rwj », o, anche, come « Ð koinÕj tÁj o„koumšnhj did£skaloj », indice, secondo le osservazioni del Mortreuil, «de la haute opinion que les jurisconsultes avaient conçue de sa doctrine» [così J.-A.-B. MORTREUIL, Histoire du droit byzantin ou du droit romain dans l’empire d’orient, I, pp. 258-259, vd. anche pp. 137 s. e 301 s.]; P. COLLINET, Histoire de l’école de droit de Beyrouth, pp. 131-132, 275-276; A. SCHMINCK, s.v. ‘Cyril’, p. 573, e, da ultimo, M. MIGLIETTA, Riflessioni intorno a Bas. 23.1.31.1, p. 697 nt. 18). Sull’attività (e sulle relative caratteristiche) dei vari giureconsulti bizantini, vd. ora ampiamente F. GORIA, Il giurista nell’impero romano d’Oriente (da Giustiniano agli inizi del secolo XI), pp. 154 e ss. (con indicazioni bibliografiche).

402 Cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilicorum, p. 272 ad h.l. Giurista operante nella seconda metà del VI secolo (vd. H.J. SCHELTEMA, Über die Werke des Stephanus, p. 5 = ID., Opera minora ad iuris historiam pertinen-tia, p. 331), al pari di Cirillo, Stefano venne designato con l’appellativo « Ð „ndi-keut»j » (cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Prolegomena, p. 49 e nt. 2; Sch. 7 ad Bas. 22.5.31, incipit [BS. IV, 1457 = Sch. 2, Hb. II, 558]): cfr., inoltre, C.E. ZACHARIÄ VON LINGENTHAL, Historiae juris graeco-romani delineatio, p. 24; ID., 'Anškdota, III, pp. 179-180; J.-A.-B. MORTREUIL, Histoire du droit byzantin, I, pp. 132 ss., 148 ss., 290 ss.; C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Prolego-mena, pp. 13 ss., 32, 49 ss., 78 ss.; P. COLLINET, Histoire de l’école de droit, pp. 190

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« SERVIUS RESPONDIT »

320

Sch. 1 (Ca) ad Bas. 12.1.30 [BS. II, 465; Hb. I, 740]: « 'O

Paàloj ¢nafšrei tÕn MoÚkion lšgonta m¾ toiaÚthn dÝnasqai

sun…stasqai koinwn…an, éjte tÕn ›na mn tÕ d…moiron tÁj

toiaÚthj ™piginèskein zhm…aj, ¼misu d kat¦ taÙtÕn toà

kšrdouj ¢pofšresqai: kaˆ g¦r Ð SeroÚioj ™n to‹j o„ke…oij

sunt£gmasin, ™n oŒj ™nÒteuse tÕn MoÚkion, tÕ aÙtÒ fhsi, æj

m¾ sunall£ttesqai koinwn…an toiaÚthn: oÙd g¦r kšrdoj

nohq»setai, e„ m¾ Óper perilimp£netai tÁj zhm…aj ™xairoumš-

nhj, oÜte zhm…a, e„ m¾ Óper ™xairoumšnou pantÕj toà kšrdouj

Øpolimp£netai. [OŒon] sunest»santÒ tinej koinwn…an: sunšbh

d ™n tÍde tÍ ™mpor…v kerd©nai mn aÙtoÝj f/. nom…smata œn

tisi fort…oij, œn tisi d zhmiwqÁnai s/. OÙ dun£meqa kaqarîj

kšrdoj kalšsai tÕ tîn f/. nomism£twn di¦ t¾n genomšnhn

zhm…an, ¢ll' ¢nepil¾ptwj e‡poimen aÙtoÝj kerd©nai t/.

nom…smata. Toàto g¦r ™sti kur…wj kšrdoj, Ö met¦ t¾n

™xa…resin tÁj zhm…aj Øpolimp£netai: kaˆ ™k toà ™nant…ou dš,

e„ sunšbh ™p… tisin fort…oij zhmiwqÁnai aÙtoÝj f/. nom…smata,

œk tinwn dš, Óson ™k tÁj genomšnhj ™p' aÙto‹j ¢goras…aj,

kerd©nai s/. nom…smata, oÙk ¥n tij Ñrqîj kalšsoi t¾n tîn f/.

nomism£twn me…wsin zhm…an kaqar¦n di¦ tÕ ™n mšrei tÁj

™mpor…aj projginÒmenon Ôfeloj tîn diakos…wn nomism£twn,

oátinoj mignumšnou tÍ zhm…v kaqar¦ kriq»setai triakos…wn

nomism£twn genšsqai zhm…a. Lšgei to…nun Ð SeroÚioj dÚnasqai

t¾n toiaÚthn sun…stasqai koinwn…an, †na toÚtou toà kšrdouj,

Óper ™stˆn ØpÒloipon met¦ t¾n p£shj zhm…aj ™xa…resin, Ð mn

e 304; H.J. SCHELTEMA, L’enseignement de droit des antécesseurs, pp. 24 ss., 66 s.; L. BURGMANN – S. TROIANOS, ‘Appendix Eclogae’, pp. 63 ss., 121 ss. nonché N. VAN

DER WAL – J.H.A. LOKIN, Historiae iuris graeco-romani delineatio. Les sources du droit byzantin de 300 à 1453, pp. 41-42; A. SCHMINCK, s.v. ‘Stephen’, p. 1953; E. GÓMEZ ROYO, `H ¢pÕ toà kaloà dapan»matoj kondikt…kioj. La ‘condictio de bene depensis’: una creación escolástica bizantina, p. 399 nt. 15, e, da ultimo, M. MIGLIETTA, Riflessioni intorno a Bas. 23.1.31.1, p. 713 nt. 76.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

321

tÕ d…moiron, Ð d tÕ tr…ton ¢pofšrhtai, kaˆ ™k toà ™nant…ou

taÚthj tÁj zhm…aj, ¼tij Ðmo…wj Øpolimp£netai pantÕj kšrdouj

™xairoumšnou, Ð mn d…moiron, Ð d tÕ tr…ton ¢penšgkhtai

mšroj ».

Il primo dato, non privo di interesse, è rappresentato dalla

espressa dichiarazione, da parte del giurista bizantino, che il parere di

Quinto Mucio (ossia l’ampio intervallo « m¾ toiaÚthn dÝnasqai –

¢pofšresqai: ») è riferito dal giurista Paolo, ciò che è, per così dire,

filologicamente corretto (« Ð Paàloj ¢nafšrei tÕn MoÚkion lš-

getai... »). Questo può essere segno che si tratti effettivamente di

Stefano (il quale, infatti, « nomina costantemente l’autore del fram-

mento [...] che trasporta in greco ») 403 e che, dunque, potesse avere,

assai probabilmente, davanti a sé il testo d’epoca severiana.

Una simile conclusione è tanto più probabile ove si leggano

con attenzione le parole che riconducono alle critiche serviane al

pensiero di Mucio: « kaˆ g¦r Ð SeroÚioj ™n to‹j o„ke…oij sun-

t£gmasin, ™n oŒj ™nÒteuse tÕn MoÚkion, tÕ aÙtÒ fhsi ».

Parallelalemente alla parte relativa di D. 17.2.30, infatti, an-

che nello Sch. 1 (Ca) ad Bas. 12.1.30 si ricorda che ‘Servio, nei suoi

libri, in cui ‘notavit’ (« ™nÒteuse ») 404 Mucio, sostiene (ait: verbo

fhm…) 405 la stessa opinione (lett.: dice la stessa cosa)’, allo stesso

403 Cfr. C. FERRINI, Intorno all’indice de’ Digesti di Stefano. Nota preliminare,

pp. 62-64 (p. 62, per la citazione) = ID, Opere, I, pp. 298-300 (p. 298, per la citazio-ne).

404 Si osservi l’interessante exellenismo « ™nÒteuse »; su tale fenomeno cfr. N. VAN DER WAL, Der Basilikentext und die griechischen Kommentare des sechsten Jahrhunderts, pp. 1158 ss.

405 Il verbo greco lšgein, infatti, corrisponde al latino ‘dicere’, mentre la forma fhm… parrebbe (o, forse, potrebbe) trovare rispondenza, a mio giudizio, piuttosto, in ‘aiere’ (nonostante l’appiattimento operato da É. BOISACQ, Dictionnaire étimologi-que de la langue grecque 4, pp. 1024-1025, ad v. fhm…). Su omologhi aspetti lingui-stici, mi permetto di rinviare a M. MIGLIETTA, Elaborazione di Ulpiano e di Paolo

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« SERVIUS RESPONDIT »

322

modo come Paolo aveva affermato, in origine, che « Servius in nota-

tis Mucii ait... », et rell. 406.

Lo scholium, poi, offre ancora alcuni spunti di riflessione in

ordine alla sua struttura (e, probabilmente, alle stesse fonti che lo

hanno germinato).

Se, infatti, il nucleo è obiettivamente paolino — e a questa

conclusione conduce un semplice raffronto ‘di sostanza’ tra i temi

discussi in Bas. 12.1.30 e quelli originariamente contenuti in

D. 17.2.30 — il testo è il risultato di una stratificazione più comples-

sa, poiché pare aver risentito di altre fonti, quali, soprattutto, Iust.

Inst. 3.25.2 407 nonché il parallelo passo della cosiddetta ‘Parafrasi di

Teofilo’ 408.

intorno al ‘certum dicere’, pp. 37 e ss., 94 e ss. = ID., Intorno al ‘certum dicere’, pp. 253 e ss.

406 La circostanza che Paolo, da un lato, e Stefano, dall’altro, non affermino — rispettivamente — o affermino esplicitamente che Servio aderisce alla regula mu-ciana, è dovuta, in realtà, soltanto alla struttura retorica (parzialmente diversa) dei due brani. Ma non vi è diversità di sostanza. In entrambi i casi il ragionamento di Servio è diretto a modificare l’assetto di pensiero muciano.

407 Per il relativo testo, vd. supra, nt. 400. 408 Theoph. Par. 3.25.2 [Ferrini, ed., 360-362] (con tipica, quanto interessante,

esemplificazione [« oŒon, ™neporeÚonto kaˆ ¢ndr£poda – in fin. »] relativa al con-tenuto finale della testimonianza di Iust. Inst. 3.25.2 [« et adeo contra Quinti Mucci sententiam – in fin. »], riprodotto nella Parafrasi [« Kaˆ ™pˆ tosoàton ™kr£thsein ¹ toà Seruíu gnèmh ™nantioumšnh tù QuíntJ MucíJ – tÕ Øpoleifqn toàto mÒnon enai kšrdoj nomisqe…n »]):

« Perˆ d ™ke…nou toà p£ktou zhte‹tai, ™¦n Títios kaˆ Séïos metaxÝ ¢ll»lwn pakteÚswsin, †na Títios mn dÚo mšrh lamb£nV toà kšrdouj, kat¦ d tÕ tr…ton zhmiîtai, Ð d Séïos kat¦ dÚo mšrh zhmiîtai toà kšrdouj tÕ g/ ¢poferÒmenoj, e„ œrrwtai tÕ sÚmfwnon. Kaˆ Ð mn Qúintos Múcios tÍ fÚsei tÁj koinwn…aj fhsˆn ™nantioàsqai tÕ toioàton sÚmfwnon kaˆ di¦ toàto m¾

krate‹n tÕ pakteuqn, Ð d Séruios Sulpícios, oá m©llon ™kr£thsen ¹ gnèmh, tÕ ™nant…on fhsˆ di¦ tÕ poll£kij tinwn koinwnîn oÛtw timiwt£thn enai t¾n

spoud¾n perˆ t¾n koinwn…an, éjte d…kaion enai ple…ona kerda…nein aÙtoÝj

kaˆ ™pˆ me…zoni kšrdei e„j koinwn…an aÙtoÝj dšcesqai. Kaˆ g¦r kaˆ oÛtw

koinwn…an sun…stasqai ¢namf…bolÒn ™stin, éjte tÕn mn cr»mata suneisfš-

rein, tÕn d oÙ kaˆ koinÕn enai metaxÝ aÙtîn tÕ projginÒmenon kšrdoj.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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D.13. – Paul. XIV ad Sab., D. 41.1.26 pr. [= Pal. Serv. 67

→ Pal. Paul. 1868; Br. 75 resp.] 409: « [ [Sed si meis tabulis navem

fecisses, tuam navem esse, quia cupressus non maneret, sicuti nec

lana vestimento facto, sed cupresseum aut laneum corpus fieret.] ?

Proculus indicat hoc iure nos uti,] quod Servio et Labeoni pla-

cuisset [ : ? ] in quibus propria qualitas exspectaretur, si quid additum

erit, toto cedit, ut statuae pes aut manus, scypho fundus aut ansa, lec-

to fulcrum, navi tabula, aedificio cementum: tota enim eius sunt,

cuius ante fuerant » 410.

PÒll£kij g¦r ¹ spoud¾ ˜nÕj tîn koinwnîn sa dÚnatai tÍ tîn crhm£twn

suneisfor´. Kaˆ ™pˆ tosoàton ™kr£thsen ¹ toà Seruíu gnèmh ™nantioumšnh tù QuíntJ MucíJ, Óti kaˆ ™ke‹no tîn æmologhmšnwn gšgone dÚnasqai pakte-Úein toÝj koinwnoÝj †na tij ™x aÙtîn kšrdouj mn mšroj ¢pofšrhtai, m¾ Ø-

pob£llhtai d zhm…v. “Oper oÛtw noÁsai cr¾, †na ™¦n ™n tinˆ mšrei kšrdoj,

™n tinˆ d zhm…a prosenecqÍ, compensatíonos [½toi ¢ntellÒgou] ginomšnou, tÕ Øpoleifqn toàto mÒnon enai kšrdoj nomisqe…h. OŒon, ™neporeÚonto kaˆ

¢ndr£poda kaˆ ™sqÁta: ™n tÍ ™mpor…v tÁj ™sqÁtoj zhm…a gšgonen ˜katÕn

nom…smata, ™n d tÍ pragmate…v tîn o„ketîn kšrdoj periepoi»qh triakÒsia

nom…smata. 'Exaire‹tai prÒteron t¦ ˜katÕn nom…smata t¦ tÁj zhm…aj, éjte

™ke…nhn qerapeuqÁnai ™k toà kšrdouj tîn t/ nomism£twn kaˆ t¦ diakÒsia

merisq»setai matexÝ tîn koinwnîn kat¦ t¦ genÒmena p£kta. “Wjte oân ™k

tÒutou de…knutai, Óti ¹n…ka mn kat¦ taÙtÕn kšrdoj kaˆ zhm…a sumbÍ tÍ

koinwn…v À kšrdoj mÒnon, oÙdn çfelhq»setai Ð koinwnÕj ™k toà p£ktou toà

lšgontoj metšcein mn aÙtÕn toà kšrdouj, m¾ Øpoke‹sqai d zhm…v, ¹n…ka d

zhm…a mÒnh sumbÍ, tÒte tÕ Ôfeloj tÕ ™k toà sumfènou de…knutai. 'IdoÝ g¦r

e„ sunagagÒntwn aÙtîn ¢n¦ a nom…smata, toà proeirhmšnou p£ktou para-kolouq»santoj, sunšbh zhm…an mÒnhn genšsqai ™n tÍ ™mpor…v s/ nomism£twn.

Kšrdoj d mhdn, eta dielÚqh ¹ koinwn…a, Ð mn l»yetai § suneis»gage

a nom…smata, Ð d w/ ». 409 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 191

[Servius, responsorum libri, frg. 75, ‘de rerum dominio’]. Bas. 50.1.25 [BT. VI, 2323; Hb. V, 41], sono privi di scholii e del richiamo al

nome di Servio. Cfr. C. FERRINI – J. MERCATI, Editionis Basilicorum heimbachianae supplementum alterum, p. 143 = Basilicorum libri LX. Supplementa editionis Basili-corum heimbachianae [M. Miglietta, cur.], p. 465.

410 Cfr. ibid., II, col. 331 ad h.l.; il BREMER, op. et loc. cit., assume, invece, come serviana anche la parte iniziale (« si meis tabulis – nos uti »).

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« SERVIUS RESPONDIT »

324

Quanto la testimonianza paolina rifletta l’originale parere di

Servio è difficile da stabilire, soprattutto per quanto riguarda la se-

zione d’esordio « sed si meis tabulis – corpus fieret » 411. Ciò può di-

pendere, con riflessi su quella finale (« in quibus – ante fuerant »),

invece, da quanto viene detto da Proculo, per il tramite di Paolo; dal-

la punteggiatura (doppio punto o punto fermo 412, dopo la forma ver-

bale ‘placuisset’: « Proculus indicat hoc iure nos uti, quod Servio

et Labeoni placuisset: [ .] », et rell. 413), e dal fatto che, mentre

nella prima parte si tratta di specificazione 414, nella seconda si verte

in materia di accessione 415.

411 Vd., ad esempio, O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, p.

58 e nt. 70 (che sembrerebbe riferirsi alla sola seconda parte come risalente a Ser-vio).

412 È, la seconda, la scelta operata da Digestum novum, III, p. 172 ad h.l. 413 È, probabilmente, da preferire la soluzione del LENEL, op. et loc. ult. cit., e

questo a partire dalla ricostruzione palingenetica dell’intero frammento 147 di Pro-culo [= frg. 1868, II cpv., Pal. Paul.: LENEL, op. cit., I, col. 1288]. La parte che pre-cede, infatti, il frammento (serviano) di nostro interesse è la seguente: Paul. XIV ad Sab., D. 41.1.24: « In omnibus, quae ad eandem speciem reverti non possunt, dicen-dum est, si materia manente species dumtaxat forte mutata sit, veluti si meo aere statuam aut argento scyphum fecisses, me eorum dominum manere: sed si… », et rell. (ossia D. 41.1.26 pr.). Circa l’espressione « Proculus indicat hoc iure nos uti » vd. T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 528.

Ora, mi pare chiaro come la sezione riportata del frg. Pal. 147 [Proc.] costituisca la premessa di una trattazione unitaria del tema (e si comprende, allora, assai meglio la presenza della doppia congiunzione ‘sed si’ che lega le due parti del discorso, ag-giungendo un concetto al precedente che serve a limitare gli effetti della regola ap-pena enunciata). Si tratta, dunque, di un pensiero ascrivibile a Paolo a cui segue (o, almeno, dovrebbe seguire, se le premesse sono valide) la citazione di (Proculo, e tramite lo stesso di) Servio e Labeone. Resta soltanto una perplessità in ordine al fatto che Lenel abbia attribuito l’intero passo (anche) a Proculo, mentre, per le ra-gioni esposte, si sarebbe dovuta allegare la sola parte centrale (o, in ogni caso, di quella dalle parole « Proculus indicat » fino al termine).

414 Cfr., e.g., Glossa ‘p’ ad h.t., in Digestum novum, III, p. 172. 415 Bas. 50.1.25 cit., non sono di particolare aiuto, poiché esauriscono la loro

breve incursione in materia sulla sola prima parte del testo.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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Da notare, a tal riguardo, che l’edizione del Gotofredo, a dif-

ferenza di quella mommseniana, separa i paragrafi del testo a partire

dalle parole « Proculus indicat », assumendo coerentemente come

punteggiatura del periodo di collegamento, in cui si richiamano i giu-

risti — e dopo ‘placuisset’ — il doppio punto: « Sed si meis tabulis

navem fecisses, tuam navem esse: quia cupressus non maneret, sicuti

nec lana vestimento facto; sed cupresseum aut laneum corpus fieret.

§ 1. [sic!] Proculus indicat, hoc jure nos uti, quod Servio et Labeoni

placuisset: [sic!] in quibus propria qualitas exspectaretur, si quid ad-

ditum erit, toto cedit; ut statuae pes, aut manus, scypho fundus, aut

ansa, lecto fulcrum, navi tabula, aedificio cæmentum: tota enim ejus

sunt, cujus ante fuerant » 416.

Dall’interpretazione del grande giureconsulto francese si può

arguire che la prima sezione (dedicata alla specificazione) vive, per

così dire, di vita autonoma, mentre nella seconda, in materia di ac-

cessione, si richiama il pensiero serviano.

Da aggiungere, infine, che l’elencazione di fattispecie così

suggestive non è comunque priva di reminiscenze giurisprudenziali

più remote in tema dei corpora ex cohaerentibus, come testimoniato

in Alf. VI dig. ab anon. epit., D. 5.1.76 [= Pal. Alf. 23] 417 (e, con

416 Cfr. D. GOTHOFREDUS, Corpus Iuris Civilis Romani, I, p. 779 ad h.l. 417 Alf. VI dig. ab anon. epit., D. 5.1.76 [= Pal. Alf. 23]: « Proponebatur ex his

iudicibus, qui in eandem rem dati essent, nonnullos causa audita excusatos esse in-que eorum locum alios esse sumptos, et quaerebatur, singulorum iudicum mutatio eandem rem an aliud iudicium fecisset. Respondi, non modo si unus aut alter, sed et si omnes iudices mutati essent, tamen et rem eandem et iudicium idem quod antea fuisset permanere: neque in hoc solum evenire, ut partibus commutatis eadem res esse existimaretur, sed et in multis ceteris rebus: nam et legionem eandem haberi, ex qua multi decessissent, quorum in locum alii subiecti essent: et populum eundem hoc tempore putari qui abhinc centum annis fuissent, cum ex illis nemo nunc viveret: itemque navem, si adeo saepe refecta esset, ut nulla tabula eadem permaneret quae non nova fuisset, nihilo minus eandem navem esse existimari. Quod si quis putaret partibus commutatis aliam rem fieri, fore ut ex eius ratione nos ipsi non idem esse-mus qui abhinc anno fuissemus, propterea quod, ut philosophi dicerent, ex quibus

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particulis minimis consisteremus, hae cottidie ex nostro corpore decederent aliae-que extrinsecus in earum locum accederent. Quapropter cuius rei species eadem consisteret, rem quoque eandem esse existimari ».

Intorno a questo testo e alle influenze esercitate dalla filosofia atomistica sulla decisione del giurista vd. supra, ‘Introduzione’, nt. 8 (e così ancora G. ASTUTI, s.v. ‘Cosa (diritto romano e intermedio)’, p. 8). Il frammento alfeniano — analizzato concordemente dalla dottrina sotto questi profili — non dovrebbe mancare, tuttavia, di suscitare interesse per la problematica rigorosamente giuridica che ha condotto il iurisprudens romano a commentare il caso (prospettiva curiosamente rilevata, sep-pure in sintesi, non già da un giurista bensì da S. MAZZARINO, L’umanesimo romano come problema di storiografia giuridica (A proposito di CIL IV 1899 e altri testi), p. 169 e nt. 28, se si eccettua — per quanto mi risulta e in stretta relazione al tema trat-tato — soltanto L. PEPPE, s.v. ‘Popolo (diritto romano)’, p. 326). La sostituzione di un giudice (o addirittura di tutti i giudici) in una causa, e il permenere della res me-desima (cioè della causa, del iudicium), quando ne sia rimasta immutata l’identità, risponde a profonde esigenze di ‘economia processuale’. Questo significa, a vantag-gio (e, quindi, a tutela) delle parti, la possibilità di riassumere il procedimento dal momento della sostituzione dei giudici, senza necessità, dunque, di rinnovare ab origine gli atti già compiuti (e — più gravemente — relativa, eventuale impossibilità di effettuare quelli non ripetibili: si pensi all’esempio più eclatante, ossia la [ri]assunzione di una testimonianza, essendo, nel frattempo, morto il teste). Alla ba-se, dunque, del richiamo al concetto filosofico di identità (« cuius rei speciem eadem consisteret, rem quoque eandem esse existimari ») soggiace un’esigenza tipica e, se vogliamo, sorprendentemente ‘moderna’ di natura giuridico-processuale. Il richiamo a precetti teorico-filosofici (« ut philosophi dicerent... ») risulta, quindi, essere ancil-lare (anzi: meramente strumentale) al soddisfacimento di una esigenza processuale (ha ragione, pertanto, C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europe-a, I, p. 285 nt. 289, quando, a proposito di D. 5.1.76, osserva che si tratta di un re-sponso in cui la motivazione « presenta un’interpretazione della situazione di fatto basata su argomenti concettuali »). E proprio poiché il rifarsi da parte del giurista a tali criteri è ‘strumento’ alla soluzione del caso concreto, lo strumento dimostra la propria validità a prescindere dalla teoria filosofica abbracciata. In altre parole: il fatto che, oggi, non sia accettabile il principio per cui il nostro corpo è formato da infinitesime particelle che si staccano, quotidianamente, da esso per essere immedi-tamente sostituite da altre, che provengono dall’esterno (così, parafrasando il testo alfeniano), questo non elimina il fatto che — obiettivamente — siamo ‘diversi’ da ciò che eravamo cinque, o dieci anni fa (basterebbe osservare una fotografia). Eppu-re nessuno affermerebbe che si tratta — ontologicamente — di due ‘persone diver-se’. Poiché è chiaro a tutti che immutata è rimasta l’identità della persona. Così co-me già concludeva correttamente Alfeno. Cfr. anche T. MASIELLO, Corso di Storia del Diritto Romano, pp. 105 e ss. Per i profili istituzionali si rinvia, invece, a M. KA-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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qualche analogia, anche in Alf. VIII dig. a Paul. epit., D. 32.61

[= Pal. Alf. 73]) 418.

D.14. – Ulp. XVIII ad ed., D. 9.1.1.4 [= Pal. Serv. 17 →

Pal. Ulp. 607; Br. 7 ad l. XII Tab.] 419: « Itaque, ut Servius scri -

SER – K. HACKL, Das römische Zivilprozessrecht 2, p. 354 (in particolare).

418 Alf. VIII dig. a Paul. epit., D. 32.61 [= Pal. Alf. 73]: « Textoribus omnibus, qui sui essent cum moreretur, legatis quesitum est, an et is, quem postea ex his o-stiarium fecisset, legato contineretur. Respondit contineri: non enim ad aliud artifi-cium, sed ad alium usum transductum esse ».

Il thema disputandi è costituito, infatti, dall’accertamento della avvenuta modifi-cazione (o meno) dell’artificium cui il dominus abbia destinato lo schiavo; ove, in-fatti, si giunga alla possibilità di individuare il permanere dell’artificium — ossia il vero e proprio mestiere (qualificato) o l’arte — allora non rileva, ai fini del contenu-to del legato, che lo schiavo stesso sia destinato semplicemente (anche in via più o meno transitoria) all’espletamento di altri servizi domestici. Per questo, ove siano stati legati tutti gli schiavi specializzati nella tessitura, e uno di questi, successiva-mente, sia stato, per così dire, ‘distaccato’ a fungere da portinaio, poiché (o nella misura in cui — forse questo è il senso più proprio del responsum) ha visto mutato l’impiego pratico (usus), e non il suo artificium, sarà ugualmente ricompreso nella disposizione mortis causa (sul punto si vèdano P. VOCI, Diritto ereditario romano, II, p. 301 e nt. 170 [e vd. anche ID., op. cit., II 2, p. 362 e nt. 98], e p. 542 nt. 43; R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, II, p. 306; U. JOHN, Die Auslegung des Legats von Sachgesamtheiten im römischen Recht bis Labeo, p. 22, nonché A. WATSON, The Law of Succession in the Later Roman Republic, p. 148 nt. 5, il quale, ultimo, non si spinge molto oltre la mera traduzione in lingua inglese del-la sanzione « non enim – transductum esse »).

419 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 230 [Servius, ad leges duodecim tabularum libri, frg. 7, VIII.6.10 Br.], che, per svista, riporta il passo come tratto da D. 9.1.1.3-4 (ma cfr. ID., op. cit., II.2, p. 597 [‘Corri-genda et addenda’] ). Da notare, inoltre, che nella lettura dell’autore tedesco, il pas-so risulterebbe interpolato in tutta la parte « quod si propter loci iniquitatem – in fin. », ma il passo va considerato sostanzialmente genuino (vd. infra, cap. III), men-tre lo stesso autore nulla osserva a proposito dell’espressione « propter nimiam fero-ciam » (così pure F. HAYMANN, Textkritische Studien zum römischen Obligationen-recht, III, pp. 360 e ss.).

Il testo corrispondente di Bas. 60.2.1.4 [’Ulpi. BT. VIII, 2746; ΟÙλπ. Hb. V, 257], è accompagnato da un certo numero di scolii, ossia Sch. Pe 4-7 e 45*, 54§-55§ [BS. VIII, 3082, 3085-3086; Sch. 4-7 Hb. V, 257]. Nessuna di queste fonti traman-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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bit , tunc haec actio locum habet, cum commota feritate nocuit qua-

drupes, puta si equus calcitrosus calce percusserit, aut bos cornu pe-

tere solitus petierit, aut mulae < propter nimiam ferociam > ? 420: quod

si propter loci iniquitatem aut propter culpam mulionis, aut si plus

iusto 421 onerata quadrupes in aliquem onus everterit, haec actio ces-

sabit damnique iniuriae agetur » 422.

Si confrontino, a questo proposito, le fattispecie stilizzare nel

frammento ora riportato, con quelle delineate in Alf. II dig. ab anon.

epit., D. 9.1.5 [= Pal. Alf. 6] 423 e ibid., D. 9.2.52.2 [= Pal. Alf. 7]. da, tuttavia, elementi utili all’indagine condotta in questo capitolo.

420 Potrebbe apparire quantomeno curioso che Servio possa aver trattato di ‘ni-mia ferocia’ (testualmente, « propter nimiam ferociam ») a proposito delle mulae. Per la relativa discussione vd., però, infra, cap. III, § 2.2.

421 Sulla natura emblematica di « iusto » vd. G. DONATUTI, Iustus, iuste, iustitia nel linguaggio dei giuristi classici, p. 402 = ID., Studi di diritto romano, I, p. 55.

422 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 325 ad h.l. 423 D. 9.1.5: « Agaso cum in tabernam equum deduceret, mulam equus olfecit,

mula calcem reiecit et crus agasoni fregit: consulebatur, possetne cum domino mu-larum agi, quod ea pauperiem fecisset. Respondi posse »; D. 9.2.52.2: « In clivo Ca-pitolino duo plostra onusta mulae ducebant: prioris plostri muliones conversum plo-strum sublevabant, quo facile mulae ducerent: inter superius plostrum cessim ire coepit et cum muliones, qui inter duo plostra fuerunt, e medio exissent, posterius plostrum a priore percussum retro redierat et puerum cuiusdam obtriverat: dominus pueri consulebat, cum quo se agere oporteret. Respondi in causa ius esse positum: nam si muliones, qui superius plostrum sustinuissent, sua sponte se subduxissent et ideo factum esset, ut mulae plostrum retinere non possint atque onere ipso retrahe-rentur, cum domino mularum nullam esse actionem, cum hominibus, qui conversum plostrum sustinuissent, lege Aquilia agi posse: nam nihilo minus eum damnum dare, qui quod sustineret mitteret sua voluntate, ut id aliquem feriret: veluti si quis asel-lum cum agitasset non retinuisset, aeque si quis ex manu telum aut aliud quid immi-sisset, damnum iniuria daret. Sed si mulae, quia aliquid reformidassent et muliones timore permoti, ne opprimerentur, plostrum reliquissent, cum hominibus actionem nullam esse, cum domino mularum esse. Quod si neque mulae neque homines in causa essent, sed mulae retinere onus nequissent aut cum coniterentur lapsae conci-dissent et ideo plostrum cessim redissent atque hi quo conversum fuisset onus susti-nere nequissent, neque cum domino mularum neque cum hominibus esse actionem. Illud quidem certe, quoquo modo res se haberet, cum domino posteriorum mularum

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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Dalla lettura dei testi emerge — con una certa immediatezza —

l’origine serviana del pensiero, di cui si tratterà più oltre, nella sede

opportuna 424. Qui basti osservare che la ‘trattazione’ in materia di

actio de pauperie va ascritta al nostro giurista, e così l’intero fram-

mento salvato in D. 9.1.1.4 può essergli attribuito.

D.15. – Ulp. XXVIII ad ed., D. 14.3.5 [pr.-]1 [= Pal. Serv.

4 → Pal. Ulp. 824; Br. 7 ad ed.] 425: « [pr. – Cuicumque igitur ne-

agi non posse, quoniam non sua sponte, sed percussae retro redissent » (anche il § 3 di D. 9.2.52 presenta qualche interessante affinità tematica: « Quidam boves vendidit ea lege, uti daret experiundos: postea dedit experiundos: emptoris servus in expe-riundo percussus ab altero bove cornu est: quaerebatur, num venditor emptori dam-num praestare deberet. Respondi, si emptor boves haberet, non debere praestare: sed si non haberet emptos, tum, si culpa hominis factum esset, ut a bove feriretur, non debere praestari, si vitio bovis, debere »).

424 Sul punto vd. infra, cap. III, § 2.1. Si veda, invece, fin da ora per la paternità serviana di D. 9.1.1.4, M.J. GARCÍA GARRIDO, Due tradizioni testuali (Alfeno Varo e Ulpiano) sui danni causati da ‘quadrupedes’, p. 160 (in particolar modo, e contro A. WATSON, The Law of Obligations, p. 281; vd. già J. KERR WYLIE, ‘Actio de paupe-rie’. Dig. Lib. IX, tit. I,, pp. 482 e ss. e 486 e ss.; S. SCHIPANI, Responsabilità ‘ex le-ge Aquilia’. Criteri di imputazione e problema della ‘culpa’, p. 163, con le osserva-zioni critiche di P. ZILIOTTO, L’imputazione del danno aquiliano. Tra ‘iniuria’ e ‘damnum corpore datum’, pp. 108 e ss.). Per la attribuzione a Servio, da ultima, an-che I. PIRO, Damnum ‘corpore suo’ dare, rem ‘corpore’ possidere. L’oggettiva rife-ribilità del comportamento lesivo e della possessio nella riflessione e nel linguaggio dei giuristi romani, pp. 78-79 (con ulteriori annotazioni a p. 81); conformemente G. FALCONE, Rec. a op. ult. cit., p. 295.

425 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 234 [Servius, ad edictum libri duo ad Brutum, frg. 7, ‘XVII. Quod cum magistro navis, institore eove qui in aliena potestate est negotium gestum esse dicetur. 4. quod ius-su’].

Il passo riemerge nella tradizione bizantina in Bas. 18.1.5 [BT. III, 869-570; Hb. II, 227], ove i paragrafi originari hanno subito una inversione (poiché, rispetto a D. 14.3.5, si presentano nell’ordine 1, 2 e principium), ai quali è appuntato lo Sch. Π2 [BS. III, 1064], non privo di interesse — in sé e per sé considerato (vi si menzio-na, infatti, anche il giurista Stefano [cfr. anche C.E. ZACHARIAE A LINGENTHAL, Sup-plementum editionis Basilicorum heimbachianae, p. 167 e Sch. 9-10 = Basilicorum libri LX. Supplementa editionis Basilicorum heimbachianae [M. Miglietta, cur.], p.

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gotio praepositus sit, institor recte appellabitur. ] 1. – Nam et Ser-

vius l ibro primo ad Brutum ait , si quid cum insulario gestum

sit vel eo, quem quis aedificio praeposuit vel frumento coemendo, in

solidum eum teneri ».

Il § 1 è strettamente coerente con il principium — ciò che

deve aver indotto Lenel e Bremer a riportarli unitamente 426 — poi-

ché il secondo costituisce una premessa del primo. Tuttavia, la forma

con la quale Ulpiano introduce ciò che ‘Servius ait’ nel primo libro

del proprio breve commentario ‘ad edictum’ 427 — « nam et Ser-

vius... ait » — pare marcare una differenza tra le due parti. In altre

parole, alla definizione di ciò che si intende per institor, è fatta segui-

re una esemplificazione tratta dal pensiero serviano, che non tocca

espressamente il concetto suesposto (si parla, infatti, di insularius)

ma che ne presuppone le funzioni, e, quindi, le conseguenze sul pia-

no della responsabilità (« in solidum eum teneri »).

D.16. – Ulp. XXXII ad ed., D. 19.2.15.2 [= Pal. Serv. 27

→ Pal. Ulp. 949; Br. 114 resp.] 428: « Si vis tempestatis calamitosae 183) — ma che, tuttavia, non aggiunge nulla di particolarmente rilevante per una maggiore conoscenza del testo qui discusso (né maggiori dati emergono dal rinvio contenutistico che si può fare a `Rwm. ¢gwg. 9.16 [lin. 1, R. Meijering, ed., in « Fon-tes minores », VIII,] 128: « ¡rmÒzei ™pˆ tÁj kat¦ gÁn ™mpor…aj », che si ricollega a Iust. Inst. 4.7.2 e a D. 14.3.3-5 vd. nt. ad loc. cit.].

426 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, coll. 322-323 ad h.l.; BREMER, op. et loc. ult. cit.

427 Cfr. Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.44 [= Pal. Pomp. 178]. 428 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 203

[Servius, responsorum libri, frg. 114, ‘de locatione conductione, de fundo conduc-to’]; il passo è citato nuovamente, ivi, p. 232, a proposito dei ‘ad edictum libri duo ad Brutum subscripti’, e posto a confronto con Gai IX ad ed. prov., D. 13.6.18 pr. [= Pal. 208], che parrebbe, infatti, riprendere implicitamente il pensiero di Servio [e le cui espressioni « in rebus commodatis… diligentia praestanda est… ita ut tantum eos casus non praestet, quibus resisti non possit, veluti… latronum hostiumve incur-sus, piratarum insidias… » sono significative], e vd. appena infra, nel testo. Lo stu-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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contigerit, an locator conductori aliquid praestare debeat, videamus.

S e r v i u s omnem vim, cui resisti non potest, dominum colono prae-

stare debere a i t , ut puta fluminum graculorum sturnorum et si quid

simile acciderit, aut si incursus hostium fiat: si qua tamen vitia ex ip-

sa re oriantur, haec damno coloni esse, veluti si vinum coacuerit, si

raucis aut herbis segetes corruptae sint. Sed et si labes facta sit om-

nemque fructum tulerit, damnum coloni non esse, ne supra damnum

seminis amissi mercedes agri praestare cogatur. Sed et si uredo fruc-

tum oleae corruperit aut solis fervore non adsueto id acciderit, dam-

num domini futurum: si vero nihil extra consuetudinem acciderit,

damnum coloni esse. Idemque dicendum, si exercitus praeteriens per

lasciviam aliquid abstulit. Sed et si ager terrae motu ita corruerit, ut

nusquam sit, damno domini esse: oportere enim agrum praestari con-

ductori, ut frui possit ».

Lenel attribuisce l’intero testo a Servio 429.

Forse l’opinione può essere condivisa — in linea di massi-

ma 430, e nonostante la presenza di espressioni come « ut puta » e,

dioso opera, tuttavia, una ripetizione ‘minimalista’, ossia limitata alle sole parti: « Servius omnem vim cui resisti non potest, dominum colono praestare debere ait, ut puta… si incursus hostium fiat »).

Quanto a Bas. 20.1.15.2 [BT. III, 986; 'Ιδεµ. = ΟÙλπιαν. Hb. II, 342-343], e agli scholia che vi fanno da corredo — ossia Sch. Pa 2-3 e 11§-12§ [BS. III, 1180-1181, 1183; Sch. 3, Hb. II, 343-344] — essi non recano traccia di Servio. Cfr. anche Epit. 7.16.

429 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 326 ad h.l. Per il BREMER, op. cit., invece, vd. su-pra. Sulla restituzione del testo — in base a PSI. XIV, 1449v — e sulla sua attribui-bilità a Servio vd., ampiamente, R. FIORI, La definizione della ‘locatio conductio’, pp. 80 e ss. (con ampia, pregevole esegesi del testo) e, da ultimo, con indicazioni bibliografiche, A. MANTELLO, Natura e diritto da Servio a Labeone, p. 227 nt. 60.

430 Vd., infatti, L. CAPOGROSSI COLOGNESI, L’eredità romana e gli sviluppi me-dievali della ‘remissio mercedis’ nella ‘locatio rei’, pp. 141 (in particolare) e ss., nonché ID., Remissio mercedis, pp. 37 e ss. (così come, da ultimo, pare riprendere nella sostanza le sole regulae iuris F. FERNÁNDEZ DE BUJÁN, Deductio mercedis, forma alternativa de ‘garantía’ del conductor, pp. 159 e ss.).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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soprattutto, come « idemque dicendum » 431 — sia per la presenza

431 Simili formulazioni, infatti, si inseriscono un poco a fatica nello stile servia-no-alfeniano (naturalmente ponendo, come ipotesi di lavoro, che la parte contenuti-stica del passo rifletta, almeno in qualche misura, il codice espressivo della scuola giuridica repubblicana). ‘Ut puta’, difatti, è testimoniato soltanto per epoche succes-sive (soprattutto per i secoli II e III d.C.: cfr. « VIR. », IV, coll. 1347-1348), e la ri-correnza più risalente risulta essere quella di Iav. IX epist., D. 41.3.23 pr. [= Pal. Iav. 114: « ut puta cum aedes ex duabus rebus constant… »]), sebbene già A. CARCA-

TERRA, Struttura del linguaggio giuridico-precettivo romano. Contributi, pp. 183 e ss. (p. 184, in particolare, per la fonte in esame), facesse notare, correttamente, la (com)presenza di termini giuridici, accanto a quella di espressioni di uso comune. Si veda ancora M. TALAMANCA, Pubblicazioni pervenute alla Direzione, in « BIDR. », XCII-XCIII, 1989-1990, p. 883.

Per quanto riguarda, invece, i dubbi interpolazionistici espressi in passato, essi appaiono contrari ad una serena analisi stilistica: si vedano quelli di A. DE MEDIO, Caso fortuito e forza maggiore, pp. 188-189 (richiamati anche da G.I. LUZZATTO, Caso fortuito e forza maggiore come limite alla responsabilità contrattuale, I, pp. 221-222, e cfr. M. KASER, Periculum locatoris, pp. 169 nt. 48 e 172 nt. 62, relativi alla sezione « cui resisti non potest », poiché, in realtà, l’Autore italiano non consi-derava, direttamente e sul punto, altre testimonianze significative, di cui vd., invece, infra, nel testo; né più solida giustificazione si trae da A. GUARNERI CITATI, Miscel-lanea esegetica I, p. 50, che la ritiene « una formulazione dommatica del principio applicato con le interpolazioni precedenti e seguenti » [!]); con qualche esitazione, ancora il De Medio (op. et loc. cit.) in ordine alla parte « et si quid simile acciderit », che trova, invece, un interessante parallelo in Alf. II dig. ab anon. epit., D. 18.6.12 [= Pal. Alf. 12: « si quid accidisset… » — passo che verrà trattato nella parte di que-sti ‘studi’ dedicata all’effettività del metodo serviano] (controdeduzione che può va-lere anche per l’ipotesi di H. NIEDERMEYER, Die Interpolation der Consuetudo re-gionis in Lex 19 C. 4, 65. Ein Beitrag zur Geschichte der byzantinischen Rechtswis-senschaft, pp. 92-93 e nt. 3, intorno al periodo « si vero nihil extra consuetudinem acciderit, damnum coloni esse », il quale, inoltre, si trova in rapporto di solida sim-metria con quello precedente, né, come si vorrebbe, lo Sch. 1 ad Bas. 20.1.80 [BS. III, 1214; Hb. II, 373] pare dimostrare, senza ombra di dubbio, l’interpolazione del punto oggetto di critica, proprio perché richiama i veteres (« ¹ di£taxij to‹j pa-laio‹j nomiko‹j »), che avrebbero, quindi, sancito la regula della ricaduta del dam-num — letteralmente, del periculum, dato l’uso del verbo kinduneÚw — in capo al colono: come, infatti, prosegue il brano, « to‹j [= palaio‹j nomiko‹j] lšgousin, os£kij sumbÍ ti tîn sunecîj ginomšnwn, toàto tù kolwnù kinduneÚe-

sqai... », et rell.). In senso critico si esprimono ancora, infine, A. WATSON, The Law of Obligations, pp. 110 e ss. e, sulla di lui scorta, F. HORAK, Rationes decidendi, p. 104 (e vd. F. WIEACKER, Textstufen Klassischer Jutisten, pp. 256-257, con ulteriore

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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della forma verbale ‘ait’, da cui pare dipendere l’intera trattazione;

sia per lo stile del frammento, con la sua minuta e allettante casisti-

ca 432; sia per la menzione iniziale della ‘vis tempestatis’, che rievoca

Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 29.4.15 [= Pal. Alf. 28]; sia per quella

dell’exercitus praeteriens, che ricorda, linguisticamente, il ‘quidam

praeteriens’ di Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.1 [= Pal. Alf. 7];

sia ancora, e forse meglio, per l’ulteriore parallelo instaurabile con

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 39.2.43 pr. [= Pal. Alf. 5] e — per

quanto riferito del pensiero serviano — con Ulp. LXXXI ad ed.,

D. 39.2.24.4-5 [= Pal. Ulp. 1753 → Pal. Serv. 61], in tema di violen-

za atmosferica 433 (nonché per qualche aggancio tematico con Afr.

VIII quaest., D. 19.2.33 + D. 19.2.35 pr.-1 [= Pal. Afr. 100 → Pal.

Serv. 29]) 434.

D.17. – Ulp. ibid., D. 19.2.19.1 [= Pal. Serv. 28 → Pal.

Ulp. 951; Br. 115 resp.] 435: « [Si quis dolia vitiosa ignarus locaverit

deinde vinum effuxerit, tenebitur in id quod interest nec ignorantia

eius erit excusata: et ita Cassius scripsit.] Aliter atque si saltum pas-

letteratura), in ordine alla contrapposizione tra « vis, cui resisti non potest » e « vitia ex re ipsa », che costituirebbero, letteralmente, il segno di una ‘inaudita illogicità’ del passaggio (poiché connotato da una ratio priva di significato) e, pertanto, della non genuinità dello stesso (vd., però, M. KASER, ‘Periculum locatoris’, p. 171 e F. WUBBE, Vi tempestatis, p. 589; per discussione di dottrina vd. J.D. HARKE, Locatio conductio, Kolonat, Pacht, Landpacht, pp. 17 e ss. – pur con i giusti rilievi mossi da P. PICHONNAZ, Rec., p. 836, con altre indicazioni bibliografiche).

432 Sul punto specifico vd. HORAK, op. cit., p. 103. 433 Si veda a questo riguardo infra, frg. D.24 . . 434 Vd. infra, frg. E .8 . . 435 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 203

[Servius, responsorum libri, frg. 115, ‘de saltu pascuum locato’]. L’omologo passo dei Bas. 20.1.19.1 [BT. III, 987; ΟÙλπιανός. Hb. II, 345] è

corredato di due scolii, ossia Pa 1 e 2 [BS. III, 1183 = Sch. 1, Hb. II, 346] di cui si tratta, appena oltre, nel testo: a questo proposito cfr. anche Epit. 7.7, ed Eisag. 24.15-16 (sul punto cfr., da ultimi, J. SIGNES CODOÑER – F.J. ANDRÉS SANTOS, La Introducción al derecho (Eisagoge) del patriarca Focio, p. 423, ad h.l.).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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cuum locasti, in quo herba mala nascebatur: hic enim si pecora vel

demortua sunt vel etiam deteriora facta, quod interest praestabitur, si

scisti, si ignorasti, pensionem non petes 436, et i ta Servio Labeoni

Sabino placuit ».

Ancora una volta, l’intero frammento viene indicato come

serviano 437 — sebbene venga parimenti ascritto, pro parte, anche a

Cassio Longino 438.

A mio giudizio — e la di là dell’inserimento, da parte di Ul-

piano, del criterio valutativo dell’id quod interest 439 — è opportuno

segnalare che il pensiero serviano si può rintracciare solamente nel

secondo tratto del passo (« aliter – in fin. »): non pare possano esser-

vi dubbi sul fatto che, con il periodo « et ita Cassius scribit », Ulpia-

no abbia indicato la paternità della soluzione relativa alla locatio-

conductio nel giurista del primo secolo d.C. 440.

La struttura stessa del brano offre una simmetria costitutiva

436 Sulle sezioni « nec ignorantia eius erit excusata » e, soprattutto, « si ignora-

sti – petes » vd., per completezza, le riserve espresse da K. VON HELDRICH, Das Ver-schulden beim Vertragsabschluß im klassischen römischen Recht und in der späte-ren Rechtsentwicklung, p. 21. Sulla forma verbale ‘petes’ si vedano M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, pp. 153-154, nonché T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 265

437 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 326 ad h.l. e vd. anche BREMER, op. et loc. cit., il quale elimina solamente il riferimento espresso a Labeone e a Sabino.

438 Vd. LENEL, op. cit., I, col. 115 [= Pal. Cass. 58: « Si quis dolia – et ita Cas-sius scripsit »].

439 Si tratta, infatti, di un criterio posteriore all’epoca tardorepubblicana: cfr. D. MEDICUS, Id quod interest, pp. 8 e ss. (specialmente) e S. TAFARO, La interpretatio ai verba ‘quanti ea res est’ nella giurisprudenza romana. L’analisi di Ulpiano, pas-sim (e pp. 9 e ss., nonché 164-165, in particolare).

440 Cfr. M. KASER, Periculum locatoris, pp. 164 ss. (165 nt. 35, per indicazioni bibliografiche); P. VOCI, L’errore nel diritto romano, pp. 250 e s.; D. MEDICUS, Id quod interest, pp. 154 e ss. (154-155 nt. 1, per la sostanziale genuinità del passo, con letteratura) ed E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e in Gaio, pp. 16 nt. 61, 34 e nt. 154.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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che illumina sul punto: alla prima ipotesi (« si quid dolia vitiosa –

erit excusata »), segue la citazione « et ita Cassius scripsit »; vi è,

quindi, la ripresa del testo con una seconda ipotesi (« aliter atque –

pensionem non petes »), da cui procede — come nel primo caso —

l’affermazione « et ita Servio Labeoni Sabino placuit ».

Se ciò non fosse sufficiente, l’elemento di ideale saldatura tra

la prima parte (« si quis – scripsit ») e la seconda (« si saltum pa-

scuum – placuit ») è rappresentato da quel « aliter atque » che mi pa-

re il chiaro indice non soltanto di due posizioni giurisprudenziali dif-

ferenziate, ma che sono ascrivibili, in origine, al pensiero di diversi

giuristi: Cassio Longino, per il primo corno; Servio, Labeone e Sabi-

no, per il secondo 441.

Per completezza, si osservi che la versione di Bas. 20.1.19.1

[BT. III, 987; ΟÙλπιανός. Hb. II, 345] è corredata da due scÒlia,

ossia da Sch. 1 e 2 (Pa) [BS. III, 1183-1184 = Sch. 1, Hb. II, 346],

che sono stati generati dall’Indice di Stefano 442.

Il primo di questi 443 ricalca, in certo qual modo, lo schema

441 Nonostante, quindi, non si possa risalire agli ‘esattissimi’ termini usati da

Servio (ma questo è un dato generale, assodato, e già più volte sottolineato), questi è autore, in ogni caso, del principio riportato da Ulpiano, principio condiviso anche da Labeone e da Sabino.

442 Vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale legum, p. 277 ad h.l.

443 Sch. 1 (Pa) [BS. III, 1183-1184]: « 'Em…sqws£ soi [p…qouj] ¢gnoîn toÚ-touj tetrÁsqai ½toi saqroàsqai. Nšoj ™mbl[hweˆj] ™n aÙto‹j onoj ØpÕ soà

dišrreuse. Katasceq»somai [™pˆ tÕ] diafšron tÍ kondoÚkti, oÙk œcwn pa-

ra…thsin di¦ t¾n ™pˆ ™lattèmati ¥gnoian. Toàto g¦r K£ssioj boÚle-

tai . “EterÒn ™stin, e„ tÒpon prÕj nom¾n ™pit»deion ™m…sqws£ soi, ™n ú su-

nšbh tin¦j blaber¦j enai bot£naj. 'Entaàqa g£r, e„ t¦ ™piferÒmena prÒba-

ta ™teleÚthse À kaˆ ce…rona gšgone, paršxw tÕ diafšron, ™n ú ºpist£mhn

toiaÚthn fÚsin enai toà tÒpou. E„ d [ºgnÒ]oun, diafšron mšn oÙk

¢paithq»somai: pl¾n tÒ Ó[ti] oÙk ¢pait»sw m…sqwma. Toàto g¦r La-

beîni kaˆ [Serb …J doke ‹ ] ». Sch. 1 ad h.l. [Hb. II, 346]: « 'Em…sqws£ soi p…qouj, ¢gnoîn, toÚtouj te-

trÁsqai ½toi saqroàsqai. `O ¢potiqšmenoj ™n aÙto‹j onoj ØpÕ soà dišr-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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adottato da Ulpiano, poiché, dopo l’illustrazione dell’ipotesi dei do-

lia vitiosa, rileva che ‘Cassio, infatti, così decide’ (letteralmente,

‘vuole’: « toàto g¦r K£ssioj 444 boÚletai »). Parallelamente, an-

che la seconda frazione termina con la medesima chiusura di

D. 19.2.19.1, spostando, solo parzialmente, l’ordine dei giuristi citati:

non più ‘Servio, Labeone, Sabino’, bensì « Labeën kaˆ Sšrbioj,

kaˆ Sab‹noj » 445.

D.18. – Ulp. XLI ad ed., D. 37.9.1.24-25 [= Pal. Serv. 58

reuse. Katasceq»somai ™pˆ tÕ diafšron tÍ kondoÚkti, oÙk œcwn para…thsin

di¦ t¾n ™pˆ ™lattèmati ¥gnoian. Toàto g¦r K£ssioj boÚletai. “EterÒn ™stin,

e„ tÒpon prÕj nom¾n ™pit»deion ™m…sqws£ soi, ™n ú sunšbh tin¦j blaber¦j

enai bot£naj. 'Entaàqa g£r, e„ t¦ prÒbata ™teleÚthse À kaˆ ce…rona

gšgone, paršxw tÕ diafšron, ™n ú ºpist£mhn toiaÚthn fÚsin enai toà tÒpou.

E„ d ºgnÒoun, diafšron mšn oÙk ¢paithq»somai: pl¾n tÕ m…sqwma oÙk

¢pait»sw. Toàto g¦r Labeën kaˆ Sšrbioj, kaˆ Sab…noj ». 444 La forma « K£ssioj » è di BS. III, 1183, mentre si presenta con un solo

sigma, per contro, in Hb. III, 346. 445 Debbo manifestare di aver privilegiato la versione degli Heimbach su quella

olandese (vd. appena supra, nt. 443, ove sono riportate entrambe), contrariamente a quanto, in genere, sia opportuno fare. Quella di Scheltema, infatti, indica corretta-mente la lacuna del testo, o, forse meglio, il luogo in cui il manoscritto si arrestava, poiché in altre sedi, in presenza di lacune, viene determinato il numero delle lettere mancanti, mentre nel caso in esame, vi è un semplice completamento. Tale congettu-ra corrisponde solo alle parole « Toàto g¦r Labeîni kaˆ » ed ivi termina, e viene perfezionata con la sola menzione di Servio, posta tra parentesi quadre (« [Serb…J doke‹] »: cfr. BS. III, 1183, lin. 31 ad h.l.). Integrazione per integrazione, e nell’impossibilità di verificare l’estensione fisica della lacuna (o lo stato originario del testo), non è irragionevole supporre che fosse presente anche il nome del terzo giurista, come nella edizione ottocentesca dei Basilici. Infine, qualunque fosse il te-nore letterale del testo originario, ciò non muta il rilevo circa lo spostamento nell’ordine dei giuristi citati: Labeone compare, comunque, al primo posto (resta il dubbio se Servio fosse il secondo ed ultimo, oppure il secondo di tre, ove fosse menzionato anche Sabino).

A parere, poi, di C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilico-rum, p. 227, ad h.l., lo scÒlion sarebbe desunto dall’ ‡ndix di Stefano, che aveva avanti a sé il testo latino giustinianeo, e che lo parafrasa praticamente in modo inte-grale. Stefano fu l’autore del più esteso commento greco ai Digesta giustinianei.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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→ Pal. Ulp. 1135; Br. 11-12 ad ed.] 446: « Quod si nondum sit cura-

tor [scl.: ventris] 447 constitutus (quia plerumque aut non petitur aut

tardius petitur aut serius datur) ?, Servius aiebat res hereditarias

heredem institutum vel substitutum obsignare non debere, sed tantum

pernumerare et mulieri adsignare. – 25. Idem ait ad custodienda ea,

quae sine custodia salva esse non possunt, custodem ad herede po-

nendum (ut puta pecoris, et si nondum messis vindemiave facta

sit) ?: et si fuerit controversia, quantum deminui oporteat, arbitrum

dandum ».

Non v’è particolare motivo per dubitare della sostanziale ri-

spondenza al pensiero di Servio del testo trasmesso da Ulpiano —

nonostante il Bremer abbia optato per l’omissione della parentetica

« (quia plerumque – datur) » del § 24 448.

Per quanto concerne, poi, il fatto che — appena dopo la cita-

zione espressa di Servio (il quale ‘aiebat’) — si riprenda con ‘idem

ait’, senza soluzione di continuità, questo non significa che qualcosa

di intermedio sia da sottrarre (necessariamente) al pensiero del giuri-

446 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 235-

236 [Servius, ad edictum ad Brutum libri duo, frgg. 11-12, ‘XXIV. De bonorum pos-sessionibus. A. si tabulae testamenti extabunt. 6. de ventre in possessionem mittendo et curatore eius’].

Bas. 40.4.4.24-25 [BT. V, 1799; Hb. IV, 71], non presentano scholia, né ripro-pongono il nome di Servio. Ma un commento è presente in Cod. Taur. B.I.20, sebbe-ne non aggiunga dati utili rispetto alle nostre esigenze (vd., infatti, Sch. 1 ad Bas. 40.4.4: « Taàta g¦r p£nta tù ÑnÒmati tÁj trofÁj perišcontai, æj bib. ld/ tit. a/ dig. $/ kaˆ bib. n/ tit. i$/ dig. mg/ kaˆ md/. » [J. Dittrich, ed., in « Fontes mino-res », IX, 230])

447 Vd., opportunamente, LENEL, op. cit., II, col. 330 ad h.l. 448 Cfr. BREMER, op. cit., p. 235; l’inciso è dato come sospetto anche da E. LEVY

– E. RABEL, Index interpolationum, III, col. 42 ad h.l. (ove non sia saltato il riferi-mento a Bremer). A rigore, allora, un dubbio dovrebbe essere espresso anche con riferimento alla successiva (« ut puta pecoris – facta sit »): entrambe, in altri termi-ni, e secondo questo modo di vedere, potrebbero essere frutto della riflessione ulpia-nea.

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« SERVIUS RESPONDIT »

338

sta repubblicano.

Non vale, infatti, in questa ipotesi, parte del ragionamento

offerto, al contrario, per Ulp. XXII ad ed., D. 9.3.5.12 [= Pal. Ulp.

964; Pal. Serv. 18], con riferimento alle parole « quia neque in sug-

grunda neque in protecto tabula fuerat posita » 449. Bisogna osserva-

re, infatti, che, mentre in D. 9.3.5.12 la prosa apparteneva ad un pa-

ragrafo ulpianeo unitario, nel caso presente la continuità è soltanto

apparente, poiché l’‘idem ait’ coincide con le parole di apertura del

(nuovo) § 25. Per questo motivo si spiega, da un lato, il fenomeno

della ripetizione del richiamo espresso a Servio, e, in secondo luogo,

quello del differente tempo verbale di aiere (« Servius aiebat », nel

§ 24, e « idem ait », in quello immediatamente successivo).

Tale variazione può essere motivata, dunque, con il probabile

taglio di qualche parte intermedia (o di una sutura puntigliosa tra le

due parti residue del testo originario), senza che, per ciò, sia necessa-

rio modificare il tempo del primo predicato verbale, come proposto

da Beseler 450.

D.19. – Ulp. LXIX ad ed., D. 43.17.3.11 [= Pal. Serv. 70

→ Pal. Ulp. 1542; Br. 13 ad ed.] 451: « [ In hoc interdicto [scl.: ‘uti

449 Vd. supra, testo B.18. . 450 Da ‘aiebat’ ad ‘ait’: cfr. G. BESELER, Beiträge, V, p. 70 (ed ID., Romanistiche

Studien, in « ZSS. rom. Abt. », LIV, 1934, p. 20, secondo cui i tempi verbali « sit » e « aiebat » non si accorderebbero tra loro: il che è astrattamente [sintatticamente] vero, ma, sotto il profilo retorico, non è affatto inaccettabile che Ulpiano, presentata la fattispecie al tempo presente [sganciandola, dunque, da una precisa collocazione temporale, ossia quella di Servio], riporti, sul punto, al tempo storico, il parere del giurista repubblicano).

451 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 236 [Servius, ad edictum ad Brutum libri duo, frg. 13, ‘XLII. Interdicta. 6. uti nunc pos-sidetis’].

Il passo non ha riscontro nei Basilici (cfr. BT. VII, 2692 e Hb. V, 217); trova, tuttavia, riverbero in `Rwm. ¢gwg. 9.25 [linn. 10-12, R. Meijering, ed., in « Fontes minores », VIII, 132]: « ”Esti d ¹ ™x aÙtoà katad…kh prÕj t¾n aÙtoà toà

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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possidetis’] 452 condemnationis summa refertur ad rei ipsius aestima-

tionem. [‘Quanti res est’ sic accipimus ‘quanti uniusquisque interest

possessionem retinere’.] ] Servii autem sententiam est existimantis

tanti possessionem aestimandam, quanti ipsa res est [: sed hoc ne-

quaquam opinandum est: longe enim aliud est rei pretium, aliud pos-

sessionis] ».

Il passo in esame presenta una alternanza di pareri, corri-

spondenti, in summa, a quello sostenuto da Ulpiano 453 — che va

pr£gmatoj diat…mhsin kaˆ e„j e‡ti ˜k£stJ diafšrei t¾n nom¾n toà pr£gmatoj

œcein. `O d praetor…an œcwn nom¾n kat¦ pantÕj ˜tšrou kine‹ tÕ oÜti posi-

dštij, pl¾n toà despÒtou ». Appaiono di qualche interesse le trascrizioni in lettere greche « praetor…an » e « tÕ oÜti posidštij » (più tipici del Cod. Paris. Suppl. gr. 624 [P], rispetto a quello laurenziano 80-2 [L]: cfr. MEJERING, op. cit., pp. 13-14).

452 Cfr. O. LENEL, Das Edictum perpetuum 3, pp. 469 e ss. [E. XLIII, § 247]. Cfr., ora, sul testo O. BEHRENDS, Selbstbehauptung und Vergeltung und das Gewalt-verbot im geordneten bürgerlichen Zustand nach klassischem römischen Recht, p. 100 nt. 115.

453 Al di là di ulteriori considerazioni, ve n’è una di carattere stilistico che mi pa-re interessante. È tipicamente ulpianea (e, in ogni caso, testimoniata per giuristi di epoca posteriore a quella serviana) la forma ‘sic accipimus’ (così come simili altre forme del verbo accipere): sull’uso del verbo, e sul suo significato, mi permetto di rinviare a M. MIGLIETTA, Elaborazione di Ulpiano e di Paolo intorno al ‘certum dicere’ nell’edictum ‘generale’ de iniuriis, pp. 64 nt. 71, 82 nt. 103 = ID., Intorno al ‘certum dicere’ nell’edictum ‘generale’ de iniuriis, pp. 226 nt. 71, 239 nt. 103. Si veda, a titolo esemplificativo, la ricorrenza del verbo ‘accipere’ (in varie forme), unito all’avverbio di modo ‘sic’, all’interno dei libri ad edictum ulpianei, e soprattut-to con riferimento alla modalità con la quale deve essere interpretata una clausola dell’editto pretorio: Ulp. I ad ed., D. 39.2.4.5 [= Pal. Ulp. 183: sic accipere debe-mus]; Ulp. III ad ed., D. 50.16.6 [= Pal. Ulp. 215: sic accipiendum est]; Ulp. IV ad ed., D. 2.14.7.5 [= Pal. Ulp. 242: sic accipiendum est]; Ulp. XXII ad ed., D. 11.1.4.1 [= Pal. Ulp. 659: sic accipiendum est]; Ulp. XXIII ad ed., D. 9.4.21.3 [= Pal. Ulp. 681: sic accipere debemus]; Ulp. XXVII ad ed., D. 13.5.1.1 [= Pal. Ulp. 786: sic accipiendum est]; Ulp. LII ad ed., D. 36.4.5.24 [= Pal. Ulp. 1255: sic accipitur]; Ulp. LIII ad ed., D. 39.2.15.5 [= Pal. Ulp. 1277: sic accipe]; Ulp. LV ad ed., D. 39.4.3.1 [= Pal. Ulp. 1306: sic accipiendum est]; Ulp. LVI ad ed., D. 47.8.2.7 [= Pal. Ulp. 1312: sic accipere debemus]; Ulp. LXXVII [rectius: LVII] ad ed., D. 47.10.15.6 [= Pal. Ulp. 1350: sic accipiendum]; Ulp. LIX ad ed., D. 42.1.5.1

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340

contro l’interpretazione (apparentemente) rigida del concetto di ae-

stimatio nell’interdictum ‘uti possidetis’ (« in hoc interdicto – ad rei

ipsius aestimationem »), la quale coincide con quello opposto di Ser-

vio (« Servii autem sententiam – quanti ipsa res est »), che viene re-

spinto (« sed hoc – in fin. ») 454.

Per questo motivo, mi pare che la sezione autenticamente at-

tribuibile al giurista repubblicano corrisponda soltanto alla terza par-

te del testo 455, sebbene l’esordio richiami la stessa tematica 456. E

[= Pal. Ulp. 1379: sic accipiendum est]; Ulp. LXVII ad ed., D. 43.3.1.7 [= Pal. Ulp. 1467: sic accipere debemus]; Ulp. LXVIII ad ed., D. 43.8.2.32 [= Pal. Ulp. 1500: sic accipiendum est]; Ulp. LXVIII ad ed., D. 43.12.1.14 [= Pal. Ulp. 1512: sic accipi]; diversa, invece, la ricorrenza in Ulp. LXXIX ad ed., D. 50.16.71 [= Pal. Ulp. 1713: et si quis non sic accepit], ove ha carattere definitorio dello stesso verbo ‘accipere’, che viene distinto da ‘capere’; Ulp. LXXXI ad ed., D. 39.2.24.1 [= Pal. Ulp. 1752: sic accipiendum est]. Si vedano anche Ulp. I de appell., D. 49.3.1 pr. [= Pal. Ulp. 3: sic accipiendum est]; Ulp. II ad Sab., D. 28.1.21.2 [= Pal. Ulp. 2437: sic accipien-dum est]; Ulp. VI ad Sab., D. 28.7.2.1 [= Pal. Ulp. 2473: sic accipiendum (Celsus)]; Ulp. VIII ad Sab., D. 29.2.30.3 [= Pal. Ulp. 2494: sic accipiendum est]; Ulp. XV ad Sab., D. 28.4.1 pr. [= Pal. Ulp. 2531: sic accipiendum]; Ulp. XXIV ad Sab., D. 33.1.3.5 [= Pal. Ulp. 2667: sic accipiendum]; Ulp. XXV ad Sab., D. 33.8.8.7 [= Pal. Ulp. 2680: sic accipitur]; Ulp. XXXIII ad Sab., D. 24.1.32.9 [= Pal. Ulp. 2776: sic accipere debemus], nonché, infine, Ulp. XLII ad Sab., D. 47.2.46.2 [= Pal. Ulp. 2878: sic accipere debemus].

454 Cfr. anche T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 230. E questo potrebbe spiegare, in qualche modo, la ragione per la quale C. FERRINI, Manuale di pandette, p. 347 nt. 3, abbia sospettato (seppure con cautela) dell’intero periodo finale. A mio parere, tuttavia, si tratta solamente di isolare il segmento « sed hoc – in fin. » dal pensiero di Servio, e non già di cassarlo (persino più o meno completamente, come faceva S. PEROZZI, Istituzioni di diritto romano 2, II, p. 363 nt. 1). Vd., inoltre, am-piamente S. TAFARO, La interpretatio ai verba ‘quanti ea res est’ nella giurispru-denza romana, pp. 24 e ss. (con letteratura). Al di là dell’analisi del passo che l’autore conduce (vòlta a dimostrare che il giurista repubblicano non avesse, in real-tà, peccato di mancata distinzione), le considerazioni svolte tese a fornire la ricostru-zione palingenetica — che qui interessa — suggeriscono di riconsegnare a Servio soltanto una parte del frammento.

455 Il Lenel, invece, non distingue alcunché: cfr. LENEL, op. cit., II, col. 331 ad h.l.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

341

questa fu la soluzione del Bremer, che qui viene accolta 457.

D.20. – Ulp. LXX ad ed., D. 43.21.3 pr.-1 [= Pal. Serv. 71

→ Pal. Ulp. 1583; Br. 15-16 ad ed.] 458: « Servius autem scribit

aliter duci aquam, quae ante per specus ducta est, si nunc per aper-

tum ducatur: nam si operis aliquid faciat quis, quo magis aquam con-

servet vel contineat, non impune prohiberi. [Ego et in specu contra,

si non maior utilitas versetur adversarii.] Servius et Labeo scri-

bunt, si rivum, qui ab initio terrenus fuit, quia aquam non contine-

bat, cementicium velit facere, audiendum esse: sed et si eum rivum,

qui structilis fuit, postea terrenum faciat aut partem rivi, aeque non

esse prohibendum ».

In questo caso, non mi pare esistano ragioni per discostarsi

dalle edizioni del Lenel e del Bremer 459. Anche la parte finale del

brano (« sed et si – in fin. ») appartiene sempre a ciò che « Servius et

Labeo scribunt », come prova il § 2 di D. 43.21.3, in cui compare

456 Queste è la ragione per cui se ne è suggerito un isolamento (soltanto) parzia-

le. 457 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit., seleziona soltanto l’ultima parte (« Servii…

sententia – res ipsa est »). 458 Cfr. ID., op. cit., I, p. 236 [Servius, ad edictum ad Brutum libri duo, frgg. 15-

16, ‘XLII. Interdicta. 10. de aqua cottidiana et aestiva’]. Il passo non trova rispondenza nei Basilici (cfr. BT. VII, 2700 e Hb. V, 218-

219). 459 Cfr. LENEL, op. cit., II, coll. 331-332 ad h.l. (si noti soltanto — e incidenter

tantum — che l’Autore tedesco, in questo caso, ha omesso di riportare l’inciso criti-co ulpianeo [« ego – adversarii »]; tale opzione, però, non è univoca nel suo modus agendi: si veda, ad esempio, il frammento appena precedente nella palingenesia ser-viana [= frg. 70], in cui la parte finale, sempre di Ulpiano, e sempre di censura del pensiero del giurista repubblicano [« sed… opinandum est… – in fin. »] è stata, per contro, fedelmente trascritta). Parimenti, anche BREMER, op. et loc. ult. cit., a propo-sito del § 1 di D. 43.21.3 (che egli isola come frammento autonomo: vd. supra), non segue la prassi di omettere il riferimento a Labeone, e lascia il testo come « Servius et Labeo scribunt… », et rell.

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342

una appendice polemica ulpianea (« mihi videtur urguens et necessa-

ria refectio esse admittenda »).

D.21. – Ulp. LXX [LXXI, Lenel] ad ed., D. 43.24.5.3-6

[= Pal. Serv. 73 → Pal. Ulp. 1592; Br. 20-23 ad ed.] 460: « 3. [Sed et]

Servius [recte] 461 ai t sufficere feminae, viro notum facere opus

se facturum: vel denique sciente eo facere: [ quamquam etiam illud

sufficiat celandi animum non habere ]?. – 4. Item ait , si quis in pu-

blico municipii velit facere, sufficere ei, si curatori rei publicae 462

denuntiet. – [ 5. Si quis, dum putat locum tuum esse, qui est meus,

celandi tui, non mei causa fecerit, mihi interdictum competere. ] ? – 6.

Idem dicit et si servi mei vel procuratoris celandi causa factum sit,

mihi interdictum competere ».

460 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 237

[Servius, ad edictum ad Brutum libri duo, frgg. 20-23, ‘XLII. Interdicta. 13. de re-missionibus’].

Il passo, e i relativi paragrafi (§§ 3-6), trovano riscontro nei libri Basilicorum in Bas. 58.23.5 [BT. VII, 2705, ma non nell’edizione Heimbach, poiché Scheltema of-fre un titolo ‘partim restitutus’; cfr. Hb. V, 220 nt. l, ad h.l.], in ogni caso privi di scholia e della comparsa del nome di Servio. Tracce (però, non particolarmente rap-presentative) del § 3 (oltre che dei §§ 1 e 2) di Bas. 58.23.5 [= D. 43.24.5] ancora in ‘Lexicon’ a ‘Hexábiblos aucta’ I.88 [linn. 17-19, M.T. Fögen, ed., in « Fontes mino-res », VIII, 188]: « Cr¾ d t¾n éran kaˆ t¾n ¹mšran mhnÚein kaˆ poà kaˆ po‹on œrgon poie‹, †na Ð kwlÚwn ™mproqšsmwj ¢pant»sV. De‹ d mhnÚein kaˆ e„j

tÕn okon kaˆ gametÍ kaˆ dioikhtÍ kaˆ f…loij ». 461 Seguo, nell’espunzione del ‘sed et’ iniziale e di ‘recte’, la condivisibile solu-

zione di BREMER, op. et loc. ult. cit., poiché è palese che si tratta di un elemento di collegamento del testo con quanto precede, e di un giudizio di valore espresso da Ulpiano sul pensiero riferito.

462 Il BREMER, op. et loc. ult. cit., osserva, a questo riguardo, che la magistratura del curator rei publicae si ritrova soltanto a partire da testimonianze dell’epoca di Nerva (cfr. Ulp. LXXI ad ed., D. 43.24.3.4 [= Pal. 1592]), ragione per cui egli con-clude che debba trattarsi di una interpolazione, e congettura che, nel testo originario, potesse forse (« fortasse ») trovarsi ‘si servo publico denuntiet’.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

343

In mancanza di altri elementi 463, si può considerare suffi-

cientemente condivisibile la scelta del Lenel circa l’attribuzione (an-

che) del § 5 di D. 43.24.5, dedicato all’interdictum quod vi aut clam,

a Servio 464. Sebbene, infatti, in questo luogo non si faccia cenno al

giurista — a differenza di D. 43.24.5 §§ 3-4 e 6 — la costruzione

della sezione analizzata spinge, ragionevolmente 465, verso questa so-

luzione, ove si consideri la presenza della cadenza espositiva « Ser-

vius recte ait… – item ait… – … – idem dicit… ».

D.22. – Ulp. LXXI ad ed., D. 43.24.7.4 [= Pal. Serv. 74 →

Pal. Ulp. 1594; Br. 18 ad ed.] 466: « [Est et alia exceptio, de qua Cel-

sus dubitat, an sit obicienda: ut puta si incendii arcendi causa vicini

aedes intercidi et quod vi aut clam mecum agatur aut damni iniuria.

Gallus enim dubitat, an excipi oporteret: ‘quod incendii defendendi

causa factum non sit’?]. Servius autem ait , si id magistratus fecis-

463 Vd. appena infra. 464 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 332 ad h.l. 465 Non credo sia possibile escludere in assoluto, infatti, che il § 3 costituisca una

inserzione ulpianea, se si tiene conto del fatto che — in materia di legittimazione attiva all’interdetto de quo (ossia ‘quod vi aut clam’) — Ulpiano potrebbe aver ap-profittato dell’ipotesi serviana (tràdita nel § 4) facendola precedere da un caso dallo stesso prospettato e rilegato con il seguente, come — seppur labilmente — potrebbe indicare la ripresa « idem dicit ». Del resto esisterebbe anche un elemento di paralle-lismo tra il § 5 e il § 7 di D. 43.24.5 [= Pal. Ulp. 1592: « Si quis, cum non denuntias-set opus se facturum eique denuntiatum esset ne faceret, fecerit, utilius puto proban-dum vi eum fecisse »], che potrebbe far ritenere che siano entrambi frutto di rifles-sioni ulpianee, poiché entrambi si sviluppano a partire da un ‘si quis…’, et rell. Nel § 7 compare, tuttavia, la forma verbale ‘puto’ (che non può che essere collegata ad Ul-piano) e che differenzia i due paragrafi. Per queste ragioni, dunque, pare opportuno adeguarsi alla lettura del Lenel.

466 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 236-237 [Servius, ad edictum ad Brutum libri duo, frg. 18, ‘XLII. Interdicta. 12. quod vi aut clam factum est’].

Il testo corrisponde a Bas. 58.23.7.4 [BT. VII, 2706; Hb. V, 220], a cui è allega-to — ma solo nell’edizione olandese — un commento greco, ossia lo Sch. ΠΣ 4 [BS. VIII, 3035-3036], intorno cui vd. infra, nel testo.

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344

set, dandam esse, privato non esse idem concedendum: si tamen quid

vi aut clam factum sit neque ignis usque eo pervenisset, [ simpli litem

aestimandam: si pervenisset, absolvi eum oportere. Idem ait esse,

si damni iniuria actum foret, quoniam nullam iniuriam aut damnum

dare videtur aeque perituris aedibus. [ Quod si nullo incendio id fece-

ris, deinde postea incendium fuerit, non idem erit dicendum ] ? [, quia

non ex post facto, sed ex praesenti statu, damnum factum sit nec ne,

aestimari oportere Labeo ait] ] 467 ».

Due sono le varianti proposte rispetto alla ricostruzione lene-

liana 468.

La prima consiste nell’aver scorporato la fattispecie (« ut pu-

ta – aut damni iniuria ») — così come si è scelto di procedere in tutti

i casi omologhi. Questa, infatti, si trova certamente alla base della

decisione serviana, ma la discussione che la collega a Gallo (e, forse,

non a Celso) 469, suggerisce di sottolineare come Servio affrontasse

467 Per la diversa ipotesi secondo la quale la parte (segnalata in parentesi quadre in apice) che va da « simpli litem aestimandam » fino al termine andrebbe ascritta, invece, al pensiero di Celso, vd. O. BEHRENDS, Das Gewaltmonopol der Magistratur der klassischen Republik in einer Fallentscheidung des Servius Sulpicius Rufus, pp. 285 e ss. (in particolare, dove si propone l’emendazione per cui il tratto inizierebbe, invece, con ‘Celsus ait, eum quocum agatur quod vi aut clam damnandum in id quod interest vel si damni iniuria cum eo actum esset’: e cfr. ivi, p. 286 nt. 10). Per questi motivi la parte serviana parrebbe ridursi alla sola sezione « Servius autem ait – non esse idem concedendum ». La supposizione nasce, però, a sua volta da una analoga operazione proposta da TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani augusti, II, p. 605 nt. 4, ad h.l., supposizione di per sé non irragionevole, ma, tuttavia, pur sempre con-getturale.

468 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 332 ad h.l. Sulla complessa struttura del testo vd., in particolare, J.-F. GERKENS, ‘Aeque periturus...’. Une approche de la causalité dé-passante en droit romain classique, pp. 34 e ss. (e vd. anche ID., État de nécessité et ‘damnum incendii arcendi causa datum’, pp. 122 e ss. = [trad. it.] ID., Regole e pra-tiche in caso di stato di necessità nell’età romana classica, pp. 330 e ss.).

469 Cfr. TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 605 nt. 2 ad h.l., ripreso da P. BONFANTE – C. FADDA – C. FERRINI – S. RICCOBONO – V. SCIALOIA, Digesta Iustiniani Augusti, p. 1246 nt. 5 ad h.l.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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una questione parzialmente diversa, relativa, cioè, alla responsabilità

del magistrato — con ogni probabilità dell’edile curule 470.

La seconda, consiste nell’aver — per così dire — recuperato

il periodo terminale del passo (« quod si nullo incendio – in fin. »),

omesso, per contro, nella Palingenesia iuris civilis, e nell’aver sug-

gerito (seppure con tutte le cautele imposte dal caso) 471, che la prima

parte di esso (« quod si – erit dicendum ») possa ancora rappresenta-

re il secondo colon di una distinctio serviana. Non v’è dubbio, inve-

ce, che l’epilogo sia frutto della riflessione labeoniana svolta, in que-

sti termini, in aderenza alla soluzione di Servio (« quia non – Labeo

ait »).

Il Bremer, da parte sua, ritiene di poter indicare come segno

di interpolazione la sezione « , quoniam nullam iniuriam – aedibus »,

con cui egli esaurisce la relazione del frammento 472. In assenza, tut-

tavia, di miglior prova, credo sia opportuno mantenere il testo così

come salvato nel Digesto 473.

Di non poco interesse, infine, uno scÒlion che accede — ma

soltanto nell’edizione olandese — a Bas. 58.23.7.4 [BT. VII, 2706;

Hb. V, 220], che corrispondono, appunto, a D. 43.24.7.4.

Questo il testo del commento bizantino, e di cui fino all’edi-

470 Oltre che per la competenza specifica, anche per confronto con Alf. III dig. a

Paul. epit., D. 18.6.13(12) [= Pal. Alf. 52] — ove l’edile interviene a distruggere alcuni letti posti sulla pubblica via, ad ingombro della normale circolazione — ed Alf. ibid., D. 19.2.30.1 [= Pal. Alf. 54], dove si cita nuovamente l’aedilis.

471 Maggior certezza sarebbe data se il periodo in questione fosse costruito su un’infinitiva.

472 Vd. BREMER, op. cit., p. 237. 473 Va però detto che tutta la parte che va da « Servius » ad « aedibus » fu de-

pennata già da A. FABER, De erroribus pragmat. et interpretum iuris, 77,5 e, quasi similmente, anche P. BONFANTE, Corso di diritto romano, II.1, p. 406 nt. 4, espelle tutto ciò che si estende da « si tamen quod » fino al termine, mentre il BREMER, op. cit., p. 237, ad h.l., sospetta del periodo « quondam nullam iniuriam aut damnum dare videtur aeque perituris aedibus » (vd., in proposito, anche F. STELLA MARAN-

CA, Intorno ai frammenti di Celso, p. 147).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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zione degli Heimbach è sembrato impossibile risalire in alcun modo

all’autore 474. Invece — dopo il rinvenimento del codex Vaticanus

graecus Pii Secundi 15 475 — si può concludere — anche alla luce

della circostanza per cui sia stato mantenuto il nome latino del mezzo

di tutela giurisdizionale citato nel passo ulpianeo (ossia l’interdictum

quod vi aut clam: « QUOD BIUCLAM ») — per l’alta risalenza dello

scÒlion, e per la attribuibilità, ancora una volta, di esso alla scrittura

di Doroteo 476:

Sch. 4 (PS) ad Bas. 58.23.7.4 [BS. VIII, 3035-3036]:

« ”Esti kaˆ ¥llh [paragraf»], perˆ Âj Ð Kšlsoj ¢mfib£ll[ei,

e„] cr¾ ¢ntit…qesqai. 'E¦n lÒgou c[£]r[in] ›[neka toà]

kwluq[Ánai] ™mprhsmÕn œkoya kaˆ katšstreya t[Õ] toà

ge…tonoj o‡khm[a] kaˆ kine‹ kat' ™moà tÕ QUOD BIUCLAM

„ntšrdikton À tÕn 'Akoulion. 'O [G£lloj g¦r ¢]mfib£l-

[lei].....l.i..... crh.....qen kaˆ diak[Ò]pt[..] ¢llÒtria o„k»mata. E„

mšntoi fq£sei tÕ pàr ™l[qÕn] ›wj ™ke…-nou......en aÙtÕn

¢p[o]lÚ[esqai].. [7 lett.].. TÕ d aÙtÕ enai... [20 lett.]... h kat¦ toà

diakÒyantoj t¦ ¢llÒtria o„kodom»mata. OÙd g¦r ¢dike‹,

oÙd... dikei didÒnai Ð katalÚwn t¦ o„k¾mata e„j § œfqasen Ð

™mprhsmÒj, ™peid¾ e„ kaˆ m¾ ™la..... œmellen ØpÕ purÕj ¢pa.........

mšntoi m¾ par... [™mprh]sm.. katacl..... [toà] ge…tonoj o„khma... [15

lett.]... Ð ™mprhsmÒj. Kaˆ tÕ aÙtÕ lš[gei]... [15 lett.]... met' aÙt[oà]

sumbainÒntwn, ¢ll' ™k tÁj par... [12 lett.]... eietai... di... [10

lett.]... ».

474 Cfr., infatti, C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale legum, p.

323 nt. o) ad h.l., il quale segnala che si riportano soltanto i paragrafi 2, 4 e 5 (relati-vi a D. 43.24.7 → Bas. 58.23.7), ma che « reliqua desiderantur » (e così gli scholia: cfr. Hb. V, 220-221).

475 Cfr. BT. VII, V-VII (e p. V nt. 1, per bibliografia). 476 Vd. già C. FERRINI, Di un nuovo palinsesto dei Basilici, pp. 105 e ss. = in ID.,

Opere, I, pp. 360 e ss.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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Nonostante l’ampia condizione mutila, è assai verosimile —

come ritengono gli editori olandesi — che il commento bizantino

contenesse la menzione di Gallo, sul modello del testo originale lati-

no (« Gallus enim dubitat » – « `O [G£lloj g¦r ¢]mfib£l-

[lei]... ») 477.

Allo stesso modo mi sentirei di indurre che vi fosse citato

(anche) Servio, poiché alla proposizione d’epilogo « idem ait esse, si

damni – aedibus » di D. 43.24.7.4, si riallaccia la parte finale (forte-

mente lacunosa) dello scolio, che, tuttavia, così si esprime: « Kaˆ tÕ

aÙtÕ lš[gei]... [15 lett.]... met' aÙt[oà] sumbainÒntwn, ¢ll' ™k tÁj

par... [12 lett.]... eietai... di... [10 lett.]... ».

La sezione riportata ripercorre, dunque, il richiamo implicito

al giurista tardorepubblicano che già il Digesto operava. Sebbene,

infatti, lo stato di conservazione del brano in lingua greca sia forte-

mente compromesso, soprattutto nelle parti centrale e finale, si po-

trebbe anche supporre che, nella prima, fosse presente esplicitamente

il nome di Servio. E questo tenendo in debito conto il fatto che, in

esordio, non si manca parallelamente di citare Celso (« Ð Kšl-

soj »), all’interno di una versione che pare particolarmente fedele

alla pari sezione dell’originale (in questo punto, infatti, il brano è

pervenuto integro, quindi la menzione di Celso non è frutto di alcuna

integrazione del Cod. ms. Vat. Pii secundi (PS), da cui lo scholium è

tratto) 478.

477 Cfr. BS. VIII, 3036. 478 Per questi motivi, credo sia da respingere la proposta emendativa della catena

testuale di citazioni suggerita da TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 605 ntt. 2 e 3, ad h.l., il quale suggeriva di sostituire « Celsus » con ‘Gallus’, e, cor-relativamente, di cancellare il secondo richiamo « Gallus enim dubitat » (vd. anche P. BONFANTE – C. FADDA – C. FERRINI – S. RICCOBONO – V. SCIALOIA, Digesta Iusti-niani Augusti, p. 1246 ntt. 5 e 6, ad h.l.). All’esordio di D. 43.24.7.4, « est et alia exceptio, de qua Celsus dubitat, an sit obicienda: ut puta si incendii arcendi causa vicini aedes intercidi: et quod vi aut clam mecum agatur aut damni iniuria », infatti, fanno da controcanto, diverse, non insignificanti simmetrie, nell’incipit di Sch. 4

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« SERVIUS RESPONDIT »

348

D.23. – Ulp. LXXVII [rectius: LVII, Lenel] ad ed.,

D. 47.10.15.32 [= Pal. Serv. 80 → Pal. Ulp. 1353; Br. 137 resp.] 479:

« [ Item ] si quis pignus proscripserit venditurus, tamquam a me acce-

perit, infamandi mei causa, Servius ai t iniuriarum agi posse » 480.

Secondo il Bremer, Ulpiano avrebbe provveduto a trasforma-

re l’antico responso serviano in una regola avente carattere generale,

producendo, quindi, una sorta di massimazione del testo (segnalata,

come osservato in casi analoghi, dall’uso della forma verbale

‘ait’) 481. Possiamo limitarci a prendere atto dell’ipotesi (abbastanza

verosimile), senza poter aggiungere altre considerazioni, poiché an-

che le versioni bizantine di Bas. 60.21.15.31-33 [BT. VIII, 2901 =

Hb. V, 629] 482, e di Sch. 24 (Pe) [BS. IX, 3560 = Sch. 28, Hb. V,

629] 483 — di origine doroteana 484 — non vanno molto oltre l’esten-

(PS) ad Bas. 58.23.7.4: « œsti kaˆ ¥llh [paragraf»], perˆ Âj Ð Kšlsoj ¢mfib£ll[ei, e„] cr¾ ¢ntit…qesqai. ”Ean lÒgou c[£]r[in] ›[neka toà] kwluq[Á-

nai] ™mprhsmÕn œkoya kaˆ katšstreya t[Õ] toà ge…tonoj o‡khm[a] kaˆ kine‹

kat' ™moà tÕ QUOD BIUCLAM „ntšrdikton À tÕn 'Akoulion ». 479 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 210

[Servius, responsorum libri, frg. 137, ‘de iniuria’]. Il passo corrisponde a Bas. 60.21.15.31-33 [BT. VIII, 2901 = Bas. 60.21.15, Hb.

V, 629], con Sch. Pe 24 [BS. IX, 3560 = Sch. 28, Hb. V, 629], ma non vi è menzio-ne del nome del giurista.

480 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 333 ad h.l. 481 Così BREMER, op. et loc. ult. cit.: « ex Servii responso Ulpianus regulam ge-

neralem fecit » (sembrerebbero propendere per la risalenza, quantomeno sostanziale, del passo a Servio M. KASER, Das römische Privatrecht, I, p. 470 e nt. 8 ed O. BEH-

RENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, p. 35 nt. 19). 482 Bas. 60.21.15.31-33: « `O pr©gm£ tinoj ¢d…kwj kratîn ØpÒkeitai tÍ

perˆ Ûbrewj ¢gwgÍ, kaˆ Ð ™pˆ ¢t im…v mou progr£yaj ™nšcuron

æsaneˆ labën aÙtÕ ™x ™moà, kaˆ Ð tÕn m¾ creèsthn æj creèsthn Û-

brewj c£rin ¢pokalîn ». 483 Sch. 24 ad Bas. 60.21.15: « 'E£n tij À p£shj tÁj oÙs…aj tinÕj À ˜nÕj

pr£gmatoj aÙtoà Ûbrewj ›neken ™pil£bhtai, tÍ „niouri£roum katšcetai. E„

dš t ij kaˆ tÕ ™mÕn pr©gma æj labën aÙtÕ par ' ™moà e „j

™nšcuron progr£fei æj mšllwn aÙtÕ pipr£skein e „j Ûbr in

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

349

sione del testo ulpianeo, e, anzi, la riducono ulteriormente.

D.24. – Ulp. LXXXI ad ed., D. 39.2.24.4-5 [= Pal. Serv.

61 → Pal. Ulp. 1753; Br. 84b e 87 resp.] 485: « 4. Servius quoque ™m¾n toàto poiîn , katšcetai tÍ „n iour…aroum . E„ d kaˆ tÕn mhdn

aÙtù crewstoànta e‡poi tij enai creèsthn ‡dion Ûbrewj ›neken, tÍ „niou-

ri£roum kaˆ oátoj katšcetai » (le parti da me segnalate con carattere espanso corrispondono, almeno sostanzialmente, al testo ulpianeo). Tale scolio potrebbe es-sere stato tratto dall’Índix di Doroteo: vd. C.G.E. HEIMBACH, Manuale Basilicorum, p. 329 ad h.l.

484 Vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale legum, p. 329 ad h.l.

485 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 194-195 [Servius, responsorum libri, frgg. 84b e 87, ‘damni infecti’], e cfr. p. 232 per il solo § 4.

Il testo non ha corrispondenza nella compilazione macedone, poiché il passo re-lativo di Bas. 58.10.51 [BT. VII, 2660; Hb. V, 209 nt. e, ad h.l.] è mutilo dal § 2 al § 9, compresi (se vedo bene, invece, il § 1 è integro poiché rispecchia, anche nella struttura espositiva, l’andamento dell’omologo § 1 di D. 39.2.24, e così, parimenti, sono stati conservati i §§ 10-12).

Detto per inciso, anche gli scholia che accedono alla parte non conservata di Bas. 58.10.51 (tratti dal Cod. ms. Vat. Pii secundi [PS]), ossia Sch. ΠΣ 1 e 2 [BS. VIII, 3021] — per quanto siano, in ogni caso, di interesse assai relativo, poiché privi di qualsiasi citazione espressa di giuristi romani — mi pare non possano essere rife-riti, comunque, al § 4 di Bas. eod., allo stato attuale mancante, e, quindi, non siano in grado di restiuircene, in qualche modo, il contenuto: lo Sch. 1, infatti, tratta di « δένδροι » cui è prodotta una « ζεµία » (« ... tÒte g¦r dun£meqa lšgein pa-r' a„t…an tîn dšndrwn [ge]gonšnai t¾n zhm…an), argomento trattato nel § 5 di D. eod. (« Si quis aedificium demolitus fuerit, quamvis non usque ad solum, quin interdicto teneatur, dubitari desiit »); non meno certa l’originale posizione dello Sch. 2, che ha per oggetto lo scavo di un fossato (« 'En tù tšlei [kef.] toà [n]a/. tit. toà i/. bib. lšgei, pÒson ¢f…stasqai de‹ tÕn poioànta toioàton Ôrugma »), e che coinvolge, pertanto, direttamente il tema trattato nel § 8 di D. eod. (« Praete-rea si fossam feceris in silva publica et bos meus in eam inciderit, agere possum hoc interdicto, quia in publico factum est »). Resta incerta, invece, l’indicazione di un passo parallelo all’interno dello stesso scholium, da cui si può arguire soltanto la menzione del tit. X — evidentemente di Bas. 58 — e il rimando al ‘termine’ del frammento, qui segnalato come ‘I’, ma, in realtà, LI, essendo probabilmente caduto il decimale (greco) ‘ n/ ’ (appena sopra, le integrazioni, tra parentesi quadre, all’interno dello Sch. 2 sono mie). Il terzo ed ultimo scÒlion, invece, si appunta al §

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« SERVIUS RESPONDIT »

350

putat , si ex aedibus promissoris vento tegulae deiectae damnum vi-

cino dederint, ita eum teneri, si aedificio vitio id acciderit, non si vio-

lentia ventorum vel qua alia ratione, quae vim habet divinam. [Labeo

et rationem adicit, quo, si hoc non admittatur, iniquum erit: quo

enim tam firmum aedificium est, ut fluminis aut maris aut tempestatis

aut ruinae incendii aut terrae motus vim sustinere possit? ]. – 5.

Idem Servius putat , si controversia aquae insulam subverterit,

deinde stipulatoris aedificia ceciderint, nihil eum ex stipulatu conse-

cuturum, quia id nec operis nec loci vitio factum est. Si autem aqua

vitiet fundamenta et sic aedificium ruisset, committi stipulationem

ait [scl.: Servius]: multum enim interesse, quod erat alioquin fir-

mum, vi fluminis lapsum sit protinus, an vero ante sit vitiatum, dein-

10 di Bas. 58.10.51, e non riguarda, pertanto, il passo di nostro interesse (« Qj g£r, Óti oÛtwj ™phrwt»[qh] ` ™¦n di¦ b…tion tîn o„khm£twnÀ di¦ b…tion toà...... h

toà œrgou toà givomšnou stmbÍ zhm…a, ktšcesqa… me '. ['An£gnwqi]...... kaˆ bib.

... tit. b/. dig. ... »; da notare — incidenter tantum — come lo scoliaste abbia prov-veduto a rendere in forma esplicita la clausola della ipotetica stipulatio [« ` ™¦n di¦ b…tion tîn o„khm£twnÀ di¦ b…tion toà...... h toà œrgou toà givomšnou stmbÍ

zhm…a, ktšcesqa… me ' »], che, invece, in D. 43.2.24.10, è data in forma indiretta; ancora, infine, è possibile ricostruire il passo parallelo indicato nella fonte greca: « kaˆ bib. [lq/.] tit. b/. dig. [kd/.] », poiché è lecito arguire che il giurista si riferisse al testo dei Digesta, per due ordini di motivi: in primis, l’indicazione del ‘titolo II’ — proprio dell’opera giustinianea (D. 43.2); in secundis, la menzione del digšston, e non già del kef£laion, per segnalare il paragrafo del passo. Si veda, infatti, a questo riguardo quanto osservato da H.J. SCHELTEMA, Subseciva III. Die Verweisun-gen bei den frühbyzantinischen Rechtsgelehrter, pp. 355 ss. = ID., Opera minora ad iuris historiam pertinanentia, pp. 116 e ss. [e p. 356 p. 117, in particolare: « die älteren Verfasser verweisen also auf ein dig(šston), eine di£t(axij) oder eine ne-ar£, die jüngeren dagegen auf ein kef(£laion) (= Basilikenfragment) », ovviamen-te alludendo, per completezza, anche alle costituzioni del Codex repetitae praelec-tionis — richiamato, talora, espressamente con l’abbreviazione « kwd. » oppure « Kwd. » (vd., e.g., infra, Sch. F, Pa 2 ad Bas. 29.1.75 [BS. V, 2082; Hb. III, 424-425], sub E .2 . ; o come in Sch. Pc 2 [BS. VII, 2703 = Sch. 1, Hb. IV, 521], in-fra, E .4. ) — e alle Novellae: cfr. op. cit., p. 357 = p. 118]; sul punto mi sia con-sentito rimandare, da ultimo, anche a M. MIGLIETTA, Logiche di giuristi romani e bizantini a confronto, p. 268 nt. 160 nonché ID., Riflessioni intorno a Bas. 23.1.31.1, pp. 709-710 e nt. 61 [ove, per svista, « kod. » sta al posto di « kwd. »]).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

351

de sic deciderit. [Et ita Labeo probat: etenim multum interesse,

quod ad Aquiliam pertinet, sanum quis hominem occidat an vero

factum inbecilliorem ] 486 ».

486 Sulla parte finale del passo (« etenim – imbecilliorem »), cfr. G. BRANCA, La

responsabilità per danni nei rapporti di vicinanza e il pensiero dei ‘veteres’, p. 344 nt. 2 e S. SCHIPANI, Responsabilità ‘ex lege Aquilia’, p. 205 nt. 2 (che, nella sostan-za, si adeguano alle critiche di A. GUARNERI CITATI, Miscellanea esegetica, pp. 89-90, ma vd. già la Glossa, gl. v. ‘factum imbecilliorem’ ad h.l. [in Digestum Novum, III, p. 38: « ſed cave tibi: quia nō[n] eſt per omnia bonum ſimile »]). E qui gli autori paiono essere nel giusto, laddove osservano che l’analogia ricavata dalla lex Aquilia non suffraga affatto il giudizio di approvazione labeoniano (« et ita Labeo probat: etenim… », et rell.). Non si può escludere, infatti, che l’epilogo di D. 39.2.24.5 sia frutto di un forte lavoro di riduzione operato dai Compilatori giustinianei (o, forse, di estrapolazione del principio da altra sede: vd., infatti, il § 11 dello stesso D. 39.2.24: « Sed et quod Labeo putat verum est, referre, utrum impulsu fluminis ruit aedificium an deterius ante factum postea ceciderit »), i quali avrebbero, così, ottenuto il risultato di rendere l’exemplum finale abbastanza debole e, in ogni caso, ‘fuori asse’ rispetto alla parte che precede. Manca, infatti, una ragionevole corri-spondenza tra il caso dell’edificio stabile che cede alla violenza impetuosa e im-provvisa delle acque e quello dello schiavo sano che viene ucciso, dal momento che, nella prima ipotesi, si esclude una qualche conseguenza giuridica, mentre nella se-conda sarà esperibile l’actio legis Aquiliae ex capite primo, per di più in tutta la sua ampiezza di stima del danno. Allo stesso modo, per quanto riguarda il secondo cor-no, dove si tende ad equiparare il crollo dell’edificio precedentemente minato dalle infiltrazioni con l’occisio di una servus reso, in un momento anteriore, ‘imbecillior’, la similitudine è assai debole, poiché in entrambi i casi è consentito agire — ex sti-pulato e de occiso — ma il ricorso all’actio legis Aquiliae non sortisce l’effetto di una condanna con maggiore latitudine rispetto al precedente caso (ossia di uccisione dello schiavo sano): cfr., infatti, Ulp. XVIII ad ed., D. 9.2.7.5 [= Pal. 614; Pal. Lab. 262]: « Sed si quis servum aegrotum leviter percusserit et si obierit, recte Labeo di-cit lege Aquilia eum teneri, quia aliud alii mortiferum esse solet ». In questi termini, infatti, mi pare vada ricondotta la vera e propria esclamazione di D. GOTHOFREDUS, Corpus Iuris Civilis Romani, II, col. 734 nt. 7 ad h.l., laddove all’espressione « ete-nim multum interesse » contrappone un eloquentemente reciso « im[m]o, nihil inte-resse videtur: is enim cujus ictu ſervus ægrotus percuſſus periit, lege Aquilia tenetur. l. 7.§.5 ſupr. ad leg. Aquil. ».

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« SERVIUS RESPONDIT »

352

Il passo — conferito integralmente da Lenel a Servio 487, o,

meglio, di cui non sono state distinte le attribuzioni interne 488 —

presenta una variegata serie di fattispecie coerenti per tema e per svi-

luppo della trattazione 489.

In D. 39.2.24.4, infatti, l’apertura « Servius quoque putat »

richiama il precedente paragrafo, in cui è già menzionato il pensiero

labeoniano in ordine alla proposizione del quesito se tale stipulatio

(ossia la cautio damni infecti) produca i suoi effetti in presenza di

qualsiasi danno, o soltanto di quello caratterizzato dall’iniuria 490.

Poiché, in precedenza, Labeone si era risolto per la seconda ipotesi

487 Ma il Lenel non riportata la coda del § 5 « et ita Labeo – in fin. »: cfr. LENEL,

op. cit., II, col. 330 ad h.l. 488 Cfr. ancora LENEL, op. et loc. ult. cit. (non così, però, BREMER, op. et loc. ult.

cit.); si noti, tuttavia, che in LENEL, op. cit., I, col. 528, in relazione alla palingenesia di Labeone [= Pal. Lab. 190], l’autore tedesco riproponeva l’intero brano, con l’aggiunta dei §§ 2-3 e 11 di D. 39.2.24, a proposito del giurista augusteo. Cfr., inol-tre, op. cit., II, coll. 882-883 [= Pal. Ulp. 1753 = D. 39.2.24.2-11].

489 Per quanto appena detto (e illustrato immediatamente di séguito) sono da re-spingere gli appunti critici di A. GUARNERI CITATI, Miscellanea esegetica I, pp. 83-84 e 87 e ss. (ripresi da L. DE SARLO, Alfeno Varo e i suoi digesta, pp. 65-66), laddo-ve diffida dei periodi « Servus quoque putat – ratione », relativo al § 4 (refuso in E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, III, col. 87, ad h.l., ove si riporta « ‘Servus [sic!] – ratione’ »), e « quod erat – firmum » ed « etenim – in fin. », del § 5 di D. 39.2.24. Stesse obiezioni devono essere mossa alla cassazione, peraltro ampia-mente motivata (ma sulla base di supposizioni del tutto soggettive, come, e.g., so-stenere che « Si hoc rell ist wertlos ») del tratto « non si violentia – sustinere pos-sit? » proposta da G. VON BESELER, Beiträge, V, p. 67 (ed ID., Romanistiche Studien [in « Tij. = RHD. », X, 1930], pp. 202 e ss., nonché, ancora, ID., Miszellen [in « ZSS. rom. Abt. », XLV, 1925], p. 478). Invece, per l’attenta scansione del testo, vd. A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en derecho ro-mano, pp. 240-241. Da ultimo, S. MASUELLI, La refectio nelle servitù prediali, pp. 98-99 nt. 2 (ove, per semplice svista, il passo è individuato come « D. 39.24, 4-5 »).

490 Ulp. LXXXI ad ed., D. 39.2.24.3 [= Pal. Ulp. 1753; Pal. Lab. 190]: « Haec stipulatio utrum id solum damnum contineat, quod iniuria fit, an vero omne dam-num, quod exstrinsecus contingat? Et Labeo quidem scribit de damno dato non posse agi, si quid forte terrae motu aut vi fluminis aliove quo casu fortuito accide-rit ».

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

353

(ossia, aveva escluso la possibilità di veder risarcito il danno in ipo-

tesi di caso fortuito, stilizzato nelle ipotesi del terremoto e

dell’inondazione), Ulpiano vi riconnette il pensiero serviano (« Ser-

vius quoque putat – vim habet divinam »), relativamente all’ipotesi

delle tegole divelte dal vento e scagliate sulla altrui proprietà, con

produzione del danno corrispondente.

Lo stesso Labeone appare, poi, aver avuto conoscenza (e, as-

sai probabilmente, già utilizzato) la soluzione di Servio, se, come af-

ferma l’autore di D. 39.2.24, « rationem adicit », ossia ne esplicita

(‘aggiungendola’) la ratio: « quo, si hoc non admittatur, iniquum erit

– vim sustinere possit? » 491. Riprende, quindi, la relazione del pen-

siero di Servio (« Idem Servius – deciderit ») 492: in questo è di qual-

che interesse l’impiego dei verbi ‘putare’ e ‘aiere’ 493.

491 Sul punto non mi sentirei di escludere neppure che, quanto alla ratio fornita da Labeone, si sia innestato un commento ulpianeo, rappresentato dalla sezione « quo enim – possit? ». Se, infatti, si presta attenzione alla struttura di D. 39.2.24.4-5, ci si avvede che essa è costituta della seguenti parti simmetriche: § 4. indicazione del pensiero di Servio (« Servius – divinam »); ratio labeoniana (« Labeo et – ini-quum erit »); commento ulpianeo alla ratio serviana (« quo enim – possit? »); § 5. ripresa del pensiero serviano (« Idem Servius – ait »); (probabile) commento ulpia-neo al pensiero di Servio (« multum enim – deciderit »); approvazione labeoniana, la cui formulazione pare indicare che il precedente commento ulpianeo traeva sostanza dal pensiero dello stesso collega augusteo (« et ita Labeo probat »); chiusura ulpia-nea (« etenim – inbecilliorem »). Se questa ipotesi fosse vera si ridurrebbe sensibil-mente la parte direttamente attribuibile al giurista repubblicano. Ciò spiega i segni diacritici minori ( ) inseriti nel testo, che non configurano, in questo caso, un dub-bio sulla attribuibilità a Servio, bensì ad Ulpiano rispetto a Labeone. Cfr. anche W. WALDSTEIN, Equità e ragione naturale nel pensiero giuridico del I secolo d.C., pp. 301 nt. 9 ma, soprattutto, 311 (sul tratto « Labeo et – iniquum erit », in cui, invece, non si interviene sul séguito, contribuendo a spingermi per il cenno di dubbio segna-lato).

492 Sulla attribuzione serviana del tratto segnalato rimando anche a quanto verrà detto nel corso del cap. III. Cfr., però, fin da ora, M. BRETONE, I fondamenti del di-ritto romano, pp. 111-112.

493 Il secondo dei verbi indicati, peraltro, suggerisce che si tratti di una sorta di massimazione del pensiero serviano. Il BREMER, op. et loc. ult. cit., propone, invece, una diversa resa palingenetica, poiché assegna i seguenti numeri (frgg.) 84b, 85, 86 e

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« SERVIUS RESPONDIT »

354

D.25. – Ulp. XIX ad Sab., D. 30.30 [pr. e §].2 [= Pal.

Serv. 41 → Pal. Ulp. 2597; Br. 49 resp.] 494: « [pr. – Talis scriptura:

‘quas pecunias legavi, quibus dies adpositus non est, eas heres meus

annua bima trima die dato’, ad corpora legata non pertinet, sed ad ea

quae pondere numero mensura continentur] ?. 2. – Quid si forte cen-

tum mihi legata sunt praesentia, utrum annua die dabuntur an vero

praesentia? Et ai t Servius [ et Labeo ] praesens deberi, quamvis

igitur supervacua sit haec adiectio, quantum ad vim et effectum lega-

ti pertinet, tamen ad hoc proficiet, ut praesenti die legatum debea-

tur ».

Lenel e Bremer non hanno distinto tra la clausola contenuta

nel principium e il § 2 del frammento in analisi, in punto attribuzione

serviana, omettendo, invece, correttamente le parole « ad corpora

legata – continentur », quale percepibile commento ulpianeo 495, e,

parimenti, la prosecuzione del § 2 « quamvis igitur supervacua – le-

gatum deberi ».

Ora, se è certo che la seconda parte debba essere resa al mae-

87 rispettivamente a D. 39.2.24.4, D. 39.2.43.1, D. 39.2.43.2 e D. 39.2.24.5. Pertan-to, i due paragrfi segnalati (4 e 5) di D. 39.2.24 vengono distanziati, attraverso l’inserzione degli altri due passi. Le tematiche sono effettivamente assimilabili, ma non al punto da costituire un tutt’uno, né, tantomeno, da separare D. 39.2.24.4 da D. 39.2.24.5, che paiono contenere argomenti di assai maggiore affinità (e anche per le ragioni che ho cercato di illustrare appena supra, nel testo).

494 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 183 [Servius, responsorum libri, frg. 49, ‘de pecunia legata’].

Il passo corrispondente di Bas. 44.1.30 [BT. VI, 1971] è, per cattiva sorte, assai malridotto. Sono sopravissute soltanto le quattordici parole iniziali del principium (e poco più ampio risulta il testo restituito in Hb. IV, 332]). Il resto è fisicamente scomparso e, quindi, nulla residua del § 2, di cui, peraltro, non è giunto (se pur vi fosse mai stato) alcuno scolio.

495 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 328 ad h.l. e BREMER, op. et loc. ult. cit.; per lo stesso motivo, nella ricostruzione dell’opera di Servio, deve essere tralasciato anche il § 1 di D. 30.30 (« et ad ea tantum legata pertinet, quibus dies non est adpositus: proinde si forte pure legatum est, ex hac adiectione prorogabitur »).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

355

stro di Alfeno 496, non manifesterei altrettanta certezza per quanto ri-

guarda il principium. Servio (e con lui Labeone), infatti, sviluppa il

suo ragionamento a partire dalla clausola citata in apertura, ma non

possiamo escludere che questo si articoli in modo più ampio 497.

Non è priva di interesse, poi, la catena testuale ‘Servio – La-

beone’, con la specificità della forma verbale ‘ait’ — ossia alla terza

persona singolare — in presenza, invece, di due nomi propri, che po-

trebbe far pensare a una adesione labeoniana al (ad un) responso ser-

viano.

D.26. – Ulp. XXVII ad Sab., D. 40.7.3.2 [= Pal. Ulp.

2697; Pal. Serv. 64 → Pal. Ulp. 2697; Br. 1 incert. sed.] 498: « [Inde

quaeritur, si forte debeatur pecunia huic servo vel ab herede, quod in

domini rationem plus erogaverat, vel ab extraneo, nec velit heres

debitorem convenire vel statulibero solvere pecuniam: an debeat ad

libertatem pervenire, quasi moram per heredem patiatur. Et aut lega-

tum huic statulibero fuit peculium aut non:] ? si legatum peculium

fuit, Servius scribit moram eum libertatis passum ob hoc ipsum,

quod ei aliquid ex ratione dominica deberetur nec ei ab herede

praestaretur[: quam sententiam et Labeo probat ]. Idem Ser-

vius probat et si in eo moram faciat heres, quod nolit exigere a

496 Si veda, infatti, anche l’interessante parallelo instaurabile con Pap. XXVII

quaest., D. 31.74 [= Pal. Pap. 330 → Alf. 80; Br. Alf. 23 → Serv. 47] — segnalato da C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, p. 13 = ID., Opere, I, p. 129 e ora da T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 290 — in cui Papiniano contesta il pensiero alfeniano, che sembra risalire direttamente al responso di Servio contenuto in D. 30.30.2.

497 Cfr. T. RÜFNER, Vertretbare Sachen? Die Geschichte der res, quae pondere numero mensura constant, p. 62.

498 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 240-241 [Servius, plane incertae sedis fragmenta, frg. 1, ‘de statu liberis’].

L’omologo brano di Bas. 48.5.4.2 [Idem. = Ulpianu., BT. VI, 2199; ”Ιδεµ. = OÙlpianÒj., Hb. IV, 688] è privo di scholia, e, al suo interno, non è fatta menzione di Servio.

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« SERVIUS RESPONDIT »

356

debitoribus: nam perventurum ad libertatem ait . [Mihi quoque vide-

tur verum quod Servius ait . Cum igitur veram putemus sen-

tentiam Servi 499, videamus, an et si non fuerit praelegatum pecu-

lium servo, idem debeat dici: constat enim statuliberum de peculio

posse dare vel ipsi heredi iussum vel alii: et si eum dare impediat,

perveniet statuliber ad libertatem. Denique etiam remedii loco hoc

monstratur domino statuliberi, ut eum extraneo iussum dare pro-

hibeat, ne et nummos perdat cum statulibero. Proinde defendi potest

et si non vult exigere vel ipse solvere, ut hic habeat, unde condicioni

pareat, libertatem competere: et ita Cassius quoque scribit] » 500.

Il brano è piuttosto complesso, per le intersezioni di senten-

tiae e giudizi giurisprudenziali 501. Il suo interesse si acuisce, inoltre,

ove si considerino rispondenze verbali adoperate da Ulpiano, a mio

giudizio, particolarmente eleganti 502.

499 Intorno al concetto di ‘sententia vera’ (e anche ‘verior’, ‘verissima’ e ‘non

vera’ ), vd. supra, cap. I. Intorno al giudizio espresso in ordine alla Servii sententia vd. F. HORAK, Rationes decidendi, pp. 176-177; T. GIARO, Römische Re-chtswahrheiten, pp. 301, 340, 414, 512 e 539.

500 Cfr. LENEL, op. cit., II, coll. 330-331 ad h.l. e BREMER, op. et loc. ult. cit., i quali indicano come serviana anche la parte iniziale (« inde quaeritur – aut non: »), il che ha una sua ragione, ove si consideri che la sententia serviana è sicuramente riconnessa alla fattispecie illustrata in apertura di paragrafo. Per quanto si dirà in merito al passo, tuttavia, mi pare di poter isolare la parte d’esordio rispetto ad una sicura attribuibilità (per così dire, ‘diretta’) al giurista repubblicano.

501 Cfr., in particolare, A. MANTELLO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale, pp. 226 e ss., nonché E. BIANCHI, Fictio iuris, pp. 453 e ss. (p. 455, in particolare).

502 Anche per questo motivo paiono da respingere molti tra i numerosi dubbi sol-levati dalla dottrina interpolazionistica sul frammento (i quali producono l’effetto, non inconsueto per la critica testuale, di elidersi a vicenda: sulla gran parte di esse, si vedano gli acuti rilievi di MANTELLO, op. cit., pp. 227-228 nt. 63). Cfr. E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, III, col. 136 (ove i dubbi maggiormente estesi colpi-scono le sezioni « vel ab herede, quod – solvere pecuniam » e, in generale, la parte conclusiva « mihi quoque videtur – in fin. », per cui cfr. H. SIBER, Naturalis obliga-tio, p. 26 (e s.); G. MICOLIER, Pécule et capacité patrimoniale. Étude sur le pécule, dit profectice, depuis l’édit ‘de peculio’ jusqu’à la fin de l’époque classique, pp. 158

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

357

L’argomentazione di Servio, infatti, incrocia la fattispecie

principale (« inde quaeritur – aut non: ») in rapporto al problema se

sia stato legato il peculio allo statulibero. E qui — come è detto da

Ulpiano — « Servius scribit… », et rell. 503.

La relativa sententia viene condivisa (anche) 504 da Labeone

(« quam sententiam et Labeo probat »).

Lo stesso verbo ‘probare’, appena adottato, funge da ripresa

dell’analisi e riporta la titolarità della discussione nelle mani di Ser-

vio, in relazione ad una ipotesi connessa (« idem Servius probat et si

in eo moram faciat heres… », et rell.), discussione che si chiude con

il tipico verbo giurisprudenziale teso ad indicare la ‘regula’ per così

dire standardizzata (« nam perventurum ad libertatem ait [sott. Ser-

vius] ») 505.

A seguire, torna Ulpiano in approvazione della decisione ap-

pena illustrata: « mihi quoque 506 videtur verum quod Servius ait » —

dove il punto di sutura tra i due periodi è costituito dal verbo ‘aiere’.

A sua volta, la prosecuzione « cum igitur veram putemus

sententiam Servi, videamus, an et si non fuerit praelegatum… », et

rell. — che ribadisce il giudizio appena espresso — è agganciata dal-

la sottolineatura che ‘ciò che era conforme alla realtà’ (« quod verum

videtur ») è una ‘sententia vera’, con il reimpiego stilistico del verbo

‘videre’, ciò che consente all’autore del passo salvato in D. 40.7.3.2 e s.; J. VÁŽNÝ, Naturalis obligatio, p. 144 nt. 41 — ed anche G. VON BESELER, Bei-träge, II, p. 125, nonché G. GROSSO, Sulla volontarietà dell’impedimento al verifi-carsi della condizione, p. 459 nt. 1 = ID., Scritti storico-giuridici, III, p. 494 nt. 1.

503 Sul tratto « quod ei aliquid – deberetur » cfr., in particolare, F. HORAK, Ra-tiones decidendi, p. 106.

504 L’uso di ‘et’ è sintomatico: con tale congiunzione Ulpiano lascia già chiara-mente intendere di condividere la soluzione serviana, rafforzando il proprio giudizio con quello (autorevole) di Labeone, come ribadirà ancora dopo.

505 Sul punto, o, meglio, sull’intervallo « moram faciat heres – debitoribus: nam » e sull’« ait » appena successivo, cfr. nuovamente le riserve di SIBER, op. et loc. cit, e di MICOLIER, op. et loc. cit.

506 La presenza del ‘quoque’ è coerente con l’‘et’ di Labeone.

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358

di verificare se tale conformità valga anche con riferimento ad un ca-

so diverso (« an et si… », et rell.).

A chiusura dell’analisi relativa a questa ultima sfaccettatura

della realtà, compare il dato della omologa scrittura di Cassio, certi-

ficata dalla riemersione euritmica del verbo iniziale ‘scribere’ (« et

ita Cassius quoque scribit ») 507.

6. Squarci di elaborazione serviana

Da ultimi, debbono essere isolati unitariamente i frammenti

all’interno dei quali — meno estesamente o meno sistematicamente

— sono conservati, per così dire, ‘squarci’ (e talora soltanto ‘scheg-

ge’) del pensiero serviano 508.

In alcuni casi, sembra essere sopravvissuto il responsum ve-

ro e proprio, come in

E.1. – Iavol. II ex post. Lab., D. 32.29.2 [= Pal. Serv. 43 →

Pal. Iavol. 171; Br. 46 resp.] 509: « [ Cum ita legatum esset: ‘quanta

507 Per sintetizzare schematicamente, allora, si assiste alla seguente concatena-zione verbale nello sviluppo dell’analisi: scr ib ere* → probare ↔ probare → aiere ↔ videre (verum esse) ← aiere ↔ vera (esse sententiam) videre ← *scr ib ere .

Il verbo scribere, dunque, si trova agli estremi della costruzione: la prima inci-denza è seguita da probare, immediatamente ripetuto ai fini dello sviluppo della par-te centrale del periodo, in cui il verbo aiere racchiude il chiasmo rappresentato da ‘videre verum esse’ e da ‘vera esse videre’.

508 Il sostantivo qui utilizzato (ossia ‘squarci’) è parso preferibile rispetto a ‘frammenti’, in ragione della possibilità di confusione di questo secondo termine con l’accezione consolidata e tradizionale di ‘parte selezionata’ dai Compilatori giusti-nianei (cfr., per tutti e per quest’ultimo significato, S. RICCOBONO – S. RICCOBONO

jr., s.v. ‘Digesta Iustiniani’, p. 640 [§ 3], in particolare). 509 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 182

[Servius, responsorum libri, frg. 46, ‘de pecunia legata’]. Il § 1 di D. 32.29 non ha corrispondente nell’edizione olandese dei Basilici [cfr.

BT. VI, 2000; ma vd. Bas. 44.3.29, in Hb. IV, 376, che ha utilizzato come fonte Ti-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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pecunia ex hereditate Titii ad me pervenit, tantam pecuniam heres

meus Seiae dato’ , id legatum putat Labeo, quod acceptum in tabulis

suis ex ea hereditate testator rettulisset: ceterum negat cavendum

heredi a legatario, si quid forte postea eius hereditatis nomine heres

damnatus esset. Ego contra puto, quia non potest videri pervenisse ad

heredem, quod eius hereditatis nomine praestaturus esset: idem] Al-

fenus Varus Servio placuisse scribit [, quod et verum est] » 510.

Il testo — che costituisce l’ideale prosecuzione casistica 511

di un altro, riferibile più ampiamente a Servio, e salvato in

D. 32.29.1 512 — reca traccia significativa del nostro giurista soltanto

in coda, attraverso la testimonianza alfeniana (« Alfenus Varus Servio

placuisse scribit »), seguita dall’approvazione di Giavoleno (« quod

verum est ») 513, il quale se ne serve con chiara evidenza per rivedere

la soluzione labeoniana 514, ovvero, come è stato affermato in dottri-

na, si farebbe evidente « la disarticolazione subita ad opera di Giavo-

leno, che utilizza l’opinione di Servio (mediata da Alfeno) in funzio-

puc. 44.3.29 e, quindi, è privo di scholia, e della menzione di Servio]. Un puro rin-vio al passo del Digesto è contenuto in uno scolio del Codex Atheniensis Marcianus gr. 174, laddove si rinviene: « 'An£gnwqi bib. lb/ dig. kq/ » [lin. 1864, D. Getov, ed., in « Fontes minores », IX, 396]; ma il testo, nuovamente, non aggiunge dati utili alla nostra indagine.

510 Rispetto al § 1 di Iavol. II ex post. Lab., D. 32.29 [= Pal. Serv. 43 → Iavol. 171; Br. 59 resp. = 5 repr. Scaev. cap.], frg. D.1 . , in questa sede abbiamo un puro e indiretto rimando al pensiero di Servio, attraverso l’uso della sola frase « Alfenus Varus Servio placuisse scribit ». Per questo si è scelto di inserire i §§ 1 e 2 in sezioni differenti di questo capitolo.

511 Si usa, qui, la definizione di ‘ideale prosecuzione’ poiché di ‘prosecuzione’ si può, ovviamente, parlare soltanto in relazione a ciò che i Commissari di Giustiniano hanno voluto che fosse conseguente (non potendo conoscere se, tra il § 1 e il § 2 di D. 32.29, vi fossero altre parti omesse nell’opera di compilazione).

512 Vd. supra, frg. D.1 . . 513 Sul concetto di veritas nella visione dei giuristi romani, rinvio a quanto os-

servato supra, cap. I, passim. 514 Cfr. anche T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 332.

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360

ne della sua critica a Labeone, senza che si possa dire quale fosse

l’originaria disposizione » 515.

Peraltro Lenel assegnava, in forma semplificativa, l’intero

paragrafo, appartenente alla ‘serie labeoniana’ 516, a Servio 517. La

scelta, tuttavia e come si è visto, deve essere giudicata come sovrab-

bondante.

La struttura del testo è, infatti, la seguente:

α. offerta letterale della clausola testamentaria — che po-

trebbe ragionevolmente essere stata oggetto già della riflessione ser-

viana;

β. Indicazione del parere di Labeone (« putat Labeo ») 518;

γ. Formulazione di recisa obiezione da parte di Giavoleno,

condotta, peraltro, sullo stesso tenore verbale (« ego contra pu-

to ») 519;

δ. registrazione del ‘placet’ di Servio (« Servio placuisse »),

pervenuto a Giavoleno 520, e conforme al parere di quest’ultimo (o,

meglio, Giavoleno opera un artificio dialettico, utilizzando la deci-

sione serviana, che egli apprezza, come se fosse conforme al proprio

sentire, e quasi come se fosse cronologicamente posteriore, tanto da

affermare, in chiusura, che ciò « verum est »).

515 Cfr. D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘libri posteriores’ di Labeone, p. 303 e

nt. 84. 516 Vd. LENEL, op. cit., I, col. 301 ad h.l. 517 Cfr. ibid., col. 327 ad h.l. (e anche BREMER, op. et loc. ult. cit., non annota al-

cuna riserva sul testo). 518 Cfr., implicitamente, J.G. WOLF, Aus dem neuen pompejanischen Urkunden-

fund: Die ‘tabellae’ der Titinia Antracis und die Bürgschaft des Epichares, p. 29 e nt. 19.

519 Cfr., in particolare, F.B.J. WUBBE, Iavolenus contra Labeonem, pp. 104-105. Un dubbio circa la ratio è, invece, espresso da F. HORAK, Rationes decidendi, p. 197 (« ob die Begründung bis auf Servius-Alfen zurückgeht oder est von Javolen ange-führt, ist nicht sicher auszumachen »), e credo si riferisca al tratto « quia non potest – praestaturus esset: idem... ».

520 Attraverso Labeone, tramite la scrittura di Alfeno.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

361

La chiusa, peraltro, è stata ritenuta interpolata 521, ma, a mio

giudizio, è coerente con la partizione del testo 522.

E.2. – Iavol. IV ex post. Lab., D. 40.7.39 pr. [= Pal. Serv.

65 → Pal. Iavol. 196; Br. 6 repr. Scaev. cap.] 523: « [ ‘Stichum Attio

do lego et, si is ei nummos centum dederit, liber esto’. Si servus ex

testamento nummos Attio dedisset , eos repetere heredem non posse

Labeo existimat, quia Attius eos a servo suo acceperit, non ab here-

dis servo. Eum autem statuliberum esse Quintus Mucius, Gallus et

ipse Labeo putant :] Servius, Ofilius non esse [. Superiorem sen-

tentiam probo, ita tamen, ut is servus heredis, non legatarii sit, utpo-

te cum legatum statulibertate tollatur.] » 524.

Lenel opera un richiamo completo del principium a favore

della restituzione del pensiero di Servio 525. A questo proposito è op-

portuna una considerazione: che la fattispecie possa essere stata di-

scussa (anche) dal nostro giurista è deduzione assai probabile (quan-

tomeno nella clausola iniziale « ‘Stichum Attio do lego et, si is ei

521 WUBBE, op. cit., p. 105 nt. 51. Nulla, invece, segnalavano a tal riguardo E.

LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, II, col. 265 ad h.l. 522 D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘libri posteriores’, p. 303 nt. 84, afferma che

« è evidente la disarticolazione subita [da D. 32.29.2] ad opera di Giavoleno, che utilizza l’opinione di Servio (mediata da Alfeno) in funzione della sua critica a La-beone, senza che si possa dire quale fosse l’originaria disposizione ».

523 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 221 [Servius, reprehensa Scaevolae capita, frg. 6, ‘de legatis’].

Per le fonti bizantine, vd. appena infra, nel testo. 524 Per D. 40.7.39.3 (per cui cfr. anche D. 40.7.14.1), vd. supra. 525 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 331 ad h.l. Si esclude solamente l’epilogo, con il

giudizio espresso di Giavoleno (« Superiorem sententiam probo, ita tamen, ut is ser-vus heredis, non legatarii sit, utpote cum legatum statulibertate tollatur »).

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nummos centum dederit, liber esto’ ») 526, ma tale lo è stata anche —

oltre che da Ofilio e da Labeone 527 — soprattutto, da Quinto Mucio,

e, quindi, senz’altro anteriormente a Servio.

Per questo non è affatto sicuro si possa concludere che

quest’ultimo abbia trattato dell’intero caso, e, data la conformazione

del brano, potrebbe essere opportuno congetturare che egli si sia li-

mitato, invece, a commentare la precedente decisione muciana, dalla

quale, inoltre, egli si discosta, in ciò seguito dal suo auditor Ofilio.

In questa stessa direzione parrebbe dirigersi anche la scelta

palingenetica del Bremer, il quale, per un verso, ha inserito il passo

all’interno della sezione dedicata ai ‘Reprehensa Scaevolae capita’,

segnalando con questo l’ipotesi di un testo nato con lo scopo di

commentare criticamente la soluzione muciana. Per altro verso,

l’Autore tedesco ha proposto, quale frutto della riflessione di Servio,

una porzione del testo (più contenuta rispetto a quella del Lenel, ed

anche a quella che è stata qui suggerita), corrispondente alle seguenti

parole: « ‘Stichum Attio do lego et, si is ei nummos centum dederit,

liber esto’… eum… statuliberum esse Quintus Mucius, Gallus… pu-

tant, Servius, Ofilius non esse » 528.

In ogni caso, il brano selezionato dal Bremer non manca di

porre in evidenza, in ogni caso, la sostanza della dissensio opinionum

esistente tra i giuristi evocati, o, forse, tra scuole giuridiche 529 (dis-

sensio peraltro confermata dalla parte finale del brano, in cui Giavo-

leno dichiara espressamente di probare la prima sententia, ossia

526 È per questa ragione, infatti, che ho provveduto a segnalare il tratto per mez-

zo di appositi segni diacritici. 527 Per l’apporto di quest’ultimo giurista vd., ora, M.A. FINO, L’impiego della

‘Appendix’ nella compilazione dei PRWTA. Studio di un’anomalia, pp. 426 e ss. (sul-le tesi del Fino cfr., in particolare, infra, tomo II, cap. III).

528 BREMER, op. et loc. ult. cit. 529 Di qualche interesse, infatti, sono le coppie di giuristi rappresentate: Quinto

Mucio e Gallo Aquilio, da un lato; Servio e Ofilio, dall’altro. In entrambi i casi si tratta del maestro e di uno dei suoi auditores.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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quella della coppia Quinto Mucio-Gallo Aquilio, fatta propria da La-

beone (« superiorem sententiam – tollatur »), rispetto a quella di

Servio e di Ofilio. E questo a prescindere dalla genuinità del periodo

conclusivo « utpote cum legatum statulibertate tollatur » 530.

Del resto, simili conclusioni possono essere tratte anche dalla

lettura della resa bizantina di D. 40.7.39 pr., così come formalizzata

in

Sch. 1 (Pc) ad Bas. 48.5.40 pr. 531 [BS. VII, 2911; Hb. IV,

708]: « OÛtw tij epe `St…con 'Att…J d…dwmi kaˆ lhgateÚw, kaˆ

™¦n Ð St…coj ˜katÕn nom…smata par£scV tù lhgatar…J,

™leÚqeroj œstw'. 'E¦n oátoj Ð o„kšthj ™k toà pekoul…ou aÙtoà

katab£lV tù 'Att…J t¦ ˜katÕn nom…smata, oÙ dÚnatai Ð

klhronÒmoj ·epetiteÚein aÙt¦ par' aÙtoà, ™peid¾ ¢pÕ „d…ou

doÚlou œlaben Ð ”Attioj, oÙcˆ ¢pÕ doÚlou toà klhronÒmou.

Toàton d tÕn o„kšthn statoul…bera enai kaˆ Ð KoÚntoj

MoÚkioj kaˆ Ð Labeën epan: Sšrbioj d kaˆ 'Of…lioj

oÙk ™dšxanto aÙtÕn enai statoul…bera. 'All' ™gë dšcomai t¾n

prèthn gnèmhn, fhsˆn 'Iabolenos, †na mšntoi doàloj e‡h toà

klhronÒmou Ð o„kšthj kaˆ ¤ma tù ™kbÁnai t¾n a†resin tÁj

™leuqer…aj ¢farp£zetai par' aÙtoà » 532.

530 Il tratto in esame è stato sospettato da W.W. BUCKLAND, The Roman Law of

Slavery. The Condition of the Slave in Private Law from Augustus to Justinian, p. 469 nt. 7, ma si tratta dell’unica riserva critica espressa in dottrina (se si eccettua la caduta della sola prima parte del composto « statulibertate » in TH. MOMMSEN, Di-gesta Iustiniani Augusti, II, p. 467 nt. 1; ID., Corpus Iuris Civilis, I. Digesta, p. 680 nt. 2, ad h.l.; e vd. E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, III, col. 143, ad h.l.) e, inoltre, essa non tocca la parte di nostro diretto interesse. Sulla catena testuale cfr. F. HORAK, Rationes decidendi, p. 137.

531 Per il testo di Bas. 48.5.40 pr., vd. Iabolenu., BT. VI, 2209; ’Ιαβολένος., Hb. IV, 708.

532 Le diverse spaziature nel testo, relative ai nomi dei giuristi citati, sono mie.

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364

La particolarità del commento bizantino — tratto dall’Índix

di Doroteo 533 — risiede, da un lato, nella sparizione del nome di

Aquilio Gallo e, per contrappeso, nell’inserimento di una coda in cui

« fησˆν ’Iabolenos » 534, approvando l’opinione sostenuta dalla cop-

pia Mucio-Labeone (« kaˆ Ð KoÚϊntoj MoÚkioj kaˆ Ð Labe-

ën... »), contro quella costituita da Servio e Ofilio (« Sšrbioj d kaˆ

'Of…lioj... »). Ma i ‘concetti-chiave’ e la struttura di fondo del brano

latino non subiscono significative alterazioni. E, soprattutto, viene

ribadito che il punto di frizione tra i giuristi era costituito dalla diver-

sa visione se lo schiavo fosse, o, per contro, non fosse, diventato sta-

tuliber (« Toàton d tÕn o„kšthn – enai statoul…bera »), cui

soggiace il problema se lo schiavo sia dell’erede o del legatario (si

vedano, infatti, i periodi « ™peid¾ – toà klhronÒmou »; « 'All' ™gë

– par' aÙtoà »).

E.3. – Iavol. VI ex post. Lab., D. 23.3.79 pr. [= Pal. Serv.

31 → Pal. Iavol. 221; Br. 67 resp.] 535: « pr. – Avus neptis nomine

filio natae genero dotem dedit et moritur. Negat Servius dotem ad

patrem reverti [et ego cum Servio sentio,] [ quia non potest videri ab

eo profecta, quia nihil ex his sui habuisset ] ? » 536.

533 Vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale legum, p. 319 ad

h.l. 534 Questo in sintonia con il fatto d’essere in presenza di un frammento che ap-

partiene alla cd. ‘serie Giavoleno’: vd. LENEL, op. cit., I, coll. 307-308 ad h.l. e, sulla tecnica di lavoro degli scoliasti in ordine ai testi giavoleniani, D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘libri posteriores’, pp. 289-290 nt. 53.

535 Per quanto riguarda il § 1 di D. 23.3.79, vd. supra, frg. B.6 . . Sul princi-pium di D. oed., cfr., invece, F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae su-persunt, I, p. 188 [Servius, responsorum libri, frg. 67, ‘de dotibus’], che si limita a citarlo come « D. 23, 3, 79 ».

Per le corrispondenze in Basilici e relativi scolii, vd. appena infra, nel testo. 536 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 327 ad h.l.: il Lenel unisce in un unico frammento

palingenetico sia il principium sia il § 1 di D. 23.3.79, e li presenta come integral-mente serviani. In questa sede, tuttavia, e per le ragioni che si vanno illustrando,

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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Mi pare che, in questa sede — con un frammento tratto dalla

cosiddetta ‘serie labeoniana’ 537 — Giavoleno si limiti a rilanciare la

(sintesi della) decisione di Servio (« negat Servius – reverti »), e che

la continuazione (« quia – in fin. ») costituisca, per contro, la moti-

vazione del suo ‘cum Servio sentire’ 538. Per quanto riguarda, invece,

il lembo estremo (« quia non – habuisset »), il dubbio parziale 539 è

quantomeno imposto dalla struttura del principium, struttura appena

illustrata, ed è ugualmente suggerito dalla critica interpolazionistica,

in questo caso non è priva di giustificazione logico-giuridica 540.

La versione bizantina del passo — ossia Bas. 29.1.75 pr.

[BT. IV, 1464; Hb. III, 424] 541 — è commentata dagli scÒlia F, Pa

1-4 [BS. V, 2082; Sch. 1-3, Hb. III, 424-425]. Il secondo di questi —

credo sia opportuno separare le due parti del testo.

537 Cfr. LENEL, op. cit., I, coll. 312-131 ad h.l. e D. MANTOVANI, Sull’origine dei ‘libri posteriores’, p. 303 nt. 82. Così anche l’intestazione di Bas. 29.1.75: « La-beèn. » [BT. IV, 1464; Λαβ., Hb. III, 424].

538 Così, ugualmente, è il parere di BREMER, op. et loc. ult. cit., che arresta l’allegazione delle parole pertinenti alla palingenesi serviana al tratto « ... ad patrem reverti »; vd., inoltre, epressamente F. HORAK, Rationes decidendi, p. 110 nt. 31 (« Et cum Servio sentio: Labeo spricht »), nonché B.-H. JUNG, Darlehensvalutierung im römischen Recht, p. 83. J.D. HARKE, Argumenta Iuventiana, p. 100, unifica, inve-ce, il pensiero dei due giuristi antichi (Servio e Labeone), senza indagare le eventua-li, relative partizioni.

539 Dubbio la cui relatività è segnalata dalle corrispondenti indicazioni diacriti-che poste in apice.

540 Cfr., infatti, con proposta di cassazione, P. BONFANTE, Corso di diritto roma-no, I. Diritto di famiglia, p. 299 nt. 1 (« l’ultima parte […] è scorretta, probabilmen-te per interpolazioni mal eseguite, dato che il filiusfamilias nel diritto giustinianeo può avere un patrimonio e quindi non può più valere la giustificazione classica e la-beoniana, per cui si nega ch’egli possa costituire una dote profettizia »); vd. ancora O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 313 nt. 1, laddove si ipotizza (seppure con molta cautela) che le attuali parole « quia – ex his » possano essere state poste in luogo di originali ‘qui – exheres’; vd. anche F. HORAK, Rationes decidendi, p. 110 e nt. 31.

541 Bas. 29.1.75, in sé e per sé considerati, non presentano elementi di particolare rilievo.

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« SERVIUS RESPONDIT »

366

che Heimbach attribuisce all’ ‡ndix di Stefano 542 — presenta, a mio

giudizio, alcune particolarità di qualche interesse ai fini della restitu-

zione del pensiero serviano, e che sembrano fornire una conferma

alle conclusioni raggiunte appena sopra.

Mi riferisco allo

Sch. 2 (F, Pa) ad Bas. 29.1.75 [BS. V, 2082; Hb. III, 424-

425] 543: « ”Ece taàta æj ™n proqewr…v. Prefektik…aj oÜshj tÁj

proikÕj Ð patÁr œcei taÚthj t¾n ¢pa…thsin Øpexous…aj teleu-

tèshj ™n tù g£mJ tÁj kÒrhj, æj ke‹tai bib. e/. toà Kwd. tit. ih/.

diat. d/. Taàta e„dëj ™lq ™pˆ tÕ proke…menon. P£ppoj Øpr

™ggÒnhj tecqe…shj aÙtù ™x uƒoà pro‹ka tù g£mJ ™pidšdwke

kaˆ ™teleÚthse. Kaˆ lšgei Sšrbioj tÕn tÁj ™ggÒnhj patšra

m¾ œcein ¢pa…thsin tÁj proikÒj, ™peid¾ oÙ dÚnatai ¹ proˆx

prefektik…a enai doke‹n, Óte mhdn ™k tîn ™pidoqšntwn

pragm£twn lÒgJ proikÕj ‡dion ecen Ð tÁj kÒrhj mn pat¾r,

uƒÕj d toà ™pidedwkÒtoj t¾n pro‹ka » 544.

Nel commento di lingua greca si ribadisce il fatto che ‘Ser-

vius ait’ (o, più precisamente, ‘dicit’) 545, ovvero, nella versione ori-

ginale, che « λέγει Σέρβιος »; il tenore del testo riflette, inoltre, sul

punto e nella sostanza, il contenuto del passo del Digesto, ma presen-

ta una singolarità, poiché, a differenza di D. 23.3.79 pr., l’intera parte

finale è strutturata come costitutiva di un parere serviano unitario —

e questo quale probabile effetto dovuto alla scomparsa dell’inciso

giavoleniano « et ego cum Servio sentio » (« Kaˆ lšgei Sšrbioj tÕn

542 Vd. C.G.E. HEIMBACH, Manuale Basilicorum, p. 288 ad h.l. 543 Poche (e di fatto insignificanti) le varianti tra l’edizione ottocentesca e quella

olandese: toàto per taàta e, due volte, prefektiz…aj per prefektik…aj, con la diversa lectio segnalata all’interno dell’apparato critico (cfr. Hb. III, 425 nt. c).

544 La diversa spaziatura dei caratteri all’interno del passo è mia. 545 Vd. supra, nt. 405.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

367

tÁj ™ggÒnhj patšra m¾ œcein ¢pa…thsin tÁj proikÒj, ™peid¾ oÙ

dÚnatai ¹ proˆx prefektik…a enai doke‹n, Óte mhdn ™k tîn

™pidoqšntwn pragm£twn lÒgJ proikÕj ‡dion ecen Ð tÁj kÒrhj

mn pat¾r, uƒÕj d toà ™pidedwkÒtoj t¾n pro‹ka »).

È questa la sola ragione per cui, nonostante qualche perples-

sità, dovuta alle modalità espressive della sezione « quia non – ha-

buisset » (che hanno il sapore della sottolineatura ad ulteriore com-

mento di un parere altrui), ho indicato la medesima come possibile

materiale serviano, in cui si sarebbe innestata la parentetica giavole-

niana « et ego – sentio », che avrebbe esaurito l’intervento del giuri-

sta più tardo 546.

E.4. – Iavol. VI ex post. Lab., D. 24.3.66 pr. [= Pal. Serv.

32 → Pal. Iavol. 227; Br. 66 resp.] 547: « In his rebus, quas praeter

numeratam pecuniam doti vir habet, dolum malum et culpam eum

praestare oportere Servius ai t . [Ea sententia Publii Mucii est: nam

is in Licinnia Gracchi uxori statuit, quod res dotales in ea seditione,

qua Gracchus occisus erat, perissent, ait, quia Gracchi culpa ea se-

ditio facta esset, Licinniae praestari oportere] ».

In questo brano — fonte di interesse anche per quanto ri-

guarda la storia costituzionale romana d’età repubblicana 548 — la

546 Si deve pensare, dunque, a Labeone (vd. supra). 547 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 188

[Servius, responsorum libri, frg. 66, ‘de dotibus’]. Per la rielaborazione bizantina della testimonianza, vd. infra, nel testo. 548 Cfr., in particolare, F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana 2, II, pp.

535-536 nt. 214 e 540-541 nt. 221, nonché A. GUARINO, La coerenza di Publio Mu-cio, pp. 135 e ss., 187 e ss. = ID., Studi di diritto costituzionale romano, II, pp. 133 e ss. Sul frammento, nel suo complesso, vd. anche D. DAUBE, Licinnia’s Dowry, pp. 197 e ss.; W. WALDSTEIN, Zum Fall der ‘dos Licinniae’, pp. 343 e ss.; G. GROSSO, P. Mucio Scevola tra il diritto e la politica, pp. 206 e ss. = ID., Scritti storico-giuridici, I, pp. 861 e ss.; R.A. BAUMAN, Five Pronouncements by P. Mucius Scaevola, pp. 238 e ss.; F. HORAK, Etica della giurisprudenza, pp. 169-170, e, da ultimi, A. PAL-

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« SERVIUS RESPONDIT »

368

parte che va ascritta con sicurezza a Servio è soltanto la prima (« in

his rebus – ait »), che pure rispecchia, almeno nella sostanza 549, il

pensiero di Publio Mucio Scevola 550. Allo stato del testo, infatti, si

deve affermare che ciò che segue racchiuda esclusivamente la deci-

sione del secondo giureconsulto, filtrata attraverso la scrittura di

Giavoleno 551. Nel brano si afferma, infatti, espressamente che la so-

luzione di consentire la restituzione dei beni dotali alla moglie di

Caio Gracco fu del giurista appartenente alla stirpe dei Mucii 552.

MA, Publio Mucio Scevola e la “dote di Licinia”, pp. 323 e ss. (pp. 323-325, in par-ticolare), nonché L. MANNA, Spunti per una indagine dei criteri della responsabilità contrattuale in diritto postclassico, pp. 484-485.

549 L’inciso dà conto, infatti, delle attendibili osservazioni di A. GUARINO, La coerenza di Publio Mucio, p. 138: « Labeone si rifaceva a Servio Sulpicio e questi, forse attraverso il suo gran discutere criticamente le opere del rivale Q. Mucio, si rifaceva a sua volta ad una ‘sententia’ espressa, probabilmente intorno al 120 avanti Cristo, dal padre di Quinto, sovente dallo stesso citato, cioè da Publio Mucio. È ov-vio che in questa serie di passaggi i termini esatti della questione concretamente af-frontata ai suoi tempi da Publio Mucio, si siano sbiaditi sino ad essere irrecuperabili. Ma importa poco. A nostra conoscenza è giunto quanto basta per renderci conto del punto di vista di Mucio »; cfr. anche DAUBE, op. cit., pp. 199 e 209; G. GROSSO, P. Mucio Scevola, p. 206 (e 210) = ID., Scritti storico-giuridici, I, p. 861 (e 863). Sulla catena testuale vd. (oltre a un cenno — ma senza considerazione della posizione di Servio — in J.L. STRACHAN-DAVIDSON, Problems of the Roman Criminal Law, I, p. 184 nt. 4) anche D. DAUBE, Licinnia’s Dowry, p. 210 e F. WIEACKER, Die römischen Juristen in der politischen Gesellschaft des zweiten vorchristlichen Jarhunderts, p. 213 (in particolare). Per rilievi critici vd., invece, in particolare, H.H. PFLÜGER, Zur Lehre von der Haftung des Schuldners nach römischem Recht, p. 148.

550 Posso ritenere che questo sia il motivo che ha spinto BREMER, op. et loc. ult. cit., a riportare anche la frase « ea sententia Publii Mucii est ». Sul punto si veda an-che V. ARANGIO RUIZ, Responsabilità contrattuale in diritto romano, p. 201, e G. NEGRI, Riflessioni sparse sui ‘posteriores Labeonis’ di Giavoleno, p. 62.

551 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 755 [= Pal. P. Muc. 1], e vd. ancora A. GUARINO, La coerenza di Publio Mucio, pp. 139-140. Sulla attribuzione alla cosiddetta ‘se-rie giavoleniana’, vd. MANTOVANI, op. cit., p. 303 nt. 81.

552 Per le fonti letterarie, vd. Plut., Tib. Gr. 21.1 (« qug£thr g¦r aÙtoà Likin-n…a GaJ Gr£gcJ sunJkei ») e, soprattutto, Plut., C. Gr. 17.6 (« 'Ape‹pan d penqe‹n ta‹j gunaix…, t¾n d Gaou Likinn…an kaˆ tÁj proikÕj ¢pestšrh-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

369

Alcuni elementi di riscontro, inoltre, possono trarsi nuova-

mente dalle fonti bizantine e, nel caso di specie, dallo Sch. 1 (F, Pa)

ad Bas. 28.8.63 pr. [BS. V, 1938 = Hb. III, 289] 553.

Mentre, infatti, nel testo di Bas. 28.8.63 pr [BT. IV, 1389 =

Hb. III, 289] si eclissa il ricordo della decisione muciana, surrogata

da una domanda diretta (« ti g¦r, Óti par' a„t…an aÙtoà st£sij

gšgone kaˆ ™n tÍ st£sei ¢pèlonto; ») 554, nello scholium, al man-

tenimento sostanziale della struttura del passo latino, si unisce il ri-

chiamo esplicito a Servio (« Ð Σέρβιος »), il quale « epen », ciò che

risulta essere simmetrico rispetto all’‘ait’ del brano originario 555,

circostanza che deve far dichiarare destituito di fondamento lo scetti-

cismo, sul punto, di Bonfante 556.

Alla lettura del passo — derivato dall’opera del did£skaloj

e compilatore 557 Doroteo 558 — non è difficile, tuttavia, rendersi con-

to che il suo autore ha profondamente equivocato sui nomi citati: sia

su quello di Scevola, sia su quello di Gracco, sia, infine, su quello san »), brano che, precisamente, fa riferimento ai beni della donna. Cfr., sul punto, F. MÜNZER, s.v. ‘Licinia [180]’, coll. 496-497.

553 Il testo di Bas. 28.8.63 pr. [BT. IV, 1389; Hb. III, 289] è accompagnato da al-tri commenti: vd. Sch. F 2 e F Pa 3 [BS. V, 1938 = Sch. 1, Hb. III, 289].

554 Per completezza, si segnala che il testo integrale di Bas. 28.8.63 pr. è il se-guente: « 'Epˆ to‹j m¾ oâsin ™n nom…smasi proikima…oij dÒlon kaˆ ·vqum…an Ð ¢n¾r crewste‹: ti g¦r, Óti par' a„t…an aÙtoà st£sij gšgone kaˆ ™n tÍ st£sei

¢pèlonto; ». 555 Vd. ancora M. MIGLIETTA, Elaborazione di Ulpiano e di Paolo intorno al

‘certum dicere’, pp. 37 e ss., 94 e ss. = ID., Intorno al ‘certum dicere’, pp. 253 e ss. 556 Cfr. P. BONFANTE, Corso di diritto romano, I, p. 333 nt. 1 (contraddittoria

appare, infatti, la motivazione: « meglio omettere ait coi Basilici (28, 8, 63 sch. 1; HEIMB. 289) che non statuit con MOMMSEN »).

557 Cfr. const. ‘Imperatoriam maiestatem’, § 3 e Iust. Instit., prooem.; const. ‘Tanta-Dšdwken’, § 9 [= C.I. 1.17.2.9]; const. ‘Omnem’, inscript. e § 2; const. ‘Cor-di’, § 2 (vd. C.E. ZACHARIÄ VON LINGENTHAL, Rec. a J.-A.-B. Mortreuil, Histoire du droit Byzantin, I, pp. 808-810; ora A. SCHMINCK, s.v. ‘Dorotheos’, p. 653 e, natu-ralmente, F. BRANDSMA, Dorotheus and his Digest Translation, pp. 3 e ss.).

558 Per l’attribuzione cfr., infatti, C.G.E. HEIMBACH, Manuale Basilicorum, p. 292 ad h.l. (che richiama il relativo índix).

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« SERVIUS RESPONDIT »

370

della moglie Licinia di quest’ultimo.

Il primo, infatti, diventa ‘Quinto Mucio’, il secondo, invece,

‘Licinio Gracco’, che assorbe, in uno solo, i nomi della coppia con-

sortile. Licin(n)ia, per contro, viene ricordata semplicemente come

mulier, ossia uxor (gun»). Si veda, infatti,

Sch. 1 (F, Pa) ad Bas. 28.8.63 pr. [BS. V, 1938 = Hb. III,

289]: « “Osa pr£gmata cwrˆj nomism£twn lamb£nei ™n proikˆ Ð

¢n¾r, crewste‹ ™p' aÙto‹j m»te dÒlon ¡mart£nein m»te ·vqu-

me‹n aÙtîn. Toàto d epen Ð Sšrbioj ¢kolouqîn gnèmV toà

Kontou Mouk…ou: Ð g¦r KÒ ϊntoj MoÚkioj ™pˆ tÁj gu-

naikÕj Likin…ou Gr£gcou ¢pef»nato t¦ proikima‹a pr£g-

mata ¢polÒmena ™n tÍ ™fÒdJ, ™n Î Gr£gcoj Ð an¾r aÙtÁj

¢nVršqh, Ñfe…lein parasceqÁnai tÍ aÙtoà gunaik…, ™peid¾ pa-

r' a„t…an aÙtoà toà Likin…ou Gr£gcou gšgonen ¹ œfodoj ».

Può apparire singolare che un antecessor come Doroteo pos-

sa aver equivocato — e così ampiamente — sull’onomastica: pur-

troppo il lavoro di Brandsma sulla sua ‘Digest translation’ non fa ac-

cenno ai testi ora richiamati 559; può essere, tuttavia, di qualche aiuto

laddove mostra che — probabilmente — il giurista bizantino tendeva

a lasciare inalterati (ossia in lettere latine) i nomi propri, e che questi

venivano poi deformati (o più semplicemente adattati e contratti per

traslitterazione) nelle trascrizioni successive.

È il caso, ad esempio, di sch. 1* ad Bas. 60.3.34 [BS. VIII,

3147; Hb. V, 307], ove al classico nome convenzionale latino ‘Sti-

chus’ si sostituisce il greco « St…knoj » 560, e, più ancora, dove Pa-

559 Cfr. F. BRANDSMA, Dorotheus and his Digest Translation, pp. 321, 326 e 328

(‘Index’ delle fonti). 560 Scrive, infatti, lo stesso BRANDSMA, op. cit., p. 61: « Stichus, however, be-

came St…knoj, but this could have a palaeographical cause: the Latin uncial H re-sembles the Greek uncial N (= n) and perhaps that is why the H in STICHUS was

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

371

pinianus si trasforma nella forma contratta « PappianÒj » (Sch. 1

ad Bas. 47.3.42 [BS. VII, 2805; Hb. IV, 612]) o dove, ancora, Aelia-

nus diventa, probabilmente in più passaggi successivi, « A„lianÒj »

e, quindi, finalmente con scomparsa del dittongo, « 'ElianÒj » (Sch.

taken for a N and STICHUS became STÍKNOS » (e si veda, in precedenza, N. VAN DER

WAL, Die Schreibweise der dem lateinischen entlehnten Fachworte in der frühby-zantinischen Juristensprache, p. 51: « […] der Sklave STICHOS mit seinem eigentlich griechischen Namen heisst zwar zuweilen St…coj , aber viel öfter (und in den meis-ten Handschriften immer und ausnahmslos) St…knoj »). A notare, infatti, l’onomastica delle fonti bizantine, generalmente e al posto di Titius, Seius o Seia, Attius — che pure si ritrovano negli scÒlia (vd., appunto, lo Sch. 1 ad Bas. 47.3.42 [BS. VII, 2804-2805; Hb. IV, 612]; lo Sch. 1* ad Bas. 60.3.34 [BS. VIII, 3147; Hb. V, 307]) nonché lo Sch. 1 ad Bas. 48.5.40 [BS. VII, 2911; Hb. IV, 708], cit. supra, sub E.1. , particolarmente preciso sul punto (e, si noti, sempre ritenuto tratto dall’Índix di Doroteo: cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Ba-silicorum, p. 319 ad h.l., ma omesso nello studio del BRANDSMA: cfr. op. cit., p. 329 [‘Index’]) — vengono talora introdotti, sotto l’evidente influsso di reminiscenze neotestamentarie, nomi quali quelli di Pštroj, Paàloj e Mar…a (cfr. Bas. 48.5.38 [Pštroj, BT. VI, 2209; Hb. IV, 708] = D. 40.7.37 [Stichus]; Bas. 48.5.40 pr. e §§ 3 e 4 [Pštroj – Paàloj – Mar…a, BT. VI, 2209; Hb. IV, 708-709] = D. 40.7.39 pr. e §§ 3 e 4 [Stichus – Attius – Dama — Attia]; Bas. 48.5.41 pr. e §§ 2 e 8 [Pštroj, ma resta tale, per ovvi motivi di contiguità linguistico-geografica, Pamphilus, ossia P£mfiloj, BT. VI, 2209-2210; Hb. IV, 709-711] = D. 40.7.40 pr. e §§ 2 e 8 [Sti-chus – Pamphilus – Dama]). Non fanno testo, per contro, Bas. 48.5.39 [Paulu, BT. VI, 2209; Paàloj, Hb. IV, 708] = D. 40.7.38, poiché la presenza del nome Paàloj riguarda la menzione del giurista, autore del passo (Paul. I ad Nerat. = Pal. Paul. 1028). Quanto all’influenza esercitata da elementi neotestamentari, mi permetto di riproporre le osservazioni precedentemente offerte in M. MIGLIETTA, Riflessioni in-torno a Bas. 23.1.31.1, p. 702, laddove, con riguardo alle difficoltà legate all’analisi filologico-esegetica dei testi bizantini, si nota che, spesso in questi casi si entra a contatto non già con il codice espressivo greco per così dire ‘classico’ — ammesso, e non concesso, che si possa parlare di una lingua greca unitaria (poiché esistevano, in realtà, i dialetti ionico, dorico ed attico) — bensì con un vocabolario fortemente contaminato dalla prassi burocratica e persino curiale, qualche volta tratto dalla filo-sofia e dalla teologia del mondo costantinopolitano, con le trasformazioni e le varia-zioni (anche sottili o quasi impercettibili) che esso può aver subito nel corso dei se-coli che vanno dal VI al XII d.C., ossia dall’epoca della Compilazione giustinianea fino al termine dell’attività dei cosiddetti ‘scoliasti’.

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« SERVIUS RESPONDIT »

372

1 ad Bas. 48.1.10 [BS. VII, 2814; Hb. IV, 619]) 561.

Altrove, invece, il nome mantiene una corretta scrittura (ad

esempio quello delle leggi: Ð Akoulioj oppure Ð Falk…dioj) 562,

come per quanto riguarda il giurista Bruto, che viene indicato così e

correttamente: « Ð Broàtoj » 563.

Le spiegazioni di Brandsma, tuttavia, possono valere solo in

certa misura, almeno in relazione allo scholium qui esaminato. Infat-

ti, o si presume che una successiva trascrizione del testo doroteano

abbia completamente disatteso (in punto relazione dei nomi)

l’originale 564, oppure bisogna concludere — allo stato attuale della

fonte — che l’antecessor beritense avesse equivocato sui riferimenti

onomastici. E la struttura del periodo finale del passo (« Ñfe…lein

parasceqÁnai tÍ aÙtoà gunaik…, ™peid¾ par' a„t…an aÙ-

toà toà Likin…ou Gr£gcou gšgonen ¹ œfodoj ») sollecita,

senza dubbio, a questa seconda soluzione, poiché, sintatticamente 565,

non permette di interpretare le mutazioni come frutto di semplici

561 Cfr., sul punto, VAN DER WAL, op. et loc. cit.; BRANDSMA, op. cit., pp. 67-69

(e 69 nt. 77). 562 Salva la variazione — ovvia, del resto — per quanto riguarda il genere, poi-

ché, in greco, si tratta dei nÒmoi e non delle leges: cfr., e.g., Theoph. Par. 1.1.3 non-ché Theoph. Par. 2.22 e 4.3. Ma, in queste ipotesi, il mantenimento del preciso no-men è, in qualche misura, imposto dal fatto che ci si trova avanti a testi legislativi tradizionali, di cui difficilmente un giurista sufficientemente accorto e informato (ancorchè di lingua greca) poteva errare la titolatura (e così pure, di norma, un dili-gente trascrittore successivo).

563 A questo proposito BRANDSMA, op. cit., p. 51, osserva che « it is remarkable that the name of the lawyer Brutus has been translated ».

564 Del resto, tra gli errori (forse di tipo irriflesso) si può enumerare quello con-tenuto nella rubrica di Bas. 29.1.63 [BT. 1459; Hb. III, 402], in cui il nome del giu-rista Proculus è reso con « Prócula » (ma solo nell’edizione olandese, poiché quella degli Heimbach offriva la forma tronca « Prokoul. », e vd. ivi, nt. p ).

565 Mi riferisco, in particolare alle parti « tÍ aÙtoà gunaik… » e « par' a„t…an aÙtoà toà Likin…ou Gr£gcou ».

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

373

pecche, per così dire, di natura meccanica 566.

Ciononostante — e ribadisco — lo Sch. 1 (F, Pa) ad Bas.

28.8.63 pr. è, comunque, utile alla comprensione delle parti composi-

tive del testo latino corrispondente.

E.5. – Pomp. I ench., D. 38.10.8 [= Pal. Serv. 60 → Pal.

Pomp. 174; Br. 2 de dotib.] 567: « [ Servius [recte] 568 dicebat ]

socri et socrus et generi et nurus appellationem etiam ex sponsalibus

adquiri » 569.

Il passo pomponiano trova riscontro — e conferme testuali

— in Bas. 45.3.6 [Pompωniu., BT. VI, 2098; Ποµπων., Hb. IV, 521],

accompagnati da tre scolii, ossia Sch. 1-2 (Pc) [BS. VII, 2703 = Sch.

1, Hb. IV, 521] 570 e 3§ [BS. eod.] 571. Il primo, in particolare, rispec-

chia la scrittura di D. 38.10.8, mentre gli altri svolgono la (mera) fun-

zione di operare rinvii testuali 572.

566 Questo fenomeno potrebbe spiegarsi con la distanza temporale esistente tra la scrittura di Doroteo e i fatti narrati (vi è un intervallo superiore ai 650 anni, se, come osserva BRANDSMA, op. cit., pp. 7-8, « Dorotheus wrote his Digest translation be-tween 536 AD (Novell 22) and 539 AD (Novell 78), while he must have died before 542 AD »).

567 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 227 [Servius, de dotibus liber, frg. 2, ‘de dotis repetitione’].

Per quanto riguarda la tradizione bizantina, vd. nuovamente infra, nel testo. 568 Così BREMER, op. et loc. ult. cit. Il giudizio è di Pomponio, ed è (inconsueta-

mente) adesivo rispetto al pensiero di Servio: vd. già supra, cap. I, § 3. 569 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 330, ad h.l. Vd., particolarmente, M. BRETONE,

Linee dell’Enchiridion di Pomponio, pp. 37 e ss. = ID., Tecniche e ideologie dei giu-risti romani 2, p. 215 e ss.

570 A proposito della divisione in due scholia (a differenza dell’edizione Heim-bach, che ne propone uno unitario), BS. VII, 2703 ad lin. 19 ammonisce che, lo Sch. 2, « errore in fine scholii praecedentis [i.e. Sch. 1] ponit Pc ».

571 Assente, quest’ultimo, nell’edizione ottocentesca. 572 I rimandi si riferiscono, rispettivamente, a C.I. 6.61.5 [impp. Leo et Anthem.,

a. 473]: « “Oqen tù nÒmati toà ¢ndrÕj kaˆ tÁj gametÁj perišcontai kaˆ oƒ mnhstÁrej, æj bib. j/. toà Kwd. tiit. xa/. diat. e/. » [Sch. 2], e, mi pare di capire,

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« SERVIUS RESPONDIT »

374

Lo Sch. 1 cit. — desunto dall’Indice di Doroteo 573 — è quel-

lo che più rileva, poiché apre ricalcando fedelmente l’incipit del pas-

so latino (« Servius recte dicebat… »): « 'Orqîj 574 kaˆ Ð SeroÚϊoj œlege t¾n proshgor…an <toà> penqeroà kaˆ tÁj penqer©j kaˆ

toà gambroà kaˆ tÁj nÚmfhj ™x aÙtÁj tÁj mnhste…aj ¥rces-

qai ».

Nella edizione degli Heimbach la simmetria è lievemente

minore, poiché il testo comincia con « Ñrqîj kaˆ Ð SeroÚϊoj œle-ge... » et rell., ma quella olandese è preferibile, anche per confronto

con D. 38.10.8, ove Servio non è uno tra altri a intervenire nella di-

scussione (come lascerebbe supporre la presenza della congiunzione

« ka… », da rendersi con ‘anche Servio dice’ piuttosto che con ‘e

Servio dice’) 575, bensì colui cui risale la definizione.

Il brano originario, nella sua essenza, può in ogni caso essere

con un errore di numerazione (9 al posto di 8), a D. 38.10.8: « Pare…qe tÕ q/. dig. » [Sch. 3§]. Quanto al primo brano, in esso è racchiusa una definizione ritenuta dallo scoliaste analoga a quella di D. 38.10.8 (o, piuttosto, analoga a Bas. 45.3.6), ma, in realtà, si tratta di due princìpi differenti. In Sch. 1 cit., infatti, si illustra una conse-guenza indiretta della celebrazione delle nozze, per cui gli sposi e i rispettivi paren-tes acquistano, in forma incrociata, gli status giuridici di genero, nuora, suocero e suocera, mentre nel caso della constitutio de qua se ne trae — ma solo per deduzione — che uomo e donna sposati possono definirsi, unitariamente e, quindi, direttamen-te, come ‘sposi’, così come vorrebbe lo scoliaste. Per il testo bizantino della consti-tuzione cfr. anche Bas. 45.4.8 [BT. VI, 2107; Hb. IV, 532] con Sch. Pc 1 e 2 [BS. VII, 2712-2713; Hb. IV, 532], il primo dei quali attribuito a Teodoro; il secondo, invece, rappresenta un’interessante traduzione kat¦ pÒda, molto fedele, infatti, a C.I. 6.61.5.

573 Vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale legum, p. 312 ad h.l.

574 Quanto al significato giuridico, e a quello atecnico, di « Ñρθîς » nelle fonti bizantine vd. R. QUADRATO, Ancora su ‘utiliter agere’, p. 361 (con osservazioni per-tinenti in ordine alle riflessioni di D. DAUBE, Utiliter agere, pp. 69 e ss., il quale cita numerosi passi tratti dai libri Basilicorum, e relativi scholia, ma senza soffermarsi mai, espressamente, come si sarebbe dovuto fare, sulla terminologia greca).

575 Cfr., infatti, in questa direzione anche Hb. IV, 521 (versio latina), ad h.l.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

375

attribuito integralmente 576 al maestro di Alfeno, come pare potersi

desumere — per quanto con la valenza di un argomento e silentio, e,

pertanto, indiziario — dall’assenza di ogni dubbio testuale 577.

E.6. – Pomp. XXXVIII ad Q.M., D. 47.2.77(76).1 [= Pal.

Serv. 79 → Pal. Pomp. 322; Br. 11 repr. Scaev. cap.] 578: « [ Si quis

alteri furtum fecerit et id quod subripuit alius an eo subripuit , cum

posteriore fure dominus eius rei furti agere potest, fur prior non po-

test, ideo quod domini interfuit, non prioris furis, ut id quod subrep-

tum est salvum esset. Haec Quintus Mucius refert et vera sunt: nam

licet intersit furis rem salvam esse, quia condictione tenetur, tamen

cum eo is cuius interest furti habet actionem, si honesta ex causa in-

terest. Nec utimur] Servii sententia, qui putabat, si rei subreptae

dominus nemo exstaret nec exstaturus esset, furem habere furti ac-

tionem [: non magis enim tunc eius esse intellegitur, qui lucrum fac-

turus sit. Dominus igitur habebit cum utroque furti actionem, ita ut,

si cum altero furti actionem inchoat, adversus alterum nihilo minus

duret: sed et condictionem, quia ex diversis factis tenentur] ».

576 Con la sola, contenuta eccezione — come s’è visto — del giudizio di valore

espresso da Pomponio mediante l’uso dell’avverbio ‘recte’. 577 Cfr. E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, III, coll. 66-67 ad D. 38.10. 578 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 223-

224 [Servius, reprehensa Scaevolae capita, frg. 11, ‘de furtis’]. L’eventuale inscri-vibilità del frammento all’interno dell’opera di commento critico al pensiero di Sce-vola è dubitativamente accennata da O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 332 nt. 1 ad h.l., laddove, alle parole « Servii sententia, qui putabat », postilla « in re-prehensis Scaevolae capitibus? ».

Per quanto D. 47.2.77(76).1 trovi riscontro in Bas. 60.12.77(76).1 [’Idém. = Pompo., BT. VIII, 2848; ”Idem. = Ποµπ., Hb. V, 526], a cui sono uniti alcuni scholia — ovvero Pe 4-8 [BS. VIII, 3432-3433 = Sch. 7 e 9, Hb. V, 526-527] e 10* [BS. VIII, 3433 = Sch. 8, Hb. V, 527] — non ha luogo alcuna menzione della critica pomponiana alla Servii sententia, né vi è traccia di dissensio. I testi greci, poi, non aggiungono nulla di utile alla riflessione oggetto di questo capitolo.

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« SERVIUS RESPONDIT »

376

La sezione attribuibile al pensiero di Servio — e che corri-

sponde alla sententia ‘non più seguita’ — mi pare si risolva nella so-

la parte evidenziata (« [nec utimur] Servii sententia – furti actio-

nem »), a partire dalla prima parte della fattispecie, che costituisce il

presupposto logico della decisione serviana 579. Infatti, la parte che

segue (« cum posteriore fure – quod subreptum est salvum esset ») si

ricollega al giudizio muciano (« haec Quintus Mucius refert ») 580 cui

aderisce Pomponio (« et vera sunt – si honesta ex causa inte-

rest ») 581, il pensiero del quale — Pomponio — torna nella sezione

conclusiva del brano (« non magis enim – in fin. ») 582.

A favore di questa soluzione, infatti, militano le congiunzio-

ni « nam » ed « enim », che collegano, rispettivamente, i relativi giu-

dizi apposti alle opinioni riportate, e che individuando il punto in cui

si inserisce il discorso di Pomponio 583. E, probabilmente, non è mar-

ginale osservare che la critica testuale si è abbattuta con una qual cer-

ta gravità sul paragrafo in questione, risparmiando, tuttavia, in modo

integrale le parti « si quis alteri furtum – an eo subripuit » e « nec

utimur Servii sententia – furem habere furti actionem », che corri-

579 Cfr., in proposito, M. BRETONE, La tecnica del responso serviano, p. 14 e nt.

15 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 100 e nt. 15. 580 Cfr. D. LIEBS, Die Klagenkonkurrenz im römischen Recht. Zur Geschichte

der Scheidung von Schadensersatz und Privatstrafe, p. 133, per la sicura derivazione muciana della parte inziale, fino a « salvum esset », così come, tra altro, starebbe a provare la ‘non-pomponiana lapidarietà’ del linguaggio (« wie auch die ganz un-pomponisch nappe, lapidare Diktion ergibt »: op. cit., p. 133; cfr. anche, implicita-mente, p. 103 nt. 91). Vd., inoltre, T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 511.

581 Cfr., e parrebbe in questo senso, F. HORAK, Rationes decidendi, p. 112 nt. 37; si veda, inoltre, la precisa divisione delle parti costitutive in G. KLINGENBERG, ‘Con-stitutum est’ in D. 47,2.14,4, pp. 248 e ss. (p. 248 nt. 13, per indicazioni bibliografi-che).

582 Più ampie, invece, le proposte di LENEL, op. et loc. ult. cit., e di BREMER, op. et loc. ult. cit., ossia, rispettivamente, « Si quis alteri – non potest [...] haec Quintus Mucius – furem habere furti actionem », e « Si quis alteri – fur prior non potest [...] haec Quintus Mucius refert [...] nec utimur furem habere furti actionem »

583 Intorno a questo passo vd. già supra, cap. I, § 3.1.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

377

spondono appunto — secondo il presente modo di vedere — alla

premessa concettuale e alla sezione che trasmette il pensiero del ma-

estro di Alfeno 584.

E.7. – Pomp. XXX ad Sab., D. 32.57 [= Pal. Serv. 44 →

Pal. Pomp. 749; Br. 26 resp.] 585: « Servius respondit , cui omnis

584 Analizzando i vari ‘veti incrociati’ degli studiosi, il passo corrisponderebbe

alla seguente versione (in cui le parentesi quadre racchiudono i brani criticati): « Si qu is a l te r i fur tum fecer i t e t id quod sub ripu i t a l iu s an eo sub ri -pu i t , cum po ster iore fu re dominus e iu s re i fur t i ag ere po t es t , fur pr ior non po tes t (a.) [, ideo quod domini interfuit, non prioris furis, ut id quod subreptum est salvum esset]. Haec Quintus Mucius refert et vera sunt: (b.) [nam licet intersit furis rem salvam esse, quia condictione tenetur, tamen cum eo is cuius interest] furti habet actionem, (c.) [si honesta ex causa interest]. Nec u t imur Ser-v i i s en ten t ia , qu i pu tabat , s i re i sub rep ta e dominus nemo exs ta re t nec exs ta turus es se t , furem habere fu r t i act ion em (d.) [: non magis enim tunc eius esse intellegitur, qui lucrum facturus sit. (e.) Dominus igitur habebit cum utroque furti actionem, ita ut, si cum altero furti actionem inchoat, adversus al-terum nihilo minus duret: sed et condictionem, quia ex diversis factis tenentur] ».

Cfr., infatti, per (a.): M. PAMPALONI, Sopra il delitto di furto, I, p. 155 (contra, però, D. LIEBS, Die Klagenkonkurrenz im römischen Recht, pp. 133 e ss., il quale conduce una particolareggiata disamina conservativa del testo, con attente puntua-lizzazioni sintattico-grammaticali, in virtù delle quali si parla addirittura di ‘presun-zioni interpolazionistiche inconsistenti’ [« Interpolationsbehauptungen ... hinfäl-lig »: cfr. op. cit., p. 134]); per (b.): ancora PAMPALONI, op. et loc. ult. cit., ma vd. contra, B. KÜBLER, op. cit., p. 527; per (c.): M. KASER, Rechtswidrigkeit und Sitten-widrigkeit im klassischen römischen Recht, p. 115 nt. 1. Assai tormentata, infine, la sezione conclusiva « non magis – ex diversis factis tenentur », segnalata dai punti (d.) ed (e.), in ordine ai quali vd., per (d.), con qualche incertezza, P. HUVELIN, op. cit., p. 86 nt. 4; per (e.), con diverse estensioni, « VIR. », III, col. 19, linn. 40-41 (ad v. ‘habeo’: « Trib. ? »); BESELER, Beiträge, IV, 300 (da « ita [inteso quale glossema sostitutivo di ‘vel’] – in fin. »); « sed et condictionem », e per la parte « quia ex di-versis factis tenetur », E. LEVY, Die Konkurrenz der Aktionen und Personen im klas-sischen römischen Recht, I, pp. 481-482 (e cfr. ID., op. cit., II.1, p. 114) nonché, in-fine, P. KRÜGER, Supplementa adnotationum, in « CIC. 13 », ad h.l. e KASER, op. et loc. ult. cit.

585 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 175 [Servius, responsorum libri, frg. 26, ‘de materia legata’].

Il testo non trova riscontro nell’edizione olandese dei Basilici [vd. BT. VI, 2002-

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« SERVIUS RESPONDIT »

378

materia legata sit, ei nec arcam nec armarium legatum esse ».

Quanto alla collocazione di questo brano — ossia, sotto la

sezione ‘E.’ deputata a raccogliere gli ‘squarci’ della elaborazione

serviana, anziché sotto la sezione ‘B.’ 586 — ho nutrito alcune per-

plessità, dovute al fatto che la riflessione del nostro giurista, in sé

chiara e conclusa, è retta dal verbo respondere, al quale si è dato, in

questo capitolo, un rilievo particolare. A ben vedere, tuttavia, nono-

stante questa particolarità semantica, D. 32.57 non va molto oltre la

relazione della regula. Questa pare, dunque, la sede (più) appropria-

ta.

Circa la riconduzione del brano a Servio, non sembra possa

essere avanzato alcun ragionevole dubbio 587. E si conferma — pur

nella essenzialità del testo — il valore del verbo tecnico utilizzato dal

referente, che, ancora una volta, conferma il fatto che siano state

(probabilmente) riportate le parole del giurista citato 588. 2003], nella quale è stato deciso, come di prassi, di obliterare la congettura di Heim-bach, fondata sulla misurata testimonianza di Tipuc. 44.3.57(55), riproposta da que-sti, invece, in Bas. 44.3.55 [Hb. IV, 382]. In ogni caso, manca qualsiasi commento da parte di scoliasti (l’edizione Scheltema, peraltro, a differenza di quella tedesca, passa direttamente dagli scholia di Bas. 42.4 a quelli di Bas. 45.1 [cfr. BS. VII, 2641-2642]).

586 La sezione ‘B.’ è intitolata ‘Passi con parziale caduta della tripartizione retti dal verbo ‘respondere’. Per quanto riguarda, infatti, D. 32.57, la caduta della forma tripartita non è parziale, bensì completa (poiché è sopravvissuto soltanto il respon-sum vero e proprio).

587 In questo senso, da ultimo, si esprimono senz’altro A. WACKE, Pecunia in ar-ca, pp. 10-11 = in [versione tedesca] « OIR. », VIII, 2003, pp. 71-72 (dove, per svi-sta, il passo è citato come D. 32.57 pr., mentre esso non è stato assoggettato ad alcu-na divisione in paragrafi) ed O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, p. 56 nt. 63.

588 Alludendo sempre ad una relazione sostanziale (probabilmente vicina al teno-re letterale originale). Sul tema, e sul passo (tra altri), un cenno in E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 316 nt. 36. Anticipo che D. 32.57 sarà ripre-so nella parte terza di questi ‘studi’, laddove, verificando l’effettività del metodo dialettico serviano, si tratterà dell’operazione del ‘definire’.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

379

E.8. – Pomp. XI ex var. lect., D. 4.8.40 [= Pal Serv. 13 →

Pal. Pomp. 832; Br. 95b resp.] 589 : « [Arbiter calendis Ianuariis

adesse iussit et ante eum diem decessit: alter ex litigatoribus non ad-

fuit. Procul dubio poena minime commissa est: nam et Cassium au-

disse se dicentem Aristo ait in eo arbitro,qui ipse non venisset, non

esse commissam: quemadmodum] Servius ai t , si per stipulatorem

stet, quo minus accipiat, non committi poenam ».

Il passo — in ordine al quale è stato richiamato anche quello

di Ulp. LXXVII ad ed., D. 22.2.8 [= Pal. Ulp. 1696; Pal. Serv.

13] 590, che verrà trattato più oltre 591 — presenta, ancora una volta,

l’uso della forma verbale ‘ait’, riferita a Servio, come introduttiva

alla relazione compendiata di un suo responso 592.

589 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 197

[Servius, responsorum libri, frg. 95b, ‘de mutuo’]. Per le fonti bizantine si veda, immediatamente di séguito, il testo. 590 O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 324 ad h.l. (che ne fa la seconda

parte del frammento palingenetico) e BREMER, op. et loc. ult. cit., che, invece, la po-ne in testa, con la dazione del numero di fgr. « 95a ». Il testo di D. 22.2.8 è il seguen-te: « Servius ait pecuniae traiecticiae poenam peti non posse, si per creditorem ste-tisset, quo minus eam intra certum tempus praestitutum accipiat ». Cfr., in proposi-to, C. CASCIONE, Consensus. Problemi di origine, tutela processuale, prospettive si-stematiche, p. 321 nt. 49 nonché M. PENNITZ, Zu den Voraussetzung der mora acci-piendi im klassischen römischen Recht, p. 167 nt. 63.

591 Vd. infra, in questo stesso paragrafo, frg. E .34 . . 592 Il testo qui reso coincide con le valutazioni di LENEL, op. et loc. ult. cit. e

BREMER, op. et loc. ult. cit. È appena il caso di osservare che non vi sono ragioni per discostarsi da una simile restituzione. Si veda, conformemente nella sostanza, CA-

SCIONE, op. cit., p. 313 nt. 28 (il quale sottolinea, inoltre, e opportunamente, le affi-nità tematiche di D. 4.8.40 con Ulp. XIII ad ed., D. 4.8.23.1 [= Pal. Cels. 18]) e PENNITZ, op. cit., pp. 168 e ss. Cfr., inoltre, E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e in Gaio, p. 48; R. KNÜTEL, Stipulatio poenae, pp. 208 e ss. (210, in par-ticolar modo); P. APATHY, Mora accipiendi und Schadenersatz, p. 195, e, più in ge-nerale sul testo, A. SICARI, Pena convenzionale e responsabilità, pp. 345 e ss. (non-ché EAD., ‘Compromissum’ e ‘cautio vadimonium sisti’: quale responsabilità?, p. 662).

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« SERVIUS RESPONDIT »

380

D’altro canto, la sezione attribuibile al giurista tardorepub-

blicano (« Servius – poenam ») costituisce oggetto della coda di Bas.

7.2.40 [BT. I, 315; Hb. I, 260] 593 — « ésper oÜte Óte Ð

™perwt»saj ™mpod…sei labe‹n », che fa séguito alle parole « oÙ

bebaioàtai ¹ poin» » 594 — che, così, in qualche modo, ne sottoli-

neano l’autonomia 595.

In altre testimonianze è citata una definitio, una distinctio o

una sententia di Servio. È il caso di

E.9. – Afr. VII quaest., D. 44.7.23 [= Pal. Serv. 76 → Pal.

Afr. 75; Br. 144 resp.] 596: « [Traiecticiae pecuniae nomine, si ad

diem soluta non esset, poena (uti adsolet) ob operas eius qui eam pe-

cuniam peteret in stipulationem erat deducta: is qui eam pecuniam

petebat parte exacta petere desierat, deinde interposito tempore in-

593 Bas. 7.2.40: « 'E¦n ™pitršyV Ð aƒretÕj dikast¾j paraful£xai ta‹j ka-

l£ndaij kaˆ À aÙtÕj m¾ œlqV À kaˆ teleut»sV prÕ tîn kalandîn, oÙ be-

baioàtai ¹ poin», ésper oÜte Óte Ð ™perwt»saj ™mpod…sei labe‹n ». In Hb. I, 260, il passo è introdotto dalla menzione del nome dell’autore di

D. 4.8.40 (« Pompwn. »). Per completezza — ma senza rilevanza diretta per le os-servazioni ora offerte — si possono lèggere anche gli scholia 1-3 ad Bas. 7.2.40, trasmessi dal ‘Florilegium Lesbiacum’ [L. Burgmann – M.T. Fögen, edd., in « Fon-tes minores », V, 135], di certo interesse poiché coinvolgono un testo dei libri Basi-licorum privo di scolii nelle edizioni Heimbach e Scheltema.

594 Nell’edizione Heimbach [Hb. I, 260] il periodo conclusivo (« ésper – la-be‹n ») è introdotto dal segno ortografico del punto alto (che corrisponde, com’è no-to, al díkolon: cfr. T. DORANDI, s.v. ‘Lesezeichen’, coll. 89-90), a segnare, ancora più fortemente, l’autonomia concettuale della frase (« oÙ bebaioàtai ¹ poin» : ésper oÜte Óte Ð ™perwt»saj ™mpod…sei labe‹n »).

595 Il passo dei libri Basilicorum è privo di scholia: cfr. BS. I, 47; Hb. I, 260 (vd. già supra, nt. 593).

596 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 212 [Servius, responsorum libri, frg. 144, ‘de iudice et arbitro’].

Per le fonti bizantine, vd. appena infra, nel testo.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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terpellare instituerat. Consultus respondit 597 eius quoque temporis,

quo interpellatus non esset, poenam peti posse: amplius etiamsi om-

nino interpellatus non esset: nec aliter non committi stipulationem,

quam si per debitorem non stetisset, quo minus solveret: alioquin di-

cendum et si is, qui interpellare coepisset, valetudine impeditus in-

terpellare dedisset, poenam non committi. De illo sane potest dubita-

ri, si interpellatus ipse moram fecerit, an, quamvis pecuniam postea

offerat, nihilo minus poena committatur: et hoc rectius dicitur. Nam et si arbiter ex compromisso pecuniam certo die dare iusserit

neque per eum, qui dare iussus sit, steterit, non committi poenam

respondit 598:] [ adeo ut et illud ] Servius [ rectissime ] exist imave-

ri t , si quando dies, qua pecunia daretur, sententia arbitri conprehen-

sa non esset, modicum spatium datum videri. [Hoc idem dicendum et

cum quid ea lege venierit, ut, nisi ad diem pretium solutum fuerit, i-

nempta res fiat] ».

Lenel e Bremer presentano, come frammento serviano, l’in-

tera la sezione che va da « si arbiter ex compromisso… » fino a

« modicum spatium videri » 599. Qui come altrove, invece, si è ritenu-

to opportuno scindere anche la parte « si arbiter – non committi poe-

nam respondit »: la presenza di tale forma verbale, che certo non può

riferirsi a Servio (trattandosi, probabilmente, del maestro di Africa-

no, Giuliano), suggerisce questa differente soluzione, sebbene la fat-

597 Potrebbe trattarsi di Giuliano: vd., infatti, la supposizione riportata appena in-

fra, nt. seg., sebbene LENEL, op. cit., I, col. 500 (‘Iulianus laudatur non indicato li-bro’) non abbia ritenuto di spingere l’ipotesi fino all’inserimento di D. 44.7.23 all’interno dell’elenco dei frammenti riconducibili al codificatore dell’Editto.

598 Scl. « Iulianus? »: così LENEL, op. cit., II, col. 332 ad h.l. e, parimenti, BRE-

MER, op. et loc. cit. Parla, però, e per evidente sovrapposizione sul nome del giurista di cui si tratta implicitamente in D. 19.2.35.1 con quello dello scrivente Africano, lo Sch. 2 ad Bas. 20.1.34 [BS. 1197 = Sch. 1, Hb. II, 357-358].

599 LENEL, op. et loc. ult. cit. e BREMER, op. et loc. ult. cit.

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« SERVIUS RESPONDIT »

382

tispecie sia all’origine della presa di posizione serviana 600.

In modo conforme al parere degli studiosi tedeschi, credo

che nel finale (« hoc idem – in fin. ») ritorni, anche nella sostanza, la

scrittura di Africano 601.

E.10. – Afr. VIII quaest., D. 19.2.33 + D. 19.2.35 pr.-1

[= Pal. Serv. 29 → Pal. Afr. 100; Br. 113 resp.] 602: « [Si fundus

600 E, in questi termini, parrebbe condurre anche quanto assai contenutamene ri-portato dai libri Basilicorum, come riferibile a Servio: vd. appena infra, nel testo.

601 A modo di conclusione, si osservi che il passo salvato in D. 44.7.23 corri-sponde a quello di Bas. 52.1.22 [BT. VI, 2423; Hb. V, 106-107]: la versione greca è priva di scolii e, ugualmente, del ricordo di Servio, né è significativa sul punto, poi-ché la parte riferibile al giurista tardorepubblicano è sunteggiata in questa piana os-servazione: « e„ d m¾ prosškeito tÍ y»fJ ¹mšra, sÚmmetroj d…dota… moi prÕj katabol¾n crÒnoj ».

La circostanza per cui i bizantini hanno così limpidamente concentrato in lingua greca la sezione « si quando dies – modicum spatium datum videri », senza avverti-re, in proposito, alcun aspetto problematico, suggerisce di respingere le riserve di A. GUARNERI CITATI, Semel commissa poena non evanescit, pp. 244, e, in particolare, 258 ss. (che finiscono per salvare, del tratto finale, soltanto « ut et [illud] Servius rectissime existimav[er]it », a cui non segue nulla), accolte, invece, da A. MONTEL, La mora del debitore nel diritto romano e nel diritto civile italiano, p. 32 nt. 2, non-ché da O. LENEL, Afrikans Quästionen. Versuch einer kritischen Palingenesie, p. 31 (quest’ultimo sul solo passaggio « modicum spatium datum videri », ma giudicato « sicher unecht », tanto che « was Servius wirklich gesagt hat, läßt sich nicht ermit-teln »: ivi nt. 5), che rintracciavano nell’avverbio « adeo », ma, soprattutto, nella lo-cuzione « si quando » fino a « videri », la mano dei Compilatori. Per il resto, quanto di interesse ai fini della presente indagine non è stato scalfito dalla critica interpola-zionistica (mentre la prima parte del brano, « traeiecticiae pecuniae – et hoc rectius dicitur », è stato fortemente bersagliato: cfr., infatti, H. SIBER, Interpellatio und Mo-ra, pp. 99 e 104, con LENEL, op. cit., p. 31 e ntt. 2-3; G. BESELER, Romanistische Studien, in « Tij. = RHD. » X, 1930, p. 207; ampiamente, sulla parte « alioquin di-cendum – hoc rectius dicitur », il lapidario giudizio [haec] « verba [...] interpolata videntur » di P. BONFANTE – C. FADDA – C. FERRINI – S. RICCOBONO – V. SCIALOIA, Digesta Iustiniani Augusti, p. 1280 nt. 1, ad h.l.).

602 Sulla restituzione del passo cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 202-203 [Servius, responsorum libri, frg. 113, ‘de locatione conductione, de fundo conducto’ = D. 19.2.35.1]; pp. 204-205 [Servius, responso-rum libri, frg. 119b, ‘de insula conducta’ = D. 19.2.35 pr.]. Lo Studioso tedesco tra-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

383

quem mihi locaveris publicatus sit, teneri te actione ex conducto, ut

mihi frui liceat, quamvis per te non stet, quo minus id praestes: que-

madmodum, inquit, si insulam aedificandam locasses et solum cor-

ruisset, nihilo minus teneberis. Nam et si vendideris mihi fundum is-

que priusquam vacuus traderetur publicatus fuerit, tenearis ex emp-

to: quod hactenus verum erit, ut pretium restituas, non ut etiam id

praestes, si quid pluris mea intersit eum vacuum mihi tradi. Similiter

igitur et circa conductionem servandum puto, ut mercedem quam

praestiterim restituas, eius scilicet temporis, quo fruitus non fuerim,

nec ultra actione ex conducto praestare cogeris. Nam et si colonus

tuus fundo frui a te aut ab eo prohibetur, quem tu prohibere ne id fa-

ciat possis, tantum ei praestabis, quanti eius interfuit frui, in quo

etiam lucrum eius continebitur: sin vero ab eo interpellabitur, quem

tu prohibere propter vim maiorem aut potentiam eius non poteris,

nihil amplius ei quam mercedem remittere aut reddere debebis.

[D. 19.2.35] pr. – Et haec dist inctio convenit illi, quae a Servio

introducta et ab omnibus fere probata est, ut,] si aversione insulam

locatam dominus reficiendo, ne ea conductor frui possit, effecerit,

animadvertatur, necessario necne id opus demolitus est: quid enim

interest, utrum locator insulae propter vetustatem cogatur eam refi-

cere an locator fundi cogatur ferre iniuriam eius, quem prohibere non

possit? [Intellegendum est autem nos hac distinctione uti de eo, qui et

suum praedium fruendum locaverit et bona fide negotium contraxe-

rit, non de eo, qui alienum praedium per fraudem locaverit nec resis-

tere domino possit, quominus is colonum frui prohibeat. 1. – Cum

fundum communem habuimus et inter nos convenit, ut alternis annis

scrive soltanto D. 19.2.35, omettendo il resto del frammento palingentico (con una soluzione che, tuttavia, non pare convincente: soprattutto resta del tutto indimostrato che lo stile del precettore, più che del giureconsulto, debba far propendere per la pa-ternità di Africano [cfr. ivi, pp. 202-203, nota ad D. 19.2.35.1], come egli ritiene, e, soprattutto, che non vi siano relazioni tra D. 19.2.33 e D. 19.2.35).

Per le interessanti fonti bizantine vd. appena infra, nel testo.

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« SERVIUS RESPONDIT »

384

certo pretio eum conductum haberemus, tu, cum tuus annus exiturus

esset, consulto fructum insequentis anni corrupisti. Agam tecum

duabus actionibus, una ex conducto, altera ex locato: locati enim iu-

dicio mea pars propria, conducti autem actione tua dumtaxat pro-

pria in iudicium venient [Servius?, Lenel]. Deinde ita notat Iulia-

nus, supp. Lenel: nonne quod ad meam partem attinebit, communi

dividundo praestabitur a te mihi damnum? Recte quidem notat id.,

sed tamen etiam] Servi sententiam veram esse [puto,] cum eo

scilicet, ut, cum alterutra actione rem servaverim, altera perematur.

Quod ipsum simplicius ita quaeremus, si proponatur inter duos, qui

singulos proprios fundos haberent, convenisse, ut alter alterius ita

conductum haberent, ut fructus mercedis nomine pensaretur » 603.

Il testo in esame — che vanta, almeno fin dal Cuiacio 604,

una lunga tradizione interpretativa 605 — richiama tematicamente

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.2.30 pr. [= Pal. Alf. 54].

Questo parallelismo contenutistico può soccorrere nel tenta-

tivo di risolvere un dubbio insinuato dalla lettura dello Sch. 2 (Pa) ad

Bas. 20.1.34 [BS. III, 1197 = Sch. 1, Hb. II, 357-358] 606, dubbio che

603 Cfr. ibid., col. 326 ad h.l. 604 Cfr., in proposito, I. CUIACIUS, Ad Africanum tractatus, VIII (ad l. et haec di-

stinctio 35 loc.), in ID., Opera, IV, coll. 342-353. Questa sezione dei trattati del grande Giureconsulto francese, relativi alla produzione di Africano, rappresenta una interessante ‘monografia’ dedicata al commento del frammento palingenetico di no-stra pertinenza — ossia a D. 19.2.33 [op. cit., coll. 342-348] e a D. 19.2.35 [op. cit., coll. 348-353] — trattazione che, tuttavia, sembra essere sfuggita agli autori moderni che si sono occupati del tema.

605 Per la letteratura, vd. infra. 606 D. 19.2.33 + D. 19.2.35, sono stati trasferiti, rispettivamente, in Bas. 20.1.32

e in Bas. 20.1.34 [BT. III, 992; entrambi rubricati come « ’Αφρικ. » ma solamente in Hb. II, 357], a cui aderiscono alcuni, anche ampi, scolii: cfr., infatti, Sch. Pa 1-3 ad Bas. 20.1.32 [BS. III, 1196-1197; Hb. II, 357], nonché le code rappresentate dagli Sch. 4§-5§ — il primo e il secondo attribuiti a Cirillo e il terzo a Stefano — e Sch. Pa 1-3 e 4§ ad Bas. 20.1.34 [BS. III, 1197-1198; Hb. II, 357-358].

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

385

non è stato còlto dalla dottrina moderna 607.

Tale fonte, infatti, dovuta alla elaborazione dell’antecessor

Stefano 608, corrisponde a D. 19.2.35.1, e al suo interno fa espressa

menzione di Africano — citato in luogo di Giuliano 609, il quale ‘ait’,

al modo congiuntivo (« ε„πëν Ð ’Αφρικανός ») — e, soprattutto, di

Nerva, definito espressamente come ‘il giurista Nerva’ (« λέγει Ð

Νέρβας Ð νοµιkός », scl. ‘pater’) 610, il quale ‘dicit’ (« λέγει », ap-

607 Anche, ad esempio, da un grande e acuto editore ed esegeta di fonti bizantine quale fu il Ferrini. Cfr., infatti, C. FERRINI, La colonia partiaria, in Opere, III, p. 7: ivi l’Autore analizzava scholia, tra cui uno del nostro antecessor, e, poco oltre, il passo di D. 19.2.35 pr., ma senza altre considerazioni (cfr. anche ID., Intorno ai Di-gesti di Alfeno Varo, pp. 12 = ID., Opere, II, p. 178); né si trae qualcosa di pertinen-te, rispetto al problema trattato, dalle osservazioni di M. KASER, Rec. a K.-H. Below, Der Arzt im römischen Recht, p. 399 nt. 13 (che cita Bas. 20.1.34), né, per quanto ri-guarda la nostra indagine, dalle attente osservazioni condotte da K. MISERA, Der Natzungstausch bei Nachbarn und Miteigentümern, pp. 270, 273 nt. 33, 274 nt. 39, 282 e 284 nt. 91.

608 Per i dati intorno a questo giurista bizantino vd. supra, nt. 402. 609 Vd. supra. 610 Potrebbe manifestarsi come operazione complessa quella di stabilire a quale

dei due giuristi dei I secolo d.C., Cocceius Nerva — pater o filius — intendesse al-ludere Stefano. Ad analizzare, infatti, i testi bizantini corrispondenti ai frammenti del Digesto in cui si citano questi giureconsulti (cfr., rispettivamente, O. LENEL, Pa-lingenesia iuris civilis, I, coll. 787-790 e 791-792: sempre soltanto come Nerva, il pater, e sempre come filius, il discendente), si nota che sia lo Sch. Pc 1 ad Bas. 48.2.22 [BS. VII, 2824; Hb. IV, 628] ↔ D. 40.2.25 [Pal. Nerv. fil. 7], parla espres-samente di « Neruas Ð mikrÒj » (e il testo sembrerebbe da attribuire a Doroteo: cfr. HEIMBACH, Manuale Basilicorum, p. 317 ad h.l.), sia lo Sch. Pa 16 ad Bas. 21.2.2.5 [BS. IV, 1285 = Sch. 12, Hb. 432-433, ove, però vi è soltanto « Nšrbaj »], che ri-flettono D. 3.2.2.5 [= Pal. Nerv. fil. 4], tratta nuovamente di « Ð mikrÕj Nšrbaj ». E questo rispecchia la versione latina originale. Per quanto concerne, invece, Nerva pater, si vedano: Sch. 1 ad Bas. 16.8.12.1 [BS. III, 1002-1003], ↔ D. 7.8.12.1 [= Pal. Nerv. pat. 4], che richiama, due volte (linn. 29 e 3), semplicemente « Ð Nšr-baj »; Sch. 5 ad Bas. 23.1.11 pr. [BS. IV, 1523; Hb. II, 603], ↔ D. 12.1.11 pr. [= Pal. Nerv. pat. 7]: Nšrbaj; Sch. F, Pa 6 ad Bas. 29.1.52.3 [BS. V, 2042; Hb. III, 392], ↔ D. 23.3.56.3 [= Pal. Nerv. pat. 18]: Nšrbaj; e, infine, ancora Sch. 1 ad Bas. 28.11.1 [BS. V, 1951; Hb. III, 300] ↔ D. 25.2.1 [Pal. Nerv. pat. 21]: Nšrbaj.

Se, dunque, le citazioni superstiti di Nerva filius contengono sempre l’ulteriore denotazione d’essere « Ð mikrÒj », mentre il pater è riportato puramente e sempli-

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« SERVIUS RESPONDIT »

386

punto), sostituendo, abbastanza sorprendentemente 611 , il nome di

Servio (ricordato nel Digesto), e assumendone integralmente il pen-

siero 612.

Ora, tutto questo premesso — e (ri)considerata la circostanza

secondo cui talune citazioni di autori classici potessero essere più

prossime agli originali negli scholia di Stefano e Doroteo che nel

manoscritto fiorentino 613 — se non fosse possibile instaurare un pa-

rallelismo tematico tra D. 19.2.33 + D. 19.2.35, da un lato, e

D. 19.2.30 pr., dall’altro, saremmo costretti a porre un serio dubbio

sulla sicura attribuibilità del passo alla palingenesi serviana. Così non

è, ed è di conseguenza possibile che, nello Sch. 2 (Pa), ora citato,

Stefano abbia avvicendato i nomi, per errore o per svista, oppure, in

alternativa, abbia avuto a disposizione una versione del testo non

conforme a quello ‘ufficiale’ dei Digesta giustinianei.

Ciò chiarito e tornando, dunque, al problema della assegna-

zione a Servio delle singole parti del frammento palingenetico, e agli

altri giuristi coinvolti dalla trattazione del problema, sono necessarie

cemente con il nome (ricalcando, dunque, la scelta stilistica delle fonti latine), è pro-babile che anche Stefano, in Sch. Pa 2 ad Bas. 20.1.34 [BS. III, 1197 = Sch. 1, Hb. II, 357-358], alludesse a quest’ultimo (nonostante — o forse proprio anche per — l’aggiunta della specificazione « Ð nomikÒj »).

611 A quanto mi risulti, il dato non è stato individuato né dalla dottrina moderna, né ha lasciato ulteriore traccia in altre fonti bizantine.

612 La parte del testo di pertinenza trova coincidenza, nella sostanza, nella ver-sione latina e in quella greca (D. 19.2.35.1: « sed tamen etiam Servi sen ten t ia m veram esse puto, cum eo scilicet, ut, cum alterutra actione rem servaverim, altera perematur. Quod ipsum simplicius ita quaeremus, si proponatur inter duos, qui sin-gulos proprios fundos haberent, convenisse, ut alter alterius ita conductum habe-rent, ut fructus mercedis nomine pensaretur »; Bas. 20.1.34.1 [BT. III, 992; Hb. II, 357]: « Di¦ mi©j d tÕ ƒkanÕn ™¦n gšnhta… moi, ¢naire‹tai ¹ ¥llh. TÕ aÙtÒ ™sti, k¨n dÚo kecwrismšnwj ¢groÝj œcontej sunfwn»swmen ›kaston tÕn toà

¥llou misqèsasqai kaˆ toÝj karpoÝj sullog…zesqai e„j tÕ m…sqwma: ›ka-

stoj g¦r œcei perˆ mn toà „d…ou t¾n kat¦ toà misqwtoà ¢gwg»n, perˆ d toà

¥llou t¾n kat¦ toà misqoàntoj ¢gwg»n »). 613 Vd. supra, nt. 11 (e testo di riferimento).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

387

alcune considerazioni. Come si può notare, nella frazione mediana

del passo di Africano, considerato nella sua interezza (ossia

nell’incipit di D. 19.2.35 pr.), viene richiamata una distinctio « a

Servio introducta » 614 — quindi concepita dal maestro di Alfeno —

e, come si enuncia espressamente, accolta dai giuristi in modo gene-

ralizzato (letteralmente, trovata degna di approvazione pressoché da

tutti: « et ab omnibus ‘fere’ probata ») 615.

Ai fini della nostra indagine, il problema preliminare è rap-

presentato dalla ricerca dei precisi confini coperti da tale distinzione

all’interno del passo di Africano. Stando, infatti, alla restituzione pa-

lingenetica leneliana, il pensiero del giurista tardorepubblicano si

spingerebbe, per così dire, dalla conclusione di D. 19.2.33 (« si colo-

nus tuus – reddere debebis ») fino alle parole « quem prohibere non

614 Su tale ‘distinctio’ cfr. E. COSTA, La locazione di cose nel diritto romano, p.

1; H. KRELLER, Kritische Digestenexegese zur Frage des Drittschadensersatzes, p. 79 e ntt. 103-104 (per una improbabile ricostruzione del testo, che cassa, di fatto, la distinzione, sulla scorta della critica interpolazionistica di E. ALBERTARIO, Sulla re-voca tacita dei legati e dei fedecommessi nel diritto romano, p. 87 nt. 4 = ID., Studi di diritto romano, IV, p. 57 nt. 4, il quale considera, espressamente, di ‘non impro-babile origine bizantina’ la presenza del sostantivo ‘distinctio’. L’Albertario, infatti, si appiattiva, sul punto, sulla critica totale (e — va pur detto — pedante) di G. BESE-

LER, Beiträge, III, p. 47, e vd. anche ID., op. ult. cit., IV, 210). Frutto, poi, di mere petizioni di principio le censure espresse da G. LONGO, Osservazioni critiche sulla disciplina giustinianea della locatio-conductio, p. 289, secondo cui « la distinctio […] invece di essere indice di genuinità, come altri pensa, rafforza nella diagnosi di alterazione » (a cui seguono considerazioni prive di oggettività). Si vedano, inoltre, L. VACCA, I precedenti e i responsi dei giuristi, p. 51 e nt. 20; EAD., Sulla rilevanza dei precedenti, in « Mélanges Fritz Sturm », I, pp. 512-513 e, da ultimo, L. CAPO-

GROSSI COLOGNESI, Remissio mercedis, pp. 24 e ss. 615 Gli apici sono miei. Come osserva puntualmente L. VACCA, Ancora

sull’estensione dell’ambito di applicazione dell’actio empti, p. 48 nt. 25, il passo salvato in Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.2.30 pr. [= Pal. 54] costituirebbe la prova del fatto che il principio della distinctio serviana sia stato unanimemente accolto nella giurisprudenza classica, così come precisamente affermato da Africano. Vd. anche T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, pp. 225 e 539.

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« SERVIUS RESPONDIT »

388

possit? » 616, e riprenderebbe ampiamente all’interno del primo para-

grafo dello stesso passo (« cum fundum communem – altera perema-

tur »), ad esclusione del solo periodo estremo (« quod ipsum – pen-

saretur »).

Lo studioso tedesco, infatti, circa l’apertura del § 1, annotava

« haec Servii esse apparent ex his quae sequuntur » 617, senza ritene-

re di dover disgiungere, all’interno della stessa porzione di testo, la

parte « deinde ita notat – a te mihi damnum », che è sicuramente di

mano estranea, e, probabilmente, di Giuliano 618.

La sezione del testo in cui si trova la distinctio, costituirebbe,

quindi, e a parere del Lenel, il corpo centrale di una ampia sezione

della scrittura di Africano che racchiuderebbe, in realtà, uno squarcio

del pensiero di Servio, sezione che coinvolge(rebbe) anche la parte

finale di D. 19.2.33 (« si colonus – reddere debebis ») 619.

616 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 326 ad h.l. Naturalmente è di

mero stile l’incipit del brano (« et haec distinctio – probata est, ut »), che il Lenel inserisce nella palingenesi di Servio. Sull’intero principium di D. 19.2.35 si vedano, tuttavia, i dubbi proposti ancora da LENEL, Afrikans Quästionen. Versuch einer kriti-schen Palingenesie, p. 44 = ID., Gesammelte Schriften, IV, p. 698.

617 Così LENEL, op. cit., col. 326 nt. 2. 618 Cfr. anche LENEL, op. cit., col. 326 nt. 3 (« Iulianus? »), sebbene, poi, nella

palingenesi dello stesso giurista — nella sezione ‘Iulianus laudatur non indicato libro’ — manchi ogni riferimento a D. 19.2.33 e D. 19.2.35 pr., che, a mio giudizio, sarebbe stato opportuno (almeno in termini di ipotesi) fare: cfr., infatti, LENEL, op. cit., I, col. 498.

619 Sono consapevole dello sforzo richiesto al lettore per seguire lo svolgersi di queste osservazioni, date anche l’estenzione e l’intersezione di testi. Per queste ra-gioni, mi pare necessario riportare per intero il frammento XXIX della palingenesia di Servio, secondo la ricostruzione di LENEL, op. cit., col. 326:

Afr. VIII quaest., D. 19.2.33 + D. 19.2.35 pr. e § 1 [= Pal. Serv. 29]: « ... si co-lonus tuus fundo frui a te aut ab eo prohibetur, quem tu prohibere ne id faciat pos-sis, tantum ei praestabis, quanti eius interfuerit frui, in quo etiam lucrum eius conti-nebitur: sin vero ab eo interpellabitur, quem tu prohibere propter vim maiorem aut potentiam eius non poteris, nihil amplius ei quam mercedem remittere aut reddere debebis. [D. 19.2.35 pr.]: Et haec distinctio convenit illi, quae a Servio introducta et ab omnibus fere probata est, ut, si aversione insulam locatam dominus reficiendo,

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

389

Ora, l’ipotesi di ricomposizione ha, ovviamente, una sua lo-

gica, e all’Autore della Palingenesia non è certo sfuggito l’intreccio

particolare di riflessioni condensate in D. 19.2.33 e in D. 19.2.35 pr.-

1 620, né, tantomeno, il giudizio di approvazione contenuto nel § 1 di

D. 19.2.35, che Africano esprime verso la ‘sententia’ di Servio. Que-

sta sententia, infatti, parrebbe ragionevolmente suggerire

l’attribuzione della paternità di quanto precede al giurista tardore-

pubblicano (« sed tamen etiam Servi sententiam veram esse puto,

cum eo scilicet, ut, cum alterutra actione rem servaverim, altera pe-

rematur »).

Concesso, però, tutto questo, non mi pare possa essere spento

ogni dubbio circa l’originaria appartenenza al pensiero serviano

(congetturata, invece, dal Lenel) della parte di D. 19.2.33 « si colo-

nus tuus – in fin. » e di quella contenuta in D. 19.2.35 pr. compresa

tra « quid enim interest » e « prohibere non possit? ».

Che, infatti, queste sezioni siano legate da una concatenazio-

ne logica, mi pare abbastanza evidente, ma che esse siano, altrettanto

necessariamente, lo specchio della elaborazione del maestro di Alfe-

no, mi pare sprovvisto di dimostrazione. E mi spiego subito. Intanto,

si noti che la trattazione esposta in D. 19.2.33 e in D. 19.2.35 pr. e §

ne ea conductor frui possit, effecerit, animadvertatur, necessario necne id opus de-molitus est: quid enim interest, utrum locator insulae propter vetustatem cogatur eam reficere an locator fundi cogatur ferre iniuriam eius, quem prohibere non pos-sit? [D. 19.2.35.1]: Cum fundum communem habuimus et inter nos convenit, ut al-ternis annis certo pretio eum conductum haberemus, tu, cum tuus annus exiturus esset, consulto fructum insequentis anni corrupisti. Agam tecum duabus actionibus, una ex conducto, altera ex locato: locati enim iudicio mea pars propria, conducti autem actio tua dumtaxat propria in iudicium venient. Deinde ita notat [Iulianus?, susp. Lenel, loc. ult. cit. nt. 3]: nonne quod ad meam partem attinebit, communi di-vidundo praestabitur a te mihi damnum? Recte quidem notat, sed tamen etiam Servi sententiam veram esse puto, cum eo scilicet, ut, cum alterutra actione rem servave-rim, altera perematur ».

620 Per un’analisi contenutistica, e della letteratura coinvolta, rinvio a quanto si dirà infra, nel corso del cap. III.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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1 è eretta intorno ad una struttura espositiva assai coerente — sebbe-

ne non priva di aspetti problematici 621 — poiché, come è stato os-

servato, « si svolge sul filo di sottili applicazioni della tecnica

dell’analogia e del distinguo » 622.

Essa si apre illustrando un primo problema, in tema di loca-

tio rei, posto da Africano e relativo alla responsabilità del locatore

nel caso in cui il fundus oggetto dell’obligatio sia stato confiscato

(publicatus): sulla base dell’actio conducti, la controparte potrà riva-

lersi per il mancato godimento (uti frui), per quanto (« quamvis »)

tale facoltà non possa, obiettivamente, essere resa effettiva dal loca-

tore (« si fundus quem mihi locaveris publicatus sit, teneri te actio-

nem ex conducto, ut mihi frui liceat, quamvis per te non stet, quo mi-

nus id praestes ») 623.

A questa soluzione — e all’evidente scopo di rafforzarla —

il giurista affianca il pensiero di altri (assai probabilmente di Giulia-

621 Vd., per tutti, con ampia analisi critica delle posizioni assunte dalla dottrina,

M. TALAMANCA, Considerazioni sul ‘periculum rei venditae’, pp. 270 e ss. (nonché ID., s.v. ‘Vendita (diritto romano)’, pp. 455-456 e 460-461) e L. CAPOGROSSI COLO-

GNESI, Remissio mercedis, pp. 25 e ss. Di testo fra « i più discussi dalla dottrina per le sue implicazioni in materia di rischio e responsabilità » parla L. VACCA, Sulla ri-levanza dei precedenti in « Mélanges Fritz Sturm », I, p. 510 nt. 32 (in questo senso, si pensi al contrasto esistente tra D. 19.2.33 e Iust. Inst. 3.23.3, in tema di periculum, intorno cui si può rinviare alle osservazioni di M. SARGENTI, s.v. ‘Rischio contrat-tuale (diritto romano)’, pp. 1141-1142). Sulla ideale partizione di D. 19.2.33 vd. anche M. PENNITZ, Der ‘Enteignungsfall’ im römischen Recht der Republik und des Prinzipats, pp. 219 e ss.

622 Così, in modo efficace, L. VACCA, Ancora sull’estensione dell’ambito di ap-plicazione dell’actio empti in età classica, p. 45.

623 Si tratta, per parere unanime della dottrina, dell’applicazione del principio del periculum locatoris, in virtù del quale questi è tenuto, nei confronti del conduttore, anche ove il mancato godimento del bene non gli sia imputabile: alla base di tale principio viene invocato — a ragione — il pensiero di Servio, così come salvato in Ulp. XXXII ad ed., D. 19.2.15.2 [= Pal. Ulp. 949; Pal. Serv. 27], e riportato supra, frg. D.26 . .

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

391

no) 624, secondo cui, allo stesso modo, nasce responsabilità nei con-

fronti di colui che abbia dato in locazione una insula aedificanda (si

tratta, pertanto, di un’ipotesi di locatio operis), ma sia stato impossi-

bile per il conduttore portare a termine l’opus in ragione del corruere

del terreno: « quemadmodum, inquit [Iulianus ?], si insulam aedifi-

candam locasses et solum corruisset, nihilo minus teneberis ».

In entrambe le ipotesi di locatio (rispettivamente rei ed ope-

ris) 625 , infatti, l’elemento analogico è dato dalla possibilità che

l’evento interruttivo del regolare svolgimento delle fasi contrattuali

sia provocato da cause esterne — sulle quali, a prescindere da una

responsabilità, per così dire, ‘a monte’ 626 — il locatore non ha la

possibilità di incidere in termini significativi (la fundi publicatio, nel-

la prima ipotesi; il corruere soli, nel secondo). Ciononostante il con-

duttore potrà convenire in giudizio la controparte: in entrambi i casi,

infatti, il giurista impiega il verbo tecnico ‘teneri’ (« si… teneri te

actionem ex conducto – quemadmodum… nihilo minus tenebe-

ris ») 627.

624 Vd. supra. Di questo parere sono, tra i lavori più recenti, L. VACCA, Ancora

sull’estensione dell’ambito di applicazione dell’actio empti, p. 46; EAD., Buona fede e sinallagma contrattuale, pp. 347 e ss. (347-348, in particolare); P. LAMBRINI, Il problema del ‘concursus causarum’, p. 165 e, da ultimo, L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Remissio mercedis, p. 26 nt. 37.

625 Vd. M. TALAMANCA, Considerazioni sul ‘periculum rei venditae’, p. 272 e

VACCA, op. et loc. ult. cit. 626 La fundi publicatio, infatti, può essere la conseguenza di responsabilità del

dominus-locator e, parimenti, il soli corruere può derivare da incuria addebitabile allo stesso, ma, in ogni caso, egli ne risponderà anche dove l’evento non sia ascrivi-bile a suo comportamento. Su questi aspetti si veda già l’interpretatio di I. CUIACIUS, Ad Africanum tractatus, VIII (ad l. si fundus 33 loc. et cond.), in Opera, IV, col. 343: « Locasti mihi fundum fruendum: is publicatus est sine culpa tua, sine culpa mea, captus forte ab hostibus, et in publicum redactus: quamvis tua culpa absit, te-neris tamen mihi ex conducto ut frui liceat, id est, ut ejus temporis quo frui non licet mercedem remittas, aut reddas ».

627 Intorno alla attribuibilità ad Africano, piuttosto che a Giuliano, delle ipotesi legate al tema della locatio, si veda, in particolare, A. WACKE, Dig. 19,2,33, pp. 485

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« SERVIUS RESPONDIT »

392

La soluzione adottata risulta essere propizia per Africano, il

quale se ne serve da ponte per (r)aggiungere una ulteriore considera-

zione, aperta dalla eloquente forma « nam et si… »: anche il vendito-

re, infatti, è tenuto (sottintendendosi, con l’actio) ex empto laddove il

fondo oggetto del contratto sia stato confiscato (« publicatus ») pri-

ma del trasferimento del possesso al compratore (ossia prima del

‘vacuam possessionem tradere’) 628. In questa ipotesi, tuttavia, viene

specificato che il venditore sarà tenuto a restituire semplicemente il

prezzo della cosa, e non potrà essere condannato all’id quod interest

della controparte calcolato sul habere licere (« nam et si vendideris

mihi fundum isque priusquam vacuus traderetur publicatus fuerit,

tenearis ex empto: quod hactenus verum erit, ut pretium restituas,

non ut etiam id praestes, si quid pluris mea intersit eum vacuum mihi

tradi ») 629.

e ss., e M. TALAMANCA, Per la storia della giurisprudenza romana, p. 251 nt. 100 (in particolare); sulla lettura del Wacke cfr. H. ANKUM, Afr. Dig. 19,2,33. Haftung und Gefahr bei der publicatio eines verpachteten oder verkauften Grundstücks, pp. 157 e ss., nonché F. WUBBE, Afr. D. 19, 2, 33 de Hoetink à Cannata, pp. 108 e ss. (con discussione delle varie posizioni dottrinali e indicazioni bibliografiche a pp. 121-122). Per completezza si vedano ancora le considerazioni svolte da W. LI-

TEWSKI, Die Zahlung bei der Sachmiete (vor oder nach Ablauf der Mietzeit) im rö-mischen Recht, pp. 230 e ss. = ID., Die Zahlung bei der Sachmiete im römischen Re-cht, pp. 270 e ss. e da L. VACCA, Considerazioni in tema di risoluzione del contratto per impossibilità della prestazione e di ripartizione del rischio nella ‘locatio con-ductio’, pp. 259 e ss.

628 Sul punto vd. anche P. CERAMI, s.v. ‘Risoluzione del contratto (diritto roma-no)’, p. 1290 e, sul vacuam possessionem tradere, come unico atto rilevante ai fini della ripartizione del rischio, M. TALAMANCA, s.v. ‘Vendita (diritto romano)’, p. 380.

629 Si noti ancora la ricorrenza dei segni ‘fundus’, ‘publicare’ e ‘teneri’. La se-zione « nam et si – tenearis ex empto », conterrebbe ancora il pensiero di Giuliano (vd. M. PENNITZ, Der ‘Enteignungsfall’ im römischen Recht der Republik und des Prinzipats. Eine funktional-rechtsvergleichende Problemstellung, pp. 219, 221 e nt. 24; M. TALAMANCA, Considerazioni sul ‘periculum rei venditae’, p. 272 e nt. 197), ciò che parrebbe confermato dalle osservazioni di L. VACCA, Sulla responsabilità ‘ex empto’ del venditore nel caso di evizione secondo la giurisprudenza tardo-clas-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

393

Tutto questo considerato — come in un ragionamento che si

propaga per cerchi concentrici — il giurista osserva che la stessa re-

gula può essere estesa (« similiter igitur et… puto… ») al caso della

locatio-conductio, in ordine a cui il locatore debba essere tenuto (so-

lamente) alla restituzione della merces già corrisposta dal conduttore,

in proporzione al tempo in cui a quest’ultimo non sia stato possibile

eventualmente, e per qualche ragione, godere del bene locato (« simi-

liter igitur et circa conductionem servandum puto, ut mercedem

quam praestiterim restituas, eius scilicet temporis, quo fruitus non

fuerim, nec ultra actione ex conducto praestare cogeris »).

Nella concatenazione delle varie ipotesi — che costituiscono

un « esempio particolarmente significativo di costruzione casistica di

concetti generali dommaticamente coerenti » 630 — torna l’espres-

sione già sperimentata in precedenza (« nam et si… ») in apertura di

una ulteriore fattispecie, caratterizzata dall’eventuale prohibitio al-

l’uti frui subita dal colonus di un fondo, a proposito della quale il

giurista introduce una nuova distinzione.

Nell’ipotesi in cui, infatti, la turbativa sia derivata dal domi-

nus — a cui deve equipararsi il comportamento di un terzo nei con-

fronti del quale il proprietario aveva la facoltà di intervenire affinché

cessasse la condotta pregiudizievole (« quem tu [scl. dominus] prohi-

bere ne id faciat possis ») — questi sarà tenuto verso il colono in mi-

sura pari (« tantum… quanti… ») all’interesse al godimento, « in

quo », come precisa il giurista, « etiam lucrum eius continebitur » 631.

sica, pp. 551 e ss. ~ in « Seminarios Complutenses de Derecho Romano », VII, pp. 299 e ss.

630 Così L. VACCA, Sulla rilevanza dei precedenti, in « Mélanges Fritz Sturm », I, p. 513.

631 Abbiamo, in questa sede, una espressa menzione di quanto la dottrina — in-sieme al cosiddetto ‘danno emergente’ — identifica come elemento costitutivo del-l’id quod interest, ossia il ‘lucro cessante’: cfr. anche M. SARGENTI, s.v. ‘Rischio contrattuale (diritto romano)’, p. 1127 (e vd., utilmente, anche S. TAFARO, La inter-pretatio ai verba ‘quanti ea res est’ nella giurisprudenza romana. L’analisi di Ul-

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« SERVIUS RESPONDIT »

394

Se, per contro, il dominus non fosse stato, obiettivamente (« propter

vim maiorem aut potentiam », ossia per causa di forza maggiore o

per posizione dominante altrui) 632, in grado di contrastare e, quindi,

impedire la turbativa portata da terzi, allora sarebbe stato tenuto solo

alla restituzione o alla cosiddetta remissio del canone, naturalmente a

seconda che questo fosse già stato corrisposto, o, in ogni caso, nella

misura della sua corresponsione (« nam et si colonus tuus fundo frui

a te aut ab eo prohibetur, quem tu prohibere ne id faciat possis, tan-

tum ei praestabis, quanti eius interfuerit frui, in quo etiam lucrum

eius continebitur: sin vero ab eo interpellabitur, quem tu prohibere

propter vim maiorem aut potentiam eius non poteris, nihil amplius ei

quam mercedem remittere aut reddere debebis ») 633.

Quest’ultimo passaggio reativo a D. 19.2.33 è stato attribuito

— come sottolineato in precedenza — all’elaborazione serviana.

Credo, tuttavia, che la continuazione del frammento palingenetico

(che va letto, appunto, senza soluzione di continuità), e che coincide

piano, pp. 199 e ss. [e p. 204 nt. 10, in particolare]).

632 Il termine ‘potentia’ è poco frequentato dalle fonti giuridiche romane e, in u-nione con vis maior, lo è solo in D. 19.2.33: si vèdano, infatti, Paul. LIX ad ed., D. 42.5.12.2 [= Pal. 714], ove si intende il termine come corrispondente alla ‘prepo-tenza’ dei latrones, e Paul. II ad Vit., D. 32.78.4 [= Pal. 2074], in cui il giurista seve-riano si riferisce alla ‘forza della materia’ a cui le cose (o meglio, alcune cose, come l’argento rispetto al marmo) restano inevitabilmente vincolate, nonché Ulp. I [rec-tius: II, Lenel, e vd. D. MANTOVANI, Il ‘bonus praeses’ secondo Ulpiano. Studi su contenuto e forma del ‘de officio proconsulis’ di Ulpiano, p. 233 e nt. 108, nonché

V. MAROTTA, Ulpiano e l’impero, I, p. 189 nt. 94] de off. proc., D. 1.16.9.5 [= Pal. 2152], sull’influenza esercitata dalla ‘forza (preponderante) dell’avversario’, in or-dine all’assegnazione del difensore alla controparte. Il significato che possiamo, dunque, attribuire al termine nel passo di nostro interesse si riconnette alle varie ac-cezioni testimoniate dalla fonti; H. ANKUM, Remissio mercedis, p. 222 nt. 5, ipotizza che esso possa essere segno di « une allusion postclassique aux potentiores du Bas Empire ».

633 Cfr. L. VACCA, Ancora sull’estensione, p. 47. Si veda, per completezza, an-che J.A.C. THOMAS, Reflections on Building Contracts, p. 681 e nt. 38 e ID, The Sit-ting Tenant, p. 44 e nt. 67.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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con l’esordio di D. 19.2.35 pr., suggerisca di respingere tale propo-

sta.

E mi spiego subito. Il principium di D. 19.2.35 esordisce con

queste parole: « et haec distinctio convenit illi, quae a Servio intro-

ducta et ab omnibus fere probata est, ut, … ». Alla luce del tenore

letterale di tale incipit non è possibile concludere diversamente dal

ritenere — in primo luogo — che Africano, dopo aver illustrato la

distinzione circa la responsabilità del dominus in materia di turbative

al pacifico godimento del fondo subite dal colono, accosti una ‘di-

versa’ distinctio, dovuta al pensiero di Servio e che — in secondo

luogo — la precedente non sia frutto dello stesso giurista repubblica-

no, ma di colui che ne sta riportando il pensiero 634.

In altri termini, il tratto « et haec distinctio convenit illi, quae

a Servio introducta… est » 635 mi pare dimostri, in modo univoco,

che si sta trattando del pensiero ascrivibile a giuristi diversi, ma che,

nell’ottica delle riflessioni che si vanno conducendo, ‘convergono’

(e, quindi, ‘si accordano’) verso un risultato coerente e unitario.

Pare, pertanto, opportuno emendare (almeno parzialmente) la

soluzione adottata dal Lenel, e far iniziare la citazione del pensiero di

Servio, da parte di Africano, in D. 19.2.35 pr., anziché in D. 19.2.33

(« si aversione insulam locatam dominus reficiendo, ne ea conductor

frui possit, effecerit, animadvertatur, necessario necne id opus demo-

litus est »).

A questo punto, bisogna pure domandarsi se — come voleva

l’Autore tedesco — anche l’immediata prosecuzione (« quid enim

interest, utrum locator insulae propter vetustatem cogatur eam refi-

cere an locator fundi cogatur ferre iniuriam eius, quem prohibere

634 Si veda, in particolare, L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Remissio mercedis, p. 26,

laddove osserva che il « caso del colono espulso dal fondo, considerato alla fine di D. 19.2.33 [è] con ogni probabilità direttamente proposto da Africano » (e vd. anche le considerazioni in op. cit., p. 24).

635 Le scelte grafiche sono, ovviamente, mie.

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non possit? ») costituisca parte integrante di tale distinctio a Servio

introducta, o se, invece, non possa essere frutto di una chiosa di A-

fricano.

Una osservazione di carattere stilistico potrebbe condurre al

primo risultato: l’analisi per differenze non è ignota, infatti, alla me-

todologia di Servio 636.

Purtuttavia, ad una disamina del contenuto, emerge a mio

avviso quanto segue: il fatto che, in chiusura di D. 19.2.33, come è

già stato sottolineato, il giurista adrianeo tratti del caso in cui il colo-

no sia stato turbato nel godimento del fondo dal proprietario o da al-

tri (a cui il proprietario poteva impedire la turbativa), ragione per cui

il dominus stesso sia tenuto verso il primo per l’id quod interest 637 in

relazione all’uti frui (ovvero alla restituzione o remissione del cano-

ne, ove risultasse impossibile opporsi alla turbativa altrui), mi pare

stia in rapporto di stretta correlazione — nei termini della conse-

quenzialità logica — con la parte di D. 19.2.35 pr. che Lenel vuole

ancora estremità della distinctio serviana (« quid enim interest – pro-

hibere non possit? »).

In tale sede, infatti, Africano (e non altri) ribadisce — facen-

do naturalmente tesoro dell’insegnamento del collega tardorepubbli-

cano — che non vi è differenza tra il locator di un’insula costretto a

riedificarla per vetustas della medesima e il locator fundi, il quale

636 Si veda, in proposito, poiché particolarmente significativo, Ulp. LXXXI ad

ed., D. 39.2.24.5 [= Pal. 1753; Pal. Serv. 61]: « Idem Servius putat, si controversia aquae insulam subverterit, deinde stipulatoris aedificia ceciderint, nihil eum ex sti-pulatu consecuturum, quia id nec operis nec loci vitio factum est. Si autem aqua vi-tiet fundamenta et sic aedificium ruisset, committi stipulationem ait: multum enim interesse, quod erat alioquin firmum, vi fluminis lapsum sit protinus, an vero ante sit vitiatum, deinde sic deciderit. Et ita Labeo probat: etenim multum interesse, quod ad Aquiliam pertinet, sanum quis hominem occidat an vero factum imbecilliorem » (la forma in tondo è mia).

637 Su questo problema vd. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Remissio mercedis, pp. 22 e ss. (con letteratura ivi cit.).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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« cogatur ferre iniuriam eius quem prohibere non possit » 638 — ed è

proprio in questo luogo che si situa il punto di saldatura tra quanto

Africano andava esponendo e la simile ratio che può dedurre dalla

distinzione serviana, e conseguentemente invocare, per analogia, a

fondamento della propria.

Non per nulla, lo stesso Africano, tra le due parti trattanti

della turbativa all’uti frui del fundus, interpone il giudizio circa l’a-

dattamento (‘convenire’) della distinctio appena proposta a quella già

elaborata da Servio 639 che, pertanto, a mio parere, va ri(con)dotta al-

la sola parte « ut, si aversione insulam locatam dominus reficiendo,

ne ea conductor frui possit, effecerit, animadvertatur, necessario

necne id opus demolitus est » 640.

Se quanto è stato osservato può ritenersi in qualche misura

attendibile, allora Servio — in una soluzione condivisa dalla maggio-

ranza dei giuristi — aveva posto una regula contenuta in questi ter-

mini: ove il dominus di una insula data in locazione avesse disposto

per il rifacimento (refectio) della stessa ‘in blocco’ (aversione) 641,

638 Un esempio di tale forma di iniuria è dato, appunto, da Gai. X ad ed. prov.,

D. 19.2.34 [= Pal. 246] (e vd. supra, nt. 632 in ordine al significato del termine po-tentia in Paul. LIX ad ed., D. 42.5.12.2 [= Pal. 714]).

639 D. 19.2.35 pr.: « et haec distinctio convenit illi, quae a Servio introducta… est ».

640 Così mi pare concluda — seppure implicitamente — anche L. VACCA, Sulla rilevanza dei precedenti nel diritto giurisprudenziale romano, p. 51 = « Mélanges Fritz Sturm », I, p. 513, laddove si riferisce alle « soluzioni di Servio per il caso di demolizione dell’edificio al fine di effettuarvi delle riparazioni », in cui il giurista tardorepubblicano « distingueva a seconda della effettiva necessità delle stesse » (e uguale discorso può essere ripetuto anche per A. WATSON, The Law of Obligationes in the Later Roman Republic, p. 117, che giudica il testo « undoubtely classical »; cfr. ancora MEDICUS, Rec. ad op. ult. cit., p. 429).

641 Questo mi pare, infatti, il significato della forma modale, stante almeno il senso che pare assumere nel linguaggio dei giuristi romani: cfr., infatti, Lab. I pith. a Paul. epit., D. 14.2.10.2 [= Pal. 197]; Florent. VII inst., D. 19.2.36 [= Pal. 13]; Ulp. XXVIII ad ed., D. 14.1.1.15 [= Pal. 817] e XXVIII ad Sab., D. 18.6.4.1-2 [= Pal. 2718] nonché, infine, Mod. V reg., D. 18.1.62.2 [= Pal. 221].

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rendendone di conseguenza impossibile il godimento (uti frui) al

conduttore, allora si sarebbe dovuto chiarire il presupposto della de-

molizione, ossia se essa fosse stata resa necessaria da una causa o-

biettiva, oppure fosse riconducibile alla mera volontà soggettiva del

proprietario (« animadvertatur – demolitus est ») 642.

Quali fossero, poi, le conseguenze di tale indagine (a secon-

da, cioè, che fosse accertata l’una o l’altra delle due ipotesi), esse

non sono esplicitate nell’estratto conservato da Africano, per quanto

intuibili nell’economia del discorso 643.

Detto tutto questo, il giurista adrianeo riprende il ‘filo diret-

to’ del proprio discorso illustrando le modalità di assunzione della

distinctio, la quale deve essere applicata (« intellegendum est ») in

ordine all’ipotesi di locazione di un proprio fondo, e contratta bona

fide, escludendo, pertanto, quella opposta di colui che abbia dato in

locazione, con frode, un fondo d’altrui proprietà e si trovi, pertanto,

nell’impossibilità di opporsi al dominus, legittimato a proibire l’uti

frui del conduttore (colonus).

E.11. – Gai. VII ad ed. prov., D. 50.16.30 pr. [= Pal. Serv.

83 → Pal. Gai. 174; Br. 116 resp.] 644: « ‘Silva caedua’ [est, ut qui-

642 Per motivazioni determinanti l’abbattimento della costruzione diverse dal pe-

ricolo di crollo (ossia a scopo di lucro sulla rivendita dei materiali da demolizione), nel caso di specie, si veda A. MAFFI, Dal SC Hosidianum al SC Volusianum: un caso di interpolazione creativa in materia di regolamenti edilizi?, p. 569.

643 È implicita, tuttavia, la applicabilità del « principio costante nella giurispru-denza classica » secondo cui si potrà imputare la demolizione al locatore ove questa non risultasse necessaria: egli sarà tenuto al risarcimento del danno in relazione all’interesse positivo del conductor; nell’ipotesi inversa, il locatore non potrà essere considerato responsabile, ma potrà essere costretto a restituire la merces corrispon-dente al periodo di durata della molestia sofferta dal conduttore (cfr., in particolare, N. PALAZZOLO, Evizione della cosa locata, p. 303).

644 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 204 [Servius, responsorum libri, frg. 116, ‘de silva conducta’]. Cfr. H. FUNAIOLI, Gram-maticae romanae fragmenta, p. 422 [frg. 1, ex resp.].

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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dam putant, quae in hoc habetur, ut caederetur.] Servius eam esse

[sott.: dici t], quae succisa rursus ex stirpibus aut radicibus renasci-

tur ».

Nella ‘Palingenesia iuris civilis’, così come nelle reliquiae

‘iurisprudentiae antehadrianae’, il testo è riportato integralmente 645,

tuttavia la sezione « est, ut – caederetur » va intuitivamente riferita

ad altri, non meglio indicati, giuristi, al cui parere si oppone (o funge

da completamento) ciò che Servio ‘putat’. E che vi sia una sorta di

contrapposizione tra la prima definizione e quella serviana, lo dimo-

stra — oltre alla diversità della decisione — il verbo ‘putare’ utiliz-

zato da Gaio, che è esplicitamente rivolto ai quidam. Nella parte che

si riferisce a Servio, invece, in verbo è sottinteso, e il tenore del bra-

no (ridotto a una sorta di massima), farebbe pensare ad una forma di-

versa, ossia ‘ait’ o ‘dicit’.

Il punto può trovare qualche dato chiarificatore nella testi-

monianza dei libri Basilicorum. A tal proposito, si è in presenza di

uno dei rari casi in cui la versione greca del Digesto cita espressa-

mente il nome del giurista. Si vedano, infatti,

Bas. 2.2.28 pr. [BT. I, 25 = Hb. I, 43]: « “Ulh temnomšnh

™st…n, éj tinšj fasin, ¹ ™pˆ toÚtJ oâsa, †na tšmnoito: Ð d

SšrbiÒj fhsin ™ke…nhn enai, ¼tij Øpotmhqe‹sa p£lin ™k tîn

·izîn À kl£dwn ¢nagenn©tai ».

Per le corrispondenze nei Basilici, vd. infra, nel testo. Si noti, peraltro, l’esisten-

za di un semplice confronto testuale in J. DITTRICH, Die Scholien des Cod. Taur. B.I.20 zum Erbrecht der Basiliken, in «Fontes minores», IX, 254 [linn. 1360-1361]: Sch. 3 ad « B.44.12.3 = D.33.9.3 – Perˆ xÚlwn kaˆ karbènwn ¢n£gnwqi bib. lb/ dig. ng/ kaˆ b ib . n / t it . i$ / d ig . l / , rxz/ kaˆ rxh/. » (la forma espansa dei caratteri, nel punto di nostro interesse, ossia nel rimando a D. 50.16.30, è mia).

645 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 333 ad h.l. e BREMER, op. et loc. ult. cit.

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400

Il testo, che dovrebbe essere stato generato dall’Índix di Do-

roteo 646, ricalca, quasi alla lettera, la versione latina (con la costru-

zione appena illustrata), anche con l’espressione del verbo reggente,

la cui posizione, nella versione greca, è tenuta da φηµί, che potrebbe

rendersi, almeno nel contesto, con aiere 647, sostitutivo del putare la-

tino (« ut quidam putant » – « éj tinšj fasin »), e accompagna, ri-

petuto ed espressamente, la decisione di Servio (« Ð d SšrbiÒj

fhsin ») 648. E il contenuto di tale sententia torna, in qualche modo,

in ‘ Lexicon Magk…pioun ’ S.12 [= B.H. Stolte, ed., in « Fontes mi-

nores », VIII, 372]: « Silba sšdoua: Ûlh temnomšnh ™k tîn ·izîn

À tîn kl©dwn », ove il sintagma di riferimento, traslitterato (« sil-

ba sšdoua »), e la stessa concisione espositiva, sembrano rievocare,

in qualche misura, anche il passo d’origine salvato in D. 50.16.30 pr.,

oltre alla versione dei libri Basilicorum, con la quale le affinità lessi-

cali appaiono palesi 649.

E.12. – Gai 1.188 [= Pal. Serv. 34; Br. 7 repr. Scaev.

cap.] 650: « [Ex his apparet quot sint species tutelarum . Si vero

646 Vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilicorum, p.

337 ad h.l. 647 Cfr. E.F. LEOPOLD, Lexicon graeco-latinum manuale, p. 855 ad h.l., e vd. già

supra, ntt. 209 e 405. 648 Per amore di completezza, va detto che residua la possibilità (logica) che,

nella versione originaria, si ripetesse il verbo putare, e che in quella bizantina le due presenze fossero state rese unitariamente con il verbo fhm….

649 Potrebbero valere, a questo riguardo, mutatis mutandis, le osservazioni già svolte più sopra in ordine a ‘ Lexicon Magk…pioun ’ P.14 [= B.H. Stolte, ed., in « Fontes minores », VIII, 364].

650 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 221 [Servius, reprehensa Scaevolae capita, frg. 7, ‘de tutelis’], e cfr. anche ID., op. cit., II.2, p. 505 (‘Additamenta’).

Per i bizantini, cfr. Theoph. Par. 1.20 pr.: il passo gaiano, tuttavia, non parrebbe trovare una qualche forma di riscontro diretto (vd. E. BÖCKING – M.A. VON BE-

THMANN-HOLLWEG – E. PUGGÉ, Corpus Iuris Romani Anteiustiniani, I, p. III [tab. ad h.l.], e, per il rinvio indiretto, « FIRA. », II, p. 45 nt. ad Gai [1.] § 188). Si osservi,

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

401

quaeramus, in quot genera hae species diducantur, longa erit dispu-

tatio; nam de ea re valde veteres dubitaverunt, nosque diligentius

hunc tractatum executi sumus et in edicti interpretatione et in his li-

bris quos ex Q. Mucio fecimus. Hoc tantisper sufficit admonuisse,

quod quidam quinque genera esse dixerunt, ut Q. Mucius :] alii

tria, ut Ser. Sulpicius [; alii duo, ut Labeo; alii tot genera esse

crediderunt, quot etiam species essent] ».

Lenel riporta la sezione « quidam – Ser. Sulpicius » 651, poi-

ché ipotizza — seppure, a differenza del Bremer 652, con molta, e op-

portuna, circospezione — che possa trattarsi di un estratto dai repre-

hensa Scaevolae capita 653, e che, pertanto, Servio attraesse, per cri-

ticarlo, il parere di Quinto Mucio (« [tutelarum] quidam – ut Quintus

Mucius ») 654, forse espresso nei de iure civili libri 655. Ma lo stato

tuttavia, che a parere di C. FERRINI, La Parafrasi di Teofilo ed i Commentari di Gaio, in Opere, I, p. 19 così come in ID., I commentarii di Gaio e l’indice greco del-le Istituzioni, in ID., Opere, I, p. 89, il testo conterrebbe interessanti reminiscenze gaiane, omesse dai Compilatori nelle Institutiones, ma riprese, per contro, dall’autore della Parafrasi (ma Theoph. Par. 1.20 pr. non ha lasciato traccia, putrop-po, nei cd. « Fontes minores »; fa eccezione soltanto il rimando, di istituto, segnalato in Ecl. Bas. 6.7.4 [L. Burgmann, ed., 233 nt. ad lin. 26]). Per i rapporti fra le tre ver-sioni — Gaio, istituzioni imperiali e parafrasi greca — vd. ancora C. FERRINI, La Glossa torinese delle Istituzioni e la Parafrasi dello Pseudo-Teofilo, in ID., Opere, I, pp. 53-54; e cfr. anche lo Sch. iuliotitianós] ad h.l., in FERRINI, Scolii inediti allo Pseudo-Teofilo contenuti nel manoscritto Gr. Par. 1364, p. 29 = ID., Opere, I, p. 164.

651 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 327 ad h.l. e, parimenti, anche BREMER, op. et loc. ult. cit.

652 Vd. supra. 653 LENEL, op. cit., II, col. 327 nt. 6. 654 Cfr. LENEL, op. cit., I, col. 760 [= Pal. Q.M. 23]. 655 Cfr., sul punto (precisando l’incerta attribuzione di sede mantenuta da LENEL,

op. et loc. ult. cit.), F. BONA, Cicerone e i ‘libri iuris civilis’ di Quinto Mucio Scevo-la, pp. 258-259 = ID., Lectio sua, II, pp. 887-888; A. WATSON, Law Making in the Later Roman Republic, pp. 143 e 150 (che identifica addirittura la sede dell’argo-

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« SERVIUS RESPONDIT »

402

della fonte non apporta elementi a favore di questa ipotesi (neppure

nella citazione, da parte di Gaio, di suoi libri ex Quinto Mucio, a noi,

peraltro, non pervenuti) 656, poiché, a partire da Mucio, l’autore delle

Institutiones propone una sequenza che sembra semplicemente voler

coprire la cronologia giurisprudenziale in materia (scandita dal pen-

siero di Q. Mucio, di Servio, di Labeone e di altri giuristi non meglio

identificati).

Per queste ragioni, non pare opportuno spingersi ad accoglie-

re altro che la ‘scheggia’ segnalata da Gai 1.188 657.

E.13. – Gai 2.244 [= Pal. Serv. 57; Br. 53 resp.] 658: « An

ei, qui in potestate sit eius, quem heredem instituimus, recte legemus,

quaeritur. Servius recte legari putat , sed evanescere legatum, si

mento nel VI libro dell’opera muciana); M. BRETONE, I fondamenti del diritto roma-no. Le cose e la natura, pp. 180-181.

656 Si ipotizza, infatti, che — insieme a Gai 1.188 — ne costituisca un escerto il passo di Pomp. XXII ad Q.M., D. 45.3.39 [= Pal. Pomp. 285]: vd., infatti, le annota-zioni di E. BÖCKING, Gaii Institutionum commentarii quattuor 3, p. X, nonché LENEL, op. cit., I, col. 251 nt. 1 [= Pal. Gai 481-482].

657 Si veda, in particolare, O. BEHRENDS, Selbstbehauptung und Vergeltung und das Gewaltverbot im geordenet bürgerlichen Zustand nach klassischen römischen Recht, p. 68 nt. 48. Sul passo in sé considerato, e sulle problematiche sollevate in dottrina, rimando a M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, pp. 230 e ss., e ora a G. MELILLO, Le Istituzioni di Giustiniano e la storia della tutela, pp. 385 e ss. (con bibliografia).

658 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 184 [Servius, responsorum libri, frg. 53, ‘de legato sub condicione dato’], dove il passo è erroneamente riportato come « Gai 2, 249 » (e dove si propone un confronto, di sostanza, anche con Tit. Ulp. 24.23, non molto indicativi, tuttavia, per la nostra in-dagine, trattandosi dell’esposizione sintetica della regula, rispetto al testo gaiano, in cui svanisce la disputa giurisprudenziale condotta, idealmente, da un lato da Servio e, dall’altro, da Sabino e Cassio, e attraverso la quale si accoglie la tesi di questi ul-timi). Il refuso è sfuggito a W. KALB, Rec. a Bremer, op. cit., coll. 204-205, che pure ne ha specificatamente identificati un certo numero — ma cfr. ancora BREMER, op. cit., II.2, p. 597 (‘Corrigenda et addenda’).

Cfr. Iust. Inst. 2.20.32 (e Theoph. Par. 2.20.32: vd. « FIRA. », II, p. 45 ad h.l.).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

403

quo tempore dies legatorum cedere solet, adhuc in potestate sit; ide-

oque sive pure legatum sit et vivo testatore in potestate heredis esse

desierit, sive sub condicione et ante condicionem id acciderit, deberi

legatum. [Sabinus et Cassius sub condicione recte legari, pure non

recte, putant: licet enim vivo testatore possit desinere in potestate

heredis esse, ideo tamen inutile legatum intellegi oportere, quia quod

nullas vires habiturum foret, si statim post testamentum factum de-

cessisset testator, hoc ideo valere, quia vitam longius traxerit, ab-

surdum esse. Sed diversae scholae auctores nec sub condicione recte

legari, quia, quos in potestate habemus, eis non magis sub condicio-

ne quam pure debere possumus] ».

In questa sede si recupera la restituzione degli autori tede-

schi 659 . Appare, infatti, del tutto opportuno ricomprendere anche

l’interrogativo di partenza (« an ei – quaeritur ») nella sezione ser-

viana, e questo in ragione della simmetria instaurata tra le locuzioni

« recte legemus quaeritur » e « recte legari putat » 660. Sulla parte

che, invece, segue (« ideoque sive – deberi legatum ») si potrebbe

oscillare per un giudizio di rispondenza della porzione al pensiero

serviano ovvero a quello gaiano 661. Ciò che fa preferire l’attribuzio-

ne per intero è dovuto alla circostanza che i due giuristi espressamen-

te richiamati (Sabino e Cassio) riflettono sul pensiero del collega tar-

dorepubblicano, nella parte in cui si deve stabilire se il legato sotto

condizione, attribuito a colui « qui in potestate sit eius, quem here-

dem instituimus », sia regolare (chiarito che non lo è quello puro e

659 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 330 ad h.l. e BREMER, op. et loc. ult. cit. 660 Vd., da ultimo, ampiamente M. WIMMER, Das Prälegat, pp. 278 e ss. 661 In altre parole, si intende affermare che il periodo « ideoque – legatum » po-

trebbe anche essere interpretato come una deduzione svolta da Gaio a partire dall’o-pinione di Servio (che si ridurrebbe, dunque, alla sola parte « an ei – adhuc in pote-state sit »).

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« SERVIUS RESPONDIT »

404

semplice) 662.

Questa conclusione — del resto — è avvalorata dalla terza

parte di Gai 2.244, ove, in merito allo stesso problema, l’opposta

scuola proculeiana (ossia i « diversae scholae auctores »), secondo

quanto ricordato da Gaio, si esprime per la negativa anche nel caso di

legato sotto condizione 663.

E.14. – Gai 3.156 [= Pal. Serv. 87; Br. 130 resp.] 664 :

« [Nam si tua gratia tibi mandem, supervacuum est mandatum; quod

enim tu tua gratia facturus sis, id de tua sententia, non ex meo man-

datu facere debes. Itaque si otiosam pecuniam domi te habentem

hortatus fuerim, ut eam faenerares, quamvis eam ei mutuam dederis,

a quo servare non potueris, non tamen habebis mecum mandati ac-

tionem. Item si hortatus sim, ut rem aliquam emeres, quamvis non

expedierit tibi eam emisse, non tamen tibi mandati tenebor. Et adeo

haec ita sunt, ut quaeratur, an mandati teneatur qui mandavit tibi,

ut Titio pecuniam faenerares. ] Servius negavit nec magis hoc

casu obligationem consistere putavit , quam si generaliter alicui

mandetur, uti pecuniam suam faeneraret. [Sed sequimur Sabini opi-

nionem contra sentientis, quia non aliter Titio credidisses, quam si

tibi mandatum esset] ».

662 Sul testo, in relazione al « contrasto tra scolarchi », vd E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e in Gaio, pp. 56-57 (ed ivi ntt. 259-260, con indicazione bibliografiche).

663 Il paragrafo delle Institutiones in questione non è affatto privo di un certo ri-gore stilistico: infatti, alla parte « Servius recte legari putat » corrisponde, simmetri-camente, « Sabinus et Cassius… recte legari… putant », così come la gran parte del-lo svolgersi delle opiniones della giurisprudenza è catalizzato dall’impiego dell’av-verbio modale ‘recte’. Sulle sezioni del paragrafo gaiano si veda F. HORAK, Rationes decidendi, pp. 134 e ss. (e anche ivi, p. 145).

664 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 207-208 [Servius, responsorum libri, frg. 130, ‘de mandato’].

Per le fonti bizantine vd. infra, nel testo.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

405

Nella Palingenesia iuris civilis, dal passo delle Institutiones

viene tratta la porzione « [quaeratur] an mandati – faeneraret », co-

me parte del corpus serviano 665.

Ora, se è pur vero che il thema disputandi è quello illustrato

nel periodo appena riportato 666, la costruzione retorica dello stesso

non consente una attribuzione ‘diretta’ a Servio, come appare, inve-

ce, dalla forma con la quale è offerto dal Lenel 667. Del resto, già il

Dumont — sulla base della forma verbale ‘putavit’ — osservava che

« le passage de Gai. 3, 156, ne rapporte pas un texte de Servius Sul-

picius Rufus mais une interprétation de sa décision par Gaius lui-

même » 668.

È significativo, infatti, che Gaio affermi « et adeo haec ita

sunt, ut quaeratur, an… », ossia che il problema è così ampiamente

discusso che ci si domanda se sia tenuto o meno per mandato colui

che abbia dato incarico ad altri di prestare denaro ad interesse ad un

terzo. La domanda, dunque, è attuale (rispetto a Gaio). E qualcosa di

simile dovette essere già stato formulato da Servio in precedenza, di

cui segue la risposta negativa (« Servius negavit… putavit… faenera-

ret »), a sua volta respinta da Gaio (« sed – mandatum esse »).

665 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 333 ad h.l. (poco comprensibili i punti di sospen-sione che l’Autore tedesco ha inserito tra ‘faenerares’ e ‘Servius’, poiché il testo non subisce soluzioni di continuità).

666 Cfr. J. GARRIDO ARRENDONDO, Mediación y mediadores en el tráfico jurídico romano, p. 423.

667 Ancora più ampia la selezione operata da BREMER, op. et loc. ult. cit., il quale ricomprende le seguenti parti: « si tua gratia – mandatum »; « itaque si otiosum – habebis mandati actionem » e « et adeo – in fin. ». Valgono, però, le osservazioni sviluppate nel testo a riguardo della proposta del Lenel.

668 Così F. DUMONT, Obligatio, p. 85 nt. 44 (parrebbe, invece, propendere per una derivazione ‘diretta’ dal pensiero serviano GARRIDO ARRENDONDO, op. et loc. cit.). La parte di nostro interesse è stata, invece, omessa da CH. KRAMPE, Das Man-dat des Aurelius Quietus. Celsus bei Ulpian D. 17,1,16 und die Kreditmandatsdis-kussion, pp. 132 e ss. Vd. anche J.M. COMA FORT, ‘Nihil novi sub sole’ (Reflexiones críticas sobre el origen del ‘mandatum credendi’), p. 345, che sembra confermare la linea proposta in queste pagine.

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« SERVIUS RESPONDIT »

406

A proposito del problema circa l’attribuzione di questo para-

grafo delle Institutiones, di certo interesse si presenta Theoph. Par.

3.26.6 [Reitz, pp. 699-700 = Ferrini, p. 366 gr.]. Il passo, infatti, che

deriva (naturalmente) da Iust. Inst. 3.26.6 669, ha come suo antece-

dente logico quello gaiano (o, almeno, il pensiero di Gaio in qualche

modo pervenuto), da cui siamo partiti 670.

Ora, il luogo della Parafrasi è scortato da un doppio scolio

[« TÍ d dÒlou » nonché « E„ d kaˆ sumbouleÚsV » ad Theoph.

Par. 3.26.6, Ferrini ed.] 671, il cui autore è provato abbia « conosciuto

e usato i Digesti e il Codice nell’originale; poichè non solo arreca le

rubriche latine, ma pur anche le parole latine iniziali dei passi cita-

ti » 672. Purtuttavia, in questo caso, il doppio commento non è di mol-

to aiuto, poiché non fa alcuna menzione di Servio.

In realtà, i motivi di interesse, cui accennavo appena sopra,

derivano dal testo principale, ossia da Theoph. Par. 3.26.6, in cui, co-

sì come per gli scÒlia, non si cita Servio, ma si riporta un inciso che

669 Iust. Inst. 3.26.6: « Tua gratia intervenit mandatum, veluti si tibi mandet, ut

pecunias tuas potius in emptiones praediorum colloces, quam feneres, vel ex diverso ut feneres potius, quam in emptiones praediorum colloces. Cuius generis mandatum magis consilium est quam mandatum et ob id non est obligatorium, quia nemo ex consilio mandati obligatur, etiamsi non expediat ei cui dabitur, cum liberum cuique sit apud se explorare, an expediat consilium. Itaque si otiosam pecuniam domi te habentem hortatus fuerit aliquis, ut rem aliquam emeres vel eam credas, quamvis non expediet tibi eam emisse vel credidisse, non tamen tibi mandati tenetur. Et adeo haec ita sunt, ut quaesitum sit, an mandati teneatur qui mandavit tibi, ut Titio pecu-niam fenerares: sed optinuit Sabini sententia obligatorium esse in hoc casu manda-tum, quia non aliter Titio credidisses, quam si tibi mandatum esset ».

670 È, nella sostanza, quanto afferma anche C. FERRINI, Sulle fonti delle Istituzio-ni di Giustiniano, in ID., Opere, II, pp. 394-396, secondo cui il paragrafo sarebbe « genuino nella prima parte fino alle parole ‘an expediat consilium’», a cui segui-rebbe la mano dei Compilatori, ma sulla base (anche) delle Gai institutiones.

671 Vd. C. FERRINI, Scolii inediti allo Pseudo-Teofilo contenuti nel manoscritto Gr. Par. 1364, p. 55 = ID., Opere, I, p. 205.

672 Così ancora C. FERRINI, Rec. a P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litera-tur des römischen Rechts, p. 232 = ID., Opere, V, p. 438.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

407

va oltre la scarna indicazione di Iust. Inst. 3.26.6.

Nell’opera isagogica di Giustiniano, infatti, in relazione alla

parte di Gai 3.l56 soggetta a queste riflessioni (ossia « Servius nega-

vit nec magis hoc casu obligationem consistere putavit, quam si ge-

neraliter alcui mandetur, uti pecuniam suam faeneraret »), il tutto

viene fortemente stemperato in un inciso incolore di questo genere:

« et adeo haec ita sunt, ut quaesitum sit, an mandati teneatur qui

mandavit tibi, ut Titio pecuniam fenerares » a cui segue l’immediata

notazione, per così dire, ‘storico-giuridica’ « sed optinuit Sabini sen-

tentia », dando così, per implicito che vi fosse stato spazio per un pa-

rere contrario (e precedente) 673.

Il testo del parafraste, invece, ricostruisce il punto nel se-

guente modo: « kaˆ ™pˆ tosoàton taàta oÛtwj œcei, Óti gšgone

par¦ to‹j palaio‹j ¢mfibol…a, e„ ¥ra tÍ mandati katšco-

mai ™nteil£menÒj soi †na TitíJ dane…sVj cr»mata ™pˆ tÒkJ, ti-

nîn sumboul¾n toàto legÒntwn kaˆ m¾ t…ktein ™noc¾n kat¦ t¦

e„rhmšna. ™kr£thse d m©llon ¹ toà Sabínu gnèmh lšgousa œ-

nocÒn me gegenÁsqai tÍ mandati... », et rell.

Servio, nuovamente, è assente, ma si fa menzione della am-

phibolía — ossia della perplessità (o, meglio, duplicità di vedute) —

sorta ‘tra’ (meglio, ‘presso’) ‘i veteres’ (« par¦ to‹j palaio‹j »).

E, a tale riguardo, le deduzioni potrebbero essere due: o il parafraste

ha semplicemente intuito che, in rapporto al pensiero sabiniano, sog-

giaceva alle Iust. Inst. 3.26.6 un’altra e diversa impostazione (solu-

zione) giuridica, e l’ha sciolta con un richiamo generico a giuristi

precedenti (‘antichi’) 674, ovvero, come fu anche intuizione ferrinia-

673 La determinazione temporale, tuttavia, è qui argomentata ex Gai inst. 3.156,

mentre la versione imperiale, sul punto, pare essere elusiva. 674 Sul signficato di ‘veteres’ si può ancora utilmente rinviare allo studio di F.

HORAK, Wer waren die veteres? Zur Terminologie der klassischen römischen Juris-ten, passim.

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« SERVIUS RESPONDIT »

408

na 675, l’autore della Parafrasi si servì sul punto — secondo le parole

del Lambertini — dell’« archetipo di matrice gaiana, Institutiones o

loro interpretatio postclassica » 676, in cui si citava — più o meno e-

spressamente — il nostro giurista.

Personalmente, propenderei per la seconda soluzione, poiché

il dettato di Theoph. Par. 3.26.6 — sulla parte in questione — mi pa-

re più prossimo al testo gaiano rispetto al ricalco latino giustinianeo.

Finalmente, il ricordo del pensiero di Servio traccia un’om-

bra che si proietta — seppure in modo sfocato — dall’epoca di Gaio

fino a quello della parafrasi greca attribuita a Teofilo (la quale ha re-

vocato, sul punto, la scelta compilatoria — forse attuata dal bizantino

Doroteo 677 — di sopprimere la menzione del parere respinto dalla

sententia Sabini).

E.15. – Gai 3.179 [= Pal. Serv. 88; Br. 98 resp.] 678 :

675 Cfr. C. FERRINI, Rec. a P. Krüger, Geschichte der Quellen und Literatur des

römischen Rechts, p. 232 [ivi, per refuso, « [Theoph. Par.] 3.25.6 », che non ha scho-lia, sta al posto dell’esatto ‘3.26.6’] = ID., Opere, V, p. 438 [con citazione corretta della fonte teofilina].

676 Così R. LAMBERTINI, Introduzione allo studio esegetico del diritto romano 3, p. 138.

677 Si segue, sul punto specifico, la documentatissima indagine di G. FALCONE, Il metodo di compilazione delle ‘Institutiones’ di Giustiniano, passim (e pp. 390 e ss., in particolare).

678 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 197-198 [Servius, responsorum libri, frg. 98, ‘de novatione’].

Cfr. Iust. Inst. 3.29.3 e Theoph. Par. 3.29.3: anche in questo caso si richiamano, rispettivamente, nelle institutiones e nella loro parafrasi, i ‘veteres’ (ossia i cosiddet-ti « palaiÒi »), ma in modo meno diretto rispetto a Theoph. Par. 3.26.6 (per cui vd. appena supra). Cfr., inoltre, lo Sch. 3 ad Theop. Par. 3.29 [in C. FERRINI, Scolii ine-diti allo Pseudo-Teofilo contenuti nel manoscritto Gr. Par. 1364, p. 56 = ID., Opere, I, p. 207], ma senza indicazioni in merito. Per completezza cfr., inoltre, Ecl. Bas. 2.2.187.1-2 [pa/, linn. 26-27]; 6.4.2 pr.-2 [linn. 18-19]; 7.2.7-8 [linn. 31-32] e 7.6.5-6 [linn. 9-13] [L. Burgmann, ed., 58, 229, 238 e 280] nonché ‘Lexicon’ a ‘Hexábi-blos aucta’ E.24 [linn. 2-6, M.T. Fögen, ed., in « Fontes minores », VIII, 176], in cui, ultimo, viene rievocato — attraverso una costruzione sintattica (vb. ™pinošw

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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« [Quod autem diximus, si condicio adiciatur, novationem fieri, sic

intellegi oportet, ut ita dicamus factam novationem, si condicio exti-

terit; alioquin si defecerit, durat prior obligatio. Sed videamus], num is qui eo nomine agat doli mali aut pacti conventi exceptione

possit summoveri, quia videtur inter eos id actum, ut ita ea res pete-

retur, si posterioris stipulationis extiterit condicio. Servius tamen

Sulpicius exist imavit statim et pendente condicione novationem

fieri, et si defecerit condicio, ex neutra causa agi posse et eo modo

rem perire. Qui consequenter et illud respondit , si quis id, quod

sibi L. Titius deberet, a servo fuerit stipulatus, novationem fieri et

rem perire, quia cum servo agi non posset. [Sed in utroque casu a-

lio iure utimur. Nec magis hic casibus novatio fit, quam si id, quod tu

mihi debeas, a peregrino, cum quo sponsus communio non est,

‘spondes’ verbo stipulatus sim] ».

Il Lenel ha trascritto il passo dall’inizio e fino alle parole

« agi non posset » 679. Il Bremer, per contro, richiama praticamente

l’intero paragrafo, ad eccezione solamente dell’avversativa iniziale

‘autem’ 680.

A differenza del caso precedente (sub frg. E.14. ), penso

che debba essere riportata anche la fattispecie discussa — seppure

inserita tra segni diacritici convenzionali — cui si riallaccia la deci-

sione serviana (« sed videamus – extiterit condicio ») 681, poiché il

seguito da par£ con genitivo) che implica la registrazione di una dissensio — ‘il giurista Aquilio Gallo’ (alla lettera, la proposizione suona in questi termini: « ™pe-no»qh par¦ toà 'Akuoϊ l…ou G£llou toà nomikoà » [lin. 2]), già identificato in Theoph. Par. 3.29.2.

679 Cfr. LENEL, op. cit., II, coll. 333-334 ad h.l. 680 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit. 681 In realtà si tratta di una doppia decisione (almeno così come ce la restituisce

il testo gaiano), e non si può escludere in assoluto che, in origine, Servio avesse of-ferto una delle sue classiche distinctiones. Cfr., inoltre, M. TALAMANCA, ‘Una ver-borum obligatio’ e ‘obligatio re et verbis contracta’, p. 74 nt. 245 (e vd. O. BEH-

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dato lessicale appare abbastanza univoco.

A differenza del secondo autore tedesco, tuttavia, isolerei la

parte inziale (« quod autem diximus – durat prior obligatio »), che

appare come frutto di integrale argomentazione gaiana. Non mi pare

si possa sottacere il fatto che Gai 3.179 si apre, appunto, con « quod

autem diximus » (tipico della trama espositiva peculiare al giurista

antoniniano), ripreso nel periodo immediatamente successivo (« sed

videamus, num... »), così come gaiana non può che essere la chiosa

al pensiero di Servio: « sed in utroque casu alio iure utimur... », et

rell. 682.

E.16. – Gai 3.183 [= Pal. Serv. 78; Br. 10 repr. Scaev. cap.

– 8 ad l. XII Tab.] 683: « Furtorum genera Ser. Sulpicius et Masu-

rius Sabinus quattuor esse dixerunt, manifestum et nec manife-

RENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, pp. 34 nt. 18, 38 nt. 27 e 82 nt. 114).

682 Per quest’ultima conclusione trovo conferma, in particolare, in F. HORAK, Rationes decidendi, p. 109, nella parte di commento che segue il testo gaiano (la forma espansa dei caratteri nelle forme verbali ‘diximus’, ‘videamus’ e ‘utimur’ è, naturalmente, mia), e vd. anche W. ERNST, Neues zur Gefahrtragung bei emptio venditio und locatio conductio?, p. 374. Da ultima, sul paragrafo gaiano in sé consi-derato, vd. L. ZANDRINO, La delegatio nel diritto romano. Profili semantici ed ele-menti di fattispecie, pp. 190 nt. 176 e 222.

683 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 223 e 230 [Servius, reprehensa Scaevolae capita, frg. 10, ‘de furtis’ – ad leges duodecim tabularum libri, frg. 8, ‘VIII. 14.15’].

Cfr. Iust. Inst. 4.1.3 e Theoph. Par. 4.1.3, nonché lo Sch. 3 ad Theoph. Par. 4.1.3 [in C. FERRINI, Scolii inediti allo Pseudo-Teofilo contenuti nel manoscritto Gr. Par. 1364, p. 57 = ID., Opere, I, pp. 207-208], che non è proficuo, sul punto. Su tali testi bizantini vd., però, gli appunti esegetici di C. FERRINI, I commentari di Gaio e l’indice greco delle Istituzioni, in ID., Opere, I, p. 100. Si veda, inoltre, Ecl. Bas. 2.2.24 [lg/] [L. Burgmann, ed., 23], ispirata, sul punto e secondo l’editore (loc. cit., nt. ad linn. 11-19), da Iust. Inst. 4.1.3-5, ma, a mio giudizio, (anche) dai relativi §§ della parafrasi teofilina. E cfr. `Rom. ¢gwg. 7.73.1 [linn. 4-7, R. Meijering, ed., in « Fontes minores », VIII, 115-116]; il testo greco si limita, però, alla illustrazione della sola bipartizione ‘furtum manifestum’ e ‘furtum nec manifestum’.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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stum, conceptum et oblatum [; Labeo duo, manifestum <et> nec ma-

nifestum; nam conceptum et oblatum species potius actionis esse fur-

to cohaerentes quam genera furtorum; quod sane verius videtur, si-

cut inferius apparebit] » 684.

La restituzione non può che essere conforme a quella del Le-

nel e del Bremer 685, eccezione fatta per la cassazione — operata dai

due editori tedeschi — della sezione che va dalle parole « Labeo

duo » fino al termine 686.

In ogni caso, la laconicità dell’informazione iniziale (« furto-

rum genera – manifestum, conceptum et oblatum ») non consente

particolari sottolineature circa il fatto che sia menzionato anche Sa-

bino, il quale, come non è irragionevole supporre, doveva riferire, a

sua volta, il responso di Servio 687.

E.17. – Gai. V ad l. XII Tab., D. 50.16.237 [= Pal. Serv. 86

→ Pal. Gai ?439; Br. 10 ad l. XII Tab.] 688: « [ Duobus negativis ver-

684 A rigore, la prima parte del brano — interessante questa indagine — dovreb-

be essere ricostruito nel seguente modo: « Furtorum genera Ser. Sulpicius [et Masu-rius Sabinus] quattuor esse dix<it>[erunt], manifestum et nec manifestum, oblatum et conceptum... », et rell., ma la sostanza non muterebbe. Per questo motivo è stato riportato senza l’inserimento di segnalazioni convenzionali. Da ultima, intorno a Gai 3.183, si veda M. ZABŁOCKA, Quaestio cum lance et licio, pp. 109-110.

685 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 332 ad h.l.; BREMER, op. et loc. ult. cit. 686 Sarebbe gaiano, inoltre, il giudizio « verius videtur » a parere di A.B.

SCHULZ, Das strittige Rechts der römischen Juristen, p. 216 nt. 2 (sulla scorta di F. KNIEP, Gai institutionum commentarius III, pp. 51 nt. 3 e 55 nt. 10).

687 Per l’analisi del testo e per rinvii bibliografici vd. E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e in Gaio, p. 60 e nt. 272. Si veda anche T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 516.

688 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 230 [Servius, ad leges duodecim tabularum libri, frg. 10, ‘ad loca incerta’]. Cfr. H. FU-

NAIOLI, Grammaticae romanae fragmenta, p. 425 [frg. 13, incert. sed.]. Ancora più stringati dell’originale, Bas. 2.2.228 [BT. I, 47 = Hb. I, 60] non sono

accompagnati da scholia né, nella loro laconicità, dalla citazione di Servio.

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bis quasi permittit lex magis quam prohibuit: ] idque etiam Servius

animadverti t ».

Il brano — che potrebbe essere stato generato dalla teorica

del hyperapophatikón (‘supernegazione’) degli stoici 689 — è riporta-

to integralmente da Lenel e da Bremer 690. Sicuramente Servio ha da-

to la stessa definizione, ma la presenza della specificazione secondo

cui egli « idque etiam animadvertit » suggerisce, in ogni caso, di

inserire una minima segnalazione diacritica, che non intende intacca-

re la sostanza della stessa, ma segnalare il fatto che il giurista potreb-

be aver riproposto il pensiero già espresso da altri (senza negare l’e-

ventualità che, invece, sia Gaio a ripercorrere un’originaria espres-

sione serviana) 691.

E.18. – Scaev. II quaest., D. 21.2.69.3 [= Pal. Serv. 30 →

Pal. Scaev. 138; Br. 109 resp.] 692: « Quid ergo, qui iussum decem

dare pronuntiat viginti dare debere, nonne in condicionem menti-

689 Vd. A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en dere-

cho romano, p. 339, il quale richiama assai pertinentemente Diog. Laert. 7.69. 690 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 333 ad h.l.; BREMER, op. et loc. ult. cit. 691 Vd., in particolare, M.H. CRAWFORD, Roman Statutes, II, p. 699, su cui le os-

servazioni critiche e le diverse proposte avanzate da B. ALBANESE, Su alcuni fram-menti di Gaio ‘ad legem XII Tabularum’, pp. 191 e ss.

692 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 201 [Servius, responsorum libri, frg. 109, ‘de mancipiis venditis’].

Il passo di Bas. 19.11.68 [BT. III, 972, il titolo è ‘restitutus’] è mutilo fino a § 4 (compreso: cfr. anche C.E. ZACHARIAE A LINGENTHAL, Supplementum editioni Basi-licorum heimbachianae, p. 285 = Basilicorum libri LX. Supplementa editionis Basi-licorum heimbachianae [M. Miglietta, cur.], p. 301), ma nell’edizione Heimbach è dato per intero [= Bas. 19.11.65.2-4, Hb. II, 325]: neppure in questa (poiché ricalcata su Tipuc. 19.11.[65]) si trae, tuttavia, alcuna informazione di qualche utilità, poiché non sono presenti scholia, né si fa menzione di Servio. Né di miglior aiuto sono gli Sch. 1 e 2 ad Syn Bas. A.CIII.12 (Bas. 19.11.68 → D. 21.2.69) [D. Getov, ed., in « Fontes minores », XI, 341 linn. 255-257], che, peraltro, non mi paiono riguarda-re il paragrafo in questione.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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tur? [Verum est hunc quoque in condicionem mentiri et ideo qui-

dam existimaverunt hoc quoque casu evictionis stipulationem con-

trahi: sed] auctoritas Servii praevaluit existimantis hoc casu ex em-

pto actionem esse, videlicet quia putabat eum, qui pronuntiasset

servum viginti dare iussum, condicionem excepisse, quae esset in

dando » 693.

A proposito di questo brano, debbono essere individuate al-

meno tre parti: una prima (« quid ergo – mentitur? ») 694, che corri-

sponde al problema giuridico discusso 695; una seconda parte (« ve-

rum est – contrahi: sed ») che riflette, palesemente, una osservazione

adesiva di Scevola 696; l’ultima (« auctoritas – esse »), che riporta,

quantomeno nella sostanza 697, l’opinione di Servio, e di cui si deve

693 Il testo è presentato senza soluzione di continuità da LENEL, op. cit., II, coll.

326-327. Per i rilievi testuali si veda, in particolare, F. HAYMANN, Die Haftung des Verkäufers für die Beschaffenheit der Kaufsache, p. 4 e ss. (su cui ampie e puntuali critiche di F. HORAK, Rationes decidendi, pp. 174-175).

694 Sulla presenza in Scevola della forma ‘quid ergo...?’ si veda D. JOHNSTON, On a singular book of Cervidius Scaevola, p. 90: si ritrova, infatti, tre volte nel ‘li-ber singularis quaestiones publice tractaturum’ (cfr. D. 28.6.48.1 [= Pal. Scaev. 187]; D. 42.8.24 [= Pal. Scaev. 191] e D. 46.3.93 [= Pal. Scaev. 193]) e, fuori di es-so, soltanto in Scaev. II quaest., D. 21.2.69.3 [= Pal. Scaev. 138].

695 Quanto detto è dimostrato anche dal fatto che il § 3 di D. 21.2.69 tratta di un tema che è la logica continuazione di quanto analizzato nel § 2, appena precedente (e, in realtà, tutto il passo salvato in D. 21.2.69 costituisce un unico trattato in mate-ria ‘de modo agri et auctoritate’: cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, coll. 272-273 [= Pal. Scaev. 138] et rubr.), anche nei suoi rapporti con le azioni relative all’emptio-venditio (vd. D. NÖRR, Probleme des Eviktionshaftung im klassischen rö-mischen Recht, p. 187).

696 Il BREMER, op. et loc. ult. cit., recupera anche l’intervallo « quidam existima-verunt… evictionis stipulationem contrahi » (o meglio, ‘actionem auctoritatis esse’: vd. loc. cit., nt. 1, ad h.t.).

697 Si veda, infatti, il parallelo espressivo — quasi contemporaneo e, comunque, di non molto precedente — costituito da Gai. 3.149 (« Servius Sulpicius cuius etiam praevaluit sententia... existimavit... », et rell.), segnalato già da A.B. SCHWARZ, Das strittige Recht der römischen Juristen, p. 221 nt. 4.

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ritenere sia parte integrante il séguito, « videlicet – in fin. », poiché,

pur essendo evidente amplificazione dell’autore del brano salvato in

D. 21.2.69.3, riflette, tuttavia, il contenuto della ratio indicata da

Servio (chiaramente identificate — sia l’una che l’altra — per mezzo

delle espressioni usate « videlicet quia putabat... »: ovviamente Ser-

vius) 698.

E.19. – Tryph. IV disp., D. 49.15.12 pr. [= Pal. Serv. 82 →

Pal. Tryph. 13; Br. 3 alia op.] 699: « [ In bello postlimium est, in pace

autem his, qui bello capti erant, de quibus nihil in pactis erat com-

prehensum ] ?. Quod ideo placuisse Servius scribit , quia spem re-

vertendi civibus in virtute bellica magis quam in pace Romani esse

voluerunt. [Verum in pace qui pervenerunt ad alteros, si bellum subi-

to exarsisset, eorum servi efficiuntur, apud quos iam hostes suo facto

deprehenditur. Quibus ius postliminii est tam in bello quam in pace,

nisi foedere cautum fuerat, ne esset his ius postliminii] ».

La scelta di Lenel, accolta da Bremer, va nel senso di ricon-

durre al nostro giurista tutta la parte alta del testo, ossia da « in bel-

lo » fino a « esse voluerunt » 700.

La dottrina più recente, tuttavia, tende a presentare, isolata-

mente, la sezione « quod ideo – voluerunt » come serviana, sgan-

698 Così, del resto, pur prendendo avvio da altre considerazioni, A. WATSON, The Law of Obligations, pp. 76 e ss., e F. HORAK, Rationes decidendi, p. 175.

699 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 240 [Servius, alia opera, frg. 3, ‘de postliminio’].

Il passo è riprodotto in Bas. 34.1.12 pr. [BT. IV, 1553 = Bas. 34.1.8, Hb. III, 535]. Non presenta, tuttavia, elementi significativi ed è privo di commenti, così co-me lo sch. 1 ad Syn. Bas. A.XXXV.1 (Bas. 34.1.12 → D. 49.15.12) [D. Getov, ed., in « Fontes minores », XI, 344, lin. 339: « E„ m¾ ¢pagoreuqÍ toàto ™n tù poie‹n sunq»kaj »] non offre spunti di maggiore utilità.

700 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 333 ad h.l. e BREMER, op. et loc. ult. cit.; così, an-cora, L. AMIRANTE, Prigionia di guerra, riscatto e postliminium. Lezioni, I, pp. 54-55 (e, implicitamente, A. MAFFI, Ricerche sul postliminium, p. 42).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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ciando il periodo d’apertura 701. Non v’è dubbio, infatti, che l’espres-

sione « quod ideo placuisse Servius scribit », e quanto segue (ossia la

ratio), si riferiscano alla parte che precede (« in bello – erat compre-

hensum »), ma non è neppure impossibile che l’apertura sia di Trifo-

nino, così come lo è la chiusura « verum in pace – in fin. » 702.

Per questi motivi, pur seguendo la soluzione dei due autori

ottocenteschi, è parso opportuno far risultare il diverso avviso di

quelli moderni 703, attraverso l’uso di apposite indicazioni tipografi-

che.

E.20. – Paul. XXI ad ed., D. 50.16.25 [pr.-]1 [= Pal. Serv.

8 → Pal. Paul. 339 704; Br. 8 repr. Scaev. cap.] 705: « [pr. – Recte di-

cimus eum fundum totum nostrum esse, etiam cum usus fructus alie-

nus est, quia usus fructus non dominii pars, sed servitutis sit, ut via

et iter: nec falso dici totum meum esse, cuius non potest ulla pars di-

ci alterius esse. 1. – Hoc et Iulianus, et est verius. Quintus Mucius

ait partis appellatione rem pro indiviso significari: nam quod pro

diviso nostrum sit, id non partem, sed totum esse. ] Servius non ine-

leganter partis appellatione utrumque significari ».

701 Vd., in particolare, F. BONA, ‘Postliminium in pace’, pp. 260-261 (e vd. an-che p. 274 nt. 109) = ID., Lectio sua, I, p. 16 (e p. 31 nt. 109) e M.F. CURSI, La strut-tura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato, p. 161 e nt. 9, e, soprattut-to, pp. 166-167, sulla natura, per così dire, ‘tronca’ del primo periodo rispetto al se-condo.

702 Cfr. F. BONA, Preda di guerra e occupazione privata di ‘res hostium’, pp. 335-336 = ID., Lectio sua, I, p. 101, nonché CURSI, op. cit., pp. 166 e ss.

703 Intorno a questi profili vd. ancora A. MAFFI, Ricerche sul postliminium, pp. 43 e ss.

704 O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 1007, ad h.l., non inopportuna-mente (ossia ratione disputatae materiae) pone come premessa palingenetica al testo di D. 50.16.25 il frammento paolino salvato in D. 6.1.35.3 (« Eorum quoque, quae sine interitu dividi non possunt, partem petere posse constat »).

705 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 222 [Servius, reprehensa Scaevolae capita, frg. 8, ‘de paris appellatione’].

Per le fonti bizantine, vd. appena infra, nel testo (e nt. 713).

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Nel passo paolino, dunque, la presenza di Servio è assai limi-

tata, e, ancora una volta, è tesa a polemizzare con una sententia mu-

ciana, nel caso di specie in materia di definizione di cosa sia, giuridi-

camente, ‘pars’ 706. La proposta di assegnazione di questo frammento

all’opera di critica alle tesi muciane mi pare da condividere, in virtù

delle precise analogie stilistiche e, soprattutto, espressive tra la defi-

nizione data dal giurista più antico 707 e la correzione serviana. Certo,

si potrebbe pensare che tale corrispondenza sia anche effetto della

scrittura paolina; tuttavia, l’uso della forma verbale, dotata di una

qual certa solennità come ‘ait’, per Quinto Mucio, che dovrebbe rife-

rirsi alla relazione della sua decisione come ad una sorta di massima

— « partis appellatione rem pro indiviso significari » — seguita dal-

la chiosa paolina — contenuta nel tratto che va da ‘nam’ ad ‘esse’ 708

— a cui si riconnette la conclusione « Servius non ineleganter partis

appellatione utramque significari » 709 , dà l’esatta impressione —

grazie soprattutto all’uso della litote ‘non ineleganter’ 710 — di un ri-

chiamo testuale della scrittura — o del pensiero — altrui 711.

706 Sulla dimensione anche ‘culturale’ del testo (ma, soprattutto, sulla latitudine

dell’intervento serviano) vd. P. STEIN, Regulae iuris, p. 45 e F. HORAK, Rationes decidendi, p. 230. Vd. anche O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, pp. 57-58 nt. 68.

707 Cfr., e.g., F. WIEACKER, Textstufen klassischen Juristen, p. 299 nt. 113. 708 Sul punto vd. anche M. BRETONE, La nozione romana di usufrutto, I. Dalle

origini a Diocleziano, p. 156 nt. 17. 709 Vd. A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en dere-

cho romano, p. 118. 710 Intorno cui vd. supra, cap. I, § 3. 711 La discussione è tesa « a fissare il criterio della pars pro indiviso, sul quale

doveva fondarsi la costruzione giuridica della communio »: cfr. M. BRETONE, ‘Con-sortium’ e ‘communio’, p. 201, ed anche A. TORRENT, Notas sobre la relación entre ‘communio’ y copropriedad, pp. 98-99, 108-109 e 116 (utilmente, inoltre, G. GROS-

SO, Usufrutto e figure affini nel diritto romano, pp. 46, 65 e ss.). Sulla chiusa, come parte serviana finalizzata a superare la rigidità del dettato muciano, vd., in particola-re, M. PHILONENKO, Elegantia, p. 520 e, da ultimo, A. VALIÑO, La faculdad de hipo-tecar en el condominio romano, pp. 74 nt. 12.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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Questa serie di rispondenze portano a credere che Paolo pos-

sa aver tratto le parti segnalate ‘direttamente’ dalla pagina servia-

na 712.

Per aggiungere ulteriori ed utili considerazioni, si possono

accostare, ora, le fonti bizantine. Se il tenore di Bas. 2.2.23 [BT. I,

24; Hb. I, 43] non consente di trarre utili indicazioni ai fini della pre-

sente ricerca, maggior interesse si può manistare per uno scÒlion

che vi accede 713. Così, infatti, si sarebbe espresso Doroteo nel pro-

prio Índix 714:

Sch. 1 ad Bas. 2.2.23 [BS. I, 13-14; s.n., Hb. I, 64]: « `O Ko-

Úintoj MoÚkioj œlege tÍ toà mšrouj proshgor…v kaˆ tÕ ™x

¢diairštou ™p…koinon pr©gma dhloàsqai: Óper g¦r ™k di-

Vrhmšnwn merîn ¹mšterÒn ™sti, toàto oÙ mšroj, ¢l-

l' ÐlÒklhron enai. `O mšntoi Sšrbioj sofîj œlege tÍ toà

mšrouj projhgor…v ˜k£teron dhloàsqai kaˆ tÕ ™x ¢diairštou

kaˆ tÕ ™k diVrhmšnou mšrouj ™p…koinon. Toàto d boÚletai lš-

gein, Óti t¦ douleÚonta tù pipraskomšnJ, k¨n diVrhmšnou ðsi

mšrouj, aÙtoà e„sin, æj aƒ kle‹j kaˆ oƒ moclo…: kaˆ Óti toà

o‡kou praqšntoj siwphrîj ›pontai ».

712 Per la letteratura sul passo si rimanda nuovamente a quanto indicato supra,

cap. I, § 3. 713 Gli scholia relativi a Bas. 2.2.23 sono identificati con le sigle P 1, 2 e 3 [BS.

I, 13-14], in quanto appartenenti al Cod. Par. 1352. Il secondo ‘scolio’ (che rientra nella tipologia delle parapompa…: « Bib. ij/. tit. a/. kef. d/. kaˆ tÕn ”Indika... ™ntaàqa. »), e la parte iniziale del terzo (con ulteriori — peraltro non inconsueti — rinvii testuali), non sono stati indicati, invece, da Heimbach [cfr. Hb. I, 64], nono-stante si trattasse di testi a disposizione (anche) degli editori ottocenteschi (vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Prolegomena, pp. 159 e ss., 162-163, in particolare, trattandosi, talora, di scholia che, a giudizio dell’Autore, « neque a Fabroto edita, nec beato fratre [sic!] iudicante digna, quae edantur »).

714 L’attribuzione è di C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Ba-silicorum, p. 337 ad h.l.

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Secondo l’edizione degli Heimbach, lo scholium sarebbe sta-

to estratto dall’ ‡ndix del giurista bizantino soltanto per il tratto inzia-

le « Ð KoÚintoj MoÚkioj – tÕ ™k diVrhmšnou mšrouj ™p…koi-

non » 715, mentre la continuazione « toàto d boÚletai lšgein – in

fin. » costituirebbe — se ben ho inteso il senso delle segnalazione —

una aggiunta successiva, sorta, a sua volta, di ulteriore commento al

testo doroteano 716.

Effettivamente questa seconda sezione del passo contiene

una interpretazione delle parole di Servio, che, quindi, vanno tenute

distinte, parole che — a loro volta — riflettono quanto attribuito al

giurista tardorepubblicano in D. 50.16.25.1 (« Servius non inelegan-

ter partis appellatione utrumque significari »).

E.21. – Paul. XXXVIII ad ed., D. 26.1.1 pr. 717 [= Pal.

715 Ibid. 716 Anche in questa ipotesi, F. BRANDSMA, Dorotheus and his Digest Transla-

tion, p. 327 (‘Index’), non è di aiuto nell’interpretazione della fonte. 717 Riprodotto, con varianti, in Iust. Inst. 1.13.1, (e si veda l’equivalente paragra-

fo della Parafrasi di Teofilo, che trova eco in Mich. Psell., Syn. leg. 264-265 [G. Weiss, ed., in « Fontes minores », II, 169]), su cui cfr. — oltre a C. FERRINI, De Iu-stiniani Institutionum compositione coniectanea, p. 110 = ID., Opere, II, p. 295 — F. WIEACKER, Textstufen klassicher Juristen, p. 272 e M. KASER, Das römische Priva-trecht, I, p. 86 nt. 11 (in particolare) per la critica testuale (con bibliografia). Cfr. anche BT. V, 1655 ad lin. 5 kouratÒrwn. Circa la critica all’espressione « vis ac potestas » del Digesto, e « ius ac potestas » delle Istituzioni imperiali, cfr. O. BEH-

RENDS, Die Person oder die Sache?, pp. 53-54 nt. 44, con mutamento di prospettiva in ID., Selbstbehauptung und Vergeltung und das Gewaltverbot im geordneten bür-gerlichen Zustand nach klassischem römischen Recht, pp. 67-68 nt. 48 (ove si reputa la seconda versione come più vicina al dato originario; del resto, anche Theoph. Par. 1.13.1 segue il testo giustinianeo — « d…kaiÒn ti kaˆ ™xous…a » — né può dirsi dirimente la lectio dei Basilici, poiché, nell’edizione Heimbach [per quella di Schel-tema vd. appena infra, nel testo] sono conservate due versioni; una in cui si ribadisce il testo della parafrasi [con l’avallo, seppure tardivo, di Harmen., Hexáb. 5.12(11).1], e l’altra in cui appare, per contro, la forma « dÚnamij tij kaˆ ™xous…a » — cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, III, p. 645 ntt. a-b, ad Bas. 27.1.1 — a pro-posito della quale, ultima, il Heimbach concludeva: « non dubitavi id in textum reci-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

419

Serv. 33 → Pal. Paul. 556; Br. 3 ad l. XII Tab.] 718: « Tutela est, ut

Servius definit , vis ac potestas in capite libero ad tuendum eum,

qui propter aetatem [vel sexum, add. Bremer] 719 sua sponte se de-

fendere nequit, iure civili data ac permissa ».

Stando al tenore complessivo del passo, si può concludere

che la definitio in esso contenuta sia integralmente serviana 720.

Un accenno merita, inoltre, la tradizione bizantina. Il corri-

spondente passo di Bas. 37.1.1 è mancante del principium e del § 1

nell’edizione Scheltema 721. È questa la ragione per la quale — pur pere, cum definitionem tutelae, quae hoc loco Digestorum datur, contineat » [così in loc. cit., nt. a], dimostrando, quindi, di essersi posto il problema, e di non aver rite-nuto — di per sé — la versione giustinianea come insiticia).

718 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 229 [Servius, ad leges duodecim tabularum libri, frg. 3, ‘V, 1-6’]. Cfr., inoltre, H. FUNA-IOLI, Grammaticae romanae fragmenta, p. 424 [frg. 11, incert. sed.].

719 Si veda anche E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, II, col. 115, ad h.l.; l’integrazione bremeriana non è accolta da FUNAIOLI, op. et loc. ult. cit.

720 Non contraddice a questa conclusione il fatto che G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica dall’età arcaica al principato 2, p. 80, riporti soltanto il trat-to iniziale « tutela est – in capite libero » (poiché il punto è riportato in relazione agli aspetti trattati). Vd. LENEL, op. cit., II, col. 327 ad h.l.; BREMER, op. et loc. ult. cit., e, per la paternità, nonché per la formale ‘perfezione’ della formulazione servia-na, convincentemente R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, pp. 104 e ss., che ribalta, pertanto, il parere di V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di diritto romano 14, p. 494-495 nt. 1, laddove si dubitava dell’intera parte « ad tuendum eum – se difen-dere nequit » (a partire dal brano, considerazioni di altro genere — ossia sul valore sostanziale delle etimologie giuridiche — in A. CARCATERRA, Le definizioni dei giu-risti romani. Metodo, mezzi e fini, pp. 208-209); ultimamente vd. Evelyn Höbenreich in HÖBENREICH – G. RIZZELLI, Scylla. Fragmente einer juristischen Geschichte der Frauen im antiken Rom, pp. 41-42 e nt. 77 (su cui vd. C. MASI DORIA, Rec. ad op. cit., p. 282, che rimarca la presenza dell’« archetipo serviano della vis ac potestas ») e M. MICELI, ‘Institor’ e ‘procurator’ nelle fonti romane dell’età preclassica e clas-sica, p. 104. Cfr. anche D. NÖRR, Spruchregel und Generalisierung, p. 83 = ID., Hi-storiae iuris antiqui, II, p. 840; A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en derecho romano, pp. 169-170 e T. GIARO, Römische Rechtswahrhei-ten, p. 244.

721 Cfr. BT. V, 1655.

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« SERVIUS RESPONDIT »

420

essendo tali paragrafi presenti in quella degli Heimbach 722, e ripor-

tando il principium, espressamente, il dato secondo cui « Ð Sšrbioj

fhsin », dato che potrebbe risultare significativo ai fini della presen-

te indagine — è preferibile adeguarsi all’edizione olandese 723, senza

trarre ulteriori deduzioni 724.

E.22. – Paul. XLIX [LIX ?, Lenel] ad ed., D. 50.16.77

[= Pal. Serv. 84 → Pal. Paul. 715; Br. 21 resp.] 725: « [‘Frugem’ pro

reditu appellari, non solum frumentis aut leguminibus, verum et ex

vino, silvis caeduis, cretifodinis, lapidicinis, capitur, Iulianus scribit.

‘Fruges’ omnes esse, quibus homo vescatur, falsum esse: non enim

carnem aut aves ferasve aut poma fruges dici.] 726 ‘Frumentum’ [au-

tem id esse, quod arista se teneat, recte Gallum definisse:] lupinum

722 Cfr. Hb. III, 645. 723 Del resto non migliore sorte si ha, della tradizione serviana, in Sch. 1 ad Bas.

37.1.1 → D. 26.1.1 [J. Dittrich, ed., in « Fontes minores », IX, 226: « OÙ mÒnon g¦r lale‹n, ¢ll¦ kaˆ ¢koÚein tîn legomšnwn de‹ tÕn ™p…tropon. Oƒ mn oán

toioàtoi ™x ¢rcÁj Ôntej ¢cr»stwj d…dontai, oƒ d met¦ tÕ doqÁnai genÒmenoi

EXCUSATIONI kšcrhntai, e‡te LEGITIMOI e„sin, e‡te TESTAMENTARIOI: oÛtw g¦r

de‹ noe‹n tÕ h/ kef. toà a/ tit. toÚtou toà bib. kaˆ t¾n a/ diat. toà xh/ tit. toà

e/ bib. toà kwd., †na m¾ dÒxwsin ™nant…ai » linn. 585-589]. 724 La scelta di Scheltema di cassare il testo di Bas. 37.1.1 pr.-1 si spiega, infatti,

nel verso uguale ed opposto, con la motivazione esplicitata da Heimbach e che lo aveva condotto ad accogliere, per contro, una versione del testo greco: « Hoc habet Fabr. T. IV. p. 826 ex scholio ad cap. 20 tit. 2 huius libri sive L. 20 D. XXIV. 2. edi-tio a Labbaeo Observ. et Emendat. ad Syn. p. 119 sq. Non dubitavi id in textum re-cipere, cum definitionem tutelae, quae hoc loco Digestorum datum datur, contineat » (cfr. Hb. III, 645 nt. a, e vd. anche nt. b, ad h.l.). Cfr., poi, BT. V, 1655, apparato critico ad lin. 6, con rimandi a Mich. Attal., Po…ma NomikÒn 25.1 (rubr.) e Proch. 36.1 (rubr.), per l’intitolazione di Bas. 37.1.

725 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 174 [Servius, responsorum libri, frg. 21, ‘de fundo legato’].

Per le fonti bizantine vd. appena infra, nel testo. 726 Sul tratto « ‘fruges’ – poma fruges dici » (e sul suo valore rappresentativo

della communis opinio, parrebbe senz’altro posteriore a Servio) si veda, in particola-re, F. ZUCCOTTI, ‘Partus ancillae in fructu non est’, pp. 274-275.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

421

vero et fabam fruges potius dici, quia non arista, sed siliqua conti-

nentur. Quae Servius apud Alfenum in frumento contineri pu-

tat » 727.

Il brano è stato proposto, in passato, a partire dal lemma ‘fru-

mentum’, e fino al termine 728, mentre altri suggeriva di recuperare

anche le parti inziali « frugem [oppure ‘fructum’] 729 – leguminibus…

Iulianus – falsum esse » 730.

Ora, se alla lettura del testo risulta che il parere di Servio si

inserisca all’interno del problema originato dall’esatta determinazio-

ne del concetto di frumentum (per quello di ‘fruges’, infatti, vi è l’e-

spressa testimonianza dell’intervento di Giuliano, seguito da una

chiosa paolina), questo non autorizza, in ogni caso, a richiamare l’in-

727 Sull’attribuzione e sulle parti costitutive del passo si vedano, in particolare, F.

SITZIA, Ricerche in tema di ‘actio pluviae arcendae’, p. 75 nt. 13; R. CARDILLI, La nozione giuridica di ‘fructus’, pp. 219 e ss. (pp. 222 e ss., particolarmente) ed ancora F. ZUCCOTTI, ‘Fruges fructusque’, pp. 81 e ss., 107 e ss.).

728 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 333 ad h.l. 729 Cfr. la proposta di emendazione dello stesso O. LENEL, Palingenesia iuris ci-

vilis, I, col. 1076 nt. 3, adeguata al parere di TH. MOMMSEN, Corpus Iuris Civilis, I. Digesta, p. 912 nt. 8 (ed ID., Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 940 nt. 2 [con dub-bio]). Si noti che il relativo passo dei Basilici (Bas. 2.2.74, di cui appena infra, nel testo) apre con un generico « karpÒj », che starebbe più propriamente ad identifica-re il fructus latino (cfr. E.F. LEOPOLD, Lexicon graeco-latinum manuale, pp. 426-427, ad h.v. e H. FRISK, Griechisches Etymologisches Wörterbuch, I, pp. 792-793); ma il sostantivo è invariabilmente ripetuto in tutte le ricorrenze in cui, nel brano pao-lino, torna il sostantivo frux (« TÕn karpÕn ¢ntˆ prosÒdou kale‹sqai ½resen, oÙ mÒnon tÕn ¢pÕ purîn À Ñspr…wn, ¢ll¦ kaˆ tÕn ¢pÕ o‡nou À Ølîn temno-

mšnwn À ¢rgilwrucîn À latomiîn lambanÒmenon. TÕ d karpoÝj ¤pantaj

enai, oŒj ¥nqrwpoj tršfetai, yeudšj ™stin: oÙ g¦r tÕ kršaj À t¦ petein¦ À

t¦ qhr…a À t¦j Ñpèraj ½rese karpoÝj lšgesqai. S‹ton d toàto enai Ñr-

qîj Ð G£lloj ær…sato, Óper Ð st£cuj kaq' ˜autÕn krate‹. TÕn d qšrmon kaˆ

tÕ f£ba karpoÝj ... », et rell.; le diverse spaziature sono mie). 730 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit. Vd., ora, per deduzione indiretta, anche R.

CARDILLI, La nozione giuridica di ‘fructus’, pp. 222-223, e cfr. F. ZUCCOTTI, ‘Fru-gem fructusque’, p. 14.

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« SERVIUS RESPONDIT »

422

tera parte finale del brano (« frumentum – putat »).

Alla definizione di frumentum, espressamente attribuita ad

Aquilio Gallo (« ‘frumentum’ – Gallum definisse », ove non si tratti,

invece, di Elio Gallo) 731, Paolo fa seguire, infatti, un’interpretazione

del termine che giudica non corretta (« lupinum vero – continen-

tur »), la quale corrisponde a quella serviana (« quae Servius – pu-

tat »), e che, quindi, risolve la parte da attribuire al giurista repubbli-

cano, per ciò stesso in forma più contenuta 732.

Anche Bas. 2.2.74 [BT. I, 30-31 = Hb. I, 47] 733, privi di

731 Per l’assegnazione al giurista coetaneo di Cicerone vd. O. LENEL, Palingene-

sia iuris civilis, I, col. 56 [= frg. 12]. Vd. anche F.P. BREMER, Iurisprudentiae ante-hadrianae quae supersunt, I, p. 118 [frg. 2, resp.], il quale richiama il passo, tutta-via, in ID., op. cit., p. 246, anche in relazione all’opera di C. Elio Gallo ‘de verborum quae ad ius civile pertinet significatione libri’ [= frg. 1, lib. I, apparato a Gai VI ad l. XII Tab., D. 22.1.19 pr. = Pal. Gai. 440]. Per contro, la tradizione bizantina non risulta essere d’aiuto poiché — come in D. 50.16.77 — anche in Bas. 2.2.74 (privo di scolia) si rinviene soltanto la menzione « Ð G£lloj » (vd. infra, nt. seg.) e pari-menti in Sch. 2 ad Syn. Bas. 2.2.74 (infra, nel testo) si trova menzionato « Ð GAL-

LOS ». Sul problema rimando a SITZIA, op. et loc. ult. cit., e alle osservazioni di F. ZUCCOTTI, ‘Fruges fructusque’, p. 61 nt. 119 (con indicazioni bibliografiche). Di « controversia tra Aquilio Gallo e Servio Sulpicio » parla, dunque, M. FIORENTINI, Rec. a F. Sitzia, Aqua pluvia e natura agri. Dalle XII Tavole al pensiero di Labeone, p. 333 nt. 15.

732 La scelta qui operata potrebbe trovare ulteriore conforto laddove avesse ra-gione (e non si indivuduano particolari motivi per respingere la proposta) A. CAR-

CATERRA, Struttura del linguaggio giuridico-precettivo romano. Contributi, pp. 188-189 (p. 188, per la fonte analizzata), quando afferma che le parti definitorie riman-dano all’uso comune dei termini, dal che credo se ne possa dedurre che l’operazione strettamente giuridica (corrispondente a quella di far rientrare — ‘contineri’ — certi elementi nella definizione generale) è il vero elemento della riflessione alfeniano-serviana (cfr. nuovamente, per l’operazione ermeneutica ora descritta, Cic., Brut. 41.152: supra, cap. I, § 1.1 e 1.3).

733 Si riporta, ora, il testo integrale: Bas. 2.2.74 [BT. I, 30-31 = Hb. I, 47]: « TÕn karpÕn ¢ntˆ prosÒdou kale‹sqai ½resen, oÙ mÒnon tÕn ¢pÕ purîn À Ñspr…wn,

¢ll¦ kaˆ tÕn ¢pÕ o‡nou À Ølîn temnomšnwn À ¢grilwrucîn À latomiîn

lambanÒmenon. TÕ d karpoÝj ¤pantaj enai, oŒj ¥nqrwpoj tršfetai, yeudšj

™stin: oÙ g¦r tÕ kršaj À t¦ petein¦ À t¦ qhr…a À t¦j Ñpèraj ½rese karpoÝj

lšgesqai. S‹ton d toàto enai Ñrqîj Ð G£lloj ær…sato, Óper Ð st£cuj ka-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

423

scholia nelle edizioni Heimbach e Scheltema 734, apparentemente ‘a-

despoti’ 735, chiudono il passo per mezzo di un periodo autonomo, il

quale suona in termini di fatto simili alla lezione del Digesto (« taà-

q' ˜autÕn krate‹. TÕn d qšrmon kaˆ tÕ f£ba karpoÝj m©llon lšgesqai ½re-

sen, ™peid¾ oÙk ™n st£cuϊ, ¢ll' ™n kerat…J perišcetai. Taàta d Ð Sšrbioj tù s…tJ perišcesqa… fhsin ».

734 Ma vd. appena infra, nel testo. 735 L’aggettivo è detto nel senso che non sono stati individuati il nome e il lavoro

del (rectius: di un) giurista bizantino servito da matrice per il passo dei libri Basili-corum (vd., infatti, C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilico-rum, p. 337 ad h.l.).

Non pare fuori di luogo, tuttavia, ipotizzare che, anche in questa ricorrenza, il giurista possa essere identificato in Doroteo, e il lavoro nel suo Índix. E questo per una serie di ragioni che mi paiono sufficientemente ragionevoli, e, quindi, convin-centi: intanto, come segnalato da HEIMBACH, op. et loc. cit., ad D. 50.16, la sostan-ziale totalità delle attribuzioni concerne, appunto, questo giurista (a cui si aggiunga soltanto l’Enantiofane, per il collegato Sch. 1 (P) ad Bas. 2.2.24 [BS. I, 14; Hb. I, 64] e, con la sola indicazione da parte degli editori olandesi, per lo Sch. 1 ad Bas. 2.2.38 [BS. I, 15], come pure per lo Sch. 1 (P) ad Bas. 2.2.28 [BS. I, 14] attribuito al commentatore, probabilmente ecclesiastico, Chartophylax [in generale vd. R.J. MA-

CRIDES, s.h.v., pp. 415-416 e come G. MAKRIS, s.h.v., p. 1110]). A questo proposito, poi, si dovrebbe notare che, con riferimento a Doroteo, abbiamo la certezza che il suo ‘indice’ toccasse anche il materiale che costituirà (successivamente alla sua ope-ra) il titolo di Bas. 2.2 (vd., per tutti, F. BRANDSMA, Dorotheus and his Digest Trans-lation, passim): poiché questo titolo corrisponde al penultimo del Digesto — ossia a D. 50.16 — mentre è certo che il nostro Compilatore redasse un índix comprendente tutti e cinquanta i libri dei Digesta giustinianei (quindi, anche se questa non è una prova incontrovertibile del fatto che Doroteo sia stato l’unico a trattare i materiale contenuti in D. 50.16, quantomeno possediamo la certezza — a differenza degli altri giuristi bizantini — che egli l’abbia fatto sistematicamente). Ancora: Doroteo (e Ste-fano) sembrerebbero essere gli unici giuristi bizantini a mantenere il nome di Servio laddove compare anche nelle fonti latine in nostro possesso (nonché in altre che lo tacciono: vd. infra, in questo stesso capitolo, i rilevanti frammenti censiti sub G. ). Infine: si è visto, più sopra, che anche Bas. 2.2.28 pr. [BT. I, 25; Hb. I, 43] e Sch. 1 (P) ad Bas. 2.2.23 [BS. I, 13-14; Hb. I, 64] sono concordemente ritenuti essere stati tratti dalla stessa opera doroteana. A questo si aggiunga che anche Bas. 2.2.17 [BT. I, 23-24; Hb. I, 42] sono giudicati doroteani: cfr. HEIMBACH, op. et loc. cit. e ID., op. cit., Prolegomena, p. 45 (col. II), ripreso e accolto — stranamente su questa sola fonte — da BRANDSMA, op. cit., pp. 43-44 (con erronea indicazione di pagine del-l’edizione olandese [« BT 23-26 », e cfr. anche p. 326, ‘Index’]).

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ta d Ð Sšrbioj tù s…tJ perišcesqa… fhsin ») — menzione di Al-

fenus relans a parte, che qui si è eclissata — e che si riferisce ai lupi-

ni e alle fave (« TÕn d qšrmon kaˆ tÕ f£ba karpoÝj m©llon lš-

getai ½resen, ™peid¾ oÙk ™n st£cuϊ, ¢ll' ™n kerat…J perišce-tai »).

La catena di citazioni torna, invece, quasi completamente ri-

pristinata — salva, infatti, l’assenza del solo nome di Giuliano — in

un testo che ricalca diffusamente la versione latina. Si tratta di

Sch. 2 ad Syn. Bas. 2.2.74 [Getov, ed., in « Fontes mino-

res », XI, 373] 736: « `Ermhne…a. `O lšgwn FRUMENTIS t¾n prÒ-

sodon dhlo‹, ¢ll¦ kaˆ e‡ ti ¢pÕ o‡nou À ¢pÕ Ûlhj koptomšnhj

À ¢pÕ lakoge…ou lambanÒmenon ™k toà ¢groà À latomiîn sul-

lšgetai. TÕ dš tisi e„rhmšnon, Óti tÕ FRUGES e„sˆ p£ntej oƒ

karpo…, di' ïn ¢potršfetai ¥nqrwpoj, yeudšj ™stin. Kaˆ g¦r

tÕ kršaj kaˆ t¦ Ôrnea t¦ ¥gria kaˆ ¹ Ñpèra e„j trof¾n mn

¢nqrèpwn pepo…htai, FRUGES d oÙdamoà kaloàntai. FRUMEN-

TUM dš ™sti p£nta t¦ st£cuaj œconta: toàto g¦r Ñrqîj Ð GAL-

LOS ær…sato kaˆ ¹ gnèmh tîn pollîn ¢pedšxato, e„ kaˆ t¦

qšrma kaˆ oƒ kÚamoi kur…wj m©llon FRUGES lšgontai kaˆ oÙ

FRUMENTUM, ™peid¾ oÙk ¢st£cuaj poioàsin ¢ll¦ tù „d…J qu-

l£kJ perišcontai. `O d SERVIOS par¦ tù ALFENO kaˆ taàta

œlege tù FRUMENTUM perišcesqai. Z»tei toà g/ tit. kef. ob/ ».

Il finale, in modo particolare — ossia il tratto « Ð d SER-

VIOS par¦ tù ALFENO kaˆ taàta œlege tù FRUMENTUM perišce-

sqai » — si conforma, praticamente ad sensum, alla versione paoli-

736 Cfr. D. GETOV, Eine Scholiensammlung zur Synopsis Basilicorum maior, p.

373 [linn. 1177-1187]. Per quanto osservato appena supra, nt. precedente, per i ter-mini in lettere latine (antichi), non si può ragionevolmente escludere che anche lo Sch. cit. alla Synopsis Basilicorum possa derivare — a sua volta — dal lavoro di Do-roteo dedicato ai Digesta.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

425

na, con assai maggiore aderenza rispetto a Bas. 2.2.74, anche nella

notizia ‘storica’ secondo cui la Servi sententia è stata tràdita dall’au-

ditor Alfeno (« Ð d SERVIOS par¦ tù ALFENO ... œlege » –

« quae Servius apud Alfenum... putat ») 737.

Se, infatti, nei libri dei sovrani macedoni, e in questo scÒ-

lion, viene adoperato il verbo perišcw — che si può considerare

come l’esatto simmetrico del latino comprehendo 738 (e, quindi, per

estensione, del tecnico-giuridico contineo) 739 — la scansione del

commento greco offre la visione di stretti e concatenati parallelismi

con D. 50.16.77, e conferma quanto sostenuto appena sopra circa la

sezione da considerare come derivata dal pensiero di Servio.

E.23. – Paul. LI ad ed., D. 40.12.24 [pr.-]1 [= Pal. Serv. 66

→ Pal. Paul. 646; Br. 62 resp.] 740: « [Ordinata liberali causa liberi

loco habetur is, qui de statu suo litigat, ita ut adversus eum quoque,

qui se dominum esse dicit, actiones ei non denegentur, quascumque

intendere velit: quid enim si quae tales sint, ut tempore aut morte in-

tereant? Quare non concedatur ei litem contestando in tutum eas re-

digere?]. – 1. Quin etiam Servius ai t in actionibus annuis ex eo

tempore annum cedere, ex quo lis ordinata sit ».

Il testo è stato offerto integralmente sia nella Palingenesia

737 La forma espansa dei caratteri è mia. 738 Vd. E.F. LEOPOLD, Lexicon graeco-latinum manuale, p. 652, ad h.v. 739 Cfr. « VIR. », I, coll. 982 e ss. (e cfr., infatti, sectio « II. = comprehendere »,

col. 982, linn. 51 e ss.), ad h.v. 740 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 187

[Servius, responsorum libri, frg. 62, ‘de liberali causa’]. Il testo di Bas. 48.8.24 pr.-1 [Idem. = Iabolenu., arg. ex Bas. 48.8.23, in realtà

Paolo, ex D. 40.12.23, BT. VI, 2223 = ”Idem. = 'Iabolšnoj., Hb. IV, 728], non presenta elementi di interesse, né è accompagnato da scolii. Si rimarca, appunto, sol-tanto la (implicita e indiretta) sostituzione del nome di Paolo con quello di Giavole-no nella rubrica del passo.

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del Lenel 741, sia nella Iurisprudentia antehadriana del Bremer 742.

A ben vedere, tuttavia, se certamente — come in altre ipotesi

— il punto di partenza della discussione giurisprudenziale è rappre-

sentato dalla fattispecie illustrata (qui nel principium del frammen-

to) 743, anche in questo caso è difficile sostenere che l’intero brano

sia da considerare di Servio. Quanto è stato riportato del pensiero del

nostro giurista coincide, invece, con la soluzione data ad un punto

specifico del thema disputato (« in actionibus – lis ordinata sit »), e,

pertanto, a questa sola parte è consigliabile ridurre la restituzione.

Ancora una volta è da notare la forma della traccia serviana,

che è quella propria della regula resa in estrema sintesi, per la quale

si usa, dunque, il verbo ‘aiere’ (« Servius ait »).

E.24. – Paul. XIII ad Plaut., D. 8.6.7 [= Pal. Serv. 16 →

Pal. Pul. 1191; Br. 9 ad l. XII Tab.] 744: « [Si sic constituta sit aqua,

ut vel aestate ducatur tantum vel uno mense, quaeritur quemadmo-

dum non utendo amittatur, quia non est continuum tempus, quo cum

uti non potest, non sit usus. Itaque et si alternis annis vel mensibus

quis aquam habeat, duplicato constituto tempore amittitur. Idem et

741 Vd. LENEL, op. cit., II, col. 331 ad h.l. 742 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit. 743 Si omettono, in questa sede, i vari rilievi interpolazionistici (che hanno colpi-

to il periodo « quasqcumque – redigere? »: cfr. G. BESELER, Beiträge zur Kritik, I, p. 67 [sulla presunta natura insiticia del sintagma ‘quid enim si...’], con dubbio amplia-to in ID., op. cit., V, p. 6 [ivi, ‘itaque’ viene suggerito in luogo di « quid etiam »]; ancora S. RICCOBONO, Die Vererblichkeit der Strafklagen und die Fiktion der Li-tiskontestation nach klassischem und justinianischem Rechte [fr. 10 § 2 D. 2, 11 und fr. 33 D. 44, 7], pp. 110-111; si vedano inoltre G. ROTONDI, ‘Possessio quae animo retinetur’. Contributo alla dottrina classica e postclassica del possesso e dell’‘ani-mus possidendi’, in « Scritti Giuridici », III, p. 163 nt. 3, nonché, ancora per l’ipotesi interpolazionistica, M. KASER, Restituere als Prozeßgegenstand. Die Wirkungen der litis contestatio auf den Leitungsgegestand im römischen Recht 2, p. 4 nt. 1).

744 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 230 [Servius, ad leges duodecim tabularum, frg. 9, ‘ad loca incerta’].

Per la tradizione bizantina vd. appena infra, nel testo.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

427

de itinere custoditur. Si vero alternis diebus aut die toto aut tantum

nocte, statuto legibus tempore amittitur, quia una servitus est: nam

et] si alternis horis vel una hora cottidie servitutem habeat, Servius

scribit perdere eum non utendo servitutem, quia id quod habet cot-

tidianum sit ».

L’assegnazione del testo a Servio appare — in questo caso

— abbastanza problematica. Se, infatti, le ipotesi già proposte (« si

alternis annis – in fin. » ovvero « si sic constituta – non utendo amit-

tatur [...] et si alternis annis – in fin. ») 745 tendono ad ampliare sen-

sibilmente i (possibili) confini della riflessione serviana, un’analisi

più attenta delle parti che compongono il testo — pur nella coerente

concatenazione di tema e di relative ipotesi — suggerisce prudente-

mente di selezionare soltanto l’intervallo che è racchiuso tra le parole

« si alternis horis » e « cottidianum sit » 746.

Infatti, in primo luogo, ciò che serve a immettere nel pensie-

ro di Servio (« nam et si... »), e la fattispecie, dallo stesso discussa,

appaino, ictu oculi, distinguere il discorso conclusivo dal resto del

frammento 747.

745 Così, rispettivamente, O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 324, ad h.l.

e BREMER, op. et loc. ult. cit. 746 In questo senso pare militare il giudizio di F. HORAK, Rationes decidendi, p.

176, che, proprio in ordine al tratto segnalato, ritiene addirittura che « hier spricht Servius ».

747 Per i profili di critica testuale, rinvio a E. LEVY – E. RABEL, Index interpola-tionum, I, col. 112 (in cui si richiama anche l’autorità di I. CUIACIUS, Recitations solemnes, in tit. V, lib. VIII Digestorum, ad l. VII, coll. 745-746), ed IID., op. cit., Suppl. I, col. 144, ad.h.l.; da segnalare, soltanto e dove cade sulla parte di nostro in-teresse, il conato ricostruttivo di G. BESELER, Miszellen [in « ZSS. », XLVII, 1927], p. 363: « nam et si cui alternis horis vel una hora cottidie legetur, Servus scribit per-dere eum per biennium non utendo servitutem ».

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« SERVIUS RESPONDIT »

428

Il passo riemerge in Bas. 58.6.7 [BT. VII, 2642] 748, e ha il

seguente tenore: « `H doule…a toà Ûdatoj ™¦n oÛtwj sustÍ, éste

™n mÒnJ tù qšrei kecrÁsqai aÙtÍ À ™n ˜nˆ mhnˆ À Øpr ™niau-

tÕn À Øpr mÁna, diplasi£zetai Ð crÒnoj tÁj ¢crhs…aj: tÕ aÙ-

tÕ kaˆ ™pˆ monopat…ou. E„ d Øpr ¹mšran À Øpr éran À m…an

éran À mÒnhn t¾n ¹mšran À mÒnhn t¾n nÚkta, tù nom…mJ crÒnJ

fqe…retai: m…a g£r ™stin ¹ doule…a » 749.

Il brano non sembra aggiungere molto alla conoscenza di

D. 8.6.7, anche per la ragione che non è stato salvato il nome di Ser-

vio. Un solo dato potrebbe essere di qualche rilievo. Ossia: il passo

di Bas. 58.6.7 è sostanzialmente suddiviso in due parti, la seconda

delle quali (« e„ d Øpr ¹mšran – ™stin ¹ doule‹a ») comprime le

varie fattispecie analizzate in D. 8.6.7 laddove si afferma: « si vero

alternis diebus – cottidianum sit ». Ora questo potrebbe ingenerare il

sospetto che, nel testo originario, la parte attribuibile a Servio possa

essere fatta risalire, appunto, alle parole « si vero » e fino al termine.

Per le ragioni addotte 750, resto, però, della precedente opinione. Di-

verse deduzioni si sarebbero potute trarre se Bas. 58.6.7 avessero

mantenuto la menzione del nome del giurista, ma, come s’è notato,

non è così.

E.25. – Ulp. XI ad ed., D. 4.3.1.2 [= Pal. Serv. 11 → Pal.

748 Si tratta di un titolo ‘restitutus’ — e, quindi, assente nell’edizione di Heim-

bach (ma cfr., tuttavia, Hb. V, 199 nt. e, che segnala il testo di Proch. 38.54 e di Harmen., Hexáb. 2.4.101 [scl. 102, Heimbach, ed.]) — sulla base del Codex Ambro-sianus F 106.

749 Cfr. C. FERRINI – J. MERCATI, Editionis Basilicorum heimbachianae supple-mentum alterum, p. 143 = Basilicorum libri LX. Supplementa editionis Basilicorum heimbachianae [M. Miglietta, cur.], p. 465, che rinvia, ad h.l., nt. 1, a Proch. 38.45 (vd. anche nt. prec.).

750 Vd. supra, nel testo.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

429

Ulp. 384; Br. 1 ad ed.] 751: « Dolum malum Servius quidem ita

definii t machinationem quandam alterius decipiendi causa, cum

aliud simulatur et aliud agitur. [Labeo autem posse et sine simulatio-

ne id agi, ut quis circumveniatur: posse et sine dolo malo aliud agi,

aliud simulari, sicut faciunt, qui per eiusmodi dissimulationem de-

serviant et tuentur vel sua vel aliena: itaque ipse sic definiit dolum

malum esse omnem calliditatem fallaciam machinationem ad cir-

cumveniendum fallendum decipiendum alterum adhibitam. Labeonis

definitio vera est] ».

Non rappresenta operazione particolarmente ardua quella di

isolare ciò che Servio ebbe a definire in materia di dolo 752 — rispet-

751 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 233

[Servius, ad edictum libri duo ad Brutum, frg. 1, ‘IX. de in integrum restitutionibus. 2. quae dolo malo facta esse dicetur’]. Per un recupero del brano nelle fonti giuridi-che di lingua greca, vd. infra, nel testo.

752 Si veda, in particolare, A. CARCATERRA, Dolus bonus / dolus malus. Esegesi di D. 4.3.1.2-3, pp. 59 e ss. (pp. 77 e ss., per il giudizio di genuinità del tratto di no-stro interesse) nonché G. CRISCUOLI, Il criterio discretivo tra ‘dolus bonus’ e ‘dolus malus’, pp. 22-23 e 28-29 (in particolare). Si allude, poi, qui al testo come a noi per-venuto attraverso la Littera Florentina. Circa i dubbi interpolazionistici vd., in parti-colare, G. BESELER, Beiträge zur Kritik, III, p. 97, il quale — sulla porzione attribui-bile al giurista tardorepubblicano — interviene cassando il tratto « machinationem quandam alterius decipiendi causa » e la congiunzione « et », appena successiva (ma, in realtà, il dubbio risale allo Hotman: cfr., per l’individuazione, M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, p. 70 e nt. 131, ove, nella citazione del brano di nostro interesse, è stato omesso, per semplice svista, l’indefinito « quandam »]). Il Beseler, peraltro, interviene ancora pesantemente sulla prosecuzione del passo (revocando la stessa valutazione conservativa espressa, per contro, in ID., op. cit., I, p. 76, in cui, sul punto serviano, ‘saltava’ soltanto l’« et » e si proponeva la ragionevole emendazione « Labeo autem <ait> posse » — così co-me conservativa era la lettura di A. PERNICE, Labeo, II.1, p. 209). Tuttavia, le riserve sul tratto « machinationem – causa » non hanno trovato séguito in dottrina: vd., già precedentemente, G. NOODT, De forma emendandi doli mali in contrahendis negotiis admissi, apud veteres, pp. 353 e ss.; più recentemente BRUTTI, op. cit., pp. 198-201 nt. 4; M. KASER, Das römische Privatrecht, I, p. 628; F. SCHULZ, Prinzipien des rö-mischen Rechts, p. 31 = ID., Principles of Roman Law, p. 46 = ID., I principi del di-

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« SERVIUS RESPONDIT »

430

to a quanto sostenuto, invece, da Labeone 753 e, quindi, da Ulpiano 754

— rimasto, peraltro, come unica parte superstite della tradizione bi-

zantina del passo, ossia

Bas. 10.3.1.2 [BT. II, 539; Hb. I, 498]: « DÒloj kakÒj ™sti

panourg…a kaˆ ¢p£th kaˆ mhcan¾ ¹ prÕj perigraf¾n ˜tšrou

ginomšnh ».

Il testo è privo di scholia ed è stato derivato dagli editori

moderni, in realtà, da Syn. D.XXXVII.3 [cpv.] e da Ecl. Bas. 10.3.1.2

[mj/] [L. Burgmann, ed., 485] 755.

Non è senza interesse il commento dell’autore dell’Ecloga:

« T¾n perˆ toà fÒbou didaskal…an Ð nomoqšthj peplhrwkëj

perˆ dÒlou ¥rti did£xai ¹m©j ™paggšlletai: di¦ toàto g¦r t¾n

toà t…tlou ™pigraf¾n perˆ dÒlou kakoà ™poi»sato. | AÙt…ka

oân t¾n toà dÒlou fÚsin did£skwn fhs…n: dÒloj ™stˆ mšqodÒj

ritto romano, p. 40; F. HORAK, Rationes decidendi, p. 173 nt. 5, nonché C.A. CAN-

NATA, Istituzioni di diritto romano, II.1, pp. 26 e ss. Da annotare, inoltre, le proposte di sostituzione della forma verbale « deserviant » con ‘se servant’ ovvero con ‘res serviat’, rispettivamente di Scialoia (espressamente accolta da CANNATA, op. cit., p. 26) e di Ferrini, appuntate in P. BONFANTE – C. FADDA – C. FERRINI – S. RICCOBONO

– V. SCIALOIA, Digesta Iustiniani Augusti, p. 114 nt. 3, ad h.l. Per altri rilievi si rin-via ad E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, I, col. 48, ad h.l. Da ultimo, cfr. O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, p. 74 nt. 99. Da notare, in-vece, che F. BETANCOURT, El concurso de acreedores en el derecho romano clásico, p. 192, unisce a quello di Servio anche il nome di Aquilio Gallo a proposito della sezione del passo, e delle definizioni in questione, attribuibili al primo.

753 Sul punto vd. ancora CARCATERRA, op. cit., pp. 95 e ss. 754 La ricostruzione qui proposta coincide con quelle di O. LENEL, Palingenesia

iuris civilis, II, col. 324 e di BREMER, op. et loc. ult. cit. (quest’ultimo omette soltan-to l’espressione ‘quidem’). Cfr. anche C.A. CANNATA, ‘Bona fides’ e strutture pro-cessuali, pp. 270-271 (nonché O. BEHRENDS, Dalla mediazione arbitrale alla prote-zione giudiziaria. Genesi e vicende delle formule di buona fede e delle cd. ‘formulae in factum conceptae’, p. 307).

755 Vd. BT. II, 539, ‘Testimonia’, ad h.l.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

431

tij ¢nqrèpou tinÕj ›teron mn prospoioumšnou ™n fanerù,

¥llo d kataskeu£zontoj prÕj ¢p£thn ˜tšrou ™n tù kruptù

éste perigr£yai kaˆ zhmiîsai aÙtÒn. “Ote goàn di¦ tÕn pa-

r' ˜tšrou genÒmenon dÒlon blabÍ tij kaˆ zhmiwqÍ, dÚnatai ki-

nîn t¾n dedÒlo ¢pokaq…staqai e„j t¾n protšran kat£stasin

kaˆ peripoie‹n aÙtù tÕ ¢z»mion poinhlatîn kaˆ tÕn do-

lieus£menon, kaqëj eØr»seij perˆ t¦ œmprosqen » 756.

Un parziale recupero della giurisprudenza romana si rinvie-

ne, inoltre, nella interessante definizione contenuta in ‘Lexicon’ a

‘Hexábiblos aucta’ D.81, linn. 6-7 [M.T. Fögen, ed., in « Fontes mi-

nores », VIII, 172]: « OÛtwj d tÕn dÒlon ær…sato Labeèn: œsti

d prîtoj dÒloj kakopo…hsij laqra…a ™n prospoi»sei tîn

beltiÒnwn tù plhs…on prosferomšnh. DeÚteroj dÒloj ™stˆ

p©sa kakourg…a kaˆ ¢p£th kaˆ mhcan¾ prÕj perigraf¾n

˜tšrou ginomšnh » 757.

E.26. – Ulp. XII ad ed., D. 4.6.26.4 [= Pal. Serv. 12 →

Pal. Ulp. 439; Br. 2 ad ed.] 758: « [ Ait praetor: ‘sive cui per magi-

756 Reminiscenze dei testi (in generale di Bas. 10.3.1) anche in Mich. Psell., Syn.

leg. 526-529 e 1144-1145 [G. Weiss, ed., in « Fontes minores », II, 180 e 204], ri-spettivamente: « `H perˆ dÒlou dš ™sti poin¾ kaˆ poinal…a: d…dotai kaàsa kÒ-gnita, œsti personal…a: ™n dusˆ d ™niauto‹j ¥rcetai kaˆ plhroàtai, ¥llhj

d' ØpoÚshj ¢gwgÁj oÙ kine‹j t¾n de dÒlJ » (con riflessi dovuti anche a Bas. 10.3.42 [BT. II, 545; Hb. I, 503] e traslitterazioni di termini latini), nonché « `H perˆ dÒlou d…dotai a„t…aj ™x eÙlÒgou ¥llhj ¢poÚshj ¢gwgÁj, ™sc£th g¦r tugc£-

nei ». 757 Per completezza si veda anche L. BURGMANN, Neue Zeugnisse der Digesten-

summe des Anonymos, p. 103 ad h.l. (con rinvio, sul punto specifico, ad Epanag. aucta 49.5 [K.E. Zachariä von Lingenthal, ed., in « Jus Graecoromanum », VI, 196]: « DÒloj ™stˆ kakÕj panourg…a, ¢p£th kaˆ mhkan¾ prÕj perigraf¾n ˜tšrou ginomšnh »).

758 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 233 [Servius, ad edictum libri duo ad Brutum, frg. 2, ‘IX.6. si cuius quid de bonis rel.’].

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« SERVIUS RESPONDIT »

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stratus sine dolo malo ipsius actio exempta esse dicetur’ . Hoc quo?

Ut si per dilationes iudicis effectum sit, ut actio eximatur, fiat restitu-

tio. Sed et si magistratus copia non fuit, Labeo ait restitutionem fa-

ciendam.] Per magistratus autem factum ita accipiendum est, si ius

non dixit: alioquin si causa cognita denegavit actionem, restitutio

cessat: et ita Servio videtur. [Item per magistratus factum videtur,

si per gratiam aut sordes magistratus ius non dixerit: et haec pars

locum habebit, nec non et superior ‘secumve agendi potestatem non

faciat’: nam id egit litigator, ne secum agatur, dum iudicem corrum-

pit] ».

La ricostruzione qui proposta tiene conto di entrambe le pre-

cedenti soluzioni. Lenel, infatti, considerava soltanto del passaggio

« per magistratus – Servio videtur » 759, mantre il Bremer recuperava

— a mio giudizio, opportunamente — anche la clausola pretoria

(« ait praetor – esse dicetur ») 760.

E.27. – Ulp. XVII ad ed., D. 8.5.6.2 [= Pal. Serv. 15 →

Pal. Ulp. 598; Br. 94 resp.] 761: « [ Etiam de servitute, quae oneris

Il passo torna, in estrema sintesi, in Bas. 10.35.26.4 [BT. II, 615; Hb. I, 546], i

quali non presentano scolii e il cui testo non pare essere particolarmente significati-vo.

759 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 324, ad h.l. Si noti, peraltro, in particolare, che a giudizio di G. BESELER, Beiträge zur Kritik, I, p. 77 (ripreso in ID., op. cit., III, p. 98), tra altre critiche, si segnala, quale superfetazione giustinianea ― ma senza fornire ulteriori chiarimenti ― il tratto di nostro interesse « sed et si – Servio videtur » (a cui si aggiunga che F. PRINGSHEIM, Miszellen, in « ZSS. rom. Abt. », XLII, 1921, p. 659 nt. 2, espunge l’intera sezione conclusiva « item per ma-gistratus – in fin. », che, tuttavia, non riguarda il pensiero di Servio). Per ulteriori dubbi testuali, cfr. E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, I, col. 59, ad h.l., dubbi relativi, tuttavia, alle altre parti del passo.

760 Vd. BREMER, op. et loc. ult. cit. 761 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 196

[Servius, responsorum libri, frg. 94, ‘de servitutibus’].

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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ferendi causa imposita erit, actio nobis competit, ut et onera ferat et

aedificia reficiat ad eum modum, qui servitute imposita comprehen-

sus est. Et Gallus putat non posse ita servitutem imponi, ut quis fa-

cere aliquid cogeretur, sed ne me facere prohiberet: nam in omnibus

servitutibus refectio ad eum pertinet, qui sibi servitutem adserit, non

ad eum, cuius res servit. Sed evaluit] Servi sententia, in pro-

posita specie ut possit quis defendere ius sibi esse cogere adversa-

rium reficere parietem ad onera sua sustinenda. [Labeo autem hanc

servitutem non hominem debere, sed rem, denique licere domino rem

derelinquere scribit] ».

Lenel e Bremer porgono il brano dall’inizio al penultimo pe-

riodo (« etiam de servitute – ad onera sua sustinenda ») 762.

Impregiudicato che l’ultima considerazione (« Labeo autem

– in fin. ») 763 sia, fuor di ragionevole dubbio, labeoniana, deve pro-

Per le fonti bizantine, il passo torna in Bas. 58.5.6.2 [BT. VII, 2639], unico pa-

ragrafo ‘restitutus’ — dalla sola edizione olandese, per il tramite di Syn. D.XL.18

[rubr. Perˆ douleiîn; Zepos, V, 238: « 17. 'An£gn. kaˆ t…. e/. [...] 18. 'En d tù j/. kef. »] — del brano in questione (cfr. BT. loc. cit., ‘Testimonia’ ad h.l.). Privo di scholia, vigorosamente riassuntivo nella sostanza, non fa menzione di alcun giurista coinvolto nella discussione.

762 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 324 ad h.l. (‘loci incerti’), e BREMER, op. et loc. ult. cit.

763 Per i profili di critica testuale sul tratto segnalato (nonché della continuazione relativa ad Aquilio Gallo) si rinvia a F. HORAK, Rationes decidendi, p. 112 e nt. 38, e ad A. TORRENT, Estudios sobre la ‘servitus oneris ferendi’. I. ‘Utilitas’, tipicidad, p. 427 nonché ad ID., Estudios sobre la ‘servitus oneris ferendi’. III. ‘Obligationes propter rem’, p. 199. Che, poi, il tratto indicato possa esaurire l’intervento labeonia-no è dubbio insinuato da G. SEGRÈ, La clausola restitutoria nelle azioni ‘de servitu-tibus’ e le formule relative alla ‘servitus oneris ferendi’, p. 53 nt. 1, anche se è con-divisibile la contraria opinione di R. BASILE, In tema di ‘servitus oneris ferendi’, pp. 67-68 nt. 16 (« sembra opportuno evidenziare che ci si trova comunque di fronte ad una parafrasi ulpianea della lezione del carismatico scolarca proculiano, il tenore essenziale della quale non sembra subire alcuno snaturamento sotto il profilo sostan-ziale se, piuttosto che essere resa sottolineando essere il proprietario del fondo ser-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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babilmente essere isolata anche la parte che concerne la riflessione di

Aquilio Gallo (« et Gallus – cuius servit ») 764. E, anzi, non si può

neppure escludere che la ripresa « nam in omnibus servitutibus refec-

tio ad eum pertinet, qui sibi servitutem adserit, non ad eum, cuius res

servit » sia ulpianea 765. Indurrebbero, infatti, a questa conclusione il

prolungamento immediato e logicamente concatenato (« sed evaluit

Servi sententia, in proposita specie ut... », et rell.), che va ascritto al

pensiero del giurista di Tiro, nonché l’ulteriore considerazione se-

condo la quale « nam in omnibus – res servit », che, da un lato, ri-

prende la regula che serve da proemio (« etiam de servitute – com-

prehensus est »), e, dall’altro, soprattutto, offre una ratio alla tesi di

Aquilio Gallo, il quale si oppone alla (validità della) regula stessa.

Non manca di interesse, infine, la forma con la quale viene

illustrata la concezione serviana: « sed evaluit Servi sententia, in

proposita specie », che sottolinea efficacemente la peculiarità della

sententia stessa rispetto a ciò che ci si sarebbe attesi (almeno nella

visione di Ulpiano, ossia il rispetto coerente della regola ‘sostanziale’

secondo cui ‘servitus in faciendo consistere nequit’ 766: « sed eva-

luit »; l’avversativa risulta essere, in questo contesto, particolarmente vente soggetto all’azione in caso di derelictio della cosa, essa venga resa così come si legge nel frammento in questione »).

764 Cfr. G. GROSSO, I problemi dei diritti reali nell’impostazione romana, pp. 187 e ss. (circa le ‘partizioni’ del testo relative al pensiero dei giuristi coinvolti). Ci troveremmo, dunque e nuovamente, in presenza di un’ipotesi in cui nella sostanza Servio si discosta dal pensiero di uno dei suoi maestri (su cui, ampiamente, supra, cap. I, § 2, a proposito di Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.43 [= Pal. Pomp. 178]). Si veda, da ultimo, e ampiamente, S. MASUELLI, La refectio nelle servitù prediali, pp. 186 e ss. (pp. 192 e ss., in particolare).

765 Parrebbe considerarla parte del discorso aquiliano, invece, TORRENT, op. cit., III, p. 237.

766 Vd. anche Pomp. XXXIII ad Sab., D. 8.1.15.1 [= Pal. Pomp. 777]: « Servitu-tium non ea natura est, ut aliquid faciat quis, veluti viridia tollat aut amoeniorem prospectum praestet, aut in hoc ut in suo pingat, sed ut aliquid patiatur aut non fa-ciat » e cfr., sul punto, A. CORBINO, Servitus oneris ferendi e refectio parietis, pp. 25-26 (in particolare).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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eloquente) e il collegamento tra il pensiero di Servio e la fattispecie

(o meglio, la regola) d’esordio (« in proposita specie », ossia « se

servitute, quae oneris ferendi – comprehensus est ») 767.

E.28. – Ulp. XXVII ad ed., D. 13.3.3 [= Pal. Serv. 19 →

Pal. Ulp. 780; Br. 97 resp.] 768: « [ In hac actione 769 si quaeratur, res

767 A voler discostarsi, sul punto, dalla severa critica di G. BESELER, Miscellanea

[in « ZSS. », XLV, 1925], p. 231, il quale (oltre al tratto « etiam de servitute – com-prehensus est », e in ciò con soluzione simile a quella di G. SEGRÈ, La denominazio-ne di ‘actio confessoria’ in particolare per la rivendicazione dell’usufrutto e delle servitù, p. 523 nt. 2: « ut et onera – est »), pone in forse l’attendibilità proprio della parte centrale « sed evaluit Servii sententia, in proposita specie ut possit quis defen-dere », a cui propone di sostituire un (assai improbabile) ‘posse quem intendere’ (sempre detto da Servio), proposta sfornita, però, di miglior prova positiva.

768 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 197 [Servius, responsorum libri, frg. 97, ‘de mutuo’].

Per riscontri nelle fonti bizantine cfr. Bas. 24.8.9 [BT. III, 1178; Hb. III, 43] e relativo Sch. Pa 1§ [BS. V, 1760; Hb. III, 43], che, tuttavia, non sono particolarmen-te significativi (salvo quanto rilevato infra): cfr. anche Tipuc. 24.8.9 (in versione assai contratta rispetto a Bas. cit.), nonché l’interessante scÒlion, dovuto ad Atana-sio di Emesa, che aderisce a `Rop. I [Zachariae, ed., 275 nt. 3; I.2, Sitzia, ed., 92], nella cui parte finale viene richiamato sia il luogo dei Digesta sia quello dei libri Ba-silicorum, nell’operare una interpretatio esplicativa, che rievoca anche il punto in questione, ma non allude al giurista repubblicano: « ScÒl(ion) 'Aqanas…ou [...]. 'I-stšon dš, Óti kinoumšnou toà tritikiar…ou ™pˆ o„kštou teleut»santoj oÙc ¹

™n aÙtÍ tÍ ·opÍ tÁj teleutÁj diat…mhsij skope‹tai, ¢ll' ¢pÕ toà kairoà tÁj

Øperqšsewj, kaˆ ™n pl£tei g…netai, †na m¾ peristÍ ¹ katad…kh e„j pÒson

™l£ciston: po‹an g¦r œcei diat…mhsin doàloj qanathfÒron plhg¾n de-

x£menoj. `Wj bi. ig/ tîn dig. t…. g/, tîn d Basilikîn bi. kd/ t…. h/ kef. q/ » (linn. 31-37 [Sitzia, ed.]: le maiuscole sono mie). Alla citazione di D. 13.3 deve conside-rarsi sottinteso l’ulteriore rimando a ‘ dig. g/ ’, ossia al § 3 di D. 13.3, forse omesso da Atanasio, a cui venne affiancato il passo parallelo dei libri Basilicorum (sul punto vd. F. SITZIA, Le Rhopai, pp. 56-57).

Lo scholium, però, è di particolare interesse poiché, oltre ad essere l’unico testo di questa natura ad essere filtrato nelle Rhopai, fornisce un ulteriore indizio del fatto che lo stesso Atanasio (che si ritiene sia vissuto tra la fine del regno di Giustiniano ed il regno di Giustino II [565-578]: vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Prolegomena, pp. 16-17, e, implicitamente, H.J. SCHELTEMA, Il diritto bizantino, p. 348; da ultimi, nella loro fondamentale opera, D. SIMON – S. TROIANOS, Das No-

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« SERVIUS RESPONDIT »

436

quae petita est cuius temporis aestimationem recipiat , verius est,

quod ] ? Servius ai t , condemnationis tempus 770 spectandum [: si

vellensyntagma des Athanasios von Emesa, p. vii, ribadiscono il fatto che il giurista « lebte in der zweiten Hälfte des 6. Jahrhunderts ») possa aver commentato non sol-tanto le Novellae (come ritiene l’opinio maggioritaria: vd. HEIMBACH, op. et loc. ult. cit.; J.-A.-B. MORTREUIL, Histoire du droit byzantin, I, 42-43, 156-160 e 304-305 in particolare, nonché SCHELTEMA, op. cit., p. 356), bensì anche i Digesta (almeno nel-la forma di una breve silloge, come già suggerito, da F.A. BIENER, Geschichte der Novellen Justinians, p. 126 e da C.G.E. HEIMBACH, De Basilicorum origine, fonti-bus, scholiis, p. 84), se da questi ultimi (ovvero da D. 13.3.3), come risulta positi-vamente, lo Sch. ad cap. I `Rop. [= I.2, F. Sitzia, ed.], pare essere stato almeno par-zialmente generato (e nel quale, scolio, affiorano ancora altri rimandi a D. 1.3.6, a D. 5.4.3 nonché a D. 46.3.36, segno di incursioni, probabilmente non infrequenti, sulle Pandette da parte del giureconsulto d’epoca giustinianea e immediatamente postgiu-stinianea: in caso contrario, si dovrebbe ammettere — ciò che sarebbe assai meno ragionevole — che nelle Rhopai fosse filtrata l’unica pagina di Atanasio dedicata al-l’opera maggiore di Giustiniano e che questo unicum fosse stato ‘prontamente’ rac-colto dal compilatore delle Rhopia stesse). Che, poi, nello stesso Syntagma delle Novellae vi siano tracce sia del Codex sia dei Digesta pare comprovato dalle puntua-li analisi di D. SIMON, Zitate im Syntagma des Athanasios, pp. 9 e ss. [pp. 13 e ss., in particolare], tanto da poter concludere, in uno con l’Autore tedesco, che « Athana-sios scheint relativ genaue Kenntnisse vom Digesten- und Codexrecht gehabt zu ha-ben » [ID., op. cit., p. 15]). Ma, nel caso presente, emerge un quid pluris, ossia che, nello Sch. ad `Rop. I [= I.2], non si fa cenno — neppure contenutistico — a testi im-periali, ma solamente a D. 13.3.3 = Bas. 24.8.9.

Quanto al testo dei Basilici appena menzionato (ossia Bas. 24.8.9) si veda anco-ra un breve riverbero in Lexicon a Hexábiblos aucta K.44 [M.T. Fögen, ed., in « Fontes minores », II, 193], mentre più ampia traccia è stata lasciata (secondo l’editore, e forse non a torto, data la sequenza espositiva del testo, addirittura da D. 13.3.3) in `Rom. ¢gwg. 9.37 [linn. 5-7, R. Meijering, ed., in « Fontes minores », VIII, 136]: « 'Apaite‹ d kaˆ diat…mhsin ™pˆ o„kštou plhgšntoj, periÒntoj aÙtoà tÕn kairÕn tÕn prÕ tÁj plhgÁj skopîn, teleut»santoj d t¾n ™n tù kairù

tÁj teleutÁj. E„ d mÒra gšnhtai, Ð kairÕj tÁj mÒraj skope‹tai ». 769 Scl.: conditio triticaria: cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 325

ad h.l. 770 Il sintagma ‘condemnationis tempus’ ha dato luogo a numerose perplessità e

a proposte emendative, quali, ad esempio, ‘litis contestatae tempus’ (cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit., ma vd. LENEL, op. cit., II, col. 575 nt. 2 ad h.l.): cfr. anche E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, I, col. 194 ad h.l. A modo di semplice se-gnalazione, si noti che Bas. 24.8.9 [BT. III, 1178; Hb. III, 43] mantengono, sul pun-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

437

vero desierit esse in rebus humanis, mortis tempus, sed ™n pl£tei

secundum Celsum erit spectandum: non enim debet novissimum vitae

tempus aestimari, ne ad exiguum pretium aestimatio redigatur in

servo forte mortifere vulnerato. In utroque autem, si post moram de-

terior res facta sit, Marcellus scribit libro vicensimo habendam ae-

stimationem, quanto deterior res facta sit: et ideo, si quis post mo-

ram servum eluscatum dederit, nec liberari eum: quare ad tempus

morae in his erit reducenda aestimatio] ».

Rispetto alle precedenti restituzioni del testo 771, la sola parte

effettivamente attribuibile a Servio risulta essere l’intervallo « Ser-

vius – spectandum ». La premessa di fatto e logica si trova, infatti,

nella parte che precede (« in hac actione – recipiat »), ma il parere

serviano — introdotto (e proprio in quanto introdotto) dalla significa-

tiva espressione « verius est, quod... ait » — deve considerarsi com-

preso ed esaurito nella sola sezione segnalata 772.

E.29. – Ulp. XXIX ad ed., D. 15.1.9.2-3 [= Pal. Serv. 21

→ Pal. Ulp. 852; Br. 8 ad ed.] 773: « [2. Peculium autem deducto to, l’esatto corrispondente del testo latino: « prÕj tÕn kairÕn tÁj katad…khj ». Al di là delle numerose critiche testuali (pertinenti, tuttavia, la seconda parte del testo, « si vero desierit – in fin. »), altro punto discusso è rappresentato dal passaggio « res quae petita est », che, a parere di A. MARCHI, Il giuramento in lite e la stima della cosa perita nei giudizi di stretto diritto, p(p). 173(-174) e nt. 1, andrebbe sostituita con ‘servus’ (parere, peraltro, riportato per mera completezza).

771 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 325 e BREMER, op. et loc. ult. cit. 772 Cfr. anche T. GIARO, Römische Rechtswahreiten, p. 539. 773 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 234

[Servius, ad edictum libri duo ad Brutum subscripti, frg. 8, ‘XVII. Quod cum magi-stro navis, institore eove qui in aliena potestate est negotium gestum esse dicetur. 4. quod iussu’], il quale (ivi, p. 235) evidenzia alcuni parallelismi tematici con Gai 4.73.

Il testo corrispondente di Bas. 18.5.9.2-3 [BT. III, 893 = Bas. 18.5.8, Hb. II, 245, divergenti, però, nel contenuto], e gli uniti Sch. Π 4-5 [BS. III, 1115], rispettivamen-te di Cirillo e di Stefano (non registrati, diversamente, in Hb. cit., ma vd. C.E. ZA-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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quod domino debetur computandum esse, quia praevenisse domi-

nus et cum servo suo egisse creditur. – 3. Huic definitioni] Servius

adiecit et si quid debeatur qui sunt in eius potestate, [ quoniam hoc

quoque domino deberi nemo ambigit ] ? ».

Lenel e Bremer richiamano (salve qualche minima variante)

l’intero frammento 774. A mio parere, però, sembra essere del tutto

particolare la citazione di Servio, il quale « huic definitioni adie-

cit » 775 una precisazione ulteriore, segno che la definitio (ossia quan-

to riportato nel § 2) è ad altri ascrivibile 776.

Assai probabile, invece, per le ragioni già illustrate più so-

pra 777, che la parte finale (« quoniam – nemo ambigit ») sia frutto di

una ‘variazione su tema serviano’ da parte del giurista di Tiro. Si no-

CHARIAE A LINGENTHAL, Supplementum editionis Basilicorum heimbachianae lib. XV – XVIII Basilicorum, p. 210 = Basilicorum libri LX. Supplementa editionis Basi-licorum heimbachianae [M. Miglietta, cur.], p. 226), non presentano informazioni di rilievo.

774 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 325 ad h.l., e BREMER, op. et loc. ult. cit. 775 Vd., infatti, L. AMIRANTE, Lavoro di giuristi sul peculio. Le definizioni da Q.

Mucio a Ulpiano, p. 4; M. BRETONE, La tecnica del responso serviano, p. 12 = ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani 2, p. 97 e F. REDUZZI MEROLA, ‘Servo pare-re’, pp. 80-81 (e per i rapporti tra D. 15.1.9.3 e D. 15.1.17 vd. ancora EAD., op. cit., pp. 75 e ss. e supra, frg. B.20 . ).

776 Difficile stabilire chi possa essere il giurista di riferimento: se si scorre, infat-ti, la palingenesia ulpianea del libro XXIX ad edictum sul punto (cfr. LENEL, op. cit., II, coll. 596 e ss. [frg. 852]), non è dato comprenderlo. Sul punto cfr., però, A. MAN-

TELLO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale, pp. 231 e ss., nonché 257-258 nt. 106 (in cui si ipotizza « un intervento serviano sulla definitio di Tuberone ») nonché A. BURDESE, In tema di peculio c.d. profettizio, p. 73, il quale parla di « altra defini-zione ricordata ancora da Ulpiano in D. 15.1.9.2-3, anch’esso tratto dal l. 29 ad edic-tum, con l’aggiunta di un apporto critico da parte di Servio », mentre F. HORAK, Ra-tiones decidendi, p. 166 nt. 77, fa riferimento ad ‘un giurista più antico’. Per rilievi sul testo (e, soprattutto, sulla portata sostanziale del § 3) si veda, ora, L. WAELKENS, Gaius IV,73: ‘debet’ ou ‘debetur’?, p. 349.

777 Cfr. quanto osservato a proposito di Cels. XIX dig., D. 33.10.7.2 [= Pal. Cels. 168; Pal. Serv. 51].

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

439

ti, infatti, che le parti « peculium autem deductum – computandum

esse » e « huic definitioni – in eius potestate » si richiamano, da un

lato, mentre ugualmente fanno le restanti, « quia pervenisse – credi-

tur » e « quoniam – nemo ambigit », dall’altro.

E.30. – Ulp. XXXII ad ed., D. 19.1.13.30 [= Pal. Serv. 26

→ Pal. Ulp. 935; Br. 104 resp.] 778: « Si venditor habitationem exce-

perit, ut inquilino liceat habitare, vel colono ut perfrui liceat ad cer-

tum tempus, magis esse Servius putabat ex vendito esse actionem

[: denique Tubero ait, si iste colonus damnum dederit, emptorem ex

empto agentem cogere posse venditorem, ut ex locato cum colono

experiatur, ut aliquid fuerit consecutus, emptori reddat] ».

Giustamente il Lenel, al pari del Bremer, omette la parte qui

racchiusa in parentesi quadre, poiché, alla semplice lettura, si mani-

festa immediatamente quale registrazione delle meditazioni tubero-

niane (« denique Tubero ait... », et rell.) 779.

E.31. – Ulp. XXXVI ad ed., D. 27.7.4 pr. [= Pal. Serv. 36

778 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 199

[Servius, responsorum libri, frg. 104, ‘de mancipatione, de fundo vendito’]. Bas. 19.8.13 non presentano il corrispondente del § 30 [vd. BT III, 944 e C.E.

ZACHARIAE A LINGENTHAL, Supplementum editionis Basilicorum heimbachianae, p. 271 = Basilicorum libri LX. Supplementa editionis Basilicorum heimbachianae [M. Miglietta, cur.], p. 287; ma cfr., invece, Hb. II, 291 — testo desunto sulla base di Tipuc. 19.8.13 [linn. 26-28] — e, in ogni caso, privo di particolare rilievo e di sco-lii]. Nulla aggiungono, del resto, gli Sch. 1-3 ad Syn. Bas. A.X.6 (Bas. 19.8.13 → D. 19.1.13), èditi da D. GETOV, Eine Scholiensammlung zur Synopsis Basilicorum maior, p. 336 ad h.l. [in « Fontes minores », XI, 336, linn. 119-126].

779 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 326 ad h.l. e cfr. ibid., col. 377 [= Pal. Tub. 4], e BREMER, op. et loc. ult. cit. Nessuna critica è segnalata, a questo riguardo, in E. LE-VY – E. RABEL, Index interpolationum, I, col. 347, ad D. 19.1.13. Si veda poi, in par-ticolare, C.A. CANNATA, Profili romanistici, pp. 40-41, per il preciso tracciato delle parti del testo riferibili ai giuristi menzionati.

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→ Pal. Ulp. 1032; Br. 72 resp.] 780: « [ Cum ostendimus heredem

quoque tutelae iudicio posse conveniri, videndum, an etiam proprius

eius dolus vel propria administratio veniat in iudicium.] Et exstat

Servii sententia existimantis, si post mortem tutoris heres eius

negotia pupilli gerere perseveraverit aut in arca tutoris pupilli pecu-

niam invenerit et consumpserit vel eam pecuniam quam tutor stipula-

tus fuerat exegerit, tutelae iudicio eum teneri suo nomine [: nam cum

permittatur adversus heredem ex proprio dolo iurari in litem, apparet

eum iudicio tutelae teneri ex dolo proprio ] ? ».

Sicuramente ulpianeo l’inizio del brano 781 (è significativo,

infatti, al riguardo, l’et che apre la sezione « et exstat Servii senten-

tia… », et rell., poiché indica una cesura logica tra la prima e la se-

conda parte del testo), non si spengono, invece, i dubbi circa il peri-

dodo finale (« nam cum permittatur – in fin. »), che parrebbe una ri-

flessione adesiva dello stesso Ulpiano, e che Lenel assegna, diversa-

mente, a Servio 782.

Alla scelta leneliana si oppone, tuttavia e in forma indiretta,

lo stesso Bremer, il quale provvede a racchiudere il periodo conclu-

sivo tra parentesi quadre, dando segno di reputarlo interpolato (e,

quindi, in ogni caso, non serviano) 783.

Posso, in tutta onestà, ritenere di aver individuato in uno sco-

lio che accede a Bas. 38.7.4 pr. un indizio di conferma circa la sup-

posizione per cui la sezione « nam cum permittatur – in fin. » vada

780 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 190

[Servius, responsorum libri, frg. 72, ‘de tutelis’]. Per i libri Basilicorum vd. infra, nel testo. 781 Così, conformemente, LENEL, op. cit., II, col. 327 ad h.l. 782 Cfr. ancora LENEL, op. et loc. cit. 783 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit. (altre riserve sono state espresse in merito al-

le parole « vel propria administratio », alla parte, cioè, di cui si esclude l’apparte-nenza al pensiero di Servio: e cfr. E. LEVY, Die Haftung mehrerer Tutoren, p. 63 nt. 2).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

441

― in ogni caso 784 ― esclusa dalla palingenesi di Servio.

Questi, infatti, non ricordano la Servi sententia 785, che viene

recuperata, invece, dalla fonte bizantina di commento, originata dal-

l’Indice di Doroteo 786:

Sch. 1 (Pb) ad Bas. 38.7.4 pr. [BS. VI, 2232-2233; Hb. III,

736-737]: « ’Epeid¾ ¢podšdeiktai kaˆ tÕn klhronÒmon toà

™pitrÒpou kalîj ™n£gesqai tÍ toutšlae, ‡dwmen, e„ kaˆ

„di£zwn aÙtoà dÒloj kaˆ ¹ „di£zousa dio…khsij fšretai ™n

taÚtV tÍ ¢gwgÍ. Ka… fhsin Ð Séru<i>os, ™¦n met¦ te-

leut¾n toà ™pitrÒpou Ð klhronÒmoj aÙtoà ™pimšnei

dioikîn t¦ poupil lária À ™n tÍ ¥rkv toà ™pitrÒpou

eØrën t¦ toà poup…llou cr»mata katanalèsV aÙt¦

À Ósa ™phrèthsen Ð ™p…tropoj aÙtÕj ¢pait»sV, tÍ

toutšlae ¢gwgÍ suonómine katšcesqai aÙtÒn. 'Epeˆ

g¦r Ólwj ½rese kaˆ kat¦ klhronÒmwn ™pitrÒpwn, ™x ïn aÙtoˆ

dÒlJ ¡mart£nousin, ÓrkJ toà poup…llou g…nesqai t¾n ka-

tad…khn, de…knutai, Óti kaˆ tÍ toutšlae katšcetai ™x ïn dÒlJ

¡mart£nei: ¡pÕ mšntoi ·vqum…aj oÙk ™gkale‹tai, ¢ll¦ toÝj

tÒkouj tîn poupillar…wn crhm£twn, ¤tina aÙtÕj ™ce…rise,

paršcein [| æj |] ¢nagk£zetai Ð klhronÒmoj toà ™pitrÒpou.

`Opo…ouj d kaˆ Øpr pÒsou toà crÒnou de‹ toàj tÒkouj aÙtîn

¢paite‹sqai, kat¦ tÕ kalÕn kaˆ tÕ d…kaion cr¾ tÕn dikast¾n

Ðr…zein » 787.

784 A prescindere, in altre parole, dal problema della sua emblematicità. 785 Bas 38.7.4 pr. [’Idém. = ’Ulpia., BT. V, 1717 = AÙtÒj. = OÙlpianÒj.,

Hb. III, 736]. 786 Vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale legum, p. 297 ad

h.l. 787 La sezione, evidenziata graficamente attraverso la spaziatura più ampia delle

lettere (ossia ciò che è compreso da « ka… fhsin Ð Séru<i>os » a « katšcesqai aÙtÒn »), è stata tradotta da Heimbach nel seguente modo: « Et Servius ait, si post mortem tutoris heres eius negotia pupillaria gerere perseveraverit, vel in arca tuto-

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« SERVIUS RESPONDIT »

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In questa sede, dopo aver riportato in modo fedele l’esordio

del brano — esordio fuori di dubbio ulpianeo — lo scoliaste prose-

gue nel restituire una sorta di esatta e corrispondente versione greca

della parte che in D. 27.7.4 pr. si estenda da « et exstat » fino a « suo

nomine », ossia quella parte che è sicuramente di Servio.

La porzione che segue, e della cui attribuzione, invece, qui si

dubita (ossia: « nam cum permittatur – in fin. »), cambia nuovamente ris pecuniam pupilli repertam consumserit, vel quae tutor stipulatus fuerat, exegerit, tutelae actione eum teneri suo nomine » [così Hb. III, 736, versio latina ad h.l.].

Al di là di qualche divergenza quasi impercettibile — poiché soltanto di forma, non di sostanza (ad esempio, nella parte dello scolio di immediato interesse trovia-mo l’espressione « t¦ poupillária » che comprime l’originale « negotia pupilli », in ciò giustificata evidentemente dal linguaggio giuridico bizantino, che tornerà nel testo dei Basilici, anche se lo stesso scolio usa, appena poche parole più avanti, la forma, per così dire, integra « t¦ toà poup…llou cr»mata » — dando qui per ac-quisito, naturalmente, che l’espressione ‘ t¦ cr»mata ’ renda il latino ‘negotia’, e non più tipicamente il ‘risultato utile’ che da questi la parte (o le parti) consegua(no) [cfr., in particolare, STEPHANUS, Thesaurus graecae linguae, IX, coll. 1625 e ss. ad v. crÁma; si veda anche F. LEOPOLD, Lexicon graeco-latinum manuale, p. 882 ad h.v.], differenza semantica che potrebbe far prediligere — poiché più prossima alla sostanza del testo di D. 27.7.4 pr. — la contrazione linguistica « t¦ poupillária » ap-pena sottolineata) — il brano di D. 27.7.4 pr. può essere quasi sovrapposto, nella parte segnalata, a quello della versione greca.

Ben diverso andamento assume, invece, la continuazione del passo « nam cum placuit, etiam adversus heredes tutorum ex his, quae ipsi dolo faciunt, iureiurando pupilli condemnationem fieri apparet, eum tutelae teneri, si dolum admittat. Negli-gentia tamen… », et rell. [Hb. III, 736-737]. Penso sia sufficiente citare un brano della prosecuzione per indicare — anche all’eventuale lettore non particolarmente ferrato in lingua greca — come il tenore della esposizione muti radicalmente rispetto a ciò che precede e rispetto all’originale latino. Un confronto, poi, semplicimente vi-sivo (anche solo) della traduzione latina heimbachiana prova l’amplificazione rispet-to al testo dei Digesta. E certo non dovette essere un dato casuale, ove si consideri che, almeno stando alle nostre conoscenze, lo scholium in esame non è opera di un commentatore inesperto o ignoto, bensì risulta tratto da uno tra gli Índikes più illu-stri, e segnatamente da quello dell’antecessor antiquissimus Cirillo, del quale, non a caso, « patet […] maxime Ulpiani commentario ad Edictum […] interpretand[o] o-pera dedisse » (vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilico-rum, p. 297 ad h.l., nonché, per la definizione di ‘antiquissimus’ e per la citazione testuale, ID., Basilicorum libri LX, VII. Prologomena Basilicorum, p. 9).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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tenore nella versione dello scolio, ed assume i contorni della parafra-

si ampliata.

Questo potrebbe essere segno, appunto, che, secondo la sen-

sibilità del commentatore bizantino, andasse attribuita a Servio sola-

mente la parte indicata, poiché, diversamente, il repentino cambio di

stile resterebbe di ardua (se non impossibile) spiegazione.

E.32. – Ulp. XLII ad ed., D. 38.2.1 [= Pal. Serv. 59 → Pal.

Ulp. 1149; Br. 10 ad ed.] 788: « pr. [Hoc edictum a praetore proposi-

tum est honoris, quem liberti patronis habere debent, moderandi

gratia 789. Namque, ut] Servius scribit, antea soliti fuerunt [scl. pa-

troni] 790 a libertis durissimas res exigere, scilicet ad remunerandum

tam grande beneficium, quod in libertos confertur, cum ex servitute

ad civitatem Romanam perducuntur. [– 1. Et quidem primus praetor

Rutilius edixit se amplius non daturum patrono quam operarum et

societatis actionem, videlicet si hoc pepigisset, ut, nisi ei obsequium

praestaret libertus, in societatem admitteretur patronus. – 2. Poste-

riores praetores certae partis bonorum possessionem pollicebantur:

videlicet enim imago societatis induxit eiusdem partis praestationem,

788 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 235 [Servius, ad edictum libri duo ad Brutum subscripti, frg. 10, ‘XXIII. de iure patrona-tus’].

Per quanto riguarda l’analogo passo di Bas. 49.4.1 [BT. VI, 2296 = Hb. V, 19], oltre a non avere un corredo di scolii, esso si segnala — come non infrequentemente avviene — per aver ridotto la ricchezza del brano latino (con la sua armoniosa lau-datio) ad un condensato che equivale a poco più di una sorta di mesta estrazione del-la regula generale: « Oƒ p£trwnej kat¦ tîn ¢peleuqšrwn teleutèntwn e„j mš-roj œcousi diakatoc»n ».

789 Sulla clausola edittale ‘De bonorum possessionis: si tabulae testamenti exsta-bunt (E. XXV.A)4 – De bonis libertorum (E. 150)1’ cfr. O. LENEL, Das Edictum Per-petuum 3, pp. 350-352; G. MANCUSO, Praetoris edicta. Riflessioni terminologiche e spunti per la ricostruzione dell’attività edittale del pretore in età repubblicana, pp. 406-407 (e nt. 71) nonché J.M. BLANCH NOUGUÉS, El edicto del los magistrados en el lenguaje de la jurisprudencia romana, pp. 112 e 118.

790 Così anche BREMER, op. et loc. ult. cit.

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444

ut, quod vivus solebat societatis nomine praestare 791, id post mortem

praestaret] ».

In maniera abbastanza sorprendente, il Lenel riconduce al

pensiero di Servio l’intero frammento salvato in D. 38.2.1, nella arti-

colazione dei suoi tre paragrafi 792.

In realtà, mi pare abbastanza arduo procedere in questa dire-

zione 793, tanto che anche Bremer — pur riassumendo il principium e

il § 1 di D. 38.2.1 — tralascia, nella propria restituzione, il § 2 794.

791 Sulla parte « quod – praestare », ‘probabile’ « elaborato postclassico », vd. S.

SOLAZZI, ‘Vivus’ umoristico nella pandette, p. 679 (con ulteriore letteratura interpo-lazionistica, ivi, nt. 2) = ID., Scritti di diritto romano, V, p. 606.

792 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 330, ad h.l. 793 Così deve aver operato, invece, M. D’ORTA, La giurisprudenza tra Repubbli-

ca e Principato, pp. 34 e ss., il quale si serve di D. 38.2.1, nella sua interezza, per giustificare il giudizio secondo cui, dal passo in esame, emergerebbe « la propensio-ne del giurista [scl. Servio] a prediligere una lettura storica e stratificata nel tempo dell’editto, in luogo di una visione tecnica di esso ». Senza voler entrare nel merito della tesi — che mi pare, in ogni caso, piuttosto improbabile — il passo in esame non può essere considerato né particolarmente significativo, né pienamente proban-te. La citazione di Servio nel principium di D. 38.2.1, infatti, non costituisce che un inserto (per quanto interessante) del pensiero del giurista, estrapolato da Ulpiano da un contesto sicuramente più ampio (questo lo si deve ragionevolmente concedere), ma di cui manca ogni attuale possibilità di restituzione (sebbene C. MASI DORIA, Ci-vitas operae obsequium. Tre studi sulla condizione giuridica dei liberti, p. 136, ipo-tizzi — ma con opportuna cutela — che Ulpiano « abbia ripreso parole dello stesso Servio, probabilmente perché testimone dello svolgersi degli avvenimenti » descrit-ti). Sulla tesi del D’Orta, si vedano la riserve espresse da M. TALAMANCA, Pubblica-zioni pervenute alla Direzione [in « BIDR. », XCIV-XCV, 1991-1992], pp. 593-594. Ancora, sul fatto che sia « Ulpien », il quale, « reprenant un exposé de Servius Sulpicius, nous présente un table » — certamente — « assez sombre », ma che il quadro sia inequivocabilmente opera del giurista severiano, vd. ancora G. FABRE, Libertus, p(p). 318 (e ss.), e che, al limite, « il riferimento all’autorità di Servio sem-bra costituire un indizio rilevante della genuinità del testo », così come si esprime ancora MASI DORIA, op. cit., p. 53; EAD., Inpudicitia, officium e opera libertorum, p. 82.

794 Così BREMER, op. et loc. ult. cit.: « ... Servius scribit, antea soliti fuerunt (sc. patroni) a libertis durissimas res exigere... primus praetor Rutilius edixit, se amplius

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

445

Intanto, l’apertura del principium (« hoc edictum – moderan-

di gratia ») corrisponde, palesemente, ad una ‘laudatio edicti’, tipica

dei commentari ulpianei alle clausole pretorie 795, che, infatti, viene

ricollegata al séguito della riflessione (serviana) attraverso un signi-

ficativo « namque » — segno, questo, che le parole con le quali con-

tinua l’esposizione sono finalizzate a fondare ciò che Ulpiano ha ap-

pena illustrato quale ratio dell’editto stesso (‘de bonis liberto-

rum’ ) 796.

Per quanto riguarda, invece, i seguenti §§ 1 e 2 di D. 38.2.1,

in linea di principio, si potrebbe anche convenire con l’autore tede-

sco 797.

Al di là, infatti, dell’uso di un linguaggio non poco dissonan-

te rispetto allo stile serviano (e, quindi, alfeniano) 798, che, tuttavia, è non daturum patrono quam operarum et societatis actionem, videlicet, si hoc pepi-gisset, ut nisi ei obsequium praestaret libertus, in societatem admitteretur patro-nus ».

795 Il giudizio va espresso con riferimento alle nostre conoscenze. I Compilatori, infatti, ci hanno conservato (quasi esclusivamente) le laudationes ulpianee. Questo non elimina, tuttavia, il fatto che il genus fosse ‘tipico’ del giurista di Tiro, e che nel testo analizzato ciò costituisca una caratteristica del suo stile.

796 Per alcuni aspetti stilistici, vd. M. WLASSAK, Edict und Klageform. Eine ro-manistische Studie, pp. 15-16 (e nt. 2). Ora, però, si veda la diversa soluzione propo-sta da C. MASI DORIA, Civitas operae obsequium, pp. 94 e ss. nonché da EAD., Bona libertorum. Regimi giuridici e realtà sociali, p. 7 (« Servio […] esprime una valuta-zione generica e che probabilmente è inserita in un testo che introduceva l’edictum de operis e non quello de bonis »; e vd. anche ivi, p. 60 nt. 116).

797 Per quanto concerne il § 1 di D. 38.2 si veda, infatti, L. FANIZZA, Autorità e diritto. L’esempio di Augusto, pp. 26 e ss.

798 Sul punto vd. W. KALB, Roms Juristen nach ihrer Sprache dargestellt, pas-sim; C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, pp. 4-5 = ID., Opere, II, pp. 171-172 (in particolare) e, ora, G. NEGRI, Per una stilistica di Digesti di Alfeno, passim. Per alcune reminiscenze linguistiche, nella scrittura ulpianea del passo in esame, vd., tuttavia, le sapide considerazioni contenute nel lavoro (ancora) fondamentale sul te-ma di G. FABRE, Libertus. Recherches sur les rapports patron-affranchi à la fin de la République romaine, p. 297, il quale osserva che « Ulpien a utilisé des termes comme honor et obsequium à propos d’une époque où ceux-ci ne sont pas employés dans le vocabulaire juridique » (ivi, nt. 141, per ulteriore rinvii bibliografici).

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446

ragionevolmente giustificabile quale frutto della rielaborazione lin-

guistica operata dal giurista dell’epoca dei Severi 799 — fatto salvo,

però, in questa ipotesi, il permanere sostanziale del pensiero di quello

citato — si potrebbe considerare la contiguità cronologica tra Servio

e Rutilio Rufo (al quale dovrebbe riferirsi l’indicazione contenuta

nella testimonianza di D. 38.2.1.1: « et quidem primus praetor Ruti-

lius edixit… », et rell.) 800.

799 Ulpiano potrebbe aver avuto a disposizione, direttamente, il testo edittale: cfr. G. SEGRÈ, Sulle formule relative alla negotiorum gestorum e sull’editto e il iudicium de operis libertorum, p. 317 e ss. = ID., Scritti vari di diritto romano, p. 22 e ss.; J. LAMBERT, Les operae liberti. Contribution à l’Histoire des Droits de Patronat, p. 127 nt. 1; sulle forme verbali relative all’attività del pretore, nel caso specifico, mi permetto di rinviare a M. MIGLIETTA, Elaborazione di Ulpiano e di Paolo intorno al ‘certum dicere’ nell’‘edictum ‘generale’ de iniuriis’, pp. 65 e 70 (nt. 77) = ID., In-torno al ‘certum dicere’ nell’‘edictum ‘generale’ de iniuriis’, pp. 227 e 230 (nt. 77). In questi termini, dunque, potrebbero spiegarsi anche i vari rilievi di critica testuale mossi ai §§ 1 e 2 di D. 38.2.1 (e vd., in particolare, H. NIEDERMEYER, Studien zum Edictum Carbonianum, p. 133 nt. 1; vd. anche O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 709 nt. 1), i quali non toccano, tuttavia, la parte che qui si evidenzia come frutto della elaborazione serviana.

800 Così, infatti, O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 185 nt. 1, nonché, espressamente, F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 43-44; F. MÜNZER, s.v. ‘P. Rutilius Rufus (34)’, coll. 1269 e ss.; P.F. GIRARD, Ma-nuel élémentaire de Droit romain 5, p. 124 nt. 3; R. ORESTANO, s.v. ‘Rufo Rutilio P. (Publius Rutilius Rufus)’, p. 279 ed A. WATSON, The Law of Persons in the Later Roman Republic, p. 228. Tale editto sarebbe stato pubblicato prima del 74 a.C. (vd. Cic., Verr. 2.1.48.125-126 e cfr. ancora WATSON, The Development of the Praetor’s Edict, p. 109 e nt. 39); intorno all’anno 118 a.C., stando a LAMBERT, op. cit., p. 150; C. MASI DORIA, Civitas operae obsequium, p. 53 ed EAD., Inpudicitia, officium e opera libertorum, p. 82. La data del 118 è precisamente accolta da G. FABRE, Liber-tus, pp. 297 e ss. e 310 (mentre si trae da C. COSENTINI, Rassegna bibliografica, p. 399, ma per semplice svista, che G. HUBRECHT, Quelques observations sur l'origine et l’évolution de la ‘bonorum possessio dimidiae partis’ (Contribution à l’étude de la condition des affranchis en droit romain), p. 57, abbia indicato addirittura la data del 188 a.C. In realtà, questo Autore accoglie la soluzione classica: « l’édit de Ruti-lius, évoqué ici, […] remonterai à 118 ans avant J.-C. »). Dubitativamente, invece, G. LA PIRA, La successione ereditaria intestata e contro il testamento in diritto ro-mano, p. 377 ed A. METRO, La ‘denegatio actionis’, pp. 116-117 nt. 119. Contro l’identificazione con il giurista vd. L. DI LELLA, Formulae ficticiae. Contributo allo

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

447

Questo elemento potrebbe condurre, infatti, a ritenere il dato

illustrato come appartenente, in realtà, al pensiero di Servio. Ma tale

conclusione è contraddetta — a mio avviso — proprio dalla presenza

del paragrafo immediatamente successivo (ossia D. 38.2.1.2), dedica-

to al prosieguo della ‘vicenda storica’ dell’editto de quo 801, in rela-

zione alla quale si chiamano in causa i « posteriores praetores », i

quali avrebbero provveduto a rimodellarlo 802. Il Lambert giungeva, studio della riforma giudiziaria di Augusto, pp. 60 e ss.: sul punto si vedano, però, le ampie osservazioni condotte da W. WALDSTEIN, Operae libertorum. Untersuchun-gen zur Dienstpflicht freigelassener Sklaven, pp. 149 e ss. nonché di MASI DORIA, Inpudicitia, officium e opera libertorum, pp. 97 e ss.

801 Cfr. V. ARANGIO RUIZ, Le genti e la città, pp. 51 e ss. = ID., Scritti di diritto romano, I, pp. 567 e ss. (in difesa della assoluta genuinità del § 1 di D. 38.2.1, alme-no nella parte che si estende da « et quidem » a « et societatis actionem »; vd. anche C. VENTURINI, Sulla legislazione augustea in materia di ‘manumissiones’, p. 2475 nt. 39) nonché C. MASI DORIA, Bona libertorum, p. 75 (e vd. anche ivi, pp. 227 e ss.; pp. 6 nt. 16, 7 nt. 17, 228 e nt. 3, in particolare, circa la posizione del frammento all’interno dell’ordine bluhmiano, nella massa sabiniana — seppure con il segno du-bitativo di TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 327 ad h.l. [« S* »]: cfr. F. BLUHME, Die Ordnung der Fragmente in den Pandectentiteln, p. 266 [‘erste Ta-belle’ zu S. –], 445, 454 e 464 = in « Labeo », VI, 1960, pp. 371, 376 e 383).

802 Il dato — in un’ottica di analisi della formazione, della modificazione e del-l’ampliamento dell’editto pretorio (o, meglio, delle sue clausole) — mi pare di con-siderevole interesse, ben lungi, dunque, dal rappresentare D. 38.2.1 « un testo, inve-ro, poco concludente e, pertanto, non attendibile », come vorrebbe COSENTINI, op. et loc. ult. cit. (vd., infatti, anche SEGRÈ, op. cit., = ID., Scritti vari, pp. 26 e 29; LA PI-

RA, op. et loc. ult. cit.); P. PESCANI, Le ‘operae libertorum’. Saggio storico-romani-stico, p. 86, e, ampiamente e bene, G. FABRE, Libertus, pp. 297 e ss. (oltre già ad E. SZLECHTER, La sanction du contrat de société entre patron et affranchi, d’àpres l’édit du préteur Rutilius de 118 av. J.-C., pp. 133-134); C. MASI DORIA, Civitas o-perae obsequium, pp. 102 e ss. e 130 e ss.

Sul passo, nel suo complesso, cfr. LA PIRA, op. cit., pp. 314-315 e 377 e ss. (di-fensore della sostanziale sua genuinità); J. LAMBERT, Les operae liberti, pp. 97 e ss., 126-127 nt. 1, 150 e ss., 171; C. COSENTINI, Studi sui liberti. Contributo allo studio della condizione giuridica dei liberti cittadini, pp. 80 e ss., 195 e ss. (contro le tesi di La Pira; ma la posizione del Cosentini è di totale critica avverso il passo in esame); PESCANI, op. cit., pp. 23, 55, 84 e ss., 115 nt. 37, 120 e 137; A. METRO, La ‘denega-tio actionis’, pp. 116 e ss.; G. FABRE, Libertus, pp. 296-299 (e 296-297 nt. 135), 310 e 318-320; C. VENTURINI, Sulla legislazione augustea in materia di ‘manumissio-

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« SERVIUS RESPONDIT »

448

addirittura, ad attribuire a Servio il breve tratto « antea soliti fuerunt

a libertis durissimas res exigere » 803. Per tutte queste considerazioni,

e in conclusione, credo vada attribuita a Servio soltanto la sezione

isolata (« antea – perducuntur ») 804.

E.33. – Ulp. LXXI ad ed., D. 43.24.13.4 [= Pal. Serv. 75

→ Pal. Ulp. 1597; Br. 19 ad ed.] 805: « Unde apud Servium am-

nes’, pp. 2463-2464 e nt. 19, e 2475; W. WALDSTEIN, Operae libertorum, pp. 131 e ss.; MASI DORIA, Civitas operae obsequium, pp. 53 e ss., 81 e ss., 94 e ss., 100 e ss., 115 e ss., 131 e 136; EAD., Die Societas Rutiliana und die Ursprünge der prätori-schen Erbfolge der Freigelassenen, pp. 358 e ss. (a cui si opera un generico rinvio per i problemi legati al richiamo all’istituto della società, appunto, non centrale nell’economia delle riflessioni palingenetiche che si vanno conducendo); EAD., In-pudicitia, officium e opera libertorum, pp. 82 e ss.; EAD., Bona libertorum, pp. 74-75, 80, 90 e 227-228; A. WACKE, ‘La ‘exceptio doli’ lo rende possibile’: Fedecom-messo in favore di terzi e fedecommissaria liberazione dall’obbligo di restituzione della dote, p. 34, e, da ultima, G.M. OLIVIERO, ‘Iura patroni’ e successione eredita-ria, p. 246 nt. 41.

803 Così J. LAMBERT, Le operae liberti, p. 150 (e ntt. 1 e 2, circa la contempora-neità all’epoca serviana dell’uso giuridico del verbo exigere) e parrebbe anche P. PESCANI, Le ‘operae libertorum’, pp. 23 e 120. Sul tratto segnalato, e sui suoi rap-porti con il linguaggio ulpianeo, vd. C. MASI DORIA, Civitas operae obsequium, p. 94 e nt. 23 ed EAD., Die Societas Rutiliana, p. 368 e nt. 23.

804 Potrebbe, poi, corrispondere al vero il fatto che il brano sia stato tratto dai li-bri ad Brutum serviani (cfr. Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.44 [= Pal. 178]), come sugge-rivano O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 322 nt. 4; F.P. BREMER, Iurispru-dentiae antehadrianae quae supersunt, I, 235 (ripresi da A. SCHIAVONE, Giuristi e nobili, p. 131 [di cui vd. anche Ius, pp. 228 e ss., 453 e ss.], a sua volta seguito da M. D’ORTA, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato, pp. 34-35) e C. MASI DO-

RIA, Bona libertorum, p. 75 nt. 19. 805 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 237

[Servius, ad edictum libri duo ad Brutum subscripti, frg. 19, ‘XLII. Interdicta. 12. quod vi aut clam factum est’].

Come per il passo precedente (D. 38.2.1 ↔ Bas. 49.4.1), anche Bas. 58.23.13.4 [BT. VII, 2708, senza corrispondente in Hb. V, 221, che offre ciò che corrisponde soltanto ai §§ 6-7 di D. 43.24.13], rispetto al testo d’origine del Digesto, rappresen-tano una sintesi in termini estremi del passo originale (peraltro comprimente i §§ 3 e 4), e sono privi di scholia.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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plius relatum est , si mihi concesseris, ut ex fundo tuo arbores

caedam, deinde eas alius vi aut clam ceciderit, mihi hoc interdictum

competere, quia ego sim cuius interest [: quod facilius erit admitten-

dum, si a te emi vel ex aliquo contractu hoc consecutus sim, ut mihi

caedere liceat] ».

Sono necessarie poche annotazioni per quanto riguarda que-

sto testo 806. L’estensione finale della regula iuris (« quod facilius –

liceat ») è con ogni verosimiglianza ulpianea 807, poiché è introdotta

da un commento valutativo di quanto appena riferito: « quod facilius

erit admittendum... », et rell. 808.

E.34. – Ulp. LXXVII ad ed., D. 22.2.8 [= Pal. Serv. 13 →

Pal. Ulp. 1696; Br. 95a resp.] 809: « Servius ai t pecuniae traiecti-

ciae poenam peti non posse, si per creditorem stetisset, quo minus

806 Vd. anche T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 472. 807 Così anche secondo LENEL, op. cit., II, col. 332 ad h.l. e BREMER, op. et loc.

ult. cit., che tralasciano il periodo finale. 808 A prescindere, in questa sede, da eventuali risvolti di critica testuale, che

coinvolgono il periodo « quod facilius – caedere liceat », e che potrebbero comun-que corroborare la scelta di isolare questa parte dalla ricostruzione del pensiero di Servio. Cfr., in particolare, sul punto, E. ALBERTARIO, Actio de universitate e actio specialis in rem, p. 43 nt. 1 = ID., Studi di diritto romano, I, p. 108 nt. 1; G. BESE-

LER, Einzelne Stellen, p. 554 (che annota polemicamente « trotz Haymann Z 1919 284 [scl.: F. HAYMANN, Textkritische Studien zum römischen Obligationenrecht, pp. 284-286, che non mi pare, invece, svolga un ragionamento tanto disprezzabile] »); W. KUNKEL, Diligentia, p. 279 nt. 5; P. DE FRANCISCI, Sun£llagma. Storia e dot-trina dei cosiddetti contratti innominati, II, p. 472, limita, invece, il rilievo al tratto « vel quo aliquo contractu hoc consecutus sim ».

809 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 197 [Servius, responsorum libri, frg. 95a, ‘de mutuo’].

Il passo ulpianeo non trova riscontro nelle fonti bizantine: cfr. Bas. 53.5 [BT. VII, 2455-2457 e Hb. V, 117-118], e vd. Sch. 1 ad Bas. 23.3.30 [BS. IV, 1674; Hb. III, 708], per quanto concerne un rimando a Bas. 53.5.7 → Paul. III ad ed., D. 22.2.7 [= Pal. Paul. 124], opportunamente richiamato ‘a margine’ da TH. MOMMSEN, Dige-sta Iustiniani Augusti, I, p. 644.

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eam intra certum tempus praestitutum accipiat ».

Il brano è già stato richiamato più sopra 810, e, dal suo tenore

complessivo, pare poter essere offerto interamente, così come risulta

anche dalla Palingenesia leneliana e dall’opera di Bremer 811. Del re-

sto, e a mio parere, la concatenazione del pensiero (« Servius ait… »,

« non posse, si… », « quo minus… », et rell.) sconsiglia di vedere

nella sezione « quo minus – in fin. » una chiosa del giurista relatore,

bensì la registrazione di un dictum serviano 812.

E.35. – Ulp. VII ad Sab., D. 28.5.17.1 [= Pal. Serv. 38 →

Pal. Ulp. 2488; Br. 2 resp.] 813: « [Unde idem 814 tractat, si duos ex

undecim, duos sine parte scripsit, mox unus ex his, qui sine parte

fuerunt, repudiaverit, utrum omnibus semuncia <adcrescat ?> 815 an

ad solum sine parte scriptum pertineat: et variat. Sed] Servius

omnibus adcrescere ai t [, quam sententiam veriorem puto:] nam

quantum ad ius adcrescendi non sunt coniuncti, qui sine parte insti-

tuuntur [: quod et Celsus libro sexto decimo digestorum probat] ».

810 Cfr. supra, sub frg. E .8 . . 811 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 324 e F.P. BREMER, op. et

loc. ult cit. 812 In questa precisa direzione spinge perfino la dottrina interpolazionistica, che

non ha ravvisato motivi di perplessità in ordine a D. 22.2.8: cfr. E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, II, col. 37, ad D. 22.2.

813 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 167 [Servius, responsorum libri, frg. 2, ‘de testamentis’], e cfr. op. cit., II.2, p. 527 (frg. 47, ‘Additamenta’).

Il passo non ha corrispondenti nei Basilici [vd. BT. V, 1589, che rigetta la resti-tuzione di Hb. III, 569 Bas. 35.9.15, privi di scolii e, comunque, non significativi, poiché operata sulla base di Tipuc. 35.9.16(=15)].

814 Sabino oppure Labeone (cfr. Ulp. VII ad Sab., D. 28.5.13 [= Pal. 2486]; D. 28.5.15 [= Pal. 2487] e D. 28.5.17 pr. [= Pal. 2488] e vd. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 327 ad h.l.: « idem [Sabinus? Labeo?] »).

815 Così nella integrazione proposta da F. STELLA MARANCA, Intorno ai Fram-menti di Celso, p. 91 nt. 2.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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Stando alla ricostruzione della Palingenesia iuris civilis, il

testo andrebbe attribuito all’opera di Servio da « idem » fino a « sen-

tentiam veriorem puto » 816. Fatta salva la possibilità che l’argomento

fosse stato discusso (anche) dal giurista repubblicano, allo stato del

testo non v’è dubbio che la prima parte (« unde – et variat ») sia di

mano ulpianea, tratta dall’idem (che può essere, appunto, Labeone o,

in alternativa, Sabino) 817.

È significativo, infatti, che Ulpiano riporti la sententia ser-

viana introducendola, da un lato, con la considerazione che il giurista

precedentemente citato ‘non aveva sciolto il dubbio’ (« et variat »),

e, dall’altro lato, introducendo un ‘sed’, che segna l’interruzione tra

le due parti, nella seconda delle quali egli aderisce al parere serviano,

giudicato di (maggior) rispondenza alla realtà dei fatti (« quam sen-

tentiam veriorem puto ») 818.

Quanto alla parte conclusiva « nam quantum – instituuntur »,

potrebbe appartenere anche al giurista severiano, se non seguisse una

approvazione di Celso — evidentemente collegata a tutta la sententia

(« quod Celsus – probat ») — che dimostra come quest’ ultimo aves-

se potuto analizzare l’opinione di Servio, e valutarne la (bontà della)

ratio 819.

E.36. – Ulp. XX ad Sab., D. 34.2.19.17 [= Pal. Serv. 53 →

Pal. Ulp. 2606; Br. 33 resp.] 820: « Gemmae autem sunt perlucidae

816 Cfr. LENEL, op. et loc. ult. cit. Diversamente il BREMER, op. et loc. ult. cit.,

assegna alla elaborazione di Servio le seguenti sezioni del testo: « hoc et Labeo – pertineat » e « sed Servius omnibus adcrescere ait ».

817 Cfr., inoltre, T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, pp. 318 e 539. 818 Sul concetto di ‘verità’ nei giudizi dei giureconsulti romani vd. supra, a pro-

posito di D.9 . . Cfr. anche supra, cap. I, ntt. 62, 227 e 269. 819 Anche ove si volesse dubitare che Celso abbia effettivamente approvato la

sententia di Servio, il ‘quod’ che introduce il periodo finale non può revocare in dubbio che egli avesse attribuito un giudizio alla ratio medesima.

820 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 177

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materiae, quas, [ ut refert Sabinus libris ad Vitellium ], Servius a

lapillis eo dist inguebat, quod gemmae essent perlucidae materiae,

velut smaragdi chrysolithi amethysti, lapilli autem contrariae superi-

oribus naturae, ut obsidiani veientani ».

Se, forse, non è privo di interesse mettere in luce il fatto che

Plinio maggiore, nel libro della Naturalis historia dedicato alla mine-

ralogia, e, in particolare, alle gemme e alle pietre preziose — ossia il

XXXVII 821 — utilizzi lo stesso ordine già impiegato da Servio 822, il

testo giuridico in sé considerato non presenta particolari problemi.

Il Bremer, dal canto suo, esclude soltanto il primo ‘autem’ e

la specificazione ‘libris ad Vitellium’ 823 , opzione che può essere

senz’altro protratta fino alla eliminazione dell’intera incidentale « ut [Servius, responsorum libri, frg. 33, ‘de testamentis’].

Nell’edizione dei Basilici di Scheltema manca il corrispondente [si vedano Bas. 44.15.19 soli §§ 5-10 e 12, BT. VI, 2033; ma cfr., invece, Bas. 44.15.19.17 in Hb. IV, 423 — tratto da Tipuc. 44.15.19, linn. 36-37, comunque non proficui sul punto]. Pur in sé interessanti, non aggiungono nulla alla nostra indagine, né colmano la lacu-na, gli Sch. 1-3 ad Bas. 44.15.19 → D. 34.2.19, èditi da J. DITTRICH, Dien Scholien des Cod. Taur. B.I.20 zum Erbrecht der Basiliken [in « Fontes minores », IX, 255, linn. 1391-1401].

821 Per il rinvio al libro pliniano, in quanto tale (ossia senza indicazioni specifi-che di luoghi) si veda già la ‘Glossa’: cfr. Infortiatum Pandectarum Iuris Civilis To-mus Secundus, Lugduni 1556, p. 575 gl. † ad h.l. [ivi come D. 34.2.20].

822 Cfr., infatti, Plin., N.H. 37.16.62-63 (e vd. 9.58.117: smaragdus); 37.24.90-91 (chrysolithos); 37.40.121 (e vd. 9.62.135 e 21.22.45: amethystus); 37.65.177 (e vd. 36.67.196: obsi[di]anus) nonché 37.69.184 (veientanus).

Informazioni sulla struttura del libro XXXVII della Naturalis historia in W. KROLL, s.v. ‘C. Plinius Secundus der Ältere [5]’, coll. 406-409, libro assai probabil-mente influenzato dal suggestivo trattato « über die verbogene medizinische oder magische Kraft der Steine » intitolato T¦ liqik£ ovvero Perˆ l…qwn (intorno cui vd. TH. HOPFNER, s.v. ‘ Liqik£ ’, coll. 747 [da cui la citazione testuale] e ss., coll. 747-749, in particolare). Si vedano anche V. NAAS, Les projet encyclopédique de Pline l’ancien, pp. 233-234, in particolare, nonché V. DE MICHELE, La mineralogia di Plinio nella tradizione naturalistica ed alchimistica medievale, pp. 63-65 (spe-cialmente, e p. 70, per bibliografia).

823 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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refert – Vitellium », che non può che essere ulpianea 824.

E.37. – Ulp. XXII ad Sab., D. 33.9.3.6 [= Pal. Serv. 7 →

Pal. Ulp. 2641; Br. 2 repr. Scaev. cap.] 825: « [Sed quod diximus

‘usus sui [= patris familias] gratia paratum’ accipiendum erit et ami-

corum eius et clientium et universorum, quos circa se habet, non

etiam eius familiae, quam neque circa se neque circa suos habet:

puta si qui sunt in villis deputati. Quos Quintus Mucius sic definie-

bat, ut eorum cibaria contineri putet, qui opus non facerent: sed]

materiam praebuit Servio notandi, ut textorum et textricum cibaria

diceret contineri [: sed Mucius eos voluit significare, qui circa

patrem familias sunt] » 826.

Come opportunamente suggeriscono gli editori tedeschi 827,

il passo ulpianeo — che verrà analizzato anche più avanti, in relazio-

824 Dal canto suo, invece, il Lenel ipotizza che l’incipit « gemmae autem sunt

perlucidae materiae » possa essere la risultante dell’inserimento di un glossema: cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 1081 nt. 2, ad h.l. Tale congettura può non essere infondata. In ogni caso, il senso del brano (e della distinctio serviana) non viene meno anche eliminando i termini « autem sunt perluciade materiae » (peraltro ripresi nel prosieguo del brano), mentre pare opportuno mantenere — nell’ipotesi di considerare valido il suggerimento leneliano — comunque in vita il sostantivo ini-ziale « gemmae ».

825 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 220-221 [Servius, reprehensa Scaevolae capita, frg. 2, ‘de legatis’].

Cfr., per la tradizione di Bisanzio, soltanto Bas. 44.12.3.6 [BT. VI, 2026; Hb. IV, 414], praticamente per nulla significativi, così come Sch. 1-3 ad Bas. 44.12.3 → D. 33.9.3, èditi da J. DITTRICH, Die Scholien des Cod. Taur. B.I.20 zum Erbrecht der Basiliken [in « Fontes minores », IX, 254, linn. 1353-1361].

826 Per la critica interpolazionistica si veda quanto lapidariamente osservato (ma senza ulteriori specificazioni) da W. KALB, Das Juristenlatein, pp. 68-69: « Ulp. 33, 9, 3, 6 scheint gekürzt zu sein ». Da ultima, sul testo, vd. P. BIAVASCHI, Ofilio e il ‘legatum penoris’: qualche osservazione in merito a Ulpiano D. 33.9.3, pp. 133 e ss.

827 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 323; BREMER, op. et loc. ult. cit.

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« SERVIUS RESPONDIT »

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ne a profili contenutistici 828 — deve essere letto in uno con quanto

scritto da Aulo Gellio 829 sullo stesso tema 830. Mi riferisco ad

E.38. – Aul. Gell., N.A. 4.1 §§ 16-17 e 20 [= Pal. Q.M. 2;

Pal. Serv. 6; Br. 1 e 3 repr. Scaev. cap.] 831: « [16. – Sed ut faciam te

aequiore animo ut sis, ne illi quidem veteres iuris magistri, qui ‘sa-

pientes’ appellati sunt, definisse satis recte existimantur, quid sit

‘penus’. 17. – Nam Quintum Scaevolam ad demonstrandum penum

his verbis usum audio: ‛Penus est, inquit, quod esculentum aut po-

sculentum est, quod ipsius patrisfamilias <aut matrisfamilias> 832

aut liberum patrisfamilias <aut familiae> eius, quae circum eum aut

liberos eius est et opus non facit, causa paratum est […], ut Mucius

ait 833, ‛penus’ videri debet. Nam quae ad edendum bibendum in dies

singulos prandii aut cenae causa parantur, ‘penus’ non sunt; sed ea

potius, quae huiusce generis longae usionis gratia contrahuntur et

reconduntur, ex eo, quod non in promptu est, sed intus et penitus ha-

828 Ossia nel corso del cap. III. 829 Vale, a riguardo dell’inserimento del passo gelliano in questa sezione, la stes-

sa motivazione già espressa con riferimento al frg. B.8 . di Aul. Gell., N.A. 4.2.12 [= Pal. Serv. 97].

830 In realtà, Lenel e Bremer riportano (unicamente) i §§ 17 e 20 di Aul. Gell., N.A. 4.1: pare, tuttavia, maggiormente opportuno inserire anche la citazione del § 16 che, per quanto non contenga il nome di Servio, costituisce la premessa logica della trattazione in materia di definizione di ‘penus’.

831 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 220-221 [Servius, reprehensa Scaevolae capita, frgg. 1 e 3 = §§ 17 e 20 di N.A. 4.1, ‘de legatis’]. Vd. nt. precedente.

832 Sull’inserimento di materfamilias vd., per tutti, P.K. MARSHALL, A. Gellii Noctes Atticae, I, p. 164 (e nt. ad vers. 22) ad h.l., la cui validità mi pare sia stata in-direttamente rafforzata dalle convincenti osservazioni di R. FIORI, ‘Materfamilias’, pp. 476 e ss.

833 Sul punto vd. TH. MOMMSEN, Ad capita duo Gelliana, p. 89 = ID., Gesammel-te Schriften, II. Juristische Schriften, pp. 79-80 (e cfr. anche H.J. WIELING, Testa-mentsauslegung im römischen Recht, p. 35 e nt. 11).

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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beatur, ‛penus’ dicta est’. – 20. [= Pal. Sext. Ael. Paet. Cat. † 5 †] 834

Praeterea de penu adscribendum hoc etiam putavi] Servium Sul-

picium in ‘reprehensis Scaevolae capit ibus’ scripsisse

Cato Aelio placuisse, non quae esui et potui forent, sed thus quoque

et cereos in penu esse, quod esset eius ferme rei causa compara-

tum » 835.

Nella testimonianza sono contenuti due interessanti elementi:

da un lato l’espressa menzione dell’opera polemica serviana da cui è

tratta l’informazione (i reprehensa Scaevolae capita) 836 e, dall’altro,

il riferirsi del giurista tardorepubblicano al pensiero di Sesto Elio 837.

E.39. – Ulp. XXII ad Sab., D. 33.9.3.10 [= Pal. Serv. 50

→ Pal. Ulp. 2641; Br. 4 repr. Scaev. cap.] 838: « Se rv ius [ apud

834 Come non di rado accade per le fonti letterarie, O. LENEL, Palingenesia iuris

civilis, I, coll. 1-2, ad pal. Sex. Aelii Paeti Cati, non ha inserito il passo gelliano, in forma autonoma, ma citandolo ivi, col. 1 nt. 2, a proposito di Ulp. XXII ad Sab., D. 33.9.3.9 [= Pal. Ulp. 2641; Pal. Sex. Ael. Paet. Cat. 2], che, per contro, F.P. BRE-

MER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 16 [Sex. Aelius P.C., com-mentaria tripartita, frg. 1b, ‘V.3 uti legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto’], suggerisce di leggere proprio insieme al passo gelliano, cui dà il numero di frg. 1a (op. cit., p. 15). Per questo motivo, ho proceduto a numerare il testo con frg. † 5 † (ossia con il primo numero non utilizzato da Lenel, poiché i frammenti eliani sono, nell’edizione dell’Autore tedesco, soltanto quattro), a modo di emendazione della relativa palingenesia. Per le omissioni leneliane, si vedano, in particolare, i rilievi di F. SINI, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., pp. 51 e ss.

835 Cfr. P.H. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae 6, I, pp. 34 e 17 [rispettivamente, Ser. Sulp. frg. 4, repr. Scaev. cap., e Q.M. Scaev. frg. 1, de iur. civ.].

836 Vd. anche F. HORAK, Rationes decidendi, p. 202 nt. 28. 837 Cfr. E. SÁNCHEZ COLLADO, De penu legata, pp. 154-155 e nt. 312 (lavoro il

cui ‘indice’ delle Fuentes literarias y jurídicas — pp. 259-273 — risulta essere pra-ticamente inservibile, poiché i riferimenti non coincidono coi i luoghi effettivi). Cfr. anche H.J. WIELING, Testamentsauslegung im römischen Recht, p. 44 nt. 53.

838 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 221

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Melam ] et unguentum et chartas espistulares penoris esse

s c r ib i t [et est verius haec omnia, odores quoque contineri: sed et

chartas ad ratiunculam vel ad logarium paratas contineri] » 839.

Non sembra necessario esprimere particolari osservazioni

sulla ricostruzione del frammento — peraltro reputato genuino 840.

Per quanto concerne il tratto finale, merita sia riportata l’annotazione

del Bremer, che, prescindendo dalla attribuzione del testo ad un’ope-

ra specifica di Servio, sembra offrire una adeguata giustificazione

alla sottrazione di esso: « Haec quoque sententia huic libro [scl.:

‘Reprehensa Scaevolae capita’] bona ratione adscribi potest: nam de

ea re vel apud posteros disputatum fuisse Ulpiani verba docent, quae

sequuntur: ‘et est verius haec quoque contineri’ » 841.

E.40. – Ulp. XXXVII ad Sab., D. 26.1.3.4 [= Pal. Serv. 35

→ Pal. Ulp. 2837; Br. 71 resp.] 842: « Si pupillus petat talem cura-

[Servius, reprehensa Scaevolae capita, frg. 4, ‘de legatis’].

Il paragrafo in questione risulta nuovamente sintetizzato all’interno di Bas. 44.12.3.10 [BT. VI, 2026 = Hb. IV, 414], privo di scholia, e, si può affermare, di interesse immediato. Vd. anche supra, per quanto riguarda l’esistenza di scholia a Bas. 44.12.3.

839 Anche LENEL, op. cit., II, col. 329 ad h.l., come Bremer (op. et loc. ult. cit.), riporta solamente la parte « Servius – scribit », il che parrebbe esatto. Da ultima sul testo vd. P. BIAVASCHI, Ofilio e il ‘legatum penoris’: qualche osservazione in merito a Ulpiano D. 33.9.3, pp. 133 e ss.

840 Cfr. E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, II, col. 287 ad D. 33.9.3. 841 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit. 842 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 189

[Servius, responsorum libri, frg. 71, ‘de tutelis’]. Il paragrafo non ha lasciato traccia nei libri Basilicorum [vd. BT. V, 1655, dove

non è presente neppure Bas. 37.1.3, a differenza di Hb. III, 646]; del resto, si riferi-sce ai §§ 2-3 — e non già al § 4 — di D. 26.1.3 (← Bas. 37.1.3), il testo èdito da V. TIFTIXOGLU – S. TROIANOS, Unbekannte Kaiserkunden und Basilikentestimonia aus dem Sinaiticus 1117 [in « Fontes minores », IX, 166, f. 19v, linn. 1-6].

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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torem <tutorem ?> 843 nec addat in quam rem, an in omnes contro-

versias datus sit? Et ai t Celsus Se rv ium cons t i tu i s se in om-

nes res datum videri ».

Oltre al fatto che parte della dottrina ha ritenuto opportuno

suggerire la sostituizione di « talem curatorem » con ‘tutorem’ (sulla

base dei rilievi mossi al precedente § 2 di D. 26.1.3) 844, il passo ri-

flette integralmente il pensiero di Servio, per il tramite di Celso 845.

Conformi anche le ricostruzioni di Lenel e di Bremer 846.

E.41. – Ulp. XLIV ad Sab., D. 34.2.27.3 [= Pal. Serv. 54

→ Pal. Ulp. *2915; Br. 30 resp.] 847: « [ Cui aurum vel argentum fac-

tum legatum est, si fractum aut collisum sit, non continentur: ]? Ser-

vius [enim] exist imat aurum vel argentum factum id videri, quo

commode uti possumus, argentum autem fractum et collisum non in-

cidere in eam definitionem, sed infecto contineri ».

Ancora una volta, sebbene il contesto del brano possa far

843 Vd. nt. seg. 844 Cfr. E. LEVY – E. RABEL, Index interpolationum, II, col. 117 ad D. eod. §§ 2 e

4. Il sintagma è semplicemente cassato, senza indicazione di una ricostruzione alter-nativa, da TH. MOMMSEN – P. KRÜGER, Corpus iuris civilis, I. Digesta 17, p. 370 ad h.l.

845 Così anche LENEL, op. cit., II, col. 327 ad h.l.; cfr., inoltre, T. GIARO, Römi-sche Rechtswahrheiten, p. 264.

846 Cfr. LENEL, op. et loc. ult. cit. e BREMER, op. et loc. ult. cit.: quest’ultimo (ol-tre a riportare, ma tra parentesi tonde, la parte precedente del passo: « Si pupillus pupillave cum iusto tutore tutorve cum eorum quo litem <lege aut legitimo iudicio> agere vult et tutor in eam rem petitur ») richiama, ratione materiae, i passi di Gai 1.184 e Tit. Ulp. 11.24.

847 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 176 [Servius, responsorum libri, frg. 30, ‘de auro vel argento legato’].

Il testo non trova rispondenza nell’edizione olandese dei Basilici [vd. BT. VI, 2034]; è presente, invece, come Bas. 44.15.25, in Hb. IV, 424 [la cui fonte, peraltro, è Tipuc. 44.15.27(= 25)], ma non è significativo ai fini della nostra indagine.

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pensare ad un thema ‘complessivamente’ serviano 848, bisogna one-

stamente supporre che la ‘partecipazione attiva’ del giurista alla di-

scussione sia stata sensibilmente più ridotta. Il tratto « Servius – con-

tineri », infatti, che racchiude la definizione di cosa siano l’oro e

l’argento ‘lavorati’, e le conseguenze che derivino da tale precisazio-

ne, segue il problema giuridico – in sé considerato — ossia se

all’interno del legato di oro e argento di questo genere vadano ri-

compresi anche tali minerali ‘in pezzi o schiacciati’ e la coda del te-

sto che riconnette a tale situazione di fatto l’ingresso nella categoria

dell’oro (o argento) ‘non lavorato’.

7. Testimonianze serviane nelle fonti letterarie

Ulteriori testimonianze circa la produzione scientifica ser-

viana provengono da fonti comunemente dette ‘letterarie’, ed è parso

opportuno che venissero censite — per comodità di esposizione si-

848 Così, almeno, sembrerebbero aver ragionato LENEL, op. et loc. ult. cit. e BRE-

MER, op. et loc. ult. cit.; si noti, peraltro, che E. LEVY – E. RABEL, Index interpola-tionum, II, col. 292, ad D. 34.2.27, non segnalano ipotesi di dubbio testuale con rife-rimento al § 3. Cfr. anche O. BEHRENDS, Die geistige Mitte des römischen Rechts, pp. 56-57 nt. 65. Appare interessante, invece, la supposizione di F. PRINGSHEIM, Be-ryt und Bologna, p. 525 = ID., Gesammelte Abhandlungen, I, p. 425, secondo cui, in D. 34.2.27.6, « für [quis] Quintus Mucius (pr.) oder Servus (§ 3) einzusetzen sein wird ». Ove si trattasse, effettivamente, di Servio, il paragrafo andrebbe recuperato in questi ‘materiali’. Purtroppo, però, il dato è estremamente vacillante, a tacere del-la considerazione per cui appare quantomeno singolare che Ulpiano, dopo aver ri-portato i pareri di Quinto Mucio, nel principium del passo (in cui fa puntuale men-zione dell’opera e del libro da cui la definitio è tratta: « libro secundo iuris civilis »), e di Servio, nel § 3, si sia, poi, limitato alla generica menzione di un pronome inde-finito nel § 6. Allo stesso modo di quanto già osservato per il § 3, di nessuna utilità risulta essere la versione dei libri Basilicorum (sul punto, tratta dalla Synopsis Basi-licorum: cfr. Hb. IV, 424 nt. f ). Sembra, dunque, più ragionevole concludere che, sul punto, il giurista di Tiro non avesse ricevuto altro che l’eco di un parere giuri-sprudenziale non più precisamente attribuibile.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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stematica — autonomamente 849.

A questo proposito, vengono in esame i testi ciceroniani, a

cominciare da quello contenuto in

F.1. – Cic., Ad fam. 7.21 [= Pal. Serv. 89] 850: « [Silii cau-

sam te docui. Is postea fuit apud me. Cum ei dicerem tibi videri

sponsionem illam non sine periculo facere posse ‘si bonorum Turpi-

liae possessionem Q. Caepio praetor ex edicto suo mihi dedit’,] ne-

gare aiebat Servium tabulas testamenti esse eas, quas instituisset

is, qui factionem testamenti non habuerit ; hoc idem Ofilium dice-

re [; tecum se locutum negabat meque rogavit ut se et causam suam

tibi commendarem. Nec vir melior, mi Testa, nec mihi amicior P. Si-

lio quisdam est, te tamen excepto. Gratissimum mihi igitur feceris si

ad eum ultro veneris eique pollicitus eris, sed, si me amas, quam

primum. Hoc te vehementer etiam atque etiam rogo] ».

Il Lenel e il Bremer hanno proceduto a trascivere l’intero

brano dall’inizio fino a « testamenti non habuerit » 851 (omettendo,

tuttavia, la continuazione « hoc idem Ofilium – in fin. »), e il secondo

autore a richiamare, inoltre, per affinità, il passo di Gai 3.114 852,

mentre pare opportuno selezionare soltanto la parte « negare aiebat

Servium tabulas testamenti esse eas, quas instituisset is, qui factio-

849 Fanno eccezione, per le ragioni espresse i frg. B.8 . ed E .38. , rispettiva-mente tratti da Aul. Gell., N.A. 4.2.12 [= Pal. Serv. 97] e da N.A. 4.1 §§ 16-17 e 20 [= Pal. Q.M. 2; Pal. Serv. 6].

850 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 169 [Servius, responsorum libri, frg. 8, ‘de testamentis’], e P.E. HUSCHKE, Iurispruden-tiae anteiustinianae reliquiae, I, p. 36 [frg. 16, ex incert. libr.: « Silii causam te do-cui. is postea fuit apud me. cum ei dicerem tibi videri sponsionem illam nos sine pe-riculo facere posse: ‘si bonorum Turpiliae possessionem Q. Caepio praetor ex edic-to suo mihi dedit’, negare aiebat Servium tabulas testamenti esse eas, quas in-stituisset is, qui factionem testamenti non habuerit: hoc idem Ofilium dicere »].

851 Cfr. LENEL, op. cit., col. 334 ad h.l. 852 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit.

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nem testamenti non habuerit » 853, poiché quella anteriore è oggetto

di quanto affermato dal redattore della lettera a proposito della co-

siddetta ‘causa Silii’, così come il ragionamento che segue pare ave-

re la stessa origine in punto autore 854.

F.2. – Cic., Top. 8.36 [= Pal. Serv. 81] 855: « [Multa igitur

in disputando notatione eliciuntur ex verbo ut cum quaeritur postli-

minium quid sit, non dico, quae sint postlimini; nam id caderet in di-

visionem, quae talis est: postliminio redeunt haec, homo, navis, mu-

lus clitellarius, equus, equa quae frena recipere solet; sed cum ipsius

postlimini vis quaeritur et verbum ipsum notatur.] In quo Servius

noster [, ut opinor,] nihil putat esse notandum, nisi post, et limi-

nium illud productionem esse verbi vult, ut in finitimo, legitimo, ae-

ditimo, non plus inesse timum, quam in meditullio tullium » 856.

La restituzione del passo — in cui Servio viene definito fa-

miliarmente ‘noster’ 857 — corrisponde a quelle proposte dal Lenel e

853 A questa, non sembra inopportuno legare — in qualche modo — la successi-

va precisazione « hoc enim Ofilium dicere », che ribadisce il (sintetico) pensiero di Servio: cfr., sul punto, O. TELLEGEN-COUPERUS – J.W. TELLEGEN, Nihil Hoc ad Ius, ad Ciceronem, pp. 397 e 398.

854 Si veda A. WATSON, The Law of Succession in the Later Roman Republic, pp. 73 e ss. (p. 74 nt. 3, con bibliografia), per l’illustrazione dei tratti caratterizzanti la ‘causa’, lasciati in ombra dalla lettera ciceroniana. Sostanzialmente conforme a quella offerta nel testo, da ultime, le letture di O. TELLEGEN-COUPERUS – J.W. TEL-

LEGEN, op. ult. cit., pp. 396-398 e di P. CANTARONE, ‘Ius controversum’ e controver-sie giurisprudenziali, p. 411 (ripresa a p. 438).

855 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 240 [Servius, alia opera, frg. 2, ‘de postliminio’]. Cfr. H. FUNAIOLI, Grammaticae roma-nae fragmenta, p. 424 [frg. 8, incert. sed.], e P.H. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiu-stinianae reliquiae 6, I, p. 34 [frg. 5, ex incert. sed.].

856 Sul tema, cfr. anche Tryph. IV disp., D. 49.15.12 pr. [= Pal. Tryph. 13; Pal. Serv. 82], riportato sub frg. E .19 . .

857 Così come Giustiniano farà, allo stesso modo, per il giurista Gaio (vd. const. ‘Imp. maiest.’, § 6, che, però, torna ad essere semplicemente ‘Gáios’ in διάτ. Bασ.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

461

dal Bremer 858, a proposito delle quali non si scorge ragione per di-

scostarsi 859.

In secondo luogo, può essere indicato un luogo varroniano,

in cui si fa menzione del nostro giurista. Mi riferisco a

F.3. – Varro, De ling. Lat. 5.6.40 [= Br. 4 incert. sed.] 860:

« [Quod in agris quotquot annis rursum faciendam eadem, ut rursum

capias fructus, appellata rura.] Dividi t<am>en esse ius scribit

Sulpicius plebei rura largiter ad <ad>oream ».

Il testo è stato omesso dalla Palingenesia iuris civilis del Le-

nel 861 (ma — come annotato — non dal Bremer) 862 , mentre il µεγαλοφρ., § 6 [alla lettera, « Gaíu », nell’edizione del Ferrini; G£ioj , « Gaou », nell’edizione del Reitz]: vd. R. AMBROSINO, Vocabularium Institutionum Iustiniani augusti, pp. 180 ad v. ‘noster’ e 304 ad v. ‘Gaius’; e cfr. anche Pomp. XII ad Q.M., D. 45.3.39 [= Pal. Pomp. 285] — con le precisazioni di E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e in Gaio, pp. 8 (nt. 27, soprattutto) e 16, nonché ID., Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, p. 528-529 e nt. 5 (per bibliografia, cui adde, ora, R. QUADRATO, Gaio cristiano?, pp. 325 e ss.) — interpolato, sul punto, a parere di O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 72 nt. 4 ad h.l., probabilmente a ragione: vd. « VIR. », IV, col. 277 ad v. ‘noster, III. ad certos iurisperitos pertinens, A.’). Sul parallelo linguistico con Cic., Brut. 41.152 cfr. V. GIUFFRÈ, Sull’origine della ‘bonorum venditio’ come esecuzione patrimoniale, p. 361 e nt. 153.

858 Cfr. LENEL, op. cit., II, col. 333 ad h.l. e BREMER, op. et loc. ult. cit. Un pic-colo dubbio potrebbe essere avanzato sulla paternità serviana della parte finale (« ut in finitimo – tullium »), ma la circostanza che il « Thesaurus Linguae Latinae », VIII, col. 581, linn. 21-22, la riferisca espressamente a Servio, porta a desistere dalla tentazione di segnalarlo con maggiore decisione (del resto, il termine ‘meditullium’ non compare in altri passi ciceroniani: vd. op. cit., col. 581, linn. 21-69).

859 Cfr. P. GRÖSCHLER, Rec. a M. Bretone, I fondamenti del diritto romano, p. 586 nt. 55.

860 Cfr. P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae, I, p. 35 [frg. 13, ex incert. libr.: « Quod in agris quotquot annis rursum facienda eadem, ut rur-sum capias fructus, appellata rura. ‘Dividit in eos eius’, scr ib i t Su lp ic ius ‘ple-bei rura largiter ad aream’ »].

861 Vd. anche infra, nt. 961.

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« SERVIUS RESPONDIT »

462

Huschke rivendicava il merito della sua assegnazione a Servio Sulpi-

cio Rufo 863.

Così pure manca nel lavoro leneliano un significativo passo

della Naturalis historia, ossia

F.4. – Plin., N.H. 28.5.26 [= Br. 7 incert. sedis] 864: « Ser.

[vi] Sulpicii [principis viri] commentatio es t ‘quamobrem

mensa liquenda non sit’; [ nondum enim plures quam convivae nume-

rabantur ] ? ».

Il testo, che si inserisce all’interno di una serie di indicazioni

(soprattutto di carattere apotropaico) riguardanti il comportamento da

tenere presso la mensa, richiama lessicalmente, con la relativa

« quamobrem », alcuni frammenti alfeniani. Alludo ad Alf. II dig. ab

anon. epit., D. 19.2.27 pr. [= Pal. Alf. 15], che mostra una tematica

serviana 865; Alf. ibid., D. 18.6.12 [= Pal. Alf. 12], alla forma ‘quam

862 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 241 [Servius, plane incertae sedis fragmenta, frg. 4, ‘de agris’], il quale cita il testo var-roniano come « 5, 4 § 40 ».

863 Cfr. E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt 4, p. 93 nt. 6: vd., infatti, ID., Die Iguvischen Tafeln nebst kleinerer Umbrischen Inschriften, p. 437 (a proposito della Tav. IV, 26-27 [p. 414]). Si noti, infatti e ad esempio, che R.G. KENT, Varro. On the Latin Language, p. 36 [lat.] — da cui è ripreso il testo — riporta solamente « scribit Sulpicius », ma appunta, ivi nt. b: « perhaps Servius Sul-picius Rufus, a legal authority, contemporary with Cicero »; sul testo epigrafico ri-chiamato cfr., ora, I. DEVOTO, Tabulae Iguvinae 2, pp. 37, 113 e 398-399 = ID., Le tavole di Gubbio, p. 66, nonché J.W. POULTNEY, The Bronze Tables of Iguvium, p. 216.

864 È censito, invece, da F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae su-persunt, I, p. 242 [Servius, plane incertae sedis fragmenta, frg. 7, ‘?’], ma erronea-mente riportato come « Plin. h. n. 20, 2, 26 » (qui, infatti, si tratta della medicina tratta dagli ortaggi, nel luogo esatto, invece, dei rimedi tratti dagli animali (il refuso è sfuggito ancora a W. KALB, Rec. a Bremer, op. cit., coll. 204-205). Interessante, ma priva di maggior fondamento, la supposizione dello stesso BREMER, op. et loc. cit., « commentatio illa fortasse in epistula exstabat ».

865 Di questa tematica si tratterà infra, all’interno del tomo II, capitolo III.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

463

ob rem’; in Alf. ibid., D. 39.2.43.2 [= Pal. Alf. 5], nella versione

‘quam ob eam rem’ 866, nonché in un importante riscontro del lin-

guaggio serviano — poiché effettuabile grazie ad Aulo Gellio — in

N.A. 4.4.3 867. Si noti, infatti, che la stessa espressione ha un uso ab-

bastanza contenuto nella giurisprudenza romana (si vedano Cels. III

[VIII, Lenel] dig., D. 12.4.16 [= Pal. Cels. 73]; Gai. II fideicomm.,

D. 36.1.65.5 [= Pal. Gai. 398]; Paul. l.s. de iur. et fact. ignor.,

D. 22.6.9.5 [= Pal. Paul. 908] e, infine, Ulp. XVIII ad ed.,

D. 9.1.1.11 [= Pal. Ulp. 608].

Parrebbe trattarsi, dunque, di una particolarità espressiva ser-

viana (e, quindi, alfeniana).

Veniamo ora ai lemmi festini che coinvolgono il maestro di

Alfeno 868, e che, in questa sede, verranno proposti (a differenza del

Lenel e del Bremer, che si rifecero, ovviamente 869, a quella del Mül-

ler) 870 sulla base della seconda edizione Lindsay, contenuta nei

866 Cfr., ancora, Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 40.7.14 pr. [= Pal. 18]. 867 Vd. infra, frg. F .16 . . 868 Si allude, qui, ai lemmi in cui il nome di Servio è indicato expressis verbis (o

tale è stato ritenuto essere indicato: se ne discuterà nella sede delle singole voci). Non verranno considerati, per contro, i lemmi la cui attribuzione all’opus servianum risulta avere carattere ipotetico, seppure frutto di studio e conseguente sforzo di ra-gionamento induttivo, decisamente pregevoli (vd., per tutti, F. BONA, Il ‘de verbo-rum significatu’ di Festo e le XII Tavole. Gli ‘auctores’ di Verrio Flacco, pp. 211 e ss. [in particolare, p. 216 — a proposito di Fest., s.v. ‘Portum’ L. 262 — e p. 220 — intorno a Fest., s.vv. ‘Parret’ L. 262, ancora a ‘Portum’ L. 262 e a ‘Patroci-nia’ L. 262; ancora p. 220 circa Fest., s.v. ‘Praefecturae’ L. 262] = ID., Lectio sua, I, pp. 570-573; si vedano, infatti, le conclusioni del BONA, op. cit., p. 221 = ID., Lectio sua, I, p. 573: « di Servio Sulpicio Rufo è ancora sub iudice l’esistenza stessa di un commentario siffatto », ossia ‘ad Duodecim Tabularum’, ancora esclusa, nella sostanza, da O. DILIBERTO, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, I, pp. 26-27).

869 La prima edizione festina del Lindsay è, infatti, del 1913, e, pertanto, poste-riore alle opere di Lenel (1889) e di Bremer (1896).

870 Cfr. K.O MÜLLER, Sexti Pompei Festi de verborum significatione quae su-persunt cum Pauli epitome (Leipzig, 1839); l’Autore è stato definito da F. BONA,

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‘Glossaria latina’ 871, data alle stampe nel 1930, e in genere poco no-

ta agli studiosi del diritto antico 872.

L’aver adottato la versione dello studioso di Oxford ha pro-

dotto l’effetto immediato di non registrare il lemma ‘Mancipatione

adoptatur’ [ed. Müller, 153; Thewrewk de Ponor, 142] — come ha

fatto, invece, il Lenel 873, la cui scelta va, pertanto, emendata — poi-

ché Lindsay restituisce opportunamente il testo non già a Servio Sul-

Opusculum festinum, p. 5 (col. I) come « benemerito editore di Festo nell’Ottocen-to ».

871 Cfr. W.-M. LINDSAY, Festus. De verborum significatu, in Glossaria latina iussu Academiae Britannicae edita, IV. Placidus, Festus [J.W. Pirie – W.-M. Lind-say, edd.], pp. 71-506.

872 Utilizzata, però, correttamente da F. ZUCCOTTI, ‘Fruges fructusque’, passim (e vd., ad esempio, pp. 14 nt. 26 e 215).

873 Vd. K.O. MÜLLER, De verborum significatione, p. 153 (e Æ. THEWREWK DE

PONOR, De verborum significatu, p. 142) e cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 334, fr. 90, nonché P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae, I, p. 36 [frg. 15, ex incert. libr.].

Il testo, nell’edizione Müller [Mü. 153], suona nei seguenti termini: « Mancipa-tione adoptatur, ut patri† sui heres e-sse desinat: sed eius qui adoptet, tam heres est, qua-m si ex eo natus esset. Arrogatione, qui in potestate alie-na non est, arrogatoris fit filius et suus heres, ut p-atet mafifeste ex eo, quod ait Ser. Sulpicius in ea oratio-ne, quam habuit contra Messalam pro Aufidia ».

Nell’edizione Thewrewk de Ponor [Thew. 142] si presenta così: « Mancipatione . . . ut patri † sui heres e . . . . . . . . . . . tet, tamheres est, quam . . . . . . . . . . . in pote-state alie . . . . . . . . . . . . et suus heres, ut p . . . . . . . . . . . . Sulpicius in ea oratio . . . . . . . . . . . pro Aufidia »

In quella Lindsay [L. 140, linn. 11 e ss.], invece, si presenta così: « . . . ut pa-tri<s> sui heres e . . . . . . . . . . . . . tet, tam heres est quam . . . . . . . . . . . . . in prote-state alie<na> . . . . . . . . . . . . . . et suus heres, ut p . . . . . . . . . . . . <Ser.> Sulpicius in ea oratio<ne, quam habuit contra Messalam> pro Aufudia ».

Questa, invece, la versione dei Glossaria latina (IV, 270): « <Mancipatus et a-doptatus> ut patri<s> sui heres e<sse desinit, ita eius qui adop>tet tam heres est quam <ex eo natus. Sed et adrogatus, qui> in potestate alie<na> . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . et suus heres ut p . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . <Ser.> Sulpi-cius in ea oratio<ne quam habuit contra Messalam> pro Aufidia ».

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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picio Rufo, bensì a ‘Servius Sulpicius orator’ 874, ossia a Servio Sul-

picio Galba 875.

L’ordine di presentazione adottato in questa sede è, natural-

mente, quello della sequenza alfabetica festina. E proprio il primo

lemma appare essere quello maggiormente controverso, anche (e so-

prattutto) per la ragione che non vi è certezza circa il fatto che si rife-

risca al giurista tardorepubblicano. Alludo, infatti, a

F.5. ? – Fest., s.v. ‘Municeps’ [L. 126 → Gl. lat. IV, 262

Mü. 142 876; Thew. 122 877; Pal. Serv. 91; Br. 4 alia op.] 878: « Mu-

niceps [est, ait Aelius Gallus, qui in municipio liber natus est; item

874 Cfr. W.M. LINDSAY, Sextus Pompeius Festus, de verborum significatu quae supersunt cum Pauli epitome, p. 572 (‘Index scriptorum’) e così già K.O. MÜLLER, De verborum significatione, p. 443 (‘Index II. scriptorum’), che, parimenti, distingue ‘Sulpicius in orat.’ da ‘Ser. Sulpicius Rufus’. È accolto, invece, ancora come lemma festino con menzione di Servio Sulpicio Rufo — s.v. <Mancipatus> — da F. BONA, La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, p. 108 nt. 17 = ID., Lectio sua, II, p. 925 nt. 17, e così ugualmente, da ultimo, da A. BALBO, Attività giu-diziaria criminale e civile nello stato romano tra la fine della repubblica e i primi anni di Ottaviano (49-29 a.C.), p. 539 [scheda 1.A.7].

875 Cfr., infatti, Quint., Inst. or. 10.1.22 [e cfr. L. RADERMACHER, ed., Quintilia-nus, Institutio oratoria, II, p. 451]; vd. nt. precedente.

876 K.O. MÜLLER, Sexti Pompei Fest, p. 142: « Municeps est, ait Aelius Gallus, qui in municipio liber natus est. Item qui ex alio genere hominum munus functus est. Item qui in municipio ex servitute se liberavit a municipe. Item municipes erant, qui ex aliis civitatibus Romam venissent, quibus non licebat magistratum capere, sed tantum muneris partem. At Servilius † aiebat initio fuisse, qui ea conditione cives Ro. fuissent, ut semper remp. separatim, a populo Ro. haberent, Cumanos, Acerra-nos, Atellanos, qui aeque cives Ro. erant et in legatione merebant, sed dignitates non capiebant ».

877 Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei Festi, p. 122: « Servius filius aiebat initio fuisse, qui ea conditione cives fuissent, ut semper remp. separatim, a populo Ro. haberent, Cumanos, Acerranos, Atellanos, qui aeque . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ».

878 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae anteadrianae quae supersunt, I, p. 240 [Servius, alia opera, frg. 4, ‘de municipibus’], e P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae an-teiustinianae reliquiae, I, p. 36 [frg. 18, ex incert. libr., che accoglie, ivi, nt. 5, l’integrazione ‘Servilius’].

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« SERVIUS RESPONDIT »

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qui ex alio genere hominum munus functus est; item qui in municipio

ex servitute se liberavit a municipe. At] Servius filius aiebat initio

fuisse, qui ea conditione cives fuissent, ut semper rempublicam sepa-

ratim, a populo Romano haberent, Cumanos Acerranos Atellanos,

qui aeque <cives Romani erant et in legatione merebant, sed dignita-

tes non capiebant> ».

Il punctum dolens del testo festino — che concerne « prefet-

ture campane di municipi dotati di autonomia e ciò nonostante sotto-

posti alla giurisdizione prefettizia » 879 — è rappresentato (proprio)

dalla citazione di (un certo?) ‘Servio’ 880.

La tradizione testuale, infatti, non è univoca — così come

mostra la forma in cui il brano è stato riportato, con l’indicazione dei

Glossaria latina (« Servius filius [Serv. Sulpicius] ») 881, a differenza

879 Così A. GALLO, Praefecturae eae appellabantur... in quibus et ius dicebatur,

Tesi di dottorato di ricerca in ‘Storia antica’ [Bari, a.a. 2007-2008], p. 28 e nt. 7, con opportuno richiamo al problematico lemma di Fest., s.v. ‘Praefecturae’ [L. 262 Mü. 233; Thew. 292, che già F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, p. 220 = ID., Lectio sua, I, pp. 570, suggeriva di attribuire a Servio, sulla base delle sequenze dei lemmi e delle similitudini riscontrate con Fest., s.v. ‘Muni-ceps’ L. 126; Gl. lat. IV, 262; Mü. 142; Thew. 122, sul presupposto che dovesse trattarsi di un ‘lemma’ escerpito dagli scritti del giurista tardorepubblicano]. Vd. an-cora A. GALLO, op. cit., pp. 59 e nt. 82, 64 e nt. 121, lavoro che ho potuto consultare grazie alla cortesia dell’Autrice, la quale ha condotto un interessante, accurato lavo-ro — basato, a mio giudizio, su un uso corretto e un’interpretazione adeguata delle fonti e della letteratura — e che mi auguro possa essere presto pubblicato, poiché di sicura utilità per lo studio del diritto pubblico romano, oltre che per la storia antica. Sul contenuto della testimonianza — individuata secondo l’epitome di Paolo Diaco-no [L. 1175-12] — in coerente relazione con il tema selezionato, si veda anche il bel lavoro di N. RAMPAZZO, ‘Quasi praetor non fuerit’. Studi sulle elezioni magi-stratuali in Roma repubblicana tra regola ed eccezione, p. 82 (e nt. 265).

880 Vd., in particolare, J. PINSENT, Municeps, II, pp. 94-95 (richiamato da F. BO-NA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, p. 220 nt. 69 = ID., Lectio sua, I, p. 570 nt. 69).

881 Cfr. W.-M. LINDSAY, Festus. De verborum significatu, in Glossaria latina iussu Academiae Britannicae edita, IV. Placidus, Festus, p. 262. La separazione tra ‘Servio Sulpicio Rufo’ e ‘Servio filio’ è accolta espressamente anche da R. CERVA-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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della correzione della versione teubneriana (« Servius <filius> [Ser-

vilius] ») 882. Al nome ‘Servius’, infatti, si accompagnerebbe la circo-

stanziazione secondo cui egli sarebbe stato ‘filius’ 883, ovvero si pro-

pone, appunto, da altri editori l’integrale sostituzione di ‘Servius...’

con ‘Servilius’ 884.

La dottrina maggioritaria identifica il ‘Servius’ indicato con

il giurista Servio Sulpicio Rufo 885 — più volte usato come fonte

dall’autore del de verborum significatu — considerando, implicita-

mente, la presenza di ‘filius’ come sorta di ¤pax legÒmenon 886.

NI, L’epitome di Paolo del ‘de verborum significatu’ di Pompeo Festo. Struttura e metodo, pp. 96-97 e tav. 2, pp. [103 e 112], ad h.n.).

882 Cfr. W.M. LINDSAY, Sextus Pompeius Festus, de verborum significatu quae supersunt cum Pauli epitome, p. 162. Cfr. anche Mü. 142 (« Servilius † » e nt. ad lin. 12 « Servius filius »).

883 Soluzione, questa, già adottata, senza alcuna esitazione, da Æ. THEWREWK DE

PONOR, Sexti Pompei Festi, p. 122 (« At Servius filius aiebat... », et rell. [Thew. 122, lin. 12]).

884 Cfr. BREMER, op. et loc. ult. cit. e O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 334 nt.1, e, più recentemente, J. PINSENT, Municeps, II, pp. 89-97 (pp. 89 nt. 1 e 95-97, in particolare). Per la discussione del problema vd., F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, p. 220 e ntt. 68-69 e 74 = ID., Lectio sua, I, pp. 570-571 e ntt. 68-69 e 74, nonché, ampiamente, G. MANCINI, Cives Romani Munici-pes Latini, I, pp. 110-111 ntt. 250-251 (ragguagli bibliografici in C. CASCIONE, Con-sensus. Problemi di origine, tutela processuale, prospettive sistematiche, p. 258 nt. 143). Ancora: A. GALLO, Praefecturae eae appellabantur... in quibus et ius diceba-tur, pp. 23 nt. 25, e 25 nt. 34.

885 Così lo stesso W.M. LINDSAY, Festus. De verborum significatu, in Glossaria latina iussu Academiae Britannicae edita, IV, p. 282, che, pur mantenendo il testo « Servius filius », opera l’attribuzione al nostro giurista; a questo riguardo vd., inol-tre, F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, p. 220 nt. 74 = ID., Lectio sua, I, p. 572, nt 74. Vd., da ultima, pur senza assumere una posizione definitiva, E. TODISCO, La glossa ‘vicus’ di Festo e la giurisdizione delle aree rurali nell’Italia romana, pp. 106 e nt. 46, e 114 e nt. 73.

886 Cfr. TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht 3, III.1, p. 235 nt. 1; E. SCHÖN-

BAUER, Municipium. Worterklarung und rechtliche Bedeutung, p. 555; M. SORDI, I rapporti romano ceriti e l’origine della civitas sine suffragio, pp. 108 e ss.; M. HUMBERT, Municipium et civitas sine suffragio, pp. 6 e ss., 286-287; orientato per la stessa soluzione anche F. BONA, La certezza del diritto, p. 108 nt. 17 = ID., Lectio

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Chi sostiene l’ipotesi contraria, invece, si avvale di quella

che sarebbe l’apprezzabile considerazione secondo cui Servio, in Fe-

sto, è « sempre citato con i tria nomina » 887, se il dato fosse compro-

vato — come, invece, non pare esserlo — dalla fonti 888.

A modo di osservazione, si può notare, tuttavia, come sembri

più consono a citazioni di giuristi il parallelismo tra Elio Gallo e Ser-

vio (Sulpicio Rufo). Inoltre — e lo aggiungo come semplice ipotesi

di lavoro — non si può escludere che il testo (di cui è sicura la corru-

zione sul punto) presentasse la forma ‘Servius Ofilius’ 889.

sua, II, p. 925 nt. 17 (che dà per « probabile [...] l’assegnazione a Servio della se-conda parte della glossa 126, 16 L », e vd. il ragionamento in ID., Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, p. 220 = ID., Lectio sua, I, p. 572); G. MANCINI, Cives romani municipes latini, I, pp. 110-111 e ntt. 250-251, con la conferma di U. LAFFI, Rec., p. 466, il quale non entra, invece, nel merito in ID., La definizione di ‘municipium’ in Paolo-Festo (155 L.), pp. 131 e ss. = ID., Studi di storia romana e di diritto, pp. 137 e ss.).

887 Vd. F. GRELLE, L’autonomia cittadina fra Traiano e Adriano. Teoria e prassi dell’organizzazione municipale, pp. 144-145. Da notare che l’editore W.M. LIN-

DSAY, Sextus Pompeius Festus, de verborum significatu quae supersunt cum Pauli epitome, p. 572, all’interno dell’‘Index scriptorum’, mantiene distinti « Servius fil. » e « Ser. Sulpicius Rufus » (su cui, da ultima, F. LAMBERTI, Il cittadino romano, nt. 51; EAD., Romanización y ciudadanía. El camino de la expansión de Roma en la República, p. 63 nt. 139). Sul lemma vd. anche G. LURASCHI, Foedus, ius Latii, Ci-vitas. Aspetti costituzionali della romanizzazione in Traspadana, p. 198 e nt. 273.

888 Si presenta, infatti, in questa versione soltanto s.v. ‘Noxia’ [L. 180; Gl. lat. IV, 291], e, per via dell’integrazione, come ‘Ser.> Sulpicius <Rufus>’ s.v. ‘Sanates’ [L. 426; Gl. lat. IV, 415], mentre appare come ‘Ser. <Sulpicius>’ s.v. ‘Orba’ [L. 194; Gl. lat. IV, 297-298]; come ‘Ser. Sulpicius’ s.v. ‘Pedem struit’ [L. 232; Gl. lat. IV, 317]; come ‘Ser. Sulpicius’ s.v. ‘Posticam lineam’ [L. 262; Gl. lat. IV, 339]; come ‘Ser. Sulpicius’ s.v. ‘Sarcito’ [L. 430; Gl. lat. IV, 416]; come ‘Ser. Sul-pi<cio>’ s.v. ‘Sifus’ [L. 458; Gl. lat. 430]; come ‘<Sul>pici Ser. f.’ s.v. ‘Saturnum sacrificium’ [L. 462; Gl. lat. IV, 432-433] — ammesso che si tratti del nostro giuri-sta (cfr., infatti, quanto osservato a tal proposito sub frg. F .13 . ? ) — e, infine, co-me ‘Ser. Sulpicius’ s.v. ‘Vindiciae’ [L. 516; Gl. lat. IV, 465].

889 Cfr., infatti, nella forma ‘Servius Ofilius’, il frammento di Iavol. II ex post. Lab., D. 32.29.2 [= Pal. Iavol. 171; Pal. Serv. 43], senza verbo reggente, di cui su-pra, frg. E .1 . nonché Paul. XXXIV ad ed., D. 14.2.2.3 [= Pal. Paul. 521; Pal. Serv. 20], intorno al quale vd. supra, frg. B.17 . . Non rappresenta, inoltre, una obiezione

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

469

Per queste ragioni, pur con tutte le cautele del caso, il lemma

viene mantenuto come (tradizionalmente) riferito a Servio, ma con

ampia segnalazione di opinabilità 890.

F.6. – Fest., s.v. ‘Noxia’ [L. 180 → Gl. lat. IV, 291 Mü.

174 891 ; Thew. 184 892 ; Pal. Serv. 92] 893 : « No>xia, ut Ser.

Sulpicius Ru<fus ait , damnum significat in XII> 894 ; [apud

poetas autem, et oratores ponitur pro culpa; at noxa peccatum aut

pro peccato poenam, ut Accius in Melanippo: Tete esse huic noxae

obnoxium. Item cum lex iubet noxae dedere, pro peccato dedi iubet. insuperabile la certezza del tratto « aiebat » nel lemma festino, poiché, e.g., in Ulp. XIX ad Sab., D. 30.30 [pr. e §].2 [= Pal. Ulp. 2597; Pal. Serv. 41] è scritto: « ait Servius et Labeo »: vd. supra, frg. D.25 . .

Assai difficile pensare, per contro, ad un ritorno dell’augure P. Servilio (cfr., a riguardo, Fest., s.v. ‘Stellam’ [L. 476]), poiché anch’egli è menzionato con nome e carica (« auctoritatem secutus P. Servilii auguris »), e non vi sono ragioni logiche per concludere che in una (ipotetica) seconda e sola altra citazione (tra altro, la pri-ma in ordine di opera) egli sia evocato esclusivamente per mezzo del nomen.

890 Vd. anche infra, con riferimento al frg. F .13 . . 891 K.O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi, p. 174: « Noxia, ut Ser. Sulpicius Rufus

ait, damnum significat, apud poetas autem, et oratores ponitur pro culpa. ad † noxa peccatum, aut pro peccato poenam, ut Accius in Melanippo: “Tete esse huic noxae obnoxium”. Item, cum lex iubet noxae dedere, pro peccato dedi iubet. Caecilius in Hypobolimaeo chaerestrato †: “Nam ista quidem noxa muliebrem et † magis quam viri.” ».

892 Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei Festi, pp. 184 e 186: « Noxia, ut Ser. Sulpicius Ru . . . . . . . apud poetas autem, et oratores ponitur pro culpa. ad † noxa peccatum, aut pro peccato poenam, ut Accius in Melanippo: “Tete esse huic noxae obnoxium”. Item, cum lex iubet noxæ dedere, pro peccato, dedi iubet. Cæcilius in Hypobolimeo † chaerestrato †: “Nam ista quidem noxa muliebrem et †, magis quam viri.” ».

893 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 229 [Servius, ad leges duodecim tabularum libri, frg. 6, ‘VIII, 6. 10’]. Cfr. H. FUNAIOLI, Grammaticae romanae fragmenta, p. 423 [frg. 4, incert. sed.: « noxia – dedi iu-bet »], e F.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae, I, p. 35 [frg. 9, ex incert. libr.: « Noxia – pro culpa »].

894 Il corsivo ‘ait’ è dell’edizione Lindsay (cfr. W.-M. LINDSAY, Festus. De ver-borum significatu, p. 291).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Caecilius in Hypobolimaeo Chaerestrato: Nam ista quidem noxa mu-

liebrest, magis quam viri] ».

A differenza degli editori tedeschi, si è ritenuto opportuno

trascrivere l’intero lemma festino, e non arrestarsi alla sola prima

parte (« noxia – in XII. » [sott. ‘tabulis’]) 895. Naturalmente, la sezio-

ne ascrivibile al giurista tardorepubblicano non può che essere la

prima (« Noxia – in XII. »), come evidenziato da Lenel e da Bremer,

e ribadito, più di recente, da Bona e da D’Ippolito 896. Ancora una

volta appare paradigmatico l’uso della forma verbale ‘ait’ — in que-

sto caso, in una fonte non giuridica — in merito a ciò che costituisce

una sintesi di quanto affermato in origine da Servio 897.

F.7. – Fest., s.v. ‘Orba’ [L. 194 → Gl. lat. IV, 297-298

Mü. 182 898; Thew. 200 899; Br. 2 incert. sed.] 900: « Orba [apud

895 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 334; F.P. BREMER, Iurispru-

dentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 229. 896 Così anche F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, p.

214 = ID., Lectio sua, I, p. 561, nonché, con più ampie considerazioni, ID., La cer-tezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, pp. 108-109 nt. 17 = ID., Lectio sua, II, pp. 928-292 nt. 17, e, implicitamente, F.M. D’IPPOLITO, Problemi sto-rico-esegetici delle XII Tavole, pp. 128 nt. 5 e 134 nt. 16.

897 Sul lemma festino (nonché sul seguente ‘Sarcito’ [L. 430; Gl. Lat. IV, 416; Pal. Serv. 92]: vd. infra frg. F .11 . ) e cfr. C. FERRINI, s.v. ‘Danni (azione di)’, p. 13 [II col.] con letteratura, e, più recentemente, C.A. CANNATA, Sul testo della lex Aquilia e la sua portata originaria, pp. 27 e ss. e G. VALDITARA, Sulle origini del concetto di ‘damnum’ 2, pp. 35 e ss., 38 nt. 188 [in particolare], 72 e nt. 347, i quali, tuttavia, non hanno preso in considerazione le riflessioni dell’Autore più antico.

898 K.O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi, p. 182: « O-rba apud poetas significatur privatam aliqua persona cara: apud oratores quae patrem amisit aut matr. † , ut Ser. Sulpicius ait, quae liberos quasi oc-ulos. orba est ».

899 Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei Festi, p. 200: « O-rba apud poe- . . . . . . . . . . . persona cara: apud . . . . . . . . . . . . . matr. ut Ser. . . . . . . . . . . . . ulos. orba est ».

900 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 241 [Servius, plane incertae sedis fragmenta, frg. 2, ‘de orbis’]. Cfr. H. FUNAIOLI, Gram-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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poe<tas significatur privata aliqua> persona cara; apud <oratores,

cui patre mortuo cadit her>e<ditas>; ut Ser. <Sulpicius ait, quae

filios 901 amisis parv>ulos orba est » 902.

Il brano, ignorato da Lenel, e pure attribuito a Servio — ma

con chiara indicazione dubitativa — dallo stesso Lindsay 903, è stato

restituito da Bremer nei seguenti termini: « <O>rba apud poe<tas

significatur privata aliqua> persona cara, apud <oratores, quae pa-

maticae romanae fragmenta, p. 423 [frg. 5, incert. sed.: « <o>rba apud poe<tas significatur privata aliqua> persona cara, apud <oratores quae patrem amisit aut> matrem, ut Ser. <Sulpicius ait, aut liberos quasi oc>ulos »], e P.E. HUSCHKE, Iuris-prudentiae anteiustinianae reliquiae, I, p. 35 [frg. 11, ex incert. libr.: « ‘orba apud poetas significat privata aliqua persona cara: apud oratores, quae patrem amisit; item mater, ut Ser. Sulpicius ait, quae amisit liberos, quasi oculos, orba est »].

901 In corsivo, invece, il tratto « ait, quae filios » nell’edizione di W.M. LINDSAY, Sexti Pompei Festi de verborum significatu quae supersunt cum Pauli epitome, p. 194, che manca della prosecuzione « amisit parv> ». L’edizione Müller pone come dubbio il riferimento al nostro giurista (Mü. 443 ad h.n.: « 182? »).

902 La prosecuzione del lemma può essere omessa, poiché concerne il parere di Elio Gallo (cfr. Glossaria latina, IV, p. 298, ad h.v.). Sul lemma festino si veda, da ultimo, A. BALBO, Attività giudiziaria criminale e civile nello stato romano tra la fi-ne della repubblica e i primi anni di Ottaviano (49-29 a.C.), p. 539 [scheda 1.A.7], con esplicita attribuzione al giurista tardorepubblicano (« Ser. <Sulpicius ait »): cfr. anche supra, nt. 874.

903 Cfr. LINDSAY, op. cit., p. 572 (‘Index scriptorum’) ad h.n.: « Ser. Sulpicius Rufus [...] 194,20 (?) », e vd. anche F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, p. 220 nt. 74 = ID., Lectio sua, I, p. 571 nt. 74: « non è, poi, sicuro che Verrio Flacco abbia sempre citato il commentario alle XII Tavole, ammesso che sia esistito, di Servio: non lo è per 194.18 Orba ».

La circostanza per cui Servio si fosse occupato anche di quest’ultimo lemma po-trebbe essere confermata dal testo, per quanto parzialmente mutilo («ut Ser.»); e in questo senso si è mossa, in ogni caso, la ricostruzione del Lindsay. Secondo E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae 4, p. 93 e nt. 5, nel brano vi sa-rebbero stati citati addirittura i libri censori — ragione per la quale egli rinvia alla testimonianza di Aul. Gell., N.A. 2.10.1 (nonché, sulla base di questo presupposto, acutamente a Liv. 3.3.9), sebbene la ricostruzione di Huschke non sia filologicamen-te corretta — poiché tratta dall’edizione Müller — e, quindi, di per sé, non possa essere seguita.

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trem amisit; item> mater, ut Ser. <Sulpicius ait, quae liberos quasi

oc>ulos orba<ta> est » 904.

F.8. – Fest., s.v. ‘Pedem struit’ [L. 232 → Gl. lat. IV, 317

Mü., 210 905; Thew. 258 906; Pal. Serv. 93] 907: « ‘Pedem struit’ in

XII (1, 2) significat fugit, ut ai t Ser. Sulpicius ».

A questo riguardo non vi sono particolari osservazioni da

aggiungere, salvo ribadire, quanto osservato in dottrina, ossia le rela-

zioni esistenti tra il lemma ora riportato e Fest., s.v. ‘Struere’ [L. 410

= Gl. lat. IV, 408] 908.

F.9. – Fest., s.v. ‘Posticam lineam’ [L. 262 → Gl. lat. IV,

339 Mü. 233 909; Thew. 292 910 911; Pal. Serv. 94] 912: « Posticam

904 Vd. BREMER, op. et loc. ult. cit.; in Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei

Festi, p. 200, il tratto « mater, ut Ser. » suona nel seguente modo: « matr. ut Ser. ». 905 K.O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi, p. 210: « “Pedem struit” in XII. significat

fugit, ut ait Ser. Sulpicius ». 906 Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei Festi, p. 258: « “Pedem struit” in

XII. significat fugit, ut ait Ser. Sulpicius ». 907 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 229

[Servius, ad leges duodecim tabularum libri, frg. 1, ‘I, 2. Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito’]. Cfr. H. FUNAIOLI, Grammaticae romanae fragmenta, p. 424 [frg. 6, incert. sed.], e P.H. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae 6, I, p. 34 [frg. 6, ex incert. sed.]. Anche in questo caso, come nel precedente, l’edizione Müller pone un segnale di dubbio a proposito della riconducibilità del lemma a Ser-vio Sulpicio Rufo (Mü. 443 ad h.n.: « 210 ? »).

908 Così F.M. D’IPPOLITO, Problemi storico-esegetici delle XII Tavole, p. 129 e nt. 8. Si veda, inoltre, F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, pp. 214-215 = ID., Lectio sua, I, pp. 561-562; vd. inoltre, G. NICOSIA, Il processo privato romano, II. La regolamentazione decemvirale, pp. 27 e ss., nonché O. DILI-

BERTO, Materiali per la palingenesia delle XII Tavole, I, p. 90 nt. 237. Cfr., infine, U. AGNATI, Leges Duodecim Tabularum. Le tradizioni letteraria e giuridica. Tabu-lae I-IV, pp. 39 e ss. (pp. 42-43, in particolare).

909 K.O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi, p. 233: « Posticam lineam in agris divi-dendis Ser. Sulpicius appellavit ab exori-ente sole ad occasum spectantem . . . . .

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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lineam in agris dividendis Ser. Sulpicius appellavit ab exo-

ri<ente sole ad occasum spectantem,> . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . tur . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ri-

que . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ab e** 913 » 914.

F.10. – Fest., s.v. ‘Sanates’ [L. 426 915 → Gl. lat. IV, 415

qua . . . . . . . . . . . . . . . . qua . . . . . . . . . . . . . . . . tur . . . . . . . . . . . . . . . . rique . . . . . . . . . . . . . . . abe . . . . . . . . . . . . . . . . ».

910 Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei Festi, p. 292: « Posticam lineam in agris dividendis Ser. Sulpicius appellavit ab exori . . . . . . . . . . . . . . . . . qua . . . . . . . . . . . . . . . . . tur . . . . . . . . . . . . . . . . . rique . . . . . . . . . . . . . . . . . abe . . . . . . . . . . . . . . . . . ».

911 Il nome del giurista non è censito dall’edizione Müller all’interno dell’Index II. Scriptorum (cfr. Mü. 443, ad h.n.). È difficile dire se si tratti di una pura omissio-ne, o se l’assenza risponda a qualche criterio presupposto dell’Editore (poiché pare, in genere, aver omesso dall’Index cit. le ricorrenze in cui il nome non appare in for-ma completa; ma il criterio non è seguito uniformemente).

912 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 239 [Servius, alia opera, frg. 1, ‘de colonia deducenda’], il quale — alla pari di O. LE-

NEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 334, ad h.l. — alle parole ‘exori<ente sole’ aggiunge anche ‘ad occasum spectantem’, e questo — evidentemente — sulla base dell’epitome di Paolo Diacono [L. 263: « Postica linea in agris dividendis ab oriente ad occasum spectat »]. Cfr. H. FUNAIOLI, Grammaticae romanae fragmenta, p. 424 [frg. 7, incert. sed.: « Posticam lineam in agris dividendis Ser . Su lp ic ius appel-lavi t ab exori<ente sole ad occasum spectantem> »], nonché P.E. HUSCHKE, Iuri-sprudentiae anteiustinianae reliquiae, I, p. 35 [frg. 12, ex incert. libr.: « Posticam lineam in agris dividendis Serv. Sulpicius appellavit ab exoriente sole ad occasum spectantem »].

913 Difficile dire se la sezione — gravemente mutila — che segue il participio ‘spectantem’ possa appartenere ancora al riferimento serviano; per questo motivo, almeno sul punto, mi adeguo alle coincidenti soluzioni di Lenel e di Bremer.

L’edizione di Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei Festi, pp. 292 e 294, è pri-va di integrazioni (peraltro sempre misurate), e si presenta nel modo che segue: « Posticam lineam appellavit ab exori . . . . . . . . . . . . . . . . . qua . . . . . . . . . . . . . . . . . tur . . . . . . . . . . . . . . . . . rique . . . . . . . . . . . . . . . . . abe . . . . . . . . . . . . . . . . . ».

914 Cfr. F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, pp. 212-213 e 219 = ID., Lectio sua, I, pp. 557 e 569.

915 Date le molte divergenze tra la versione teubneriana e quella dei Glossaria latina, si offre la prima, qui di séguito, separatamente dall’edizione più recente: L.

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Mü. 321 916; Thew. 470 917; Pal. Serv. 95] 918: « <Sanates, id est 426 – <Sanates quasi sana>ti appellat<i> . . . . . . . . . . . . . . Su lp ic ius . . . . . . . . . . . . . . [et Opillus <Aurelius> . . . . . . . . . . dici inferio . . . . . . . . . . . . . . . . ut Tiburtẹs . . . . . . . . . . . . . . . populo Tibur<ti> . . . . . . . . . . . . . Tiburti, idem . . . . . . . . . . . <infe>riorisque loci . . . . . . . . . . . . . . in XII (1, 5): ‘Nex<i> . . . . . . . . . forti sanatid . . . . . . . . . . . . . . id est bonor<um> . . . . . . . . . . . . qui et inf . . . . . . . . . . . . . . . que sunt; . . . . . . . . . . . . <pris>cos Latinos . . . . . . . . . . . . . . ege-rit secundum . . . . . . . . . <in>fra Romam in ẹ . . . . . . . . . . . . eosque sanatị . . . . . . . . . . . . . . praeter opinion<em> . . . . . . . . . . . set sanavisse<t>q<ue> . . . . . . . . . . cisci potuisset no . . . . . . . . . . . . sulti. Ne Valerius <quidem Messala> in XII. explanatiọ<ne> . . . . . . . . . . men in eo libro, quẹm . . . . . . . . . volute inscri-bi, fore . . . . . . . . . . . duas gentis finitimas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . <l>ẹgem hanc scrip<tam> . . . . . . . . . n ut id ius man<cipii nexique quod populu>s Romanus haberent. . . . . . . . . . . . . <fo>rctos et sana<tes> . . . . . . . . . <sig>unificare exis- . . . . . . . . . . . . . ạtu. Multi sunt, . . . . . . . . . . . . . . . acuit displi<c> . . . . . . . . . . . . ụt sant forcti . . . . . . . . . . . . . <s>ạnati insani] ».

916 K.O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi, p. 321: « Sanates quasi sana-ti appella-ti, id est sanatae mentis. Serv. Sulpicius Rufus . . . . . . . . . et Opillus † Aurelius ita exi-stimant dici inferio-ris superiorisque loci gentes, ut Tiburte-s supra Romam, aliosque qui cum populo Tibur-ti convenerant in agro Tiburti, ide-mque ad se maritimos quo-sdam infe-riorisque loc-i populos perduxerant. Hinc in XII.: “Nex-i solutique, ac forti, sanati-sque idem ius esto,” id est bonor-um et qui defecerant socium. Sunt qui et infe-riores dici putant colonias, quae sunt deductae in Pris-cos Latinos, quas Tar-quinius rex in-egerit secundum mare . . . . . in-fra Romam in c-ivitates Latinorum, eosque sanat-is, quod Priscus praeter opinio-nem eos debelavis-set, sanavisse-tque ac cum iis pa-cisci potuisset, no-minatos esse, ut ait Cincius l. II. de officio iuriscon-sulti. ne Valerius quidem Messalla in XII. explanati-one rem expedivit. hic ta-men in eo libro, qu-em de dictis in-volute inscribi †, for-ctos sanatisque duas gentis finiti-mas fuisse censet, de quibus le-gem hanc scrip-tam esse, qua cautu-m, ut id ius man-ifesto, quod populu-s R., haberent. Neque alios, quam for-ctos, et sana-tes eam le-gem sig-nificare exis-timat hoc significa-tu. multi sunt, quibus id, quod his pla-acuit, displi-ceat, et qui explicen-t. sant † forcti, quasi dictum esset sa-nati insani ».

917 Cfr., invece, Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei Festi, pp. 470 e 472: « Sanates . . . . . . . . ti appella . . . . . . . . . . . Sulpicius . . . . . . . . . . . et Oppillus † . . . . . . . . . . dici inferio . . . . . . . . . . ut Tiburte . . . . . . . . . . populo Tibur . . . . . . . . . . Tiburti, ide . . . . . . . . . . riorisque loc . . . . . . . . . . in XII.: “Nex . . . . . . . . . forti, sanati . . . . . . . . . . id est bonor . . . . . . . . . . qui et infe . . . . . . . . . . que sunt . . . . . . . . . . . cos Latinos . . . . . . . . . . egerit secundum . . . . . . . . . fra Ro-mam in c . . . . . . . . eos que sanati . . . . . . . . . præter opinio . . . . . . . . . . set, sana-visse . . q . . . . . . . . cisci potuisset, no . . . . . . . . Cincius l. II. de . . . . . . . . . . sulti. ne Valerius . . . . . . . . in XII. explanati . . . . . . . . men in eo libro, qu . . . . . . . volute

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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sana>ti, appellat<i quasi sanatae mentis. Ser.> Sulpicius <Rufus>

[et Opillus <Aurelius>] 919 ita existimant> dici inferio<ris superiori-

sque loce>, ut Tiburtes <supra Romam aliosque qui cum> populo

Tibur<ti> . . . . . . . . <in agro> Tiburti, idem . . . . . . . . . . . <in-

fe>riorisque loci . . . . . . . . . . . . . . . in XII (1, 5): ‘Nex<i>

. . . . . . . . . . . . . . . . . Forti Sanatique . . . . . . . . . . . . . .’, id est bo-

nor<um et qui defecerant sociorum. Sunt> qui et inf.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . que sunt; . . . . . . . . . . . . . . <pris>cos Latinos

. . . . . . . . . . . . . . . . egerit secundum . . . . . . . . . . . <in>fra Romam in

e . . . . . . eosqu[a]e sanati . . . . . . . . . . . . . . praeter opinion<em eos

debellavis>set sanavisse<t>q<ue, ac cum is pa>cisci potuisset no

. . . . . . . . . . . [Cincius lib. II de <Officio Iuriscon>sulti. Ne Valerius

<quidem Messala> in XII. Explanatio<ne rem expedivit. Hic

ta>men in eo libro, quem <de Dictis In>volute inscribi<t> forc<tos

sanatisque> duas gentis finitimas <fuisse censet de quibus l>egem

hanc scrip<tam esse qua centu>m ut id ius man<cipi nexique quod inscribit †, for . . . . . . . . duas gentis finitimas . . . . . . . . . . . . . . . gem hanc scrip- . . . . . . . m, ut id ius man- . . . . . . . . . s r. haberent. . . . . . . . . . ctos, et sana- . . . . . . . . . nificare exis- . . . . . . . . . atu. multi sunt, . . . . . . . . . acuit, displi- . . . . . . . . . t. sant † forcti, . . . . . . . . . nati insani »

918 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 229 [Servius, ad leges duodecim tabularum libri, frg. 2, ‘I, 5. Nex... forti sanati...’]. Cfr. H. FUNAIOLI, Grammaticae romanae fragmenta, p. 424 [frg. 9, incert. sed., con sola indicazione del luogo: ma vd. nt. seg.], e P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiusti-nianae reliquiae, I, pp. 34-35 [frg. 8, ex incert. libr.: « Ser. Su lp ic ius Rufus . . . . . . . . et Opillus Aurelius ita existimant dici inferioris superiorisque loci socios, ut Tiburtes supra Romam aliosque qui cum populo Tiburti coniuraverant in agro Ti-burti idemque in foedus et alios quosdam inferiorisque loci populos receperant. hinc in XII: ‘Nexi mancipiique cum p. R. idem forti sanatisque supra infraque ius esto’, id est bonorum et in fidem receptorum »].

919 Cfr. ancora H. FUNAIOLI, Grammaticae romanae fragmenta, pp. 90-91 [Au-rel. Opill., frg. 13, incert. sed.: « <Ser.> Su lp ic ius <Rufus>. . . . . . . . . . . . . . et Opillus <Aurelius ita existimant> dici inferio<ris superiorisque loci socios,> ut Tiburte<s supra Romam aliosque qui cum> populo Tibur<ti> coniuraverant in a-gro> Tiburti, ide<mque in foedus et alios quosdam infe>riorisque loc<i populos receperant> »].

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« SERVIUS RESPONDIT »

476

populu>s Romanus haberent, <neque alios quam fo>rctos et sa-

na<tes eam legem sig>nificare exis<timat hoc signific>atu. Multi

sunt, <quibus id quod his pl>acuit displi<ceat> . . . . . . . . . . ut sant

(sani ?) forcti . . . . . . . . . . . . . . <s>anati insani] » 920.

F.11. – Fest., s.v. ‘Sarcito’ [L. 430 → Gl. lat. IV, 416

Mü. 322 921; Thew. 474 922; Pal. Serv. 92] 923: « Sarcito in XII

(8, 9) Ser. Sulpicius ai t significare damnum solvito, praesta-

to » 924

920 Interessanti considerazioni in F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e

le XII Tavole, pp. 214 e ss. = ID., Lectio sua, I, pp. 560 e ss. (nonché ancora in F.M. D’IPPOLITO, Problemi storico-esegetici delle XII Tavole, p. 128 nt. 5), e cfr. anche V. GIUFFRÈ, s.v. ‘Mutuo (storia)’, p. 416 nt. 8 e O. DILIBERTO, Materiali per la pa-lingenesi delle XII Tavole, I, p. 25. Da ultimi, sul contenuto del lemma festino, vd. M. TALAMANCA, Le Dodici Tavole ed i negozi obbligatori, p. 341 e nt. 26 ed A. CORBINO — sul solo tratto « ius man<cipi nexique> » — come riportato nella ‘cro-naca’ di G. COSSA, Diritto commerciale romano: tra didattica e ricerca (Siena, 12-14 gennaio 2006), p. 380.

921 K.O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi, p. 322: « Sarcito in XII. Ser. Sulpicius ait significare damnum solvito, praestato ».

922 Anche il testo di Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei Festi, p. 474, coin-cide quasi alla lettera con quello del Lindsay ed è identico a quello dell’edizione mülleriana: « Sarcito in XII. Ser. Sulpicius ait significare damnum solvito, præsta-to ».

923 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 229 [Servius, ad leges duodecim tabularum libri, frg. 5, ‘VIII, 5. 10. 14’]. Cfr. H. FUNA-IOLI, Grammaticae romanae fragmenta, p. 424 [frg. 10, incert. sed.], nonché P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae, I, p. 35 [frg. 11, ex incert. libr.].

O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 334, ha optato, invece, per l’unificazione, sotto un unico frammento palingenetico (il frg. 92, infatti, diviso in due capoversi), delle vv. ‘Noxia’ [vd. appena supra, F .6 . ] e ‘Sarcito’.

924 Vd. supra, a proposito del lemma ‘Noxia’ [L. 180→ Gl. lat. IV, 291; Pal. Serv. 92], frg. F .6 . . Cfr., in tema, F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, p. 214 = ID., Lectio sua, I, p. 561 e F.M. D’IPPOLITO, Problemi stori-co-esegetici delle XII Tavole, p. 134 e nt. 16.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

477

ancora recentemente interpretato — e sarebbe difficile, allo stato del

testo, concludere in una maniera diversa — come lemma che include

una definizione serviana 925.

Due lemmi sono stati omessi, inoltre, sia da Lenel che da

Bremer 926.

Si tratta di

F.12. – Fest., s.v. ‘Sifus’ [L. 458 → Gl. lat. IV, 430 Mü.

340 927; ‘Si.fus †’, Thew. 506 928] 929: « . . . . . . . . . . . . . . . . . . cis ip-

sis, id quod Graece <s…fwn> . . . . . . . . . <le>ge rivalicia sic est

. . . . . . . . . . . . . . <‘rogant’>[a]e populum Ser. Sulpi<cio>

. . . . . . . . . . . . . . <mon>tani paganive si<fis aquam dividunt>o, do-

nec eam inter se <diviserint, praetori>s iudicatio esto’ ».

— ma non si scorge la ragione per sopprimere la parternità serviana

— e di

F.13. ? – Fest., s.v. ‘Saturno sacrificium’ [L. 462 → Gl.

925 Cfr., infatti, A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas

en derecho romano, p. 26, e, implicitamente, A. CORBINO, Danno, lesioni patrimo-niali e ‘lex Aquilia’, p. 609.

926 Vd. supra, a proposito del frg. F .3 . . 927 K.O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi, p. 340: « Sifus usurpatum est pro tub-is ip-

sis, id quod Grae-ce dicitur σίφων. In le-ge rivalicia sic est, quae lata fuit rogant-e populum Ser. Sulpi-cio . . . . . .: “Mon-tani, paganive, si-fis aquam dividunto: donec eam inter se diviserint, Praetori-s iudicatio esto” ».

928 Si veda, praticamente senza integrazioni, Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti

Pompei Festi, p. 512: « Si.fus † . . . . . . . . . . . . is ipsis, id quod Grece . . . . . . . . . . . . geri valicia † sic est, . . . . . . . . . . . . e populum Ser. Sulpi- . . . . . . . . . . . . . tani, pa-ganive, si- . . . . . . . . . . . . . . donec eam inter sê . . . . . . . . . . . s iudicatio esto”. ».

929 Il nome del giurista non è censito in Mü. 443 ad h.n. (Index II. scriptorum).

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lat. IV, 432-433 Mü. 343 930; ‘– fit’, Thew. 512 931]: « fit cap<ite

aperto> . . . . . . . . . . [Metellus pontifex <maximus Claudium augu-

rem iussis>set adesse[t], ut eum . . . . . . . . . . . . . . . . .] <Sul>pici Ser.

f. inaug<urationi adhiberet, Claudius excusa>ret se, sacra sibi

fam<iliaria esse Saturni, ob quae sibi sup>plicandum esset capite

<aperto; itaque si ad iussum ad>esset, futurum, ut cum ap<erto capi-

te inauguratio> facienda esset; pontif<ex eum multavit;> Claudius

provocavit <; populus negavit ius pon>tifici esset <(esse ut)> Clau-

dius, fl . . . . . . . . . . . . . Saturno sacra fecit rem ** » 932.

930 K.O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi, p. 343: « Saturno sacrificium fit cap-ite aperto. Eius autem sacro Metellus Pont. Cum ut Claudius augur iussisset adesset, ut eum tunc adhiberet Ser. Sul-pici Ser. F. inaug-urationi: ille autem excusa-ret se, sa-cra sibi fam-iliaria obstare, quibus supp-plicandum esset capite operto: Saturno au-tem esset futurum, ut cum ap-erto res sacra facienda esset: Pont-ifex illum multavit: Claudius provocavit. sed cum reconciliatus Pon-tifici esset Claudius, fa-miliae sacris peractis, Saturno sacra fecit rel-igione solutus ».

931 Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei Festi, p. 512: « Saturno sacrificium fit cap-i . . . . . . . . . . . . . Metellus pont †. . . . . . . . . . . . . . set adesset, ut eum . . . . . . . . . . . . . pici Ser. F. inaug . . . . . . . . . . . . . ret se, sacra sibi fam . . . . . . . . . . . . . plicandum esset capite . . . . . . . . . . . . esset futurum, ut cum ap . . . . . . . . . . . facienda esset: Pont . . . . . . . . . . . . . Claudius provocavit . . . . . . . . . . . . . tifici esset Claudius, fa . . . . . . . . . . . . Saturno sacra fecit rel . . . . . . . . . . ».

932 Vd. anche supra, frg. F .5 . ? . Cfr. W.-M- LINDSAY, Festus. De verborum significatu, pp. 432-433 e F. BONA, Ateio Capitone e Fest. 462, 28 L. <Saturno> sacrificium fit cap<ite> apert<o>, p. 318 = ID., Lectio sua, I, p. 484 (in particolare). Diversa la restituzione del Mommsen (in TH. MOMMSEN, Le droit public romain, III, p. 39 nt. 1), seguita, ad esempio, da P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, I, p. 221: cfr. Mü. 343 (che integra, sul punto di nostro interesse, con « Ser. Sulpici Ser. F. »): anche in questo caso il nome non è censito nell’Index II. scriptorum (Mü. 443 ad h.n.).

L. 462: fit cap<ite aperto> . . . . . . . . . . Metellus pontifex <maximus Claudium augurem iussis>set adesse[t], ut eum . . . . . . . . . . . . . . . . . <Sul>pici Ser. f. inaug<uratio . . . . . . . . . . . .]

-ret se, sacra sibi fam<iliaria. . . . . . . . sup>plicandum esset capite. . . . . . . . . . . . . esset, futurum, ut cum ap<erto capite >. . . . . . . facienda esset pontif<ex>. . . . . . . . . . . . Claudius provocavit. . . . . . . . . . . . . . .tifici esset Claudius, fl . . . . . . . . . . . . . Saturno sacra fecit rem . . . . . . . . . . ».

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

479

Questo secondo lemma festino riguarda un caso di inaugura-

tio, probabilmente di un pontefice 933, operata dall’augure, in cui vie-

ne menzionato « Servius Sulpicius f. », che, per coerenza con l’altro

lemma (ossia Fest., s.v. ‘Municeps’ [L. 126 → Gl. lat. IV, 262]) 934

deve (rectius: può) sciogliersi con ‘filius’, di modo che anche il pre-

sente, così come quello appena richiamato, può essere mantenuto nel

novero dei passi ascrivibili al giurista tardorepubblicano, ma con de-

cisa segnalazione di dubbio. Anche perché, a questo proposito, v’è

l’ipotesi interpretativa del Palmer (che riferisce l’episodio al 223

a.C., e che identifica l’indicato Servio Sulpicio con il flamen dialis

« Q. Sulpicius Ser. f. »), che non potrebbe essere fatto coincidere con

il maestro di Alfeno 935.

F.14. – Fest., s.v. ‘Vindiciae’ [L. 516 → Gl. lat. IV, 465

Mü. 376 936; Thew. 574 937; Pal. Serv. 96] 938: « Vindiciae appel-

933 Sul punto vd., da ultimo, L. FRANCHINI, Aspetti giuridici del pontificato ro-

mano. L’età di Publio Licinio Crasso (212-183 a.C.), p. 284 nt. 593 (per le motiva-zioni, e relative indicazioni bibliografiche, vd. op. cit., p. 285 nt. 596).

934 Vd. supra, frg. F .5 . . 935 Si veda la ricostruzione proposta da R.E.A. PALMER, The Deconstruction of

Mommsen on Festus 462/464 L., or the Hazards of Restoration, pp. 75 e ss. (p. 78 in particolare: « 1. <Saturno> | 2. sacrificium fit cap<ite aperto. L. Caeci-lius> | 3. Metellus pontifex <maximus ... Claudium iussit>- | 4. sed adesse[t] ut eum <flaminem Dialem loco Q. Sul>- | 5. pici Serv. f. inaug<uraret, cum Claudius excu-sa>- | 6. ret se, sacra sibi fam<iliaria esse Saturni ob quae sibi sup>- |7. plicandum esset capite <aperto, itaque si dicto ad>- | 8. esset, futurum ut cum ap<erto capite res divina> | 9. facienda esset, pontif<ex eum multavit>; | 10. Claudius provocavit <po-pulus ... ius non pon>- | 11. tifici esse <u>t Claudius fl<amen caperetur>. | 12. Sa-turno sacra fecit rem … »).

936 K.O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi, p. 376: « Vindiciae appellantur res eae, de quibus controversia: quod potius dicitur ius, quia † fit inter eos qui contendunt. Cato in ea quam scribit L. Furio † de aqua: . . . . . . . . . . . . . s. Praetores secundum populum vindicias dicunt”. . . . Lucilius: “Nemo hic vindicias, neque sacra neque numen † veretur.” de quo verbo Cincius sic ait: “Vindiciae olim dicebantur illae, quae ex fundo sumptae in ius adlatae erant.” at Ser. Sulpicius . . . . . iam singulariter formato vindiciam esse ait, . . . . qua de re controversia est, ab eo quod

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« SERVIUS RESPONDIT »

480

lantur res eae de quibus controversia est, quod potius dicitur ius quia

fit inter eos qui contendunt. [Cato in ea quam scribsit L. Furio de

aqua: . . . . . . s praetores secundum populum vindicias dicunt. <Et>

Lucilius: nemo hic vindicias neque sacra . . en (sacramenta ?) ve-

retur. De quo verbo Cincius sic ait: Vindiciae olim dicebantur illae

quae ex fundo sumptae in ius adlatae erant] 939. At Ser. Sulpicius

<hocet> iam singulariter formato vindiciam esse ait , <siq>ua de re

controversia est, ab eo quod vindicatur, [<ut in> XII (12, 3): Si

vindiciam falsam tulit, si velit is, <prae>tor arbitros tris dato; eorum

arbitrio <tum> fructus duplione damnum decideto] ? » 940. vindicatur, . . . . et in XII.: “Si vindiciam falsam tulit, si velit is † . . . . tor arbitros tres dato; eorum arbitrio . . fructus duplione damnum decidito.” ».

937 Cfr. Æ. THEWREWK DE PONOR, Sexti Pompei Festi, p. 574: « Vindiciæ appel-lantur res eæ, de quibus controversia est: quod potius dicitur ius quia † fit inter eos qui contendunt. M. Cato in ea quam scripsit L. Furio de aqua: . . . . . . . . . . . . . . . . s Prætores secundum populum vindicias dicunt”. . . . . Lucilius: “Nemo hic vindicias neque sacra . . . . . en † veretur”. De quo verbo Cincius sic ait: “Vindiciae olim dicebantur illæ, quæ ex fundo sumptæ in ius adlatæ erant.” At Ser. Sulpicius . . . . . iam singulariter formato vindiciam esse ait, . . . . ua de re controversia est, ab eo quod vindicatur, . . . . et in XII: “Si vindiciam falsam tulit, si velit is † . . . . . tor arbitros tris dato, eorum arbitrii † . . fructus duplione damnum decidito.” ».

938 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 229 [Servius, ad leges duodecim tabularum libri, frg. 4, ‘VI, 6 et XII, 3’]. Cfr. H. FUNAIOLI, Grammaticae romanae fragmenta, p. 425 [frg. 12, incert. sed.: « S ervius Su lp ic iu s <nomine et>iam singulariter formato vindiciam esse a i t <dictam q>ua de re controversia est, ab eo quod vindicatur <inde> et in XII [12, 4 S.]: ‘si vindiciam falsam tulit sive litis . . . <prae>tor arbitros tris dato, eorum arbitrio . . . fructus duplione damnum decideto’ »]; P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustiniani reliquiae, I, p. 34 [frg. 7, ex incert. libr.: « At Servius Su lp i c ius <nomine etiam singulariter formato vindiciam esse a i t dictam qua de re controversia est, ab eo, quod vindicatur. inde et in XII: ‘si vindiciam falsam tulit, si velit is, qui vicit, praetor arbitros tres dato. eorum arbitrio reus fructus duplione damnum decidito’ »].

939 Intorno all’atto del ‘vindiciam sumere’ e, quindi, in rapporto al tratto « Cato – adlatae erant », si veda, recentemente, L. FRANCHINI, La desuetudine delle XII Ta-vole nell’età arcaica, pp. 81-82 nt. 25.

940 Cfr., per contro, L. 516: « Vindiciae appellantur res eae, de quibus controver-sia est: quod potius dicitur ius quia fit inter eos qui contendunt. [ [M.] Cato in ea

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

481

Il brano, accolto da Lenel, è considerato, per contro, spurio

dal Bremer, nella sezione « si vindiciam falsam – in fin. », ma non vi

sono ragioni — così come pare aver dimostrato la dottrina posteriore,

rappresentata, in particolare, da Albanese e da Nicosia — per seguire

la sanzione dal secondo Autore tedesco 941.

Un nutrito drappello di testimonianze deriva, quindi, dalle

pagine di Aulo Gellio 942. Si tratta, per la precisione, di

quam scribsit L. Furio de aqua (6): . . . . . . s praetores secundum populum vindicias dicunt”. . . . Lucilius (1219): “Nemo hic vindicias neque sacra . . . en veretur”. De quo verbo Cincius sic ait: “Vindiciae olim dicebantur illae, quae ex fundo sumptae in ius adlatae erant” ]. At Ser . Su lp i c ius . . . . iam singulariter formato vindiciam esse a i t . . <q>ua de re controversia est, ab eo quod vindicatur . . . . [ XII (12, 4): “Si vindiciam falsam tulit, si velit is . . . tor arbitros tris dato; eo-rum arbitrio . . . fructus duplione damnum decideto” ] ? ».

La parte compresa tra il numerale ‘XII’ e la forma verbale ‘decideto’ è accolta da O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 334, ad h.l., mentre è respinta — in a-perta polemica con l’Autore appena ricordato — da BREMER, op. cit., p. 229 nt. 1 ad h.l.: di qui il dubbio da me espresso in proposito.

941 Sul testo vd. F. BONA, Il ‘de verborum significatu’ di Festo e le XII Tavole, pp. 214 e 221 = ID., Lectio sua, I, pp. 561 e 574 e F.M. D’IPPOLITO, Problemi stori-co-esegetici delle XII Tavole, p. 134 e nt. 17 (in particolare). E militano, infatti, a sfavore del giudizio bremeriano le riflessioni di B. ALBANESE, Il processo privato romano delle ‘legis actiones’, pp. 92 e ss. (p. 93 nt. 306, in particolare), nonché di G. NICOSIA, Il processo privato romano, II. La regolamentazione decemvirale, pp. 171 e ss., 200 e ss., e di R. SANTORO, XII Tab. 12.3, p. 5 e ss. Si vedano, inoltre, I. BUTI, Il ‘praetor’ e le formalità introduttive del processo formulare, pp. 35 e ss. (e p. 35 nt. 88 per ulteriore bibliografia confermativa intorno all’integrazione del muti-lo « . . . tor » [lin. 4, L. 518; Gl. Lat. IV, 465] con ‘prae>tor’); M. KASER, Zur ‘legis actio sacramento in rem’, p. 684 nt. 477; A. MAGDELAIN, De la royauté et du droit de Romulus à Sabin, p. 133 nt. 58; F. ZUCCOTTI, ‘Fruges fructusque’, p. 34 nt. 58 e, soprattutto, con qualche riserva circa l’effettivo ricordo serviano, 177 (e ss.) nt. 274 (ma il dato testuale a me pare, comunque, ineludibile), nonché, da ultimo, M. VAR-

VARO, ‘Manu(m) conserere’ e ‘omnibus verbis vindicare’, pp. 280 e ntt. 44-45 (in particolare), 281 nt. 50, 284 nt. 61 e 285 nt. 62. Per l’esegesi del testo (e per la sua complessiva rispondenza al pensiero di Servio), vd. M. SCARLATA-FAZIO, s.v. ‘Fal-sità e falso (parte storica)’, p. 507.

942 Ricordo che le testimonianze di Aul. Gell., N.A. 4.1 §§ 16-17 e 20, e N.A. 4.2.12, sono già state trattate, rispettivamente, nelle sezioni « E. » e « B ». di questo

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482

F.15. – Aul. Gell., N.A. 4.3.2 [= Pal. Serv. 2; Br. 4 de do-

tib.] 943: « Servius quoque Sulpicius in libro quem composuit ‘de do-

tibus’ tum primum cautiones rei uxoriae necessarias esse visas scrip-

sit, cum Spurius Carvilius, cui Ruga cognomentum fuit, vir nobilis,

divortium cum uxore fecit, quia liberi ex ea corporis vitio non gigne-

retur, anno urbis conditae quingentesimo vicesimo tertio [= 231 a.C.]

M. Atilio P. Valerio consulibus. [ Atque is Carvilius traditur uxorem,

quam dimisit, egregie dilexisse carissimamque morum eius gratia

habuisse, et <sed, ?> iurisiurandi religionem animo atque amori pra-

evertisse, quod iurare a censoribus coactus erat uxorem se liberum

quaerundum gratia habiturum ] ? ».

L’interessante aneddoto, raccolto dall’autore delle Noctes At-

ticae, è stato ritenuto interamente oggetto di una pagina serviana, e,

per questo, Lenel e Bremer lo hanno trascritto alla lettera 944.

Nessuno dei due autori tedeschi ha, tuttavia, segnalato l’esi-

stenza di un passo gemino 945 (seppure dotato di minore estensione),

nella stessa opera gelliana, che sembra essere stato ispirato da una

fonte differente. Alludo ad capitolo. Si rinvia ancora ad E. STOLFI, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, II. Contesti e pensiero, p. 10 nt. 19

943 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 321; F.P. BREMER, Iurispu-dentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 227-228 [Servius, De dotibus liber, frg. 4, ‘de rei uxoriae cautionibus’]. Cfr. P.H. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustiniane reliquiae 6, I, pp. 32-33 [frg. 1, de dotib.].

944 Ove si eccettui, soltanto, la superflua sostituzione dell’avverbio « quoque », che (col)lega, nel testo, il praenomen (Servius) al nomen (Sulpicius), con punti di sospensione: vd. LENEL, op. et loc. cit.; BREMER, op. cit., p. 227. Vd., ora, le osser-vazioni di I. PIRO, Unioni confarreate e ‘diffarreatio’. Presupposti e limiti di disso-lubilità delle unioni coniugali in età regia, pp. 275-276 (in ordine alla presenza, nel discorso gelliano, del tratto attribuito a Servio).

945 Vd. ora, però, opportunamente, U. BARTOCCI, ‘Spondebatur pecunia aut fi-lia’. Funzione ed efficacia arcaica del ‘dicere spondeo’, p. 104 nt. 7; R. ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano classico, p. 303 nt. 10 e P. GIUNTI, ‘Consors vitae’. Matrimonio e ripudio in Roma antica, pp. 109 e ss.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

483

Aul. Gell., N.A. 17.21.44: « Anno deinde post Romam condi-

tam quingentesimo undevicesimo [= 235 a.C.] Sp. Carvilius Ruga

primus Romae de amicorum sententia divortium cum uxore fecit,

quod sterila esset iurassetque apud censores uxorem se liberum

quaerundorum causa habere ».

La lettura sinottica dei due brani potrebbe condurre a con-

cludere che il contenuto sia, sostanzialmente, identico: descrizione

del fatto (divorzio di Carvilio Ruga dalla moglie) e sua motivazione

(sterilità di questa e promessa solenne, fatta presso i censori, di pren-

dere moglie a fini esclusivamente generativi, causa del divorzio stes-

so).

Ciò che muta è l’articolazione espositiva dei fatti (maggiore

in N.A. 4.3.2; minore in N.A. 17.21.44) e, soprattutto, la datazione

dell’episodio, fissata nell’anno 231 a.C., nella prima narrazione

coinvolgente Servio, e, invece, nel 235 a.C., nella seconda versione.

Questo sarebbe la conseguenza del fatto che N.A. 17.21.44

trova in Varrone e in Cornelio Nepote le sue fonti 946; mentre, nel

brano parallelo — ossia in N.A. 4.3.2, di cui qui si discute — la deri-

vazione è, palesemente, serviana.

Tuttavia, sulla base della differenza cronologica segnalata, e

di una più attenta lettura a confronto dei due brani, credo non sia az-

zardato ipotizzare che Aulo Gellio si sia servito, in N.A. 4.3.2, di en-

trambe le tradizioni a sua disposizione.

Nella prima parte (« Servius – M. Atilio P. Valerio consuli-

bus »), infatti, la traccia (in)seguita sarebbe quella serviana, come

dimostrano sia l’espressa mezione del giurista, sia la datazione del

231 a.C., traccia in cui è illustrato il fatto puro (divorzio causato dal-

la sterilità della donna).

946 Così, espressamente, F. CAVAZZA, Aulo Gellio. Le Notti Attiche, libri IV-V, p.

145 nt. 2 (ivi, con bibliografia).

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484

Alla ripresa del testo (« Atque – in fin. »), luogo della men-

zione della causa autentica (ultima) del divorzio — ossia dell’impos-

sibilità di Carvilio di sottrarsi all’impegno contratto avanti ai censori,

nonostante l’affetto per la moglie, dovuto alle indubbie qualità mora-

li della stessa — Aulo Gellio sembrerebbe rifarsi ad una diversa tra-

dizione (così come denuncia, in qualche modo, la sua prosa: « atque

is Carvilius traditur..., et rell. », che non pare derivare da Servio, ma

da altro fons). E, infatti, è proprio questo il tema centrale del paralle-

lo di N.A. 17.21.44, che, nella prima sede (N.A. 4.3.2), potrebbe esse-

re stato sintetizzato da Gellio 947.

Per questa ragioni, prendendo le distanze da Lenel e da Bre-

mer, si è preferito indicare (seppure con segnalazione di un legittimo

dubbio) la continuazione del brano come non necessariamente ser-

viana.

F.16. – Aul. Gell., N.A. 4.4 [= Pal. Serv. 3; Br. 1 de

dotib.] 948: « Quid Servius Sulpicius in libro, qui est ‘de dotibus’,

scripserit de iure atque more veterum sponsaliorum. – 1. Sponsalia in

ea parte Italiae, quae Latium appellatur, hoc more atque iure solita

fieri scripsit Servius Sulpicius in libro, quem scripsit ‘de dotibus’. –

2. ‘Qui uxorem’ inquit ‘ducturus erat, ab eo, unde ducenda erat,

stipulabatur eam in matrimonium datum iri; qui ducturus erat, itidem

spondebat. Is contractus stipulationum sponsionumque dicebatur

‘sponsalia’. Tunc, quae promissa erat, ‘sponsa’ appellabatur, qui spo-

947 Per i profili strettamente giuridici, si vedano, in particolare, l’ampia ed esau-

stiva pagina di E. VOLTERRA, s.v. ‘Matrimonio (diritto romano)’, pp. 739 e ss. nt. 30 (tuttavia, con datazione univoca dell’episodio al 523 a.C.: ivi, p. 739 nt. 30) nonché PIRO, op. cit., pp. 274 e ss.

948 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 226-227 [Servius, frg. 1 de dotibus liber, ‘de sponsalibus’]. Cfr. H. FUNAIOLI, Grammati-cae romanae fragmenta, p. 422 [frg. 2, de sacr. detest.]; sul punto vd., da ultima, A.S. SCARCELLA, Libertà matrimoniale e ‘stipulatio poenae’, p. 148 e nt. 4.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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ponderat ducturum, ‘sponsus’ 949. Sed si post eas stipulationis uxor

non dabatur aut non ducebatur, qui stipulabatur, ex sponsu agebat.

Iudices cognoscebant. Iudex quamobrem 950 data acceptave non esset

uxor quaerebat. Si nihil iustae causae videbatur, litem pecunia aesti-

mabat, quantique interfuerat eam uxorem accipi aut dari, eum, qui

spoponderat, <ei> qui stipulatus erat, condemnabat’. – 3. Hoc ius

sponsaliorum observatum dicit Servius ad id tempus, quo civitas uni-

verso Latio lege Iulia data est. [– 4. Haec eadem Neratius scripsit in

libro quem ‘de nuptiis’ composuit] » 951.

Il brano può essere attribuito nella modalità segnalata, seb-

bene con l’avvertenza che si tratta di « un testo di Servio, restituito

non senza qualche oscurità da Gellio » 952, e tratto dall’opera ‘de do-

949 Per i §§ 1-2 si veda anche H. FUNAIOLI, Grammaticae romanae fragmenta, p. 422 [frg. 3, de dot.].

950 Per la probabile paternità serviana dell’avverbio vd. supra, frg. F .4 . . 951 Per i §§ 1-4, cfr. P.H. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustiniane reliquiae 6, I,

pp. 33-34 [frg. 2, de dotib.]. 952 Cfr. A. SCHIAVONE, Studi sulle logiche dei giuristi romani, p(p). 53 (e ss., e

vd. letteratura cit. a p. 56 nt. 36); vd. anche ID., Ius. L’invenzione del diritto in Occi-dente, p. 453 nt. 66, nonché, già, B. ALBANESE, Brevi studi di diritto romano, VIII. ‘Verbis obligatio’ e ‘sponsalia’ in Varrone, p. 148, il quale giudica attendibile « la testimonianza serviana, ad onta dei guasti testuali innegabili » (ivi, alle pp. 145 e ss., si segnala la sottile esegesi del passo). Contra, tuttavia, P. CORNIOLEY, Les origines de la ‘sponsio’, p. 66, secondo cui « le fond du problème a été apporté par Servius Sulpicius d’un lointain passé, mais le ‘contractus’ a été amené par Aulu-Gelle », ra-gione per cui, al nucleo serviano, si dovrebbe considerata aggiunta — meglio: so-vrapposta in sostituzione amplificativa — la scrittura gelliana (che, qui, se capisco bene il ragionamento dell’Autore, opererebbe una sorta di ‘autenticazione’ surretti-zia del proprio pensiero attraverso l’uso dell’autorità di Servio, attribuendo a costui — expressis verbis — ciò che, invece, è Gellio a voler sostenere): sul punto vd. SCARCELLA, op. cit., p. 149 nt. 6 ed U. BARTOCCI, ‘Spondebatur pecunia aut filia’. Funzione ed efficacia arcaica del ‘dicere spondeo’, p. 29 nt. 19 (che registrano, sen-za accoglierle, le tesi dello studioso ora menzionato, e le osservazioni complessive dei quali [a cui si uniscano quelle di A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, pp. 229 e ss., che confermano il pensiero espresso in ID., Studi sulle logi-che dei giuristi romani, p. 52 e ss.] mi pare consentano di superare la stringata — e,

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tibus’ del nostro giurista 953.

F.17. – Aul. Gell., N.A. 7.12.1 e 4 [= Pal. Serv. 9] 954 :

« Quod neque ‘testamentum’ sicut Servius Sulpicius existimavit,

[neque ‘sacellum’ sicuti C. Trebatius,] duplicia verba sunt, sed a te-

statione productum [alterum, <alterum> a sacro imminutum]. – 1.

Servius Sulpicius [ iureconsultus vir aetatis suae doctissimus, in libro

de sacris detestandis secundo qua ratione adductus ] ‘testamentum’

tutto considerato, opinabile — motivazione addotta dal Cornioley, fondata su un as-sunto di tecnica psicologica che pone come conclusione proprio il dato che dovrebbe essere oggetto di dimostrazione). Per i profili più strettamente relativi al ‘ius sponsa-liorum’ (con indicazioni di dottrina) si rinvia a P. FERRETTI, Le donazioni tra findan-zati nel diritto romano, pp. 2 e ss. (2 nt. 7); a R. ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano classico, pp. 47 e ss., nonché a P. GIUNTI, ‘Consors vitae’. Matrimonio e ripudio in Roma antica, pp. 445 e ss.

953 Vd., in particolare, M.E. FERNÁNDEZ BAQUERO, ‘Conubium y sponsalia’: re-flexiones sobre la concepción originaria del matrimonio romano, pp. 210 e ss.; A.S. SCARCELLA, Libertà matrimoniale e ‘stipulatio poenae’, pp. 148 e ss.; U. BARTOCCI, ‘Spondebatur pecunia aut filia’, pp. 26 e ss. (28 e ss., sul punto), a cui si deve, tra altro, una minuziosa analisi delle posizioni dottrinali avanzate in merito al testo gel-liano, da cui trarre — ai nostri fini — la conferma della autenticità del dettato (oltre, evidentemente, qualche problema di trasmissione del testo; una sola breve annota-zione mi pare, tuttavia, opportuna: in op. cit., p. 30, l’Autore afferma, in maniera a mio parere un poco criptica, che il passo di Gellio « per un fortunato caso di tradi-zione indiretta, riferisce il pensiero di un giurista (Servio Sulpicio Rufo) »; va detto, a questo riguardo, che se con queste espressioni ci si riferisce alle Noctes Atticae, non si tratta dell’unica menzione, nell’opera, di Servio — si vedano, infatti, i testi qui censiti — da cui si possa desumere [anche direttamente] il dictum serviano; o ancora: se il giudizio si riferisce alle citazioni di Servio — sic et simpliciter — è op-portuno ricordare che tutte le testimonianze serviane sono di tradizione testuale me-diata; credo, tuttavia, che il Bartocci volesse correttamente proporre la prima ipotesi, ed è quindi nel giusto quanto sostiene, con la correzione che qui è parso opportuno aggiungere, ossia in termini di estensione della pagina serviana); sul testo vd. anche C. CASCIONE, Consensus. Problemi di origine, tutela processuale, prospettive siste-matiche, p. 414 nt. 57.

954 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, col. 324, ad h.l., e F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 225 [Servius, de sacris dete-standis libri, frg. s.n., ‘liber II’].

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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verbum esse duplex scripserit [, non reperio;] – 2. nam compositum

esse dixit a mentis contestatione 955. – 3. [Qui igitur ‘calciamentum’,

quid ‘paludamentum’, quid ‘pavimentum’, quid ‘vestimentum’, quid

alia mille per huiuscemodi formam producta, etiamne ista omnia

composita dicemus? – 4. Obrepsisse autem videtur Servio, vel si quis

est, qui id prior dixit, falsa quidem, sed non abhorrens neque incon-

cinna quasi mentis quaedam in hoc vacabulo significatio, sicut her-

cle C. quoque Trebatio eadem concinnitas obrepsit] » 956.

Stranamente (e senza giustificazione) il Lenel e il Bremer 957

hanno optato per la relazione del solo § 1 di Aul. Gell., N.A. 7.12,

mentre non possono essere omessi né il summarium al capitolo, né il

§ 2 — ed è, parimenti, opportuno indicare anche il contenuto dei §§

3 e 4 che riferiscono il giudizio dell’autore antico in merito alla defi-

nizione serviana 958 (o pseudo-serviana, a tenore delle parole dello

stesso Gellio, in § 4: « ... Servi[us], vel si quis est, qui id prior

dixit ») 959.

A conclusione di questo censimento, va ricordato il passo di

F.18. – Macrob., Sat. 3.3.8 [Br. 3 incert. fragm.] 960 :

« Servius Sulpicius religionem esse dictam tradidit , quae prop-

ter sanctitatem aliquam remota ac seposita a nobis sit, quasi a relin-

955 Per i §§ 1-2, cfr. P.H. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae 6,

I, pp. 33-34 [frg. 3, de sacr. detest.]. 956 Cfr. G.M. FACCHETTI, All’origine del ‘testamentum’, pp. 230-231. 957 Cfr. LENEL, op. et loc. ult. cit.; BREMER, op. et loc. ult. cit. 958 Vd. anche A. GUZMÁN BRITO, Historia de la interpretación de las normas en

derecho romano, p. 126 (e nt. 258). 959 Vd. anche T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 526. 960 Cfr. H. FUNAIOLI, Grammaticae romanae fragmenta, p. 425 [frg. 14, dubia],

e cfr. P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae, I, p. 35 [frg. 14, ex incert. libr.].

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quendo dicta, ut a carendo caerimonia ».

Nuovamente omessa da Lenel, la testimonianza si ritrova,

per contro, nella iurisprudentia antehadriana di Bremer 961, e par-

rebbe riportare in forma pressoché integrale quanto ‘traditus’ — evi-

dentemente da altri — da Servio.

Da notare, tuttavia, che Aul. Gell., N.A. 4.9.8 962 attribuisce

tale malfida definizione a Masurio Sabino 963.

L’una paternità non esclude, tuttavia, la precedente, o, me-

glio, non esclude la possibilità che entrambi i giuristi possano essersi

rifatti ad una definizione più antica (o che Sabino abbia, a sua volta,

trasmesso quella serviana): non v’è dubbio, infatti, che il giurista tar-

dorepubblicano ‘tradidit’ ciò che, per religio, ‘dictum est’.

8. Le integrazioni bremeriane

Prima di procedere a sistemare i risultati dell’analisi prece-

dentemente condotta in ‘tavole sinottiche e di sintesi’ 964, è necessa-

rio che si torni al punto delle scelte operate del Bremer. Egli, infatti,

come anticipato più sopra 965, inseriva all’interno della ‘sezione’ de-

961 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 241

[Servius, plane incertae sedis fragmenta, frg. 3, ‘de locis religiosis’]. Cfr. anche HU-SCHKE, op. cit., p. 93 (che ha restituito a Servio anche il passo di Varro, De ling. Lat. 5.6.40: vd. supra, a proposito del frg. F .3 . , e ntt. 861-863).

962 Aul. Gell., N.H. 4.9.8: « Masurius autem Sabinus in commentariis, quos de ‘indigenis’ composuit: ‘Religiosum’ inquit ‘est, quod propter sanctitatem aliquam remotum ac sepositum a nobis est; verbum a ‘relinquendo’ dictum, tamquam ‘caeri-moniae’ a ‘carendo’ ».

963 Sulla stessa definizione di ‘religio’ si veda anche Non. Marc., De compend. doctr., L. 696.

964 Vd. infra, § 10. 965 Vd. supra, § 1.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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dicata a Servio 966 numerosi testi tratti dalla produzione dei suoi au-

ditores.

Questa particolarità richiede una riflessione analitica.

Per comodità di lettura, i testi verranno offerti secondo la se-

quenza del Digesto mentre i dati riportati all’interno delle parentesi

quadre si riferiscono, da un lato, a quella ricostruttiva leneliana non-

ché, dall’altro, a quella del Bremer (che, dove non diversamente in-

dicato, rimanda, rispettivamente, ai libri digestorum alfeniani nonché

a quelli responsorum serviani).

Si consideri attentamente il fatto che le citazioni testuali che

seguono (eventualmente) l’indicazione dei vari passi censiti dal Bre-

mer corrispondono non già a parti delle testimonianze richiamate,

bensì alle annotazioni allegate dallo stesso Autore tedesco (inserite,

ovviamente, nella sezione dedicata a Servio).

Α. Risultano essere prive di giustificazione attributiva le se-

guenti testimonianze:

Alf. V dig. ab anon. epit., D. 4.6.42 [= Pal. Alf. *22; Br.

Alf. 98, ma senza rinvio esplicito 967 a → Serv. 145] 968;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 7.1.11 [= Pal. Alf. 41; Br. Alf.

26 → Serv. 117] 969;

Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 8.3.30 [= Pal. Alf. 61; Br.

Alf. 70, ma senza rinvio a → Serv. 102] 970;

966 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 139 e ss.

967 Questo significa che, in alcuni casi (abbastanza frequenti), il passo alfeniano è stato replicato nella sezione dedicata a Servio, ma in coda al medesimo non si rin-viene il rimando opportuno (indicato, e.g., come « cf. Servii responsa 3. » [etc.]: cfr. ivi, p. 292, ad Alf. II dig. a Paul. epit., D. 28.1.25).

968 Cfr., rispettivamente, ID., op. cit., pp. 322 e 212. 969 Cfr. ID., op. cit., pp. 299 e 204.

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Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 10.4.19 [= Pal. Alf. *66; Br.

Alf. 51 → 81] 971;

Alf. V dig. a Paul. epit., D. 12.6.36 [= Pal. Alf. 69; Br. Alf.

94 → Serv. 141] 972;

Alf. V dig. a Paul. epit., D. 13.7.30 [= Pal. Alf. 70; Br. Alf.

64 → Serv. 96] 973;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 14.2.7 [= Pal. Alf. 55; Br. Alf.

87 → Serv. 125] 974;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 15.3.16 [= Pal. Alf. 11; Br.

Alf. 93 → Serv. 112] 975;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 17.2.71 pr.-1 [= Pal. Alf. 51;

Br. Alf. 88-89 → Serv. 128-129] 976;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.2.30 [scl.: pr. 977 = Pal. Alf.

54; Br. Alf. 83 → Serv. 119a] 978;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.2.30.1 [= Pal. Alf. 54; Br.

Alf. 84 → Serv. 122] 979;

970 Cfr. ID., op. cit., pp. 314 e 199. 971 Cfr. ID., op. cit., pp. 308 (dove il rimando è erroneamente operato a Serv. 80)

e 192. 972 Cfr. ID., op. cit., pp. 320-321 (in cui il Bremer rimanda, per errore, addirittura

a Serv. 134) e 212. 973 Cfr. ID., op. cit., pp. 312 (senza rimando a frg. Serv. 96) e 197 (ivi, una anno-

tazione a carattere storico-geografico, non rileva ai fini della presente rassegna). 974 Cfr. ID., op. cit., pp. 318 (ivi, il passo è indicato, per svista, come D. 19.2.7) e

206. 975 Cfr. ID., op. cit., pp. 320 e 201-202. 976 Cfr. ID., op. cit., rispettivamente, pp. 318-319 e 207. 977 L’indicazione che si tratta del principium di D. 19.2.30 manca in BREMER,

op. cit., p. 317, ma è presente a p. 204 (vd. infra, nt. seg.). Questa è un’altra partico-larità del censimento bremeriano: talora fanno difetto (anche) le precise indicazioni del numero di paragrafo relativo ad un passo del Digesto, e, soprattutto, quella del suo principium, appunto, ma questo, come nel presente caso, non pare essere frutto di una deliberata opzione dell’Autore, bensì di semplici sviste. In altre ipotesi, e in generale infatti, la connotazione « pr. » (o del preciso paragrafo) è presente.

978 Cfr. ID., op. cit., pp. 317 (con fallace rimando a Serv. 118) e 204.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.2.30.2 [= Pal. Alf. 54; Br.

Alf. 85 → Serv. 136] 980;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.2.30.3 [= Pal. Alf. 54; Br.

Alf. 86 → Serv. 123] 981;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.2.30.4 [= Pal. Alf. 54; Br.

Alf. 82 → Serv. 118] 982;

Alf. V dig. a Paul. epit., D. 19.2.31 [= Pal. Alf. 71; Br. Alf.

104 → Serv. 135] 983;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.5.23 [= Pal. Alf. 56; Br.

Alf. 91 → Serv. 133] 984;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 21.2.44 [= Pal. 45; Br. Alf. 28

→ Serv. 45] 985;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 24.1.38 [adde: pr. = Pal. Alf.

59; Br. Alf. 40 → Serv. 69] 986;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 32.60.3 [= Pal. Alf. 39; Br. Alf.

6 → Serv. 17] 987;

Alf. VIII dig. a Paul. epit., D. 32.61 [= Pal. Alf. 73; Br.

Alf. 16 → Serv. 38] 988;

979 Cfr. ID., op. cit., pp. 317 e 205. A proposito di questo brano, si menziona

« CIL. » V, 376, che, tuttavia, non aggiunge nulla di positivo circa il problema della sua effettiva paternità (vd. ivi, p. 205).

980 Cfr. ID., op. cit., pp. 317 e 210. 981 Cfr. ID., op. cit., pp. 318 e 206. 982 Cfr. ID., op. cit., pp. 316 e 204. 983 Cfr. ID., op. cit., pp. 324-325 e 209-210. 984 Cfr. ID., op. cit., pp. 319 e 208 (in quest’ultimo luogo, il rinvio è, per errore,

operato a Br. Serv. 132). 985 Cfr. ID., op. cit., pp. 300 e 182. 986 Per quanto riguarda il § 1 di D. 24.1.38 si veda appena supra, nel testo. Per il

citato principium (la cui indicazione è omessa da Bremer in entrambe le sedi, alfe-niana e serviana), cfr. ID, op. cit., pp. 304 e 188-189.

987 Cfr. ID., op. cit., pp. 294 e 172. 988 Cfr. ID., op. cit., pp. 297 e 180.

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Alf. II dig. a Paul. epit., D. 33.1.22 [= Pal. Alf. 35; Br. Alf.

24 → Serv. 50] 989;

Alf. VIII dig. a Paul. epit., D. 33.2.40 [= Pal. Alf. 74; Br.

Alf. 27 → Serv. 27] 990;

Alf. V dig. ab anon. epit., D. 33.8.14 [= Pal. Alf. 20; Br.

Alf. 32 → Serv. 13] 991;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 33.8.15 [= Pal. Alf. 46; Br. Alf.

33 → Serv. 14] 992;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 35.1.28 [adde: pr. = Pal. Alf.

36; Br. Alf. 20 → Serv. 12] 993;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 35.1.28.1 [= Pal. Alf. 36; Br.

Alf. 19 → Serv. 41] 994;

Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 38.1.26 [adde: pr.-1 = Pal.

Alf. 26; Br. Alf. 42 → Serv. 61] 995;

A proposito, poi, dei paragrafi che costituiscono D. 39.2.43,

si può inferire che Bremer li abbia riprodotti anche nella sezione de-

dicata a Servio in virtù della presenza di Ulp. LXXXI ad ed.,

D. 39.2.24.2 [= Pal. Ulp. 1753; Br. Serv. 84b] 996, in cui il giurista è

evocato espressamente; presenta, inoltre, tematica affine e, pertanto,

credo abbia assunto una particolare forza attrattiva e unificante agli

989 Cfr. ID., op. cit., pp. 299 e 183. Il brano è già stato richiamato supra, nt. 14,

per quanto attiene profili di critica interpolazionistica. 990 Cfr. ID., op. cit., pp. 300 e 175. 991 Cfr. ID., op. cit., pp. 301 e 171. 992 Cfr. ID., op. cit., pp. 301-302 e 171. 993 Cfr. ID., op. cit., pp. 298 e 171 (peraltro in entrambi i luoghi manca

l’indicazione espressa del fatto che si tratta del principium di D. 35.1.28). 994 Cfr. ID., op. cit., pp. 298 e 181. 995 Cfr. ID., op. cit., pp. 305 e 186-187: in entrambi i luoghi, l’indicazione che si

tratta del principium e del § 1 di D. 38.1.26 è segnalata soltanto implicitamente dalla scansione del frammento in due capoversi.

996 Cfr. ID., op. cit., p. 194.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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occhi dell’Autore tedesco. Questo potrebbe anche non essere privo di

qualche fondamento 997.

Si vedano, infatti,

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 39.2.43 pr. 998 [= Pal. Alf. 5;

Br. Alf. 52 → Serv. 84a] 999, che va considerato in questa sede, nono-

stante la presenza di una motivazione — per così dire — ‘obliqua’,

ma introdotta nella sezione alfeniana (e che non sembra coinvolgere,

pertanto, problemi di attribuzione ‘diretta’ a Servio) 1000;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 39.2.43.1 [= Pal. Alf. 5; Br.

Alf. 53 → Serv. 85] 1001;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 39.2.43.2 [= Pal. Alf. 5; Br.

Alf. 54 → Serv. 86] 1002;

Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 39.3.24 pr.-2 [= Pal. Alf. 64;

Br. 55 → Serv. 86] 1003;

Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 39.3.24.3 [= Pal. Alf. 64; Br.

Alf. ? → Serv. 74: ivi — oltre alla prospettazione di sospetti di natu-

997 Di queste testimonianze si tratterà, infatti, nel corso del cap. III (tomo II), de-

dicato allo studio delle ‘tematiche’ serviane all’interno della produzione degli audi-tores Servii.

998 A differenza di quella alfeniana, nella sezione serviana manca l’indicazione del fatto che si tratta del ‘principium’. Vd. infra, nt. seg.

999 Cfr. ID., op. cit., pp. 308 e 193-194. 1000 Vd. ID., op. cit., pp. 308-309: « Praetoria stipulatio Hadriani tempore haec

fere fuit (Lenel Edict p. 433) », et rell. 1001 Cfr. ID., op. cit., pp. 309 e 194: nel primo luogo menzionato si lègge un ri-

mando a « Serv. responsa 84 ». 1002 Cfr. ID., op. cit., pp. 309 e 194: come nel caso precedente, il rinvio — nuo-

vamente ingannevole — è a « Serv. responsa 85 ». 1003 Cfr. ID., op. cit., pp. 309-310 e 192-193. In entrambe le sedi è assente la di-

stinzione dei §§ (pr.-2), desumibile esclusivamente dall’accorgimento grafico dei capoversi. Peraltro, nella sezione alfeniana, il rinvio è operato al frg. Serv. 81, al po-sto dell’esatto frg. 82 (p. 310).

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494

ra testuale — si afferma: « An Servii responsum subsit, incertus

sum »] 1004;

Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 39.4.15 [= Pal. Alf. 28; Br.

Alf. 101 → Serv. 148] 1005;

Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 40.1.7 [= Pal. Alf. 25; Br.

Alf. 35 → Serv. 16] 1006;

Alf. I dig. a Paul. epit., D. 41.3.34 [= Pal. Alf. 32; Br. Alf.

48 → Serv. 78] 1007;

Alf. VI dig. a Paul. epit., D. 42.1.62 [= Pal. Alf. 72; Br.

Alf. 96 → Serv. 143] 1008;

infine, il già richiamato 1009 passo di

Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 50.16.205 [= Pal. Alf. 62; Br.

Alf. ? → Serv. 103] 1010, anch’esso privo di ogni annotazione che

possa spingere per l’attribuibilità a Servio.

1004 Cfr. ID., op. cit., p. 191. Come già osservato appena supra, la testimonianza

non è stata registrata all’interno della sezione alfeniana. 1005 Cfr. ID., op. cit., pp. 323-324 e 216. Il frg. Alf. 101 non rimanda, peraltro,

come si sarebbe dovuto fare, al frg. Serv. 148. 1006 Cfr. ID., op. cit., pp. 302 e 172. 1007 Cfr. ID., op. cit., pp. 307 (in cui, ancora una volta, difetta il rinvio alla sede

serviana: vd. anche, espressamente e altrettanto severamente, W. KALB, Rec. a Bre-mer, op. cit., col. 203: « durch einfachen Verweis „cf. Serv. resp. 78“ (der sich nach del Texte bald findet, bald fehlt) hätte mindestens wieder ein Druckbogen erspart werden können ») e 191.

1008 Cfr. ID., op. cit., pp. 321 (con erroneo rinvio a frg. Serv. 142) e 212. Da no-tare che, per quanto concerne la materia trattata nel frammento in questione, O. LE-

NEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 52 ad h.l., segnalava un dubbio assoluto, prefe-rendo ad ogni ipotesi di rubrica del libro VI (Alf.) dig. a Paul. epit. (che si esaurisce in questo solo testo), con il doppio punto di domanda; per contro, il BREMER, op. et loc. cit., suggerisce come possibile thema il seguente: « de iudice et arbitro ».

1009 Vd. supra, in questo stesso §. 1010 Vd. ID., op. cit., p. 199.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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A questi passi, va unito — ratione materiae — anche quello

di un giurista diverso da Alfeno, ossia

Pomp. IX ad Sab., D. 18.1.18.1 [= Pal. Pomp. 547 → Alf.

79; Br. Alf. 68 → Serv. 101] 1011.

Si tratta — come appare evidente — di illazioni dettate dalla

convinzione bremeriana (già evidenziata) che l’opera di Alfeno costi-

tuisse, in parte preponderante, il veicolo di conoscenza del pensiero

serviano 1012. In assenza di ulteriori verifiche, allo stato dei fatti, tali

illazioni non possono essere meccanicamente accolte 1013.

1011 Cfr. ID., op. cit., pp. 313-314 (senza rinvio al corrispondente luogo serviano) e 199 (e con erronea menzione del frg. leneliano di Pomponio: 545 che tiene il posto dell’esatto 547).

1012 Ciononostante, e senza che sia possibile comprendere le ragioni delle scelte (se non per ipotetiche deduzioni), il Bremer ha optato per l’esclusione dal censimen-to delle testimonianze attribuibili (e proprio secondo il modello dallo stesso applica-to) a Servio i seguenti passi di Alfeno: Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52 [= Pal. Alf. 7]; ibid., D. 10.3.26 [= Pal. Alf. 8]; ibid., D. 11.3.16 [= Pal. Alf. 10]; ibid., D. 50.16.202 [= Pal. Alf. *16]; Alf. V dig. ab anon. epit., D. 4.6.42 [= Pal. Alf. *22]; Alf. VI dig. ab anon. epit., D. 6.1.57 [= Pal. Alf. 24]; Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 19.2.29 [= Pal. Alf. 27]; ibid., D. 4.8.50 [= Pal. Alf. 30]; Alf. II dig. a Paul. epit., D. 32.60.1 [= Pal. Alf. 39]; ibid., D.8.3.29 [= Pal. Alf. 43]; ibid., D. 33.7.16.1-2 [= Pal. Alf. 44]; Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 18.1.40 [= Pal. Alf. 62] (ma è presente, invece, D. 50.16.205 che, a modo di vedere di O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 50, costituisce, con il precedente, un unitario frammento palingenetico, ossia il frg. Alf. 62).

E dalla relazione di altri giuristi restano emarginati: Ulp. XVI ad ed., D. 6.1.5 [= Pal. Ulp. 549 → Alf. 75] (e cfr. Pal. Alf. 84, come opportunamente indicato da LENEL, op. cit., col. 53 nt. 2); Ulp. XVIII ad ed., D. 9.2.29.4 [= Pal. Ulp. 625 → Pal. Alf. 77] (e cfr. Pal. Alf. 7-9, indicati da LENEL, op. cit., col. 53 nt. 3, esclusi da Bre-mer nel censimento serviano, salvo Pal. Alf. 9 = D. 44.7.20, che è, invece, ricompre-so); Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.12.2 [= Pal. Ulp. 2609 → Alf. 83] (ma vd. LENEL, op. cit., col. 54 nt. 1, che rimanda a Pal. Alf. 44, coerente, e opportunamente) sottratto anche da Bremer dal novero dei passi riconducibili a Servio, modo di agire, questo, replicato per Ulp. LIII ad ed., D. 39.2.9.2 [= Pal. Ulp. 1272 → Alf. 84] (vd. LENEL, op. cit., col. 54 nt. 2, con rimando a Pal. Alf. 75, escluso anche da Bremer), metodo contraddetto dall’Autore della iurisprudentia antehadriana, però, a riguardo di Paul. XLIX ad ed., D. 39.3.2.5 [= Pal. Paul. 632 → Alf. 85]: LENEL, op. cit., col. 54 nt. 3

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Β.α. Una seconda categoria di testimonianze è rappresentata

da quelle per le quali il Bremer fornisce una congettura in punto at-

tribuibilità a Servio.

In alcune ipotesi, in modo esplicito, come in

Alf. III dig. ab anon. epit., D. 5.4.9 [= Pal. Alf. 48; Br. Alf.

38 → Serv. 60 ? 1014, con annotazione: « An Servii responsum sit, in

dubio relinquo »] 1015;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 8.2.16 [= Pal. Alf. 42; Br. Alf.

59 → Serv. 92 ?: « An Servii responsum subsit, dubium est »] 1016;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 8.5.17.1 [= Pal. Alf. 4; Br.

Alf. 58 → Serv. 90 ?: « inter hos iurisperitos fortasse etiam Servius

fuit »] 1017;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.1.5 [= Pal. Alf. 6; Br. Alf.

110 → Serv. 138 ?: « Fortasse ‘respondit’ scribendum est », sulla

rinvia, esattamente, a Pal. Alf. 64, che Bremer ha, per contro, attribuito anche alla sezione serviana (vd. infra, nel testo); alternata l’azione per quanto concerne Ulp. LV ad ed., D. 40.12.10 [= Pal. Ulp. 1296 → Alf. 86], per il quale LENEL, op. cit., col. 54 nt. 4, segnala le affinità con i Pal. Alf. 24-26 (pur con un dubbio espresso at-traverso un punto di domanda), di cui il primo è escluso, mentre il secondo e il terzo accolti da Bremer anche nella sezione serviana (vd. infra, nel testo); infine si vedano le (giustificate) estromissioni di Marcell. XII dig., D. 50.16.87 [= Pal. Marcell. 146 → Alf. 89] e di Pomp. l.s. ench., D. 50.16.239.6 [= Pal. Pomp. 179 → Alf. 90], che rappresentano, tuttavia, soprattutto se visti sinotticamente, una chiara espressione di pensiero (originale) alfeniano.

Come si noterà, invece, soprattutto nel corso del capitolo III di questi ‘studi’, che alcuni temi — contenuti in passi esclusi da Bremer — possono essere ricondotti alla elaborazione serviana, com’è, e.g., il sintomatico caso di Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.2.52 § 2 [= Pal. Alf. 7] (in ordine al quale si rinvia alla sede appena citata).

1013 Mi riferisco all’esigenza di analizzare ‘temi’ serviani all’interno dell’opera del suo auditor (vd. infra, tomo II, cap. III).

1014 Le segnalazioni di dubbio, dove non diversamente specificato, sono del Bremer.

1015 Cfr. ID., op. cit., pp. 303-304 e 186. 1016 Cfr. ID., op. cit., pp. 311 (con rimando, però, a frg. Serv. 91) e 196. 1017 Cfr. ID., op. cit., pp. 310-311 (senza rimando al frg. serviano 90 ? ) e 195.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

497

supposizione, dunque, che ‘respondit’ indichi Servio e che, in questo

caso, l’emendazione sia giustificata — come potrebbe esserlo in base

a Sch 1 ad Bas. 60.2.5 BS. VIII, 3089; Hb. V, 262, commento che

indica, in modo espresso, il nome del giurista] 1018;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 10.3.27 [= Pal. Alf. 50; Br.

Alf. 47 → Serv. 76: « ex responso ab Alfeno relato Paulum certum

ius fecisse et Alfenum sic ferre scripsisse puto: ‘de communi servo

unum . . iure non posse Servius respondit’ »] 1019;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 18.6.13(12) e 15(14) [= Pal.

Alf. 52; Br. Alf. 79 qui solo in relazione a frg. D. eod. 13(12) →

Serv. 111 1020: « Alfenus sic fere scripsisse puto: ‘lectos . . . concidit.

Servius de ea re consultus respondit: si traditi essent, emptoris peri-

culum esse, si neque . . . traderentur, venditoris periculum es-

se’ »] 1021;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 19.2.27.1 [= Pal. Alf. 15; Br.

Alf. 81 → Serv. 121: « Schol. ad Basil. 20, 1, 27 Servium interroga-

tum esse dicit »] 1022;

Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 21.2.45 [= Pal. Alf. 63; Br.

Alf. 67 → Serv. 100 ?: « utrum Servii an Alfeni responsum sit, nesci-

mus »] 1023;

1018 Cfr. ID., op. cit., pp. 327 e 211 (ivi: « fortasse ‘respondit’ scribendum est.

nam Dorotheus in schol. ad Basil. 60, 2, 5 scripsit: ºrwt»qh Sšrbioj . . . kaˆ ¢pekr…nato »: vd. anche supra, ‘Introduzione’, nt. 15).

1019 Cfr. ID., op. cit., pp. 307 (senza alcun rinvio alla sezione dedicata a Servio) e 191.

1020 Sotto Servio, a differenza di Alfeno, il Bremer cita entrambi i frammenti: la scelta dell’Autore risulta, però poco chiara. Potrebbe trattarsi dell’ennesimo difetto di coordinamento, causato, probabilmente, dalla proposta di resa al pensiero di Ser-vio operata in frg. Serv. 111, che coinvolge (anche) la prima parte di D. 18.6.15(14).

1021 Cfr. ID., op. cit., pp. 316 (senza rinvio a frg. Serv. 111) e 201. 1022 Cfr. ID., op. cit., 316 (dove difetta qualsiasi rinvio a frg. Serv. 121) e 205. 1023 Cfr. ID., op. cit., pp. 313 (priva di rimando al luogo serviano) e 198-199.

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Alf. III dig. a Paul. epit., D. 23.4.19 [= Pal. Alf. 57; Br.

Alf. 39 → Serv. 65 ?: « Utrum Servii an Alfeni vel Pauli responsum

subsit, in incerto relinquitur »] 1024;

Alf. V dig. ab. anon. epit., D. 28.5.45 [adde: (44) = Pal.

Alf. 19; Br. Alf. 3 → Serv. 5: sulla base della — peraltro debole —

considerazione secondo cui « Servium de cretione dixisse Pernice

Labeo III p. 43 sq. vidit »] 1025;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 30.106 [= Pal. Alf. 37; Br. Alf.

22 → Serv. 48: « Paulum ‘deberi legatum Servius respondit’

scripsisse puto »] 1026;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 32.60 pr. 1027 [= Pal. Alf. 39;

Br. Alf. 15 → Serv. 43 ?: « Paulus fortasse scripsit: ‘sed verius est,

1024 Vd. ID., op. cit., pp. 304 (err. Bremer : « D. 23, 4, 79 ») e 188. 1025 Vd. ID., op. cit., pp. 292-293 e 168. 1026 Vd. ID., op. cit., pp. 298-299 (ma senza ulteriori rimandi) e 183. 1027 Senza alcuna motivazione in loco, l’Autore tedesco ha introdotto nell’opera

serviana anche Alf. II dig. a Paul. epit., D. 32.60.3 [= Pal. Alf. 39]: cfr. ID., op. cit., p. 172 [= frg. 17 e senza inserimento del punto di domanda a seguire il numero di frammento, usato convenzionalmente per i testi privi di citazione espressa del capo-scuola, Serv., resp., ‘de fundo legato’]. La spiegazione, tuttavia, può essere ‘snida-ta’ — a prezzo di qualche difficoltà, e fra le righe di quanto detto ben oltre a propo-sito dei ‘responsa’ di Alfeno, a condizione di ricordare quanto era stato deciso, ap-punto, dal Bremer a p. 172 — da ID., op. cit., p. 283: « Accedit, quod uno tantum responso de legatis rebus agitur, cum Servii responsa de legatis data plurima fuerint. Cf. Servium 9-53 (p. 170-184). Fortasse non casu fit, quod responsum illud de rebus legatis ad mancipia urbana pertineant (D. 32, 60, 1) ». Vi è da presumere che l’editore ottocentesco avesse letto la forma verbale « ait » contenuta in D. 32.60.3 (ricalcata, del resto e come è opportuno sottolineare, nel passo corrispondente di Bas. 44.3.58.3 [Hb. IV, 382; vd., però diversamente, Bas. 44.3.60, in BT. VI, 2003]: « fhs… ») come necessariamente riferita a Servio. Questo il testo: « Praediis legatis et quae eorum praediorum colendorum causa empta parataque essent, neque topia-rium neque saltuarium legatum videri a i t : topiarium enim ornandi, saltuarium au-tem tuendi et custodiendi fundi magis quam colendi paratum esse: asinum machina-rium legatum videri: item oves, quae stercorandi fundi causa pararentur: item opi-lionem, si eius generis oves curaret ». In realtà, a mio avviso, oltre all’elemento grammaticale appena segnalato, potrebbe rivelarsi di qualche utilità l’analisi del con-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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quod Servius respondit, eos’ et q. s. cf. D. 38, 7, 16 [ma, in realtà, si

tratta di D. 33.7.16, § 1]: ‘. . Servius respondit: qui cum consulebat,

Cornelium respondisse aiebat . . . »] 1028;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 32.60.2 [= Pal. Alf. 59; Br. Alf.

13 → Serv. 36: ivi, il Bremer offre una lunga disquisizione, che ter-

mina, però, con le seguenti conclusioni possibiliste: « itaque quae

Servius hac de re responderit, nescimus » 1029 e, ancora, « quae Ser-

vius de lino responderit, aeque nescimus » 1030; più probabilmente si

sarebbe dovuto insistere sul concetto di ‘aliquid parare’, che pare

tipico del pensiero serviano] 1031;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 33.2.12 [= Pal. Alf. 40; Br. Alf.

25 → Serv. 23 ?: « Utrum Servii an Alfeni responsum subsit, in in-

certo relinquitur »] 1032;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 33.7.16 [adde: pr. 1033 = Pal.

Alf. 44; Br. Alf. 9 → Serv. 24: « Verba ‘verius est’ non Alfeni, sed

Pauli esse iudico: Alfenus fortasse scripsit ‘Servius respondit’. cf.

D. 13, 3, 3 Ulpianus : ‘verius est quod Servius ait’ »] 1034;

cetto di ‘(aliquid) parare’, contenuto nel paragrafo ora riportato (vd. D. 33.9.3.6; D. 50.16.203 e D. 34.2.28).

1028 Vd. ID., op. cit., pp. 297 e 181-182. 1029 Cfr. ID., op. cit., p. 179. 1030 Cfr. ID., op. cit., p. 180. 1031 Vd. ID., op. cit., pp. 296 e 178-180. 1032 Cfr. ID., op. cit., pp. 299 e 174. 1033 Cfr. ID., op. cit., II.2, p. 597 (‘Corrigenda et addenda’). 1034 Cfr. ID., op. cit., pp. 295 e 175.

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500

Alf. III [II ?] 1035 dig. a Paul. epit., D. 33.10.6 [adde: pr.-1

1035 Probabilmente, e secondo il condivisibile parere di O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 49 nt. 3, il brano salvato in D. 33.10.6 andrebbe ricollocato all’interno del libro secondo dell’epitome paolina, in ragione dell’argomento (ossia la materia dei legati, e, nel caso di specie, della suppellex legata). A tal proposito, tuttavia, R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, II, p. 287 nt. 3, pur non respingendo in grado assoluto l’illazione dell’Autore tedesco, non esclude che « l’argomento continuasse nel III libro », il che potrebbe anche risponde alla verità storica, ma soltanto a condizione di dimostrare la non fondatezza della circo-stanza per cui — come appare dai testi [= Pal. Alf. 48-55, forse anche 56] — « liber III. videtur pertinere ad in rem actiones et b. f. iudicia » (così LENEL, op. cit., col. 47 nt. 2). Nonostante, infatti, la coda dedicata — sempre nel terzo libro — alla materia della dote [= Pal. Alf. 57-59], pare strano (o, in ogni caso, non supportato dalla pre-senza di un solo testo, quello di D. 33.10.6, appunto) che una parte relativa ai legati fosse transitata dal secondo libro dell’epitome paolina a quello immediatamente suc-cessivo.

Tutto questo salvo voler parzialmente accogliere (e, soprattutto, riattare ai nostri fini) la proposta di F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 291, e, soprattutto, pp. 303-304, che, a proposito dell’epitome paolina, fa seguire al tema dei testamenti e dei legati quello — sebbene ‘inter alia’ — delle doti, e, spe-cificatamente, ponendo quest’ultimo a ruota dell’analisi della hereditatis petitio, schema corretto dalle acute riflessioni di G. SCHERILLO, Il sistema civilistico, pp. 450 e ss. = ID., Scritti giuridici, I, pp. 20 e ss., che anticipa la materia ‘de dotibus’ rispet-to a quella ‘de hereditate petitione’ (cfr. anche tav. ‘Schema delle opere redatte se-condo il sistema civilistico’, col. II, ad Alfeni digestorum libros XL).

Se tutto ciò corrispondesse al vero, allora si potrebbe anche supporre che il frammento di D. 33.10.6 potesse trovare originaria posizione prima di Alf. III dig. a Paul. epit., D. 5.4.9 [= Pal. Alf. 48] — testo di attuale apertura del libro menzionato, recante argomenti in ordine alla petizione dell’eredità — stante il fatto che il fram-mento di chiusura del libro secondo (Alf. II dig. a Paul. epit., D. 46.3.35 [= Pal. Alf. 47]) tratta, appunto, ‘de peculio legato’ (a condizione, tuttavia, di emendare la Pa-lingenesia, sul punto, anticipando i frgg. 57-60, ‘de dotibus’, e premettendoli al frg. 49, ‘de rei vindicatione’): cfr. LENEL, op. cit., coll. 47 e 49.

Anche questa soluzione, tuttavia, non andrebbe esente dalla critica consistente nel fatto che resterebbe invariato l’interrogativo intorno allo ‘sconfinamento’ di un singolo tema (de suppellectile legata) dal libro di ‘naturale’ contenimento (il secon-do) a quello seguente, nonostante la posizione ‘estrema’ rivestita dalla suppellex, quale oggetto di legato, all’interno della sistematica del libro XXXIII Digesta, che potrebbe — per ipotesi — riflettere, in qualche misura, la sistematica adottata dalle trattazioni in materia (cfr. D. 33.1, rubr. ‘de annuis legatis et fideicommissis’; D. 33.2, rubr. ‘de usu et usu fructu et reditu et habitatione et operis per legatum vel

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

501

= Pal. Alf. *60; Br. Alf. 12 → Serv. 34 ?] 1036, al cui riguardo viene

espresso un giudizio che non può che essere temerario, poiché rac-

chiude — soprattutto nella seconda parte — una mera petizione di

principio: « Inclusa verba partim Triboniani, partim Pauli esse exi-

stimo. Sed Servium quoque de suppellectili respondisse veri non dis-

simile est » 1037;

Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 34.2.28 [= Pal. Alf. 29; Br.

Alf. 14 → Serv. 31 ?] 1038, che il Bremer 1039 giudica — assai curio-

samente — essere stato privato del richiamo espresso a Servio ad

opera del giurista Paolo (« Verba ‘magis placet’ non Alfeni, sed Pau-

li esse iudico. Alfenus fortasse scripsit ‘et Servio placuit’ vel ‘Ser-

vius magis esse putabat’. cf. D. 19, 1, 13, 10 ‘magis esse Servius pu-

tabat’ »). fideicommissum datis’; D. 33.3, rubr. ‘de servitute legata’; D. 33.4, rubr. ‘de dote praelegata’; D. 33.5, rubr. ‘de optione vel electione legata’; D. 33.6, rubr. ‘de tritico vino vel oleo legato’; D. 33.7, rubr. ‘de instructo vel instrumento legato’; D. 33.8, rubr. ‘de peculio legato’; D. 33.9, rubr. ‘de penu legata’ e, infine, D. 33.10, rubr. ‘de suppellectile legata’).

Per l’insieme di queste riflessioni pare ancora preferibile, in punto collocazione di D. 33.10.6, il suggerimento leneliano, con la correzione della sistematica com-plessiva dei libri II e III della epitome paolina, così sintetizzabile:

Alf. II dig. a Paul. epit.: [...] frgg. 46-47, ‘de peculio legato’ (D. 33.8.15 e D. 46.3.35); frg. 48 [= frg. *60, Lenel], ‘de suppellectile legata’ (D. 33.10.6);

Alf. III dig. a Paul. epit.: frg. 49 [= frg. 48, Lenel], ‘de hereditatis petitione’ (D. 5.4.9); frgg. 50-52 [= frgg. 57-60, Lenel], ‘de dotibus’ (D. 23.4.19; D. 23.5.8 e D. 24.1.38); frg. 53 [= frg. 49, Lenel], ‘de rei vindicatione’ (D. 6.1.58); frgg. 54-55 [= frgg. 50-51, Lenel], ‘pro socio’ (D. 10.3.27 e D. 17.2.71); frgg. 56-57 [= frgg. 52-53, Lenel], ‘de emptione et venditione’ (D. 18.6.13 e 15, e D. 19.1.27); frgg. 58-59 [= frgg. 54-55, Lenel], ‘de locatione et conductione’ (D. 19.2.30 e D. 14.2.7); frg. *60 [= frg. 56, Lenel], ‘de in factum actionibus?’ (D. 19.5.23, per il quale manterrei, comunque a livello palingenetico, l’asterisco, ad indicare un forte dubbio sulla sua originaria ubicazione in questo punto).

1036 Cfr. BREMER, op. cit., pp. 295-296 e 177-178. La suddivisione in principium e § 1 di D. 33.10.6 difetta in entrambi i luoghi censiti.

1037 Così ID., op. cit., p. 178. 1038 Cfr. ID., op. cit., pp. 296-297 e 177. 1039 Vd. ID., op. cit., p. 177.

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« SERVIUS RESPONDIT »

502

A questo proposito va detto che il frammento in questione è

tratto, tuttavia, dalla cosiddetta ‘epitome anonima’ !

Si tratta, pertanto, di un lapsus calami 1040 estremamente in-

dicativo della soggettività — almeno complessiva 1041 — delle sup-

posizioni ricostruttive bremeriane 1042;

1040 E questo nonostante il Bremer avesse riportato in modo corretto la rubrica

del passo: « 31? D. 34, 2, 28. Alfenus Varus libro septimo Digestorum » (cfr. ID., op. et loc. ult. cit.).

1041 Fatti salvi, in altri termini, i testi per i quali siano rintracciabili elementi (o, almeno, indizi affidabili) di attribuzione indiretta. Si veda anche C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea, I, p. 277 nt. 272.

1042 In questo luogo, inoltre, il Bremer non ha tenuto conto della proposta (oppu-re, rigettandola, non ha dato alcuna spiegazione della propria soluzione) di O. LE-

NEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 44, il quale (assai probabilmente a ragione) intercala Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 50.16.203 (dall’inizio fino alle parole « ma-gnam habuisse dubitationem »: è omesso, però, il tratto finale « et magis placet, quod victus sui causa paratum est, tantum contineri », e a ragione, poiché si ritrova, nella stessa posizione, in D. 34.2.28) proprio con il testo di D. 34.2.28, per riprende-re, poi, con la seconda parte di D. 50.16.203 (da « itemque de servis eadem ratione quaeri » fino al termine).

Bremer, dunque, avrebbe dovuto proporre come serviano l’intero testo, costituito dall’unione dei due frammenti ora menzionati. Questo, per comodità del lettore, è il frammento come restituito da Lenel [= Pal. Alf. 29]: « [D. 50.16.203]: « In lege cen-soria portus Siciliae ita scriptum erat: ‘servos, quos domum quis ducet suo usu, pro is portorium ne dato’. Quaerebatur, si quis a Sicilia servos Romam mitteret fundi instruendi causa, utrum pro his hominibus portorium dare deberet nec ne. Respondit duas esse in hac scriptura quaestiones, primam, quid esset ‘domum ducere’, alte-ram, quid esset ‘suo usu ducere’. Igitur quaeri soleret, utrum, ubi quisque habitaret sive in provincia sive in Italia, an dumtaxat in sua cuisque patria domus esse recte dicetur. Sed de ea re constitutum esse eam domum unicuique nostrum debere existi-mari, ubi quisque sedes et tabulas haberet suarumque rerum constitutionem fecisset. Quid autem esset ‘usu suo’, magnam habuisse dubitationem. – [D. 34.2.28:] Cum in testamento alicui argentum, quod usus sui causa paratum esset, legaretur, itemque vestis aut supellex, quaesitum est, quid cuiusque usus causa videretur paratum esse, utrumne id argentum, quod victus sui causa paratum pater familias ad cotidianum usum parasset an et si eas mensas argenteas et eius generis argentum haberet, quo ipse non temere uteretur, sed commodare ad ludos et ad ceteras apparationes sole-ret. Et magis placet, quod victus sui causa paratum est, tantum contineri. – [D. 50.16.203:] Itemque de servis eadem ratione quaeri, qui eorum usus sui causa para-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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Alf. V dig. ab anon. epit., D. 35.1.27 [= Pal. Alf. 21; Br.

Alf. 37 → Serv. 6] 1043, a riguardo del quale viene seguita passiva-

mente l’indicazione del Pernice, che, supponendo l’interpolazione

del passo, concludeva, in ogni caso, per la sua origine serviana 1044;

Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 40.1.6 [= Pal. Alf. 17; Br.

Alf. 34 → Serv. 15, in cui si rinviene la rilevante segnalazione:

« Schol. ad Basil. 48, 1, 6 Servium respondentem nominat »] 1045;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 44.7.20 [= Pal. Alf. 9; Br. Alf.

112 → Serv. 149, sulla considerazione che « rixae primum apud Ser-

vium et Alfenum mentio fit, quorum uterque hac de re dententiam

dixit. D. 9, 2, 52, 1 », che, però, è pur sempre un testo alfeniano, in

cui Servio non viene menzionato] 1046;

ti essent? Utrum dispensatores, insularii, vilici, atrienses, textores, operarii quoque rustici, qui agrorum colendorum causa haberentur, ex quibus agris pater familias fructus caperet, quibus se toleraret, omnes denique servos, quos quisque emisset, ut ipse haberet atque eis ad aliquam rem uteretur, neque ideo emisset, ut venderet? Et sibi videri eos demum usus sui causa patrem familias habere, qui ad eius corpus tuendum atque ipsius cultum praepositi destinatique essent, quo in genere iunctores, cubicularii, coci, ministratores atque alii, qui ad eiusmodi usum parati essent, nu-merarentur ». Del testo, in sé considerato, si tratterà approfonditamente nella parte terza di questi ‘studi’.

1043 Cfr. ID., op. cit., pp. 303 e 168-169. 1044 ID., op. cit., p. 169 (e si veda A. PERNICE, Labeo, III, p. 46 nt. 4, richiamato

expressis verbis): « „Iustinian denkt bei diesen Worten (monumentum ... exstruere debere) sicherlich an obrigkeitlichen Zwang, Servius nur an eine sittliche Verpflich-tung, sonst hätte er die Zwangsmittel namhaft gemacht. Die unlateinische Construc-tion und die Ähnlichkeit mit dem Schlusse von fr. 7 de ann. leg. weisen sogar auf Interpolation“ ».

1045 Cfr. BREMER, op. cit., pp. 302 e 171-172. 1046 Cfr. ID., op. cit., pp. 328 e 216-217. Ad esempio, G. NEGRI, Per una stilistica

dei Digesti di Alfeno, p. 140, non esclude che, in D. 44.7.20, « Alfeno conserv[i] forse un sermone serviano ».

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« SERVIUS RESPONDIT »

504

Alf. I dig. a Paul. epit., D. 48.22.3 [= Pal. Alf. 33; Br. Alf.

114 → Serv. 150 ?]: « An Servii responsum subsit, in dubio relinqui-

tur » 1047;

Alf. VII dig. ab. anon. epit., D. 50.16.203 [= Pal. Alf. 29;

Br. Alf. 100 → Serv. 146, con lunga digressione circa una supposta

originaria diversità di tenore del brano, su cui sarebbe intervenuta la

mano dei Compilatori; tutto ciò, in ogni caso, per concludere: « ut ad

Alfenum revertamur, etiam duae illae quaestiones in Servii responso

seiunctae [...] male tractatae sunt », nonché « Servii explicationem a

Triboniano deletam eiusque loco sua verba substituta esse appa-

ret » 1048, e, ancora, « ea quoque quae de secunda quaestione Servius

explicavit, maximam partem deleta sunt » 1049, tutte espressioni che

sarebbero indici — nell’ottica del Bremer — della attribuzione al

Maestro] 1050;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 50.16.204 [= Pal. Alf. 38; Br.

Alf. 17 → Serv. 39 ?] 1051.

Queste testimonianze, pertanto, condividono lo stile della

supposizione, come per le precedenti e (salvo i dati che possono es-

sere recuperati attraverso fonti bizantine) 1052 ne debbono seguire lo

stesso destino.

1047 Cfr. BREMER, op. cit., pp. 329 e 217: in entrambi i luoghi si legge la rubrica

« Alfenus libro primo epitomarum », invece dell’esatto ‘Alfenus libro primo digesta a Paulo epitomarum’.

1048 Così ID., op. cit., p. 214. 1049 Così ID., op. cit., p. 215. 1050 Cfr. ID., op. cit., pp. 322-323 (ivi, erroneo rimando a frg. Serv. 143) e 213. 1051 Cfr. ID., op. cit., pp. 297 (con erroneo rinvio a frg. Serv. 38 — che è possibi-

le sia stato confuso, vista la corrispondenza numerica del brano in Pal. Alf. [vd. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 46, ad h.l.]) e 180-181.

1052 Per la valutazione di tali elementi, vd. infra, § 9. Va, tuttavia, notato — ciò che la dottrina precedente non mi pare abbia fatto — che i passi bizantini relativi alle ‘reliquiae, quae sunt’ di Aufidio Namusa, di Cinna e di Caio Ateio, non sono di nes-sun aiuto sul punto, poiché non fanno alcuna menzione di Servio.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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Per il primo giurista, si vedano i seguenti testi (che saranno presentati

nell’ordine della palingenesi leneliana): Iav. II ex post. Lab., D. 33.5.20 [= Pal. Na-mus. 1] → Bas. 44.8.20 (senza scholia) [BT. VI, 2019; ma Bas. 44.8.19, in Hb. IV, 404]; Ulp. XXVIII ad ed., D. 13.6.5.7 [= Pal. Namus. 2], cfr. Bas. 13.1.5.6-7 (il pa-ragrafo è assorbito nel successivo, e non presenta elementi interessanti) [BT. II, 712-713; Hb. II, 8]; Ulp. XXXI ad ed., D. 17.2.52.18 [= Pal. Namus. 3] → Bas. 12.1.50.18 [BT. II, 686; Hb. I, 750]; Iav. II ex post. Lab., D. 33.4.6.1 [= Pal. Namus. 4] → Bas. 44.7.6.1 (senza scolii) [solo in Hb. IV, 402]; Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.12.6 [= Pal. Namus. 5], cfr. Bas. 44.10.12 (il paragrafo è inglobato in una severa contrazione dei §§ 4-5 e 7, ed è privo di scolii) [BT. VI, 2023; §§ 1-13, in Hb. IV, 408]; Iav. II ex post. Lab., D. 35.1.40.3 [= Pal. Namus. 6] → Bas. 44.19.40 (ma solo § 4, senza scholia) [BT. VI, 2050; ma Bas. 44.19.39.3, in Hb. IV, 444]; Ulp. LIII ad ed., D. 39.3.1.6 [= Pal. Namus. 7], cfr. Bas. 58.13.1 [BT. VII, 2677; Hb. V, 214]; Paul. XLIX ad ed., D. 39.3.2.6 [= Pal. Namus. 8], cfr. Bas. 58.13.2 (forte-mente lacunoso, però, il corrispondente del paragrafo in questione — vd. appena supra, frg. Pal. Namus. 7) [BT. VII, 2679; Hb. V, 214]. Per Cinna, cfr. Ulp. XXXV ad Sab., D. 23.2.6 [= Pal. Cinnae 1] → Bas. 28.4.5 (con due scolii) [BT. IV, 1325; Hb. III, 167]; Iav. II ex post. Lab., D. 35.1.40.1 [= Pal. Cinnae 2] → Bas. 44.19.40 (senza il paragrafo in oggetto e scolii) [BT. VI, 2050; Hb. IV, 444 — e vd. supra]; Iav. II ex post. Lab., D. 33.4.6.1 [non inserito in Pal. Cinnae] → Bas. 44.7.6.1 (idem c.s.) [solo in Hb. IV, 402 — e vd. supra, Pal. Namus. 4]. E, infine, per Ateio, cfr.: Iav. VI ex post. Lab., D. 23.3.79.1 [= Pal. Ateii 1] → Bas. 29.1.75 (con tre scolii) [BT. IV, 1464; Hb. III, 425]; Iav. II ex post. Lab., D. 32.30.6 [= Pal. Ateii 2] → Bas. 44.3.30.6 (senza scolia) [solo in Hb. IV, 377]; Iav. II ex post. Lab., D. 34.2.39.2 [= Pal. Ateii 3] → Bas. 44.15.37.2 (idem c.s.) [solo in Hb. IV, 425]; Paul. XXXIX ad ed., D. 39.3.2.4 [= Pal. Ateii 4], cfr. Bas. 58.13.2.4 [BT. VII, 2678-2679; Hb. V, 214 — e vd. supra, frgg. Pal. Namus. 7-8].

Discorso (solo) parzialmente diverso può essere fatto con riguardo all’opera di Aulo Ofilio. Infatti, il giurista tardorepubblicano è citato apertamente in Sch. 1 e 4 ad Bas. 48.5.40 pr. [e § 3] (corrispondente a Iav. IV ex post. Lab., D. 40.7.39 pr. [e § 3] [= Pal. Ofil. 53]) [BS. VII, 2911-2912; Hb. IV, 708]), ma questo risponde alla forma dell’originale latino. In altri passi, invece, è menzionato Ofilio — ma nulla è ricordato di Servio: così a proposito di Paul. VII ad Sab., D. 25.2.3.3 [= Pal. Ofil. 7] → Bas. 28.11.3 [BT. IV, 1398; Hb. III, 300], nello Sch. 2 [BS. V, 1951; Sch. 1, Hb. III, 300-301] — che però accede al § 2; in Sch. 19* ad Bas. 60.21.5 pr. [BS. IX, 3548; Sch. 1*, Hb. V, 616] — relativo, però, ad Ulp. LVI ad ed., D. 47.10.5.1 [= Pal. Ofil. 26]; in Sch. 29* ad Bas. 14.1.22.10 [BS. II, 746; Sch. 15, Hb. II, 103], dove il giurista è menzionato come « F…lioj » (ma il fenomeno è comprensibile se si pensa che il nome proprio maschile Φίλιος è censito nel vocabolario greco [vd. Lys., Or. 9.5 al genitivo; Anth. app. 376 [Appendix nova epigrammatum, E. Cou-gny, ed., Paris 1890]; « CIG. » 2907], a differenza di ’Oφίλιος: cfr. F. PASSOW,

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Handwörterbuch der griechischen Sprache. Ρ-Ω, II.2, p. 2263 ad v. Φίλιος ; mentre nulla vi è a proposito di ’Oφίλιος [vd. op. cit. Λ-Π, II.1, p. 605]); in Sch. 4 ad Bas. 28.8.18 [BS. V, 1902; Hb. III, 256] — nuovamente citato come « F…lioj » — e re-lativo a Pomp. XVI ad Sab., D. 24.3.18.1 [= Pal. Ofil. 41]; in Sch. 1 ad Bas. 48.3.40.1 [BS. VII, 2836; Hb. IV, 638] — in cui, invece, si lègge « 'Oficios » (così, in lettere latine) — derivato da Pomp. V ad Plaut., D. 40.4.40.1 [= Pal. Pomp. 345; Pal. Ofil. 52]; e, infine, Sch. 26* ad Bas. 60.12.21 pr. [BS. VIII, 3364; Sch. 1, Hb. V, 470], generato da Ulp. XL ad Sab., D. 47.2.21 pr. [= Pal. Ofil. 57].

In tutte le altre ricorrenze, nulla è citato espressamente. Si vedano, infatti, Ulp. XXII ad Sab., D. 33.9.3 §§ 5-9 [= Pal. Ofil. 1] → Bas. 44.12.3 [BT. VI, 2026; Hb. IV, 414] (privi di scholia); Gai. I ad ed. prov., D. 2.1.11.2 [= Pal. Ofil. 2] → Bas. 7.13.11 [BT. I, 319; Hb. I, 263] (idem c.s.); Ulp. V ad ed., D. 2.7.1.2 [= Pal. Ofil. 3] → Bas. 7.13.1, 4 [BT. I, 371; Hb. I, 301] (idem c.s.); Ulp. VII ad ed., D. 2.9.1.1 [= Pal. Ofil. 4] → Bas. 7.15.1 [BT. I, 382; Hb. I, 309] (idem c.s.); Paul. VI ad ed., D. 2.10.2 [= Pal. Ofil. 5] → Bas. 7.15.8 [BT. I, 383; Hb. I, 310] (idem c.s.); Paul XXVIII ad ed., D. 14.1.1.9 [= Pal. Ofil. 6] → Bas. 53.1.32 [BT. VII, 2439; Bas. 53.1.16.8-10, Hb. V, 113] (idem c.s.); Ulp. 68 ad ed., D. 43.8.2.39 [= Pal. Ofil. 9], cfr. Bas. 58.8.5 [BT. VII, 2647-2649; Hb. V, 202] (manca il § di riferimento e non si rinvengono scolii); Ulp. LXX ad ed., D. 43.20.1.17 [= Pal. Ofil. 10] → Bas. 58.20.1.17 [BT. VII, 2697; Hb. V, 218 nt. v] (privi di scolii); Ulp. ibid., D. 43.21.1.10 [= Pal. Ofil. 11], cfr. Bas. 58.20.9, ad lin. 14 [BT. VII, 2700; Hb. V, 218 nt. v] (privi del § relativo); Ulp. ibid., D. 43.21.3.10 [= Pal. Ofil. 12], cfr. Bas. 58.20.9, ad lin. 14 [BT. VII, 2700; Hb. V, 218 nt. v] (idem c.s.); Venul. I interd., D. 43.23.2 [= Pal. Ofil. 13], cfr. Bas. 58.22.2 [BT. VII, 2702; mancante in Hb. V, 219] (idem c.s.); Ulp. LXXIX ad ed., D. 36.3.1.15 [= Pal. Ofil. 14] → Bas. 44.21.1 [ma il § è assente in BT. VI, 2058] (e sono, in ogni caso, privi di scÒlia); Ulp. I ad ed. aed. cur. [LXXXII ad ed., Lenel], D. 21.1.10 pr. [= Pal. Ofil. 15] → Bas. 19.10.10 [BT. III, 954; Bas. 19.10.9 in Hb. II, 302; Bas. 19.10.10, Zachariä, Sup-plementum 275 = Miglietta Supplementa, 291] (idem c.s.); Ulp. ibid., D. 21.1.17 pr. [= Pal. Ofil. 16] → Bas. 19.10.17 (pr.) [BT. III, 955; Bas. 19.10.15 in Hb. II, 303-304; Bas. 19.10.17, Zachariä, Supplementum 276 = Miglietta, Supplementa 292] (idem c.s.); Ulp. ibid., D. 21.1.8 [= Pal. Ofil. 17] → Bas. 19.10.8 [BT. III, 954; Bas. 19.10.7 in Hb. II, 302; Bas. 19.10.8, Zachariä, Supplementum 275 = Miglietta, Sup-plementa 291] (idem c.s.); Ulp. II ad ed. aed. cur. [LXXXII ad ed., Lenel], D. 21.1.38.7 [= Pal. Ofil. 18] → Bas. 19.10.38.7 (mutilo) [BT. III, 960; Bas. 19.10.34 in Hb. II, 309; nihil in Zachariä, Suppl.] (idem c.s.); Ulp. XXV ad Sab., D. 32.55.1-2, 4-7 [vd. D. 50.16.167= Pal. Ofil. 19-20] → Bas. 44.3.53 [assente, pe-rò, in BT.] (idem c.s.); Ulp. XVIII ad ed., D. 9.2.9.3 [= Pal. Ofil. 21] → Bas. 60.3.9.3 [BT. VIII, 2752; Hb. V, 271-272] (nulla di rilevante, nonostante i numerosi scholia ch vi accedono); Ulp. LIII ad ed., D. 39.3.1 §§ 5, 21 [= Pal. Ofil. 22], cfr. Bas. 58.13.1 §§ 5, 21 [BT. VII, 2676, 2677-2678; §§ mancanti in Hb. V, 214] (senza

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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scolii); Paul. XLIX ad ed., D. 39.3.2.10 [= Pal. Ofil. 23] → Bas. 58.13.2.10 [BT. VII, 2679-2680; Hb. V, 215] (idem c.s.); Ulp. LIII ad ed., D. 39.3.3.2 [= Pal. Ofil. 24], cfr. Bas. 58.13.3 [BT VII, 2680; Hb. V, 215] (manca il paragrafo corrisponden-te, e non ci sono scolii); Paul. XLIX ad ed., D. 39.3.11.5 [= Pal. Ofil. 25], cfr. Bas. 58.13.11.5 [BT. VII, 2681; mancante in Hb. V, 215] (privi di scholia); Paul. IV ad ed., D. 47.10.23 [= Pal. Ofil. 27] → Bas. 60.21.23 [BT. VIII, 2905-2906; Bas. 60.21.22, Hb. V, 637] (nulla di rilevante nei relativi scÒlia); Iav. IX ex post. Lab., D. 49.15.27 [= Pal. Ofil. 28] → Bas. 34.1.27 [BT. IV, 1556; Bas. 34.12.22 in Hb. III, 538] (privi di scolii); Pomp. XXX ad Sab., D. 50.16.180.1 [= Pal. Ofil. 29] → Bas. 2.2.174 [BT. I, 41; Hb. I, 55] (idem c.s.); Gai II ad XII Tab., D. 50.16.234.2 [= Pal. Ofil. 30] → Bas. 2.2.225.2 [BT. I, 46; Hb. I, 60] (idem c.s.); Ulp. XI ad ed., D. 4.4.16.1 [= Pal. Ofil. 31] → Bas. 10.4.16 [BT. II, 553; Hb. I, 509] (idem c.s.); Ulp. XIII ad ed., D. 4.8.21.1 [= Pal. Ofil. 32] → Bas. 7.2.21.1 [BT. I, 309; Hb. I, 253] (idem c.s.); Iavol. I ex post. Lab., D. 28.6.39 pr. e § 2 [= Pal. Ofil. 34] → Bas. 35.10.37 [soltanto in Hb. III, 581] (idem c.s.); Ulp. XIX ad Sab., D. 30.30.7 [= Pal. Ofil. 35], cfr. Bas. 44.1.30.7 [cfr. BT. VI, 1971 e Hb. IV, 332] (manca, però, il rela-tivo paragrafo; privi di scolii); Iavol. II ex post. Lab., D. 34.2.39 pr.-1 [= Pal. Ofil. 36] → Bas. 44.15.37 [soltanto in Hb. IV, 425] (privi di scholia); Iavol. II ex post. Lab., D. 35.1.40 §§ 2, 4 [= Pal. Ofil. 37] → Bas. 44.19.39 [solamente in Hb. IV, 444] (idem c.s.); Ulp. XIX ad ed., D. 10.2.16.6 [= Pal. Ofil. 39] → Bas. 42.3.16 [BT. V, 1921-1922; Hb. IV, 256-257] (con scolii, ma senza dati rilevanti ai nostri fini); Paul. XXXIV ad ed., D. 14.2.2.3 [= Pal. Ofil. 40], cfr. Bas. 53.3.2.3 [BT. VII, 2449; il § è assente in Bas. 53.3.1, Hb. V, 115] (privi di scolii); Pomp. XVII ad Sab., D. 26.8.4 [= Pal. Ofil. 42] → Bas. 37.8.4 [solo in Hb. III, 670] (privi di scÒlia); Pomp. VI ad Sab., D. 30.45 pr. [= Pal. Ofil. 43] → Bas. 44.1.43 [cfr. BT. VI, 1974, ma il principium è presente soltanto in Hb. IV, 336] (idem c.s.); Iavol. II ex post. Lab., D. 32.29.1 [= Pal. Ofil. 44] → Bas. 44.3.29 [solo in Hb. IV, 376] (idem c.s.); Iavol. ibid., D. 32.100.1 [= Pal. Ofil. 45] → Bas. 44.3.95 [soltanto in Hb. IV, 387] (idem c.s.); Iavol. ibid., D. 33.4.6.1 [= Pal. Ofil. 46] → Bas. 44.7.6 [solo in Hb. IV, 402] (idem c.s.); Iavol. ibid., D. 33.6.7 [= Pal. Ofil. 47] → Bas. 44.9.7 [BT. VI, 2021; Hb. IV, 406] (idem c.s.); Iavol. ibid., D. 33.7.25.2 [= Pal. Ofil. 48] → Bas. 44.10.24 [solamente in Hb. IV, 410] (idem c.s.); Iavol. V ex post. Lab., D. 33.7.26.1 [= Pal. Ofil. 49] → Bas. 44.10.27 [solo in Hb. IV, 410] (idem c.s.); Iavol. III ex post. Lab., D. 33.10.10 [= Pal. Ofil. 50] → Bas. 44.13.9 [solo in Hb. IV, 416] (idem c.s.); Iavol. II ex post. Lab., D. 35.1.40.1 [= Pal. Ofil. 51] → Bas. 44.19.40 [ma solo § 4 in BT. VI, 2050; Bas. 44.13.39 in Hb. IV, 444] (idem c.s.); Paul. LIV ad ed., D. 41.2.1.3 [= Pal. Ofil. 54] → Bas. 50.2.1 [BT. VI, 2331; Hb. V, 46] (idem c.s.); Ulp. LXXVI ad ed., D. 44.4.4.6 [= Pal. Ofil. 55] → Bas. 51.4.4.6 [BT. VI, 2406-2407; Hb. V, 95] (idem c.s.), e, ancora, finalmente, Pomp. XXVI ad Sab., D. 45.3.6 [= Pal. Ofil. 56] → Bas. 43.3.6 [soltanto in Hb. IV, 320] (idem c.s.).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Uguale giudizio vale con riferimento a passi tratti dall’opera

di altri auditores Servii, o di altri giuristi relatori:

Ulp. XVII ad ed., D. 8.5.8.5 [= Pal. Ulp. 601 → Alf. 76;

Br. Alf. 61 → Serv. 91 ?: « Servii responsum esse potest »] 1053;

Ulp. XXVIII ad ed., D. 13.6.5.7 [= Pal. Ulp. 802 → Na-

mus. 2; Br. Namus. 8 → Serv. 132: « Servii responsum Namusam

retulisse verisimile est »] 1054;

Ulp. XXXV ad Sab., D. 23.2.6 [= Pal. Ulp. 2797 → Cinnae

1; Br. Cinnae 2 … libri → Serv. 63 ?: « Servii responsum esse

potest »] 1055.

Β.β. Altre volte, la motivazione è espressa, per contro, in

modo criptico, così come in

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 6.1.58 [= Pal. Alf. 49; Br. Alf.

50 → Serv. 80, con la singolare asserzione secondo cui « Alfeni vel

Pauli oratio a Triboniano ita mutata est, ut genuina forma ne divinari

quidem possit »] 1056;

Alf. V dig. a Paul. epit., D. 8.2.33 [= Pal. Alf. 68; Br. Alf.

60 → Serv. 93, con il seguente, puro richiamo: « de re v. Karlowa II,

523 »] 1057;

1053 Cfr. BREMER, op. cit., pp. 311 (privo, però, di rinvio al corrispondente frg. serviano) e 195-196. Da notare che, a questo proposito, O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 53 ad h.t., propone di integrare, invece, con « ... scribere ait [Aristo] posse... », et rell.

1054 Cfr. BREMER, op. cit., pp. 279 (senza rimando a frg. Serv. 132) e 208. 1055 Cfr. ID., op. cit., pp. 273 (senza rimandi) e 187. Del resto, il brano che ac-

cenna al Tevere è, ivi, riferito a Servio sulla base della similitudine riscontrabile con D. 19.5.23, passo che appartiene, però, all’opus di Alfeno: ancora una volta si postu-la, in altri termini, ciò che dovrebbe essere dimostrato positivamente.

1056 Cfr. ID., op. cit., pp. 307 (con errato rimando a frg. Serv. 79) e 192. 1057 Cfr., infatti, O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, II, p. 523 e BREMER.,

op. cit., pp. 311 (ancora con fallace rinvio a frg. Serv. 92) e 196.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

509

Alf. I dig. a Paul. epit., D. 8.4.15 [= Pal. Alf. 31; Br. Alf.

57 → Serv. 88: « Tribonianum Pauli vel Alfeni orationem mutasse

[...] et responsum subesse apparet »] 1058;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 8.5.17 pr. [= Pal. Alf. 4; Br.

Alf. 62 → Serv. 83, con emendazione di « agi oportet » in ‘agi opor-

tere respondit’] 1059;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 18.6.12(11) [= Pal. Alf. 12;

Br. Alf. 76 → Serv. 107, sulla supposizione « et Alfenum sic fere

scripsisse iudico: ‘vendita insula combusta est, cum incendium sine

culpa fieri non potuerit. quid iuris sit, quaesitum est et respondit , si

venditor . . . accidisset, nihil ad eum pertinere’ », ove, appare intuiti-

vo nel ragionamento del Bremer, che alla forma verbale ‘respondit’

— qui sottolineata dall’espansione — corrisponda il sottendimento

del nome di Servio quale autore del responso] 1060;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 19.1.26 [= Pal. Alf. 13; Br.

Alf. 72 → 105 ?: « Alfeni oratio a Triboniano mutata est (‘Si

quis’) » 1061] 1062;

1058 Cfr. ID., op. cit., pp. 310 (in cui si rimanda a frg. Serv. 87) e 195. 1059 Cfr. ID., op. cit., pp. 311-312 (con errato invio a frg. Serv. 82) e 193. In en-

trambi i luoghi l’emendazione è presente: a pp. 311-312 come « agi oportet (oporte-re respondit?) »; a p. 193 come « agi oportere respondit ». Da notare che il Bremer attribuisce alla palingenesia serviana anche il § 1 di D. 8.5.17 (vd. supra, in questo stesso paragrafo di capitolo) — sulla base di un aggancio testuale, costituito dal-l’espressione della fonte « consilium omnes iuris periti dederunt » (che, però, non è dimostrato alluda di necessità anche ad un intervento sul punto del Maestro di Alfe-no) — ma non, invece, il § 2, a riguardo del quale, evidentemente, l’Autore tedesco non ha avvertito l’opportunità di modificare il testo (‘respondit’ per « respondi », come nel principium), né ha individuato ulteriori dati tali da dirigere verso l’illazione di una paternità serviana (come nel § 1, appunto).

1060 Cfr. ID., op. cit., pp. 315 (senza l’opportuno rimando a Servio) e 200. 1061 Concetto ribadito anche nel luogo alfeniano (ivi, p. 314): « Triboniani manus

aperta est » (sic!). 1062 Cfr. ID., op. cit., pp. 314 (senza rimando a frg. Serv. 105) e 199 (dove il pas-

so è erroneamente indicato da Bremer come « D. 19, 1, 36 », ma cfr. ID., op. cit., II.2, p. 597 [‘Corrigenda et addenda’]).

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« SERVIUS RESPONDIT »

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Alf. III dig. a Paul. epit., D. 19.1.27 [= Pal. Alf. 53; Br.

Alf. 73 → Serv. 106 ?: « verba uncis inclusa » — ossia « quidquid

venditor – : veluti » — « Triboniani esse iudico. Reliqua Alfeni ver-

ba mutata sunt »] 1063;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 19.2.27 pr. [= Pal. Alf. 15; Br.

Alf. 80 → Serv. 120: « Tribonianus Alfeni orationem solito more

mutavit. scriptum fuisse puto: ‘habitatores non . . facere oportere’ et

q. s. »] 1064;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 23.5.8 [= Pal. Alf. 58; Br. Alf.

30 → Serv. 9] 1065. In questo caso nulla è suggerito in punto attribu-

zione, ma la scelta del Bremer può motivarsi con quanto osservato

nello stesso luogo, in via generale in tema di legati, la cui trattazione

è considerata, dallo stesso Autore, ampia in Servio e, conseguente-

mente, paradigmatica per i suoi auditores 1066;

Alf. III dig. a Paul. epit., D. 24.1.38.1 [= Pal. Alf. 59; Br.

Alf. ? → Serv. 68: « Tribonianus Pauli vel Alfeni orationem corrupit:

nam legitur: ‘idem iuris eri t , . . . nam .. . res facta non est’ et q. s.

sententiam partem responsi fuisse apparet »] 1067;

Alf. V dig. ab anon. epit., D. 34.8.2 [= Pal. Alf. 21; Br. Alf.

5 → Serv. 7: « Tribonianus pro ‘esse’ scripsit ‘sunt’: responsum

subesse apparet. cf. fr. 2 1068 »] 1069;

1063 Cfr. ID., op. cit., pp. 314 (senza rinvio a frg. Serv. 106) e 200. 1064 Cfr. ID., op. cit., pp. 316 (ove difetta l’opportuno rinvio a frg. Serv. 120) e

205. 1065 Cfr. ID., op. cit., pp. 301 e 170. 1066 Cfr. ID., op. cit., p. 170 (ivi, cfr. annotazioni ‘de legatis’). 1067 Cfr. ID., op. cit., pp. 188-189: come osservato supra, in questo stesso para-

grafo, il testo manca di riproduzione proprio all’interno della sezione dedicata ad Al-feno.

1068 Il rimando è a D. 28.5.17.1 (= frg. Serv. resp. 2, appunto) — BREMER, op. cit., p. 167 — ma, in questi termini, appare poco perspicuo. Deve trattarsi, invece e con ogni probabilità, di D. 28.5.46(45) [= frg. Serv. resp. 3], che considera, per con-tro, l’ipotesi di una clausola testamentaria in cui si contemplano la ‘mater Maevia’ e la ‘filia Fulvia’ del de cuius, di cui, in séguito, risulta esistente soltanto la prima

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

511

Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 41.1.38 [= Pal. Alf. 65; Br.

Alf. 43 → Serv. 73: « Alfeni vel Pauli oratio a Triboniano ita mutata

est, ut intellegi iam nequeat »] 1070;

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 44.1.14 [= Pal. Alf. 14; Br.

Alf. 77 → Serv. 110] 1071, a riguardo del quale — ma soltanto all’in-

terno della sezione serviana — il Bremer completa, in via di ipotesi

di studio, il verbo reggente contenuto nel responso, ‘placuit’, con il

dativo « <Servio ?> »;

Alf. II dig. a Paul. epit., D. 46.3.35 [= Pal. Alf. 47; Br. Alf.

92 → Serv. 4 ad ed. ad Brut.: « Alfeni vel Pauli oratio a Triboniano

solito more (sic!) mutata est »] 1072;

Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 47.2.58 [= Pal. Alf. 67; Br.

Alf. 103 → Br. Serv. 134: « hodie legitur: ‘specum quis fecisset . . .

fur est’. Tribonianus vel Paulus orationem Alfeni mutavit. cf.

D. 47, 10, 15, 32 »] 1073;

e, infine, come è già stato segnalato 1074, il rimando alle sezione ser-

viana appare tanto criptico in

(« ... Servius respondit, si testator filiam numquam habuerit, mater autem super-vixisse... », et rell.). La fattispecie, infatti, a differenza di D. 28.5.17.1, bene si ac-corda (« ... quia id, quod impossibile in testamento scriptum esset, nullam vim habe-ret ») con il principio espresso in D. 34.8.2: « Quae in testamento scripta essent ne-que intellegerentur quid significarent, ea perinde sunt ac si scripta non essent: reli-qua autem per se ipsa valent ».

1069 Cfr. BREMER, op. cit., pp. 293-294 e 169. 1070 Cfr. ID., op. cit., pp. 305-306 (ove il rimando è, però, per svista operato a

frg. Serv. 72) e 190. 1071 Cfr. ID., op. cit., pp. 315 e 201. 1072 Cfr. ID., op. cit., pp. 319-320 (senza, però, alcun rimando al relativo luogo

del corpus serviano) e 234. 1073 Cfr. ID., op. cit., pp. 324 (dove l’indicazione di Pal. Alf. è relativa al frg. 62,

al posto dell’esatto frg. 67) e 208-209. 1074 Vd. supra, § 1.

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« SERVIUS RESPONDIT »

512

Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 50.16.205 [= Pal. Alf. 62; Br.

Alf. ? → Serv. 103] 1075,

che il passo non è stato neppure riprodotto nella sua sede naturale,

ossia in quella alfeniana.

Γ. A conclusione, deve essere ricordato che il Bremer coin-

volge all’interno della palingenesia serviana — non senza qualche

fondamento — anche le testimonianze di

Pomp. l.s. ench., D. 1.2.2.42 [= Pal. Serv. 178; Br. Serv. 6

incert. sed. fragm.], nella parte in cui così è affermato: « Mucii audi-

tores fuerunt complures . . . ex quibus Gallum maxime auctoritatis

apud populum fuisse Servius dicit . Omnes tamen hi a Servio Sul-

picio nominantur » 1076

e, soprattutto, di

Iavol. IV ex post. Lab., D. 19.2.28 [adde: pr.-1 = Pal. Iavol.

203; Br. Iavol. 98-99 ex post. Lab. → Lab. 148-149 post. lib. →

Serv. 1 notae add.] 1077.

A proposito di quest’ultimo brano, l’Autore tedesco annota-

va: « Krueger p. 163 n. 137 orationem obliqua et verbum ‘putat’ for-

tasse ad Servium respicere existimat » 1078.

1075 Cfr. ID., op. cit., p. 199. 1076 Cfr. ID., op. cit., p. 242. 1077 Cfr. ID., op. cit., II.2, pp. 425-426 (senza alcun rimando né a Labeone né a

Servio che sarebbe stato senz’altro conveniente); op. cit., II.1, p. 214 (idem c.s.) ed op. cit., I, p. 242 (senza identificazione di paragrafi). Per il testo di D. 19.2.28 vd. supra, nt. 29.

1078 Così ID., op. cit., I, p. 242.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

513

A dire il vero, però, sarebbe stato ben più necessario osserva-

re quanto pervenuto attraverso la tradizione bizantina. A proposito,

infatti, di Bas. 20.1.27-28 [= D. 19.2.28; BT. III, 990-991 = Hb. II,

354] esiste un interessante, ampio scolio — ossia lo Sch. 2 [BS. III,

1193-1194; Hb. II, 354] — che sembra derivare dall’opera di Stefa-

no 1079, in cui è espressa la menzione sia di Servio sia di Alfeno. Ma

di questo si dirà appena più avanti, nella sede opportuna 1080.

Si vedano ancora:

Pap. XXVII quaest., D. 31.74 [= Pal. Pap. 330 → Alf. 80;

Br. Alf. 23 → Serv. 47] 1081; l’inciso « quod Alfenus rettulit », conte-

nuto nel brano, potrebbe riferirsi a Servio (l’illazione, di per sé non è

del tutto irragionevole, se raffrontata con il parallelo tematico rappre-

sentato da Ulp. XIX ad Sab., D. 30.30 [pr. e §].2 [= Pal. Serv. 41 →

Pal. Ulp. 2597; Br. Serv. 49], supra, frg. D.25. ) 1082;

Iavol. II ex post. Lab., D. 33.4.6.1 [= Pal. Iavol. 178; Br.

Serv. 11] 1083, ove, evidentemente, l’espressione « et Servii auditores

rettulerunt » viene interpretata come una mera relazione del dettato

serviano, ma si tratta — come già osservato — di illazione debo-

le 1084;

1079 Cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilicorum, p.

277, ad h.l. 1080 Vd. infra, § 9. 1081 Cfr. BREMER, op. cit., pp. 299 (senza rimandi a Servio) e 183. 1082 Cfr. C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, pp. 13-14 = ID., Opere, I,

p. 179, ed ora T. GIARO, Römische Rechtswahrheiten, p. 290. 1083 Stranamente, però, per quanto riguarda gli auditores Servii, il Bremer ripro-

pone il testo solamente nella sezione dedicata a Namusa [= frg. 3 dig.] e — natural-mente — a Ofilio [= frg. 13 resp.]: cfr. ID., op. cit., pp. 277-278 e 335.

1084 Cfr. ID., op. cit., p. 171. Da notare che — sulla base di quanto contenuto nel principium di D. 33.4 — anche G. GROSSO, Sulla ‘falsa demonstratio’ nelle disposi-zioni d’ultima volontà, p. 210 = ID., Scritti storico-giuridici, III, p. 336, esclude che la sezione « perinde habendum esse ac si servus alicui mortuus aut pro eo centum

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Iavol. II ex post. Lab., D. 33.5.20 [= Pal. Iavol. 179 → Lab.

58 post. lib.; Br. Iavol. 32 ex post. Lab. → Namus. 1 → Serv. 29 ?,

per il quale il giudizio è abbastanza netto: « Responsum ab Aufidio

relatum Servii videtur esse »] 1085;

Ulp. XX ad Sab., D. 33.7.3-6 [= Pal. Ulp. 2609; Br. Serv.

173] 1086. Come già osservato in precedenza, la citazione espressa di

Servio si ha, però, solamente all’interno del principium e del § 6 di

D. 33.7;

Iavol. II ex post. Lab., D. 35.1.40.1 [= Pal. Iavol. 186 →

Cinnae 3 1087; Br. Iavol. 37 ex post. Lab. → Lab. 27 post. lib. → Cin-

nae 1 → Serv. 18], sulla mera supposizione che ‘Cinna scribit adiec-

to’ stia per « ‘Cinna scribit <Servium respondisse> adiecto’ » 1088;

Ulp. LXX ad ed., D. 43.20.1.17 [= Pal. Ulp. 1570 → Ofil.

10; Br. Ofil. 8 → Serv. 89 ?, a proposito del quale — in entrambe le

sezioni (alfeniana e serviana) — si insinua il dubbio che

l’espressione del passo « et extat Ofilii sententia... » possa essere let-

to come « et extat Ofilii (? Servii?) sententia », in questo ripercor-

rendo parzialmente, ma con ogni probabilità, la precedente ipotesi di

Lenel, il quale annotava, a questo riguardo: « Ofilii] immo alius

cuiusdam ex veteribus » 1089. Che si tratti, in ogni caso, di mera con-

legata esset » del § 1 D. eod. sia del nostro giurista, seppure ritenga che possa dirsi « tratta dalla sentenza derivata dalla scuola di Servio ».

1085 Cfr. BREMER, op. cit., II.2, p. 411 ed op. cit., II.1, pp. 192-193 nonché op. cit., I, pp. 276 (tutti privi di rinvii al luogo serivano) e 176.

1086 Cfr. ID., op. cit., I, pp. 173-174. 1087 Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, coll. 171-172 (ma, in realtà, il

numero di frammento da attribuire a D. 35.1.40.1 dovrebbe essere ‘3’, poiché il nu-mero ‘2’ si sarebbe dovuto riservare a Iavol. II ex post. Lab., D. 33.4.6.1 [= Pal. Ia-vol. 178], omesso da Lenel).

1088 Cfr. ID., op. cit., II.2, pp. 412-413; op. cit., II.1, p. 187; op. cit., I, pp. 272-273 (senza rimandi alle sezione serviana) e 173.

1089 Così O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 797 nt. 2, ad h.l.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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gettura lo prova anche il fatto che il Bonfante, per contro, suggerisse

di leggervi una allusione ad Aufidio Namusa 1090] 1091.

Infine: a proposito di Gai. 4.34-35 [= Br. Serv. 1 act. Ser-

vian.] e corrispondente in Iust. Inst. 4.6.7 [= Br. Serv. 2 act. Ser-

vian.], il Bremer così si esprime: « actiones duas Servianas, et bono-

rum possessoris et pigneraticii creditoris, a Servio Sulpicio originem

duxisse mea quidem sententia nihil impedit quominus putemus,

quamquam Dernburg Pfandrecht I, 61 sq. aliter sentit » 1092.

∆. Il Bremer — correttamente, e a differenza del Lenel, che

li ometteva — considerava serviani, infine, brani della letteratura la-

tina 1093. Ma di questi si è già trattato nelle sedi opportune 1094.

1090 Cfr. (P. Bonfante in) BONFANTE – C. FADDA – C. FERRINI – S. RICCOBONO –

V. SCIALOIA, Digesta Iustiniani Augusti, p. 1238 nt. 5, ad h.l. (sulla base, probabil-mente, delle osservazioni di D. GOTHOFREDUS, Corpus Juris Civilis, I, p. 826 nt. 53 ad h.l., che, tuttavia, richiama sia Celio sia, in alternativa, Cascellio, il tutto segno della provvisorietà delle proposte, ivi compresa quella serviana del Bremer).

1091 Cfr. BREMER, op. cit., I, pp. 343 (senza alcun riferimento all’opera serviana) e 195.

1092 Cfr. ID., op. cit., pp. 217-218 (con osservazioni, ivi, pp. 218-220) in ordine alle actiones quasi Servianae.

1093 Riepilogando, cfr. Aul. Gell., N.A. 4.1.17 e 20; 4.2.12; 4.3.2; 4.4 e 7.12.1 e 4; Cic., Ad fam. 7.21 e Top. 8.36; Fest., s.vv. ‘Municeps’ [L. 126]; ‘Noxia’ [L. 180]; ‘Orba’ [L. 194]; ‘Pedem struit’ [L. 232]; ‘Posticam lineam’ [L. 262]; ‘Sanates’ [L. 426]; ‘Sarcito’ [L. 430] e ‘Vindiciae’ [L. 516]; Macrob., Sat. 3.3.8; Plin., Nat. hist. 28.5.26 (che Bremer indica come « 20, 2, 26 ») e, finalmente, Varro, De ling. Lat. 5.6.40 (cfr. vd. BREMER, op. cit., pp. 241-242). Come siè già notato pià sopra (e co-me si può constatare attraverso la visione delle ‘Tavole sinottiche’ di séguito riporta-te, sub § 10) la ricostruzione di O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, coll. 321-334, si arresta, diversamente, al censimento di ‘soli’ 97 frammenti (e sono omessi i brani varroniani, pliniani, festini e macrobiani ora menzionati. Per quanto riguarda il brano di Gellio, va detto che esso non è stato censito neppure per la palingenesi di Sabino: cfr. LENEL, op. cit., coll. 187-216).

1094 Vd. supra, § 7, ‘Testimonianze serviane nelle fonti letterarie’.

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9. Continua: indizi di attribuzione pervenuti attraverso l’opera dei

giuristi bizantini d’epoca giustinianea Doroteo e Stefano

A completamento dell’analisi ora condotta è necessario se-

gnalare alcuni, importanti ‘indizi di attribuzione serviana’ giunti a

nostra conoscenza grazie alla tradizione giuridica bizantina e, più in

particolare, alla elaborazione di due giuristi rispettivamente d’epoca

giustinianea e immediatamente posteriore, ossia, rispettivamente,

Doroteo (commissario in ogni fase della Compilazione) 1095 e Stefa-

no 1096.

Le loro testimonianze, infatti, sono tanto più preziose in

quanto si consideri che, il primo, si caratterizza per la propensione a

risolvere profili dubbi 1097 (in ordine a cui autorevole dottrina non

esclude che egli potesse avere a disposizione originali degli scritti di

giuristi romani) 1098, mentre il secondo, allievo di Taleleo 1099 — ov-

vero, a parere d’altri, addirittura di Teofilo 1100 — poteva avvalersi di

1095 Vd. supra, nt. 735 (per fonti e letteratura). 1096 Per le specifiche attribuzioni vd. appena infra, nel corso di questo paragrafo. 1097 Cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Prolegomena, pp. 36 e ss. 1098 Pur con comprensibile prudenza (e invitando, nella sostanza, ad evitare au-

tomatismi nelle conclusioni), lo insinuava espressamente già un bizantinista del va-lore di E. ZACHARIÄ VON LINGENTHAL, Aus und zu den Quellen des römischen Re-chts, p. 285.

1099 In dottrina si ritiene, infatti, che Taleleo avesse tenuto corsi sul Digesto e che tracce delle sue lezioni circolassero nell’ambiente delle scuole bizantine di diritto: cfr. P. PESCANI, s.v. ‘Taleleo’, p. 1026. Segni della dipendenza del pensiero di Stefa-no da quello di Taleleo potrebbero essere costituiti da alcune coincidenze espressi-vo-stilistiche, come « toàto e„dëj ™lqš ™pˆ tÕ proke…menon – odaj – toutš-stin » (cfr. ancora P. PESCANI, s.v. ‘Stefano’, p. 425).

1100 Se fosse così, Stefano avrebbe avuto a disposizione materiali provenienti dal giurista bizantino senz’altro più affidabile: cfr., in modo particolare, Sch. 27 ad Bas. 23.1.31 [BS. IV, 1558-1559; Sch. 15, Hb. II, 626-627: « Stef£nou. QeÒfiloj mn Ð makar…thj oÛtw fhs…n... Ð mšntoi ¹mšteroj did£skaloj oÛtw tÕ parÕn ™xh-

g»sato d…geston, e„pèn:... », et rell.]. Sul punto vd. J.-A.-B. MORTREUIL, Histoire du droit byzantin, I, p. 290 e nt. c (e vd. anche C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Prolegomena, pp. 47 e ss., nonché, più recentemente, M. MIGLIETTA, Rifles-

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

517

commenti svolti direttamente sulle fonti latine dai suoi antecessores.

Non può sfuggire — a conferma della particolare attenzione

mostrata dai due giuristi bizantini ora ricordati per la segnalazione

dell’origine dei passi dagli antichi colleghi latini — che gli scholia

analizzati nei paragrafi precedenti di questo capitolo, scholia nei qua-

li è stato conservato il nome di Servio al pari dell’originale latino,

appartengono tutti — salvo i pochi casi di impossibilità di assegna-

zione — agli stessi Doroteo e Stefano 1101.

sioni intorno a Bas. 23.1.31.1, pp. 698 e ss., 715 [e nt. 81] e ss. e 734). Lo interpreta diversamente, però, P. PESCANI, s.v. ‘Stefano’, p. 425 — a cui pare riferirsi indican-do Bas. 23.1.31.8 — laddove ritiene che l’inciso « Ð mšntoi ¹mšteroj did£ska-loj » non sia chiaro quanto a rimando (mi pare, tuttavia, che la fonte smentisca lo studioso italiano per il richiamo espresso all’autore del brano — Stefano — al giuri-sta richiamato — Teofilo — nonché alla menzione del pensiero di quest’ultimo).

1101 Ricordo, per la precisione, che si tratta — per quanto riguarda l’opera di Do-roteo (seguendo la scansione dei testi adottata in questo capitolo) — di Sch. 1 (Pc) ad Bas. 48.3.35 [BS. VII, 2835; Hb. IV, 637] → Paul. L ad ed., D. 40.4.35 [= Pal. Paul. 641; Pal. Serv. 62] → frg. D.10 . ; di Sch. Sch. 1 (Pc) ad Bas. 48.5.40 pr. [BS. VII, 2911; Hb. IV, 708] → Iavol. IV ex post. Lab., D. 40.7.39 pr. [= Pal. Iavol. 196; Pal. Serv. 65] → frg. E .2 . ; Sch. 1 (F, Pa) ad Bas. 28.8.63 pr. [BS. V, 1938; Hb. III, 289] → Iavol. VI ex post. Lab., D. 24.3.66 pr. [= Pal. Iavol. 227; Pal. Serv. 32] → frg. E .4 . ; Sch. 1 (Pc) ad Bas. 45.3.6 [BS. VII, 2703; Hb. IV, 521] → Pomp. I ench., D. 38.10.8 [= Pal. Pomp. 174; Pal. Serv. 60] → frg. E .5 . ; Sch. 1 ad Bas. 2.2.23 [BS. I, 13-14; s.n. Hb. I, 64] → Paul. XXI ad ed., D. 50.16.25 [pr.-]1 [= Pal. Paul. 339; Pal. Serv. 8] → frg. E .20 . e, infine, Sch. 1 (Pb) ad Bas. 38.7.4 pr. [BS. VI, 2232-2233; Hb. III, 736-737] → Ulp. XXXVI ad ed., D. 27.7.4 pr. [= Pal. Ulp. 1032; Pal. Serv. 36] → frg. E .31 . ; forse potrebbero appartenere allo stesso Doroteo anche lo sch. 1 (PS) ad Bas. 58.23.4 [BS. VIII, 3034] → Venul. II interdict., D. 43.24.4 [= Pal. Venul. 13; Pal. Serv. 72] → frg. D.7 . lo Sch. 4 (PS) ad Bas. 58.23.7.4 [BS. VIII, 3035-3036] → Ulp. LXXI ad ed., D. 43.24.7.4 [= Pal. Ulp. 1594; Pal. Serv. 74] → D.22 . (poiché il fatto che il nome dell’interdetto cita-to nel testo sia stato mantenuto in lettere latine anche nel commento greco [« tÕ QUOD BIUCLAM „ntšrdikton »] deve far propendere per l’antichità di quest’ultimo, nonché, per la probabile origine doroteana: cfr. anche supra, nt. 476, e testo a cui si riferisce); da ultimo si veda Sch. 24 (Pe) ad Bas. 60.21.15.31-33 [BS. IX, 3560; Sch. 28, Hb. V, 629] → Ulp. LXXVII [rectius: LVII, Lenel], D. 47.10.15.32 [= Pal. Ulp. 1353; Pal. Serv. 80] → frg. D.23 . : in questo testo è obliterato il nome di Servio (poiché al latino « Servius ait iniuriarum agi posse » corrisponde, ma non alla lette-

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ra, la forma greca « katšcetai tÍ „niour…arum », che modifica anche il destinatario della decisione: non più l’ipotetico attore, bensì l’eventuale convenuto).

Oltre al risultato di un’opera di compressione del testo latino (o, meglio, dei pa-ragrafi 31-33 di D. 47.10.15) da parte dello scoliaste, se ne può trarre la conclusione che se Doroteo, nella lettura dei testi antichi, non si sentiva (deterministicamente) vincolato alla citazione espressa del giurista là richiamato (come sta a dimostrare lo Sch. 24 [Pe] appena riportato), allora dove egli ha riportato il nome stesso (in assen-za di questo nei testi latini a noi pervenuti attraverso la Compilazione), c’è da sup-porre che non l’abbia fatto in modo altrettanto meccanico.

Per l’opera di Stefano, invece, si vedano Sch. 15 (Ca) ad Bas. 12.1.63.7(8) [BS. II, 513; ad Bas. 12.1.62.7-8, Hb. I, 775-776] → Paul. XXXII ad ed., D. 17.2.65.8 [= Pal. Paul. 495; Pal. Serv. 24] → frg. D.9 . ; Sch. 1 (Ca) ad Bas. 12.1.30 [BS. II, 465; Hb. I, 740] → Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30 [= Pal. Paul. 1732; Pal. Serv. 5] → frg. D.12 . ; Sch. 1 (Pa) ad Bas. 20.1.19.1 [BS. III, 1183-1184; Sch. 1, Hb. II, 346] → Ulp. XXXII ad ed., D. 19.2.19.1 [= Pal. Ulp. 951 → Pal. Serv. 28] → frg. D.17 . nonché Sch. 2 (F, Pa) ad Bas. 29.1.75 pr. [BS. V, 2082; Hb. III, 424-425] → Iavol. VI ex post. Lab., D. 23.3.79 pr. [= Pal. Iavol. 221; Pal. Serv. 31] → E .3 . .

Ancora, per Stefano, va segnalato il testo di Sch. 2 (Pa) ad Bas. 20.1.34 [BS. III, 1197; Sch. 1, Hb. II, 357-358] → Afr. VIII quaest., D. 19.2.35.1 [= Pal. Afr. 100; Pal. Serv. 29] → frg. E .10 . , in cui, come è già stato notato (supra, nella sede spe-cifica), si rinviene la particolarità per cui il giurista bizantino muta il nome di Servio in Nerva (il che potrebbe essere stato reso possibile da un errore di lettura di « Servi sententiam » (S per N; -erv- identico in entrambi i nomi; -i per -ae).

Riassuntivamente, dunque, notiamo come il nome del giurista tardorepubblicano sia mantenuto, da Doroteo e da Stefano, in relazione ai seguenti passi originari, ora, da scÒlia privi di espressa attribuzione (ma riconducibili al primo giurista):

Iavol. IV ex post. Lab., D. 40.7.39 pr. [= Pal. Iavol. 196; Pal. Serv. 65] → Doro-theus;

Iavol. VI ex post. Lab., D. 23.3.79 pr. [= Pal. Iavol. 221; Pal. Serv. 31] → Ste-phanus;

Iavol. VI ex post. Lab., D. 24.3.66 pr. [= Pal. Iavol. 227; Pal. Serv. 32] → Do-rotheus;

Pomp. I ench., D. 38.10.8 [= Pal. Pomp. 174; Pal. Serv. 60] → Dorotheus; *Afr. VIII quaest., D. 19.2.35.1 [= Pal. Afr. 100; Pal. Serv. 29] → Stephanus (o-

ve si ha ‘Nerva’ per ‘Servio’)]; *Venul. II interdict., D. 43.24.4 [= Pal. Venul. 13; Pal. Serv. 72] → adespota

(ma, probabilmente, Dorotheus)]; Paul. XXI ad ed., D. 50.16.25 [pr.-]1 [= Pal. Paul. 339; Pal. Serv. 8] → Doro-

theus; Paul. XXXII ad ed., D. 17.2.65.8 [= Pal. Paul. 495; Pal. Serv. 24] → Stephanus;

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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Paul. L ad ed., D. 40.4.35 [= Pal. Paul. 641; Pal. Serv. 62] → Dorotheus; Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30 [= Pal. Paul. 1732; Pal. Serv. 5] → Stephanus; Ulp. XXXII ad ed., D. 19.2.19.1 [= Pal. Ulp. 951 → Pal. Serv. 28] → Stepha-

nus; Ulp. XXXVI ad ed., D. 27.7.4 pr. [= Pal. Ulp. 1032; Pal. Serv. 36] → Doro-

theus; Ulp. LVII [Lenel; LXXVII, err. F.] ad ed., D. 47.10.15.32 [= Pal. Ulp. 1353;

Pal. Serv. 80] → Dorotheus; *Ulp. LXXI ad ed., D. 43.24.7.4 [= Pal. Ulp. 1594; Pal. Serv. 74] → adespota

(ma, probabilmente, Dorotheus)]. A questo ‘catalogo provvisorio’ — e sempre per i passi di lingua greca in cui è

menzionato Servio (al pari di quelli di lingua latina) — vanno aggiunti e attribuiti (probabilmente tutti, per le ragioni segnalate supra, nei luoghi di trattazione dei pas-si) ancora a Doroteo:

Bas. 2.2.28 pr. [BT. I, 25; Hb. I, 43] → Gai. VII ad ed. prov., D. 50.16.30 pr. [= Pal. Gai. 174; Pal. Serv. 83] → frg. E .11 . ;

Sch. 1 ad Bas. 2.2.23 [BS. I, 13-14; Hb. I, 64] → Paul. XXI ad ed., D. 50.16.25.1 [= Pal. Paul. 339; Pal. Serv. 8] → frg. E .20 . ;

Bas. 2.2.74 [BT. I, 30-31; Hb. I, 47] → Paul. XLIX [LIX, Lenel] ad ed., D. 50.16.77 [= Pal. Paul. 715; Pal. Serv. 84] → frg. E .22 . nonché, a questo corre-lato,

Sch. 2 ad Syn. Bas. 2.2.74 [D. Getov, ed., in « Fontes minores », XI, 373]. Pertanto, a chiusura, si può procedere ad un ‘catalogo definitivo’ (pur con le

cautele appena espresse): Iavol. IV ex post. Lab., D. 40.7.39 pr. [= Pal. Iavol. 196; Pal. Serv. 65] → Doro-

theus; Iavol. VI ex post. Lab., D. 23.3.79 pr. [= Pal. Iavol. 221; Pal. Serv. 31] → Ste-

phanus; Iavol. VI ex post. Lab., D. 24.3.66 pr. [= Pal. Iavol. 227; Pal. Serv. 32] → Doro-

theus; Pomp. I ench., D. 38.10.8 [= Pal. Pomp. 174; Pal. Serv. 60] → Dorotheus; *Afr. VIII quaest., D. 19.2.35.1 [= Pal. Afr. 100; Pal. Serv. 29] → Stephanus (o-

ve si ha ‘Nerva’ per ‘Servio’)]; *Venul. II interdict., D. 43.24.4 [= Pal. Venul. 13; Pal. Serv. 72] → adespota

(ma, probabilmente, Dorotheus)]; **Gai. VII ad ed. prov., D. 50.16.30 pr. [= Pal. Gai. 174; Pal. Serv. 83] → Do-

rotheus; Paul. XXI ad ed., D. 50.16.25 [pr.-]1 [= Pal. Paul. 339; Pal. Serv. 8] → Doro-

theus; Paul. XXXII ad ed., D. 17.2.65.8 [= Pal. Paul. 495; Pal. Serv. 24] → Stephanus; **Paul. XXI ad ed., D. 50.16.25.1 [= Pal. Paul. 339; Pal. Serv. 8] → Dorotheus;

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« SERVIUS RESPONDIT »

520

Venendo, ora, ai testi da censire in questa sezione, si tratta,

per la precisione, di cinque scÒlia che accedono a quattro passi dei

Basilici — ossia a Bas. 20.1.27.1 [BT. III, 990; Hb. II, 354], a Bas.

48.1.6 [BT. VI, 2159; Hb. IV, 618], a Bas. 48.5.15 [BT. VI, 2204;

Hb. IV, 699] e a Bas. 60.2.5 [BT. VIII, 2748; Hb. V, 262] 1102 — nei

quali il brano è esplicitamente svolto con riferimento a Servio.

Ulteriori dati non privi di qualche rilievo sono i seguenti.

In primo luogo va notato che i brani derivati dai libri Basili-

corum, e appena censiti, concordano, a loro volta, con un egual nu-

mero di testimonianze corrispondenti — tutte — a passi salvati nel-

l’epitome anonima dei digesta di Alfeno. Si tratta, rispettivamente, di

Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.1.5 [= Pal. Alf. 6]; di Alf. ibid.,

D. 19.2.27.1 [= Pal. Alf. 15]; di Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 40.1.6

[= Pal. Alf. 17], e, ancora, di Alf. ibid., D. 40.7.14 pr.-1 [= Pal. Alf.

18].

Si noti, peraltro, a modo di semplice appunto, la prossimità

palingenetica dei frgg. 15-18, nei quali, nella versione greca, si mani-

festa esplicitamente il nome di Servio 1103, tenendo in debito conto il

Paul. L ad ed., D. 40.4.35 [= Pal. Paul. 641; Pal. Serv. 62] → Dorotheus; Paul. VI ad Sab., D. 17.2.30 [= Pal. Paul. 1732; Pal. Serv. 5] → Stephanus; Ulp. XXXII ad ed., D. 19.2.19.1 [= Pal. Ulp. 951 → Pal. Serv. 28] → Stepha-

nus; Ulp. XXXVI ad ed., D. 27.7.4 pr. [= Pal. Ulp. 1032; Pal. Serv. 36] → Doro-

theus; Ulp. LVII [Lenel; LXXVII, err. F.] ad ed., D. 47.10.15.32 [= Pal. Ulp. 1353;

Pal. Serv. 80] → Dorotheus; *Ulp. LXXI ad ed., D. 43.24.7.4 [= Pal. Ulp. 1594; Pal. Serv. 74] → adespota

(ma, probabilmente, Dorotheus)]. 1102 Una parziale segnalazione è presente in F. SCHULZ, Geschichte der römische

Rechtswissenschaft, pp. 255-256 nt. 4 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 367 nt. 2 [e vd. ID., History of Roman Legal Science 2, p. 206 nt. 3], in cui è omesso lo Sch. 1 ad Bas. 48.1.6 [BS. VII, 2812-2813; Hb. IV, 618], per il quale vd. appena infra, frg. G.2 . .

1103 A livello di confronti testuali è singolare, inoltre, il fatto che, nel ‘blocco’ di passi latini corrispondenti ai frgg. 15-18 della Palingenesia serviana, il verbo che

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

521

fatto che, a parte lo scolio relativo a Bas. 20.1.27 (passo corrispon-

dente a D. 19.2.27) — scolio generato dall’Índix di Stefano — gli al-

tri sono stati desunti da quello di Doroteo 1104.

In secondo luogo, negli scÒlia che vi accedono, il nome di

Servio viene evocato espressamente, a differenza degli originali di

lingua latina.

In primo luogo si deve analizzare

G.1. – Sch. 2 ad Bas. 20.1.27.1 [BS. III, 1193-1194; Hb.

II, 354] → Alf. II dig. ab anon. epit., D. 19.2.27.1 [= Pal. Alf.

15] 1105 → [Br. Alf. 81 → Serv. 121] 1106: « 'E¦n Ð œnoikoj di£ ti

dšoj metókisen tÁj o„k…aj, ºrwt»qh Ð Sšrbioj, e„ Ñfe…lei

tÕ m…sqwma, Àgoun ¢neÚqunÒj ™stin ™p' aÙtù. Kaˆ ¢pekr…-

nato: e„ eÜlogoj ØpÁn a„t…a, di' ¿n ™fob»qh tÕn k…ndunon, e„

kaˆ ¢lhq¾j oÙc ØpÁn k…ndunoj, Ómwj oÙk ™pofl»sei tÕ

m…sqwma: oŒon ¢n»r tij tîn eÙupol»ptwn kaˆ piqanîn eÙlÒgwj

¢p»ggeilen œfodon œsesqai tù o‡kJ: À kaˆ ¢pÒ tinwn ™cqrîn

tù despÒtV ™piboul»n. E„ d eÜlogoj oÙc ØpÁn a„t…a fobe‹n

dunamšnh, tucÕn ™x ™nupn…wn, À f»mhj oÙ piqanÁj tÕn okon

katšlipen, ¢paithq»setai tÕ m…sqwma oÙdn Âtton. 'Anatršcei

d e„j ™ke‹no tÕ qšma. E„r»kamen, crÁnai tÕn misqws£menon

mikr©j ¢nšcesqai bl£bhj, ™n tù metaxÝ ¢naneoumšnou toà

indica la soluzione data dal giurista sia stato sempre posto alla terza persona del per-fetto (‘respondit’). Ma ulteriori deduzioni non sono possibili, per via anche di quan-to rilevato supra, ‘Introduzione’, nt. 15 e di D. 9.1.5 (in cui si dà ‘respondi’).

1104 Cfr., infatti, C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilico-rum, pp. 277, 316, 319 e 242, ad hh.ll.

1105 D. 19.2.27.1: « Iterum interrogatus est, si quis timoris causa emigrasset, de-beret mercedem necne. Respondit, si causa fuisset, cur periculum timeret, quamvis periculum vere non fuisset, tamen non debere mercedem: sed si causa timoris iusta non fuisset, nihilo minus debere ».

1106 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 316 (senza rimando al luogo serviano) e 205: « Schol. ad Basil. 20, 1, 27 Servium inter-rogatum esse dicit ».

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« SERVIUS RESPONDIT »

522

o‡kou, ka… fhsin, e„ tÍ katamonÍ Ð misqws£menoj Ðmo…wj

™cr¾sato oÙk ™mpodizÒmenoj ™k tÁj ¢naneèsewj toà o‡kou,

paršxei kaˆ tÁj saqr©j dia…thj oÙdn Âtton tÕ m…sqwma. E„ d

kaˆ oÙk õkei [mn] Ð misqws£menoj t¾n o„k…an, ˜tšrJ d mis-

qoàn taÚthn ºdÚnato, de‹ paršcein aÙtÕn Ðmo…wj tÕ m…sqwma.

E„ d Ð misqèsaj tù misqwsamšnJ parrhs…an oÙk ™d…[dou]

o„[ke‹n] ™n tÍ misqwqe…sV o„k…v, kaˆ ™nteàqen e„j ¢n£gkhn

perišsth Ð misqws£menoj toà ˜tšron okon misqèsasqai, to-

soàton parasceq»setai tù misqwsamš-nJ par' ™moà, [Óson]

d…ca dÒlou ™ke‹noj paršsce tù nàn aÙtù misqèsanti t¾n

o„k…an: tucÕn g¦r ™mpodizÒmenoj par' ™moà di¦ t¾n ¢nanšwsin,

tÁj o„k…aj o„ke‹n ™n tù misqwqšnti, o‡kJ, ™misqèsato

par' ˜tšrou i/. nom…smasin okon. 'Epignèsomai aÙtù t¦ dška

mÒnon, e„ d…ca dÒlou taàta pare‹ce. E„ g¦r dun£menoj

misqèsasqai tÕn okon nom…smasin pšnte, ™p…thdej ™misqè-

sato dška, pšnte [mÒnon paršxw. E„ d gratoÚϊtan œlab]en [t]¾n [o„k…]an [p]ar£ [tinoj, oÙdj mn aÙtù paršxw: kinîn d

kat' aÙtoà t¾n lok£th Øpexairî tosaÚthn ™k toà misqèmatoj

posÒthta, Ósh pol . . . ™stˆ tù crÒnJ, kaq' Ön oÙk õkhsen ™n

tÍ misqwqe…sV aÙtù par' ™moà o„k…v] ».

L’ampio ed interessante scholium costituisce, in realtà,

l’unione di due versioni — dovute a Stefano 1107 — rispettivamente,

e in quest’ordine, dei brani contenuti nel § 1 di D. 19.2.27 (« ™¦n Ð

œnoikoj – Ómwj oÙk ™pofl»sei tÕ m…sqwma ») e nel principium di

D. eod. 1108 (« e„ d eÜlogoj oÙc ØpÁn a„t…a fobe‹n dunamšnh,

1107 Cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilicorum, p.

277. 1108 Alf. II dig. ab anon. epit., D. 19.2.27 [= Pal. Alf. 15]: « pr. – Habitatores

non, si paulo minus commode aliqua parte caenaculi uterentur, statim deductionem ex mercede facere oportet: ea enim condicione habitatorem esse, ut, si quid tran-sversarium incidisset, quamobrem dominum aliquid demoliri oporteret, aliquam

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

523

tucÕn ™x ™nupn…wn, À f»mhj oÙ piqanÁj tÕn okon katšlipen,

¢paithq»setai tÕ m…sqwma oÙdn Âtton... », et rell.), intercalate

da ulteriori digressioni esplicative, ossia dalle cosiddette proqew-

r…ai 1109.

Il commento richiama espressamente — nella prima sezione

— Servio, il quale, viene preventivamente interrogato (« ºrwt»qh Ð

Sšrbioj, e„... », et rell.), e quindi, risponde a due riprese (immedia-

tamente con l’espressione « kaˆ ¢pekr…nato... » e, nella parte se-

guente del testo, con « ka… fhsin... », et rell.) 1110.

Da notare che in D. 19.2.27.1 il testo attribuito ad Alfeno re-

cava l’espressione « iterum interrogatus est... » (con la correlazione

— qui necessaria — « respondit... »). In questo luogo, dunque, il giu-

reconsulto bizantino Stefano ha espressamente attribuito la discus-

sione in oggetto al caposcuola tardorepubblicano.

Questo appare tanto più indicativo ove si consideri che, ap-

pena oltre, a proposito di Bas. 20.1.29 [BT. III, 991; Hb. II, 354] —

che corrispondono ad Alf. VII dig. ab anon. epit., D. 19.2.29 [= Pal.

Alf. 27] — lo stesso Stefano 1111, in una parte del suo ‡ndix, da cui è

tratto lo Sch. 1 al brano ora citato [BS. III, 1194; Hb. II, 354-355],

alla forma verbale « zhte‹tai » (che corrisponde, tecnicamente, al

latino ‘quaerere’) 1112 ricollega la seguente ripresa: « kaˆ ¢pekr…na-

to 'AlfÁnoj ». partem parvulam incommodi sustineret: non ita tamen, ut eam partem caenaculi dominus aperuisset, in quam magnam partem usus habitator haberet. 1. – Iterum interrogatus est, si quis timoris causa emigrasset, deberet mercedem necne. Re-spondit, si causa fuisset, cur periculum timeret, quamvis periculum vere non fuisset, tamen non debere mercedem: sed si causa timoris iusta non fuisset, nihilo minus debere ».

1109 Vd. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Prolegomena, p. 49 (e ora, in particolare, M. AMELOTTI, Le scuole di diritto in epoca giustinianea, p. 694).

1110 Vd. anche TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, I, p. 566, ad lin. 20. 1111 Cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilicorum, p.

277, ad D. 19.2.29 → Bas. 20.1.29. 1112 Vd. E.F. LEOPOLD, Lexicon graeco-romanum manuale, p. 370, ad v. zhtšw.

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« SERVIUS RESPONDIT »

524

Il giurista bizantino dà, quindi, segno di distinguere tra giuri-

sta e giurista, e, soprattutto, di non seguire una assegnazione mecca-

nica a Servio piuttosto che ad Alfeno. Questo potrebbe rivelare —

alla luce di quanto già osservato più sopra 1113 — una aderenza del

testo a disposizione di Stefano ad una versione originale dei passi al-

feniani in parte differenti (o, forse, più circostanziati) rispetto a quelli

giunti a noi attraverso il Digesto 1114.

Per venire alle testimonianze dovute a Doroteo si ha, invece,

la presenza di

G.2. – Sch. 1 ad Bas. 48.1.6 [BS. VII, 2812-2813; Hb. IV,

618] 1115 – [Br. Alf. 34 → Serv. 15] 1116: « Sunefènhsen o„kšthj

cr»mata doànai tù „d…J despÒtV Øpšr tÁj ™leuqer…aj aÙtoà,

kaˆ dšdwken aÙt£. 'All' ™teleÚthsen Ð despÒthj prˆn aÙtÕn

™leuqerîsai, kaˆ ™kšleusen ™leuqerwqÁnai aÙtÕn, lhgateÚ-

saj aÙtù tÕ pekoÚlion aÙtoà. Kaˆ ºrwt»qh Ð Servius, e„

dÚnatai Ð o„kšthj ¢paite‹n t¦ nom…smata, ¤tina dšdwke tù

despÒtV Øpr tÁj ™leuqer…aj, æj Ônta toà lhgateuqšntoj aÙtù

pekoul…ou, À oÙ dÚnatai. Kaˆ ¢pekr…nato, Óti ™¦n met¦ tÕ

labe‹n t¦ nom…smata taàta Ð despÒthj e„j tÕn ‡dion aÙtoà lÒ-

gon ™log…sato aÙt£, éste paÚsasqai aÙt¦ enai ™n pekoul…J

toà o„kštou, m¾ kalîj ™pizhte‹ aÙt£. 'E¦n d labën t¦ nom…s-

1113 Vd. supra, § 1 e nt. 11 (con testo di riferimento). 1114 Questo insieme di considerazioni mi pare debba far risolvere per la soluzio-

ne affermativa le perplessità espresse da F. BONA, Contributi alla storia della ‘socie-tas universorum quae ex quaestu veniunt’ in diritto romano, p. 405 nt. 26 = ID., Lec-tio sua, I, p. 348 nt. 26, il quale, tuttavia, concludeva già con le seguenti parole: « non contendo che il responso risalga effettivamente a Servio ».

1115 Il passo cui aderisce lo scÒlion è il corrispondente bizantino di Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 40.1.6 [= Pal. Alf. 17].

1116 Cfr. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, pp. 302 e 171-172: « Schol. ad Basil. 48, 1, 6 Servium respondentem nominat ».

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

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mata e„j tÕn <lÒgon> toà pekoul…ou toà o„kštou ™log…sato,

pisteÚesqai, enai aÙt¦ toà pekoul…ou kaˆ toÝj klhronÒmouj

doànai aÙt¦ toà ™leuqerwtoà ».

A partire da Alf. IV dig. ab anon. epit., D. 40.1.6 [= Pal. Alf.

17] 1117, anche Doroteo 1118 (autore di una traduzione completa del

Digesto, reputata « generalmente assai fedele all’originale ») 1119, in

un’epoca immediatamente a ridosso della Compilazione 1120, si ri-

chiama direttamente all’autorità di Servio, adottando espressioni

molto simili allo scolio di Stefano visto appena sopra: alla frase

« kaˆ ºrwt»qh Ð Servius, e„...» si riallaccia la ripresa « kaˆ ¢pe-

kr…nato, Óti, ™¦n... », et rell.

Ancora si veda, in relazione ad Alf. IV dig. ab anon. epit.,

D. 40.7.14 pr.-1 [= Pal. Alf. 18] 1121, e sempre dello stesso giurista

1117 D. 40.1.6: « Servus pecuniam ob libertatem pactus erat et eam domino ded-

erat: dominus prius quam eum manumitteret, mortuus erat testamentoque liberum esse iusserat et ei peculium suum legaverat. Consulebat, quam pecuniam domino dedisset ob libertatem, an eam sibi heredes patroni reddere deberent necne. Re-spondit, si eam pecuniam dominus, posteaquam accepisset, in suae pecuniae ra-tionem habuisset, statim desisse eius peculii esse: sed si interea, dum eum manumit-teret, acceptum servo rettulisset, videri peculii fuisse et debere heredes eam pecu-niam manumisso reddere ».

Nella Florentina, si ha la correzione « consulebatur » (F2), che TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 422, registra nell’apparato critico, ad lin. 28, ma che alla luce della fonte bizantina mi pare — parimenti come Mommsen — sia da respingere.

1118 Per l’attribuzione dello scolio cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilicorum, p. 316.

1119 Sul punto vd. F. BRANDSMA, Dorotheus and his Digest Translation, pp. 41 e ss., e, per la citazione testuale, F. GORIA, Rec. ad ID., op. cit., pp. 507-508.

1120 Vd. supra, nt. 566. 1121 D. 40.7.14 pr.-1: « pr. – Servus, qui testamento domini, cum decem heredi

dedisset, liber esse iussus erat, heredi mercedem referre pro operis suis solebat: cum ex mercede heres amplius decem recepisset, servus liberum esse aiebat: de ea re consulebatur. Respondit non videri liberum esse: non enim pro libertate, sed pro

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bizantino 1122,

G.3. – Sch. 1 ad Bas. 48.5.15 pr. [BS. VII, 2901; Hb. IV,

699]: « Doàloj keleusqeˆj ™n tÍ diaq»kV toà despÒtou aÙtoà

enai ™leÚqeroj, Óte dù dška nom…smata tù klhronÒmJ, œqoj

œsce misqÕn ¢ntˆ tîn „d…wn Ñperîn katab£llein tù klhro-

nÒmJ: kaˆ Óte ple…ona tîn <i/. nomism£ta twn> di¦ toà toioÚ-

tou misqoà dšdwke tù klhronÒmJ, œlegen ˜autÕn ™leÚqeron

enai Ð o„kšthj. Kaˆ ™rwthqeˆj perˆ toÚtou Sšrbioj

¢pekr…nato, m¾ doke‹n aÙtÕn ™leÚqeron enai: oÙd g¦r

Øpr tÁj ™leuqer…aj, ¢ll' Øpr tîn Ñperîn aÙtoà taàta t¦

cr»mata ™d…dou tù klhronÒmJ: ésper e„ kaˆ ¢grÕn misqw-

s£menoj par¦ toà klhronÒmJ éspr e„ kaˆ ¢grÕn misqw-

s£menoj par¦ toà klhronÒmou Øpr tîn karpîn toà ¢groà

paršscen aÙtù faner¦ nom…smata, oÙkšti g…netai ™leÚqeroj »,

nonché

G.4. – Sch. 2 ad Bas. eod. § 1 [BS. VII, 2901; Hb. IV,

699]: « Doàloj ™keleÚsqh ™leÚqeroj genšsqai, ™¦n ˜pt¦

™niautîn Ñpšraj par£scV tù klhronÒmJ. ¢ll' œfugen oátoj Ð

o„kšthj ™pˆ ™niautÒn. Kaˆ plhrwqšntwn tîn ¢pÕ teleutÁj toà

test£toroj ˜pt¦ ™niautîn ºrwt»qh Ð Sšrbioj, e„ ™leÚ-

qerÒj ™sti, kaˆ epen aÙtÕn m¾ ºleuqerîj: Ð g¦r fug¦j

operis eam pecuniam dedisse nec magis ob eam rem liberum esse, quam si fundum a domino conduxisset et pro fructu fundi pecuniam dedisset. 1. – Servus cum heredi annorum septem operas dedisset, liber esse iussus erat: is servus fugerat et annum in fuga fecerat. Cum septem anni praeterissent, respondit non esse liberum: non e-nim fugitivum operas domino dedisse: quare nisi totidem dies, quot afuisset, servis-set, non fore liberum. Sed et si ita scriptum esset, ut tum liber esset, cum septem an-nis servisset, potuisse liberum esse, si tempus fugae reversus servisset ».

1122 Cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilicorum, p. 319. Vd. anche TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani Augusti, II, p. 462, ad lin. 10.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

527

o„kšthj oÙ doke‹ ™rg£zesqai tù klhronÒmJ. E„ m¾ oân Ósaj

™po…hsen ™n fugÍ ¹mšraj, tosaÚtaj ˜tšraj douleÚsV met¦ t¦

˜pt¦ œth, oÙ g…netai ™leÚqeroj. E„ d kaˆ oÛtwj Ãn gegram-

mšnon: Óte ˜pt¦ ›th douleÚsei, ™leÚqeroj œstw, kaˆ œfugen ™n

tù metaxÝ Ð o„kšthj, dÚnatai Ósaj ¢n»lwsen ™n tÍ fugÍ

¹mšraj, douleàsai prÕj to‹j ˜pt¦ ™niauto‹j kaˆ ™leuqerwqÁ-

nai ».

Pure in queste ipotesi, la modalità con la quale è attuato il ri-

chiamo del giurista romano è simile nelle forme verbali (seppure non

vi sia soluzione di continuità, e con costruzione participiale): rispet-

tivamente « kaˆ ™rwthqeˆj perˆ toÚtou Sšrbioj ¢pekr…nato,

m¾... », et rell. — nello Sch. 1 — e « ºrwt»qh Ð Sšrbioj, e„..., kaˆ

epen... », et rell. — nello Sch. 2 (con la variante del verbo epon in

luogo di ¢pokr…nw), scolio non privo, tra altro, di interessanti dati,

quali i due ™xellhnismo… « Ñpšraj » e « toà test£toroj », e, so-

prattutto, « ™leÚqeroj œstw », che ricalca la classica formula latina

di manomissione testamentaria ‘liber esto’ 1123.

Alludo, finalmente, all’interessante scÒlion — ancora un

volta di Doroteo 1124 — che fa da scorta al testo di Bas. 60.2.5 [BT.

1123 A questo riguardo (ma quale semplice ipotesi di lavoro) si noti l’assenza di

ogni traslitterazione, invece, all’interno dello Sch. 1 ad Bas. 48.5.15 pr., frg. G.2 . , fatto abbastanza singolare se confrontato con quello immediatamente successivo (os-sia lo Sch. 2 ad h.l. § 1, frg. G.3 . ) — che trattano, entrambi, differenti paragrafi di uno stesso passo del Digesto: D. 40.7.14 — pr. e § 1, appunto). Se, poi, si analizzano i due testi ora richiamati, se ne deve dedurre che quello dello Sch. 1 cit. presenta di-verse affinità espressive e di costruzione sintattica piuttosto con Sch. 2 ad Bas. 20.1.27.1, frg. G.1 . , che è originato dal pensiero di Stefano. Questo potrebbe an-che far dubitare, almeno sul punto specifico, della attribuzione doroteana di Sch. 1 ad Bas. 48.5.15 pr., suggerita dal Manuale Basilicorum di Heimbach, a favore di una sua (possibile) riconduzione a Stefano.

1124 Cfr. C.G.E. HEIMBACH, Basilicorum libri LX, VI. Manuale Basilicorum, p. 242.

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528

VIII, 2748; Hb. V, 262] 1125, il quale riproduce — con una laconicità

che potrebbe fare qualche torto alla ricchezza di implicazioni che il

testo originario recava con sé — Alf. II dig. ab anon. epit., D. 9.1.5

[= Pal. Alf.. 6] 1126, in tema di actio de pauperie.

Si tratta, per la precisione, di

G.5. – Sch. 1 (Pe) ad Bas. 60.2.5 [BS. VIII, 3089; Hb. V,

262]: « 'Onhl£thj e†lkusen ™pˆ ™rgast»rion †ppon. `O †ppoj

oátoj eØrhkëj moÚlan çsfr»sato aÙt»n: ¹ d ™l£ktisen kaˆ

œklase tÕ skšloj toà Ñnhl£tou. 'Hrwt»qh SeRÚϊoj, e„ dÚnatai kat¦ toà despÒtou tÁj moÚlaj œcein t¾n QUADRUPEDar…an Ð

plhgeˆj Ñnhl£thj, kaˆ ¢pekr…nato œcein aÙt»n. Ka…toi Ð

despÒthj toà ™req…santoj ™nšcetai, æj dig. a/. 'All¦ tÕ

ÑsfranqÁnai oÙk œstin ™req…sai: kat¦ fÚsin g¦r ›petai to‹j

zèoij ».

Quanto risulta essere significativo è che, nell’Índix, il re-

sponsum viene pianamente attribuito a Servio (« ºrwt»qh SeRÚϊoj... kaˆ ¢pekr…nato... ») 1127.

Queste testimonianze vanno, pertanto, accolte fra quelle da

attribuire al giurista tardorepubblicano.

Debbo dire, infatti e onestamente, che mi sembra improbabi-

le (e, soprattutto, contrario a ragionevolezza) ipotizzare che l’in-

1125 Bas. 60.2.5: « 'E¦n †ppoj ÑsfranqÍ moàlan, ¹ d lakt…sV kaˆ kl£sV

tin£, Ð despÒthj aÙtÁj ™n£getai ». 1126 D. 9.1.5: « Agaso cum in tabernam equum deduceret, mulam equus olfecit,

mula calcem reiecit et crus agasoni fregit: consulebatur, possetne cum domino mu-lae agi, quod ea pauperiem fecisset. Respondi posse ».

1127 Cfr. TH. MOMMSEN, Digesta Iustiniani augusti, I, p. 277, ad lin. 27 ed E. ZA-CHARIÄ VON LINGENTHAL, Aus und zu Quellen des römischen Rechts, pp. 284-285. Da notare che i « Fontes minores », èditi da D. Simon e da L. Burgmann, non pre-sentano altre ricorrenze dei testi esaminati.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

529

serimento del nome di Servio nei brani ora esaminati sia da ascrivere

ad una iniziativa di colui (o di coloro) che ha tratto (o trassero) lo

‘scolio’ dal lavoro di Stefano o da quello di Doroteo, e non, invece,

che tale indicazione fosse già contenuta negli ‘indici’ dal primo (o

dai primi) studiati 1128.

Del resto, le stesse traslitterazioni (già segnalate, nonché le

restanti, anche se spurie, « SeRÚϊoj » e « QUADRUPEDar…an », sott.:

¢gwg»n) e il rinvio al thema del Digesto — letteralmente: « dig. a/ »

— di Sch. 1 (Pe) ad Bas. 60.2.5 cit., debbono indurre ad accogliere,

come preferibile, la seconda soluzione.

10. Tavole sinottiche e di sintesi dei risultati raggiunti

A chiusura di questo ampio e, spero di poter dire, meditato

capitolo, reputo opportuno fornire alcune tavole sinottiche tali da

permettere al lettore di districarsi fra i diversi modi di inserimento

delle testimonianze nelle opere analizzate — non sempre agevoli per

la lettura, per il confronto e, quindi, per l’indagine.

Per i motivi appena esposti, ho scelto, dunque, di redigere

quattro ‘tavole’, rispettivamente secondo l’ordine (alfabetico) delle

fonti da cui i passi serviani sono stati escerpiti (Tav. I); secondo l’or-

dine attribuito in questo capitolo (Tav. II); ancora, secondo quello

della Palingenesia iuris civilis di Lenel (Tav. III) e, finalmente, se-

condo l’ordine (di presunta opera di provenienza) stabilito dal Bre-

mer nelle sue Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt (Tav.

1128 Vd., però, C. FERRINI, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, p. 9 nt. 2 = ID., O-

pere, II, p. 175 nt. 2 (con riferimento a D. 9.1.5 → Sch. 1, Pe ad Bas. 60.2.5 [BS. VIII, 3089; Hb. V, 262]); di opposto parere F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, pp. 255-256 nt. 4 = ID., Storia della giurisprudenza romana, p. 367 nt. 2 (e vd. ID., Roman Legal Science 2, p. 206 nt. 3), ed E. VERNAY, Servius et son École, p. 41 nt. 2. Vd. anche supra, nt. 12.

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« SERVIUS RESPONDIT »

530

IV).

Spero che sia adeguatamente precisata l’intenzione persegui-

ta, e che questa possa tradursi in effettiva utilità per gli studiosi: ossia

di consentire di rintracciare velocemente i vari testi in tutte le opere

che, a differente titolo, li censiscono, senza essere costretti a lunghe

ricerche, dispendiose sia sotto il profilo della concentrazione, sia sot-

to quello del tempo.

Penso, a questo riguardo, alla ‘macchinosità’ dell’opera bre-

meriana 1129, la cui dimostrazione è data proprio dalle involontarie

omissioni in cui l’Autore è incorso, segno che — in alcuni casi —

anch’egli non riuscì a dominare completamente la complessa siste-

matica elaborata per i testi a disposizione 1130. E penso anche — si

licet parva — alla complessità della sistematica adottata, per forza di

cose, in questo capitolo.

La visione prospettica del contenuto delle varie ‘tavole’ con-

sentirà, infine, di rilevare i passi omessi dal Lenel, o dal Bremer, ov-

vero, ancora, da entrambi gli autori 1131 — nonché, in alcune eve-

nienze, anche in queste pagine.

1129 Non per nulla, accanto all’indicazione del frammento e dell’opera, ho prov-

veduto a segnalare anche la relativa pagina del primo tomo della Iurisprudentia an-tehadriana (cfr. Tav. IV — e così, per simili preoccupazioni, ho agito con riguardo al censimento dei frammenti contenuti in questi ‘studi’: cfr. Tav. II).

1130 Un esempio per tutti sia dato dai paragrafi 1-3 di Alf. IV dig. a Paul. epit., D. 18.1.40 [= Pal. Alf. 62]: infatti BREMER, op. cit., pp. 313-315, registra soltanto il principium e i §§ 4-6 (di cui, il § 5, è nuovamente riportato, per refuso, come « D. 18, 1, 40, 4. » al frg. Alf. 74 [ivi, pp. 314-315]).

1131 E, in questi termini, viene ribadita la scelta operata in questi ‘studi’ di non riprodurre il lemma festino ‘mancipatione adoptatur’ [Mü. 153], per le ragioni espo-ste supra, § 7.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

531

TAVOLA I

Secondo l’ordine alfabetico delle testimonianze 1132

(col. I)

I

DIGESTA

E ALTRI FONTES

II

SERVIUS

RESPONDIT

III

PALINGENESIA

IURIS CIVILIS

(SERVIUS)

IV

IURISPRUDENTIAE

ANTEHADRIANAE

QUAE SUPERSUNT I

Aul. Gell.,

N.A. 4.1.16-17 e 20

E.38. 6 1 e 3 [= §§ 17 e 20]

repr. Scaev. cap.,

pp. 220-221

Aul. Gell.,

N.A. 4.2.12

B.8.

97 108 resp., p. 200

Aul. Gell.,

N.A. 4.3.2

F.15. 2 4 de dotib., pp. 227-228

Aul. Gell., N.A. 4.4 F.16. 3 1 de dotib., pp. 226-227

Aul. Gell., N.A.

7.12.1 e 4

F.17. 9 s.n. de sacr. detest.,

p. 225

Bas. 20.1.27.1

(vd. Sch. 2 ad

Bas. eod.)

Bas. 48.1.6

1132 In questa sola prima ‘Tavola’, a proposito dei passi attribuiti a Servio sulla

base delle fonti bizantine, sono indicati autonomamente anche il relativo frammento del Digesto e dei Basilici, con contestuale rinvio allo scÒlion in cui è dato rinvenire il nome del giurista. All’interno delle ‘Tavole’ II, III e IV, invece, le fonti in oggetto sono censite soltanto come ‘Sch.[olium (et rell.)]’.

In queste ipotesi, nella colonna IV di ogni ‘Tavola’, il rimando al lavoro del Bremer si intende — ovviamente — operato al corrispondente passo del Digesto di Giustiniano.

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« SERVIUS RESPONDIT »

532

(vd. Sch. 1 ad

Bas. eod.)

Bas. 48.5.15 pr.-1

(vd. Sch. 1 e 2 ad

Bas. 48.5.15)

Bas. 60.2.5

(vd. Sch. 1 ad Bas.

60.2.5)

Cic., Ad fam. 7.21 F.1. 89 8 resp., p. 169

Cic., Top. 8.36 F.2. 81 2 al. opera, p. 240

D. 1.2.2.43 omiss is 1133 omiss is 6 incert. sed., p. 242

D. 3.5.20(21) pr. B.16. 10 131 resp., p. 208

D. 4.3.1.2 E.25. 11 1 ad ed., p. 233

D. 4.6.26.4 E.26. 12 2 ad ed., p. 233

D. 4.8.40 E.8. 133 95b resp., p. 197

D. 5.1.80 B.10. 14 142 resp., p. 212

D. 8.5.6.2 E.27. 15 94 resp., p. 196

D. 8.6.7 E.24. 16 9 ad l. XII Tab., p. 230

D. 9.1.1.4 D.14. 17 7 ad l. XII Tab., p. 230

D. 9.1.5

(vd. Sch. 1 ad Bas.

60.2.5)

D. 9.3.5.12 B.19. 18 139-140 resp., p. 211

3 ad ed., p. 233

D. 12.4.8 D.2. 1 3 de dotib., p. 227

D. 13.3.3 E.28. 19 97 resp., p. 197

1133 La testimonianza pomponiana è stata omessa da O. LENEL, Palingenesia iu-

ris civilis, II, coll. 321 e ss., e si è scelto di fare altrettanto in questa sede, poiché es-sa tratta ‘di’ Servio e non rappresenta già un ‘testo serviano’. Cfr., invece, per la so-luzione opposta, F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, p. 242.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

533

D. 14.2.2 pr. e § 3 B.17. 20 124 e 126 resp., p. 206

D. 14.3.5 [pr.-]1 D.15. 4 7 ad ed., p. 234

D. 15.1.9.2-3 E.29. 21 8 ad ed., p. 234

D. 15.1.17 B.20. 22 9 ad ed., p. 235

D. 17.2.30 D.12. 5 8b repr. Scaev. cap.,

p. 222

D. 17.2.52.[17-]18 B.21. 23 127 resp., pp. 206-207

D. 17.2.65.8 D.9. 24 9 repr. Scaev. cap.,

p. 223

5 incert. sed., p. 241

D. 18.1.80.2 A.2. 25 147 resp., p. 215

D. 19.1.13.30 E.30. 26 104 resp., p. 199

D. 19.2.15.2 D.16. 27 114 resp., p. 203

(e cfr. p. 232)

D. 19.2.19.1 D.17. 28 115 resp., p. 203

D. 19.2.27.1

(vd. Sch. 2 ad Bas.

20.1.27.1)

121 resp., p. 205

D. 19.2.33 +

D. 19.2.35 pr.-1

E.10. 29 113 e 119b resp.,

pp. 202-205

D. 21.2.69.3 E.18. 30 109 resp., p. 201

D. 22.2.8 E.34. 13 95a resp., p. 197

D. 23.3.79 pr. E.3. 31 67 resp., p. 188

D. 23.3.79.1 B.7. 31 64 resp., p. 188

D. 24.3.66 pr. E.4. 32 66 resp., p. 188

D. 26.1.1 pr. E.21. 33 3 ad l. XII Tab., p. 229

D. 26.1.3.4 E.40. 35 71 resp., p. 189

D. 27.7.4 pr. E.31. 36 72 resp., p. 190

D. 28.1.25 B.6. 37 1 resp., p. 167

D. 28.5.17.1 E.35. 38 2 resp., p. 167

D. 28.5.46(45) B.1. 40 3 resp., p. 167

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« SERVIUS RESPONDIT »

534

D. 28.7.28 B.15. 39 52 resp., p. 184

D. 30.30 [pr. e §].2 D.25. 41 49 resp., p. 183

D. 30.63 D.3. 42 40 resp., p. 181

D. 32.29.1 D.1. 43 59 resp., p. 186

5 repr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 32.29.2 E.1. 43 46 resp., p. 182

D. 32.57 E.7. 44 26 resp., p. 175

D. 32.62 B.9. 45 42 resp., p. 181

D. 33.4.6 pr. B.3. 46 10 resp., pp. 170-171

D. 33.7.12 pr. B.22. 47 22 resp., p. 174

D. 33.7.12.6 B.23. 47 20 resp., p. 174

D. 33.7.15 pr. B.12. 48 44 resp., p. 182

D. 33.7.16.1 B.2. 49 25 resp., p. 175

D. 33.7.16.2 A.1. 49 19 resp., p. 173

D. 33.9.3.6 E.37. 7 2 repr. Scaev. cap.,

pp. 220-221

D. 33.9.3.10 E.39. 50 4 repr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 33.10.7.2 D.4. 51 35 resp., p. 178

D. 34.2.4 B.18. 52 37 resp., p. 180

D. 34.2.19.17 E.36. 53 33 resp., p. 177

D. 34.2.27.3 E.41. 54 30 resp., p. 176

D. 34.2.39.2 B.4. 55 32 resp., p. 177

D. 35.1.6.1 B.11. 40 4 resp., p. 167

D. 35.1.40.3 B.5. 56 51 resp., pp. 183-184

D. 37.9.1.24-25 D.18. 58 11-12 ad ed.,

pp. 235-236

D. 38.2.1 E.32. 59 10 ad ed., p. 235

D. 38.10.8 E.5. 60 2 de dotib., p. 227

D. 39.2.24.4-5 D.24. 61 84b e 87 resp.,

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

535

pp. 194-195

D. 40.1.6

(vd. Sch. 1 ad Bas.

48.1.6)

15 resp., pp. 171-172

D. 40.4.35 D.10. 62 55 resp., p. 185

D. 40.4.48 B.14. 63 58 resp., p. 185

D. 40.7.3.2 D.26. 64 1 incert. sed.,

pp. 240-241

D. 40.7.14 pr.-1

(vd. Sch. 1 e 2 ad

Bas. 48.5.15)

56 resp., p. 185

D. 40.7.39 pr. E.2. 65 6 respr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 40.7.39.3 C.1. 65 omiss is

cfr. p. 238

D. 40.12.24 [pr.-]1 E.23. 66 62 resp., p. 187

D. 41.1.26 pr. D.13. 67 75 resp., p. 191

D. 41.4.2.8 D.11. 68 77 resp., p. 191

D. 41.5.2.2 D.5. 69 79 resp., p. 191

D. 43.17.3.11 D.19. 70 13 ad ed., p. 236

D. 43.21.3 pr.-1 D.20. 71 15-16 ad ed., p. 236

D. 43.24.4 D.7. 72 17 ad ed., p. 236

D. 43.24.5.3-6 D.21. 73 20-23 ad ed., p. 237

D. 43.24.13.4 E.33. 75 19 ad ed., p. 237

D. 43.24.7.4 D.22. 74 18 ad ed., pp. 236-237

D. 44.7.23 E.9. 76 144 resp., p. 212

D. 46.3.67 B.13. 77 99 resp., p. 198

D. 47.2.77(76).1 E.6. 79 11 repr. Scaev. cap.,

pp. 223-224

D. 47.10.15.32 D.23. 80 137 resp., p. 210

D. 49.15.12 pr. E.19. 82 3 al. opera, p. 240

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« SERVIUS RESPONDIT »

536

D. 50.16.25 [pr.-]1 E.20. 8 8 repr. Scaev. cap.,

p. 222

D. 50.16.30 pr. E.11. 83 116 resp., p. 204

D. 50.16.77 E.22. 84 21 resp., p. 174

D. 50.16.122 D.6. 85 54 resp., p. 184

D. 50.16.237 E.17. 86 10 ad l. XII Tab., p. 230

Fest., s.v.

‘Mancipatione

adoptatur’

[Mü. 153]

omiss is

90

[= L. 140,

linn. 11 e ss.]

omiss is

Fest., s.v.

‘Municeps’

[L. 126 → Gl. lat.

IV, 262]

F.5. ? 91 4 al. opera, p. 240

Fest., s.v. ‘Noxia’

[L. 180 → Gl. lat.

IV, 291]

F.6. 92 6 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Orba’

[L. 194 → Gl. lat.

IV, 297-298]

F.7. omiss is 2 incert. sedis, p. 241

Fest., s.v. ‘Pedem

struit’

[L. 232 → Gl. lat.

IV, 317]

F.8. 93 1 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Posticam

lineam’

[L. 262 → Gl. lat.

IV, 339]

F.9. 94 1 al. opera, p. 239

Fest., s.v. ‘Sanates’

[L. 426 → Gl. lat.

IV, 415]

F.10. 95 2 ad l. XII Tab., p. 229

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

537

Fest., s.v. ‘Sarcito’

[L. 430 → Gl. lat.

IV, 416]

F.11. 92 5 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Sifus’

[L. 458 → Gl. lat.

IV, 430]

F.12. omiss is omiss is

Fest., s.v. ‘Saturno

sacrificium’

[L. 462 → Gl. lat.

IV, 432-433]

F.13. ? omiss is omiss is

Fest., s.v.

‘Vindiciae’

[L. 516 → Gl. lat.

IV, 465]

F.14. 96 4 ad l. XII Tab., p. 229

Gai 1.188 E.12. 34 7 repr. Scaev. cap.,

p. 221

Gai 2.244 E.13. 57 53 resp., p. 184

Gai 3.149

[cfr. D. 17.2.30 e

I.I. 3.25.2]

D.12. 5 8a[-8c] repr. Scaev.

cap., pp. 222-223

+ D. 17.2.29 pr. [solo

Br. Frg. 8d]

Gai 3.156 E.14. 87 130 resp., pp. 207-208

Gai 3.179 E.15. 88 98 resp., pp. 197-198

Gai 3.183 E.16. 78 10 repr. Scaev. cap.,

p. 223 –

8 ad l. XII Tab., p. 230

Macrob., Sat. 3.3.8 F.18. omiss is 3 incert. sedis, p. 241

Plin., N.H. 28.5.26 F.4. omiss is 7 incert. sedis, p. 242

Sch. 2 ad Bas.

20.1.27.1

G.1. omiss is 121 resp., p. 205

Sch. 1 ad Bas. G.2 omiss is 15 resp., pp. 171-172

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« SERVIUS RESPONDIT »

538

48.1.6

Sch. 1 ad Bas.

48.5.15 pr.

G.3. omiss is 56 resp., p. 185

Sch. 2 ad Bas.

48.5.15 pr.

G.4. omiss is [57 resp., p. 185:

per probabile attrazione

del frg. precedente]

Sch. 1 ad Bas.

60.2.5

G.5. omiss is 138 ? resp., p. 211

Varro, De ling. Lat.

5.6.40

F.3. omiss is 4 incert. sedis, p. 241

Vat. Fragm. 294 D.8. 69 70 resp., p. 189

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

539

TAVOLA II

Secondo l’ordine attribuito in questo capitolo

(col. II)

I

DIGESTA

E ALTRI FONTES

II

SERVIUS

RESPONDIT

III

PALINGENESIA

IURIS CIVILIS

(SERVIUS)

IV

IURISPRUDENTIAE

ANTEHADRIANAE

QUAE SUPERSUNT I

D. 33.7.16.2 A.1. 49 19 resp., p. 173

D. 18.1.80.2 A.2. 25 147 resp., p. 215

D. 28.5.46(45) B.1. 40 3 resp., p. 167

D. 33.7.16.1 B.2. 49 25 resp., p. 175

D. 33.4.6 pr. B.3. 46 10 resp., pp. 170-171

D. 34.2.39.2 B.4. 55 32 resp., p. 177

D. 35.1.40.3 B.5. 56 51 resp., pp. 183-184

D. 28.1.25 B.6. 37 1 resp., p. 167

D. 23.3.79.1 B.7. 31 64 resp., p. 188

Aul. Gell.,

N.A. 4.2.12

B.8. 97 108 resp., p. 200

D. 32.62 B.9. 45 42 resp., p. 181

D. 5.1.80 B.10. 14 142 resp., p. 212

D. 35.1.6.1 B.11. 40 4 resp., p. 167

D. 33.7.15 pr. B.12. 48 44 resp., p. 182

D. 46.3.67 B.13. 77 99 resp., p. 198

D. 40.4.48 B.14. 63 58 resp., p. 185

D. 28.7.28 B.15. 39 52 resp., p. 184

D. 3.5.20(21) pr. B.16. 10 131 resp., p. 208

D. 14.2.2 pr. e § 3 B.17. 20 124 e 126 resp., p. 206

D. 34.2.4 B.18. 52 37 resp., p. 180

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« SERVIUS RESPONDIT »

540

D. 9.3.5.12 B.19. 18 139-140 resp., p. 211

3 ad ed., p. 233

D. 15.1.17 B.20. 22 9 ad ed., p. 235

D. 17.2.52.[17-]18 B.21. 23 127 resp., pp. 206-207

D. 33.7.12 pr. B.22. 47 22 resp., p. 174

D. 33.7.12.6 B.23. 47 20 resp., p. 174

D. 40.7.39.3 C.1. 5 omiss is

cfr. p. 238

D. 32.29.1 D.1. 43 59 resp., p. 186

5 repr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 12.4.8 D.2. 1 3 de dotib., p. 227

D. 30.63 D.3. 42 40 resp., p. 181

D. 33.10.7.2 D.4. 51 35 resp., p. 178

D. 41.5.2.2 D.5. 69 79 resp., p. 191

D. 50.16.122 D.6. 85 54 resp., p. 184

D. 43.24.4 D.7. 72 17 ad ed., p. 236

Vat. Fragm. 294 D.8. 69 70 resp., p. 189

D. 17.2.65.8 D.9. 24 9 repr. Scaev. cap.,

p. 223

5 incert. sed., p. 241

D. 40.4.35 D.10. 62 55 resp., p. 185

D. 41.4.2.8 D.11. 68 77 resp., p. 191

D. 17.2.30 D.12. 5 8b repr. Scaev. cap.,

p. 222

Gai 3.149

[cfr. D. 17.2.30 e

I.I. 3.25.2]

D.12. 5 8a[-8c] repr. Scaev.

cap., pp. 222-223

+ D. 17.2.29 pr. [solo

Br. Frg. 8d]

D. 41.1.26 pr. D.13. 67 75 resp., p. 191

D. 9.1.1.4 D.14. 17 7 ad l. XII Tab., p. 230

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

541

D. 14.3.5 [pr.-]1 D.15. 4 7 ad ed., p. 234

D. 19.2.15.2 D.16. 27 114 resp., p. 203

(e cfr. p. 232)

D. 19.2.19.1 D.17. 28 115 resp., p. 203

D. 37.9.1.24-25 D.18. 58 11-12 ad ed.,

pp. 235-236

D. 43.17.3.11 D.19. 70 13 ad ed., p. 236

D. 43.21.3 pr.-1 D.20. 71 15-16 ad ed., p. 236

D. 43.24.5.3-6 D.21. 73 20-23 ad ed., p. 237

D. 43.24.7.4 D.22. 74 18 ad ed., pp. 236-237

D. 47.10.15.32 D.23. 80 137 resp., p. 210

D. 39.2.24.4-5 D.24. 61 84b e 87 resp.,

pp. 194-195

D. 30.30 [pr. e §].2 D.25. 41 49 resp., p. 183

D. 40.7.3.2 D.26. 64 1 incert. sed.,

pp. 240-241

D. 32.29.2 E.1. 43 46 resp., p. 182

D. 40.7.39 pr. E.2. 65 6 respr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 23.3.79 pr. E.3. 31 67 resp., p. 188

D. 24.3.66 pr. E.4. 32 66 resp., p. 188

D. 38.10.8 E.5. 60 2 de dotib., p. 227

D. 47.2.77(76).1 E.6. 79 11 repr. Scaev. cap.,

pp. 223-224

D. 32.57 E.7. 44 26 resp., p. 175

D. 4.8.40 E.8. 13 95b resp., p. 197

D. 44.7.23 E.9. 76 144 resp., p. 212

D. 19.2.33 +

D. 19.2.35 pr.-1

E.10. 29 113 e 119b resp.,

pp. 202-205

D. 50.16.30 pr. E.11. 83 116 resp., p. 204

Gai 1.188 E.12. 34 7 repr. Scaev. cap.,

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« SERVIUS RESPONDIT »

542

p. 221

Gai 2.244 E.13. 57 53 resp., p. 184

Gai 3.156 E.14. 87 130 resp., pp. 207-208

Gai 3.179 E.15. 88 98 resp., pp. 197-198

Gai 3.183 E.16. 78 10 repr. Scaev. cap.,

p. 223 –

8 ad l. XII Tab., p. 230

D. 50.16.237 E.17. 86 10 ad l. XII Tab., p. 230

D. 21.2.69.3 E.18. 30 109 resp., p. 201

D. 49.15.12 pr. E.19. 82 3 al. opera, p. 240

D. 50.16.25 [pr.-]1 E.20. 8 8 repr. Scaev. cap.,

p. 222

D. 26.1.1 pr. E.21. 33 3 ad l. XII Tab., p. 229

D. 50.16.77 E.22. 84 21 resp., p. 174

D. 40.12.24 [pr.-]1 E.23. 66 62 resp., p. 187

D. 8.6.7 E.24. 16 9 ad l. XII Tab., p. 230

D. 4.3.1.2 E.25. 11 1 ad ed., p. 233

D. 4.6.26.4 E.26. 12 2 ad ed., p. 233

D. 8.5.6.2 E.27. 15 94 resp., p. 196

D. 13.3.3 E.28. 19 97 resp., p. 197

D. 15.1.9.2-3 E.29. 21 8 ad ed., p. 234

D. 19.1.13.30 E.30. 26 104 resp., p. 199

D. 27.7.4 pr. E.31. 36 72 resp., p. 190

D. 38.2.1 E.32. 59 10 ad ed., p. 235

D. 43.24.13.4 E.33. 75 19 ad ed., p. 237

D. 22.2.8 E.34. 13 95a resp., p. 197

D. 28.5.17.1 E.35. 38 2 resp., p. 167

D. 34.2.19.17 E.36. 53 33 resp., p. 177

D. 33.9.3.6 E.37. 7 2 repr. Scaev. cap.,

pp. 220-221

Aul. Gell., N.A. 4.1 E.38. 6 1 e 3 [= §§ 17 e 20]

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

543

§§ 16-17 e 20 repr. Scaev. cap.,

pp. 220-221

D. 33.9.3.10 E.39. 50 4 repr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 26.1.3.4 E.40. 35 71 resp., p. 189

D. 34.2.27.3 E.41. 54 30 resp., p. 176

Cic., Ad fam. 7.21 F.1. 89 8 resp., p. 169

Cic., Top. 8.36 F.2. 81 2 al. opera, p. 240

Varro, De ling. Lat.

5.6.40

F.3. omiss is 4 incert. sedis, p. 241

Plin., N.H. 28.5.26 F.4. omiss is 7 incert. sedis, p. 242

Fest., s.v.

‘Municeps’

[L. 126 → Gl. lat.

IV, 262]

F.5. ? 91 4 al. opera, p. 240

Fest., s.v. ‘Noxia’

[L. 180 → Gl. lat.

IV, 291]

F.6. 92 6 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Orba’

[L. 194 → Gl. lat.

IV, 297-298]

F.7. omiss is 2 incert. sedis, p. 241

Fest., s.v. ‘Pedem

struit’

[L. 232 → Gl. lat.

IV, 317]

F.8. 93 1 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Posticam

lineam’

[L. 262 → Gl. lat.

IV, 339]

F.9. 94 1 al. opera, p. 239

Fest., s.v. ‘Sanates’

[L. 426 → Gl. lat.

F.10. 95 2 ad l. XII Tab., p. 229

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« SERVIUS RESPONDIT »

544

IV, 415]

Fest., s.v. ‘Sarcito’

[L. 430 → Gl. lat.

IV, 416]

F.11. 92 5 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Sifus’

[L. 458 → Gl. lat.

IV, 430]

F.12. omiss is omiss is

Fest., s.v. ‘Saturno

sacrificium’

[L. 462 → Gl. lat.

IV, 432-433]

F.13. ? omiss is omiss is

Fest., s.v.

‘Vindiciae’

[L. 516 → Gl. lat.

IV, 465]

F.14. 96 4 ad l. XII Tab., p. 229

Aul. Gell., N.A.

4.3.2

F.15. 2 4 de dotib., pp. 227-228

Aul. Gell., N.A. 4.4 F.16. 3 1 de dotib., pp. 226-227

Aul. Gell., N.A.

7.12.1 e 4

F.17. 9 s.n. de sacr. detest.,

p. 225

Macrob., Sat. 3.3.8 F.18. omiss is 3 incert. sedis, p. 241

Fest., s.v.

‘Mancipatione

adoptatur’

[Mü. 153]

o

omiss is

90

[= L. 140,

linn. 11 e ss.]

omiss is

D. 1.2.2.43 omiss is omiss is 6 incert. sed., p. 242

Sch. 2 ad Bas.

20.1.27.1

(cfr. D. 19.2.27.1 e

Bas. 20.1.27.1)

G.1. omiss is 121 resp., p. 205

Sch. 1 ad Bas. G.2 omiss is 15 resp., pp. 171-172

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

545

48.1.6

(cfr. D. 40.1.6 e Bas.

48.1.6)

Sch. 1 ad Bas.

48.5.15 pr.

(cfr. D. 40.7.14 pr. e

Bas. 48.5.15 pr.)

G.3. omiss is 56 resp., p. 185

Sch. 2 ad Bas.

48.5.15 pr.

(cfr. D. 40.7.14.1 e

Bas. 48.5.15.1)

G.4. omiss is [57 resp., p. 185:

per probabile attrazione

del frg. precedente]

Sch. 1 ad Bas.

60.2.5

(vd. D. 9.1.5 e Bas.

60.2.5)

G.5. omiss is 138 ? resp., p. 211

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« SERVIUS RESPONDIT »

546

TAVOLA III

Secondo l’ordine attribuito dalla Palingenesia Servii di Lenel

(col. III)

I

DIGESTA

E ALTRI FONTES

II

SERVIUS

RESPONDIT

III

PALINGENESIA

IURIS CIVILIS

(SERVIUS)

IV

IURISPRUDENTIAE

ANTEHADRIANAE

QUAE SUPERSUNT I

D. 12.4.8 D.2. 1 3 de dotib., p. 227

Aul. Gell., N.A.

4.3.2

F.15. 2 4 de dotib., pp. 227-228

Aul. Gell., N.A. 4.4 F.16. 3 1 de dotib., pp. 226-227

D. 14.3.5 [pr.-]1 D.15. 4 7 ad ed., p. 234

D. 17.2.30 D.12. 5 8b repr. Scaev. cap.,

p. 222

Gai 3.149

[cfr. D. 17.2.30 e

I.I. 3.25.2]

D.12. 5 8a[-8c] repr. Scaev.

cap., pp. 222-223+

D. 17.2.29 pr. [solo Br.

Frg. 8d]

Aul. Gell., N.A. 4.1

§§ 16-17 e 20

E.38. 6 1 e 3 [= §§ 17 e 20]

repr. Scaev. cap.,

pp. 220-221

D. 33.9.3.6 E.37. 7 2 repr. Scaev. cap.,

pp. 220-221

D. 50.16.25 [pr.-]1 E.20. 8 8 repr. Scaev. cap.,

p. 222

Aul. Gell., N.A.

7.12.1 e 4

F.17. 9 s.n. de sacr. detest.,

p. 225

D. 3.5.20(21) pr. B.16. 10 131 resp., p. 208

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

547

D. 4.3.1.2 E.25. 11 1 ad ed., p. 233

D. 4.6.26.4 E.26. 12 2 ad ed., p. 233

D. 4.8.40 E.8. 13 95b resp., p. 197

D. 22.2.8 E.34. 13 95a resp., p. 197

D. 5.1.80 B.10. 14 142 resp., p. 212

D. 8.5.6.2 E.27. 15 94 resp., p. 196

D. 8.6.7 E.24. 16 9 ad l. XII Tab., p. 230

D. 9.1.1.4 D.14. 17 7 ad l. XII Tab., p. 230

D. 9.3.5.12 B.19. 18 139-140 resp., p. 211

3 ad ed., p. 233

D. 13.3.3 E.28. 19 97 resp., p. 197

D. 14.2.2 pr. e § 3 B.17. 20 124 e 126 resp., p. 206

D. 15.1.9.2-3 E.29. 21 8 ad ed., p. 234

D. 15.1.17 B.20. 22 9 ad ed., p. 235

D. 17.2.52.[17-]18 B.21. 23 127 resp., pp. 206-207

D. 17.2.65.8 D.9. 24 9 repr. Scaev. cap.,

p. 223

5 incert. sed., p. 241

D. 18.1.80.2 A.2. 25 147 resp., p. 215

D. 19.1.13.30 E.30. 26 104 resp., p. 199

D. 19.2.15.2 D.16. 27 114 resp., p. 203

(e cfr. p. 232)

D. 19.2.19.1 D.17. 28 115 resp., p. 203

D. 19.2.33 +

D. 19.2.35 pr.-1

E.10. 29 113 e 119b resp.,

pp. 202-205

D. 21.2.69.3 E.18. 30 109 resp., p. 201

D. 23.3.79.1 B.7. 31 64 resp., p. 188

D. 23.3.79 pr. E.3. 31 67 resp., p. 188

D. 24.3.66 pr. E.4. 32 66 resp., p. 188

D. 26.1.1 pr. E.21. 33 3 ad l. XII Tab., p. 229

Gai 1.188 E.12. 34 7 repr. Scaev. cap.,

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« SERVIUS RESPONDIT »

548

p. 221

D. 26.1.3.4 E.40. 35 71 resp., p. 189

D. 27.7.4 pr. E.31. 36 72 resp., p. 190

D. 28.1.25 B.6. 37 1 resp., p. 167

D. 28.5.17.1 E.35. 38 2 resp., p. 167

D. 28.7.28 B.15. 39 52 resp., p. 184

D. 28.5.46(45) B.1. 40 3 resp., p. 167

D. 35.1.6.1 B.11. 40 4 resp., p. 167

D. 30.30 [pr. e §].2 D.25. 41 49 resp., p. 183

D. 30.63 D.3. 42 40 resp., p. 181

D. 32.29.1 D.1. 43 59 resp., p. 186

5 repr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 32.29.2 E.1. 43 46 resp., p. 182

D. 32.57 E.7. 44 26 resp., p. 175

D. 32.62 B.9. 45 42 resp., p. 181

D. 33.4.6 pr. B.3. 46 10 resp., pp. 170-171

D. 33.7.12 pr. B.22. 47 22 resp., p. 174

D. 33.7.12.6 B.23. 47 20 resp., p. 174

D. 33.7.15 pr. B.12. 48 44 resp., p. 182

D. 33.7.16.2 A.1. 49 19 resp., p. 173

D. 33.7.16.1 B.2. 49 25 resp., p. 175

D. 33.9.3.10 E.39. 50 4 repr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 33.10.7.2 D.4. 51 35 resp., p. 178

D. 34.2.4 B.18. 52 37 resp., p. 180

D. 34.2.19.17 E.36. 53 33 resp., p. 177

D. 34.2.27.3 E.41. 54 30 resp., p. 176

D. 34.2.39.2 B.4. 55 32 resp., p. 177

D. 35.1.40.3 B.5. 56 51 resp., pp. 183-184

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

549

Gai 2.244 E.13. 57 53 resp., p. 184

D. 37.9.1.24-25 D.18. 58 11-12 ad ed.,

pp. 235-236

D. 38.2.1 E.32. 59 10 ad ed., p. 235

D. 38.10.8 E.5. 60 2 de dotib., p. 227

D. 39.2.24.4-5 D.24. 61 84b e 87 resp.,

pp. 194-195

D. 40.4.35 D.10. 62 55 resp., p. 185

D. 40.4.48 B.14. 63 58 resp., p. 185

D. 40.7.3.2 D.26. 64 1 incert. sed.,

pp. 240-241

D. 40.7.39.3 C.1. 65 omiss is , cfr. p. 238

D. 40.7.39 pr. E.2. 65 6 respr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 40.12.24 [pr.-]1 E.23. 66 62 resp., p. 187

D. 41.1.26 pr. D.13. 67 75 resp., p. 191

D. 41.4.2.8 D.11. 68 77 resp., p. 191

D. 41.5.2.2 D.5. 69 79 resp., p. 191

Vat. Fragm. 294 D.8. 69 70 resp., p. 189

D. 43.17.3.11 D.19. 70 13 ad ed., p. 236

D. 43.21.3 pr.-1 D.20. 71 15-16 ad ed., p. 236

D. 43.24.4 D.7. 72 17 ad ed., p. 236

D. 43.24.5.3-6 D.21. 73 20-23 ad ed., p. 237

D. 43.24.7.4 D.22. 74 18 ad ed., pp. 236-237

D. 43.24.13.4 E.33. 75 19 ad ed., p. 237

D. 44.7.23 E.9. 76 144 resp., p. 212

D. 46.3.67 B.13. 77 99 resp., p. 198

Gai 3.183 E.16. 78 10 repr. Scaev. cap., p.

223 –8 ad l. XII Tab., p.

230

D. 47.2.77(76).1 E.6. 79 11 repr. Scaev. cap.,

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« SERVIUS RESPONDIT »

550

pp. 223-224

D. 47.10.15.32 D.23. 80 137 resp., p. 210

Cic., Top. 8.36 F.2. 81 2 al. opera, p. 240

D. 49.15.12 pr. E.19. 82 3 al. opera, p. 240

D. 50.16.30 pr. E.11. 83 116 resp., p. 204

D. 50.16.77 E.22. 84 21 resp., p. 174

D. 50.16.122 D.6. 85 54 resp., p. 184

D. 50.16.237 E.17. 86 10 ad l. XII Tab., p. 230

Gai 3.156 E.14. 87 130 resp., pp. 207-208

Gai 3.179 E.15. 88 98 resp., pp. 197-198

Cic., Ad fam. 7.21 F.1. 89 8 resp., p. 169

Fest., s.v.

‘Mancipatione

adoptatur’

[Mü. 153]

omiss is

90

[= L. 140,

linn. 11 e ss.]

omiss is

Fest., s.v.

‘Municeps’

[L. 126 → Gl. lat.

IV, 262]

F.5. ? 91 4 al. opera, p. 240

Fest., s.v. ‘Noxia’

[L. 180 → Gl. lat.

IV, 291]

F.6. 92 6 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Sarcito’

[L. 430 → Gl. lat.

IV, 416]

F.11. 92 5 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Pedem

struit’

[L. 232 → Gl. lat.

IV, 317]

F.8. 93 1 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Posticam

lineam’

F.9. 94 1 al. opera, p. 239

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

551

[L. 262 → Gl. lat.

IV, 339]

Fest., s.v. ‘Sanates’

[L. 426 → Gl. lat.

IV, 415]

F.10. 95 2 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v.

‘Vindiciae’

[L. 516 → Gl. lat.

IV, 465]

F.14. 96 4 ad l. XII Tab., p. 229

Aul. Gell.,

N.A. 4.2.12

B.8. 97 108 resp., p. 200

D. 1.2.2.43 omiss is omiss is 6 incert. sed., p. 242

Varro, De ling. Lat.

5.6.40

F.3. omiss is 4 incert. sedis, p. 241

Plin., N.H. 28.5.26 F.4. omiss is 7 incert. sedis, p. 242

Fest., s.v. ‘Orba’

[L. 194 → Gl. lat.

IV, 297-298]

F.7. omiss is 2 incert. sedis, p. 241

Fest., s.v. ‘Sifus’

[L. 458 → Gl. lat.

IV, 430]

F.12. omiss is omiss is

Fest., s.v. ‘Saturno

sacrificium’

[L. 462 → Gl. lat.

IV, 432-433]

F.13. ? omiss is omiss is

Macrob., Sat. 3.3.8 F.18. omiss is 3 incert. sedis, p. 241

Sch. 2 ad Bas.

20.1.27.1

(cfr. D. 19.2.27.1 e

Bas. 20.1.27.1)

G.1. omiss is 121 resp., p. 205

Sch. 1 ad Bas. G.2 omiss is 15 resp., pp. 171-172

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« SERVIUS RESPONDIT »

552

48.1.6

(cfr. D. 40.1.6 e

Bas. 48.1.6)

Sch. 1 ad Bas.

48.5.15 pr.

(cfr. D. 40.7.14 pr. e

Bas. 48.5.15 pr.)

G.3. omiss is 56 resp., p. 185

Sch. 2 ad Bas.

48.5.15 pr.

(cfr. D. 40.7.14.1 e

Bas. 48.5.15.1)

G.4. omiss is [57 resp., p. 185:

per probabile attrazione

del frg. precedente]

Sch. 1 ad Bas.

60.2.5

(vd. D. 9.1.5 e Bas.

60.2.5)

G.5. omiss is 138 ? resp., p. 211

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

553

TAVOLA IV

Secondo l’ordine della Iurisprudentia antehadriana di Bremer 1134

(col. IV)

I

DIGESTA

E ALTRI FONTES

II

SERVIUS

RESPONDIT

III

PALINGENESIA

IURIS CIVILIS

(SERVIUS)

IV

IURISPRUDENTIAE

ANTEHADRIANAE

QUAE SUPERSUNT I

D. 4.3.1.2 E.25. 11 1 ad ed., p. 233

D. 4.6.26.4 E.26. 12 2 ad ed., p. 233

D. 9.3.5.12 B.19. 18 3 ad ed., p. 233

139-140 resp., p. 211

D. 14.3.5 [pr.-]1 D.15. 4 7 ad ed., p. 234

D. 15.1.9.2-3 E.29. 1 8 ad ed., p. 234

D. 15.1.17 B.20.

2

9 ad ed., p. 235

1134 A riguardo dell’ordine bremeriano è necessario ribadire una precisazione im-

portante. Come osservato più sopra (nt. 36), la sequenza dei frammenti subisce, nella ‘tabella’, alcune vistose interruzioni: mancano, infatti, i numeri relativi ai frg. 4-6 e 14 relativi ai libri ad edictum, ma, soprattutto, risultano assenti i frg. 5-7, 9, 11-14, 16-18, 23-24, 27-29, 31, 34, 36, 38-39, 41, 43, 45, 47-48, 50, 60-61, 63, 65, 68-69, 73-74, 76, 78, 80-84a, 85-86, 88-93, 96, 100-103, 105-107, 110-112, 117-119a, 120, 122-123, 125, 128-129, 132-136, 141, 143, 145-146 e 148-149 dei libri responso-rum.

Per quanto riguarda i libri ad edictum, le assenze dei frg. 5-6 e 14 corrispondono a pure omissioni — per probabile difetto di coordinamento della versione definitiva del lavoro — da parte dell’Autore tedesco; per quanto concerne il frg. 4, esso corri-sponde ad Alf. II dig. a Paul. epit., D. 46.3.35 [= Pal. Alf. 47], in cui non compare il nome di Servio, ma che (come si è visto supra, § 8, sub B.b.) Bremer attribuiva al caposcuola. Stessa osservazione deve essere ripetuta con riguardo ai libri responso-rum e ai frammenti ora censiti: le testimonianze segnalate sono state omesse per le ragioni illustrate supra, § 8, trattandosi di testi (alfeniani) in cui manca il richiamo a Servio, dato per presupposto, invece, dal Bremer.

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« SERVIUS RESPONDIT »

554

D. 38.2.1 E.32.

9

10 ad ed., p. 235

D. 37.9.1.24-25 D.18.

8

11-12 ad ed.,

pp. 235-236

D. 43.17.3.11 D.19. 70 13 ad ed., p. 236

D. 43.21.3 pr.-1 D.20. 71 15-16 ad ed., p. 236

D. 43.24.4 D.7. 72 17 ad ed., p. 236

D. 43.24.7.4 D.22. 74 18 ad ed., pp. 236-237

D. 43.24.13.4 E.33. 75 19 ad ed., p. 237

D. 43.24.5.3-6 D.21. 73 20-23 ad ed., p. 237

Fest., s.v. ‘Pedem

struit’

[L. 232 → Gl. lat.

IV, 317]

F.8. 93 1 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Sanates’

[L. 426 → Gl. lat.

IV, 415]

F.10. 95 2 ad l. XII Tab., p. 229

D. 26.1.1 pr. E.21. 33 3 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v.

‘Vindiciae’

[L. 516 → Gl. lat.

IV, 465]

F.14. 96 4 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Sarcito’

[L. 430 → Gl. lat.

IV, 416]

F.11. 92 5 ad l. XII Tab., p. 229

Fest., s.v. ‘Noxia’

[L. 180 → Gl. lat.

IV, 291]

F.6. 92 6 ad l. XII Tab., p. 229

D. 9.1.1.4 D.14. 17 7 ad l. XII Tab., p. 230

Gai 3.183 E.16. 78 8 ad l. XII Tab., p. 230

(e cfr.

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

555

anche 10 repr. Scaev.

cap.)

D. 8.6.7 E.24. 16 9 ad l. XII Tab., p. 230

D. 50.16.237 E.17. 86 10 ad l. XII Tab., p. 230

Aul. Gell., N.A. 4.4 F.6. 3 1 de dotib., pp. 226-227

D. 38.10.8 E.5. 60 2 de dotib., p. 227

D. 12.4.8 D.2. 3 de dotib., p. 227

Aul. Gell., N.A.

4.3.2

F.5. ? 2 4 de dotib., pp. 227-228

Aul. Gell., N.A.

7.12.1 e 4

F.7. 9 s.n. de sacr. detest.,

p. 225

Aul. Gell., N.A. 4.1

§§ 16-17 e 20

E.38. 6 1 e 3 [= §§ 17 e 20]

repr. Scaev. cap.,

pp. 220-221

D. 33.9.3.6 E.37. 7 2 repr. Scaev. cap.,

pp. 220-221

D. 33.9.3.10 E.39. 50 4 repr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 32.29.1 59 resp., p. 186

5 repr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 40.7.39 pr. E.2. 65 6 repr. Scaev. cap.,

p. 221

Gai 1.188 E.12. 34 7 repr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 50.16.25 [pr.-]1 E.20. 8 repr. Scaev. cap.,

p. 222

Gai 3.149

[cfr. D. 17.2.30 e

I.I. 3.25.2]

D.12. 5 8a[-8c] repr. Scaev.

cap., pp. 222-223+

D. 17.2.29 pr. [solo Br.

Frg. 8d]

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« SERVIUS RESPONDIT »

556

D. 17.2.30 D.12. 8b repr. Scaev. cap.,

p. 222

Gai 3.183 E.16. 78 10 repr. Scaev. cap., p.

223 (e cfr. anche 8 ad l.

XII Tab., p. 230)

D. 47.2.77(76).1 E.6. 79 11 repr. Scaev. cap.,

pp. 223-224

D. 28.1.25 B.6. 37 1 resp., p. 167

D. 28.5.17.1 E.35. 38 2 resp., p. 167

D. 28.5.46(45) B.1. 40 3 resp., p. 167

D. 35.1.6.1 B.11. 40 4 resp., p. 167

Cic., Ad fam. 7.21 F.1. 89 8 resp., p. 169

D. 33.4.6 pr. B.3. 46 10 resp., pp. 170-171

Sch. 1 ad Bas.

48.1.6

(cfr. D. 40.1.6 e Bas.

48.1.6)

G.2 omiss is 15 resp., pp. 171-172

D. 33.7.16.2 A.1. 49 19 resp., p. 173

D. 33.7.12.6 B.23. 47 20 resp., p. 174

D. 50.16.77 E.22. 84 21 resp., p. 174

D. 33.7.12 pr. B.22. 47 22 resp., p. 174

D. 33.7.16.1 B.2. 49 25 resp., p. 175

D. 32.57 E.7. 44 26 resp., p. 175

D. 34.2.27.3 E.41. 54 30 resp., p. 176

D. 34.2.39.2 B.4. 55 32 resp., p. 177

D. 34.2.19.17 E.36. 53 33 resp., p. 177

D. 33.10.7.2 D.4. 51 35 resp., p. 178

D. 34.2.4 B.18. 52 37 resp., p. 180

D. 30.63 D.3. 42 40 resp., p. 181

D. 32.62 B.9. 45 42 resp., p. 181

D. 33.7.15 pr. B.12. 48 44 resp., p. 182

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

557

D. 32.29.2 E.1. 43 46 resp., p. 182

D. 30.30 [pr. e §].2 D.25. 41 49 resp., p. 183

D. 35.1.40.3 B.5. 56 51 resp., pp. 183-184

D. 28.7.28 B.15. 39 52 resp., p. 184

Gai 2.244 E.13. 57 53 resp., p. 184

D. 50.16.122 D.6. 85 54 resp., p. 184

D. 40.4.35 D.10. 62 55 resp., p. 185

Sch. 1 ad Bas.

48.5.15 pr.

(cfr. D. 40.7.14 pr. e

Bas. 48.5.15 pr.)

G.3. omiss is 56 resp., p. 185

Sch. 2 ad Bas.

48.5.15 pr.

(cfr. D. 40.7.14.1 e

Bas. 48.5.15.1)

G.4. omiss is [57 resp., p. 185:

per probabile attrazione

del frg. precedente]

D. 40.4.48 B.14. 63 58 resp., p. 185

D. 32.29.1 D.1. 43 59 resp., p. 186

5 repr. Scaev. cap.,

p. 221

D. 40.12.24 [pr.-]1 E.23. 66 62 resp., p. 187

D. 23.3.79.1 B.7. 31 64 resp., p. 188

D. 24.3.66 pr. E.4. 32 66 resp., p. 188

D. 23.3.79 pr. E.3. 31 67 resp., p. 188

Vat. Fragm. 294 D.8. 69 70 resp., p. 189

D. 26.1.3.4 E.40. 35 71 resp., p. 189

D. 27.7.4 pr. E.31. 36 72 resp., p. 190

D. 41.1.26 pr. D.13. 67 75 resp., p. 191

D. 41.4.2.8 D.11. 68 77 resp., p. 191

D. 41.5.2.2 D.5. 69 79 resp., p. 191

D. 39.2.24.4-5 D.24. 61 84b e 87 resp.,

pp. 194-195

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« SERVIUS RESPONDIT »

558

D. 8.5.6.2 E.27. 15 94 resp., p. 196

D. 22.2.8 E.34. 13 95a resp., p. 197

D. 4.8.40 E.8. 13 95b resp., p. 197

D. 13.3.3 E.28. 19 97 resp., p. 197

Gai 3.179 E.15. 88 98 resp., pp. 197-198

D. 46.3.67 B.13. 77 99 resp., p. 198

D. 19.1.13.30 E.30. 26 104 resp., p. 199

Aul. Gell.,

N.A. 4.2.12

B.8. 97 108 resp., p. 200

D. 21.2.69.3 E.18. 30 109 resp., p. 201

D. 19.2.33 +

D. 19.2.35 pr.-1

E.10. 29 113 e 119b resp.,

pp. 202-205

D. 19.2.19.1 D.17.

8

115 resp., p. 203

D. 50.16.30 pr. E.11.

3

116 resp., p. 204

Sch. 2 ad Bas.

20.1.27.1

(cfr. D. 19.2.27.1 e

Bas. 20.1.27.1)

G.1. omiss is 121 resp., p. 205

D. 14.2.2 pr. e § 3 B.17. 20 124 e 126 resp., p. 206

D. 17.2.52.[17-]18 B.21. 23 127 resp., pp. 206-207

Gai 3.156 E.14. 87 130 resp., pp. 207-208

D. 3.5.20(21) pr. B.16. 10 131 resp., p. 208

D. 47.10.15.32 D.23. 80 137 resp., p. 210

Sch. 1 ad Bas.

60.2.5

(vd. D. 9.1.5 e

Bas. 60.2.5)

G.5. omiss is 138 ? resp., p. 211

D. 9.3.5.12 B.19. 18 139-140 resp., p. 211

3 ad ed., p. 233

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CAPITOLO II – MATERIALI PER UNA PALINGENESI SERVIANA

559

D. 5.1.80 B.10. 14 142 resp., p. 212

D. 44.7.23 E.9. 76 144 resp., p. 212

D. 18.1.80.2 A.2. 25 147 resp., p. 215

Fest., s.v. ‘Posticam

lineam’

[L. 262 → Gl. lat.

IV, 339]

F.9. 94 1 al. opera, p. 239

Cic., Top. 8.36 F.2. 81 2 al. opera, p. 240

D. 49.15.12 pr. E.19. 82 3 al. opera, p. 240

Fest., s.v.

‘Municeps’

[L. 126 → Gl. lat.

IV, 262]

F.5. ? 91 4 al. opera, p. 240

D. 40.7.3.2 D.26. 64 1 incert. sed.,

pp. 240-241

Fest., s.v. ‘Orba’

[L. 194 → Gl. lat.

IV, 297-298]

F.7. omiss is 2 incert. sedis, p. 241

Macrob., Sat. 3.3.8 F.18. omiss is 3 incert. sedis, p. 241

Varro, De ling. Lat.

5.6.40

F.3. omiss is 4 incert. sedis, p. 241

D. 17.2.65.8 D.9. 24 9 repr. Scaev. cap.,

p. 223

5 incert. sed., p. 241

D. 1.2.2.43 omiss is omiss is 6 incert. sed., p. 242

Plin., N.H. 28.5.26 F.4. omiss is 7 incert. sedis, p. 242

D. 19.2.15.2 D.16. 27 114 resp., p. 203

(e cfr. p. 232)

D. 40.7.39.3 C.1. 65 omiss is

(cfr. p. 238)

Fest., s.v. ‘Sifus’ F.12. omiss is omiss is

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560

[L. 458 → Gl. lat.

IV, 430]

Fest., s.v. ‘Saturno

sacrificium’

[L. 462 → Gl. lat.

IV, 432-433]

F.13. ? omiss is omiss is

Fest., s.v.

‘Mancipatione

adoptatur’

[Mü. 153]

omiss is 90

[= L. 140,

linn. 11 e ss.]

omiss is