LA CONVIVENZA MORE UXORIO - jus.unitn.it · CAPITOLO IV ° DOCUMENTI ALLEGATI A) Proposta di legge...

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO Facoltà di Giurisprudenza Corso di laurea in Giurisprudenza "LA CONVIVENZA MORE UXORIO" Relatore: Prof. Giovanni Pascuzzi Laureando: Stefano Talassi Anno accademico 1998-'99

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO

Facoltà di Giurisprudenza

Corso di laurea in Giurisprudenza

"LA CONVIVENZA MORE UXORIO"

Relatore:

Prof. Giovanni Pascuzzi Laureando:

Stefano Talassi

Anno accademico 1998-'99

INDICE

PREMESSA

1. Rilevanza sociale della famiglia di fatto …….……………... 1

2. Determinazione del significato della famiglia di fatto: analisi storica del passaggio dal "concubinato", alla "famiglia di fatto"

2

3. Rilevanza giuridica del fenomeno - cenni introduttivi ..……. 7

CAPITOLO I °

RILEVANZA COSTITUZIONALE DELLA FAMIGLIA DI FATTO

1. Nascita e morte del problema costituzionale della famiglia di fatto ….………………….……………………………………...

11

2. Le diverse interpretazioni dottrinali …..……………………. 20

3. Le principali sentenze della Corte costituzionale …………...

In materia penale:

- 6 / 1977 …………...…

- 237 / 1986 ………….

- 423 / 1988 ..………….

- 8 / 1996 ……..……….

In materia civile:

- 45 / 1980 …………….

- 404 / 1988 ..………….

- 281 / 1994 ..………….

- 203 / 1997 ..………….

26

26 29 32 34

41 42 45 47

3. Prime conclusioni ..…...……………………………………. 50

CAPITOLO II °

LE TUTELE RICONOSCIUTE

ALLA CONVIVENZA MORE UXORIO

1. Tutela penale ……………………………………………….. 52

2. Tutela civile ..…………………………………………….…. 61

3. Il risarcimento del danno per morte del convivente: inquadramento del problema ………………………….……….

90

CAPITOLO III°

DEL PRESUNTO DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO

AL CONVIVENTE PER L'UCCISIONE DEL PARTNER

CAGIONATA DA TERZI

1. Analisi cronologica della dottrina e della giurisprudenza (anni 1900 - 1970 ca) …..…….………………………………...

92

2. Uno sguardo all'esperienza francese, la sentenza chiave della Cassazione (Chambre mixte) del 27 febbraio 1970 e sue conseguenze …………………………………………….……...

104

3. L'esperienza italiana dagli anni '70 ai giorni nostri ………… 106

4. Sintesi e proposte di soluzioni ……………………………… 125

5. Analisi delle proposte di legge sulla tutela delle convivenze more uxorio ……………………………………………………

137

CAPITOLO IV °

DOCUMENTI ALLEGATI

A) Proposta di legge presentata il 9 ottobre 1987 alla Camera dei deputati (c.d. proposta Calvanese) …………………………

148

B) Proposta di legge presentata il 12 febbraio 1988 alla Camera dei Deputati (c.d. proposta Cappiello) ………………..

154

C) Proposta di legge presentata il 10 maggio 1996 alla Camera dei Deputati (c.d. proposta Sbarbati) …………………………..

158

Indice degli autori, delle sentenze e delle voci più rilevanti…... 163

2

PREMESSA

1. Rilevanza sociale della famiglia di fatto

Il fenomeno della convivenza ha assunto negli ultimi anni una rilevanza sociale

altissima al punto tale da mettere in discussione, entro certi limiti, la stessa

sopravvivenza della famiglia c.d. tradizionale.

Senza entrare troppo del dettaglio è sufficiente leggere le ultime statistiche ISTAT 1 per

accorgersi come da 192.000 "libere unioni" del 1985, si sia passati a 264.000 nel 1995 e

come tale trend sia destinato ad aumentare anche in proiezione futura.

Da tali dati si evince chiaramente che tale fenomeno riguarda principalmente le coppie

giovani (fino ai 35 anni), che presentano una migliore istruzione e sono maggiormente

inserite nel mondo del lavoro. Pare che l'autonomia economica dei partner e la

mancanza di figli, soprattutto nel Nord Italia, siano gli elementi che spingano le coppie

a convivere, piuttosto che a sposarsi.

A dire il vero gli studi sociologici hanno dimostrato la presenza di svariati motivi per i

quali viene scelto questo tipo di assetto di vita: da una parte ragioni di natura "sociale"

come la progressiva laicizzazione dello Stato e la perdita di importanza del fattore

religioso; dall'altra ragioni più intime, legate ad una libera scelta o a ragioni di

convenienza.

Non dimentichiamo che molte delle convivenze more uxorio sono "imposte" dalla

mancanza di libertà di stato dei conviventi: o perché già sposati, o perché di diversa

estrazione sociale, o perché in attesa di ottenere il divorzio. Certamente molte altre sono

determinate da una libera scelta dei partner 2 che volontariamente si accordano per non

far rientrare nel modello legale la disciplina del loro rapporto. Vi sono infine ragioni

meramente pratiche: la scelta di "provare" a convivere per poi convolare a giuste nozze,

la necessità di non perdere il diritto all'assegno divorzile o alla pensione di reversibilità.

Tutto ciò vale ovviamente nella nostra attuale realtà sociale, fermo restando che in altri

ordinamenti o in altri periodi storici, la preferenza al rapporto di fatto viene determinata

1 ISTAT, "Indagini multiscopo sulla famiglia 1993-94", pag. 28. 2 Per J. Carbonnier, "Non diritto come scelta individuale" ("Flexible droit. Textes pour une sociologie du droit sans rigeuer", Paris, 1979, IV° ed., p. 27 citata da F. D'Angeli, "La famiglia di fatto", Milano, 1989, nota 65 a pag. 179).

3

da tutt'altri motivi (vedi l'istituto del "matrimonio de hecho" o "per comportamento" in

America Latina o la situazione svedese, dove il numero delle libere unioni è addirittura

maggiore di quello dei matrimoni 3).

Questi elementi che gli studi sociologici 4 hanno evidenziato, determinano comunque

per il giurista la stessa problematica: data la rilevanza sociale e la diffusione sempre

maggiore della pratica della convivenza more uxorio, occorre verificare l'esistenza o

meno all'interno dell'ordinamento giuridico, di una disciplina che possa regolare in tutto

o in parte tale fenomeno.

2. Determinazione del significato della famiglia di fatto: analisi storica del passaggio dal "concubinato", alla "famiglia di fatto".

In primo luogo occorre cercare di definire che cosa si intenda per "famiglia di fatto":

secondo quanto scrive M. Dogliotti 5, "Per famiglia di fatto deve intendersi una

convivenza stabile e duratura, con o senza figli, tra un uomo ed una donna, che si

comportano come se fossero marito e moglie". E' interessante notare come questa

espressione è oggi assai più utilizzata delle anteriori "convivenza more uxorio" o

"concubinato"; locuzioni che, benché con innegabili differenze fra di loro, in sostanza

indicano il medesimo fenomeno.

Si può sinteticamente evidenziare l'evoluzione storico - linguistica che ha portato

dall'uso del termine "concubinato", a quello di "famiglia di fatto", dimostrando come al

mutamento terminologico, corrisponda una trasformazione del sentire sociale.

Nella prima fase, che è anche l'unica con dei precisi riscontri normativi, il concubinato

(una specie di "adulterio continuato") costituisce ipotesi di reato e causa di separazione

per colpa. Tale fattispecie si concretizza allorquando uno dei conviventi sia già sposato,

a nulla importando se il marito "…tenga nella casa coniugale o altrove una concubina

…" e viene a costituire una forte sanzione a tutela della famiglia legittima. In questo

periodo l'unica organizzazione familiare degna di tutela appare quella fondata sul

matrimonio come vincolo formale e coercitivo, comunità patriarcale, chiusa, autoritaria,

prepotentemente tutelata da possibili attacchi esterni: sono sanzionati l'adulterio 6 ed il

3 Si legga V. Franceschelli in "Il matrimonio di fatto: nozione, effetti e problemi nel diritto italiano e straniero", in "La famiglia di fatto", pagg. 348 e 398. 4 Si legga anche V. Pocar e P. Ronfani, "La famiglia e il diritto", Roma-Bari, 1998. 5 M. Dogliotti, "voce Famiglia di fatto", in Digesto disc. privat., 1989, pag. 188. 6 Art. 559 cod. pen., abrogato con la sentenza della Corte Cost. n. 126, del 19 dicembre 1969 in Giust. civ, 1969, III , p. 4.

4

concubinato 7, posti gravi ostacoli al riconoscimento della prole ed alla ricerca della

paternità, relegato in condizione deteriore il figlio naturale e via discorrendo.

Con gli interventi di fine anni '60 della Corte Costituzionale (vedi note nn. 6 e 7) e

soprattutto, con la riforma del diritto di famiglia del 1975, si parla sempre più

frequentemente di convivenza more uxorio, locuzione più "neutrale", che simboleggia la

nuova fase di indifferenza e tolleranza dell'ordinamento giuridico. Partendo dall'art. 29

Cost. si suole dimostrare la rilevanza attribuita dalla normativa alla sola famiglia

"legittima" ed il corrispondente suo disinteresse verso altri tipi di organizzazione

familiare: in taluni settori la convivenza more uxorio assume una limitata rilevanza

(pensiamo alle disposizioni tributarie, assistenziali ecc. 8), ma queste sporadiche

concessioni non intaccano il principio generale dell'assoluta irrilevanza del fenomeno

nell'ambito della normativa familiare in senso stretto.

E' solo con l'introduzione della nuova disciplina del diritto di famiglia del 1975 9, (su

tutti dell'art. 317-bis cod. civ.), e della contemporanea evoluzione giurisprudenziale in

materia, che si affaccia l'utilizzo del sintagma "famiglia di fatto". Cambia la

connotazione ideologica del termine: "famiglia di fatto" non è più solo il "convivere

come coniugi", bensì è prima di tutto "famiglia", portatrice di tutti quei valori che finora

venivano considerati esclusivi della famiglia fondata sul matrimonio 10. Essa, come

vedremo subito, diviene una sorta di "immagine" della famiglia legittima, dalla quale se

ne distingue per un elemento formale, la mancanza di un atto giuridicamente vincolante,

il matrimonio civilmente riconosciuto.

Tornando alla definizione di Dogliotti, si evince che i caratteri fondamentali della

"famiglia di fatto" sono l'esistenza della c.d. maritalis affectio tra i conviventi, cioè il

comportarsi come se fossero (legalmente) sposati, la sussistenza della c.d. "comunione

di vita materiale e spirituale", che è certamente qualcosa di più di una mera

coabitazione; la presenza della "convivenza stabile e duratura", in modo tale da rendere

irrilevanti tutti quei rapporti passeggeri ed effimeri che nulla hanno a che vedere con

7 Art. 560 cod. pen., abrogato con la sentenza della Corte Cost. n. 147, del 3 dicembre 1969 in Giust. civ., 1970, III , p. 3. 8 Vedi infra, Capitolo II, pagg. 61 e segg.. 9 Legge 19 maggio 1975, n. 151. 10 Così, F. Gazzoni, in "La famiglia di fatto tra legge e autonomia privata", Giust. civ., 1981, II , pagg. 260 e segg.

5

una "famiglia di fatto" 11 e la necessaria presenza di una coppia composta da "un uomo

ed una donna".

Questo ultimo requisito elimina in partenza la questione della possibile estensione alle

coppie omosessuali della disciplina della "famiglia di fatto" e quindi in seconda battuta,

di quella della "famiglia legittima": senza addentrarci in un'analisi particolareggiata

sulla fondatezza o meno di tale assunto, soprattutto alla luce dei mutamenti dell'attuale

sentire sociale, si può comunque sottolineare il fatto che persiste nella definizione di

"famiglia" la concezione tradizionale di "cellula fondamentale della società", del luogo

cioè dove "si generano nuovi membri, si forma la loro personalità, si trasmettono i

valori essenziali della convivenza civile". Societas naturalis che, per lo meno in Natura,

richiede ancora per il genere umano, la presenza di due soggetti, un uomo ed una donna

per l'appunto.

Se si è concordi nel ritenere che il diritto abbia tra le sue funzioni principali quello di

riconoscere e regolare istituti che preesistono ad esso, appare da accogliere la

definizione di cui sopra: nella concezione "naturale" e più spontanea di "nucleo

familiare" 12 rientra l'immagine di un uomo, di una donna e di un bambino, del luogo

cioè dove la vita nasce e si sviluppa in una comunanza di affetti.

Che questo sia vero lo dimostra il fatto che il diritto di famiglia è nato non tanto per la

regolamentazione del rapporto interno tra i coniugi, quanto per la disciplina dei loro

diritti e doveri, soprattutto nei confronti dei figli: a questi deve essere sempre garantita

una "famiglia", indipendentemente dalle vicende personali dei genitori.

E' per questo che è corretto affermare che una coppia omosessuale può convivere, può

realizzare una comunione di vita materiale e spirituale, ma non può dar luogo ad una

"famiglia": essa non può (naturalmente) adempiere ad una delle sue funzioni chiave, la

"prosecuzione della specie" 13.

11 Con questa definizione si vogliono escludere dal fenomeno in questione tutte quelle convivenze "di amicizia" (dove pur sussistendo spesso la coabitazione, mancherebbe il requisito della comunione di vita "materiale e spirituale"), o di "passaggio" (dove mancherebbe l'elemento della "stabile e duratura convivenza"). 12 Chi volesse citare la concezione della famiglia per la Chiesa cattolica potrebbe rifarsi a quella presente nel "Catechismo degli adulti" edito dalla C.E.I. nel 1995 a pag. 509 ("Con questa parola - famiglia n.d.r. - indichiamo una comunità di persone, costituita da un uomo ed una donna, uniti in matrimonio, e dai loro figli, stabile e socialmente approvata, tenuta insieme da vincoli morali, religiosi e legali di rispetto, di amore di cooperazione e di assistenza reciproca. Al suo nucleo essenziale possono aggregarsi altre persone, di solito parenti, dando origine a una considerevole varietà di forme storiche"). 13 Per una differente motivazione dell'esclusione delle coppie omosessuali dalla famiglia di fatto, si legga F. Gazzoni, in "Dal concubinato alla famiglia di fatto", Milano, 1983 , pag. 58.

6

Ribadisco che tale conclusione discende da una ben specifica concezione della famiglia,

quella forse più elementare e genuina; se invece si guarda alle innumerevoli distinzioni

terminologiche che vengono poi fatte più o meno impropriamente (famiglia

mononucleare, ristretta, allargata, adottiva, naturale, legittima ecc.), si può anche

obbiettare sulla fondatezza della conclusione sopra raggiunta: se si interpretasse stricto

sensu la definizione di Dogliotti (…"con o senza figli" …) si potrebbe legittimamente

affermare che se è possibile per i "coniugi di fatto" eterosessuali rientrare nel concetto

di "famiglia di fatto" indipendentemente dall'avere o meno dei figli, per il semplice fatto

di costituire una convivenza stabile e duratura, comportandosi come se fossero marito e

moglie, alla stessa stregua, a parità di condizioni, potrebbe rientrare nella stessa

fattispecie una convivenza stabile, duratura, more uxorio fra omosessuali, che figli non

possono (naturalmente 14 ) certo avere !

Non è certo questa la sede per chiedersi se una coppia omosessuale possa rientrare

nell'ambito delle "formazioni sociali" ricomprese nell'art. 2 Cost. ed avere diritto ad

essere più o meno riconosciuta e tutelata: quando saranno maturi i tempi penso che

questa sarà una delle strade maestre che verrà percorsa, ma nell'attuale momento storico

non mi pare si possa ancora concepire una "famiglia" senza l'elemento di eterosessualità

dei partner 15.

Tralasciando di procedere oltre in questa prospettiva, dopo aver tratteggiato i caratteri

salienti della "famiglia di fatto", si può proseguire affermando che in tale fattispecie si

rinvengono situazioni e relazioni spesso identiche, nella loro "naturalità", a situazioni e

relazioni di tipo "matrimoniale", ma i cui protagonisti, con il rifiuto del matrimonio in

senso legale, scelgono di non farle ricadere nel modello legalmente disciplinato. Ed è

quindi nella contrapposizione di "legge" e "natura", di "fatto" e "diritto", che al

fenomeno in questione si suole alludere con la formula "famiglia di fatto": sintagma

volto a sottolineare il tendenziale distacco dagli schemi di qualificazione e

regolamentazione giuridica istituzionalmente previsti per quel genere di rapporti sociali.

Il problema centrale è quello di stabilire se situazioni e rapporti di natura

intrinsecamente familiare, ma tali solo " di fatto" per non essere radicati in quel formale

atto di matrimonio, che è la condizione esclusiva della loro "legalità", debbano per

questo ritenersi tamquam non esset agli occhi della legge e quindi esclusi dal

trattamento giuridico previsto per i corrispondenti rapporti familiari formalizzati e

14 Con questo avverbio voglio sottolineare l'esistenza della possibilità di "pratiche artificiali" di procreazione, dove anche l'elemento della eterosessualità non ha alcuna rilevanza.

7

legalizzati da un matrimonio; o se al contrario, ed in ipotesi, entro quali limiti, il diritto

li attiri egualmente nella propria sfera e sottoponga, quasi disinteressandosi del requisito

della "legalità", a regole giuridiche così come vi è sottoposta la famiglia "legale".

15 Per una conferma si legga infra l'art. 1 del Progetto di legge Sbarbati del 10 maggio 1996 a pag. 165.

8

3. Rilevanza giuridica del fenomeno - cenni introduttivi.

Come disse N. Bobbio 16, "Nel linguaggio giuridico uno dei modi più comuni per

espellere dalla sfera del diritto tutto ciò che si ritiene non debba appartenervi, è quello di

assegnarlo alla sfera del fatto": questa affermazione mi pare la migliore, per

rappresentare nel modo più efficace la contrapposizione fatto - diritto, quando si

converte nell'altra, rilevanza - irrilevanza.

Certamente in un'epoca 17 dove per "famiglia" si intende rigorosamente la "società

naturale fondata sul matrimonio" (art. 29 Cost.), è assai semplice bollare come

"irrilevanti per il diritto" tutti quegli altri fenomeni "di fatto" che si allontanano dal

modello legale: fattispecie che, oltre ad essere giuridicamente condannate, lo sono

anche dal punto di vista morale.

E' semplice quindi per la dottrina e la giurisprudenza di questo periodo negare tutela alle

"unioni di fatto", prive cioè di quell'elemento formale, la conclusione di un matrimonio

con effetti civili, che le farebbero ricadere nel modello legale: in quanto "meri fatti",

sono irrilevanti per il diritto e come tali non possono essere tutelati.

Se a prima vista tale soluzione sembra l'epilogo naturale di quanto premesso, ecco che

in certe ipotesi la giurisprudenza si smentisce clamorosamente: pensiamo alla sentenza

della Corte di Cassazione di Roma del 19 maggio 1911 18, laddove questa riconosce il

diritto al risarcimento del danno morale ad una donna la quale, coniugata ma solo

secondo il rito canonico, si ritiene avesse dato luogo con il convivente deceduto ad "uno

stato di fatto non dissimile da quello di una famiglia legittima e che niuno aveva il

diritto di scompaginare".

Questa soluzione venne limpidamente criticata da Sbisà 19 che la definì una chiara

manifestazione del favor Ecclesiae, contrapponendola ad un'ipotesi analoga, decisa in

maniera diametralmente opposta dalla giurisprudenza 20 : in questa, per la sola

mancanza del matrimonio canonico, la giurisprudenza non concesse alcun risarcimento

in quanto "…la lesione, nei di lei confronti, riguarda un semplice interesse …" e non un

diritto soggettivo, secondo quanto dispone l'articolo 1.151 cod. civ.".

16 N. Bobbio, "La grande dicotomia", in "Dalla struttura alla funzione", Milano, 1977, p. 155. 17 Direi dall'inizio del secolo, agli anni '70 circa. 18 Corte di Cassazione di Roma del 19 maggio 1911 in Foro it., 1911, I , p. 798 analizzata infra a pag. 92. 19 G. Sbisà, "Risarcimento di danni in seguito a morte di un familiare di fatto", in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1965, p. 1.254. 20 Cassazione 24 marzo 1938 n. 956 in Foro it., 1938, I , p. 1.026, vedi infra a p. 94..

9

L'elemento che distingue le due ipotesi è quindi la sussistenza o meno del matrimonio

canonico: ma se questo non viene riconosciuto dall'ordinamento giuridico ex art. 5 della

legge 27 maggio 1927, n. 847 come modificato dalla legge del 25 marzo 1985, n. 121,

non può che risultare anch'esso giuridicamente irrilevante come ogni altra unione di

fatto. E' vero infatti che l'esistenza di un vincolo matrimoniale, seppur solo secondo il

diritto canonico, è un indice della volontà dei soggetti di dare luogo ad un rapporto

familiare equipollente a quello regolato dal diritto civile, ma è anche vero che quello

rimane ad esso estraneo fino al suo riconoscimento.

Le strade da percorrere risultano allora solo due: o si tutela in via esclusiva la famiglia

legittima (fondata su di un matrimonio civilmente riconosciuto) o si ampliano in via

analogica le tutele per essa previste, ad altre "libere unioni". Se si persegue questa

seconda via occorre in primo luogo verificare entro quali limiti è possibile operare un

rinvio alle disposizioni previste a tutela della famiglia legittima, tenendo ben presente

che, i due fenomeni, benché simili, non sono affatto identici.

Occorre quindi immergersi in una grande discussione dottrinale; quella che vede

contrapposti coloro che ritengono assolutamente impossibile operare qualsiasi rinvio

alla disciplina della famiglia legittima ed anzi negano la possibilità e l'opportunità di

una disciplina ex lege della famiglia di fatto e coloro che invece, pur non appoggiando

una totale equiparazione dei due fenomeni, ritengono possibile un rinvio a disposizioni

specifiche ed una regolamentazione legislativa di taluni aspetti della vita "familiare".

Chi appoggia la prima tesi 21 si basa su alcune considerazioni di fondo: la Carta

costituzionale tutelerebbe in via esclusiva la famiglia legittima (…"fondata sul

matrimonio" … art. 29 Cost., nonché gli artt. 30 e 31 Cost.), proprio perché essa assume

una rilevanza non solo "interna", fra i coniugi, ma anche "esterna", sociale. "La famiglia

è un'isola a se stante che il mare del diritto può lambire soltanto", scrisse Jemolo 22:

questa espressione sta a significare che l'ordinamento giuridico riconosce e protegge

solo un certo tipo di rapporto interpersonale, quello che storicamente e culturalmente è

rappresentato da un atto, il matrimonio, che "è presupposto di un complesso unitario di

diritti ed obblighi che formano un unicum inscindibile, uno status, che non può essere

modificato negli aspetti essenziali e qualificanti dall'autonomia privata"; "non a caso i

nubendi limitano la propria dichiarazione di volontà al fatidico, "sì"" 23. Con queste

21 Ad es. Trabucchi in "Il ritorno all'anno zero. Il matrimonio come fonte di disparità", in Riv. dir. civ, 1975, II , p. 488 o F. Gazzoni in "La famiglia …", op. cit. a nota 10, p. 261. 22 A.C. Jemolo, "La famiglia ed il diritto", in Annali della facoltà di giurisp. di Catania, 1948, II , p. 57 23 F. Gazzoni, op. cit. a nota 13, p. 20.

10

affermazioni questa dottrina intende dimostrare come una regolamentazione ex lege

della famiglia di fatto è a dir poco fuori luogo: o i partner scelgono di avvalersi della

disciplina legale o non lo fanno; questa libera scelta presupporrebbe una chiara

determinazione volta ad escludere che il loro rapporto venga legalmente regolato, per

rientrare invece totalmente nell'orbita dell'autonomia privata 24. I coniugi di fatto

potrebbero ben quindi scegliere di regolarsi in via contrattuale gli aspetti patrimoniali

della loro relazione ex art. 1.322 II° comma cod. civ. e l'ordinamento giuridico potrebbe

intervenire nel loro rapporto avvalendosi delle norme ad essa concernenti. Non

servirebbe affatto un legislazione in questo caso: gli acquisti effettuati in costanza della

convivenza, i diversi contributi apportati alla "famiglia di fatto" ecc., tutto sarebbe

disciplinato dalle norme sui contratti.

Se quindi la convivenza è una libera e spontanea scelta, e/o rifiuto di formalismi al di

fuori di regole fisse, può essere per lo meno dubbia l'opportunità di un riconoscimento

istituzionalizzato della famiglia di fatto: diventerebbe una sorta di "matrimonio di serie

B". Il tentativo di regolamentazione organica potrebbe configurarsi, per questa parte

della dottrina, come un'indebita ingerenza dello Stato in una famiglia che non chiede, in

virtù di autonomia e libertà, la tutela particolare che l'ordinamento riserva alla famiglia

legittima.

Dall'altra parte vi è invece un'altra nutrita schiera di autori che, partendo dall'art. 2 Cost.

e rilevando come nell'ordinamento giuridico attuale vi siano numerose disposizioni che

si rivolgono alla famiglia di fatto, ritiene che questo fenomeno abbia una sua ben

precisa rilevanza giuridica e che la legge possa disciplinare almeno taluni problemi che

la concernono. Come ben analizzato da E. Roppo 25, occorre verificare quali ipotesi

abbiano come oggetto specifico il rapporto fra i partner e quali altre invece, lo

presuppongano soltanto, rientrando in altri specifici campi del diritto. Così la disciplina

della filiazione, il problema della successione nella locazione, del risarcimento del

danno al convivente superstite, sarebbero alcuni degli esempi più chiari di questa

impostazione: in tutti questi casi la famiglia di fatto non rappresenta l'oggetto diretto

della tutela legale, quanto il mero presupposto. Più che questioni "giusfamiliari"

entrerebbero in gioco altri aspetti come la tutela dei figli, del diritto inviolabile

all'abitazione, della tutela del principio naeminem laedere ecc.

24 Così anche, G. De Luca, "La famiglia non coniugale", Padova, 1996, pag. 15. 25 E. Roppo, "La famiglia senza matrimonio. Diritto e non diritto nella fenomenologia delle libere unioni", Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1980, pag. 697.

11

Cercheremo di analizzare in seguito la fondatezza di questa impostazione:

verificheremo la presunta rilevanza giuridica della famiglia di fatto e analizzeremo,

mettendoli a confronto, i tre disegni di legge presentati per disciplinare questo

fenomeno 26.

Quello che è certo, è che allo stato attuale "…bisogna riflettere bene su cosa sia meglio,

se una famiglia di fatto .. o un matrimonio celebrato con una certa leggerezza …" .27

26 Proposte nn. 1647/87, 2340/88 e 682/96. Vedi infra capitolo IV°. 27 Parole di G. Andreotti, pronunciate a Bologna il 22 febbraio 1992 tratte da E. d'Orazio in "Famiglia di fatto e diritto di famiglia in fieri", in Giur. merito., 1994, p. 996.

12

CAPITOLO I °

RILEVANZA COSTITUZIONALE DELLA FAMIGLIA DI FATTO

1. Nascita e morte del problema costituzionale della famiglia di fatto

Precisate le caratteristiche strutturali e funzionali del nucleo familiare attuale, è ora il

tempo di incentrare l'analisi sul dato normativo costituzionale, per verificare se in

quell'ambito sia possibile enucleare, accanto alla famiglia legittima ivi contemplata (art.

29 Cost.), uno spazio autonomo di tutela riferibile in via esclusiva alla libera unione, in

modo che il riconoscimento esplicito accordato alla prima, non necessariamente escluda

una seppur minima protezione dell'altra: in sintesi se la famiglia di fatto assuma o meno

una sua specifica rilevanza nel quadro costituzionale.

Prima di analizzare le opposte opinioni in proposito, è assai interessante partire dai

lavori preparatori della Carta costituzionale per comprendere come fin da allora si sia

posto il problema delle libere unioni, in stretta correlazione con il problema della

famiglia legittima. E' importante sottolineare, benché considerazione ovvia, che i tempi

in cui maturò la Costituzione erano assai diversi da quelli attuali: tutte le dichiarazioni

dei costituenti sull'indissolubilità del matrimonio, sull'origine dell'istituto familiare ecc.

risentono della cultura e della tradizione giuridica in cui sono collocati; inconcepibili

per quei tempi erano i discorsi sul divorzio, sull'aborto o sulla famiglia di fatto.

Un'indagine quindi la nostra, che senza voler ripercorrere in maniera esaustiva 28 la

genesi degli artt. 29 e segg. della Costituzione, ciononostante vuole tratteggiarne le

tappe fondamentali. Che gli articoli in questione siano risultati e risultino aperti ancora

oggi ad interpretazioni diametralmente opposte fra di loro, è dato di fatto ed è la

naturale conseguenza del carattere fortemente compromissorio delle disposizioni

costituzionali: un'ambiguità lessicale che nasconde una ben più profonda ambiguità

ideologica di cui gli stessi esponenti (soprattutto democristiani e comunisti), non ne

hanno mai fatto mistero. Senza nemmeno richiamare le dichiarazioni politiche dei

protagonisti è sufficiente rileggersi le disposizioni in materia per capirne le intime

28 Per quest'analisi si rimanda al volume di F. D'Angeli, op. cit. a nota 2, pagg. 273 - 303.

13

contraddizioni: la famiglia "è una società naturale", ma è fondata sul matrimonio 29; il

matrimonio è ordinato sull'uguaglianza dei coniugi, ma con i limiti stabiliti dalla legge a

garanzia dell'unità familiare (art. 29 II° comma Cost.); la legge assicura ai figli nati

fuori del matrimonio ogni tutela, che sia compatibile con i diritti dei membri della

famiglia legittima (art. 30, III° comma Cost.).

Come si può rilevare chiaramente, la simultanea presenza nei dispositivi legislativi di

esigenze diverse, spesso contrapposte, se da un lato riflette dal punto di vista storico

posizioni antitetiche, dall'altro ha reso possibile alla dottrina, la fondazione di ipotesi

ricostruttive totalmente diverse, realizzabili solo facendo leva or sull'una o sull'altra

componente prescelta.

Contrapposizione ideologica dunque, derivante più da motivi politici che giuridici: per

scremare tutte le singoli posizioni personali dei Costituenti, si possono identificare due

grandi filoni di pensiero: il primo, identificabile nell'area cattolica, contestava la

concezione statale della famiglia mutuata dal Code Napoleon e riciclata dal regime

fascista, laddove questa dava un assetto laico e funzionalizzato al nucleo familiare,

vietando certi comportamenti ed imponendo dei risultati in vista di un determinato fine

pubblico. Questa ricostruzione era avversata in quanto aspetto particolare della teorica

dei c.d. "diritti riflessi", i quali venivano concessi per volontà ed ai fini dello Stato,

cosicché allo stesso modo potevano venire limitati ed estinti per incompatibilità con

quella fonte e con quegli scopi.

L'ipotesi da cui partiva l'area cattolica era invece quella della "teoria della pluralità degli

ordinamenti giuridici" di Santi Romano: si propugnava un processo di formazione

sociale che avesse alla base la persona, passasse per la famiglia e giungesse allo Stato,

ed un processo inverso di azione giuridica, che ponesse dei limiti all'incidenza di

quest'ultimo sui primi due, rispettivamente soggetto ed organismo meno potenti, perché

particolari rispetto al generale, ma da tutelare perché generanti, rispetto al generato.

Questa posizione fu ben chiara sin dalla prima discussione in materia familiare nella 1a

Sottocommissione, quando da parte cattolica si propose di considerare "d'importanza

capitale un'affermazione nella Carta costituzionale con cui si riconosceva l'esistenza e

29 Già Calamandrei osservò che "… Da un punto di vista logico ritengo che sia un gravissimo errore che rimarrà nel testo della nostra Costituzione come una ingenuità quella di congiungere l'idea di società naturale - che richiama al diritto naturale - colla frase successiva "fondata sul matrimonio", che è un istituto di diritto positivo. Parlare di una società naturale che sorge dal matrimonio, cioè in sostanza da un negozio giuridico, è per me, una contraddizione in termini. Ma tuttavia, siccome di queste ingenuità nella nostra Costituzione ce ne sono tante, ce ne potrà essere una di più.". Brano tratto da Calamandrei, "La

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naturalità della famiglia con alcuni diritti - che potranno formare oggetto di una

determinazione successiva - anteriori a qualunque intervento e riconoscimento da parte

dello Stato ": dichiarazione questa che venne fortemente contrastata in sede di dibattito,

ma che interessò solo marginalmente l'area comunista, che rivolgeva maggiore

attenzione alla "determinazione successiva".

Quest'area politica, rappresentativa dell'altro orientamento, sia per la consistenza degli

schieramenti in seno alla Costituente, sia per evitare una frattura proprio sui problemi

familiari così largamente presenti nella coscienza sociale di quel tempo 30, fu sempre

attenta ad evitare lo scontro frontale ed a pervenire invece a soluzioni compromissorie

con cui ottenere il massimo possibile, sacrificando il minimo indispensabile, ponendo in

cima ai propri obbiettivi la regolamentazione concreta della famiglia, più che le

definizioni e le dichiarazioni di principio. A sostegno di quanto affermato si può

constatare che in effetti, con la sola eccezione del problema dell'indissolubilità su cui si

arrivò ad una prova di forza, non è rilevabile una posizione netta dei comunisti sul

concetto di famiglia, come invece è dato rinvenire nell'area cattolica, che rimase ben

radicata sulle sue posizioni tradizionalistiche. In sede di 1a Sottocommissione da parte

comunista si proponeva questo dispositivo: "Lo Stato riconosce e tutela la famiglia,

quale fondamento della prosperità morale e materiale dei cittadini e della Nazione";

come si nota chiaramente, manca qualunque definizione del concetto di nucleo familiare

e si incentra l'attenzione sulla tutela della famiglia in quanto socialmente funzionale.

Controbatteva l'area cattolica proponendo: "Lo Stato riconosce la famiglia come unità

naturale e fondamentale della società"; privilegiando quindi il momento definitorio,

privo di alcuna funzionalizzazione ed introducendo l'elemento fondamentale della

"naturalità".

Confrontando le due proposte si coglie subito il nodo cruciale di tutto il dibattito: l'area

cattolica sosteneva la definizione di naturalità e l'assenza di ogni fine o motivo alla

tutela della famiglia per timore di indebite limitazioni e la parte comunista si

Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell'Assemblea Costituente", Roma, 1970, Vol. II , p. 1.201. 30 Come sottolineò N. Jotti "…Naturale è … che nell'unità familiare cerchino i singoli il primo aiuto ad uscire dalla tragica situazione in cui la guerra li ha lasciati e che in casa attorno ad essa e più agevolmente che in altre sfere si ricostruisce quell'atmosfera di solidarietà a cui tutta la rinascita della Nazione dovrà essere ispirata. La famiglia si presenta, quindi, ora più che mai come il nucleo primordiale su sui i cittadini e lo Stato possono e devono poggiare per il rinnovamento materiale e morale della vita italiana e importanza fondamentale acquista la tutela da parte dello Stato dell'istituto familiare". Cit. tratta da "Ricerca sul diritto di famiglia", a cura del Servizio documentazione e studi legislativi della Camera dei Deputati, Parte I, Roma, 1969, p.108.

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preoccupava di inserire elementi compensativi, salvo poi assumere posizioni più rigide

sulla successiva articolazione della disciplina familiare.

Nella seduta del 5 novembre 1946 le due maggiori forze politiche dell'Assemblea

cercarono di pervenire ad una soluzione compromissoria, grazie all'operato di Moro da

una parte e di Togliatti dall'altra, e si accordarono sulla definizione di famiglia come

"società naturale": come tale lo Stato la riconosceva e ne tutelava i diritti, ma allo scopo

di accrescere la solidarietà morale e la prosperità materiale della Nazione. Penso che,

date le premesse, si possa facilmente verificare la posizione di mediazione a cui le parti

giunsero: definizione di famiglia e sua funzionalizzazione coesistono tranquillamente.

Ma è proprio da tale momento che nascerà, (per poi morire in seguito), la questione

della "famiglia di fatto" in sede di Costituente; da un intervento di Mastrojanni 31, il

quale osservò acutamente che, definendo la famiglia come "società naturale", si veniva

ad ammettere la possibilità del riconoscimento anche per quei nuclei che si costituivano

al di fuori del vincolo coniugale, privi cioè del crisma legale e del sacramento religioso.

In questo senso anche il concubinato sarebbe stato riconosciuto dallo Stato.

E' interessante sottolineare quanto Mastrojanni avesse colto nel segno: la formula

definitoria prescelta effettivamente andava a racchiudere in sé tutto quello che da parte

cattolica si voleva escludere. Questa enunciazione determinerà così una serie di

conseguenze: da una parte da questo momento scaturiranno i numerosi emendamenti

che troveranno terreno fertile in Assemblea plenaria e che porteranno alla fondazione

della famiglia sul matrimonio, con la fine di quella di fatto; dall'altra, i cattolici, per

bocca di Moro prenderanno una posizione ben precisa (anche se poi verrà puntualmente

in seguito contraddetta): questo infatti precisò " … quando si dice che la famiglia è una

società naturale non ci si deve riferire immediatamente al vincolo sacramentale; si vuole

riconoscere che la famiglia nelle sue fasi iniziali è una società naturale … " ed aggiunse

che " … pur essendo molto caro ai democristiani il concetto del vincolo sacramentale

della famiglia, questo non impedisce di raffigurare anche una famiglia, comunque

costituita, come società che, presentando determinati caratteri di stabilità e funzionalità,

possa inserirsi nella vita sociale. Mettendo da parte il vincolo sacramentale, si può

raffigurare la famiglia nella sua struttura come società complessa non soltanto di

interessi ed affetti, ma soprattutto dotata di una propria consistenza che trascende i

vincoli che possono solo temporaneamente tenere unite due persone" 32. Questa visione

31 Esponente dell' "Uomo Qualunque", partito filo-monarchico. Vedi, "La Costituzione della Repubblica … ", op. cit. nota 29, Vol. VI , p. 639. 32 Vedi "La Costituzione della Repubblica … ", op. cit. nota 29.

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del fenomeno familiare di Moro è assai moderna: se solo si analizza la preminenza data

alla sua "funzionalità e stabilità", piuttosto che all'imposizione di vincoli (sacramentali o

legali), ci rendiamo conto di quanto si discostasse da molta parte dei Costituenti, che

addirittura, proponevano di inserire nel dispositivo costituzionale la "indissolubilità" del

matrimonio !

Il problema della famiglia di fatto era stato così sollevato: la discussione proseguì nella

seduta del 6 novembre 1946 dove si giunse alla prima votazione sull'attuale art. 29 Cost.

In quella sede passò la definizione di "società naturale", nonostante il tentativo della sua

sostituzione con quella di "società di diritto naturale" 33: la definizione approvata, da

una parte accontentava i comunisti, in quanto potevano leggerla come affermazione del

divenire storico del nucleo familiare, dall'altra non scontentava i cattolici, che la

interpretavano sempre come "società di diritto naturale". In questo contesto la famiglia

di fatto non subiva alcuna limitazione, potendosi tranquillamente ricomprendere in

quella definizione. Il problema fu che l'approvazione di una formula così aperta e vaga

fece scaturire la necessità di limitarne il concetto: ancora l'attento Mastrojanni propose

di modificare il dettato, inserendovi " … la famiglia quale società riconosciuta dagli

ordinamenti giuridici"; questo per evitare che lo Stato riconoscesse un diritto ad esso

preesistente e si tutelassero tutte quelle "società naturali di carattere familiare" che si

creano, vivono, e si perpetuano senza bisogno della legalità o del sacramento religioso,

fenomeno, secondo la sua opinione, tipico della società comunista 34. Questa posizione

determinò una riflessione nell'area cattolica: da una parte si voleva mantenere ferma una

formula che riconoscesse l'autonomia e la libertà della famiglia in considerazione della

sua preesistenza allo Stato, dall'altra si comprendeva che, senza alcuna limitazione, tale

soluzione portava ad affiancare alla famiglia legittima pericolosi fenomeni alternativi,

fra tutti, le famiglie di fatto. Ancora è utile ricordare l'intervento di Moro che,

dimenticandosi forse di quello prima sopra citato, dichiarava in primo luogo non

giustificate le preoccupazioni di Mastrojanni visto che in un successivo articolo si

parlava del matrimonio e si stabiliva su quali condizioni questo istituto era basato;

quindi sottolineava che nella formulazione della norma si precisava che lo Stato

riconosceva i diritti della famiglia in quanto legalmente costituita, osservando che, in

questo contesto, solo un legislatore in malafede avrebbe potuto interpretare

diversamente dai proponenti la formula, la cui intenzione era quella di riconoscere come

famiglia ogni ordinamento naturale, avente una sua autonomia nei confronti dello Stato.

33 Propugnata dal Presidente Tupini.

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Concludeva affermando che la formula sarebbe stata totalmente travisata se si fosse

interpretata nel senso che si voleva riconoscere un vincolo familiare costituito su di un

semplice stato di fatto 35 36.

Per sintetizzare: la formula venne approvata quasi inalterata un po' da tutti, dai cattolici,

dai comunisti e anche da Mastrojanni.

In sede plenaria si iniziarono ad analizzare le disposizioni concernenti la famiglia e la

scuola il 15 aprile 1947, approvandole nella veste attuale il 23 aprile dello stesso anno.

Senza addentrarci in eccessive puntualizzazioni è da ricordare ai nostri fini come i

cattolici si resero presto conto che la formula "società naturale" avesse troppi significati:

sin dai primi interventi (Badini, Confalonieri, Crispo) si sottolineava come la famiglia

presa in considerazione dallo Stato fosse solo quella fondata sul matrimonio

(indissolubile), escludendo totalmente la convivenza more uxorio. Ci si era accorti

insomma, della fondatezza delle perplessità di Mastrojanni. In questa rinnovata presa di

posizione anche i comunisti si espressero contro la convivenza: come disse Nadia

Gallico Spano: " … c'è chi pensa che noi accettiamo questa formulazione - società

naturale n.d.r. - perché per noi la semplice unione dell'uomo e della donna è condizione

sufficiente per la formazione della famiglia. Non è esatto: la famiglia per noi esiste

soltanto quando la sua costituzione è regolata dalla legge, quando è fondata sul vincolo

matrimoniale …" 37. La chiara sterzata di rotta della sinistra su questo argomento ci

sembra dettata più che da una rinnovata coscienza sul punto, dall'esigenza di evitare che

passasse la definizione "società naturale fondata sul matrimonio indissolubile",

propugnata dall'area cattolica: l'obbiettivo vero non era la dissolubilità del matrimonio,

quanto non se ne voleva costituzionalizzare la indissolubilità, lasciando al legislatore

ordinario il compito di disciplinarlo. I comunisti insomma non volevano passare per i

profanatori dei nuclei familiari italiani. Ancora, a completamento della descrizione della

situazione politica, non si può non tacere come il vero obbiettivo della proposta

cattolica fosse quello di specificare la definizione di "società naturale": questa formula

non individuava le caratteristiche della famiglia tradizionale italiana, quale era la

famiglia cristiana; per questo si voleva inserire la dizione " … in armonia con la

34 Mastrojanni, in "La Costituzione della Repubblica … ", op. cit. nota 29, Vol. I , pagg. 645 e segg. 35 Si veda ancora, "La Costituzione della Repubblica … ", op. cit. nota 29, Vol. VI , p. 646. 36 E' da rammentare però che in sede di voto, lo stesso Moro affermò che parlando di società naturale si ammetteva "quasi sempre l'esistenza di un vincolo di carattere religioso o giuridico, il quale consacrasse l'unità organica della famiglia". "Quasi" come distinguo imputato ad altri settori dell'Assemblea o come vero pensiero di Moro ? 37 Sempre in, "La Costituzione della Repubblica … ", op. cit. nota 29, Vol. II , p.946.

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tradizione religiosa, sociale e giuridica del popolo italiano" 38. Se queste erano le

opinioni maggioritarie in discussione, non se ne deve tacere una terza che si fondava

sull'influenza della codificazione sui membri della Costituente: Vittorio Emanuele

Orlando e Piero Calamandrei osservavano infatti che tutte le formulazioni proposte non

erano che "precetti morali, propositi, sermoni, ma non certo norme giuridiche":

addirittura il primo arrivò a proporre un emendamento volto a rinviare alla

Commissione gli articolati proposti in quanto, da una parte privi di effettivo contenuto

normativo e dall'altra invadenti campi riservati alla competenza legislativa. Lo stesso

Orlando prima disse che " … non aveva compreso perché la famiglia si chiamasse

società naturale, dal momento che tutto è naturale a questo mondo" e poi, dopo la

risposta ricevutane da La Pira, Dossetti e Benvenuti (" … società naturale va intesa

come società di diritto naturale"), replicò dicendo che se quelle parole di diritto ivi non

risultavano, ergo non erano così da intendere e che, comunque, fosse fuori di luogo

accogliere una dizione giusnaturalistica, sia per l'assurdità di fare una dichiarazione di

fede filosofica in una Costituzione, sia per il sospetto che destava il fatto che fosse stata

accettata da Hegeliani, Kantiani, positivisti e Marxisti, concludendo che se Togliatti

aveva consentito con tanta solerzia a tale formulazione era perché intendeva "concedere

il fumo e riservarsi l'arrosto" 39. (Non si può non essere d'accordo con Orlando: da una

parte Togliatti mirava alla questione dell'indissolubilità del matrimonio e dall'altra la

dizione "società naturale" non è altro che evanescente fumo, aperto alle più disparate

interpretazioni). Bocciato l'emendamento Orlando, si passò alla votazione della formula

"La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul

matrimonio indissolubile", dizione proposta dal Comitato di Redazione tenuto conto di

tutti gli emendamenti presentati in corso di discussione generale. Ed è a questo punto

che la questione della famiglia di fatto viene sacrificata sull'altare della "indissolubilità

del matrimonio": si propose in primo luogo infatti di votare la sola dizione "società

naturale", ma da diverse parti si pretese, per un voto positivo, la contestuale votazione

sul matrimonio indissolubile. Si creò una situazione di stallo a cui Togliatti diede una

svolta ricordando che, se si fosse votato in quel modo, si sarebbe data l'impressione che

chi, come i comunisti, avesse votato contro l'indissolubilità, sarebbe risultato contrario

anche al matrimonio, mentre l'area comunista non era di questo avviso, perché non

voleva una famiglia non fondata sul matrimonio; proponeva quindi di votare la formula

fino al termine "matrimonio" incluso e poi di votare sul termine "indissolubile". La

38 Proposta di Zotta. 39 Orlando, "La Costituzione della Repubblica … ", op. cit. nota 29, Vol. II, p. 1.158.

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paura dello statista era quella che, pur di fondare su di un qualche matrimonio la

"società naturale", passasse la indissolubilità di tale vincolo: per questo si sacrificò la

"famiglia di fatto". Certo è che se si fossero votati differentemente i tre nodi del

problema: "società naturale", "fondata sul matrimonio" e "indissolubile", forse l'esito

non sarebbe stato diverso, ma certamente non si sarebbe avuta la netta sensazione del

sacrificio della famiglia di fatto per l'indissolubilità del vincolo matrimoniale.

Approvato il testo dell'art. 29 Cost. come oggi ci appare, si può concludere questa

digressione storica, sottolineando come al di là delle diverse ed antitetiche posizioni di

fondo, un dato si può dare per acquisito: l'unanime volontà dei Costituenti di assicurare

alla famiglia, intesa come società naturale fondata sul matrimonio, una specifica tutela

costituzionale indicata negli artt. 29, 30 e 31. Ma se appare chiaro ed incontrovertibile

che in sede costituzionale non si possa riconoscere uno spazio autonomo per la famiglia

di fatto, altro è dire che l'organismo familiare fondato sul matrimonio sia l'unico

riconosciuto e costituzionalmente protetto come si affrettò a fare autorevole dottrina nei

primi commenti alla novella Costituzione 40.

2. Le diverse interpretazioni dottrinali.

Abbiamo anticipato che la prima dottrina che si trovò a commentare la neonata

Costituzione era ben decisa nel negare rilevanza alla famiglia di fatto sulla base di un

semplice ragionamento: dai lavori preparatori, che abbiamo ricordato in precedenza, si

evince chiaramente l'unanime volontà dei costituenti di espungere tale fenomeno dalla

tutela costituzionale, visto che "la famiglia è una realtà che il diritto non crea, ma che

trova ad esso preesistente: realtà che è quella risultante dalla tradizione, dalla religione,

dal costume degli italiani". Da queste prime affermazioni si può concludere che l'unica

societas naturalis è la famiglia legittima, quella fondata sul matrimonio. Non può

esistere una famiglia senza matrimonio e solo con questo, quella trae la sua origine:

tutela esclusiva della famiglia legittima e chiaro trattamento di disfavore per le filiazioni

naturali e per le ipotesi di scioglimento del matrimonio.

Se a prima vista questa posizione può sembrare datata, non dimentichiamo che ci sono

anche oggi autorevoli opinioni in proposito: basta leggere un recente intervento

dell'onorevole Maria Pia Garavaglia 41 per riassumere tutte le posizioni in tal senso.

Questa afferma che dai lavori preparatori della Costituzione, da quelli della

40 Mi riferisco a A.C. Jemolo in "La famiglia e il diritto" in Annali della facoltà di giurisprudenza di Catania, vol. III, 1949, p. 45 o C. Grassetti in "I principii costituzionali relativi al diritto familiare" in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, 1950, pp. 293 e segg.. 41 In "Una legislazione per la famiglia di fatto ?", atti del convegno di Tor Vergata, Napoli, 1988, p. 157.

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Commissione Bozzi per le riforme istituzionali della IX Legislatura, dall'analisi delle

riforme del diritto di famiglia, della legge sul divorzio e di quella sulle adozioni, mai si

è fatto alcun riferimento alla convivenza fra due soggetti come ad una "famiglia di

fatto", benché ce ne sia stata l'occasione e che (parafrasandola) "non si capisce a quali

problemi concreti si dovrebbe far fronte attraverso una regolamentazione giuridica di

tale fenomeno, visto che i figli nati da una relazione di fatto possono essere riconosciuti

e godono, in quanto cittadini italiani, sia del diritto all'assistenza sanitaria, sia alla

pensione di reversibilità in caso di morte degli stessi genitori". Insomma, secondo tale

dottrina, a livello costituzionale esiste la sola famiglia legittima, che sarebbe l'unica

formazione sociale di tipo familiare configurabile e quindi tutelabile.

Tale radicale impostazione viene contestata da un'altra dottrina, ad es. da C. Esposito 42,

che inizia a distinguere fra una esclusività del tipo di tutela per la famiglia legittima ed

una esclusività di esistenza di tale nucleo familiare. Secondo l'autore in questione il

richiamo al diritto naturale ("società naturale") si riferisce all'importanza di dare spazio

ai legami affettivi, consentendo anche "relazioni atipiche in cui siano ammessi obblighi

di dare senza alcun corrispettivo, diritti di ricevere senza obblighi di restituzione"; per

quanto poi riguarda la dizione "fondata sul matrimonio", con essa "non si vuole definire

in astratto la società familiare o imporre la teoria che solo dal matrimonio possa sorgere

la famiglia, bensì stabilire una preferenza della famiglia legittima e dichiarare che solo i

diritti di tale famiglia sono costituzionalmente garantiti". Con questa posizione si

insinua il primo dubbio sull'assunto dell'esclusiva tutela della famiglia legittima, posto

che un conto è affermare la prevalenza di essa su altre unioni atipiche, altro è cancellare

ogni ipotesi di fenomeno familiare alternativo ad essa.

La dottrina più recente cerca così di dimostrare come a livello costituzionale non si

possa affermare che l'unico fenomeno familiare preso in considerazione sia quello della

famiglia legittima, quanto come questo sia (giustamente) quello preferito in sede di

tutela. Partendo dall'art. 2 Cost. si può configurare come "formazione sociale" anche

una libera unione 43, una famiglia di fatto; luoghi dove certamente il cittadino "svolge la

propria personalità": questo perché per la dottrina ormai dominante, l'art. 2 Cost. va

interpretato in modo "aperto", cioè le formazioni sociali a cui esso fa riferimento non

sono solo quelle previste in sede costituzionale (partiti politici, associazioni laiche e/o

religiose, famiglia legittima, sindacati), ma anche quelle che il divenire sociale fanno

42 C. Esposito, in "Famiglia e figli nella Costituzione italiana", in "Saggi", Padova, 1954, p. 148.. 43 Anche omosessuale.

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emergere come luoghi rilevanti per lo sviluppo del cittadino. Interpretazione evolutiva

quindi, che segue di pari passo quella relativa al catalogo dei diritti fondamentali del

cittadino secondo cui, come nel caso sopra ricordato, i diritti fondamentali non

sarebbero solo quelli elencati in Costituzione (di corrispondenza, di associazione, di

movimento, di riunione ecc.), bensì anche quelli che l'elaborazione dottrinale,

giurisprudenziale e legislativa, farebbero emergere 44.

Famiglia di fatto come formazione sociale dunque, avente rango costituzionale. Ma

anche da un altro punto di vista l'art. 2 Cost. può essere lo strumento con cui individuare

una rilevanza costituzionale del fenomeno in esame: "La libertà dell'uomo è pienamente

garantita se l'uomo è libero di formare degli aggregati sociali e di svilupparsi in essi. Lo

Stato veramente democratico riconosce e garantisce non soltanto i diritti dell'uomo

isolato, che sarebbe in realtà un'astrazione, ma i diritti dell'uomo associato secondo una

libera vocazione sociale" 45: con queste parole Aldo Moro voleva sottolineare come le

formazioni sociali rappresentino l'espressione massima della libertà umana, cioè

costituiscano il risultato concreto dell'esercizio dei diritti fondamentali di autonomia, di

dignità e di libertà riconosciuti e garantiti alla persona come tale dallo stesso art. 2 I°

comma Cost. Secondo questa impostazione la costituzione di una famiglia di fatto

rientrerebbe nell'esercizio di un diritto fondamentale di libertà, quello di convivere ad

modum coniugii, di dare cioè luogo ad una formazione sociale ove svolgere la propria

personalità, utilizzando nel contempo il diritto di formare una famiglia non

istituzionalizzata. Anche dal versante quindi del diritto fondamentale dell'uomo di

costituirsi una famiglia (legittima o no), al generare dei figli senza contrarre

matrimonio, assume rilevanza la famiglia di fatto nella Costituzione. Si può concludere

quindi che la convivenza non formalizzata, considerata sia come espressione di un

diritto fondamentale della persona di scegliere fra un modello familiare legalizzato o

meno, sia come formazione sociale destinata a favorire lo svolgimento della personalità

dei singoli componenti il gruppo, è richiamata dalla disposizione di cui all'art. 2 Cost. e

da essa riconosciuta e protetta.

Qualcuno potrebbe obbiettare che l'art. 2 Cost. non sia una norma "in bianco", "aperta",

ma rinvii necessariamente alle esemplificazioni degli articoli successivi: senza

scomodare Perlingieri, il quale affermò chiaramente che se l'art. 2 fosse una mera

disposizione riassuntiva, sarebbe "del tutto inutile", certamente non credo esservi

44 Così ad es. il diritto all'identità personale o il diritto all'abitazione. 45 A. Moro, in "La Costituzione della Repubblica … ", op. cit. nota 29, Vol. I, p. 593

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difficoltà concettuali nel fare ricadere il fenomeno familiare nell'art. 18 Cost., nel diritto

fondamentale di associazione "per i fini che non sono vietati ai singoli dalla legge

penale…". Mi pare fuori di dubbio che una convivenza possa essere anche interpretata

come "libera associazione" di due persone che, nel costituire una famiglia di fatto,

certamente non perseguono fini sovversivi. Anche con questa impostazione ci pare di

poter identificare un nucleo costituzionale di rilevanza della famiglia di fatto.

Ma l'art. 2 Cost. non è la sola via: anche l'art. 30 Cost., laddove indica i diritti e i doveri

dei genitori verso i figli 46, permetterebbe di dare rilevanza alle relazioni non

matrimoniali: è pur vero che l'articolo è dettato con l'obbiettivo primario di tutelare i

figli, ma è anche vero che il prevedere la possibilità di una relazione extramatrimoniale,

implica il riconoscimento anche in tale unione dell'elemento "familiare", nel senso del

luogo dove l'affetto, il calore umano, il reciproco sostentamento hanno una loro ben

precisa dimensione e rilevanza, proprio in relazione con i figli.

Pure altre disposizioni potrebbero essere utili ai fini di dimostrare una rilevanza della

famiglia di fatto: pensiamo all'art. 36 dove si riconosce il diritto per il lavoratore ad una

"… retribuzione … sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un'esistenza libera e

dignitosa": in questa sede il termine "famiglia" può essere inteso come "nucleo

familiare" e non necessariamente come "famiglia legittima" 47. O ancora l'art. 37 Cost.

laddove riconosce alla donna lavoratrice il diritto di ottenere delle condizioni di lavoro

atte a consentirle l'adempimento della sua essenziale funzione familiare …, funzione

che non esiste certamente nella sola famiglia legittima !

Come si vede all'interno della Costituzione si può identificare con una certa precisione,

un insieme di disposizioni che consentono di dare una rilevanza giuridica alla famiglia

di fatto; il problema da porsi è adesso il seguente: quali sono i limiti ed il contenuto

della protezione e del riconoscimento della famiglia di fatto ?

Per quanto concerne i limiti è chiaro che non rientrano nella copertura costituzionale le

libere unioni che vengano a porsi contra legem 48: sia quei nuclei familiari che si siano

costituiti in contrasto con una famiglia legittima ancora esistente, stante l'esplicito favor

per queste di cui all'art. 29 Cost., sia quelle incestuose, sanzionate dall'art. 564 cod pen.

46 " … La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima ... ". 47 Se così fosse si arriverebbe alla conclusione assurda che i membri di una comunità di tipo familiare non legittimata dal matrimonio non avrebbero diritto ad "un'esistenza libera e dignitosa". Così F. Prosperi, "La famiglia non fondata sul matrimonio", Camerino, 1980, p. 96. 48 Per una conferma si legga l'art. 1 del Progetto di legge Sbarbati del 10 maggio 1996 a pag. 165.

23

Per quello che concerne i contenuti della tutela costituzionale delle unioni

extramatrimoniali il problema va risolto comprendendo in primo luogo che, se è vero da

una parte che a livello costituzionale anche la famiglia di fatto assuma una certa

rilevanza, è innegabile dall'altra, la situazione di preferenza esplicita che l'ordinamento

attribuisce alla c.d. famiglia legittima fondata sul matrimonio (artt. 29 e 30 Cost.).

Da questo punto di partenza discendono alcuni corollari: in primis che bisogna

riconoscere la necessità di garantire l'esistenza della famiglia di fatto in quanto

formazione sociale costituente la più piccola e primitiva forma di associazione in cui la

personalità umana si realizza. Ciò implica la preclusione per il legislatore ordinario o

per altro Organo statale, di intervenire al fine di punire, vietare o impedire alle persone

libere da vincoli matrimoniali la costituzione di tale unione 49. In secondo luogo che il

carattere di diversità dei due fenomeni in questione, diversificazione dettata

fondamentalmente dalla scelta dei partner di non attribuire una dimensione pubblica al

loro rapporto, ha come conseguenza immediata l'impossibilità di applicare in toto alla

famiglia di fatto, la disciplina "pubblicistica" e formalizzata della famiglia legittima.

Innegabile mi sembra essere la motivazione di questo assunto, laddove si sottolinea

come il costituire una famiglia di fatto significhi preferire "un modello familiare sulla

base dell'essere, piuttosto che del dovere essere" 50. Se la differenza dei due fenomeni

appare perciò netta, altrettanto è l'impossibilità di trattare in modo eguale, fattispecie tra

loro diverse, incappando così nella violazione dell'art. 3 Cost.

Poco pregio ha infatti l'opinione di quelli che, a contrario, ritenendo (erroneamente) che

famiglia di fatto e famiglia legittima siano due facce del medesimo fenomeno, ritengono

tout court applicabile la disciplina di questa a quella, arrivando a dire che, laddove ciò

non si facesse, si avrebbe una violazione dell'art. 3 Cost. per irrazionale disparità di

trattamento 51. Altro che irragionevolezza ! Famiglia di fatto e famiglia legittima sono

proprio due concetti diversi, due formazioni sociali diverse, che giustamente vanno

disciplinate in modo diversificato: se può condividersi l'opinione di chi identifica nelle

due fattispecie la medesima funzione di socializzazione e di sviluppo della persona, è

pure pacifico anche che, mentre nella famiglia di fatto ci si muove in una direzione di

49 Così anche Jemolo, "La c.d famiglia di fatto", in Raccolta di scritti di colleghi della Facoltà giuridica di Roma e di allievi in onore di Rosario Nicolò, Milano, 1982, p. 56; benché sottolinei come "… in virtù dell'art. 29 Cost. qualsiasi nucleo sociale con un fondamento di vincolo sessuale non può essere riconosciuto e garantito dal legislatore, se non si tratti della famiglia fondata sul matrimonio …". 50 Definizione questa di F.D. Busnelli, in "Sui criteri di determinazione della disciplina normativa della famiglia di fatto…",, in "La famiglia di fatto", Atti del convegno di Pontremoli del 1976, Parma, 1977. P. 134.

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libertà, in quella legittima ci si muove nell'ambito della certezza determinata dalla

presenza di un nucleo normativo ben specifico ed applicabile anche in via automatica.

E' proprio in questo che si può identificare la grande differenza delle due ipotesi,

differenza che ci permette di accogliere la tesi di chi 52, nel proporre una tutela della

libera unione, ritiene che "questa non debba andare né in senso opposto, né in senso

parallelo a quello della famiglia legittima, bensì in un senso diverso e proprio". Se

infatti si accogliesse la prima tesi si rischierebbe di violare la posizione di preminenza

indubbia che, come abbiamo visto, la Costituzione assegna alla famiglia legittima; se si

accogliesse invece la seconda, si violerebbe comunque l'art. 3 Cost. in quanto

l'applicazione analogica o con rinvio alla disciplina della famiglia legittima, non

terrebbe in conto la grande diversità di fattispecie: si rischierebbe di vanificare la libera

scelta di costituire una famiglia di fatto, basata sulla volontà delle parti, sostituendola

con un modello legale nato per la famiglia legittima che poggia invece sulla garanzia di

una certezza normativa.

3. Le principali sentenze della Corte costituzionale.

Nella spinta al riconoscimento della famiglia di fatto un grosso contributo è venuto,

come spesso accade, dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha

riconosciuto determinati diritti ai conviventi e tuttavia ha anche avuto modo di apporre

precisi limiti e confini all'evoluzione del fenomeno sociale qui in esame.

Essa infatti, pure laddove è intervenuta per riconoscere la famiglia di fatto, ha sempre

ribadito la netta differenza con la famiglia legittima, dando a questa prevalenza in virtù

dell'art. 29 Cost.

Possiamo analizzare in primo luogo le sentenze della Corte in materia penale: abbiamo

già accennato 53 a quelle del 1969 che hanno abolito i reati di adulterio e concubinato:

con queste pronunce la Corte compie il primo passo verso l'accettazione e la tolleranza

delle unioni di fatto, sancendo il passaggio (anche lessicale) dal "concubinato", alla

"convivenza more uxorio" 54. E' l'inizio della c.d. seconda stagione del fenomeno in

questione: stagione caratterizzata da una sorta di agnosticismo degli operatori del diritto

51 Così per F. Bile, "La famiglia di fatto: profili patrimoniali", in "La famiglia di fatto", op. cit. nota 50, pp. 70 e segg. 52 Mi riferisco a F. D'Angeli, "La tutela delle convivenze senza matrimonio", Torino, 1995, p. 45, nota n. 74. 53 Vedi note 6 e 7. 54 Vedi supra pp. 3 e segg.

25

verso queste formazioni sociali. Ma è dalla fine degli anni '70 che il problema assume

sempre maggiore rilievo: nella sentenza n. 6 del 12 gennaio 1977 55 il Pretore di

Cagliari richiede al Collegio una pronuncia di incostituzionalità dell'art. 350 cod. proc.

pen. nella parte in cui non consente che possa astenersi dal deporre, oltre ai prossimi

congiunti di cui all'art. 307 ult. comma cod. pen., colui che versi in una di “… quelle

situazioni affettive di natura familiare basate sulla convivenza ed animate da intenti di

reciproca assistenza e da propositi educativi della prole comune, di fatto ed

oggettivamente identiche a quelle ivi disciplinate”. Il ricorrente ricorda che lo stesso

legislatore ha trascurato che “la ratio della norma processuale sopra richiamata,

determinata dalla particolare considerazione attribuita al motivo per cui il prossimo

congiunto si è indotto a commettere un fatto altrimenti dalla legge previsto come reato

(motivo che il sentimento etico comune esige sia rispettato), sussiste immutata anche

nell’ipotesi di una famiglia di fatto costituitasi, seppur non legittimata dal vincolo

matrimoniale”. E ritiene che a causa di questa omissione, si evidenzi “una disparità di

trattamento tra situazioni obiettivamente eguali” in contrasto con il principio di

eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.

La Corte costituzionale valuta la questione prospettata sotto due profili: in primo luogo

sostiene la diversità fra la convivenza more uxorio e la famiglia legittima, con la

conseguenza che non si potrebbe parlare di irragionevole disparità di trattamento, visto

che le due fattispecie sono ontologicamente diverse.

Essa afferma che il legislatore ha accordato ai prossimi congiunti la facoltà di

astensione dal deporre nel processo penale perché ha ritenuto meritevole di tutela il

"sentimento familiare", nel senso che, nella possibile contrapposizione tra interesse

pubblico alla giustizia (dovere di testimoniare) ed interesse privato, ha preferito

quest'ultimo. Ma sottolinea, l'elenco di cui all'art. 307 cod. pen. è riferito solo a soggetti

individuati sulla base di tipici rapporti giuridici (coniugio, parentela, affinità), sul

presupposto che questi siano portatori di interessi tipici, mentre nei rapporti di

convivenza quegli stessi interessi si presentano come eventuali e tutti da dimostrare

("attraverso un'indagine che può anche non essere breve, né facile").

Per questo, conclude la Corte, il legislatore ha preferito privilegiare l'interesse

pubblicistico che "affiora in modo prevalente a che il corso del processo non subisca

ingiustificate remore in contrasto con il carattere inquisitorio e con i principi della

oralità della concentrazione".

55 In Giust. pen., 1977, I , p. 177.

26

La Corte per altro, rivolge al legislatore un invito, al fine di valutare l'importanza, la

diffusione e la tutela di detti interessi, di cui è portatrice la convivenza di fatto ("… De

iure condendo, la normale presenza di quegli interessi, però, non dovrebbe rimanere

senza una tutela per le dette situazioni omesse ed in particolare per quella che ricorre

nella specie. E sarebbe, quindi, compito del legislatore di valutare, per detti interessi,

l’importanza e la diffusione").

Questa prima decisione si presta ad una serie di considerazioni: in primo luogo ci pare

corretta la motivazione con la quale si distinguono le fattispecie della convivenza more

uxorio, pur in presenza di figli e della famiglia legittima; già altrove abbiamo

dimostrato come in effetti le due ipotesi siano da tenere ben distinte 56 e come non si

possa invocare l'art. 3 Cost. per affermare una disparità di trattamento, che in realtà è

ragionevole. Per nulla convincenti sono invece le motivazioni con le quali viene

rigettato il ricorso: se la ratio dell'art. 307 cod. pen. è quello di tutelare il "sentimento

familiare", al fine di evitare uno scontro psicologico tra il dover testimoniare e la facoltà

di non deporre contro un deputato - congiunto, non è decisivo l'affermare che l'esigenza

di dimostrare l'esistenza attuale di quegli interessi nella famiglia di fatto, richiederebbe

dei tempi processuali lunghi che inficerebbero i principi di oralità e concentrazione del

processo. In primis perché tali principi non hanno assolutamente rango costituzionale, a

differenza del principio di eguaglianza e di ragionevolezza; quindi perché esiste un

principio, quello dell'onere della prova, che già permette un bilanciamento fra la

speditezza del processo e l'attività di parte. Non sembra corretto sacrificare degli

interessi (oggettivamente) di natura familiare, sull'altare dell'onere probatorio: se nella

famiglia legittima essi sono presunti, in quella di fatto vanno provati, ma certamente, se

provati, assumono una rilevanza pari a quella dei primi: "…la difficoltà

dell'accertamento non può trasformare un'ipotesi ingiusta, in ipotesi giusta" 57. Sarà

pure una famiglia "di fatto", ma i sentimenti familiari sono gli stessi di quelli esistenti

nella famiglia legittima !

In conclusione mentre siamo d'accordo con la Corte allorquando ex art. 3 Cost. dimostra

la diversità di ipotesi fra una convivenza di fatto ed una famiglia legittima, non lo

possiamo essere quando invece utilizza il medesimo articolo per escludere il convivente

more uxorio da una disposizione che intende tutelare il "sentimento familiare altamente

inteso".

56 Vedi supra p. 24. 57 Così A. Segreto in "Il convivente more uxorio nella giurisprudenza della Corte costituzionale", in Dir. di fam. e delle pers., 1989, p. 835.

27

Che la stessa Corte non fosse del tutto convinta di quanto andasse affermando lo

dimostrerebbe il fatto dell'invito al legislatore di accordare una certa tutela, de iure

condendo, agli interessi di cui è portatrice la convivenza di fatto: monito non caduto nel

vuoto se solo si legge ad es. l'attuale art. 199 comma 3 cod. proc. pen. 58

Continuiamo comunque la nostra analisi giurisprudenziale sorvolando su due sentenze,

la n. 124 del 1980 59 e la n. 39 del 1981 60, entrambe di rigetto, che sono

formalisticamente basate su di un errore di riferimento dei giudici a quibus della

questione di legittimità costituzionale (entrambe vertevano sul reato di favoreggiamento

di cui all'art. 384 cod. pen.) e passiamo a considerare quella del 18 novembre 1986, n.

237 61. Questa sentenza ha come oggetto una serie di questioni sollevate dal Tribunale

di Novara (ord. 751/80), dal Giudice istruttore del Tribunale di Camerino (ord. 193/85)

e dalla Corte di assise di Rovigo (ord. 573/85) riguardanti l’art. 307 comma quarto del

codice penale, laddove fornisce l’elencazione tassativa dei prossimi congiunti e vi

ricomprende il coniuge. Questi, pertanto, non è punibile, secondo il successivo art. 384,

se costretto a salvare da grave ed inevitabile nocumento l’altro coniuge, così incorrendo

con la sua condotta, tra le altre ipotesi contemplate, nel reato di favoreggiamento

personale. La mancanza nell'elencazione di cui all'art. 307 IV° comma del convivente

more uxorio mostrerebbe, ad avviso dei ricorrenti, "il non volersi tener conto, nella

realtà sociale e nell’ordinamento, dei vincoli di solidarietà pur insiti nella famiglia di

fatto": si avrebbe pertanto una violazione diretta degli artt. 29 e 3 della Costituzione.

La Corte costituzionale demolisce facilmente il primo motivo di censura, sottolineando

come "L’art. 29 riguarda (esclusivamente n.d.r.) la famiglia fondata sul matrimonio:

come del resto fu pressoché univocamente palesato in sede di Assemblea Costituente la

compagine familiare risulta, nel precetto, strettamente coordinata con l’ordinamento

giuridico, sì che rimane estraneo al contenuto delle garanzie ivi offerte ogni altro

aggregato pur socialmente apprezzabile, divergente tuttavia dal modello che si radica

nel rapporto coniugale …". Essa cioè non fa che ribadire come il richiamo a quella

disposizione sia del tutto fuori luogo visto il suo esclusivo riferirsi alla sola famiglia

legittima.

58 Esso afferma che la facoltà di astensione dal deporre "… si applica inoltre, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall'imputato durante la convivenza coniugale: a) a chi, pur non essendo coniuge dell'imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso; b) (omissis) c) (omissis) " 59 In Giust. pen., 1981, I, p. 5. 60 In Giust. pen., 1981, I, p. 250. 61 In Giust. pen., 1986, I, p. 353.

28

Più sofferta soluzione viene impiegata dalla Corte per dimostrare la non sussistenza di

una irragionevole violazione dell'art. 3 Cost.: da una parte ribadisce come la famiglia

legittima e la convivenza more uxorio siano fattispecie ben distinte, fondandosi la prima

su garanzia di certezza e di stabilità, la seconda sulla mera volontà delle parti, dall'altra

però riconosce che " … per le basi di fondata affezione che li saldano e gli aspetti di

solidarietà che ne conseguono, siffatti interessi (quelli della convivenza more uxorio -

n.d.r) appaiono meritevoli indubbiamente, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di

compiuta obiettiva valutazione ..." .

Sarebbe forse troppo semplice ricordare alla Corte che nella famiglia legittima si potrà

forse parlare di garanzie di certezza, nel senso di rilevanza pubblica del rapporto, ma

non certo di garanzie di stabilità: che pure un matrimonio si basi sul costante rinnovarsi

dell'accordo dei coniugi, così come nella famiglia di fatto, è innegabile. Se così non

fosse non esisterebbe il divorzio ed il matrimonio sarebbe "indissolubile". Più incisiva è

forse l'ultima motivazione con la quale denuncia l'inammissibilità (e non l'infondatezza

!) delle questioni proposte: quella secondo cui l'intervento richiesto alla Corte

implicherebbe una sentenza additiva, con valore consequenziale, che non appartiene ai

poteri ad essa conferiti. Giustamente infatti la Corte sottolinea la necessità di un

intervento del legislatore, ma non solo nel limite dei quesiti proposti: esistono infatti nel

nostro ordinamento una miriade di disposizioni che, riconducendosi tutte alla medesima

ratio (protezione/tutela di un rapporto familiare), abbisognerebbero di una modifica. Mi

riferisco ad es. agli istituti dell'incompatibilità del giudice per ragioni di parentela,

affinità o coniugio (art. 35 cod. proc. pen.), dell'astensione del giudice (art. 36 cod. proc.

pen.), della sua ricusazione (art. 37 cod. proc. pen.), della titolarità della richiesta di

revisione delle sentenze di condanna (artt. 632 a)) ovvero a tutte le altre svariate ipotesi

in cui ci si riferisca ad "un prossimo congiunto" o sia in gioco un sentimento familiare.

E' quindi soltanto sulla base di una impossibilità tecnica che la Corte ritiene

inammissibili le istanze propostele, concludendo infatti "… ma su di una

regolamentazione esaustiva di tal sorta, necessariamente involgente, senz’altro, scelte e

soluzioni di natura discrezionale, questa Corte non avrebbe facoltà di pronunciarsi senza

invadere quelle competenze che spettano al Parlamento, nel razionale esercizio di un

potere che il solo legislatore è chiamato ad esercitare; per il che la Corte rinnova la

sollecitazione contenuta nella sentenza n. 6 del 1977".

In sostanza una decisione di impotenza della Corte che rimanda al legislatore la

necessità di intervenire in modo ampio sul punto. Mi sembra importante ricordare le

parole della Corte "…Comunque, per le basi di fondata affezione che li saldano e gli

29

aspetti di solidarietà che ne conseguono, siffatti interessi appaiono meritevoli

indubbiamente, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva

valutazione": ancora una pressione sul legislatore affinché regoli in maniera più

organica ed ampia questo fenomeno. Questa conclusione mi sembra ben diversa da

quella proposta ad es. da A. Segreto 62, laddove afferma che "… per quanto

implicitamente, la Corte ha ritenuto di conformarsi al richiamato insegnamento secondo

cui la convivenza more uxorio trova tutela nell'art. 2 della Costituzione; ma detta tutela

non è positiva, nel senso che ogni norma che ometta l'equiparazione, sia

costituzionalmente illegittima, bensì solo negativa, nel senso che il legislatore ha facoltà

di intervenire ed eventualmente anche equiparare i due rapporti, senza che ciò violi i

principi costituzionali di tutela del matrimonio". In questa sentenza infatti se è vero che

la Corte (giustamente) non permette di equiparare due ipotesi fra loro ontologicamente

diverse, non è corretto dire che essa propenda per una mera tutela in negativo: anzi è

essa stessa a continuare a spronare il legislatore affinché intervenga (positivamente)

sulla materia.

Legislatore che non è rimasto infatti del tutto impermeabile a queste sollecitazioni: con

la riforma del codice di procedura penale del 1988, esso ha introdotto delle disposizioni

in questo senso: non solo l'art. 199 lettera a) sulla facoltà di astensione, ma anche l'art.

681 in tema di richiesta di grazia, ora richiedibile anche "dal convivente", così come, in

tema di astensione del giudice, nell'ipotesi di cui all'art. 36 h), potrebbe tranquillamente

ricadere quella disciplinata in modo espresso nel giudizio civile, dall'art. 51 cod. proc.

civ. (al nr. 2 si legge "il convivente e il commensale abituale") e così via (l'elenco

potrebbe essere molto lungo).

Un'altra sentenza in materia penale è da ricordare: la n. 423 del 1988.Il Pretore di

Pinerolo solleva la questione di legittimità costituzionale in relazione con l'art. 649, n.1,

del codice penale 63 in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui

questo articolo non prevede la non punibilità di chi ha commesso alcuno dei fatti (reati

contro il patrimonio), in danno del convivente more uxorio. La Corte ha ritenuto la

questione non fondata in quanto la non punibilità prevista dalla disposizione censurata

"… si fonda sulla presunzione che, ove i coniugi non siano legalmente separati, sussista

una comunanza di interessi che assorbe il fatto delittuoso, al punto che, nell'ipotesi di

separazione legale, la punibilità ricorre, sia pure a querela della persona offesa". A detta

62 A. Segreto, op. cit. nota. 57, p. 839. 63 L'art. 649 cod .pen. è rubricato "Non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di prossimi congiunti".

30

del Collegio "siffatto regime palesa che il legislatore rimette alla volontà del coniuge

legalmente separato l’applicazione della legge penale, laddove esclude che questa possa

intervenire in costanza della convivenza coniugale. Fattispecie tutt’affatto diversa è

quella della convivenza more uxorio, per sua natura fondata sulla affectio quotidiana -

liberamente e in ogni istante revocabile - di ciascuna delle parti". La Corte conclude

affermando che "nel caso che ha dato origine alla presente questione di costituzionalità,

la denuncia - querela della persona offesa, nonché la sottrazione di mobili suppellettili

ed elettrodomestici dall’abitazione comune ad opera della convivente, che li ha

trasportati in altro alloggio ove si è stabilita con il figlio nato dal rapporto con il

querelante, sono atti concludenti che attestano la revocazione dell’affectio e dunque il

venir meno della convivenza more uxorio". Se questa è la motivazione della Corte era

lecito attendersi non una pronuncia di infondatezza, bensì di non rilevanza: infatti anche

equiparando la convivenza more uxorio al rapporto di coniugio sussisteva egualmente la

non procedibilità in quanto nel caso di separazione legale, da equipararsi alla cessazione

della convivenza, il reato è procedibile a querela della persona offesa, querela che nel

caso in questione era stata presentata. Se invece la Corte avesse voluto pronunciarsi

sulla fondatezza della questione, avrebbe dovuto accoglierla: essa premette che nel

rapporto di coniugio vi è una comunanza di interessi presunta, fondata, viceversa,

sull'affectio quotidiana nella convivenza di fatto, ma non si valuta la questione né alla

luce del principio di cui all'art. 2 Cost., né secondo quello di ragionevolezza dell'art. 3

Cost.; ci si limita a considerare nel caso di specie che la convivenza è venuta meno. Il

motivo del rigetto è quindi quello della cessazione della convivenza e non il mancato

contrasto con gli articoli sopra ricordati. Questo fa ragionevolmente concludere che, se

la convivenza non fosse cessata, la questione poteva ritenersi fondata: da una parte

infatti scompare qualsiasi richiamo alle esigenze di celerità del processo, dall'altra la

stessa Corte afferma che la non punibilità ex art. 649 n.1 cod. pen. si fonda sulla

comunanza di interessi che è presunta nel rapporto di coniugio fino alla separazione.

Comunanza di interessi "presunta" nel rapporto di coniugio, ma che può eventualmente

essere dimostrata come esistente in quella di una convivenza di fatto: se la ratio della

tutela è quella di proteggere l'affectio quotidiana, non si può negare che, ove dimostrata

come esistente essa sia la medesima di quella presente in costanza di matrimonio: in tal

caso come nella sentenza precedente, si avrebbe una irragionevole disparità di

trattamento ex art. 3 Cost. visto che il sentimento è il medesimo e quello che varia è

solo l'onere probatorio.

31

L'ultima sentenza che si intende analizzare è la n. 8 del 1996 64 : il Tribunale di Torino

ha sollevato, con ordinanza del 16 febbraio 1995, questione di legittimità costituzionale

degli artt. 384, 378 e 307 del codice penale “nella parte in cui non prevedono che la

causa di non punibilità prevista a favore dei prossimi congiunti sia estesa al convivente

more uxorio”, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 29 della Costituzione. Nella

prospettiva della ragionevolezza delle determinazioni legislative il Tribunale rimettente

fonda la sua richiesta sulla ratio comune alle cause di non punibilità previste dall’art.

384 del codice penale - in riferimento a ciascuno dei titoli di reato ivi elencati - a favore

dei prossimi congiunti, ratio di tutela del legame di solidarietà tra i componenti il nucleo

familiare e del sentimento che li unisce. Poiché tale sentimento e tale legame possono

valere con la stessa intensità tanto per i componenti della famiglia legittima quanto per

quelli della famiglia di fatto, non vi sarebbe alcun ragionevole motivo - ad avviso del

Tribunale rimettente - per discriminare questi ultimi dalla protezione accordata ai primi.

Se quindi relazione matrimoniale e convivenza di fatto rivestono identiche

connotazioni, la diversa disciplina delle rispettive “garanzie” comporterebbe una

violazione del principio di eguaglianza. “Non si ignora” - afferma il rimettente - che la

Corte ha già affrontato e risolto in senso negativo la questione, con la sentenza n. 237

del 1986 e con l’ordinanza n. 352 del 1989; ma, rispetto all’emanazione di quelle

pronunce, il quadro normativo è mutato. Il nuovo codice di procedura penale, infatti,

stabilisce, nell’art. 199, comma 3, lettera a), il rilievo della relazione - attuale o anche

pregressa - di convivenza di fatto sul piano della facoltà di astenersi dal testimoniare

(limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza). Questa

previsione, che implica il relativo avviso da parte del giudice circa la facoltà di

avvalersene (assistito dalla sanzione di nullità dell’atto, in caso di omissione), comporta

altresì effetti sul piano sostanziale: l’art. 384, secondo comma, del codice penale

esclude la punibilità per i reati di falsa testimonianza e false informazioni al pubblico

ministero in caso di omesso avviso, da parte del giudice, della facoltà di astenersi dal

rendere la testimonianza o le informazioni. La citata nuova previsione processuale

enuclea, ad avviso del giudice a quo, un ulteriore profilo di “incongruenza” e di

disparità di trattamento a svantaggio della posizione del convivente imputato di

favoreggiamento personale, rispetto all’imputato di falsa testimonianza o di false

informazioni al pubblico ministero. Se è infatti vero che diversa è l’obiettività giuridica

dei reati di favoreggiamento e di falsa testimonianza, perché quest’ultima tutela la

giusta definizione del processo, mentre il primo tutela le investigazioni anche pre-

64 Vedi www.dirittoefamiglia.it - Sezione sentenze - 25 gennaio 1999.

32

processuali, questa differenza risulta ben più “sfumata” quando il raffronto sia istituito

tra favoreggiamento (a mezzo dichiarazioni alla polizia giudiziaria) e reato di false

informazioni al pubblico ministero, essendosi in tutti e due i casi in presenza di

dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari. Osserva il Tribunale che tutte le

ipotesi riconducibili all’art. 384 del codice penale si fondano, oltre che sul principio

nemo tenetur se detegere, sul riconoscimento della forza degli affetti e dei legami di

solidarietà familiare, che si basano sulle caratteristiche proprie di quei vincoli

interpersonali e non sull’esistenza dell’atto di matrimonio; questa stessa ratio ha trovato

emersione, sia pure parziale, nella richiamata disposizione del nuovo codice di

procedura penale dalla cui applicazione, peraltro, discende - conclude il rimettente - un

ulteriore sostegno alla fondatezza della questione, per la ingiustificata disparità di

trattamento che al medesimo soggetto (convivente di fatto) viene accordata a seconda

che si abbia riguardo alle dichiarazioni da lui rese alla polizia giudiziaria - come è nel

caso del processo a quo - ovvero a quelle rese al pubblico ministero, essendo ricomprese

queste ultime e non le prime nell’ambito di applicabilità dell’art. 384, secondo comma,

del codice penale, in virtù della detta regola processuale.

Interessante è ricordare l'intervento dell'Avvocatura generale dello Stato atto a sostenere

l'emissione di una pronuncia di non fondatezza basato sui precedenti della Corte e sul

fatto che "… la eventuale parificazione della convivenza al coniugio è compito,

articolato e complesso, proprio del legislatore". Ad avviso dell'Avvocatura "…

l’accennato intervento (l'art. 199 cod. proc. pen. - n.d.r.) è indice di una scelta selettiva e

ragionevole del legislatore, mentre la parificazione generalizzata delle situazioni poste a

raffronto dal Tribunale propone una richiesta additiva in materia penale, che contrasta

con gli enunciati delle decisioni già citate".

Sulla base di questi elementi vediamo cosa ha deciso la Corte costituzionale: essa da

una parte ritiene infondata la questione ribadendo ancora la preferenza che alla famiglia

legittima viene riconosciuta dall'art. 29 Cost.: sottolinea la netta diversità della

convivenza di fatto, che è “fondata sull’affectio quotidiana - liberamente e in ogni

istante revocabile - di ciascuna delle parti”, dal rapporto coniugale che è caratterizzato

da “stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri ... che

nascono soltanto dal matrimonio”. Ricorda che è la stessa Costituzione che ha dato delle

due situazioni una valutazione differenziatrice e come tale valutazione esclude

l’ammissibilità, secondo un punto di vista giuridico - costituzionale, di affermazioni

omologanti, del tipo di quella sopra riferita dal Tribunale. Tenendo distinta l’una,

dall’altra forma di vita comune tra uomo e donna, si rende possibile riconoscere a

33

entrambe la loro propria specifica dignità; si evita di configurare la convivenza come

forma minore del rapporto coniugale, riprovata o appena tollerata e non si innesca

alcuna impropria “rincorsa” verso la disciplina del matrimonio da parte di coloro che

abbiano scelto liberamente di convivere. Soprattutto si pongono le premesse per una

considerazione giuridica dei rapporti personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse

situazioni, considerazione la quale - fermi in ogni caso i doveri e i diritti che ne

derivano verso i figli e i terzi - tenga presente e quindi rispetti il maggior spazio da

riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi; e viceversa

dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come

tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale. La pretesa equiparazione della

convivenza di fatto al rapporto di coniugio, nel segno della riconduzione di tutte e due le

situazioni sotto la medesima protezione dell’art. 29 della Costituzione, risulta così

infondata.

Dalla lettura di questa motivazione si possono trarre alcuni interessanti spunti di

riflessione: per la Corte costituzionale risulta ormai enucleato a livello costituzionale un

certo spazio di rilevanza della famiglia di fatto, spazio però autonomo e ben distinto da

quello ritagliato per la famiglia legittima. Queste manifestazioni del diritto di costituire

delle formazioni sociali, essendo fra loro ontologicamente differenziate dalla presenza

nella sola famiglia legittima di una dimensione "sovraindividuale", risultano così

impossibili da equiparare ed anzi ogni tentativo in tal senso implica una violazione

dell'art. 3 Cost. E' sulla base di questa teorica che la Corte ribadisce la infondatezza

della q.l.c. sollevata: non si possono equiparare fra loro situazioni del tutto diverse. Essa

infatti afferma che "… Tenendo distinta l’una dall’altra forma di vita comune tra uomo

e donna, si rende possibile riconoscere a entrambe la loro propria specifica dignità; si

evita di configurare la convivenza come forma minore del rapporto coniugale, riprovata

o appena tollerata e non si innesca alcuna impropria “rincorsa” verso la disciplina del

matrimonio da parte di coloro che abbiano scelto di convivere liberamente. Soprattutto

si pongono le premesse per una considerazione giuridica dei rapporti personali e

patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni, considerazione la quale - fermi in

ogni caso i doveri e i diritti che ne derivano verso i figli e i terzi - tenga presente e

quindi rispetti il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività

individuale dei conviventi; e viceversa dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo

alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione

sovraindividuale … ". Si vuole in sintesi riconoscere la specificità della famiglia di fatto

e si rinnova al legislatore l'invito a fissare alcune regole che ne disciplinino gli aspetti

34

più problematici. Ma l'intervento della Corte prosegue: da un altro punto di vista ritiene

inammissibile la q.l.c. sollevata dal Tribunale di Torino: essa infatti, pur sottolineando

come sia " … un dato di fatto incontestabile …" la necessità di tutelare anche nella

famiglia di fatto "quel legame di solidarietà tra i componenti del nucleo familiare e del

sentimento che li unisce", ricorda al giudice a quo come il tipo di intervento ad essa

richiesto, implicherebbe una decisione additiva che manifestamente eccede i suoi poteri

(motivazione già ritrovata nella sentenze nn. 423 e 1.063 dell'88 ed in altri successivi

interventi vedi tra le altre le nn. 385, 267 e 32 del 1992). L'estensione delle cause di

non punibilità, che sono a loro volta delle deroghe a norme penali generali, comporta un

giudizio di ponderazione che appartiene al solo legislatore. Come spesso accade la

Corte non si limita a questa motivazione di stampo formalistico, ma aggiunge che " …

nel caso di specie, si tratterebbe di mettere a confronto l’esigenza della repressione di

delitti contro l’amministrazione della giustizia, e quindi la garanzia di efficacia della

funzione giudiziaria penale, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare,

dall’altro. Ma non è detto che i beni di quest’ultima natura debbano avere esattamente lo

stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto e della famiglia legittima. Per

la famiglia legittima, non esiste soltanto un’esigenza di tutela delle relazioni affettive

individuali e dei rapporti di solidarietà personali. A questa esigenza, può sommarsi

quella di tutela dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e

caratterizzante è la stabilità, un bene che i coniugi ricercano attraverso il matrimonio,

mentre i conviventi affidano al solo loro impegno bilaterale quotidiano. Posto che la

posizione del convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve dunque

coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione dei vincoli affettivi

e solidaristici. Ciò legittima, nel settore dell’ordinamento penale che qui interessa,

soluzioni legislative differenziate, della cui possibile varietà dà abbondante

dimostrazione la comparazione tra le legislazioni di numerosi Paesi …". Viene così

tirata in ballo dalla Corte la dimensione sovraindividuale della famiglia legittima, la

necessità di salvaguardare l'istituzione famiglia in sé e per sé considerata: principio che

suffragherebbe una volta di più, l'impossibilità di equiparare le due fattispecie.

L'ultima parte della sentenza riguarda il quesito specifico sull'art. 199 cod. proc. pen.:

senza addentrarci troppo nel problema la Corte analizza il problema avvertendo il

giudice a quo del fatto che, così come sollevata la questione di legittimità costituzionale

o è sbagliata (perché si richiama una problematica in modo errato: " … Affinché tali

rilievi critici del giudice rimettente, in ordine all'accennato motivo di irrazionalità della

normativa vigente, possano avere accesso all’esame di questa Corte, dovrebbero tuttavia

35

essere formulati nell’ambito di una questione di costituzionalità essenzialmente diversa

da quella presente, l’ipotizzata discriminazione concernendo non più soggetti distinti (il

coniuge e il convivente) ma il medesimo soggetto (nella specie: un convivente), a

seconda dell’autorità ricevente le sue dichiarazioni, e riguardando una diversa causa di

non punibilità: non quella prevista nel primo, ma quella apprestata dal secondo comma

dell’art. 384 del codice penale … ") o nasconde un pretesto per richiedere alla Corte

l'accoglimento della questione attraverso una equiparazione fra famiglia legittima e

famiglia di fatto, concludendo che "… Pertanto, se tale era l’intento del giudice

rimettente, la via non poteva certo essere quella effettivamente percorsa della richiesta

equiparazione del convivente al coniuge sotto il profilo del primo comma dell’art. 384

del codice penale: una via, oltre che infondata e inammissibile per i motivi predetti,

anche artificiosa".

Dopo aver sviscerato questa recente decisione della Corte costituzionale ci permettiamo

di esprimere qualche breve considerazione: risulta ormai definito in ambito

costituzionale uno specifico spazio di rilevanza della famiglia di fatto; spazio però ben

distinto da quello esplicitamente riconosciuto alla famiglia legittima e tale da non

permettere mai una equiparazione tout court dei due fenomeni, essendo questi

ontologicamente ben diversi. Ciò però non significa assolutamente irrilevanza per il

diritto della famiglia di fatto: vedremo in seguito tutte le specifiche disposizioni

legislative che, in diversi ambiti e a diversi scopi, riconoscono l'esistenza di tale

aggregato familiare. Famiglia di fatto che ormai risulta essere un dato con il quale

occorre confrontarsi ed al quale occorre trovare soluzioni appropriate: fino adesso la

Corte si trincera dietro una impossibilità di intervenire per carenza di potere, con

conseguenti moniti al legislatore affinché intervenga; non è detto che, come molte altre

volte è accaduto, non sarà poi essa stessa a sostituire il legislatore, vista la sua

perdurante latitanza.

Passando ora ad analizzare le sentenze più rilevanti in materia civile, non possiamo non

occuparci di quelle che ineriscono ad una delle problematiche più sentite: alla materia

della successione nel contratto di locazione del convivente more uxorio del conduttore

deceduto.

Con le ordinanze del 16 luglio 1977 65 e del 18 gennaio 1979 66 il Pretore di Genova ed

il Tribunale di Milano avevano rimesso alla Corte costituzionale 67 il giudizio di

65 In Gazz. Uff. n. 347 del 21 dicembre 1977. 66 In Gazz. Uff. n. 230 del 22 agosto 1979. 67 Sentenza n. 45 / 1980 in Foro it., 1980, I , p. 1564 e in www.dirittoefamiglia.it - sezione sentenze - 22 gennaio 1999.

36

legittimità costituzionale in ordine all'art. 2-bis, I° comma, parte I della legge n. 351 /

1974 ed all'art. 1, IV° comma, parte I della legge n. 253 / 1950, in quanto tali

disposizioni non comprendevano tra gli aventi diritto alla proroga legale del contratto di

locazione, il convivente more uxorio del conduttore defunto. L'art. 2-bis sopra citato

prescrive che, "in caso di morte del conduttore, se trattasi di immobile adibito ad uso di

abitazione, la proroga di cui all'art. 1 opera soltanto a favore del coniuge, dei figli, dei

genitori e dei parenti, entro il secondo grado del defunto, con lui anagraficamente

conviventi". Parimenti l'art. 1 comma IV° della 253 / 50 dispone che "in caso di morte

del conduttore, se trattasi di immobile adibito ad uso di abitazione, la proroga scatti solo

a favore del coniuge, degli eredi e degli affini del defunto, con lui abitualmente

conviventi".

Secondo il Pretore di Genova la prima disposizione contrasterebbe con il principio di

eguaglianza in quanto porrebbe il convivente more uxorio con il conduttore defunto in

posizione deteriore non solo rispetto al coniuge ed ai parenti legittimi, ma anche rispetto

ai figli naturali conviventi, che hanno diritto, alla proroga legale della locazione e

possono, quindi, allontanare, ad libitum dall’abitazione il loro genitore naturale

superstite. Una questione analoga veniva sollevata dal Tribunale di Milano in relazione

all'art. 1 della legge 253 / 50.E' utile ricordare che vi erano già state delle decisioni di

giudici di merito che, sostituendo ad una prospettiva puramente critica come quella che

determina la q.l.c., un'audace interpretazione estensiva, avevano equiparato, per le

disposizioni in esame, la posizione del convivente more uxorio a quella del coniuge.

Sono due sentenze del Tribunale di Genova 68 ed una del Pretore di Sampierdarena 69 in

cui si afferma che l'art. 2-bis della legge 351 / 1974 si applica anche a favore del

convivente. Il Pretore è giunto alla medesima conclusione anche a riguardo dell'art. 6

della legge 392 / 78 sull'equo canone, che non annovera il convivente dell'inquilino tra

gli aventi diritto a succedere nel contratto di locazione nel caso di morte dell'inquilino

stesso. Questa giurisprudenza "moderna" trova però una battuta d'arresto con la sentenza

n. 45 / 1980 della Corte costituzionale: essa afferma che "… La denunciata violazione

del principio di eguaglianza non sussiste, perché la situazione del convivente more

uxorio con il conduttore defunto è nettamente diversa da quella del coniuge e degli altri

soggetti indicati, in modo tassativo, dalle norme impugnate. Invero, la convivenza more

uxorio è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità o certezza e della reciprocità

68 Trib. Genova 12 marzo 1979, in Giur. merito, 1979, I , p. 1151 e Trib. Genova 17 dicembre 1979, in Giur. it., 1979, I , p. 2. 69 Pret. Sampierdarena 20 ottobre 1979, in Foro it., 1980, p. 1.214.

37

e corrispettività dei diritti e doveri, previsti dagli artt. 143, 144, 145, 146, 147, 148 cod.

civ., che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima. La

coabitazione infatti del convivente more uxorio può cessare per volontà di uno dei

conviventi in qualsiasi momento anche mediante azione giudiziaria … ". Aggiunge

quindi che "… In ordine, poi, alla disparità di trattamento tra convivente superstite, che

non ha diritto alla proroga, e figlio naturale dei conviventi, che vi ha diritto - ravvisata

sia dal Pretore di Genova, sia dal Tribunale di Milano - è sufficiente rilevare che

l’attribuzione ai figli naturali, del diritto alla proroga legale realizza la tutela giuridica

dei figli nati fuori del matrimonio espressamente prescritta dall’art. 30, comma terzo,

della Costituzione, laddove il precedente art. 29, nel riconoscere i diritti della famiglia

come società naturale fondata sul matrimonio, considera il matrimonio elemento che

distingue la famiglia legittima e ne giustifica la particolare rilevanza giuridica. Le

caratteristiche del rapporto tra i conviventi more uxorio, sopra indicate, escludono pure

che la situazione dei conviventi possa essere considerata assimilabile a quella degli altri

soggetti, ai quali, insieme al coniuge ed ai figli, le norme impugnate attribuiscono il

diritto alla proroga legale del contratto di locazione. Questi soggetti sono legati al

conduttore da rapporti giuridici di parentela o di affinità o sono eredi dello stesso;

proprio per questi precisi legami giuridici il legislatore ha voluto loro attribuire il diritto

di permanenza nell’abitazione, nella quale hanno convissuto con il conduttore

medesimo …". Per questi motivi la Corte ritiene la questione infondata.

A questa pronuncia è seguito un coro di critiche: si è sostenuto che l'unico argomento su

cui si basa la pronuncia della Corte è fondato sull'assunto per cui l'unione libera

rappresenta una situazione diversa dal matrimonio e dunque non potrebbe ritenersi

costituzionalmente illegittima la disparità di trattamento. Tale motivazione sembrava

agli occhi di molti troppo ovvia per essere sufficiente, risolvendosi nel solo confronto

tra i modelli di organizzazione della famiglia 70. Secondo questa dottrina la Corte

avrebbe omesso di analizzare quale ratio avesse guidato il legislatore nel selezionare i

soggetti a favore dei quali la norma era stata dettata: ratio identificabile non tanto nella

sussistenza del dato formale del rapporto giuridico di coniugio o parentela, quanto

nell'esistenza di una comunità familiare che rispecchia un rapporto di solidarietà

affettiva, al punto che l'art. 1 della legge 253 / 50 ricomprende, tra gli aventi diritto alla

proroga, anche gli eredi "abitualmente conviventi" che possono anche non essere né il

coniuge, né parenti, né affini del conduttore defunto.

70 Così A. Iannarelli in Foro it., 1980, I , p. 1.564.

38

Per quanto poi concerne le critiche al richiamo della Corte ai parametri dei cui agli artt.

29 e 30 Cost., si è osservato che da un lato il Collegio non ha valutato la questione sulla

base dell'art. 2 Cost. e che dall'altro, l'innegabile preferenza assicurata alla famiglia

legittima non esclude per altro una certa protezione anche della famiglia di fatto.

Si giunge così ad una sentenza chiave, la n. 404 del 7 aprile 1988 71 con la quale si è

dichiarata la illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. dell'art. 6,

comma I° della legge 392 / 1978, nella parte in cui non prevede, tra i successibili nella

titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more

uxorio, ovvero nella parte in cui non prevede la successione, nel contratto di locazione,

al conduttore che abbia cessato la convivenza, a favore del convivente, quando vi sia

prole naturale. Prima di ritenere, superficialmente, di essere di fronte ad un sudato

riconoscimento della tutela costituzionale della convivenza more uxorio, è d'uopo

analizzare nel dettaglio la sentenza in questione.

La Corte costituzionale infatti si chiede se "… la mancata previsione della successione

nella titolarità del contratto di locazione, fino alla normale consumazione della durata

quadriennale del rapporto, come stabilita ex lege, … contrasti con valori presenti in

Costituzione …". Essa risolve il dilemma non prendendo affatto in considerazione "…

come ritengono i giudici a quibus, un trattamento discriminatorio a sfavore della

convivenza more uxorio, che violerebbe il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della

Costituzione. E neppure un contrasto con la spontaneità delle formazioni sociali nelle

quali si svolge la personalità dell’uomo, di cui all’art. 2 della Costituzione, o, nel

particolare caso di specie sub d), un ostacolo all’esercizio e all’adempimento dei diritti e

doveri dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori del

matrimonio, di cui all’art. 30, primo comma, della Costituzione …", bensì la sola

violazione di un diritto inviolabile dell'uomo, il diritto all'abitazione. Essa infatti ricorda

che "… quando il legislatore, nel contesto della legge n. 392 del 1978, detta l’art. 6,

rubricandolo “Successione nel contratto”, esprime il dovere collettivo di “impedire che

delle persone possano rimanere prive di abitazione”, dovere che connota da un canto la

forma costituzionale di Stato sociale, e dall’altro riconosce un diritto sociale

all’abitazione collocabile fra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della

Costituzione …".

Come si capisce chiaramente la Corte costituzionale accoglie la q.l.c. sulla base della

necessità di garantire e tutelare un diritto inviolabile, quale quello all'abitazione, che

nulla a che vedere con la tutela della famiglia di fatto. Specifica infatti che "… il

39

legislatore del 1978, ha voluto tutelare non la famiglia nucleare, né quella parentale, ma

la convivenza di un aggregato esteso fino a comprendervi estranei - potendo tra gli eredi

esservi estranei -, i parenti senza limiti di grado e finanche gli affini. E' evidente la

volontà legislativa di farsi interprete di quel dovere di solidarietà sociale, che ha per

contenuto l’impedire che taluno resti privo di abitazione, e che qui si specifica in un

regime di successione nel contratto di locazione, destinato a non privare del tetto,

immediatamente dopo la morte del conduttore, il più esteso numero di figure soggettive,

anche al di fuori della cerchia della famiglia legittima, purché con quello abitualmente

conviventi. Se tale è la ratio legis, è irragionevole che nell’elencazione dei successori

nel contratto di locazione non compaia chi al titolare originario del contratto era nella

stabile convivenza legato more uxorio. L’art. 3 della Costituzione va qui invocato

dunque non per la sua portata uguagliatrice, restando comunque diversificata la

condizione del coniuge da quella del convivente more uxorio, ma per la

contraddittorietà logica della esclusione di un convivente dalla previsione di una norma

che intende tutelare l’abituale convivenza. Se l’art. 3 della Costituzione è violato per la

non ragionevolezza della norma impugnata, l’art. 2 lo è quanto al diritto fondamentale

che nella privazione del tetto è direttamente leso …".

Così come impostata e risolta la questione dalla Corte, cosa resta del riconoscimento

della convivenza more uxorio, della famiglia di fatto come organizzazione sociale

costituita da legami di vita di tipo familiare, meritevoli di tutela in adesione ai principi

costituzionali ?

Mi pare davvero nulla. In questa sentenza non ci si pone mai il problema della funzione

familiare o del riconoscimento della famiglia di fatto: si afferma per la prima volta

l'esistenza del diritto inviolabile all'abitazione ed il dovere di solidarietà sociale di

impedire che taluno resti privo di un tetto. Da questo punto di vista, la decisione è una

pietra miliare. L'art. 2 Cost. viene dunque utilizzato dal Collegio non per riconoscere la

famiglia di fatto, bensì per identificare il fondamento del nuovo diritto enucleato, diritto

che spetta, in quanto individuo, anche al convivente more uxorio, così come a

qualunque persona abitualmente convivente, indipendentemente dalla presenza di un

affectio maritalis o coniugis.

Prima di trarre alcune prime conclusioni, mi sembra interessante analizzare due

sentenze piuttosto recenti, che ci aiutano a comprendere come la famiglia di fatto stia

assumendo un'importanza ogni giorno maggiore. Mi riferisco in primis alla sentenza n.

281 / 1994: questa sentenza ha avuto come oggetto una q.l.c. sollevata dal Tribunale per

71 In Foro it., 1988, I , p. 2.515.

40

i minorenni di Genova ed avente ad oggetto l’art. 6, primo comma, della legge 4 maggio

1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), in riferimento

agli artt. 2 e 3 della Costituzione. Tale articolo dispone che "L'adozione è permessa ai

coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni …": nel caso di specie i coniugi R. G. P.

ed A. L. B. erano sposati dal 1992, ma dimostravano di essere conviventi dal 17 marzo

1982, come risultante dai certificati di convivenza e di residenza storici allegati

all’istanza. A questo punto, per il Tribunale genovese "… la norma (l'art. 6 n.d.r.) si

porrebbe in contrasto con l’art. 2 della Costituzione, in quanto detta disposizione non

tutela sufficientemente la famiglia di fatto come formazione sociale, e con l’art. 3 della

Costituzione, in quanto verrebbero disciplinate in modo diverso le coppie che,

accomunate dal fatto di essere unite in matrimonio, dovrebbero ricevere analoga forma

di tutela anche relativamente alla materia delle procedure adozionali…". Rileva infatti il

giudice a quo che, pur dovendosi riconoscere diversità tra la famiglia di fatto e quella

legittima, appare tuttavia irragionevole un trattamento differenziato tra una coppia di

coniugi unita in matrimonio da due mesi, e tuttavia forte di una convivenza more uxorio

protrattasi senza interruzione per dieci anni, ed una coppia di coniugi che al momento

della presentazione della domanda al Tribunale possano vantare esclusivamente il

requisito del richiesto triennio matrimoniale.

La Corte costituzionale afferma in primo luogo che " … non si può invero ravvisare la

violazione dell’art. 2 della Costituzione, atteso che, da un lato, l’aspirazione dei singoli

ad adottare non può ricomprendersi tra i diritti inviolabili dell’uomo, e, dall’altro, che

anche qualificando la famiglia di fatto come formazione sociale, non per questo

deriverebbe che alla stessa sia riconosciuto il diritto all’adozione, come previsto per la

famiglia fondata sul matrimonio … " e che pertanto la questione non è fondata; in

secondo luogo che essa "non può ignorare, per un verso, il sempre maggiore rilievo che,

nel mutamento del costume sociale, sta acquistando la convivenza more uxorio, alla

quale sono state collegate alcune conseguenze giuridiche (cfr. sentenza n. 404 del

1988). Né può per altro verso negarsi validità alla suggestiva considerazione che,

proprio ai fini della tutela dell’interesse del minore, la solidità di una vita matrimoniale

potrebbe risultare, oltre che da una convivenza successiva alle nozze protratta per alcuni

anni, anche da un più lungo periodo, anteriore alle nozze, caratterizzato da una stabile e

completa comunione materiale e spirituale di vita della coppia stessa, che assuma poi

col matrimonio forza vincolante. Pertanto, fermo restando questo primo e indeclinabile

presupposto matrimoniale (con i diritti e doveri che ne conseguono), la scelta potrebbe,

eventualmente, cadere anche su coniugi sposati da meno di tre anni, ma con una

41

consistente convivenza more uxorio precedente alle nozze. Tuttavia, affinché l’esercizio

di questo potere di scelta sia garantito da una certa uniformità di ponderato

comportamento su tutto il territorio nazionale, tale da evitare, nella delicata materia de

qua, possibili disparità di trattamento tra adottandi o tra coniugi, occorrerebbe definire

alcuni criteri oggettivi, svolgenti l’analoga funzione sopra ricordata del triennio di

convivenza matrimoniale, in ordine - ad esempio - alla durata ed alle caratteristiche del

rapporto, soprattutto affinché la convivenza non sia meramente occasionale, ma

prodromica alla creazione di un “ambiente familiare stabile e armonioso”. Ma ciò

appartiene alla competenza del legislatore, cui spetta operare scelte così complesse

attraverso una interpretazione combinata di diversi elementi e valori di una società in

continua evoluzione …".

Conclude così per la inammissibilità della q.l.c.

Ancora una volta la Corte costituzionale non si azzarda a compiere un passo di cui essa

stessa sente ormai l'esigenza: ancora una volta si trincera dietro una carenza di potere,

invocando l'intervento del legislatore. Ancora una volta i giudici della Consulta fanno

un po' come gli struzzi, che, consci dei problemi esistenti, preferiscono nascondersi

sotto la sabbia. Non pare infatti attaccabile la q.l.c. sollevata dal Tribunale dei

minorenni di Genova: se infatti tutta la disciplina dell'adozione è rivolta a garantire ai

bambini più sfortunati un “ambiente familiare stabile e armonioso” e con tale locuzione

si intende quel luogo dove gli affetti e l'amore consentono lo sviluppo ideale e la

migliore educazione dei fanciulli, non si capisce proprio la decisione della Corte

costituzionale. Certamente il parametro dei tre anni di matrimonio è dettato per

garantire un minimo di certezza della solidità dei sentimenti dei coniugi, proprio al fine

di potervi inserire, sempre per altro dopo accurati controlli, l'adottando; ma è anche vero

che tale risultato può essere raggiunto come nel caso di specie quando, dopo aver

convissuto per anni ed averlo dimostrato, gli adottanti si siano pure sposati. La ratio

della legge sull'adozione è accertare la sussistenza dei requisiti di una vera e propria

"unione familiare" che sono presunti se i richiedenti sono sposati da almeno tre anni, ma

che possono essere anche oggetto di prova, qualora, come nel nostro caso, prima

abbiano convissuto (addirittura per 10 anni) e poi si siano sposati. Ancora una volta non

si riesce mentalmente a concepire come nell'unione di fatto possano sussistere i

medesimi sentimenti che si presume essere sussistenti in un matrimonio.

Per fortuna in un'altra decisione recente, la Corte inizia ad aprire gli occhi: mi riferisco

alla sentenza n. 203 / 1997 di cui ricordiamo il fatto. Nel corso di un giudizio promosso

da una cittadina bulgara per l'impugnazione di un provvedimento di

42

revoca del permesso di soggiorno per motivi di famiglia, il Tribunale amministrativo

regionale per il Friuli - Venezia Giulia, con ordinanza emessa il 21 settembre 1995, ha

sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 10, 30 e 31 della

Costituzione, dell'art. 4, comma 1, della legge 30 dicembre 1986, n. 943 (Norme in

materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e

contro le immigrazioni clandestine), "nella parte in cui non consente il

ricongiungimento ad un figlio minore di un cittadino extracomunitario non legato

all'altro genitore da vincolo di coniugio".

Il giudice a quo premette in fatto che la ricorrente, che convisse more uxorio con altro

cittadino extracomunitario, col quale ebbe una figlia, riconosciuta da entrambi i genitori,

aveva ottenuto un permesso di soggiorno per motivi di famiglia, in seguito revocato col

provvedimento impugnato, poiché la stessa ricorrente non risultava coniugata. Nell'atto

introduttivo del giudizio a quo si sosteneva che l'art. 4 della legge n. 943 del 1986 - ai

cui sensi "i lavoratori extracomunitari legalmente residenti in Italia ed occupati hanno

diritto al ricongiungimento con il coniuge nonché con i figli a carico non coniugati,

considerati minori dalla legislazione italiana, i quali sono ammessi nel territorio

nazionale e possono soggiornarvi per lo stesso periodo per il quale è ammesso il

lavoratore e sempreché quest'ultimo sia in grado di assicurare ad essi normali condizioni

di vita" - si applica anche alle famiglie di fatto, e che qualora la norma dovesse

interpretarsi diversamente sarebbe contraria alla Costituzione. Ad avviso del Tribunale

l'art. 4, comma 1, della legge n. 943 del 1986, ancorché inserito in una legge relativa al

collocamento e al trattamento dei lavoratori extracomunitari, avrebbe l'ulteriore scopo di

favorire la riunificazione delle famiglie: ma con questa finalità contrasterebbe la

limitazione del ricongiungimento ai soli figli nati nel matrimonio. Con ciò si

realizzerebbe una discriminazione tra i figli nati nel matrimonio e quelli nati fuori di

esso, si limiterebbe il diritto - dovere dei genitori di educare i figli, e correlativamente il

diritto dei figli di essere accuditi da entrambi i genitori, in contrasto con gli articoli 30 e

31 della Costituzione; e si violerebbe la garanzia di speciale protezione dell'infanzia

sancita dal citato art. 31.

La Corte costituzionale accoglie l'istanza presentatale affermando chiaramente però che

"… La situazione, dunque, alla quale si collega il diritto al ricongiungimento familiare

qui affermato non concerne il rapporto dei genitori fra di loro, bensì il rapporto tra i

genitori ed il figlio minore, in funzione della tutela costituzionale di quest'ultimo …".

Anche in questa occasione dunque, la Corte non modifica il proprio orientamento,

quello cioè di evitare di affermare esplicitamente la rilevanza della famiglia di fatto, ma

43

riconosce che, anche nella famiglia di fatto sussistono i poteri - doveri dei genitori nei

confronti dei figli; conclude infatti dicendo: "… Tali diritti sono violati da una

disciplina normativa che, ai fini del ricongiungimento, ignora la situazione di coloro

che, pur non essendo coniugati, siano titolari dei diritti - doveri derivanti dalla loro

condizione di genitori …". Si prende quindi come obbiettivo la tutela dei figli, a nulla

importando che siano naturali o legittimi, ma fra le righe si riconosce ancora una volta

l'esistenza anche in un rapporto di fatto dell'elemento della "familiarità", che deve essere

sempre tutelato proprio in relazione con i figli.

44

4. Prime conclusioni.

Dalla ricognizione della giurisprudenza costituzionale si può sintetizzare come il

problema della famiglia di fatto sia ben avvertito dalla Consulta, ma anche come il

superamento di tante remore culturali e religiose sia ancora lontano da venire. Pur di

non affermare esplicitamente l'esistenza e la tutela della famiglia di fatto, si utilizzano

diritti di creazione giurisprudenziale (es. il diritto inviolabile all'abitazione) o si fanno

scendere in campo esigenze superiori quali la tutela dei figli o le più disparate necessità

dell'ordinamento (specie in materia penale).

E' ormai chiaro che ad avviso della Corte costituzionale, la famiglia di fatto assume una

rilevanza giuridica ex art.. 2 Cost., ma soprattutto come sia sempre da tenere ben

distinta dalla famiglia legittima e dalla tutela ad essa accordatale dall'art. 29 Cost.

Una distinzione concettuale che implica l'impossibilità di equiparare tout court le due

realtà, pena la violazione dell'art. 3 Cost. per irragionevole omologazione di ipotesi

diverse. Una tale operazione infatti, snaturerebbe la stessa famiglia di fatto che, se

completamente regolata, diventerebbe un'altra «famiglia di diritto», violando così da

una parte il principio di libertà di crearsi una famiglia non istituzionalizzata e dall'altra

quello di prevalenza della famiglia legittima. Se quindi la mera equiparazione non è la

via da seguirsi, occorre chiedersi con quali strumenti si possa comunque tutelare la

famiglia di fatto: per es. con un'interpretazione estensiva, operazione che viene

compiuta spesso dalla giurisprudenza di merito. Essa cioè allarga le maglie della legge

per farvi rientrare le ipotesi che ritiene meritevoli di tutela; per fare un esempio

semplice leggiamo questa massima "… Anche nel caso di famiglie di fatto l'affidamento

congiunto dei figli minori è ammissibile se ciò è nel loro interesse morale e materiale.

Tale soluzione può essere praticata anche nel permanere di una forte conflittualità fra i

genitori ed anche con il loro espresso parere contrario, se ciò può concorrere ad una

svolta positiva nei rapporti successivi alla separazione 72."

Un altro mezzo può essere quello per cui, richiamandosi a principi superiori quali i

diritti inviolabili dell'uomo, si viene a tutelare indirettamente anche la famiglia di fatto

(così per il diritto all'abitazione o al diritto di educare i figli ecc.). Qualunque sia la

strada seguita è importante rilevare come, ancora una volta, sia la giurisprudenza a

dover risolvere grosse problematiche, sostituendosi al legislatore incapace di produrre

delle adeguate soluzioni normative.

72 Decreto del Tribunale dei minorenni di Perugia, 16 gennaio 1998 in www.dirittoefamiglia.it - sezione sentenze - 22 gennaio 1999.

45

Certamente la giurisprudenza di merito è più vicina alle problematiche della società,

non si pasce di meri principi astratti e si trova ogni giorno a dover risolvere delle

questioni pratiche a cui occorre rispondere in qualche modo. Vedremo in seguito quali

grossi problemi sussistono nella famiglia di fatto, sia a rilevanza "interna" che "esterna".

Quello che qui preme sottolineare è invece il timore della Corte costituzionale di dare

rilevanza a dei sentimenti familiari che come essa stessa ammette 73 " … sono un dato di

fatto incontestabile che implica la necessità di tutelare anche nella famiglia di fatto

"quel legame di solidarietà tra i componenti del nucleo familiare e del sentimento che li

unisce …": paura di superare quegli ostacoli più culturali, che giuridici che in altri

campi invece non esistono affatto (si veda la recente sentenza sull'art. 513 cod. proc.

pen.).

73 Vedi supra sentenza 18 novembre 1986, n. 237 analizzata a p. 29.

46

CAPITOLO II °

LE TUTELE RICONOSCIUTE

ALLA CONVIVENZA MORE UXORIO

1. Tutela penale.

Dopo aver definito la rilevanza costituzionale della famiglia di fatto, è necessario

passare al setaccio l'intero ordinamento giuridico italiano alla ricerca di tutte le

disposizioni legislative che si riferiscono a tale fenomeno.

La dottrina tende a suddividere tali norme a seconda sia del profilo di rilevanza,

"interno" o "esterno" al rapporto, sia in base alla specifica rilevanza giusfamiliare o

meno dello stesso. In pratica si ritiene che alcune disposizioni si riferiscano ai rapporti

patrimonial - familiari tutti interni alla convivenza, c.d. profilo interno; mentre molte

altre abbiano invece tra i loro presupposti applicativi l'esistenza di un rapporto di fatto,

ma nella sostanza si riferiscano direttamente ad altre problematiche (ad es. si veda il

caso del risarcimento del danno per morte del convivente, problema di responsabilità

civile extracontrattuale, più che giusfamiliare).

Occorre per altro subito chiarire un punto sul quale parte della dottrina e della

giurisprudenza tende a fare confusione: mi riferisco al presunto riconoscimento

giuridico della famiglia di fatto avvenuto con il nuovo articolo 317-bis cod. civ.

Questo articolo, che si rivolge all'esercizio della potestà genitoriale, afferma: " … Se il

riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, l'esercizio della potestà spetta

congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi … ".

Questa disposizione che, fra le altre cose, si rivolge alla mera convivenza e non

necessariamente o solamente alla convivenza more uxorio, è stata erroneamente ritenuta

come la pietra sulla quale erigere il riconoscimento giuridico espresso dell'"unione di

fatto" 74.

In verità come sottolineato da altra dottrina 75, questa norma ha come oggetto specifico

non la disciplina del rapporto di coppia in quanto tale, bensì della relazione genitori

74 Così ad es. per M. Dogliotti, in voce Famiglia di fatto …, op. cit. a nota 5, p. 190. 75 Si veda F. D'Angeli, op. cit. a nota 52, p. 49.

47

conviventi - figli, nella parte in cui attiene all'esercizio congiunto della potestà, destinata

a venire meno alla cessazione della convivenza o anche se questa rimanga nel tempo, al

raggiungimento della maggiore età della prole. Ed è quindi fuori di dubbio, che la ratio

della disposizione sia da rinvenire nell'esigenza di non sottrarre alla regolamentazione

giuridica il fatto naturale della procreazione, fatto da cui l'ordinamento non può che far

scaturire una responsabilità formale dei genitori, e la rilevanza della convivenza di

questi, ai fini dell'attribuzione dell'esercizio congiunto della potestà, è finalizzata a

garantire nella forma più completa possibile l'educazione e l'assistenza alla prole

naturale, risultando così funzionalizzata all'esclusiva tutela della medesima. Per questo

si può al massimo affermare che l'art. 317-bis cod. civ. sancisce la piena rilevanza

giuridica della famiglia naturale, quella cioè che si determina con la nascita di un figlio,

ma non certo di quella di fatto, che può esistere anche a prescindere dalla presenza di

quello.

Se quindi il riferimento all'art. 317-bis cod. civ. può essere fuorviante ai nostri fini,

certamente non lo è l'art. 4 del DPR 30 maggio 1989, n. 223 76 laddove esso definisce

cosa si debba intendere per "famiglia". Esso dispone che " … ai soli effetti anagrafici

per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela,

affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello

stesso comune".

Dalla lettura della disposizione si può capire subito come la ratio della norma risieda

nella necessità per l'Anagrafe comunale di avere sempre a portata di mano un elenco

preciso dei suoi cittadini residenti, sia come singoli, sia come componenti di un nucleo

familiare: è una disposizione ben specifica e settoriale, dalla quale non può certo

desumersi un generico riconoscimento della famiglia di fatto. Certamente se si

considera che uno dei maggiori ostacoli che si frappone al riconoscimento delle libere

unioni risiede nella difficoltà di individuare (e provare) in concreto, il momento iniziale

della loro costituzione, una disposizione di questo tipo può avere, ed ha nella pratica,

una notevole importanza. Sappiamo infatti che l'allegazione della certificazione

anagrafica rappresenta un indizio rilevante ai fini della dimostrazione dell'esistenza di

una famiglia di fatto, anche se di per sé non è condizione sufficiente: occorrerà integrare

questo indizio con altri gravi, precisi e concordanti e quindi dimostrare in concreto

l'esistenza degli altri requisiti necessari (affectio familiaris, stabilità, coabitazione ecc.).

76 "Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente".

48

Da questi primi esempi si comprende come una valutazione globale del fenomeno della

libera unione si potrà avere solo dopo aver effettuato una ricognizione accurata

dell'ordinamento giuridico: indagine che non può prescindere dall'analisi delle

problematiche sorte in campo penalistico, vista la propensione in questo settore alla

valorizzazione delle ragioni di tutela del singolo nell'ambito del nucleo familiare in cui è

inserito; caratteristica questa che assume un preciso valore nella delimitazione dei

margini di rilevanza della struttura para- familiare in questione.

In primo luogo occorre osservare che nel contesto della disciplina penalistica il concetto

di famiglia assume un significato proprio, non derivato dal codice civile: l'art. 307 cod.

pen. definisce i prossimi congiunti in maniera tassativa, escludendo da questi i familiari

di fatto. Non possiamo però certo tacere i tentativi che la giurisprudenza ha operato per

allargarne le maglie: sia nelle sentenze della Corte costituzionale già analizzate, sia in

quelle dei giudici di merito che sono giunte talvolta ad inserire nel novero dei familiari,

anche dei domestici 77.

Passando ad analizzare le singole fattispecie criminose viene in considerazione in primo

luogo il reato di "maltrattamenti in famiglia e verso i fanciulli" disciplinato dall'art. 572

cod. pen. che punisce chi " … maltratta una persona della famiglia o un minore di anni

quattordici o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di

educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia …". Da questo disposto è stato

semplice per la giurisprudenza ritenere, attraverso una interpretazione ampia del nucleo

familiare, che tale può essere considerato " … anche il legame di puro fatto stabilito tra

un uomo ed una donna … quando risulti da una comunanza di vita e affetti analoga a

quella che si ha nel matrimonio …" 78.

Sempre dal punto di vista interpersonale si può ricordare come un richiamo alla libera

unione si possa desumere dall'art. 61 n. 11 cod. pen. laddove fra le circostanze

aggravanti comuni viene indicato "l'avere commesso il fatto con abuso di autorità o di

relazioni domestiche ovvero con abuso di relazioni d'ufficio, di prestazione d'opera, di

coabitazione o di ospitalità": ora, in qualunque modo venga definito un ménage di fatto,

coabitazione, ospitalità o come fa la giurisprudenza, "relazione domestica", certamente

esso assume una rilevanza specifica in questo ambito. Ma ancora: sotto l'aspetto

patrimoniale è interessante ricordare come il rapporto di convivenza possa giocare un

77 Così in Cass. 13 luglio 1932, in Giust. pen. , 1933, II , p. 659. 78 In questi termini Cass. 1 marzo 1966 in Cass. pen. mass. annot., 1966, p. 1.219 o Cass. 26 giugno 1961, ivi, 1962, p. 19 ed ancora Cass. 18 dicembre 1970, ivi, 1972, p. 860 ed altre ancora.

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ruolo diverso a seconda che concerni la presenza ora dell'elemento oggettivo, ora di

quello soggettivo del reato.

Basta citare il caso di una donna denunciata per circonvenzione di incapace dal proprio

convivente in quanto questo, durante un periodo di malattia in cui era incapace di

intendere e volere, le aveva rilasciato un assegno: questa circostanza, ad avviso del

Tribunale di Genova 79, non integrava gli estremi del reato di cui all'art. 643 cod. pen.

dovendosi infatti presumere che il denaro acquisito dalla donna fosse utilizzato per

soddisfare le esigenze del ménage comune.

Sempre nell'ottica della rilevanza della situazione di convivenza è importante ricordare

come sia stata attribuita una efficacia scriminante in relazione alla fattispecie criminosa

di cui all'art. 570 cod. pen. ("Violazione degli obblighi di assistenza familiare"),

escludendosi la configurabilità del reato a carico del marito " … per avere fatto mancare

i mezzi di sostentamento alla moglie nell'ipotesi in cui questa, vivendo separata dal

coniuge, si sia di fatto formata una nuova famiglia con un altro uomo il quale provveda

alle sue necessità …" 80. In questo caso l'esistenza della struttura para- coniugale gioca a

sfavore del soggetto passivo del presunto reato, in quanto la giurisprudenza ritiene che

per integrarsi l'ipotesi di cui all'art. 570 cod. pen. occorre che quello versi in stato di

effettivo bisogno e l'obbligato abbia i mezzi economici per prestargli assistenza: ipotesi

che vengono escluse allorquando il nuovo partner supplisca convenientemente ai suoi

bisogni o il marito ometta di prestare assistenza economica alla propria moglie separata

per fronteggiare le improvvise ed indilazionabili esigenze manifestatesi all'interno della

famiglia di fatto, come la sopravvenienza di una grave malattia della partner 81. In

questo ultimo caso si era generato un delicato conflitto di coscienza che ha portato il

giudice ha ritenere che non sia " … contrario all'ordine pubblico ed alla morale delle

famiglie il comportamento di colui che, lungi dal sottrarsi volontariamente agli obblighi

inerenti alla sua condizione, ne assuma degli altri anche nei confronti della famiglia

naturale, effettuando, ove necessario … una scelta nel soddisfacimento delle esigenze

primarie dell'uno o dell'altro nucleo familiare …". (Per essere precisi, in questo caso da

una parte l'obbligato versava in pessime situazioni economiche e, per converso, la

moglie separata non versava affatto in effettivo stato di bisogno; circostanze queste

emergenti dalle risultanze istruttorie e decisive per escludere la configurabilità del reato

ascrittogli).

79 Trib. Genova 8 maggio 1980, in Giur. merito, 1981, II , p. 451. 80 Pret. Galatina 21 novembre 1975, in Giur. merito, 1976, I , p. 278. 81 Pret. Roma 14 aprile 1971, in Temi romani, 1971, III , p. 412.

50

Anche nel campo del diritto processuale penale, la libera unione non ha mancato di

sollevare una serie di problematiche, solo parzialmente superate dal nuovo codice del

1988. Un primo grosso problema riguardava il combinato disposto degli artt. 307 IV°

comma cod. pen. e 350 del previgente cod. proc. pen., disposizioni che, prevedendo la

facoltà per i prossimi congiunti dell'imputato di astenersi dal testimoniare nel processo

intentato a suo carico, escludevano dal novero di costoro il convivente more uxorio:

fattispecie già analizzata nella sentenza della Corte costituzionale n. 6 / 1977. 82

Abbiamo già visto come la Consulta ha ritenuto infondata la questione da una parte

adducendo (correttamente) la sostanziale diversità della situazione di coniugio,

dall'unione di fatto e dall'altra affermando la propria carenza di potere nel riconoscere

una situazione che " … non deve rimanere senza tutela …".

Ed infatti legislatore ha preso atto della identità di sentimento che, anche in una unione

di fatto, può determinare un conflitto interiore tra esigenze di giustizia e necessità di

evitare l'incriminazione di un proprio caro: con il nuovo art. 199 cod. proc. pen. si è

contemplata la facoltà di astensione dal testimoniare anche "a chi, pur non essendo

coniuge dell'imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso …".

Con questa disposizione, oltre a risolvere una delicata questione processuale, si è posta

un'importante affermazione di principio, laddove si ritiene che anche in uno stabile

rapporto di fatto esistono tutti quei legami sentimentali e materiali che si rinvengono

nella famiglia legittima: come scrisse M. Bargis 83 " … negare ai conviventi more

uxorio … il diritto di astenersi dal deporre, potrebbe essere interpretato come una sorte

di sanzione per la mancata regolarizzazione del loro stato, in contrasto con i diritti di

libertà …". Pertanto con il nuovo disposto dell'art. 199 cod. proc. pen. si può certamente

affermare che per il legislatore un'unione di fatto, caratterizzata dalla dimostrazione

dell'esistenza dell'affectio familiaris, non può più essere considerata irrilevante per il

diritto.

In un altro ambito, nel diritto penitenziario, sussiste una disposizione altrettanto

interessante: l'art. 30 della legge n. 354 / 1975 ("Norme sull'ordinamento penitenziario e

sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà").

Questa norma dispone la concessione di permessi al detenuto, consentendone

l'allontanamento dal carcere, sia nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o

82 Vedi supra p. 26. 83 M. Bargis "Testimonianza dei conviventi more uxorio e diritto di astensione", in Giur. cost., 1977, p. 944.

51

di un convivente, sia in via eccezionale per eventi di particolare gravità e non v'è dubbio

che fra i soggetti rientranti nell'ambito della disposizione, vi sia anche il convivente

more uxorio, come altrettanto si può dire per il precedente art. 29 che dispone, per

quanto concerne i rapporti detenuto - relativa famiglia, che una "particolare cura" dovrà

"essere dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli

internati con le famiglie".

Qualcuno in dottrina, mi riferisco a F. Gazzoni 84, afferma che l'art. 30 appena

esaminato, nulla dica in favore del riconoscimento della struttura para- familiare, visto

che si riferisce ad una generica "convivenza" e non specifica ad una "convivenza more

uxorio". Ora a me sembra ovvio che ciascuno, nell'interpretare una norma giuridica, ha

la possibilità di esprimere la propria convinzione, purché però non si esageri: sarà pur

vero che nell'art. 30 non vi sarà citato espressis verbis il convivente more uxorio, ma mi

pare nello stesso tempo anche fuori di dubbio che fra la situazione del pericolo di vita di

un familiare e quella identica di un generico convivente, non si possa non inserire a

fortiori quella del convivente more uxorio.

Ancora una volta quindi è un'interpretazione estensiva a permettere l'inserimento di tale

fattispecie nell'ambito di applicazione della norma.

Ma pensiamo ancora al nuovo art. 681 cod. proc. pen. che dispone che la domanda di

grazia può essere sottoscritta anche dal convivente, con ciò innovando la precedente

disciplina che escludeva questo dai soggetti legittimati alla presentazione di detta

istanza.

Anche questo è un esempio della rilevanza sempre maggiore che sta assumendo tale

fenomeno: certamente molta strada è ancora da percorrersi specie in tutte quelle

disposizioni che concernono l'obbligo di astensione del giudice e lo speculare istituto

dei casi della sua ricusazione (artt. 35, 36 e 37 cod. proc. pen.). Infatti a differenza che

nel campo processual - civilistico (es. art. 51 n. 2 cod. proc. civ.), tali disposizioni non

determinano esplicitamente l'obbligo di astensione per il giudice penale in caso di

legame anche di fatto con le parti o con altri soggetti interessati al processo: mancanza

grave, ma che potrebbe essere risolta in via interpretativa utilizzando un'interpretazione

estensiva del concetto di "interesse nel procedimento" di cui all'art. 36 n. 1, lettera a) o

di quello delle "altre gravi ragioni di convenienza" di cui alla lettera h) dello stesso

articolo.

84 F. Gazzoni, op. cit. a nota 13, p. 31.

52

Da queste premesse e, ricordato come l'interpretazione giurisprudenziale della

fattispecie di cui all'art. 572 cod. pen. ("Maltrattamenti in famiglia") venga riferita

anche alla convivenza more uxorio, appaiono sempre più confermati i dubbi di

legittimità costituzionale di altre disposizioni, come dell'art. 649 n. 1 cod. pen. ("Non

punibilità … dei delitti contro il patrimonio"), laddove non prevede l'estensione al

convivente more uxorio dell'esimente ivi prevista per i reati contro il patrimonio

commessi dai coniugi l'uno ai danni dell'altro o dell'art. 384 I° comma cod. pen. che

dispone la non punibilità di taluni reati commessi contro l'amministrazione della

giustizia per chi ha compiuto il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare

sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella

libertà o nell'onore, escludendo a norma dell'art.. 307 IV° comma cod. pen. dall'ambito

dei prossimi congiunti, il convivente more uxorio.

Dubbi questi che se la Corte ritiene ancora non fondati o non ammissibili 85, certamente

necessitano quanto prima di un intervento del legislatore. Per quanto ancora valido

infatti, il codice Rocco abbisogna di una "spolverata" in più parti e sicuramente nella

tutela da concedere al sentimento familiare "altamente inteso". Non a caso infatti nei

disegni di legge fin qui presentati e che analizzeremo nel dettaglio più avanti, tutti

inseriscono nella nozione di "prossimi congiunti" il convivente: come già anticipato

altrove, se il sentimento familiare che caratterizza in via presuntiva la famiglia legittima

è dimostrato come esistente anche nella famiglia di fatto, necessita della medesima

tutela ogniqualvolta la ratio di una disposizione si riferisca ad esso.

Per concludere il quadro penalistico, sempre in ottica de iure condendo, palesiamo i

nostri dubbi sulla proposta di legge Cappiello (art. 12 del progetto di legge del 28

febbraio 1988) atta a prevedere l'estensione del reato di violazione degli obblighi di

assistenza familiare al convivente more uxorio, equiparandolo così al coniuge: questa

disposizione infatti andrebbe a cozzare contro l'art.2 Cost. laddove determinerebbe

l'impossibilità per un soggetto di avvalersi liberamente dell'unione di fatto, del diritto

cioè di costruirsi un modello familiare che non sia quello previsto e disciplinato

dall'ordinamento giuridico. Con una disposizione di questo tipo infatti, non si avrebbe

più una libera unione ed una famiglia legittima, bensì due famiglie legittime, ancorché

di diverso "grado".

Per quanto concerne infine l'estensione delle circostanze attenuanti previste per i

membri del nucleo familiare a quelli di una libera unione, si può segnalare solo come da

53

una parte alcuna dottrina proponga l'utilizzo della stessa disciplina, data l'eguaglianza

dei vincoli affettivi (così U. De Leone) e dall'altra come già esista, de iure condito una

disposizione che, data la sua indeterminatezza, può anche essere riferita anche al

convivente more uxorio. E' l'art. 62-bis cod. pen. che permette al giudice di " …

prendere in considerazione altre circostanze (attenuanti) diverse, qualora le ritenga tali

da giustificare una diminuzione di pena …": disposizione che, se utilizzata cum granu

salis dai giudici, può sopperire ad una carenza di disciplina penalistica della famiglia di

fatto.

85 Vedi le sentenze della Corte costituzionale in materia penale, supra da p. 26.

54

2. Tutela civile.

Spostando l'analisi nel settore civilistico dobbiamo affrontare le diverse problematiche

utilizzando il criterio che la dottrina più autorevole propone, quello cioè di distinguere

fra fattispecie a rilevanza interna ed esterna alla relazione extramatrimoniale,

individuando poi se tale rapporto viene direttamente ad essere disciplinato dalla norma o

se invece assume una mera incidenza indiretta, fungendone da semplice presupposto.

Ricordo che per rilevanza interna al rapporto si intendono tutte quelle relazioni

personali e patrimoniali che si instaurano nella coppia, mentre con la locuzione

rilevanza esterna si intendono tutte quelle che entrano in gioco con la collettività, sia

con soggetti privati, sia con enti quali Stato, Regioni, Fisco ecc.

Procediamo dunque con ordine.

Per quanto concerne l'aspetto interpersonale o interno e la contestuale rilevanza

giuridica diretta, il quadro che si delinea, si presenta del tutto privo di riferimenti

normativi, sia espliciti, sia desumibili in via interpretativa e tale quadro dovrebbe

rimanere immutato anche in futuro: l'assenza di un atto giuridicamente vincolante per le

parti risulta essere un elemento decisivo per dare vita alla loro unione senza assumere

vincoli davanti all'ordinamento, decisione espressiva di quel diritto fondamentale di

libertà della persona di vivere la propria vita affettiva anche al di fuori degli schemi

fissati dalla legge. Tale scelta implica che da una semplice convivenza non possono

scaturire i doveri vincolanti e gli obblighi di coabitazione, fedeltà, assistenza materiale e

morale, collaborazione e contribuzione che si rinvengono nella famiglia legittima: tutt'al

più potranno costituire oggetto di una obbligazione naturale in costanza di rapporto,

sempre che l'adempimento spontaneo di essi rappresenti l'indice di qualificazione della

relazione di coppia, come convivenza more uxorio.

E' da aggiungersi inoltre che la rilevata diversità fra nucleo familiare legittimo e

fattuale, originata dalla differente scelta di base delle due strutture, la prima tipizzata ed

espressione di certezza e stabilità per l'ordinamento, la seconda espressione atipica di

una libera scelta, pur nella somiglianza delle due situazioni, implica che si debba

totalmente respingere la tesi dell'applicazione analogica della disciplina di quella

attinente ai rapporti tra coniugi a questa, dato che la sua caratteristica principale è la

scelta di basare la nascita della famiglia di fatto su di una base meramente

spontaneistica. Da ciò discende che le eventuali controversie relative ai rapporti

interpersonali della convivenza non possono essere oggetto di intervento da parte

dell'ordinamento, dovendo invece affidarsi al ritorno di un'armonia perduta, pena la

55

inevitabile frattura del rapporto stesso implicante, come vedremo, dei problemi di

natura patrimoniale che portano il rapporto di fatto ad assumere una rilevanza giuridica

diretta, proprio nel momento della sua cessazione.

Prima di analizzare la problematica degli aspetti patrimoniali della relazione para-

coniugale è necessario spendere poche righe per segnalare il mutamento che, in pochi

decenni, ha segnato la nostra società. Mi riferisco al passaggio da una società agricola,

ad una società industriale avanzata, che ha determinato oltre al dissolvimento

dell'arcaica struttura familiare patriarcale, la frattura della tradizionale identificazione

tra comunità familiare ed entità produttiva, la rilevanza sempre maggiore del singolo

nell'ambito del gruppo e, soprattutto, un processo di emancipazione culturale,

economico e sociale della donna che ha portato al rigetto del suo ruolo tradizionale di

"angelo del focolare". Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, il processo di

trasformazione sociale ha stravolto la secolare suddivisione dei ruoli intrafamiliari per

cui all'uomo era riservato il sostegno del ménage e della famiglia intera, con la parallela

assunzione sul piano giuridico di un obbligo incondizionato di somministrazione a

favore della sposa di tutto il necessario ai bisogni della vita (si veda il vecchio art. 143

cod. civ. !), mentre alla donna era affidata la cura della casa e l'educazione dei figli e, se

impegnata anche in un lavoro esterno, questo era considerato una circostanza

sussidiaria e subalterna rispetto alla sua "essenziale funzione familiare". In questo

contesto una donna che instaurasse una convivenza more uxorio da una parte si

sottraeva alla sola possibilità di realizzazione della propria personalità e dall'altra veniva

ad essere relegata in una posizione di aleatoria dipendenza economica rispetto all'uomo

con cui andava a convivere. Da queste premesse è comprensibile capire il giudizio di

disvalore che assumeva questo tipo di relazione e l'esigenza di non lasciare totalmente

priva di tutela la posizione della convivente. Certo queste posizioni sono ormai datate

vista l'attuale struttura sociale: la donna è partecipe del mondo del lavoro e da esso trae

indipendenza economica ed emancipazione. Ed è proprio in base a questo profondo

mutamento, che la nuova disciplina giuridica del rapporto matrimoniale vede sovvertire

la vecchia impostazione, passa ad una assoluta parificazione del lavoro casalingo con

quello extrafamiliare e fissa il principio della tendenziale parità degli apporti

patrimoniali dei coniugi, onde è venuta meno quell'esigenza di tutelare una posizione di

debolezza economica della donna rispetto a quella più forte dell'uomo.

Sotto un altro punto di vista, la trasformazione della ruolo della donna ha determinato il

fatto che la c.d. sistemazione matrimoniale non rappresenta più l'unico progetto di

56

realizzazione della propria personalità, talché una sua scelta di dare vita ad eventuali

unioni non matrimoniali, non implica più quel giudizio di disvalore sociale come un

tempo osservato. Infine la sua stessa indipendenza economica impone di valutare la

vicenda della unione di fatto in chiave di una consapevole e libera scelta rispetto al

rapporto matrimoniale, mentre correlativamente, la sua posizione tradizionale di

debolezza non potrà non andare che dissolvendosi col tempo.

Fissate queste doverose puntualizzazioni di ordine sociologico è ora possibile elencare

gli aspetti sui quali vertono le principali problematiche patrimoniali della relazione di

fatto e cioè:

1. il concorso nel sostenere gli oneri della vita comune;

2. il regime degli acquisti dei beni durante la convivenza;

3. la qualificazione giuridica delle attribuzioni patrimoniali intercorse tra i

conviventi;

4. la valutazione delle prestazioni lavorative tra i partner e dell'opera prestata

dalla donna per l'andamento del ménage.

Per quanto interessa il primo aspetto non esistono questioni intorno agli oneri di

mantenimento della prole naturale, visto il principio dell'art. 148 cod. civ. ("Concorso

degli oneri"), dettato in riferimento ai genitori legittimi, ma applicabile per il rinvio

dell'art. 261 cod. civ. anche a quelli naturali: entrambi i genitori devono contribuire in

proporzione alle relative sostanze e secondo le loro capacità al mantenimento dei figli.

Al di là di questo aspetto, che tra l'altro non tocca la famiglia di fatto in sé e per sé

considerata, quanto la c.d. famiglia naturale, nei rapporti tra i conviventi non sussistono

obblighi di contribuzione agli oneri economici del ménage giuridicamente coercibili 86

come quelli ravvisabili per i coniugi all'art. 143 III° comma cod. civ. E' però anche vero

che nell'unione di fatto i conviventi si prestano reciproca assistenza materiale e morale,

concorrendo a sostenere gli oneri economici della vita comune e che questi

comportamenti sono indispensabili per la stessa individuazione della struttura para-

coniugale, perché laddove mancassero, verrebbe meno uno dei requisiti costitutivi per

l'identificazione della fattispecie "famiglia di fatto".

86 Solo G. Furgiuele in dottrina parla di "…un preciso dovere giuridico di prestare che deriva dalla convivenza …", in "Libertà e famiglia", Milano, 1979, p. 288.

57

Se quindi non esiste un obbligo giuridicamente azionabile di compartecipazione agli

oneri della convivenza more uxorio, è ormai un dato acquisito dalla dottrina e dalla

giurisprudenza che l'unione di fatto, per tutto il tempo che si protrae, implica per i

conviventi l'assunzione reciproca del dovere morale e sociale di assistersi, per cui le

erogazioni di uno o di entrambi, dirette a sopperire alle necessità del ménage,

costituiscono l'adempimento di obbligazioni naturali che, in quanto tali, producono il

solo effetto della solutio retentio.

Questa soluzione, vedremo, in mancanza di una convenzione fra i partner ex art. 1.322

cod. civ. determina un duplice effetto: da una parte implica l'irripetibilità delle

prestazioni erogate (in quanto appunto obbligazioni naturali ex art. 2.034 cod. civ.), ma

dall'altra impedisce di inserire fra i danni risarcibili ex art. 2.043 cod. civ. queste

prestazioni, proprio perché ex lege incoercibili.

Sempre nel contesto degli oneri di contribuzione, questa volta dal punto di vista della

rilevanza esterna del rapporto di convivenza rispetto ai terzi, viene in gioco la questione

della responsabilità o meno del convivente per le obbligazioni assunte dall'altro per

sopperire alle esigenze del ménage: partendo dal presupposto della impossibilità di

estendere alla famiglia di fatto la disciplina della presunzione di comunione dei beni

prevista per la famiglia legittima, ed in mancanza di un'apposita convenzione fra i

conviventi, il regime patrimoniale non può che essere quello della separazione dei beni

e tutta la problematica sopra accennata può essere risolta applicando i principi elaborati

un tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza, prima della riforma del diritto di

famiglia.

In quel contesto vista la conduzione domestica affidata alla moglie e la posizione

economica preminente del marito, si ritenne che gli obblighi da quella assunta per

soddisfare le esigenze della famiglia avessero l'effetto di obbligare il marito in quanto

ella aveva agito come rappresentante di costui, in virtù di un suo mandato tacito o

presunto 87.

Parte della dottrina ritiene non ostino remore all'applicazione di questo principio anche

alla convivenza extramatrimoniale ed in questa prospettiva, di considerare il convivente

solidalmente responsabile delle obbligazioni assunte dall'altro, per il soddisfacimento

delle esigenze del ménage comune, pur essendo rimasto estraneo al compimento

87 Così per Jemolo, Santoro - Passarelli e Stella - Richter in dottrina e ad es., per citare alcune sentenze, si vedano tra le altre Cass. 6 maggio 1957 n. 1.529 in Giust. civ., 1957, I , p. 1.724 o Cass. 18 maggio 1953, n. 1.407 in Giur. it., 1954, I , sez. I , c. 380.

58

dell'atto 88. Altri ancora, come S. Alagna, ritengono che da un principio solidaristico

operante in qualsiasi comunità familiare si possa dedurre la giustificazione dei poteri di

ciascun soggetto "… di agire nell'interesse della comunità e di assumere obbligazioni

…". Ancora si aggiunge che, anche non volendo appoggiare la prima soluzione, se ci si

riferisce al principio secondo il quale ciascuno risponde delle obbligazioni

personalmente assunte, salvo i casi tassativamente previsti, non si può non avvertire che

nel caso di specie sussiste pur sempre la necessità di garantire il terzo in buona fede che

abbia erroneamente ritenuto di contrarre obbligazioni con persona coniugata,

confidando nel regime legale della comunione e connesse garanzie. Pertanto, nonostante

il dibattito sulla portata del concetto di "apparenza giuridica", taluno 89 richiama alla

mente la figura del "coniuge apparente", essendo pacifico che la convivenza more

uxorio esprima una situazione idonea ad ingenerare nei terzi l'apparenza dello stato

coniugale, in quanto i partner si comportano come se lo fossero, tali appaiono e possono

essere considerati.

Solo quindi in via eccezionale e ricorrendone i necessari requisiti, l'esigenza di tutelare

il terzo in buona fede può determinare la ricostruzione in chiave di responsabilità

solidale dei conviventi, restando altrimenti principio generale, quella della

responsabilità personale.

Non ci si può invece riferire alla sussistenza di tale responsabilità, con conseguente

esclusione della relativa azione di regresso pro quota, nel caso in cui il partner, pur non

avendo contrattato con il terzo, una volta chiamato da questo all'adempimento delle

obbligazioni assunte dall'altro convivente, soddisfi il creditore: in questa fattispecie il

rapporto interno configura nuovamente un'obbligazione naturale.

Quid iuris allorquando invece sussista un conflitto fra le esigenze patrimoniali di una

famiglia di fatto e quelle emergenti da una famiglia legittima ancora esistente o da un

vincolo patrimoniale derivante da un pregresso matrimonio sciolto ?

In queste situazioni la giurisprudenza si rifà al principio del "dovere morale e sociale di

assistenza e solidarietà reciproca" statuendo così che, qualora il beneficiario

dell'assegno di mantenimento abbia dato vita ad una famiglia di fatto, cessi per lui lo

stato di bisogno e quindi, temporaneamente, l'obbligo alimentare nei suoi confronti

gravante sull'altro coniuge (obbligo che tornerà a rivivere quando il beneficiario cesserà

la convivenza). Nel caso opposto invece, in cui sia il coniuge separato obbligato alla

88 F. D'Angeli, op. cit. nota 52, p. 78. 89 F. D'Angeli, op. cit. nota 52, p. 79.

59

corresponsione dell'assegno a convivere, lo stesso dovere morale e sociale che vincola i

conviventi dovrà essere ritenuto irrilevante, in virtù della tutela preferenziale accordata

alla famiglia legittima ex art. 29 Cost. Stesso discorso si potrebbe ripetere per l'assegno

divorzile ed obblighi connessi: in questo ambito è interessante segnalare la diversa

posizione della giurisprudenza che invece, ai fini della determinazione dell'assegno in

questione, nella valutazione comparativa delle condizioni economiche dei due coniugi,

dà rilevanza alle spese gravanti sul coniuge obbligato per il mantenimento del proprio

convivente 90; posizione che, parafrasando qualcuno 91, "porrebbe sullo stesso piano

obbligazioni ex lege ed obbligazioni naturali, senza tenere conto che la cessazione del

vincolo coniugale non intacca il profilo patrimoniale dell'assegno divorzile che fonda la

propria causa solo sulla pregressa unione matrimoniale che conserva, sotto questo

aspetto, un'efficacia ultrattiva".

Questa interpretazione, corretta dal punto di vista dell'analisi normativa, poiché si basa

sulla necessità di preferire ex art. 29 Cost. sempre e comunque la famiglia legittima, non

tiene però forse in sufficiente considerazione la contestuale necessità di permettere ad

un soggetto che abbia divorziato, di formarsi una nuova famiglia ed una nuova vita.

Non a caso l'art. 5 della legge n. 898 / 1970 al comma 6 allorquando stabilisce i criteri

per la determinazione da parte del Tribunale dell'importo dell'assegno richiama:

a. le condizioni dei coniugi;

b. le ragioni della loro decisione;

c. il contributo personale ed economico prestato per la conduzione familiare e

per la formazione del patrimonio comune;

d. il reddito di entrambi;

e. la durata del matrimonio;

f. la mancanza di mezzi adeguati o l'impossibilità oggettiva di procurarseli;

mentre il comma 10 stabilisce inequivocabilmente che l'obbligo di corresponsione cessa

se il coniuge beneficiario "passa a nuove nozze".

L'apparato normativo insomma concede al giudice uno spazio di movimento che, a

seconda della rilevanza di tutti i diversi fattori, può anche implicare la presa in

considerazione della necessità di soddisfare i bisogni di una nuova famiglia nascente;

90 Così Cass. 11 maggio 1983, n. 3-253 in Dir. di fam. e delle pers., 1983, p. 934. 91 F. D'Angeli, op. cit. nota 52, p. 79.

60

l'unica avvertenza sulla quale mi sento di convenire è quella del dovere di non tenere in

conto mere convivenze, qualora si intenda con esse solamente danneggiare la famiglia

legittima.

Ancora nell'ambito della rilevanza interna e diretta dei rapporti patrimoniali tra i

partner, vediamo quali sono le soluzioni giurisprudenziali e le costruzioni dottrinali

riguardo al regime degli acquisti dei beni acquisiti singolarmente in costanza della

relazione.

Occorre anche in questa fattispecie escludere in primis il richiamo analogico alla

disciplina del regime di comunione legale dei beni che vige nella famiglia legittima:

pertanto il principio dal quale partire è quello per il quale il proprietario esclusivo dei

beni acquistati in nome proprio rimarrà il titolare dell'acquisto, beni sui quali l'altro non

potrà avanzare alcuna pretesa di contitolarità (a meno che ovviamente, non sia stata

stipulata un'apposita convenzione fra le parti, ma questo è escluso a priori). Da ciò però

non discende che dovrà rimanere completamente privo di tutela chi abbia contribuito

all'andamento del ménage con la propria attività lavorativa o con altri apporti (ad es.

quello casalingo): ragioni di equità e di giustizia sociale impongono di ricercare

nell'ambito degli istituti di diritto comune degli strumenti con i quali assicurare una

benché minima tutela in questa direzione.

Il primo, di cui abbiamo già accennato, è la possibilità di stipulare delle vere e proprie

convenzioni ex art. 1.322 cod. civ. con le quali disciplinare gli aspetti patrimoniali del

rapporto, rimanendo necessariamente esclusi tutti quegli obblighi di natura personale

come l'obbligo di fedeltà, di coabitazione ecc. Tale facoltà da una parte risolverebbe

molti problemi già analizzati e costituirebbe anche titolo per la richiesta di danni

patrimoniali in caso di uccisione ad opera di terzi del convivente, dall'altra mi pare uno

strumento di rarissima applicazione, visto che determinerebbe la costituzione di una

sottospecie di matrimonio, disciplinando tutti quegli aspetti patrimoniali che in questo

caso, vengono disciplinati direttamente dalla legge. Il matrimonio non sarà un vero e

proprio "contratto", ma certamente la scelta di contrarlo o meno viene anche

determinata dalle garanzie, di carattere patrimoniale, che solo per la famiglia legittima

la legge prevede in via automatica.

Stabilita comunque l'esistenza di questa possibilità, cosa accade se i partner non

stipulano alcunché fra di loro ? La dottrina ritiene utilizzabile l'istituto dell'ingiustificato

61

arricchimento ex art. 2.041 cod. civ. attraverso il quale si viene a vietare l'arricchimento

senza causa ed il contestuale diritto all'ottenimento di un indennizzo, per chi ha sofferto

della diminuzione patrimoniale. Il problema maggiore è come valutare l'entità

dell'impoverimento dell'uno, piuttosto che l'arricchimento dell'altro: operazione agevole

se entrambi dispongono di redditi determinabili dai quali si possa desumere una

presunzione iuris tantum della comune derivazione del denaro utilizzato per gli acquisti,

soprattutto di quei beni destinati al soddisfacimento dei beni primari del ménage (ad es.

dell'abitazione); più problematica se uno di essi è solamente o anche, casalingo.

Certamente questo non potrà ripetere i contributi da esso apportati per la vita comune, in

quanto costituenti sempre obbligazioni naturali, mentre potrà giovarsi, ricorrendone i

presupposti, dello strumento dell'ingiustificato arricchimento per tutte quelle

attribuzioni che, valutate le condizioni economiche e sociali dei conviventi, esorbitino

dalla normale contribuzione.

L'ultimo aspetto da analizzare, per quanto concerne la c.d. rilevanza interna dell'unione,

riguarda le problematiche di ordine patrimoniale che si presentano in connessione con la

fine del rapporto di convivenza: occorre chiedersi in primo luogo se esiste la possibilità

di configurare un'obbligazione risarcitoria consistente nell'erogazione di una somma di

danaro per le conseguenze negative derivanti al partner per la rottura dell'unione. La

mancanza di specifici indici normativi determina la risoluzione del problema secondo le

regole che stanno a fondamento della responsabilità civile: a parte qualche rara voce di

dissenso 92, per la dottrina e la giurisprudenza dominanti allo stato attuale, non è

configurabile un obbligo di risarcimento del danno per la rottura del ménage a carico del

convivente che, unilateralmente, abbia deciso di troncare la relazione. Questo perché,

salva la presenza di un'apposita "convenzione" stipulata dai partner, proprio la

circostanza per cui la convivenza more uxorio si fonda sulla libertà e sulla spontaneità

del rapporto, implica l'assenza di qualsiasi impegno dei partner riguardo alla

prosecuzione dello stesso. Questa soluzione sembra infatti l'unica percorribile, proprio

perché il rapporto di fatto nasce con una libera determinazione e così si può concludere,

non potendosi attribuire ragionevolmente alcuna colpa per lo scioglimento di un

ménage, che risulta connotato per l'assenza di ogni impegno in ordine alla sua

continuità.

92 Ad es. Furgiuele che propone l'estensione analogica della disciplina del divorzio, op. cit. nota 86 p. 288, o F. Prosperi che invece propende per l'estensione, sempre in via analogica, dell'art. 129 cod. civ., vedi supra op. cit. nota 47, p. 269.

62

Un'altra problematica molto sentita è quella concernente il diritto all'abitazione sulla

casa adibita in costanza di rapporto a "residenza familiare"; questione che può

presentarsi in ben tre profili diversi:

1. diritto all'abitazione del convivente affidatario della prole;

2. diritto all'abitazione fra i partner;

3. rapporti che si instaurano tra conviventi e terzi (aspetto "esterno").

Vediamo cosa accade nella prima ipotesi, allorquando cioè, la cessazione del ménage

familiare con prole naturale convivente determini la pretesa del partner a cui questa

viene affidata, di proseguire a godere dell'immobile: la giurisprudenza sembra orientata

in virtù di un favor minoris, ad attribuire il diritto di abitazione fino al compimento della

maggiore età al genitore affidatario senza preoccuparsi se l'immobile sia di sua proprietà

esclusiva o se sia detenuto a titolo di locazione 93. In queste situazioni dunque, i giudici

operano un rinvio al trattamento stabilito dalla legge nella fattispecie dell'assegnazione

dell'alloggio nel momento della separazione dei coniugi: operazione condivisibile

proprio perché la ratio della disposizione (art. 155 comma IV° cod. civ.) va identificata

con la protezione dei figli minori.

Totalmente diversa è la seconda ipotesi: in questo caso non vi sono dei figli naturali ed i

partner decidono di porre fine, anche unilateralmente, alla propria relazione: cosa

accade al partner coabitante che non sia titolare dell'immobile ? Può tranquillamente

"essere messo alla porta" dall'altro ? Parrebbe di sì almeno fino a quando la

giurisprudenza riterrà il convivente un semplice "ospite" 94 e non riconoscerà nei suoi

confronti un diritto all'abitazione che, mortis causa, ha già riconosciuto con la sentenza

della Corte costituzionale n. 404 / 1988 95. Questa corrente non riconosce nemmeno la

legittimazione ad ottenere una tutela possessoria contro gli spogli violenti ad opera del

partner proprietario 96.

E' invece da citarsi una diversa interpretazione, come quella ad es. del Pretore di

Vigevano 97; partiamo dal fatto: due conviventi, il Sig. Salmaso e la Sig.ra Mion

93 Si veda ad es. Trib. Minorenni Bari 11 giugno 1982, Foro it., 1982, I , c.2.032. 94 Si veda di recente Pret. di Pordenone 9 maggio 1995 in Nuova giur. civ. comm., 1997, I , p. 243 che afferma che la convivenza , fino a quando il legislatore non interverrà diversamente, si può solo assimilare "… ad una sorta di ospitalità reciproca …". 95 Vedi supra a p. 42. 96 Vedi nota n. 93. 97 Pret. di Vigevano 10 giugno 1996 in Nuova giur. civ. comm., 1997, I , p. 243

63

convivono more uxorio per dieci anni in un alloggio delle Case Popolari detenuto dal

ricorrente Sig. Salmaso. Questo, venuta meno l'affectio che lo legava alla compagna, le

intima, prima verbalmente, poi per iscritto, di lasciare l'abitazione, ma la Sig.ra Mion

continua ad usufruire dell'immobile come "separata in casa". Il ricorrente quindi si vede

costretto a richiedere al pretore una reintegra nel possesso ritenendo sine titulo

l'occupazione dell'abitazione della sua ex compagna e lamentando la sussistenza di uno

spoglio violento delle sue facoltà di godimento esclusivo dell'immobile.

Il giudice, nel decidere la questione, si pone un quesito preliminare circa i connotati del

rapporto fra la res e la convenuta: "… Ove si rinvenissero in tale relazione i meri

caratteri dell'ospitalità, nozione caratterizzata dagli elementi della gratuità, della fiducia

e soprattutto, della occasionalità e della precarietà o della detenzione per ragioni di

servizio, potrebbe almeno in teoria essere prospettata una sorta di illecita interversio nel

comportamento dell'ospite che si rifiuti di allontanarsi dall'abitazione così

sostanzialmente modificando il proprio animus di detentore in vero e proprio animus

detentionis e potrebbe essere prospettata l'azionabilità della manutenzione … ex art.

1.170 III° comma cod. civ. Ma … (avendo le parti) per molti anni stabilmente

convissuto more uxorio nell'abitazione assegnata al Salmaso … (si può desumere che)

la Mion … abbia conseguito una relazione materiale con il bene qualificabile come

"codetenzione qualificata" …".

Stabilita quindi la sussistenza di questa "codetenzione qualificata", il pretore richiama

alla mente tutte le novità in materia di tutela della famiglia di fatto, ricordando anche

come parte della giurisprudenza 98 operi il rinvio al "tacito comodato pro quota" in casi

analoghi, concludendo per il rigetto della domanda del Salmaso, al quale non rimarrà

quindi che la possibilità di esperire una ordinaria azione di accertamento del venire

meno del titolo giustificativo e correlativa azione di condanna al rilascio dell'immobile

per la sua ex compagna.

Confrontando le due interpretazioni del tutto antitetiche fra loro, si comprende come il

nocciolo del problema sia la possibilità o meno di definire "detentore qualificato" e non

"mero ospite" il convivente non titolare di alcun diritto di godimento sull'immobile

para- coniugale: è noto che l'azione di spoglio ex art. 1.168 cod. civ. può essere esperita

solo dal possessore o da colui che detiene la cosa nel proprio interesse, ma solo nei

confronti di colui che, a sua volta, non possa essere ritenuto "detentore qualificato".

98 Vedi Pret. Monza 30 aprile 1988 in Giur. merito, 1990, p. 74.

64

Scandagliando le opinioni giurisprudenziali si può affermare che un tempo i giudici

qualificavano il convivente "mero ospite" con la conseguenza ovvia dell'irrilevanza

giuridica di ogni sua pretesa e contestuale impossibilità di definirlo "detentore

qualificato": tale posizione era giustificata da tutto quel datato bagaglio giuridico che

affondava il "concubinato" nella sfera dell'assoluta irrilevanza per l'ordinamento

giuridico.

Questa impostazione teorica è stata soppiantata da un'altra visione del fenomeno della

famiglia di fatto: proprio la sua rilevanza costituzionale ex art. 2 Cost. determinerebbe

la nascita nel convivente di un proprio interesse all'abitazione para- coniugale; interesse

che, da un lato, lo legittimerebbe all'azione di reintegrazione ex art. 1.168 cod. civ. 99 e

dall'altra, definendolo "detentore qualificato" lo renderebbe immune dall'azione di

spoglio nei suoi confronti. Questo sulla base dell'interpretazione secondo la quale i

conviventi, nell'adibire un immobile a casa "para- coniugale", stipulano tacitamente un

contratto di comodato o un altro contratto atipico a carattere personale: questo implica

che il convivente non possa più essere qualificato "mero ospite", ma divenga "detentore

qualificato". E' infatti abbastanza facile dimostrare tale qualifica se solo si pensa che i

conviventi compartecipano alle spese di mantenimento della casa e si operano per

renderla sempre più accogliente ed efficiente; operazioni queste che non si riscontrano

certamente in un semplice "ospite", che tra l'altro, non può più nemmeno essere ritenuto

tale se coabita per anni (l'ospitalità è per definizione breve e temporanea).

Ci pare quindi da accogliere quella giurisprudenza che riconosce una tutela possessoria

in capo al convivente, sia come azione di spoglio verso chi l'ha buttato "fuori casa", sia

come non soccombenza all'azione di reintegra esperita nei suoi confronti dal convivente

proprietario.

Certamente vi è un grosso problema: occorre bilanciare l'interesse del convivente che si

vuole allontanare, con quello del titolare dell'immobile. Se a questo vieni negata l'azione

di reintegra, almeno si devono, in certe situazioni, riconoscergli gli estremi di cui all'art.

700 cod. proc. civ.: altrimenti si rischia di obbligarlo a convivere fino alla definizione

dell'azione di accertamento contrattuale e di relativa condanna, con una persona con la

quale, liberamente, ha evitato di contrarre matrimonio !

Passando ad esaminare il terzo corno del problema, quello cioè dei rapporti che si

instaurano tra conviventi e terzi nell'ambito locativo (c.d. aspetto "esterno"), si può

99 Si veda Pret. Firenze 27 febbraio 1992 in Foro it., 1993, I , p. 1.712.

65

subito specificare che in tale problematica la rilevanza che assume la convivenza è

esterna ed indiretta. "Esterna" nel senso che coinvolge rapporti con soggetti estranei

alla coppia; "indiretta", poiché in questo ambito la convivenza rileva non direttamente,

come oggetto della tutela, bensì come mero presupposto.

Ciò premesso, occorre ricordare come le controversie più numerose si incentrino sulla

disponibilità dell'abitazione, investendo le vicende del contratto di locazione sotto tre

profili:

1. il recesso per necessità del locatore, al fine di adibire l'immobile a residenza

del proprio nucleo familiare;

2. il diritto per il convivente alla proroga legale;

3. il diritto per il convivente superstite di succedere nel rapporto locativo

prorogato alla morte del partner conduttore.

Operando una prima panoramica di insieme, si può affermare che la giurisprudenza è

passata da un atteggiamento di netta chiusura su questi temi 100, ad un altro, più aperto 101: con riferimento alla problematica che escludeva dalla proroga e di conseguenza

dalla successione nel contratto, il convivente more uxorio, i giudici favorevoli alla libera

unione hanno seguito più vie per aggirare l'ostacolo. Da una parte hanno operato

un'interpretazione estensiva e/o analogica delle disposizioni in questione 102, dall'altra

hanno sollevato la questione di costituzionalità delle disposizioni stesse, peraltro

ottenendo dalla Corte una pronuncia di infondatezza (Corte cost. 14 aprile 1980, n. 45) 103.

Caducato il regime vincolistico il problema si è ripresentato in termini pressoché

identici anche con la legge n. 392 / 1978, poiché l'art. 6 104 della legge suddetta, non

contempera tra i soggetti aventi diritto alla successione, il convivente more uxorio.

100 Nella sentenza della Cass. 25 maggio 1953, n. 1550 in Giur. compl. Cass. civ., 1953, V , p. 102 si ritiene del tutto irrilevante la convivenza, negando il diritto di recesso dal contratto al locatore che adduceva lo stato di necessità per rientrare in possesso del proprio immobile. Nella sentenza del Pret. di Genova 1 agosto 1977 in Giur. merito, 1979, I , p. 912 si nega la proroga del contratto di locazione a favore della donna convivente more uxorio con il convivente deceduto.. 101 Il Trib. di Firenze 3 g3nnaio 1956 in Foro pad., 1956, I , c. 1438 e il Trib. Roma 23 novembre 1954 in Rep. Foro it., 1955, voce Locazione, n. 506, c. 1358 hanno invece valutato lo stato di necessità del locatore ai fini del recesso dal contratto di locazione inserendovi anche la convivenza more uxorio. 102 Così ad es. Trib. Genova 12 marzo 1979 in Giur. merito, 1979, I , p. 1150 o Pret. Sampierdarena 20 ottobre 1979 in Foro it., 1980, I , c. 1214. 103 Vedi supra a p. 42. 104 L'art. 6 recita infatti: "In caso di morte del conduttore gli succedono nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi …".

66

Anche in questo caso gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sono stati oscillanti

tra un'applicazione analogica dell'art. 6 anche al convivente more uxorio 105 ed una

totale chiusura, basata sull'elencazione tassativa dei soggetti aventi diritto prevista

nell'articolo stesso.

La questione è quindi ritornata alla Corte costituzionale che, questa volta, ha accolto

l'istanza con la sentenza n. 404 / 1988: sentenza che abbiamo già analizzato ed a cui

rimandiamo 106.

Ci preme solo ricordare che la motivazione dell'accoglimento non concerneva la fondata

esistenza di un'irragionevole disparità di trattamento fra i soggetti elencati nell'art. 6 ed

il convivente more uxorio, bensì la necessità di salvaguardare, nei confronti di ogni

cittadino, il c.d. diritto sociale all'abitazione.

La Corte infatti identifica la ratio della disposizione, nella garanzia per tutti quei

soggetti che hanno partecipato all' "abituale convivenza familiare" di continuare a

godere dell'immobile sino alla scadenza del contratto stipulato con il locatore da uno

solo di essi: soggetti tra i quali, senza ragione fondata, non veniva ricompreso il

convivente more uxorio.

Seguendo quest'impostazione la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale anche

dell'art. 18, I° e II° comma della legge del Piemonte del 10 dicembre 1984, n. 64, legge

sull'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale, nella parte in cui non prevedeva

la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nelle assegnazioni o

come presupposto della voltura della concessione a favore del convivente affidatario

della prole 107.

Il problema che nasce da questa impostazione giurisprudenziale è quello di delimitare

l'ambito di operatività di detta tutela, per non comprimere eccessivamente il diritto del

proprietario - locatore: qualcuno 108 in dottrina auspica un intervento del legislatore,

affinché venga, da una parte esteso al convivente more uxorio il diritto a succedere nel

contratto sia nel caso di morte del conduttore, che nel caso di allontanamento di

quest'ultimo dalla casa condotta in locazione, ma dall'altra venga temperato tale

ampliamento, con l'indicazione di un limite temporale minimo di coabitazione a tutela

dei controinteressati del proprietario - locatore, termine facilmente dimostrabile con le

105 Così in dottrina ad es. F. Prosperi, op. cit. nota 47, p. 304 e in giurisprudenza il Pret. Sampierdarena 20 ottobre 1979 in Foro it., 1980, I , c. 1.214. 106 Vedi supra p. 42. 107 Sentenza della Corte cost. del 20 dicembre 1989, n. 559 in Rass. dir. civ., 1991, p. 888. 108 Come F. D'Angeli, op. cit. nota 52, pp. 120 e segg.

67

certificazioni anagrafiche della convivenza. Ancora si propone un ampliamento del

concetto di "nucleo familiare" comprensivo anche del convivente more uxorio, per tutta

la legislazione attinente al bene casa: così per esempio nelle leggi che disciplinano

l'assegnazione degli alloggi di edilizia popolare, il convivente more uxorio dovrebbe

essere considerato tra i componenti del nucleo familiare sia ai fini della determinazione

del reddito minimo e della formazione delle graduatorie di assegnazione dell'abitazione,

sia ai fini di un'eventuale revoca di questa ove risulti, per es., che il convivente

dell'assegnatario sia proprietario di altri alloggi 109.

Si potrebbe obbiettare che l'assimilazione del convivente more uxorio al coniuge nella

determinazione del nucleo familiare, implichi una lesione della tutela preferenziale a

questo accordata ex art. 29 Cost.: a dire il vero nell'attribuzione del punteggio per

l'assegnazione dell'alloggio, da una parte è sufficiente prevederne uno maggiore per la

famiglia legittima, dall'altra è importante ricordare, che il sistema legislativo che stiamo

commentando, nasce con la finalità sociale di provvedere alla mancanza di un alloggio a

favore di chi sia impossibilitato a procurarselo e ne abbia bisogno, non dimenticando da

ultimo, che ormai la libera unione è tutelata costituzionalmente dall'art. 2.

Questo indirizzo è confermato anche da un provvedimento amministrativo attuativo

dell'art. 9, IX° comma della legge 24 dicembre 1993, n. 537 che fissa il diritto dei

conduttori di unità immobiliari ad uso abitativo di proprietà degli Enti previdenziali ad

acquistare i predetti immobili e nel contempo stabilisce garanzie per coloro che non

dispongono dei mezzi economici sufficienti al loro acquisto.

Mi riferisco al Decreto del Min. del Lavoro di concerto con quello del Tesoro del 30

giugno 1994 riguardante la dismissione del patrimonio immobiliare di INPS , INAIL ed

INPDAP, dove all'art. 1 IV° comma si definisce il "nucleo familiare": per nucleo

familiare "… si intende la famiglia costituita dai coniugi e dai figli legittimi, naturali,

riconosciuti ed adottivi e dagli affiliati con loro conviventi …"; fanno altresì parte del

nucleo il convivente more uxorio, nonché gli ascendenti, i discendenti ed i collaterali

fino al terzo grado stabilmente conviventi. Interessante è aggiungere che dal beneficio

di conservazione dell'immobile in locazione rimane escluso il conduttore quando in

prima persona o altro membro del suo nucleo familiare, risulti proprietario " … di

immobile ad uso abitativo nell'ambito del comune ove è situato l'alloggio condotto in

locazione ovvero di un comune limitrofo" (art. 1 III° comma D.M. citato).

109 Su questa linea si vedano la legge 28 febbraio 1983, n. 6 della Liguria, all'art. 34 IV° comma; la legge del Lazio 26 giugno 1987, n. 33, all'art. 3, III° comma; la legge del Piemonte 10 dicembre 1984 n. 64 e la

68

Si può quindi concludere, che la tendenza dell'ordinamento così come tracciata dalla

Corte costituzionale, è quella di inserire il diritto all'abitazione nell'elenco dei diritti

inviolabili sia della persona in quanto tale, sia della comunità familiare in cui convive,

non operando distinzioni fra famiglia legittima, naturale o di fatto, visto che tutte

trovano copertura costituzionale (rispettivamente agli artt. 29, 30 e 2): nuclei che

assumono tutti una precisa rilevanza allorquando vengono in gioco le esigenze abitative

del soggetto in essi inserito.

Un altro settore dell'ordinamento in cui è dato rinvenire degli indici di rilevanza c.d.

esterna dell'unione di fatto, è sicuramente quello costituito dal sistema di sicurezza

sociale, nel suo duplice profilo assistenziale e previdenziale.

Partiamo dalla legge 29 luglio 1975 istitutiva dei consultori familiari che, nel fissare i

compiti istituzionali di detti organismi, prevede un servizio di assistenza psicologica e

sociale "… per i problemi della coppia, della famiglia, anche in ordine alla problematica

minorile …" (art. 1 lettera a)): è chiaro che nell'espressione "coppia" rientra

agevolmente non solo il rapporto coniugale, ma anche quello para- coniugale, oltre alle

semplici relazioni affettive di carattere transitorio.

Nella stessa linea anche la legge 22 maggio 1978 n. 194 che concerne l'interruzione di

gravidanza: essa coinvolge l'altro genitore nella procedura di interruzione volontaria

della gravidanza (art. 5, I° comma) ed il generico richiamo alla "persona indicata come

il padre del concepito" indica inequivocabilmente il diritto a partecipare alla procedura

de qua, indipendentemente dal fatto che la procreazione sia avvenuta o meno in

costanza di matrimonio.

Un altro interessante richiamo alla valutazione positiva di una struttura genericamente

"familiare" al di fuori del matrimonio si rinviene nella legge 4 maggio 1983, n. 184 in

materia di adozione ed affidamento dei minori, laddove, all'art. 1, II° comma,

disciplinando l'istituto dell'affidamento minorile, si dispone che "Il minore che sia

temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, può essere affidato ad un'altra

famiglia, possibilmente con figli minori o ad una persona singola o ad una comunità di

tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l'educazione e l'istruzione". Non

c'è dubbio che la locuzione comunità di tipo familiare possa riguardare anche la

convivenza more uxorio.

legge dell'Emilia Romagna 14 marzo 1984, n. 12.

69

A mio avviso questa disposizione è molto significativa perché dimostra come la

convivenza more uxorio con la presenza di tutti i requisiti necessari (affectio, stabilità

ecc.), sia suscettibile di dare vita ad una comunità di tipo familiare e quindi ad una

famiglia vera e propria, mentre l'aver riconosciuto questa sua connotazione in una legge

che ha come scopo precipuo la tutela dei minori, è la prova chiara di quanto si va

affermando: che cioè, dal punto di vista sostanziale, famiglia legittima e famiglia di

fatto, possono rappresentare due forme dello stesso fenomeno, differenziandosi

meramente da un punto di vista formale.

Nello specifico settore dell'assistenza sanitaria, con esclusione però di quella apprestata

dal S.S.N., la convivenza more uxorio assume una certa rilevanza ai fini della fruizione

di determinate prestazioni sanitarie: mi riferisco ad es. al Regolamento per l'assistenza

sanitaria integrativa per il personale della Camera dei Deputati in attività di esercizio ed

in quiescenza, reso esecutivo con DPCD 28 febbraio 1991, n. 2003, dove, all'art. 1,

stabilisce che "Il fondo di previdenza fornisce un servizio di assistenza sanitaria

integrativa a favore del personale, in servizio ed in quiescenza dell'amministrazione

della Camera dei Deputati, dei figli fino al 26° anno di età e del coniuge, ovvero del

coniuge legalmente separato con diritto all'assegno alimentare …" ed il II° comma

prevede che "Il servizio di assistenza sanitaria integrativa … può essere esteso, a

domanda dell'interessato, … in luogo del coniuge ad altra persona convivente con il

dipendente da almeno tre anni. In tal caso si applica una maggiore contribuzione sulle

competenze mensili lorde". In tale contesto il sintagma altra persona convivente può

chiaramente essere riferito anche al convivente more uxorio.

Ancora più in là si spinge il Regolamento per l'assistenza sanitaria integrativa della

Camera dei Deputati, approvato dall'Ufficio di Presidenza della Camera nella seduta del

7 dicembre 1993 ed entrato in vigore dal 1° gennaio 1994: esso stabilisce all'art. 1 che i

deputati possono fruire "di un servizio di assistenza sanitaria integrativa ed hanno

facoltà di ottenere l'estensione ai propri familiari a carico", mentre l'art. 2, oltre ad

indicare tra i beneficiari di detta assistenza il coniuge, estende la stessa "al convivente

more uxorio del titolare quando la convivenza perduri da almeno tre anni e risulti da

iscrizione anagrafica o da atto notorio. Il predetto limite temporale non è richiesto in

caso di presenza di figli minori".

L'unico neo di questa previsione sta nella mancanza per il convivente di godere della

possibilità di fruire di tale beneficio in alternativa con il coniuge, come se la

disposizione tutelasse, anche se solo ai fini di assistenza, una sorta di poligamia in

70

violazione del principio monogamico a cui per secolare tradizione è ispirato il nostro

ordinamento (vedi anche l'art. 29 Cost.).

In materia previdenziale la libera unione assume una particolare rilevanza con

riferimento alla pensione di guerra, dove, nel D.Lgt. 27 ottobre 1918, n. 1726, vi è una

vera e propria equiparazione alla vedova del militare deceduto, tra la promessa sposa e

la convivente. Assimilazione che, salvo qualche lieve variazione, è rimasta fino alla

legge 6 ottobre 1986, n. 656 che prevede, al suo art. 20 I° comma, che "Agli effetti della

pensione di guerra è considerata come vedova la donna che non abbia potuto contrarre

matrimonio per la morte del militare o del civile, avvenuta a causa della guerra, entro tre

mesi dalla data della procura da lui rilasciata per la celebrazione del matrimonio o della

richiesta delle prescritte pubblicazioni di matrimonio. Anche in mancanza di procura o

di richiesta di pubblicazioni di matrimonio le disposizioni di cui al presente articolo

sono applicabili quando il militare, durante lo stato di guerra, abbia dichiarato di voler

contrarre matrimonio, purché risulti da apposito atto stragiudiziale o da altro documento

certo, uno stato di preesistente convivenza da almeno un anno e purché le circostanze

che impedirono la celebrazione del matrimonio non risultino imputabili a volontà delle

parti".

E' da precisare che tutta la legislazione pensionistica di guerra ha la caratteristica di

estendersi oltre i confini della famiglia legittima e che, pertanto, le disposizioni di cui

sopra, più che esprimere un favor familiae con la loro equiparazione, dimostrano un

favor legittimationis: è sufficiente notare come nel contesto della disposizione la

convivenza more uxorio non rilevi di per sé, bensì risulti essere solo un elemento

costitutivo della fattispecie, in cui particolare importanza rivestono sia la dichiarazione

del militare (in qualsiasi forma), sia la mancanza di circostanze impeditive del

matrimonio che siano ricollegabile alla volontà dei futuri coniugi.

E' facile concludere quindi, che la norma non intende tutelare qualsiasi convivenza more

uxorio, ma solamente quella che avrebbe dovuto trasformarsi in una famiglia legittima,

ma che non avvenne per cause estranee alla volontà delle parti. Per questo si è

identificata la ratio della disposizione nel favor legittimationis proiettato nel futuro: si

riconosce una tutela privilegiata ad una relazione familiare non legittima, ma che lo

sarebbe sicuramente diventata, giustificando così l'equiparazione di tale rapporto a

quello di coniugio vero e proprio.

Oltre a questi brevi cenni, altri punti di rilevanza giuridica dell'unione di fatto nel

sistema di sicurezza sociale non sono individuabili, a differenza di altri ordinamenti,

71

anche a noi vicini: in Francia ad es. gli assegni familiari, di maternità e per

l'assicurazione malattia sono estesi "alla persona che vive maritalmente con un

assicurato sociale e che si trova a suo carico effettivo, totale e permanente" (art. 13 della

legge 2 gennaio 1978, n. 78-2); in Inghilterra e nell'ordinamento giuridico

nordamericano, si giunge alla vera e propria equiparazione tra coniuge e vedova di fatto,

ammettendo questa all'erogazione dei sussidi connessi alla morte del convivente che la

manteneva; in Germania 110 infine si distingue fra:

- Arbeitlosegeld (una sorta di cassa integrazione), per la quale è del tutto irrilevante la

situazione familiare legale o di fatto;

- Arbeitslosehilfe (sussidio di disoccupazione), che si percepisce se non si ha più

diritto al precedente. L'ammontare del sussidio è diverso a seconda che si sia sposati

legalmente o meno, che il coniuge legale lavori o percepisca altri sussidi. Così ad es.

se il lavoratore disoccupato convive more uxorio con una persona ricca o che a sua

volta lavora e guadagna, percepisce egualmente il massimo del sussidio, senza

riduzione alcuna;

- Wohngeld (sussidio per il pagamento del canone di locazione): è un sistema

alternativo all'equo canone, ma anche per questo sussidio è irrilevante la situazione

familiare;

- Sozialhilfe (sussidio sociale): è il sussidio che viene concesso in via residuale,

qualora non siano elargibili i precedenti.

In questo caso il legislatore del BSHG (§ 122 del Bundessozialhilfegesetz del 13

febbraio 1976) ha previsto che "i soggetti che vivono in una situazione comunitaria

analoga a quella della famiglia legale non possono, sia per quanto riguarda i

presupposti, che la misura dei sussidi di carattere sociale, ricevere un trattamento più

favorevole rispetto alla famiglia legale (cioè quella legittima n.d.r.)". Così in caso di

convivenza sarà rilevante, così come per le famiglie legittime, l'eventuale reddito da

capitale o da lavoro del convivente di colui che chiede il sussidio.

Tale intervento del legislatore è stato confermato dalla Corte costituzionale tedesca

(sentenza n. 3 del 1958) che ha affermato la correttezza di questa previsione (benché

nella sua redazione precedente), volta ad evitare che il concubino sia favorito rispetto al

coniuge.

110 Vedi F. Gazzoni, op. cit. nota 13, p. 26 nota 78.

72

Qualora anche nel nostro ordinamento si dovesse intervenire in maniera esplicita

sull'argomento, ci sembra interessante tenere ben presente la necessità di inserire una

norma di chiusura come l'ultima citata: disposizione che permetterebbe di ritenere

costituzionalmente ineccepibile l'intervento del legislatore, in quanto rimarrebbe

salvaguardato il principio del favor per la famiglia legittima incardinato nell'art. 29

Cost.

Per concludere la nostra panoramica non ci rimane che vedere quale rilevanza assumano

i rapporti di convivenza nell'ambito della normativa fiscale e tributaria.

Una caratteristica balza subito all'occhio: in questo specifico ambito dell'ordinamento

giuridico la famiglia legittima e la convivenza more uxorio assumono la medesima

valenza, quando, prescindendo dalla reciproca posizione familiare dei conviventi, solo

l'esistenza di una sfera patrimoniale comune viene presa in considerazione ai fini

impositivi.

Così per la ormai abrogata imposta di famiglia 111 si operava una interpretazione

estensiva dei rapporti familiari cosicché, ai fini impositivi, oltre al coniuge ed alle altre

persone unite da vincoli di parentela ed affinità indicate negli artt. 112 e 113 del T.U.

sulla Finanza locale 112, rilevava anche il convivente more uxorio: questo perché il

tributo si indirizzava verso l'unità economica della famiglia, unità esistente anche nella

famiglia di fatto. Non a caso la Cassazione già nel 1927 113 affermava che la " …

famiglia è anche quella che si costituisce intorno ad un uomo ed una donna i quali,

senza legale unione, convivono maritalmente, anche sulla base della considerazione che

… la famiglia semplicemente naturale non deve godere di protezione privilegiata … nei

confronti della famiglia legittima … ". Ed ancora il principio della responsabilità

solidale dei componenti della famiglia per il pagamento della imposta di cui all'art. 115

T.U Finanza locale veniva esteso anche "… alla persona che, non unita al debitore

d'imposta da vincolo matrimoniale, coabiti e conviva con lui more uxorio ed i cui redditi

sono compresi nel coacervo dei redditi tassati …" 114.

Come si può chiaramente capire, la Corte di Cassazione non voleva per nulla favorire,

benché dal mero punto di vista fiscale, la famiglia di fatto rispetto alla famiglia

111 Art. 52 DPR 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche). 112 RD 14 settembre 1931, n. 1.175 modificato dagli artt. 28 e 29 della legge 2 luglio 1952, n. 703. 113 Cass. 16 giugno 1927 in Foro it., 1928, I , c. 89. 114 Cass. Sez. Un. 10 luglio 1957, n. 274 in Giur. it., 1958, I , 1, c. 726 e segg.

73

legittima: interpretazione questa in linea sia con l'art. 29 Cost., sia con quella norma di

chiusura tedesca prima esaminata.

E' curioso notare come le esigenze del bilancio statale abbiano portato all'assimilazione

fra famiglia legittima e famiglia di fatto, pur nel proclamato intento di non legittimare

ingiustificate situazioni di privilegio a vantaggio di questa, proprio in un'epoca in cui si

cercava di dimostrare da più parti la sua irrilevanza per il diritto !

Peraltro, sempre secondo l'impostazione ricordata, si risolveva un altro problema: quello

della legittimazione o meno della convivente more uxorio a proporre opposizione di

terzo a norma dell'art. 619 cod. proc. civ. all'esecuzione mobiliare dell'esattore

comunale nei confronti del convivente debitore. Due disposizioni 115, vietavano

l'opposizione in questione al coniuge, ai parenti ed agli affini fino al terzo grado del

contribuente o dei coobbligati.

In principio sia la giurisprudenza di merito che quella di legittimità, estendono tali

disposizioni anche al convivente more uxorio così da evitare facili collusioni ai danni

del creditore pignorante, affrettandosi però a specificare che tale assimilazione aveva

"effetti limitati e specifici, di carattere eccezionale". Col tempo invece, la dottrina e la

giurisprudenza operano un'inversione di tendenza, ritenendo impraticabile la strada

dell'assimilazione della convivente, col coniuge, vista la tassatività e la specialità della

norma da applicare 116. In questo caso ci troviamo davanti da una parte una disposizione

normativa tassativa, il cui tenore letterale è insuperabile e dall'altra la ratio della

disposizione, che mira ad evitare facili collusioni fraudolente tra i coniugi ai danni

dell'esattore, situazioni che certamente possono verificarsi anche nell'ambito della

convivenza more uxorio. Tale problematica non è ancora stata risolta, visto che si

ripropone in termini pressoché identici nel contesto dell'attuale legislazione fiscale: l'art.

52 del DPR 29 settembre 1973, n. 602 ("Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul

reddito") riprende in toto il caducato art. 207 del DPR n. 645 del 1958, sancendo il

difetto di legittimazione all'opposizione del coniuge del contribuente, con esclusione del

convivente more uxorio.

Anche in questa materia è da ritenersi ormai improrogabile un intervento del legislatore:

effettivamente anche una convivenza more uxorio può dare luogo ad una situazione tale

da poter generare una collusione fraudolenta ai danni del fisco, così come può accadere

115 RD 17 ottobre 1922, n. 1.401 sostituito dall'art. 207 del DPR 29 gennaio 1958, n. 645. 116 Cass. Sez. Un. 26 marzo 1969, n. 1859 in Giur. civ., 1969, I , p. 1.407 e segg. ed in dottrina ad es. F. Gazzoni, op. cit. nota 13, p. 95.

74

in una famiglia legittima; ancora una volta non siamo del tutto concordi con la

giurisprudenza allorquando compie petizioni di principio del tipo "… (le collusioni e le

frodi si realizzano) più facilmente in un rapporto matrimoniale regolato da norme di

legge che in un rapporto libero da obblighi giuridici …" 117.

Per quanto riguarda la rimanente materia tributaria, non si rinvengono trattamenti fiscali

differenziati tra famiglia legittima e famiglia di fatto, visto che proprio la Corte

costituzionale è intervenuta nel 1976 118 ad abrogare il sistema del cumulo dei redditi tra

i coniugi, la cui irrazionalità si manifestava proprio in relazione alle libere unioni

(attualmente il sistema è quello della tassazione separata).

Analizzando ancora la c.d. rilevanza esterna della convivenza more uxorio non si può

tralasciare la materia assicurativa, dove si prospetta un'analoga problematica a quella

emersa nel sistema fiscale.

La questione sorge dall'art. 4 lettera b) della legge sull'assicurazione obbligatoria della

responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e de natanti 119

che, nell'indicare quali persone non debbono essere considerate "terzi" e che risultano

quindi escluse dai benefici derivanti dal contratto di assicurazione obbligatoria, pur

considerando il coniuge, i figli, i parenti e gli affini fino al III° grado, esclude (o meglio

- non elenca), il convivente more uxorio.

E' così accaduto che due conviventi, esercenti con licenza separata una stessa attività

commerciale e distintamente proprietari di due veicoli, convenissero davanti al pretore

per un incidente d'auto tra loro intercorso, per il quale l'uno chiedeva il risarcimento dei

danni all'altro 120. La convenuta società assicuratrice dell'investitore contestava il diritto

al risarcimento del danneggiato in virtù del citato art. 4, adducendo che non poteva

essere considerato "terzo" il convivente, visto che era legato all'altro da una comunità di

interessi.

Il Pretore accoglie la tesi della convenuta operando un'interpretazione analogica della

norma, non solo alla convivenza more uxorio, ma anche a qualunque comunanza di

interessi patrimoniali, nei quali casi è da ritenersi inoperante il contratto assicurativo per

la responsabilità civile.

117 Vedi riferimento alla sentenza di cui alla nota 38. 118 Corte cost. 15 luglio 1976, n. 179 in Foro it., 1976, I , c. 2.035. 119 Legge 24 dicembre 1969, n. 990 come modificata dalla legge 26 febbraio 1977, n. 39. 120 Pret. Sarzana 2 aprile 1976 in Foro it., 1976, I , c. 1737. Analogamente anche il Trib. Piacenza 20 agosto 1985 in Arch. giur. della circolaz. e dei sin. strad., 1986, p. 43.

75

Anche in questa fattispecie la ratio che sta alla base dell'art. 4 è la medesima già vista in

precedenza per la questione dell'opposizione di terzo: evitare cioè delle probabili

collusioni fraudolente tra i membri di un nucleo familiare, unitamente alla

considerazione dell'unicità dell'asse patrimoniale.

La soluzione del problema pertanto, non può che essere dello stesso tenore: visto che

entrambe le fattispecie hanno come obbiettivo l'evitare facili collusioni tra soggetti che,

legati da vincoli familiari (legittimi o di fatto), possono avere interesse a frodare

l'assicurazione (o l'esattore) e vista la sostanziale unicità dell'asse economico familiare,

unicità che deve esistere anche nella famiglia di fatto pena la mancanza di uno dei suoi

requisiti costitutivi, si può agevolmente verificare come le norme di cui sopra prendano

in considerazione solo un aspetto, la situazione coniugale.

Ed è chiaro che all'operatore non si affacciano che due strade percorribili: o si supera la

rigidità della locuzione normativa utilizzando lo strumento analogico 121, o si esclude

del tutto tale possibilità visto il carattere eccezionale della disciplina in questione, che

non consentirebbe il ricorso a tale mezzo interpretativo 122.

Se questa seconda strada sembra la più corretta dal punto di vista strettamente giuridico

(vedi art. 14 delle preleggi), certamente la fattispecie richiederebbe ancora una volta un

intervento chiarificatore del legislatore, vista la sua estrema delicatezza.

E' da specificare, in conclusione, che l'art. 4 della legge de qua, dapprima è stato

dichiarato parzialmente incostituzionale " … nella parte in cui esclude dal diritto ai

benefici all'assicurazione obbligatoria, per quanto riguarda i danni alle persone, il

coniuge, gli ascendenti ed i discendenti legittimi naturali ed adottivi delle persone

indicate nella lettera a), nonché gli affiliate gli altri parenti ed affini fino al III° delle

medesime quando convivono con esse o siano a loro carico … " (sentenza 2 maggio

1991 n. 188 della Corte costituzionale) ed è poi è stato ristretto come ambito di

applicazione, dall'art. 28 della legge 19 febbraio 1992 n. 142 ("Disposizioni per

l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità

Europee") che stabilisce che il coniuge e gli altri parenti ed affini ivi indicati

dall'assicurato, in quanto non considerati "terzi", restano escludi dai benefici derivanti

121 Così per M. Santilli "Note critiche in tema di famiglia di fatto", in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1980, p. 816 e 836 e per F. Prosperi, op. cit. nota 47, p. 306. 122 Così per A. Vella "L'assicurazione obbligatoria", Napoli, 1971, p. 80 che afferma " … trattandosi di legge speciale, non è possibile l'interpretazione estensiva o analogica a differenza di quanto potrebbe accadere in un rapporto contrattuale …".

76

dal contratto di assicurazione limitatamente ai danni alle cose, fermo restando la

risarcibilità di quelli alle persone.

Restano da ultimo da analizzare gli ultimi due aspetti di rilevanza esterna della

convivenza more uxorio, entrambi collegati con l'evento della morte.

Mi riferisco alla successione ereditaria del convivente ed alla questione del diritto al

risarcimento del danno per morte dello stesso provocata da un terzo.

Per quanto concerne il primo aspetto, se abbiamo già visto riconosciuto dalla

giurisprudenza al convivente more uxorio, il diritto di succedere nel contratto di

locazione dell'immobile adibito a residenza familiare di cui il partner deceduto fosse

intestatario, non è possibile rinvenire nell'attuale ordinamento giuridico, alcuna, benché

minima tutela successoria del convivente, salva la possibilità per ciascuno di essi, di

istituire l'altro, erede universale o legatario (fatti salvi i diritti dei legittimari).

Non si può infatti operare un rinvio analogico alla normativa successoria prevista per il

coniuge, in quanto essa è stata chiaramente dettata dal favor matrimonii di cui agli artt.

29 - 30 Cost. e l'unica soluzione possibile in questa materia è l'intervento del legislatore.

Questa impostazione è fatta propria dalla Corte costituzionale nella sentenza 26 maggio

1989, n. 310 123: in questo caso il giudice remittente ritiene gli artt. 565 e 582 cod. civ.

in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. " … nella parte in cui non includono tra i

successibili ab intestato, parificandolo al coniuge, il convivente more uxorio …",

nonché, "… in linea subordinata, l’art. 540, secondo comma, in quanto non riserva al

convivente, anche se escluso dal novero dei successibili a titolo di erede, almeno il

diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza della coppia, se di proprietà del

defunto o comune … ".

La Corte dichiara infondata la prima questione sollevata poiché, a suo giudizio, "sotto il

profilo del principio di eguaglianza la pretesa violazione dell’art. 3 è contraddetta dal

rilievo, … che "la situazione del convivente more uxorio è nettamente diversa da quella

del coniuge" (sentenze n. 45 del 1980, n. 404 del 1988).

E' vero che l’art. 29 Cost. non nega dignità a forme naturali del rapporto di coppia

diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, ma è altrettanto vero che riconosce alla

famiglia legittima una dignità superiore, in ragione "dei caratteri di stabilità e certezza e

della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri, che nascono soltanto dal

matrimonio". Aggiungendo che " … lo stesso giudice remittente, là dove fa "salve

77

eventuali, future differenziazioni riservate al legislatore", ammette in definitiva che

l’art. 3 non può essere invocato nella sua portata eguagliatrice …".

Il Collegio prosegue ancora demolendo l'argomento della presunta incostituzionalità

sotto il profilo del principio di razionalità affermando che "Il riconoscimento della

convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all’eredità, da un lato,

contrasterebbe con le ragioni del diritto successorio, il quale esige che le categorie dei

successibili siano individuate in base a rapporti giuridici certi e incontestabili (quali i

rapporti di coniugio, di parentela legittima, di adozione, di filiazione naturale

riconosciuta o dichiarata), dall’altro, per le conseguenze che comporterebbe nei rapporti

tra i due partner (non solo l’obbligazione alimentare, ma anche qualcosa di simile

all’obbligo di fedeltà), contraddirebbe alla stessa natura della convivenza, che è un

rapporto di fatto per definizione rifuggente da qualificazioni giuridiche di diritti e

obblighi reciproci … ".

Per quanto concerne la presunta violazione dell'art. 2 Cost., essa ricorda come il

riconoscimento della convivenza more uxorio ottenuto in via interpretativa dall'articolo

in questione, non comporta " … la garanzia ai conviventi del diritto reciproco di

successione mortis causa, il quale certo non appartiene ai diritti inviolabili dell’uomo, i

soli presidiati dall’art. 2 Cost. …".

L'unico limite che vincola quindi il legislatore in materia successoria è " …

l'equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi nei rapporti con i genitori che li hanno

riconosciuti o nei confronti dei quali la filiazione è stata dichiarata, sancita dall’art. 30,

terzo comma …".

La seconda questione sollevata dal giudice a quo viene dichiarata inammissibile in

quanto " … i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui

mobili che la corredano, attribuiti al coniuge dall’art. 540, secondo comma, cod. civ.,

sono oggetto di una vocazione a titolo particolare collegata alla vocazione (a titolo

universale) a una quota di eredità, cioè presuppongono nel legatario la qualità di

legittimario al quale la legge riserva una quota di eredità. Tale collegamento, per cui i

detti diritti formano un’appendice della legittima in quota, si spiega sul riflesso che

oggetto della tutela dell’art. 540, secondo comma, non è il bisogno dell’alloggio (che da

questa norma riceve protezione solo in via indiretta ed eventuale), ma sono altri interessi

di natura non patrimoniale, riconoscibili solo in connessione con la qualità di erede del

coniuge, quali la conservazione della memoria del coniuge scomparso, il mantenimento

123 In Giust. civ., 1989, I , p. 1.782.

78

del tenore di vita, delle relazioni sociali e degli status symbol goduti durante il

matrimonio, con conseguente inapplicabilità, tra l’altro, dell’art. 1.022 cod. civ., che

regola l’ampiezza del diritto di abitazione in rapporto al bisogno dell’abitatore … ".

Pertanto l'intervento che viene richiesto alla Corte comporterebbe " … l’introduzione

nell’ordinamento della legittima di una nuova fattispecie strutturalmente e

funzionalmente diversa da quella portata a modello: strutturalmente, perché il diritto di

abitazione sarebbe attribuito al convivente indipendentemente dalla qualità di chiamato

all’eredità; funzionalmente, perché, secondo la prospettazione dell’ordinanza di

rimessione, il diritto di abitazione sarebbe qui destinato a tutelare direttamente e

specificamente l’interesse alla conservazione dell’alloggio …".

Basta poco alla Corte, viste le premesse, per dichiarare inammissibile la questione e

rinviare il tutto alle future scelte del legislatore suggerendo ad esso di " … decidere tra

le due forme di tutela possibili, quella - gravemente limitatrice del diritto di proprietà

degli eredi - del diritto (reale) di abitazione, ovvero, in assenza di una disposizione

testamentaria più favorevole del de cuius, quella più moderata di un diritto personale di

godimento temporalmente limitato".

Suggerimento già in parte accolto dal legislatore che, nel settore della disciplina delle

cooperative edilizie a proprietà indivisa, ha operato un primo intervento, attribuendo il

diritto a sostituirsi al socio assegnatario defunto "in mancanza del coniuge e dei figli

minorenni", al convivente more uxorio, purché la convivenza "documentata da apposita

certificazione anagrafica" risulti instaurata da almeno due anni, antecedenti alla data del

decesso 124.

124 Si veda l'art. 17 II° e III° comma della legge 17 febbraio 1992, n. 179.

79

3. Il risarcimento del danno per morte del convivente: inquadramento del problema.

Dopo aver analizzato le fattispecie di rilevanza c.d. interna ed esterna della convivenza

more uxorio nel nostro ordinamento giuridico ed aver cercato di dimostrare attraverso di

esse come questo fenomeno abbia raggiunto un'importanza non solo a livello

sociologico, ma anche giuridico, è tempo di incentrare l'attenzione su di un aspetto

molto controverso, quello del presunto diritto al risarcimento del danno per morte del

convivente provocata da un terzo.

La problematica presenta due aspetti: la prima questione concerne la possibilità o meno

di configurare un diritto del convivente ad ottenere un risarcimento per l'uccisione del

compagno: problema che, in assenza di una disposizione legislativa chiara ed univoca,

ha trovato e trova ancora la dottrina e la giurisprudenza italiana fortemente divise.

Mentre per la maggioranza degli autori la risposta è positiva, per la giurisprudenza

(salva qualche recente apertura in quella di merito) continua a persistere un

atteggiamento di netta chiusura.

Vedremo nel prossimo capitolo quali sono le motivazioni che stanno alla base delle due

antitetiche posizioni; si può però anticipare che, secondo il giudizio di chi scrive, questo

problema va risolto utilizzando le categorie giuridiche proprie della responsabilità

civile, esulando completamente da questa problematica qualsiasi riferimento al diritto di

famiglia 125.

La questione ruota infatti tutta attorno all'interpretazione della locuzione "ingiustizia"

del danno di cui all'art. 2.043 cod. civ., disposizione cardine di tutto il sistema di

responsabilità civile.

Da una parte infatti la dottrina ritiene tale sintagma da intendersi come "lesione di un

interesse o di una situazione giuridicamente rilevante", dall'altra la giurisprudenza

prevale nell'interpretarla come "lesione di un diritto soggettivo perfetto".

Più avanti andremo nel profondo delle opinioni e delle teorie che si affrontano in questo

ambito, certo è che, anche qualora venga superato questo scoglio e si ritenga il danno

risarcibile, ecco spuntare la seconda grande problematica: quali voci di danno sono

risarcibili ? Il solo danno patrimoniale ? O anche quello morale ? E le nuove voci di

danno di creazione giurisprudenziale ? Come il danno alla salute o alla vita di relazione

?

125 E' questa l'impostazione di E. Roppo, op. cit. a nota 25, pp. 733 e segg.

80

Come si può subito comprendere, le questioni sono tante e complesse: cercheremo di

impostare il problema scandagliando diacronicamente le diverse posizioni

giurisprudenziali, aiutandoci con le opinioni dottrinali ad esse contemporanee, per poi

concludere la nostra disamina osservando la situazione europea, specialmente il

contributo francese, nonché valutando i diversi progetti di legge sull'argomento.

81

CAPITOLO III °

DEL PRESUNTO DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO AL CONVIVENTE, PER L'UCCISIONE DEL PARTNER CAGIONATA

DA TERZI

1. Analisi cronologica della dottrina e della giurisprudenza (anni 1900 - 1970 ca).

Dopo aver cercato di dimostrare la fondatezza dell'assunto secondo il quale, la famiglia

di fatto non è più da ritenersi "irrilevante" per il diritto, è giunto il momento di scendere

nel profondo delle discussioni giurisprudenziali e dottrinali sull'ultima questione che

abbiamo accennata nel capitolo precedente: quella del riconoscimento o meno a favore

del convivente more uxorio, del diritto al risarcimento del danno per l'uccisione del

partner operata da terzi.

Il metodo che applicheremo è il seguente: analizzeremo le sentenze più rilevanti ed i

diversi contributi dottrinali ad esse relative, secondo un asse paradigmatico -

cronologico, cercando di evidenziare i mutamenti di interpretazione degli operatori del

diritto, in relazione alle due principali problematiche, quella dell'esistenza di un diritto

al risarcimento del danno e quella delle varie voci risarcibili.

La prima sentenza che ci sembra opportuno analizzare è quella della Cassazione di

Roma del 19 maggio 1911 126. Rapidamente i fatti: il Sig. Tidu è sposato, ma solo

secondo il rito religioso, con la Sig.ra Melis, dalla quale ha avuto anche due figli. Egli

viene ucciso e la sua "convivente" richiede al giudice di merito i danni patrimoniali e

morali per questo evento: il giudice le riconosce solo i primi, nell'ammontare di quella

parte dello stipendio del Tidu che, presumibilmente, egli destinava per la cura della casa

e dei figli non riconoscendo ad essa invece, alcuna voce a titolo di danno morale. Ella

ricorre in Cassazione, dove ottiene invece una risposta positiva: la Corte rileva in primo

luogo l'errore del giudice di merito allorché negava la risarcibilità del danno morale

sulla base del fatto che questo non fosse "materiale" e quindi di difficile

quantificazione: il Collegio ritiene invece che gli artt. 1.151 e 1.153 cod. civ. 127

impongano un obbligo generico di risarcire il danneggiato senza distinguere tra danno e

126 Vedi supra nota 18.

82

danno, sia questo diretto o indiretto. Aggiunge poi, che la lesione del patrimonio morale

cagionata dall'uccisione di un soggetto, al quale si era legati da un vincolo di sangue o

di famiglia, si converte anche in "un danno economico" 128, risarcibile attraverso un

indennizzo, sempre rispettando il principio per il quale non si vada a riconoscere una

somma così ingente da generare un indebito arricchimento nel danneggiato.

Ritenuto quindi il danno (patrimoniale e morale) risarcibile, la Corte analizza, peraltro

risolvendola in modo rapido, la questione del diritto al risarcimento del danno a favore

di una donna, sposata, anche se solo con il rito religioso.

La Cassazione afferma, che il fatto che il Sig. Tidu avesse convissuto con lei sin dal

1872, che avesse avuto, e riconosciuto, ben due figli ed infine, che avesse ripetutamente

manifestato il proposito di legittimare la propria famiglia (di fatto !) col matrimonio

civile, avesse dato luogo ad uno "… stato di fatto non dissimile da quello di una

famiglia legittima e che niuno aveva il diritto di scompaginare …" 129.

Essa conclude così per la cassazione della sentenza del giudice di merito, accogliendo

l'istanza della Sig.ra Melis.

Alcune osservazioni.

E' interessante notare come la Cassazione inizi a riconoscere il danno morale, superando

quell'interpretazione per cui risarcibile era solo il "danno materiale"; riconoscimento che

include però in sé il limite del "non indebito arricchimento per il danneggiato". Non

solo; la Corte afferma la risarcibilità del danno a favore della Sig.ra Melis poiché, con la

morte del Tidu "… fu frustrata la fondata speranza di vedere per sé e per i figli suoi,

legittimata la loro posizione giuridica in faccia alla legge …".

In questa fattispecie dunque non si parla di riconoscimento del risarcimento del danno

per lesione di un diritto, bensì di una mera fondata speranza. Ancora: l'elemento della

fattualità della relazione fra i partner, non viene negato dalla Corte (" … stato di fatto …

diritto di scompaginare…"), ma viene invece sancita la sua equiparabilità con la

situazione di una famiglia legittima: non dimentichiamo infatti che il matrimonio

celebrato solo secondo il rito religioso, senza l'iscrizione nei registri civili, non ha alcun

valore per il nostro ordinamento giuridico. Talché, a stretto rigore, convivenza more

uxorio o matrimonio canonico non trascritto, dovevano intendersi come due

127 Nell'edizione del 1865. 128 Perché, dal dolore, non si riesce ad eseguire il proprio lavoro e le proprie attività come prima. 129 Vedi supra nota 18.

83

manifestazioni di una medesima situazione "familiare", di una semplice "unione di

fatto".

Sulla base di queste considerazioni, visto il tenore della sentenza qui appresso ricordata,

sarebbe stato lecito aspettarsi dalla giurisprudenza un comportamento identico

nell'analoga situazione in cui, due conviventi more uxorio (da lungo tempo e con figli

naturali riconosciuti) avessero visto " farsi scompaginare" il loro rapporto per la morte

cagionata da un terzo, al convivente, il Sig. Brambilla 130.

Invece in questo caso la Cassazione valuta restrittivamente il concetto di danno

risarcibile, ritenendo esistente questo con la lesione di un diritto subbiettivo: essa

aggiunge che un danneggiato può vedersi riconoscere un risarcimento, solo laddove

provi che i vantaggi economici che gli derivavano da una persona, fossero da questa

dovutigli per disposizione di legge o per l'esistenza di una convenzione. Citando: "Il

ritenere, come ritiene la denunziata sentenza (quella di merito impugnata - n.d.r.), che la

situazione di fatto, determinata da una convivenza more uxorio sia assimilabile, col

concorso di circostanze determinate (lunga durata, stabilità, carattere intimo delle

relazioni - n.d.r.) alla situazione giuridica derivante dal matrimonio, non soltanto è un

errore, ma equivale a sovvertire i principi fondamentali del diritto familiare quali sono

stati posti dal legislatore". Conclude pertanto affermando che la convivente superstite

non abbia un diritto iure proprio al risarcimento del danno, in quanto la lesione nei suoi

confronti non è di un diritto soggettivo, ma di una semplice aspettativa, mentre le

riconosce il diritto al risarcimento dei danni come rappresentante dei suoi figli (con la

morte era stato infatti leso il diritto al mantenimento che nasce dal rapporto padre -

figlio).

Anche in questo caso dobbiamo compiere alcune osservazioni.

La Cassazione va a smentire quanto detto nel 1911: introduce la figura del diritto

soggettivo come strumento di limitazione dei legittimati al risarcimento dei danni, ma

soprattutto, per quanto interessa ai nostri fini, fa ricadere nell'irrilevanza giuridica, la

convivenza more uxorio. E' l'epoca della disapprovazione sociale del concubinato, della

sanzione penale dell'adulterio femminile, della realizzazione della donna nel

matrimonio, della famiglia patriarcale forgiata sul modello dello Stato fascista ecc. 131.

130 Sentenza Cass. 24 marzo 1938, n. 956 in Foro it., 1938, I , p. 1.026. 131 Interessante è leggere l'analisi storico - sociale - giuridica della famiglia ne "La famiglia e il diritto", op. cit. a nota 4.

84

E' consono pertanto alla mentalità di quest'epoca, difendere ad ogni costo la famiglia

tradizionalmente intesa e nascondere così le proprie convinzioni morali, dietro a strane

costruzioni giuridiche.

Che differenza c'è infatti da un punto di vista sostanziale, fra una convivenza stabile,

duratura, cristallizzata dalla nascita di figli riconosciuti, ed una convivenza fra due

soggetti sposati, ma solo secondo il rito religioso ? Da un punto di vista morale e

religioso, tantissima; da un punto di vista laico e giuridico, l'unico che qui ci interessa,

nessuna !

Qualcuno potrebbe dire che quello che l'ordinamento giuridico presume esistere in un

matrimonio civile, si può presumere esistente anche in quello canonico, mentre per una

"semplice" convivenza, dovrebbe essere provato e ciò sarebbe molto difficile 132. Chi

dice questo dimentica alcune cose: che un conto è il riconoscimento e la rilevanza

giuridica di una situazione ed un altro conto è il problema connesso alla prova

dell'esistenza di tale rapporto: difficoltà probatoria, non significa né impossibilità, né

tanto meno ciò può implicare irrilevanza giuridica. Non solo: ritenere due fenomeni

analoghi, non significa ritenerli identici. Infatti anche la conclusione di un identico atto,

il matrimonio, pur potendo avere un significato morale identico sia nell'ordinamento

canonico, che in quello civile, ciononostante determina degli effetti assai diversi nei due

ordinamenti: pensiamo solo alla sua dissolubilità o meno.

Quello che si vuole arrivare a concludere è la non logicità della conclusione a cui

perviene la Cassazione nel 1938, valutata alla luce di quanto accaduto nel 1911: come

dirà Sbisà 133 qualche anno dopo solo un favor Ecclesiae può farci comprendere la

differenza di trattamento accordata a due fattispecie così simili, nella sostanza, fra di

loro.

Più interessanti ci appaiono così due sentenze del 1935 134 che, trattando della

legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni prodotti dall'uccisione di una

persona, affermano degli interessanti principi: nella prima, quella della Cassazione, si

afferma che la legittimazione ad agire necessita della lesione di un diritto (nella specie

di un credito per prestazione alimentare) che sia stato leso per effetto immediato e

diretto dell'uccisione; nella seconda si arriva a sostenere che è sufficiente la certezza e la

132 Affectio familiaris, reciproco sostentamento, stabilità ecc. si veda supra capitolo I, pp. 2 e segg. 133 G. Sbisà, op. cit. a nota 19. 134 Cass. 19 luglio 1935 e App. Milano 15 novembre 1935, entrambe in Annuario di dir. comparato e di studi legisl., 1935, vol. XIII, I , p. 49.

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illegittimità del pregiudizio e quindi che "colui che domanda la riparazione avesse con

la vittima un legame idoneo a poter contare con ogni probabilità nel suo aiuto".

Queste due impostazioni a prima vista potrebbero apparire datate, in realtà esprimono

un contrasto di posizioni ancora lontano dal venire risolto. Se leggiamo infatti alcuni dei

contributi dottrinali dell'epoca ci rendiamo subito conto delle difficoltà e delle

contraddizioni che regnavano e regnano tuttora, in questa materia: prendiamo come es.

la sentenza da ultimo citata della Corte d'Appello di Milano.

In questa fattispecie vi era un sacerdote con cui convivevano una pronipote ed una sua

nipote; costui perisce e queste chiedono il risarcimento dei danni, in quanto il loro

legame era da ritenersi tale che, rimanendo in vita, il sacerdote avrebbe continuato a

provvedere loro.

La Corte, nell'affermare la fondatezza della domanda, si basa sul principio secondo il

quale il loro "legame era idoneo a poter contare con ogni probabilità nell'aiuto della

vittima", aggiungendo che tale stato di fatto pacifico e continuativo, non si può mai

riscontrare invece in altri rapporti di fatto, quali ad es. quelli fra fidandata e fidanzato,

anche laddove questi avessero già provveduto alle pubblicazioni (si veda la sentenza del

Tribunale di Milano del 16 febbraio 1933).

Come giustamente messo in luce da qualche autore 135, la Corte milanese supera, con la

sua pronuncia, la tradizionale impostazione della Cassazione secondo la quale non ogni

privazione di vantaggio derivata da fatto illecito doveva essere risarcita, ma solo quella

derivante dalla lesione di un diritto.

Per la Corte milanese infatti l'interpretazione corretta dell'art. 1.151 cod. civ. del 1865, è

quella per cui il diritto al risarcimento dei danni scatterebbe quando questi siano

conseguenza immediata e diretta del fatto colposo, ritenendo del tutto arbitraria la

limitazione imposta dalla Cassazione, visto che l'articolo in questione, non dice nulla

sulla necessaria esistenza o meno di un diritto, ma richiede invece la sola certezza ed

illegittimità del pregiudizio.

L'autore continua sottolineando la contraddittorietà interna alla stessa Corte milanese

nell'applicazione del criterio proposto: se il principio è quello per cui occorre valutare se

nella fattispecie esista o meno quel "legame idoneo a poter contare con ogni probabilità

nell'aiuto della vittima", non si comprende come si ritengano esistenti, a priori, delle

135 Così per C. Martino "In tema di legittimazione ad agire per risarcimento dei danni prodotti dall'uccisione di una persona", a margine delle sentenze citate alla nota precedente.

86

garanzie di stabilità e durata di uno stato di fatto nei limiti della sicurezza di ogni evento

umano, nel caso del sacerdote, ma non in quello dei fidanzati.

Si ritiene pertanto che, "quando una situazione di fatto sia tale che, per la sua integrità

(certezza e stabilità, nei limiti della sicurezza di ogni evento umano), offra a colui che

ne gode, il diritto di vederla tutelata, laddove venga bruscamente a cessare per colpa

altrui, può dare a chi ne gode il diritto di essere risarcito del pregiudizio certo ed

illegittimo da cui è indubbiamente colpito".

Quello che viene proposto in sintesi dall'autore è di indagare caso per caso e di

verificare se effettivamente, oltre alla lesione di un diritto fondato sulla legge o su

contratto, non vi sia una lesione di "un diritto all'integrità della situazione di fatto": tale

soluzione, ad avviso di Martino, eviterebbe l'ingiustizia del criterio arbitrario adottato

dalla Cassazione che negherebbe il risarcimento anche nei casi in cui il pregiudizio è

stato "gravissimo e certo".

Se questa posizione tende a dilatare le maglie dei soggetti legittimati al risarcimento,

altra autorevole dottrina si schiera contro: pensiamo a A. De Cupis, il quale si oppone

strenuamente all'ampliamento dei soggetti risarcibili. Partendo dalle posizioni restrittive

di Windscheid (per il quale in caso di morte del congiunto, né i figli, né la vedova

avrebbero dovuto essere risarciti !), egli sostiene che "… la situazione di fatto, invero,

non può essere parificata alla situazione di diritto; il conseguimento di vantaggi da un

altro soggetto con cui sussiste una relazione pre- o parafamiliare, come non è oggetto di

pretesa giuridica verso lo stesso soggetto, così non può essere difeso contro i terzi.

Quindi, la fidanzata e la concubina, sia pure convivente more uxorio, non possono

pretendere il risarcimento dal terzo che ha ucciso il fidanzato o il concubino o ne ha leso

l'integrità fisica … Analogamente, per quanto riguarda la concubina … Neanche il

carattere continuativo della relazione di fatto può suffragare al riguardo: per quanto

continuativa sia tale relazione, essa può essere interrotta in qualsiasi momento e non è

difesa, all'interno, mediante alcuna pretesa giuridica: e non si vede come a questo difetto

di protezione interna possa far fronte una protezione esterna …" 136. Quello che viene

quindi sostenuto è che, mentre nella famiglia legittima, la legge attribuisce una tutela

interna fra i coniugi e quindi di conseguenza, ne deriva pure una tutela esterna verso i

terzi, così non accade nel caso della famiglia di fatto, benché anche tale rapporto possa

presentarsi con le medesime caratteristiche sostanziali di quella.

136 Brano tratto da A. De Cupis, "Il danno", Milano, 1979, vol. II, pp. 101 - 102.

87

Irrilevanza giuridica del concubinato, che si riflette nelle successive sentenze: nel 1958

la Corte di Appello di Milano 137 pur sottolineando l'esistenza di un forte dibattito

sull'argomento, aderisce alla prevalente impostazione per la quale, per aversi "… diritto

al risarcimento occorre l'esistenza di un diritto verso il defunto, non essendo sufficiente

un semplice interesse alla vita altrui se esso non sia giuridicamente tutelato …" e quindi

nega ad una donna legata da una convivenza more uxorio, la legittimazione a costituirsi

parte civile. Per la Corte "danno ingiusto" ex art. 2.043 cod. civ. è solo quello riferito

alla lesione di un diritto o di un interesse comunque giuridicamente tutelato: non

essendo il concubinato una di queste, è facile negare ad esso ogni protezione.

La Cassazione, nella sentenza 24 gennaio 1958, n. 169 138, conferma questa sentenza e

sottolinea come "… l'ordinamento giuridico non prende in considerazione (la

convivenza more uxorio - n.d.r.); né per ragioni di carattere etico, sociale e di

ordinamento pubblico …".

Come scrisse G. Gentile 139, " … è questa una materia nella quale il diritto e la morale

coincidono … " ed è ovvio che, in un periodo storico in cui si leggono petizioni di

principio del tipo: "L'unione libera è una istituzione dannosa per la società e contraria al

buon costume; sarebbe nefasto assicurare alla concubina una qualsiasi protezione"

(Mazeaud 140) ovvero, "Ogni concubinaggio è precario quale sia la sua durata. Ed è

precario perché esso non crea alcun vincolo giuridico; ed è perché esso non cera alcun

vincolo giuridico che la concubina non può invocare la lesione di un diritto per

reclamare una indennità al responsabile della morte del suo concubino" (Lalou 141), mi

pare assurdo potersi attendere delle soluzioni diverse.

Una riprova viene subito da una sentenza del Tribunale di Roma del 1962 142 che ritenne

inammissibile, per difetto di legittimazione attiva, la domanda di risarcimento danni

basata su di una convivenza more uxorio: il collegio affermò che, dato che tale rapporto

non era preso in considerazione dall'ordinamento giuridico e che non poteva formare

oggetto di convenzione, se ne doveva necessariamente desumere, il rigetto della

domanda per difetto di legittimazione.

137 App. Milano 13 aprile 1958, n. 538 in Resp. civ. e prev., 1958, p. 493. 138 Cass. 24 gennaio 1958, n. 169 in Resp. civ. e prev., 1958, p. 493.. 139 A nota della sentenza di cui a nota 138. 140 Riportata da Gentile, vedi nota 139. 141 Riportata da Gentile, vedi nota 139. 142 Trib Roma 7 novembre 1962, n. 6178 in Temi romani, 1963, I , p. 605.

88

Continuando nella nostra analisi storica del fenomeno, possiamo citare una sentenza

della Cassazione del 1966 143 che introduce ulteriori elementi di confusione: questa

pronuncia non si riferisce direttamente alla convivenza more uxorio, ma concerne la

richiesta di risarcimento danni che alcuni fratelli avevano proposto contro colui che,

avendo cagionato la morte delle loro sorelle, li aveva privati delle utilità economiche

che traevano dal lavoro di quelle presso la loro fabbrica. Diciamo che questa sentenza si

inserisce nel filone di quelle relative alla c.d. lesione del credito, ma credo interessante

ricordare il principio sulla base del quale la Corte accoglie l'istanza dei fratelli.

La Cassazione, ribaltando l'impostazione della Corte d'Appello di Napoli, secondo la

quale gli attori, non avendo alcun diritto alle utilità, che venivano loro "graziosamente

elargite" dalle loro congiunte per solo trasporto affettivo, non potevano richiedere il

risarcimento dei danni, afferma che, ove esista una lesione patrimoniale che si possa

ricollegare eziologicamente alla condotta antigiuridica dell'agente, ivi scatta il

risarcimento del danno, a nulla rilevando che "… il danneggiato non abbia avuto diritto

di conseguire dal defunto il perduto vantaggio economico concessogli in via di graziosa

elargizione …".

Come balza subito agli occhi con questa sentenza si aprono le tradizionali maglie

dell'art. 2.043 cod. civ., inserendovi pure le legittime aspettative anche se non

ricollegate a crediti alimentari: è curioso notare come la giurisprudenza, nonostante

queste aperture, per quanto concerne invece i rapporti di convivenza more uxorio,

continui a mascherare i propri preconcetti dietro all'assenza di un diritto soggettivo

risarcibile.

Questa situazione viene sottolineata anche da V. Geri 144 che, per ricomporre i contrasti

giurisprudenziali, propone alcune soluzioni: la prima, di interpretare rigorosamente l'art.

2.043 cod. civ. escludendo così dal risarcimento tutti i danni che non derivino dalla

lesione di un diritto (così per es. neppure i parenti stretti non sarebbero legittimati in

assenza di un loro diritto soggettivo perfetto); la seconda che si fonda sul fatto per cui

un omicidio spezza comunque un "vincolo parentale", tale da generare sempre un danno

"ingiusto" mediante la lesione di uno status della persona.

Secondo questa impostazione il danno risarcibile sarebbe solo quello non patrimoniale,

ma, anche ad abbracciare tale impostazione, sorgerebbe il problema di stabilire fino a

143 Cass. 16 dicembre 1966, n. 2.951 in Resp. civ. e prev., 1967, p. 259. 144 V. Geri "Perdita delle aspettative legittime e risarcimento per morte di un convivente da fatto illecito" in nota alla sentenza di cui alla nota precedente.

89

che grado di parentela o affinità occorrerebbe accordare tutela e di chiedersi se siano

necessarie la convivenza e/o l'erogazione di utilità varie ed infine se il "possesso di

stato" possa valere come effettiva titolarità dello stesso. Senza addentrarci troppo

nell'iter logico proposto, cerchiamo di ricordare le sue possibili conclusioni tenendo ben

presente che il problema è quello di apprestare un'adeguata protezione al nucleo

familiare, quand'anche non dovesse risultare una lesione di un diritto.

Ora, la soluzione di Geri è di ritenere risarcibile ogni danno subito da qualsiasi parente o

affine, indipendentemente dal grado di parentela o affinità, quando lo stesso si concreti

nella perdita di aspettative ragionevoli e concrete, durevolmente soddisfatte nell'ambito

familiare o agevolmente prevedibili per il futuro.

Rilevante risulterebbe così la rottura del vincolo familiare, dello status familiare, che

per la sua conformazione, è una sorta di diritto avente carattere permanente formante

una qualità del soggetto, tutelata direttamente dalla legge nei suoi molteplici profili.

Sulla base di queste premesse anche il convivente more uxorio potrebbe ottenere un

risarcimento del danno purché la relazione non sia contra legem (es. incestuosa) e sia

talmente intensa per la sua stabilità, continuità e convivenza da giustificare l'insorgenza

di un vero e proprio "possesso di stato".

Come si nota tutta l'impostazione di Geri mira a tutelare le serie convivenze

parafamiliari, anche se il richiamo ad una figura così evanescente e contestata come il

"possesso di stato" è ora superabile con l'utilizzo di altre costruzioni dogmatiche, che

via via ritroveremo.

Una di queste è quella proposta da G. Branca in un suo intervento a commento di una

sentenza francese 145 che riconobbe il diritto al risarcimento del danno a favore della

convivente more uxorio: egli analizzando la giurisprudenza italiana, prende atto del

fatto che questa non sia stata molto coerente nell'applicazione dei diversi principi. Come

osserva giustamente, in un'epoca anteriore alla I° guerra mondiale ed al Patto Gentiloni,

la convivente more uxorio, che fosse legata da un matrimonio religioso, veniva trattata

alla stregua di una "parente" e come tale era legittimata a chiedere i danni, mentre in

un'epoca successiva, non godeva più della medesima tutela in quanto la sua posizione

non integrava un diritto soggettivo o un diritto ad un credito alimentare e come tale, non

rientrava nell'orbita di tutela dell'art. 2.043 cod. civ.

145 G. Branca "Morte di chi convive more uxorio e risarcimento", in Foro it., 1970, IV , p. 142.

90

Dalla sua analisi egli deduce che l'errore compiuto dalla giurisprudenza è stato quello di

considerare solamente la posizione del familiare, parente o convivente, senza

identificare quello che in realtà contava: "la certezza del danno". Branca muove alcune

critiche alla posizione di Geri: egli argomenta che, se valesse l'interpretazione per cui la

fonte del risarcimento si fonda sulla lesione di uno status, la giurisprudenza avrebbe

dovuto sempre concedere il risarcimento, mentre essa richiedeva che gli aiuti ricevuti

fossero costanti e duraturi (in assenza di questo elemento, non vi sarebbe perciò stata la

"certezza" del danno, neppure per i parenti). L'autore continua poi la sua disamina

ricordando una sentenza della Corte d'appello di Torino 146 che riconobbe alla

congregazione religiosa il risarcimento del danno per l'uccisione di una suora, che

svolgeva lavoro remunerativo, sulla base della lesione di semplici aspettative sulla

prosecuzione della sua elargizione nei confronti della congrega (c.d. perdita di

aspettative future). Per Branca quindi, avendo la giurisprudenza ampliato l'ambito dei

soggetti risarcibili fino a ricomprendere quelle situazioni non protette come "diritto

soggettivo", ma solamente come "legittime aspettative", occorre porre dei punti fermi,

in grado di assurgere ad elementi certi in grado di non concedere a qualunque relazione

fattuale, il diritto a reclamare un risarcimento dei danni.

La sua posizione è la seguente: assodato che un danno è "ingiusto" per il solo fatto che

si sia cagionata, ad opera di un terzo, la morte di una persona, ecco che "la violazione

del diritto alla vita apre la porta al risarcimento, e risarcimento è reintegrazione, e

reintegrazione è coprire l'intera situazione di fatto, che faceva capo alla vittima …".

Secondo questa interpretazione ai fini del risarcimento è rilevante ogni situazione di

fatto collegata al diritto soggettivo violato: se quindi nel caso della convivente more

uxorio, viene dimostrato che questa ha subito dall'uccisione del partner, una lesione

"immediata e diretta" della propria situazione di fatto, ricollegata al diritto soggettivo

assoluto alla vita, il risarcimento le dovrebbe essere accordato.

Questa è una delle prime voci che si alzano a livello dottrinale a favore del risarcimento

dei danni alla convivente; posizione che scaturisce anche dagli sviluppi

giurisprudenziali in terra francese.

In quella realtà giuridica, dopo un prolungato braccio di ferro tra la Cassazione civile

(contraria al risarcimento) e quella criminale (favorevole), con il 1970 si comporrà il

146 App. Torino 5 marzo 1964 in Foro it., 1964, I , p. 1.909.

91

contrasto giurisprudenziale per opera della Chambre Mixte, riconoscendo con grande

ampiezza il diritto al risarcimento dei danni a favore della concubina.

Prima di ripercorrere questa evoluzione grazie al contributo di G. Alpa è opportuno

subito anticipare che, oltralpe, esiste una disposizione normativa, l'art. 1.382 Code civil

che è assai più vaga e largamente interpretabile del nostro corrispondente art. 2.043 cod.

civ.

L'art. 1.382 Code civil recita infatti: "Tout fait quelconque de l'homme, qui a cause à

autrui un dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé à le réparer"

("Qualunque fatto umano che cagioni ad altri un danno, obbliga colui dal quale è

derivato, a risarcirlo"); mentre il nostro art. 2.043 cod. civ. 147 richiede un elemento in

più, la "ingiustizia" del danno e capiremo subito l'importanza di questa differenza.

2. Uno sguardo all'esperienza francese, la sentenza chiave della Cassazione (Chambre mixte) del 27 febbraio 1970 e sue conseguenze.

Prima di proseguire la nostra analisi storica dell'esperienza giurisprudenziale e

dottrinale italiana, ci sembra interessante dare un'occhiata all'esperienza francese, che

certamente con i suoi sviluppi, ha contribuito non poco ad influenzare i nostri operatori

del diritto.

Diciamo subito che la giurisprudenza francese degli anni trenta, supportata da

autorevole dottrina, in virtù dei pregiudizi sociali nei confronti del concubinage

(definito "fonte di scandalo" 148), interpretava l'art. 1.382 Code civil citato in maniera

assai restrittiva, escludendo completamente dai legittimati al diritto al risarcimento del

danno, la concubina 149. Un caso emblematico da ricordare è il c.d. "affaire Kredens" 150

nel quale un profugo trovò la morte in un incidente stradale. Costui conviveva more

uxorio con una donna da più di vent'anni, era padre di cinque figli e lasciava con la sua

morte, una famiglia in precarie condizioni economiche, nonché una donna che diviene

cieca in seguito alla sua morte. La giurisprudenza nega a questa ogni risarcimento, in

147 Art. 2.043 cod. civ.: "Qualunque fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno". 148 Così anche per Mazeaud, "Une famille "dans la vent": la famille hors marriage" in Foro it., 1971, V , p. 90. 149 Si affermava infatti: "les concubins se passent de la loi, la loi se désintéresse d’eux", affermazione di Napoleone Bonaparte citata da Savatier "Bonaparte et le Code civil", Paris, 1923. 150 Cass. 4 marzo 1964 in Gaz. pal., 1964, I , p. 392 ricordato da G. Alpa in "Famiglia di fatto e risarcimento del danno…", in Foro it., 1970, IV , p. 65, nota 6.

92

ragione dello stato di convivenza che era proprio della loro unione. Questa tendenza

così estremamente rigorosa da sfiorare l'assurdo (non si riconobbe neppure il

risarcimento del danno ad un figlio naturale per la morte del proprio padre naturale !),

non emerse in tutte le sentenze: già attorno agli anni trenta, la Chambre criminelle,

ancorché con l'intento di escludere il diritto al risarcimento del danno per la concubina,

iniziò a non utilizzare più delle argomentazioni fondate sull'immoralità dell'unione di

fatto, ma ampliando l'art. 1.382 fino a comprendervi le "lesioni di interessi

giuridicamente protetti", affermava che il risarcimento non poteva essere accordato vista

la precarietà del vincolo e la possibilità del suo scioglimento anche unilaterale.

Il ricorso a questo nuovo principio permette un progressivo ampliamento dei soggetti

legittimati a chiedere il risarcimento dei danni: nel nostro caso però, la "precarietà"

dell'unione di fatto è ancora una caratteristica (o un pregiudizio) difficile da superare.

Qualcuno provò ad equiparare tale rapporto ad una società di fatto, per cui il convivente

era da considerarsi socio: la concubina quindi, venendo lesa in tale qualità, avrebbe

dovuto ottenere il risarcimento dei danni sofferti. Ma la giurisprudenza iniziava ad

oscillare paurosamente: da una parte la rigida Chambre civile ferma nel negare ogni

diritto al risarcimento, dall'altra una più aperta Chambre criminelle che lo concedeva

qualora in concreto, venivano dimostrati i caratteri di stabilità, rispettabilità e durata del

rapporto di fatto.

Anche in quest'esperienza quindi, similmente alla nostra situazione, ragioni giuridiche e

pregiudizi culturali si intrecciano indissolubilmente fino a quando, nel 1970, la

Chambre mixte non compone i contrasti con una sentenza dalla forza concettuale

dirompente.

E' la famosa sentenza 27 febbraio 1970 151 che, oltre a concedere il diritto al

risarcimento dei danni alla concubina, amplia i limiti degli interessi apprezzabili

fissando il principio chiave per il quale, per aversi diritto al risarcimento dei danni, non

è necessario esigere l'esistenza di un "lien de droit" (la lesione di un diritto soggettivo),

ma è sufficiente la "lesione di un interesse giuridicamente protetto".

Con una sentenza estremamente sintetica la Cassazione francese afferma che il disposto

dell'art. 1.382 Code civil non pone alcun limite al risarcimento del danno nel caso di

decesso della vittima, non esigendo affatto l'esistenza di un vinculum iuris (di sangue

e/o alimentare) tra defunto ed attore. In più che, in una convivenza more uxorio ove

151 Cass. Chambre Mixte 27 febbraio 1970 in Foro it., 1970, IV , p. 140.

93

fossero stati ravvisati i connotati della stabilità e della legalità, si doveva ammettere il

risarcimento dei danni.

Ancora la Chambre criminelle, muovendo dalla generale dizione dell'art. 1.382 Code

civile, giungerà nel 1975 a riconoscere il diritto al risarcimento del danno anche a

favore della concubina che versava in una situazione adulterina, ritenendo che solo

l'elemento della "stabilità" fosse il requisito necessario per ottenere un risarcimento.

Da questa analisi emerge chiaramente come in Francia, il differente atteggiamento socio

- culturale verso l'unione di fatto, specialmente di quelle più vicine ad un rapporto para-

matrimoniale, ha portato la giurisprudenza ad apprestare una tutela c.d. esterna a tale

nucleo familiare: è pur vero che si discute se la concubina abbia diritto alla mera

riparazione dei danni patrimoniali (sub specie di lesione di una legittima aspettativa alla

prosecuzione del mantenimento) o anche dei danni morali (esclusi di solito sulla base

del rilievo che l'unione di fatto non integra "un legame affettivo giuridicamente

protetto"), ma è innegabile lo sforzo interpretativo della giurisprudenza francese atto a

superare i tradizionali pregiudizi esistenti in questa materia.

3. L'esperienza italiana dagli anni '70 ai giorni nostri.

Conclusa la breve, ma significativa, parentesi dell'esperienza francese, torniamo in Italia

a vedere gli sviluppi della vicenda a partire dagli anni '70.

Diciamo subito che, per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità, non si

riscontrano sentenze di particolare rilevanza in questo ambito fino agli anni '90: la

posizione della Cassazione è ben stabile nel negare ogni tipo di risarcimento del danno

al convivente, in quanto la lesione ad esso inferta non sarebbe contra ius poiché la sua

posizione nell'ordinamento non assurgerebbe a diritto soggettivo.

Vedremo in seguito come la concezione dell'illecito civile sia ormai passata dalla sua

tipicità, all'atipicità e come la tradizionale formula "ingiustizia del danno = non iure e

contra ius" stia ormai per essere superata; per il momento diamo spazio ai primi studi

monografici sulla famiglia di fatto.

Siamo nei primi anni '70 e la problematica della tutela della famiglia di fatto inizia ad

assumere un certo interesse a livello dottrinale: è passata la rivoluzione del '68, la

società va trasformandosi, viene introdotto il divorzio, viene radicalmente innovato nel

1975 il diritto di famiglia e tutti questi fattori, uniti all'esperienza transalpina, implicano

l'inizio di un nuovo atteggiamento degli operatori del diritto verso questa problematica.

94

I maggiori autori da Flamini 152 a Roppo 153, a Santilli 154, si pongono in una posizione

fortemente critica nei confronti della giurisprudenza: tutti gli autori, nei loro ampi

scritti, cercano di sottolineare la rilevanza giuridica della famiglia di fatto.

Partendo dalla Costituzione, impostano il ragionamento passando in rassegna tutte le

varie disposizioni dell'ordinamento che si riferiscono direttamente o indirettamente alla

famiglia di fatto, auspicando un intervento del legislatore ed una nuova stagione della

giurisprudenza.

Sono i primi studi approfonditi su questa problematica e sono tutti rivolti

all'ampliamento delle c.d. tutele in positivo dei conviventi (sia nel momento "interno",

che "esterno" della convivenza). Tutto questo sforzo dottrinale che è stato per altro, già

preso in considerazione nei primi due capitoli di questo scritto, non riesce a convincere i

giudici, tranne qualche prima apertura in quelli di merito.

Così il Tribunale di Firenze nel 1979 155 legittima la "vedova" legata solo da matrimonio

canonico non trascritto, a costituirsi parte civile nel processo di omicidio ai danni del

marito, per ottenere sia i danni patrimoniali che quelli non patrimoniali. Il collegio

critica l'impostazione tradizionale che legava la concessione del risarcimento dei danni

morali, a quelli patrimoniali: dal combinato disposto dagli artt. 2.059 cod. civ. e 185

cod. pen. si evince, a parere del tribunale, che la finalità ed il fondamento del danno

morale è nettamente diverso da quello patrimoniale.

In quello, l'ingiustizia non si concretizza affatto nella lesione di un diritto soggettivo, ma

nella semplice "contrarietà al giusto": poiché pertanto, la lesione del bene vita è

sicuramente "ingiusta", tutti coloro (famigliari legittimi o meno) che abbiano patito

delle sofferenze psicofisiche devono essere risarciti.

Il collegio specifica però che, attraverso questa impostazione, non si può dire che ogni

soggetto legato da un qualunque vincolo di amicizia o affetto, sia legittimato a

richiedere il risarcimento: questo deve aver subito un "danno" e non un mero dispiacere

o un generico turbamento. Per cui il tribunale afferma che "… sussiste diritto al

risarcimento dei danni morali quando vi è un effettivo e grave pregiudizio alla sfera

morale del danneggiato, che ha vissuto in comunio vitae et spiritus di tale intensità con

152 A. Flamini "Risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per l'uccisione del coniuge di fatto" in Rass. dir. civ., 1981, p. 645. 153 Tra i suoi vari contributi si veda E. Roppo, op. cit. a nota 25. 154 M. Santilli, op. cit. a nota 120, p. 770. 155 Trib Firenze 18 ottobre 1979, in Dir. e prat. delle assicuraz., 1981, p. 171.

95

il defunto da poter ragionevolmente dedurre un grave e profondo pregiudizio per l'attore

…".

Passando al diritto al risarcimento dei danni patrimoniali, anche in questo ambito il

tribunale ha una sua posizione autonoma ben distante dalla giurisprudenza dominante:

esso sottolinea come la convivenza more uxorio non sia più connotata da disvalore

sociale o dal crisma dell'illiceità, che essa assume una rilevanza per l'ordinamento e che

i criteri da applicare nel caso di specie, devono essere i medesimi utilizzati per la

questione della risarcibilità dei danni ai fratelli: "l'attualità delle sovvenzioni, una

situazione concreta in atto e non la semplice aspettativa di una sovvenzione futura …".

Pertanto, conclude il tribunale, "è corretto escludere la risarcibilità del danno soltanto

nell'ipotesi di chi riceva elargizioni ed utilità varie dallo scomparso a titolo di

beneficenza … Nel caso della convivenza more uxorio … non si tratta di vantaggi ed

utilità varie dell'un coniuge di fatto all'altro ex sua gratia, ma di un vero e proprio

rapporto riconducibile ad una regola negoziale (art. 1.322 cod. civ. - n.d.r.)

concretamente posta tra e dalle parti nell'ambito dei loro poter di autonomia …".

Il tribunale così sancisce la legittimazione alla costituzione di parte civile della

convivente.

La questione non si conclude certamente qui, ma prosegue in appello: la Corte d'appello

di Firenze 156 rovescia completamente la decisione del tribunale, ponendosi in linea con

la tradizione: essa afferma che, poiché il danno ingiusto ex art. 2.043 cod. civ. è solo

quello che viola un diritto soggettivo, la convivente more uxorio non ha diritto al

risarcimento.

Lapidaria sentenza che, mentre da una parte non contesta la legittimazione della

convivente a costituirsi parte civile, le nega ogni risarcimento: come osserva la Corte

nel caso di specie, non si può parlare di una "vedova religiosa", bensì di una vera e

propria "non vedova", di una "non moglie" e come tale priva di ogni tutela.

Interessante è anche analizzare il commento alle due sentenze di Antinozzi 157: costui

opera un'analisi delle diverse posizioni dottrinali per poi schierarsi con la concezione

tradizionale.

156 Corte appello Firenze 23 maggio 1980 in, vedi nota precedente. 157 M. Antinozzi "Del preteso diritto della convivente more uxorio a costituirsi parte civile nei confronti del responsabile della morte del proprio convivente" in nota alle sentenze ultime citate, stessi riferimenti.

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Egli infatti ricorda come parte della dottrina, favorevole al risarcimento del danno alla

convivente, laddove afferma che la lesione del bene vita implica il diritto al risarcimento

del danno a favore di tutti quelli che verso il defunto vantano un interesse, anche di

mero fatto, incappa nell'errore di riferire l'ingiustizia non al danno, ma al

comportamento del soggetto.

Secondo l'autore questa teoria confonderebbe "… la responsabilità penale, con quella

civile, la pena con il risarcimento …". Prosegue ricordando come per la Cassazione

"ingiustizia del danno" è da intendersi come danno prodotto non iure (es. ex artt. 2.044

e 2.045 cod. civ.) e contra ius, cioè ledendo un diritto soggettivo perfetto, assoluto o

relativo. Nel caso della convivenza nessun diritto è azionabile nei confronti dell'altro

convivente, quando questi sia in vita: il loro rapporto può produrre delle obbligazioni

naturali, ma anche queste non possono creare alcun obbligo giuridico.

"Se un convivente non ha alcun diritto quando è in vita per ottenere i benefici dal

proprio convivente, può mai avere un diritto verso il responsabile della morte del

convivente ?". Questo interrogativo è lo stesso che abbiamo già visto sollevato da De

Cupis vent'anni prima 158 ed è lo strumento attraverso il quale Antinozzi si schiera con

quelli che si pongono contro alla legittimazione per il convivente di costituirsi parte

civile.

La problematica della rilevanza e della tutela della famiglia di fatto inizia ad attrarre

sempre più l'interesse della dottrina, soprattutto civilistica: a cavallo degli anni '60 e '70

vi è un primo convegno di studi, a Pontremoli, nel quale i più grandi giuristi, da

Busnelli, a Lipari, si confrontano e discutono sull'argomento. Dagli atti del convegno

risulta ancora una volta una contrapposizione giuridica che rispecchia le antitetiche

posizioni ideologiche. Ma sicuramente qualcosa di nuovo si muove, almeno a livello dei

giudici di merito.

Molto interessante è infatti la pronuncia del Tribunale di Verona del 3 dicembre 1980 159: questa sentenza apre un filone rivolto al riconoscimento per il convivente more

uxorio del risarcimento del danno non patrimoniale, anche se quello patrimoniale gli

viene ancora negato.

Il ragionamento del collegio trae spunto dall'analisi legislativa e giurisprudenziale sulle

nuove aperture verso la famiglia di fatto, per giungere all'affermazione secondo la quale

è possibile configurare il rapporto di convivenza more uxorio come "… potenziale

158 Vedi supra nota 136.

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luogo di arricchimento della personalità, volto quindi a scopi socialmente utili e

meritevoli di protezione (e sostanzialmente analoghi a quelli della famiglia fondata sul

matrimonio) …".

Poiché quindi esiste per il convivente un diritto a vedere garantito il proprio stato

ritenuto dall'ordinamento non solo lecito, ma socialmente rilevante, chi si vede violare

la stabilità dei sentimenti, ha senza dubbio diritto al risarcimento del danno morale che

gli deriva. Non a quello patrimoniale però, poiché le obbligazioni che sorgono tra i

conviventi "in vita" sono configurabili solamente come obbligazioni naturali e la tutela

di tale elargizioni non può andare oltre, mancando un diritto soggettivo fra le parti a

prestazioni abituali e costanti di assistenza.

Questo è in sintesi il pensiero del tribunale: certamente è un primo passo in avanti,

anche se la motivazione della negazione del danno patrimoniale è più data per scontata

che convincente. Senza anticipare le considerazioni che verranno svolte altrove 160, non

è decisivo affermare che nel rapporto di convivenza, fra i partner (salvo accordo

stipulato con atto pubblico), nulla di certo è dovuto o ottenibile anche coercitivamente:

forse il nascituro che viene ucciso per colpa di terzi si può affermare con certezza che,

qualora in vita, avrebbe esercitato proprio una certa professione e avrebbe aiutato i

genitori ? La risposta riguardo alla "certezza" è la medesima, diametralmente opposta la

soluzione sulla concessione del risarcimento.

Il primo intervento significativo della Cassazione in questi primi anni '80 è di segno

negativo: mi riferisco alla sentenza 21 settembre 1981 161. In questa pronuncia la Corte

propone un ragionamento compiuto su tutta la teorica dell'ingiustizia del danno e sulla

legittimazione ad processum della convivente more uxorio superstite. Essa afferma che

"… solo se la morte di una persona abbia provocato la lesione, non solo di un interesse,

ma di un diritto, altresì del terzo, collegato alla sopravvivenza della vittima, solo in tal

caso, solo se l'illecito abbia provocato, con la morte del soggetto, la lesione di un diritto

di altro soggetto, questi può agire per chiedere il risarcimento del danno che da tale

lesione gli sia derivato …". A nulla rilevando la natura patrimoniale o meno dello stesso

danno, poiché, ad avviso della Corte, "il criterio discretivo per la risarcibilità o meno,

anche del solo danno non patrimoniale, va individuato pur sempre nella ingiustizia di

tale danno". Conclude così affermando che "… i legittimati all'azione sono solo i

159 Trib. Verona, 3 dicembre 1980 in Resp. civ. e prev., 1981, p. 74. 160 Vedi paragrafo successivo. 161 Cass. Pen. IV sez. 21 settembre 1981 in Resp. civ. e prev., 1982, p. 405.

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prossimi congiunti, legati alla vittima da un vincolo "non meramente affettivo, ma

affettivo - giuridico"…".

La Cassazione aggiunge inoltre che, anche per quanto concerne il pretium doloris, la

sua risarcibilità non è legata all'esistenza di un vincolo affettivo, più o meno profondo,

bensì ad un legame previsto e tutelato dall'ordinamento giuridico (es. gli alimenti).

Secondo la Cassazione in sintesi, si deve negare alla convivente more uxorio il diritto al

risarcimento dei danni in caso di morte del partner, poiché tale pretesa non avrebbe

fondamento giuridico nella legge, né "potrebbe averlo in una convenzione" (comunque

non invocata nel caso di specie).

Dopo questo primo intervento negativo della Suprema Corte, vediamo le reazioni nella

giurisprudenza di merito: la Corte di assise di Genova nel 1982 162 ribadisce che in un

processo di omicidio è ammissibile la costituzione di parte civile della convivente more

uxorio della vittima (nella fattispecie il defunto assassinato da un terzo, aveva lasciato

una convivente more uxorio con cui viveva da oltre vent'anni e che gli aveva dato

cinque figli).

Essa ritiene che nel nostro ordinamento giuridico, nel campo della famiglia (societas

naturalis), si riconosce e si tutela la sostanza e l'effettività dei rapporti al di là della

veste giuridico - legale che essi assumono, privilegiando talvolta la realtà "naturale" su

quella legalmente sanzionata.

Questa affermazione non è di poco conto, visto che si pone chiaramente in contrasto con

l'atteggiamento della Cassazione (si veda la sentenza citata precedentemente), che

richiede per la legittimazione ad causam, l'esistenza di un vincolo non meramente

affettivo, ma affettivo - giuridico (previsto dalla legge o da un contratto): come

giustamente sottolineano sia Ranieri 163 che Luccioli 164 nelle loro note a questa

sentenza, a parte la motivazione opinabile del tribunale, è da apprezzare l'apertura della

giurisprudenza di merito che è il frutto della progressiva elaborazione sulla nozione di

diritto soggettivo, sostituito sempre più con la locuzione "interesse giuridicamente

rilevante".

Ancora la stessa assise, qualche anno dopo, nel 1984 165, proseguirà nella stessa linea

interpretativa, riconoscendo alla convivente more uxorio (da dieci anni) in sede di

162 Corte assise Genova 18 marzo 1982 in Giur. it., II , p. 67. 163 Ranieri commento a nota della sentenza in Giur. it., 1983, II, p. 67. 164 G. Luccioli commento a nota della sentenza in Giur. merito, 1983, II , p. 433. 165 Corte assise Genova 24 ottobre 1984, in Foro it., 1986, II , p. 621.

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costituzione di parte civile, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, ma non

anche di quello patrimoniale visto che, mentre questo richiede un diritto soggettivo a

specifiche prestazioni a carattere patrimoniale (mancante nel rapporto di fatto), quello

postula esclusivamente la lesione di una situazione giuridicamente protetta e tale può

considerarsi la convivenza more uxorio.

In netto contrasto con questa impostazione si pone di nuovo la Cassazione nel caso

M ller del 1987 166.

Ancora una volta la questione verte sulla legittimazione per la convivente more uxorio a

richiedere il risarcimento dei danni patrimoniali e non, al terzo che ha provocato

l'uccisione del partner.

Leggiamo con attenzione le affermazioni della Cassazione, per cercare di comprendere

il suo iter argomentativo: essa afferma che "… Il risarcimento del danno cagionato dal

reato si fonda sulla disposizione dell'art. 2.043 cod. civ. … Tale responsabilità dunque,

si ricollega ad un fatto illecito, civile o penale che sia, ed altresì al danno ingiusto che ne

deriva al terzo…". La Corte procede a definire, secondo la tradizione il "danno

ingiusto": è quello non iure e contra ius, quello che comporta la lesione di un diritto

soggettivo. Secondo la Cassazione "… Queste regole valgono tanto per il danno

patrimoniale, quanto per il danno non patrimoniale allorché la risarcibilità ne sia

esplicitamente prevista. L'obbligazione sorge nell'uno e nell'altro caso per la

"ingiustizia" del danno. Quale che sia la natura di questo è risarcibile appunto perché è

cagionato senza giustificazione (non iure) a una situazione giuridica direttamente

protetta dall'ordinamento (contra ius). Non vi è perciò, alcun motivo che giustifichi un

diverso trattamento …". Ma va oltre: "… Il risarcimento del danno non patrimoniale …

non è fondato sulla semplice sofferenza per la perdita di una persona con la quale si era

in un particolare rapporto … ma va risarcito solo nei casi determinati dalla legge …

Orbene è indubbio che la legge indica come titolari di tale diritto i soli componenti della

famiglia legittima, siccome membri di una formazione stabile ed esponenti di una

situazione definitiva. Il risarcimento del danno non patrimoniale costituisce perciò un

completamento della tutela che l'ordinamento ha stabilito per la famiglia legittima. Ma

tutto ciò è vero per i danni non patrimoniali allo stesso modo che per i danni

patrimoniali … La titolarità del diritto soggettivo al risarcimento dei danni conseguenti

alla morte di un individuo è dall'ordinamento riconosciuta solamente a coloro che erano

legati a lui da un vincolo previsto e tutelato espressamente e specificamente dalla legge:

100

per es. quello di coniugio o di filiazione o di paternità …". Ricordando infine le sue

pronunce precedenti, la Cassazione rigetta la duplice domanda dell'attrice.

Alcune rapide considerazioni.

In primo luogo è interessante notare lo stile della motivazione: proprio nei punti cruciali

la Cassazione utilizza una sintassi che trasuda certezze, senza per altro correttamente

averle.

Laddove per es. afferma che "La titolarità del diritto soggettivo al risarcimento dei

danni conseguenti alla morte di un individuo è dall'ordinamento riconosciuta solamente

a coloro che erano legati a lui da un vincolo previsto e tutelato espressamente e

specificamente dalla legge …", la Corte si dimentica del risarcimento concesso alla

congregazione religiosa per la morte di una suora, tanto per citarne una. Anche nella

parte in cui sembra dare una corretta impostazione dell'utilizzo dell'art. 2.059 cod. civ.,

collegandolo in maniera indissolubile all'art. 2.043 cod. civ., non mi pare proprio

cristallina: è pur vero che in questa materia sono piuttosto recenti le nuove teorie volte

ad ampliare ed a riscrivere gli ambiti di operatività degli articoli in questione, ma mi

pare che già a quel tempo molti giudici operassero una significativa distinzione fra le

due disposizioni.

Non da ultimo l'affermazione categorica della Corte per cui "… Il risarcimento del

danno non patrimoniale … non è fondato sulla semplice sofferenza per la perdita di una

persona con la quale si era in un particolare rapporto … ma va risarcito solo nei casi

determinati dalla legge …", si pone in netto contrasto con gli stessi suoi orientamenti

precedenti.

A mio modo di vedere, in questa occasione, la Cassazione ha cercato di imbavagliare la

tutela che si iniziava a concedere al convivente more uxorio probabilmente, ancora una

volta, più per paure ideologiche, che motivazioni giuridiche.

Altre aperture provengono ancora dalla giurisprudenza di merito: nel 1990 il Tribunale

di Milano 167 sancisce la legittimazione a chiedere il risarcimento del danno non

patrimoniale nel caso in cui il fatto reato determini lesioni non mortali, non solo del

soggetto che ha subito in modo immediato e diretto il danno, ma anche dei prossimi

congiunti che compongono il nucleo familiare e dei soggetti che, comunque, convivono

166 Cass. Sez. IV 12 giugno 1987 n. 9.424 in "La rivista penale", 1988, p. 253. 167 Trib. Milano 18 giugno 1990 in Resp. civ. e prev., 1991, p. 886 con nota di A. Mora "Ménage familiare e danno non patrimoniale".

101

stabilmente (anche di fatto e more uxorio) con la persona che abbia subito lesioni gravi

ed irreversibili.

Non è questa la sede per discutere un altro dibattutissimo problema giuridico, quello

cioè del presunto diritto al risarcimento del danno non patrimoniale a favore dei

prossimi congiunti nel caso di lesioni gravissime, ma non mortali sofferte da un loro

caro 168: sintetizzando l'orientamento ancora prevalente, è esclusa dalla Cassazione

questa possibilità, riconoscendola solamente in caso di morte dello stesso. (Anche in

questa materia per altro, si confondono facilmente i piani del diritto al risarcimento e la

paura di moltiplicare i legittimati allo stesso). Per quello che a noi interessa, è da

sottolineare come il Tribunale milanese ritenga di non appoggiare la posizione della

Cassazione per più motivazioni: da una parte afferma che uno stesso fatto illecito può

avere una dimensione plurioffensiva e che, qualora venga provata l'esistenza del nesso

eziologico, più soggetti possono legittimamente richiedere il risarcimento del danno non

patrimoniale (gli artt. 185 cod. pen. e 2.059 cod. civ. nulla specificherebbe in senso

contrario), dall'altra precisa che "… per danno non patrimoniale non si intende

solamente quello correlato alle sofferenze patite (c.d. pecunia doloris), ma anche quello,

non suscettibile di valutazione economica, che deriva dall'impossibilità di ripristinare un

normale ménage familiare …".

Sulla base di queste premesse, il collegio ritiene che "… di regola i legittimati a

richiedere il danno non patrimoniale siano i prossimi congiunti che compongono il

nucleo familiare ed i soggetti che comunque convivono stabilmente (anche di fatto e

more uxorio) …".

Una sentenza questa, piuttosto "liberale": dalla conclusione si potrebbe agevolmente

desumere che ogni rapporto di fatto (per es. di profonda amicizia o di omosessualità),

potrebbe legittimare la richiesta di danni non patrimoniali, qualora sempre si provassero

la "stabile convivenza", l'immediatezza e concretezza del danno e il nesso eziologico

con il fatto reato.

Conclusione questa che, mentre ci sentiamo di sposare dal punto di vista della giustizia

sostanziale e forse anche dal punto di vista dell'esistenza astratta di un tale diritto, non è,

almeno allo stato attuale, certamente perseguibile: partendo dalla premessa per cui le

tradizionali teoriche sulle funzioni che assolverebbe l'istituto tracciato dall'art. 2.059

cod. civ., ritengono che nel danno non patrimoniale si potrebbero rinvenire tre nature,

168 Per una sintesi chiara si veda il capitolo 5 estratto dalla voce "Danno biologico" in Nuova giur. civ. commentata, 1997, p. 148.

102

risarcitoria, punitiva e satisfattoria-consolativa 169, per capire il perché dell'orientamento

negativo, si può ripercorrere l'iter logico presentato dal commentatore di questa

sentenza, A. Mora 170.

Egli afferma che, se si dovesse seguire la teoria della natura risarcitoria del danno non

patrimoniale, l'estensione della sfera degli interessi tutelabili si potrebbe operare non

tanto sulla base di un interesse giuridicamente tutelabile in capo al congiunto, quanto

per la posizione (nel caso di specie) del genitore diretta a non vedere la propria

personalità alterata dall'invalidità del figlio, ma aggiunge richiamando G. Bonilini 171,

"… la risarcibilità del danno non patrimoniale in senso tecnico, contrasterebbe con la

natura stessa del risarcimento …" e come tale andrebbe esclusa. D'altra parte, prosegue,

anche identificando una natura satisfattiva nell'art. 2.059 cod. civ., per cui si riconosce

la funzione di alleviare le conseguenze del dolore con somme di danaro, non si potrebbe

che escludere la legittimazione dei prossimi congiunti: se la riparazione soddisfa

direttamente la vittima, a maggior ragione dovrebbe essere per loro. Non resta allora, a

suo avviso, che la funzione di pena privata, di sanzione civile punitiva nei confronti del

terzo danneggiante: chi appoggia tale via nega la riparazione ai prossimi congiunti non

più sulla base dell'art. 1.223 cod. civ., ma proprio in ragione della natura di tale danno,

visto che l'azione in giustizia può essere liberamente esercitata solo dal soggetto che ha

subito l'illecito.

Ecco forse compresa, seppur in modo schematico, la posizione di chiusura della

giurisprudenza di legittimità sull'argomento.

Ma torniamo a noi: immaginiamo ora le reazioni di tutti coloro che appoggiavano

l'impostazione tradizionale allorquando, leggendo la relativa massima, il Tribunale di

Roma, nel 1991 172, è giunto ad affermare che "il diritto al risarcimento dei danni

patrimoniali ed extrapatrimoniali compete iure proprio a tutti coloro che abbiano subito

un grave perturbamento per la morte di un infortunato in un incidente stradale, sia a

causa del trauma psichico subito, sia per la privazione di sostegno morale, sia, infine,

per la perdita di un entrata che si sarebbe ragionevolmente presumere come duraturo

contributo economico proveniente dall'attività lavorativa del defunto, a nulla rilevando

il fatto della convivenza con quest'ultimo o la qualità di erede di colui cui spetta tale

169 Si veda per tutti M. Franzoni "Dei fatti illeciti: artt. 2.043 - 2.059 cod. civ.", Bologna, 1993, pp. 1.250 e segg. 170 Vedi nota 167. 171 G. Bonilini autore di un importante libro, "Il danno non patrimoniale", Milano, 1983. 172 Trib Roma 9 luglio 1991, n. 9.693 in Riv. giur. circolaz. e trasp., 1992, p. 138.

103

risarcimento. Pertanto, qualora il defunto, sposato con figli legittimi, abbia convissuto

more uxorio con altra donna, il suddetto diritto compete ai componenti sia della

famiglia legittima, che della famiglia di fatto; fermo restando che mentre il diritto al

risarcimento del danno morale deve essere riconosciuto a tutti costoro, il ristoro del

danno patrimoniale deve essere negato ai componenti della famiglia legittima qualora

una serie di circostanze (quali il difetto di prova in ordina alla sistematica

corresponsione di assegni da parte del defunto, la mancanza della convivenza, il carico

della famiglia di fatto e le condizioni finanziarie del defunto), non consentono

ragionevoli presunzioni di perdite economiche".

Sarebbe inutile alcun commento se la sentenza non fosse quasi "estremistica": da un

punto di vista della giustizia sostanziale non si possono che condividere le conclusioni

raggiunte dal tribunale romano.

La convivente, lavoratrice presso l'impresa di falegnameria del convivente ucciso, oltre

a perdere il lavoro, ha perduto anche tutte quelle "normali sovvenzioni" di cui anche il

ménage familiare abbisogna (e non solo per mantenere la figlia avuta): è quindi corretto

affermare la sussistenza di un danno immediato e diretto cagionato a lei dal terzo

omicida. Corretta è secondo noi, anche la concessione del danno morale, visto

l'indubbio patimento da lei sopportato con il venir meno del partner.

La parte più "sovversiva" della motivazione riguarda la negazione del risarcimento del

danno patrimoniale alla famiglia legittima, rovesciando completamente tutti i principi

applicati dalla Cassazione: secondo logica era eventualmente solo a questa che si

doveva concedere, in virtù sia della tutela preferenziale ex art. 29 Cost., sia della teorica

sull'ingiustizia del danno.

Invece il tribunale, applicando (forse per un rara volta correttamente) il principio di

causalità fra danno ed evento, non ritiene ragionevolmente presumibile, ma comunque

non dimostrato, il pregiudizio economico sofferto in concreto dalla famiglia legittima: il

distacco da essa, le condizioni economiche ed in generale tutta la situazione considerata,

non convince i giudici a concedere anche questa voce di danno.

Sentenza sovversiva o paradossalmente, una delle più moderne e corrette mai emanate

nel nostro panorama giurisprudenziale ? Proveremo nel prossimo capitolo a rispondere

anche a questo quesito.

104

Un altro intervento della Cassazione (penale) torna ad avere il segno negativo: mi

riferisco alla sentenza 7 luglio 1992 173 nella quale si ribadisce l'orientamento

tradizionale di ritenere risarcibile ex 2.043 cod. civ. solo il danno che si verifica per

lesione di un diritto soggettivo. Essa infatti afferma che "… nel caso di morte di una

persona, il soggetto che con essa conviveva, che chiami in giudizio il responsabile

dell'evento mortale, deve dimostrare il suo diritto a quei vantaggi ed a quelle prestazioni

dalla persona deceduta; diritto che non può discendere che dalla legge o da patto ...

Nessuna di tale ipotesi ricorre nel caso del convivente more uxorio che

conseguentemente è carente di legittimatio ad causam per il risarcimento dei danni …".

Interessante però è l'affermazione del principio per cui "… l'ammissione della parte

civile non pregiudica la successiva decisione sul diritto alle restituzioni ed al

risarcimento del danno …", principio del quale si sottolineerà l'importanza, sempre nel

prossimo capitolo.

Prima però di trarre alcune considerazioni conclusive, dobbiamo ultimare la nostra

rassegna citando ancora alcune interessanti pronunce, la prima di questa della Corte

d'appello di Milano del 1993 174: in questa recente sentenza si sancisce ancora una volta

la legittimazione per la convivente more uxorio a chiedere il risarcimento del danno

morale sofferto per la morte del compagno.

La posizione della Corte d'appello si giustifica in quanto dall'apparato normativo

recentemente introdotto e dalle pronunce della Corte costituzionale 175 si evincerebbe la

rilevanza della convivenza more uxorio nel senso di necessità di una sua tutela, in virtù

del principio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost. Per questo "… la convivente more

uxorio della vittima verrebbe lesa non già in una mera e semplice aspettativa priva di

qualunque tutela giuridica, bensì in un fondamentale ed inviolabile diritto, qual è quello

alla solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost." E' da specificare che la Corte attribuisce

una grande rilevanza al rapporto di fatto visto che, oltre ad una comprovata e stabile

coabitazione, il defunto aveva nominato la convivente sua erede con testamento

olografo dal quale risultava senza ombra di dubbio che questa fosse stata "… l'unica

persona che nella mia vita mi ha aiutato con duro lavoro e spirito di sacrificio e volontà

a realizzare qualcosa di concreto …".

Poteva forse la Corte lasciarla senza tutela ?

173 Cass. Penale 7 luglio 1992 in Giur. It, 1993, II , p. 659. 174 Corte appello Milano, 16 novembre 1993 in Foro it., 1994, I , p. 3.212. 175 Si veda supra il capitolo II, pp. 26 e segg.

105

A conclusione di questa panoramica è d'obbligo ricordare l'interesse notevole che dal

1990 in poi questa questione ha destato nel mondo giuridico: dal convegno di Milano

del 1988 si sono susseguiti una serie sempre più cospicua di proposte di legge 176 e di

monografie sulla materia 177; il dibattito è stato favorito dalle progressive aperture della

Corte costituzionale 178, del mondo del notariato, della giurisprudenza di merito e anche

di quella recentissima di legittimità. E' proprio da quest'ultima che vorremmo proseguire

il nostro discorso sul dibattito de iure condendo e sui possibili scenari raffigurabili.

La sentenza è quella della Cassazione civile n. 2.988 del 1994 179: per comprenderla

bene occorre rapidamente ricordare i fatti.

Il Tribunale e la Corte di Appello di Lecce avevano accolto la domanda di risarcimento

dei danni patrimoniali e non, proposta da una convivente more uxorio per la morte

cagionata al compagno. (Nel merito la Corte d'appello aveva ritenuto dimostrata la

sussistenza di tale rapporto con la sola esibizione dell'atto di notorietà).

Ricorre in Cassazione la società assicuratrice del danneggiante che fra gli altri motivi,

denuncia la falsa applicazione degli artt. 1.223 e 2.043 cod. civ. nella parte in cui

attribuirebbero il diritto al risarcimento danni per la convivente e degli artt. 2.697 e

2.727 cod. civ. in relazione all'insufficienza della addotta prova della convivenza.

La Cassazione valuta il primo problema, logicamente pregiudiziale: essa ricorda che, se

da una parte il problema della risarcibilità dei danni morali è ancora "aperto" (ed

abbiamo visto come si pone la giurisprudenza di merito), sarebbe da escludersi, secondo

l'opinione consolidata, il risarcimento del preteso danno patrimoniale che compete

solamente, ex art. 1.223 cod. civ., "a chi subisce una perdita economica o prevede con

certezza un mancato guadagno futuro". "Il danno materiale derivante dalla morte si

concretizzerebbe quindi nella lesione di diritti economici, sicché sarebbe da escludere

per il convivente more uxorio i cui rapporti economici con la vittima costituirebbero

solo l'assolvimento di un'obbligazione puramente naturale". La Corte però si allontana

da questi principi ritenendo (sul modello della citata giurisprudenza francese), che "…

tanto l'art. 2.043 cod. civ. che l'art. 2.059 cod. civ. attribuiscono il diritto al risarcimento

a chiunque abbia sofferto un danno a causa dell'altrui fatto ingiusto, sempre che sussista

un rapporto diretto tra il danno ed il fatto lesivo. L'ampiezza della formula legislativa

176 Che esamineremo infra da p. 137. 177 Le più rilevanti: G. De Luca, op. cit. a nota 24; F. D'Angeli, op. cit. a nota 52; G. A. Stanzione La famiglia non fondata sul matrimonio" ne "Diritto di famiglia", Torino, 1997, p. 417. 178 Si veda supra, capitolo I da p. 26. 179 Cass. Civile n. 2.988 del 1994 in Resp. civ. e prev., 1995, p. 564.

106

consente di ricomprendere nell'ambito dell'obbligazione risarcitoria sia il danno subito

dal soggetto verso cui è stato diretto il fatto ingiusto, sia quello che abbiano risentito in

modo egualmente immediato e diretto, sotto forma di deminutio patrimonii o di danno

morale, eventuali altri soggetti, per i rapporti che li legano a quello immediatamente e

direttamente leso, siano tali rapporti d natura familiare o parafamiliare …".

Puntualizzato questo, la Corte ritiene che anche la perdita del convivente more uxorio

determini "senza dubbio" un patema d'animo identico a quello che si genera all'interno

della famiglia legittima e che si suole sussumere nell'ambito del danno non

patrimoniale, risarcibile ai sensi degli artt. 185 cod. pen. e 2.059 cod. civ.

Se in linea di massima la Corte si schiera in questo ambito con il "vento di novità"

sollevato dalla giurisprudenza di merito, una diversa interpretazione attribuisce alla

portata dell'art. 2.043 cod. civ.: secondo la sua opinione la "… esistenza del danno

patrimoniale non discende ipso iure dalla morte del convivente (come dalla morte del

coniuge) e non può farsi coincidere con la sopravvenuta mancanza di elargizioni

meramente episodiche o graziose, né con una mera ed eventuale aspettativa ...". Anche

nella famiglia legittima tale danno sarebbe risarcibile solo entro i limiti del contributo al

soddisfacimento dei bisogni del coniuge (art. 143 cod. civ.) o dei figli. "Il medesimo

ragionamento vale ovviamente nell'ambito della famiglia di fatto o della convivenza

more uxorio, in cui spetta al convivente, che afferma di aver subito un danno

patrimoniale in dipendenza della morte dell'altro, dare la prova del contributo

patrimoniale e personale apportatole in vita, con carattere di stabilità dal convivente e

che è venuto a mancare in conseguenza della sua morte …".

Risolta in questo modo la questione pregiudiziale, la Corte analizza la problematica

della prova di una convivenza more uxorio, ritenendo mancante nella sentenza

impugnata un'indagine approfondita atta a suffragare l'esistenza di una "relazione

interpersonale con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare,

che, come nell'ambito di una qualsiasi famiglia, si esplichi in una comunanza di vita e di

interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale …", non essendo certamente

sufficiente una semplice certificazione anagrafica. Ed è sulla base di questo fatto, che

cassa la sentenza della Corte di appello, rinviandola ad un'altra sua sezione.

Il commento a questa sentenza non è agevole.

Da una parte è sicuramente da accogliere la teorica sulla prova di una convivenza more

uxorio: non è sufficiente una semplice iscrizione anagrafica, ma si deve compiere

un'analisi più approfondita, ma non è questo il problema maggiore.

107

Di notevole rilevanza sono le motivazioni sulle quali la Corte sembrerebbe fondare la

legittimità di una richiesta di risarcimento danni ad opera di un "convivente" e a

fortiori, di un convivente more uxorio, per l'uccisione del compagno.

Importante è, a mio giudizio, distinguere i due problemi: il riconoscimento del diritto al

risarcimento e la problematica della prova del danno sofferto.

Per la prima questione, la Cassazione parrebbe ormai orientarsi verso l'attribuzione del

diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, in virtù della equiparazione della

forza del sentimento familiare esistente così in una vera e dimostrata convivenza more

uxorio, come in una famiglia legittima. (Se è il patema d'animo che viene protetto

dall'art. 2.059 cod. civ., allora non può che essere risarcibile anche quello del

convivente superstite). Su questa linea per altro, la Corte di Cassazione si schiera con la

giurisprudenza di merito, ma non va a contraddire in realtà se stessa, visto che tutte le

pronunce ricordate in precedenza, si fondavano sull'art. 2.043 cod. civ. Ed è proprio in

questo ambito che la Corte si spinge molto più avanti.

Possiamo anche condividere, anche se non completamente, le preoccupazioni di chi,

come S. Coppari 180, afferma che laddove la Corte intenda discostarsi da un suo

precedente orientamento, dovrebbe motivarlo in maniera più completa: nel nostro

ordinamento, sempre che si ritenga esistente una funzione nomofilattica della

Cassazione 181, certamente non vige il principio dello stare decisis, per cui ben può una

nuova interpretazione sovvertire anche un consolidato orientamento precedente.

Viceversa è curioso che questo revirement sia stato introdotto da noi dalla Cassazione

"civile", a differenza che in Francia: segno forse che le nuove proposte di apertura verso

le più moderne esigenze della responsabilità civile, stanno prendendo piede.

Tornando alla nostra sentenza, la Corte, per quanto concerne il problema spinoso

dell'art. 2.043 cod. civ., a mio modesto modo di vedere, non erra quanto alle

conseguenze (riconoscimento del diritto al risarcimento ex art. 2.043 cod. civ. al

convivente), quanto alle premesse. Essa infatti parte dall'errore di considerare il diritto

al risarcimento come fondato sull'altrui fatto ingiusto, sempre che sussista un rapporto

diretto tra il danno ed il fatto lesivo. Ma ingiusto non è il fatto in sé (almeno per l'art.

2.043 cod. civ.), quanto il danno: se io cagiono ad altri un danno, ma per una situazione

di legittima difesa, il fatto è comunque ingiusto (il danneggiamento è un reato), ma il

180 S. Coppari in "Famiglia di fatto e diritto al risarcimento del danno per morte del convivente …" in nota alla seguente sentenza, vedi nota 179. 181 Non tutta la dottrina ne è convinta.

108

danno non lo è proprio. La morte di una persona invece e la conseguente lesione

all'integrità familiare (nel nostro caso), implicano un'ingiustizia del danno: la famiglia è

un bene primario, come il bene vita e, laddove la si possa ritenere esistente, gode da

parte dell'ordinamento di una tutela piena e privilegiata (pensiamo alla Costituzione, al

diritto penale, a quello civile, assistenziale ecc.). Il diritto al risarcimento del danno ex

art. 2.043 cod. civ. poggia in realtà proprio su questo.

Un'altra questione attiene alla dimostrazione del pregiudizio concretamente sofferto e su

questo siamo pienamente d'accordo con la Corte. Affermare l'astratta esistenza di un

diritto, non implica riconoscere un risarcimento nel caso concreto: sia in ambito

familiare "legittimo", che di fatto o di convivenza more uxorio, laddove non si riesca a

provare di avere sofferto in modo immediato e diretto un pregiudizio economico -

morale, nessuna somma di danaro può essere concessa.

La novità della Corte è forse proprio quella di "bacchettare" indirettamente tutti quei

giudici che, con "manica larga", attribuiscono risarcimenti faraonici a soggetti che non

se li "meriterebbero" e di legittimare al contrario delle soluzioni, anche ardite, come

quella del Tribunale di Roma nel 1991 182 prima ricordata.

Come si può allora provare in una convivenza more uxorio di aver sofferto una

deminutio patrimonii ? In ogni modo, purché si possa desumere da indizi gravi, precisi e

concordanti. Certamente se esiste una convenzione ex art. 1.322 cod. civ., così come se

esiste un testamento; ma la prova può discendere anche dalla serietà della relazione, dal

comportamento concludente dei partner, dal loro modo di presentarsi verso i terzi ecc.

Quello che si vuole in sintesi affermare, è che la importanza di questa sentenza sembra

essere quella di aver manifestato le incongruenze di tutte quelle arzigogolate costruzioni

dogmatiche, che altro non portano a concedere risarcimenti eccessivi, laddove il

pregiudizio può essere tutt'altro che certo (il parente lontano, il nascituro, le aspettative

di vario tipo), ed a negarlo a situazioni che, ancorché non legalizzate, ne avrebbero

pienamente diritto.

182 Vedi supra p. 117.

109

4. Sintesi e proposte di soluzioni.

Da quanto abbiamo potuto constatare con l'analisi dottrinale e giurisprudenziale, la

situazione attuale è di progressiva, anche se lenta, apertura verso la concessione di

qualche voce di danno al convivente more uxorio superstite.

Volendo cercare di riassumere e schematizzare la problematica, si potrebbe dire questo:

1. il primo problema da risolvere è chiedersi se esiste una rilevanza giuridica o meno

della famiglia di fatto;

2. il secondo è quello verificare se sia possibile configurare o meno un diritto al

risarcimento del danno a favore del convivente superstite;

3. il terzo è chiedersi quali voci di danno siano risarcibili.

Per quanto concerne il primo problema, mi pare ormai fuori di dubbio che dagli indici

di rilevanza c.d. diretta ed indiretta della famiglia di fatto, non si possa più

correttamente affermare che l'ordinamento giuridico italiano sia del tutto agnostico a

questa problematica.

Dai capitoli precedenti abbiamo potuto appurare come la tendenza attuale sia di

individuare un corpus normativo specifico per la famiglia di fatto, tenendolo ben

separato da quello fissato per la famiglia legittima 183. Questo sia per rispetto alla

Costituzione (artt. 2 e 29) sia per rispetto dell'autonomia privata, del diritto inviolabile

dell'uomo a dare origine ad una libera unione.

L'aver identificato anche a livello costituzionale un insieme di disposizioni che

garantiscono e riconoscono il diritto per i singoli a formare una qualsivoglia unione

familiare, rende, a mio giudizio, molto più deboli quelle affermazioni dottrinali che

ritengono ancora escluso dal nostro ordinamento, una qualunque rilevanza giuridica del

fenomeno in esame.

Dire infatti che solo l'unione matrimoniale fonda una famiglia è più un'argomentazione

ideologico - religiosa, che giuridica 184.

183 Le considerazioni più specifiche su questo punto si effettueranno laddove si analizzeranno le proposte de iure condendo. 184 Per una controprova si legga la recentissima sentenza della Cassazione del 4 aprile 1998 n. 3.503 in www.dirittoefamiglia.it - sezione sentenze - del 2 gennaio 1999.

110

Parafrasando insigni costituzionalisti si può dire che "i diritti del singolo all'interno della

formazione sociale da lui composta, diventano i diritti della formazione sociale stessa":

non a caso lo stesso art. 2 Cost. afferma chiaramente che così come sono garantiti al

cittadino dei diritti inviolabili uti singuli, così devono essere garantiti ad esso anche

nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Se questo è vero, e se la

famiglia di fatto effettivamente ed indubbiamente è una di quelle formazioni sociali,

allora il nostro ragionamento può seguire un percorso analogo alla creazione

giurisprudenziale del diritto alla salute.

La Corte costituzionale infatti, nella sentenza 184 del 1986 185, laddove ha sancito

l'esistenza del diritto inviolabile alla salute, la base del c.d. diritto al risarcimento del

danno biologico, ha chiaramente impostato il proprio ragionamento secondo questo iter

logico: ha identificato a livello costituzionale le disposizioni che direttamente o

indirettamente si riferiscono al diritto alla salute e lo ha elevato (giustamente) a diritto

inviolabile. Ha quindi interpretato l'art. 2.043 cod. civ. in senso ampio, come lo

strumento volto a proteggere non solo i diritti soggettivi, identificati con quelli protetti

esplicitamente da una disposizione costituzionale o legislativa, ma anche tutti quegli

"interessi ritenuti meritevoli di tutela dall'ordinamento". Un ampliamento verso la

atipicità dell'illecito civile, criticato da molti, ma giustamente perseguito vista la

funzione primigenia dell'istituto in questione che è quella di ripristinare per quanto

possibile, lo status quo ante "scompaginato".

Su questa base la Corte costituzionale ha fondato una lettura costituzionale dell'art.

2.043 cod. civ.: esso va letto in connessione con le tematiche costituzionalmente

rilevanti, come lo strumento per risarcire tutti quei danni che potenzialmente ostacolano

le attività realizzatrici della persona umana. In questo senso andrebbe letta la

"ingiustizia del danno": non come danno non iure e contra ius, ma come lesione di una

situazione soggettiva, costituzionalmente rilevante, che impedisce il libero svolgimento

della personalità umana.

Non si può infatti dubitare che la tutela del cittadino, dell'uomo e dei suoi diritti

inviolabili, sia il pilone portante di tutto il nostro sistema giuridico: non a caso l'uomo e

la famiglia sono le due dimensioni maggiormente considerate a livello costituzionale.

Poste queste premesse fondamentali e dimostrato come ormai la famiglia di fatto trovi

un suo spazio (ancorché implicito) nella costituzione, passiamo al secondo punto nodale

185 Corte cost. n. 184 del 1986 in Foro it. 1986, I , p. 2.053.

111

del problema, la configurazione di un diritto al risarcimento del danno per la morte del

convivente.

Anche qui, prima di dare una nostra risposta, occorre fissare qualche punto fermo: da

quanto abbiamo compreso leggendo la dottrina e la giurisprudenza, lo scontro nasce

dalla diversa interpretazione data alla locuzione "ingiustizia del danno" dell'art. 2.043

cod. civ., disposizione che a rigore, fonda la risarcibilità dei c.d. danni patrimoniali,

mentre sembra quasi pacifica la risarcibilità ex art. 2.059 cod. civ. dei c.d. danni morali

o meglio, non patrimoniali (vedremo meglio infra).

L'obiezione che mi pare più difficile da superare è quella posta da De Cupis allorquando

ritiene impossibile riconoscere un risarcimento del danno alla convivente more uxorio

sulla scorta della non corrispondenza tra diritto ad una tutela interna nel rapporto e

tutela esterna. Egli cioè afferma che, se la convivente non può legittimamente ottenere

nulla dal convivente se questo è in vita, non si capisce perché debba ottenere un

qualcosa, dalla sua morte.

Questa obiezione è corretta e fondata, ma è anche vero che inizia ad essere datata: non

solo per le spinte a livello comunitario 186 e le proposte di legge che dal 1987 in poi

stanno fioccando su questa questione, ma anche per le nuove costruzioni dottrinali e

giurisprudenziali che abbiamo già esaminate.

Fondamentale mi sembra la possibilità riconosciuta dalla dottrina e dal mondo del

notariato 187 di concludere con un atto pubblico una specie di "convenzione

matrimoniale" sul modello previsto per i coniugi ex art. 162 cod. civ.: se tale

convenzione esiste, essa non solo sarebbe lecita in virtù dell'art. 1.322 cod. civ. (sempre

che verta su diritti disponibili e patrimoniali), ma fonderebbe senza dubbio una legittima

pretesa del convivente superstite a richiedere i danni patrimoniali al terzo che abbia

cagionato la morte del partner.

186 Si legga l'intervento di Vito Librando, Vice Capo dell'Ufficio Legislativo del Min. di Grazia e Giustizia riportato in "Una legislazione …", op. cit. a nota 41, p. 167 che ricorda la risoluzione n. 7 del Comitato dei ministri adottata il 14 marzo 1975 sul "risarcimento del danno nel caso di lesioni personali e di morte" ed il progetto del comitato del diritto di famiglia presentato nel novembre 1987, atto a concedere diritti successori e il potere di concludere dei contratti di natura patrimoniale per le coppie non unite in matrimonio. 187 Si legga il contributo del Forum tenutosi a Napoli il 30 settembre 1993 nel quadro del XXXIII Congresso nazionale del notariato su "La famiglia di fatto ed i rapporti patrimoniali tra i conviventi" e nella specie l'articolo di E. Quadri "Rilevanza attuale della famiglia di fatto ed esigenze di regolamentazione" in Dir. di fam. e delle pers. 1994, I , p. 288.

112

Tale diritto però, verrebbe riconosciuto sulla base della lesione di un diritto soggettivo

relativo (diritto di credito), così come ormai pacifico dalla sentenza sul caso Meroni 188.

In tale fattispecie dunque, il convivente potrebbe richiedere i danni patrimoniali, ma non

in quanto leso nel proprio rapporto para- familiare, bensì in un vero e proprio diritto di

credito.

Ora, dal mio punto di vista, è paradossale la conseguenza che questa costruzione

determina: un convivente può ottenere il risarcimento del danno non perché leso nel

proprio diritto inviolabile a veder tutelata la propria famiglia, ma solo in quanto violato

un diritto relativo di credito. Con il gravissimo errore da una parte, di dare maggiore

tutela ad un diritto certamente inferiore come importanza e sostanza di quello

all'integrità familiare, dall'altra di confondere il diritto al risarcimento, con il problema

della sua prova.

Infatti, per quanto riguarda la prima conseguenza, il collegare il diritto al risarcimento

alla lesione di un credito, cagionerebbe il paradossale risultato di attribuire

un'importanza maggiore al credito, piuttosto che alla famiglia stessa: l'ingiustizia del

danno non sarebbe individuata nella lesione inferta al soggetto, tale da impedirgli lo

svolgimento della propria personalità nel suo organismo familiare, bensì nella sua mera

impossibilità ad ottenere dei vantaggi economici (per altro sempre promessi, ma mai

certi).

La famiglia verrebbe così davvero ridotta ad un mero contratto … (alla faccia di coloro

che poi si scandalizzano allorquando sentono dire che il "matrimonio è un contratto"

!!!).

Francamente non credo esserci dubbi a livello costituzionale sulla prevalenza della

protezione della famiglia come cellula della società, rispetto alla tutela della proprietà e

di ogni altro diritto di credito: la famiglia va tutelata sempre allorquando si può

ragionevolmente ritenere che questa esista, non solo quando essa assume una

dimensione economica.

Se la si pensa in questa maniera allora tutto il diritto penale, tutto il diritto di famiglia,

ma soprattutto, tutta la disciplina di protezione dei minori, possono essere stracciati.

Si può forse negare che l'ordinamento giuridico non tenga conto del sentimento

familiare che anche in una famiglia di fatto e/o naturale, si instaura nei confronti dei

figli ? Si può affermare che essa assuma rilevanza sempre in ordine ai diritti dei minori,

188 E' la sentenza della Cass. Sez. unite n. 174 del 25 gennaio 1971 in Foro it., 1971, I , c. 342, p. 1.284.

113

solamente allorquando esiste una convenzione matrimoniale che fissi i reciproci

obblighi fra i genitori e fra genitori e figli ? Non mi pare proprio.

Certamente mi diranno: in questa specifica materia è la legge che disciplina gli effetti

dell'unione di fatto in relazione con i figli nati (ex art. 317-bis cod. civ.); è una

fattispecie precisa, dalla quale non può dedursi un sistema.

Verissimo: ma il mio obbiettivo è solo quello di dimostrare come l'ordinamento

giuridico attribuisca una tutela primaria ed assoluta al sentimento familiare, alla

famiglia laddove questa si possa dire esista, senza richiedere un contratto o un altro tipo

di riconoscimento per proteggerla.

La mia conclusione è che non è corretto né giuridicamente, né moralmente, subordinare

la tutela di una vera e propria famiglia di fatto, all'esistenza di una convenzione che la

disciplini, perché così non si andrebbe a tutelare la famiglia in sé considerata, ma solo in

quanto contratto.

Questo ragionamento vale ovviamente per quanto concerne la possibilità di riconoscere

il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali al convivente sopravvissuto: dal mio

punto di vista questo diritto sussisterebbe sempre laddove si possa ragionevolmente

verificare la sussistenza di una famiglia, lasciando per il momento perdere il come

dimostrarlo ed il quantum da risarcire.

Fissato dunque il principio secondo il quale l'art. 2.043 cod. civ. protegge ogni

situazione giuridica di rilevanza costituzionale ed assodato che la famiglia a livello

generale, ma anche a fortiori la famiglia di fatto, assumono un rilevanza fondamentale

nel nostro ordinamento, si può ragionevolmente affermare che ogni fatto che vada a

"scompaginare" tale rapporto di per sé determina un danno ingiusto e come tale da

risarcire.

Il problema che da sempre angustia la giurisprudenza è di porre una barriera, per quanto

mobile, ai soggetti ed alle voci di danno da risarcire, affinché non si abbia ad "ottenere

un arricchimento ingiustificato rispetto alla lesione concretamente sofferta" 189.

Non voglio assolutamente approfondire tutte le spinose questioni ruotanti attorno sia ai

soggetti ritenuti titolari di un diritto al risarcimento (creditori, congregazioni religiose

ecc.), sia ai diversi tipi di danno risarcibili (danno biologico, alla salute, alla serenità

familiare, alla sfera sessuale, alla vita di relazione, alla lesione dell'obbligo di fedeltà

189 A. De Cupis vedi supra p. 98.

114

ecc.); vorrei cercare di incentrarmi sui riflessi che tali problematiche hanno nei

confronti della famiglia di fatto.

Se partiamo dal presupposto generale della possibilità per il convivente more uxorio

superstite di chiedere un risarcimento dei danni al soggetto che ha ucciso il partner,

dobbiamo ora vedere entro quali limiti gli possono essere concessi.

Questo problema però non riguarda più l'esistenza del diritto al risarcimento (ritenuto

sempre configurabile), ma ricade nella problematica relativa alla prova dei danni

concretamente ed immediatamente sofferti ed al quantum ottenibile: con questo si vuole

cercare di dimostrare come le paure della giurisprudenza e della dottrina non sono così

fondate, se gli strumenti giuridici vengono utilizzati correttamente.

In primo luogo: qualunque presunto convivente more uxorio può richiedere il

risarcimento del danno ?

Dal punto di vista processuale certamente: una cosa è ritenersi titolari di un diritto, un

altro conto è vederselo poi attribuire 190.

Pertanto il convivente deve ritenersi sempre legittimato a costituirsi parte civile, poiché

sarà compito del giudice eventualmente estrometterlo o non riconoscergli alcunché.

Dal punto di vista sostanziale, ecco subito operare il primo filtro: non tutte le libere

unioni possono definirsi "convivenze more uxorio".

Il primo compito del giudice sarà dunque qualificare correttamente il rapporto

sussistente tra il deceduto ed il partner sopravvissuto: come dimostrare in concreto

l'esistenza di un convivenza more uxorio ? E' sufficiente un certificato di iscrizione

anagrafica ? O ci vuole altro ?

Abbiamo già visto 191 come per dimostrare la convivenza more uxorio non sia

condizione sufficiente l'iscrizione anagrafica; certamente, almeno finché il legislatore

non interverrà in tal senso, essa non sarà neppure condizione necessaria: la convivenza

deve essere dimostrata e dimostrabile con ogni mezzo. Non basterà un pezzettino di

carta, né tanto meno, la sua assenza sarà di ostacolo: il giudice deve essere in grado di

attribuire rilevanza ad un'unione caratterizzata da affectio, durata, stabilità ecc. in modo

190 Ex art. 100 c.p.c. è sufficiente "avervi interesse" per proporre una domanda. Ex art. 74 c.p.p. "… l'azione civile … può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno …". Si legga l'affermazione della Cassazione 7 luglio 1992 citata a pag. 119. 191 Vedi supra, capitolo I, p. 2, e le sentenze della Cassazione n. 2.988 del 1994 e del 4 aprile 1998 n. 3.503 già citate.

115

libero. E' un soggetto sensibile ed attento: non credo ci si potrà scandalizzare se riterrà

sussistente una convivenza more uxorio fra due soggetti, che per lunghi anni hanno

convissuto, coabitato, si sono reciprocamente sostenuti materialmente e moralmente,

hanno avuto figli ecc. ed invece non si accontenterà di una coabitazione di pochi giorni,

caratterizzata dalla volontà delle parti di "vivere liberi" da ogni tipo di impegno … Che

i giudici non siano infallibili è ovvio, ma che siano proprio così scarsamente preparati,

non lo possiamo credere !

Se questa prima selezione espunge dai soggetti risarcibili tutti coloro che vivono

l'unione superficialmente, che meramente coabitano o per i quali non si possa

riscontrare un'affectio familiaris, altri "paletti" vengono poi posti, per verificare in

concreto la certezza e l'immediatezza dei danni subiti con il venir meno del partner.

Siamo nell'orbita del combinato disposto dagli artt. 2.043, 1.223 e 1.225 cod. civ.: sulla

base di queste disposizioni infatti occorre dimostrare la concretezza delle diminuzioni

patrimoniali subite o che ragionevolmente sarebbero state ancora elargite. E qui si entra

nel pelago misterioso e confuso generato dalla stessa giurisprudenza: se da una parte

non vi sarebbero problemi a riconoscere tale voce di danno al convivente superstite

laddove esistesse un convenzione di tipo matrimoniale, ecco che i problemi nascono

laddove, praticamente sempre, questa non esista.

In questa materia si ritrovano infatti tutte le ansie e le paure della giurisprudenza: da una

parte il timore di non arricchire ingiustamente qualcuno, dall'altra l'ansia, dettata da

ragioni di giustizia sostanziale, di non lasciare prive di tutele delle situazioni familiari

terribili, sul modello del citato "affaire Kredens" 192.

Preoccupazioni entrambe comprensibili perché rinvenibili in ogni ordinamento e nel

nostro, per di più, anche in altre problematiche (il diritto al risarcimento ai fratelli, ai

parenti mantenuti ecc.).

In molte occasioni infatti il dilemma "concedo il risarcimento - ma a che prezzo",

rischia di portare a conseguenze nefaste: esiste infatti un criterio, l'equità, che è nato per

dirimere queste controversie e non si dica che questo potere in mano ai giudici non è

che foriero di conseguenze ingiuste o contraddittorie.

Se è sempre la questione monetaria che preoccupa, è solo questo criterio che può

permettere al giudice, valutati tutti gli elementi del caso, a dare la soluzione

maggiormente in sintonia con le esigenze del caso concreto.

192 Vedi supra p. 104.

116

Mi fanno personalmente sorridere tutti quegli autori o quei giudici che, nascondendo la

propria sensibilità umana dietro a paramenti di giustizia, in queste occasioni riescono a

far "rientrare dalla finestra, quello che gettano dalla porta": mi riferisco al fatto di

negare un risarcimento ex art. 2.043 cod. civ., per poi concederlo ex art. 2.059 cod. civ.,

magari facendo rientrare in esso nuove voci di danno (es. il danno biologico o alla

serenità familiare) che altro scopo non hanno che attribuire al richiedente le stesse

quantità di danaro, che non gli verrebbero riconosciute ex art. 2.043 cod. civ., in quanto

non titolare di un diritto soggettivo.

Banalizzando ed utilizzando un paradosso, per altro tutt'altro che raro, si potrebbe dire

che, usando una formula matematica, essi non operano che in questa maniera: se Caio

(in un caso simile all'affaire Kredens) chiede 100 a titolo di danni patrimoniali e 50 per

danni non patrimoniali, questa corrente, pur comprendendone umanamente il dramma

familiare, arriverebbe a dire: a Caio non riconosciamo 100 perché non titolare di un

diritto soggettivo, ma gli attribuiamo 50 per i danni morali e magari altri 100 per altre

voci di danno diverse, sempre ricadenti nell'orbita dell'art. 2.059 cod. civ. - salvando

così le loro costruzioni giuridiche da un parte e la giustizia sostanziale dall'altra.

Che questo modus agendi non sia così infrequente lo dimostra il più volte sollevato

problema dell'incostituzionalità dell'art. 2.043 cod. civ.: paradossalmente se questo

articolo non esistesse, molti problemi non sussisterebbero affatto o quanto meno,

verrebbero limitati, se solo si riscrivesse l'articolo in questione sul modello francese,

eliminando quello scomodo ingombro "dell'ingiustizia del danno" 193.

Ho voluto operare questa digressione per sottolineare come il problema di porre delle

barriere ai legittimati ed alle voci di danno sia importante, ma nello stesso tempo

sopravvalutato: se si parte dal principio che la responsabilità civile ha la funzione

primigenia di ristabilire lo status quo ante all'evento dannoso, di riportare più vicino

possibile alla propria "curva di indifferenza" i danneggiati, forse i problemi si

potrebbero risolvere più facilmente.

Tutta la problematica della lesione delle aspettative è un capitolo talmente nebuloso ed

affascinante che in questa sede non può che essere ricordato: l'accordare un risarcimento

del danno per la morte del nascituro, per la perdita della ragionevole aspettativa che il

figlio, da grande, avrebbe potuto partecipare al sostentamento dei genitori ecc. sono

193 Si tornerebbe così alla più ampia dizione dell'art. 1.151 cod. civ. italiano del 1865 che indicava come oggetto del risarcimento, il danno, senza ulteriori specificazioni.

117

delle ipotesi che, nonostante la loro rilevanza sociale, non possono non essere messe in

parallelo con quella della famiglia di fatto.

Se si vanno a tutelare situazioni che solo ipoteticamente e nel futuro si potranno

avverare, non è un controsenso affermare la impossibilità di risarcire il convivente solo

perché l'unione di fatto non è che "precaria" ? C'è forse qualcosa nella vita che non sia

precario ? Solo la Morte è la nostra unica certezza.

Anche la famiglia legittima non è indissolubile e si fonda su di un continuo rinnovarsi

della volontà dei coniugi alla sua prosecuzione: certamente i loro legami sono coperti da

una particolare tutela, da una presunzione legale di esistenza, ma anche qui un conto è la

prova dell'esistenza di un certo rapporto, un altro è il riconoscimento della sua rilevanza

per l'ordinamento. Non è un caso che anche la nostra giurisprudenza, benché con

pronunce quasi al limite della legalità, inizi a tutelare maggiormente le unioni vere,

anche se di fatto, piuttosto che delle famiglie legittime, ma solo sulla carta 194.

In conclusione, non mi paiono proprio sussistenti delle fondate motivazioni giuridiche

ostanti al riconoscimento, in astratto, del diritto al risarcimento del danno patrimoniale

per il convivente superstite, mentre certamente sarà compito del giudice valutare in

concreto, caso per caso, il grado e l'intensità della tutela da accordare.

Passiamo ora a verificare se viene ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale ex art.

2.059 cod. civ.: abbiamo già visto che la risposta che la giurisprudenza di merito, ma

anche, sembra, di legittimità, va sostenendo è affermativa e proprio per le motivazioni

già prospettate. Nel danno non patrimoniale non occorre chiedersi se vi sia una

"ingiustizia" o meno del danno; non è necessario individuare un diritto soggettivo

all'attribuzione di un certo apporto monetario.

Il danno non patrimoniale è il pretium doloris o comunque quel danno che è risarcibile

ogni qual volta, in concreto, vi sia un "danno morale soggettivo" determinato da un

ingiusto perturbamento dell'animo conseguente ad un fatto reato. "L'oggetto non si

desume tanto dalle conseguenze dell'evento lesivo nella sfera psichica della vittima,

quanto dalla lesione stessa che di per sé viola l'interesse protetto dalla norma (penale)" 195.

Il vantaggio dell'art. 2.059 cod. civ. sta, da una parte, nell'avere tra le sue funzioni,

quella "afflittiva", oltre a quella consolatorio - satisfattiva e riparatoria e quindi di essere

194 Si veda la sentenza del Trib. Roma del 9 luglio 1991, n. 9.693 supra a p. 121. 195 Così in M. Franzoni, op. cit. a nota 166, p. 1.166.

118

una sorta di "sanzione civile punitiva", dall'altra di richiedere un'indagine in concreto da

parte del giudice sull'esistenza e la profondità del legame affermato come esistente.

Infatti in tutti i casi in cui sia identificabile un reato nella sua materialità, il danneggiato

dovrà provare il particolare legame tra il bene offeso dal reato ed i propri sentimenti

turbati dal fatto: la prova del dolore non può che essere indiretta, indiziaria, al punto da

potersi affermare che è in re ipsa, nel fatto antigiuridico. (Conseguenza questa che, tra

non molto, darà legittimazione alla richiesta di danni non patrimoniali anche al

convivente omosessuale).

Questa disposizione in sintesi, per la sua "semplicità" di applicazione può essere la

famosa finestra dalla quale far rientrare, quello che si ostina a cacciare dalla porta. Se

infatti l'art. 2.043 cod. civ. non sembra ancora in grado di sganciarsi dalla sua

applicazione tipica, è la figura del danno non patrimoniale, lo strumento giuridico in

grado di supplire alle sue deficienze.

Ma non è da dimenticare che è pure in atto una vera e propria "rivoluzione copernicana"

sul concetto di "patrimonialità", intesa non più come "pecuniarietà", bensì in senso più

ampio.

Autorevole dottrina infatti non ritiene più sussistente la differenza fra art. 2.043 cod.

civ. e 2.059 cod. civ. sulla base del fatto che, mentre il primo tutelerebbe tutti quei danni

facilmente monetizzabili, il secondo si indirizzerebbe solo a quelli morali soggettivi:

questo perché da una parte vi sono beni, anche "materiali" (pensiamo ad un oggetto

d'arte rarissimo) che non hanno un prezzo di mercato (ma ciononostante nessuno si

sognerebbe di imputare un loro danno alla categoria del "non patrimoniale"), dall'altra

vi sono invece sentimenti, utilità che comunque possono essere stimati

patrimonialmente, dando luogo ad un risarcimento che non può, non essere considerato

patrimoniale.

Non solo: essa aggiunge che se si definisce in positivo il campo di applicazione dell'art.

2.059 cod. civ. come danno morale soggettivo, si giungerebbe alla conseguenze di avere

due disposizioni (gli artt. 2.043 e 2.059 cod. civ.) entrambe specificate quanto al loro

ambito di utilizzo, con la conseguenza di non riuscire a coprire tutte le possibili

problematiche, per es. si pensi a quella del danno alla persona 196. Per ovviare a questo

si giunge a proporre una nozione residuale del danno patrimoniale il quale, a questo

196 Non a caso c'è chi, come Scognamiglio parla di un "tertium genus", si veda in Frnzoni op. cit. a nota 166. P. 1.157..

119

punto, diventa sinonimo di danno risarcibile, al di fuori dei casi rientranti nell'art. 2.059

cod. civ.

Con la conseguenza, già anticipata prima, che la patrimonialità perde il carattere

essenziale per il danno giuridico, che diventa giuridicamente rilevante solo perché è

"ingiusto" ex art. 2.043 cod. civ. 197.

Sulla scorta di queste considerazioni tutta la tradizionale elaborazione dottrinale è posta

dunque in discussione: ogni tipo di danno risulta stimabile patrimonialmente (sia esso

materiale o morale) e l'unico discrimen esistente fra le due fattispecie viene determinato

dal fatto che, mentre l'art. 2.059 cod. civ. opera solo in presenza ed in collegamento con

un fatto reato, viste anche le sue diverse funzioni 198 (c.d. tipicità del risarcimento non

patrimoniale), l'art. 2.043 cod. civ. opera ogni qual volta sia configurabile un danno

ingiusto, nel senso sopra ricordato.

Concludendo: questa nuova concezione sembra la migliore e quella in grado di

razionalizzare il sistema della responsabilità civile: atipicità e lettura costituzionale

dell'art. 2.043 cod. civ. con l'ampliamento del concetto di "patrimonialità" e tipicità,

collegata ai fatti - reati per l'art. 2.059 cod. civ.

Interpretazione questa che, in assenza di un intervento del nostro legislatore, può aiutare

i giudici a supplire alle nuove e più moderne esigenze della nostra società complessa ed

attribuire quindi quella tutela piena prevista dalla Costituzione alla famiglia (legittima,

naturale o di fatto che sia) ed ai suoi componenti.

5. Analisi delle proposte di legge sulla tutela delle convivenze more uxorio.

Partendo dal dato di fatto per il quale, ormai la famiglia di fatto ha assunto una

indiscutibile rilevanza giuridica, è necessario riassumere le posizioni della dottrina in

relazione alla necessità, o opportunità, di introdurre una disciplina normativa atta a

regolamentare tale fenomeno.

Un primo indirizzo tende a favorire un processo di amplia assimilazione tra la disciplina

normativa della famiglia legittima e l'auspicata regolamentazione della famiglia di fatto.

Alcuni autori come Prosperi 199 e Bile 200, ritengono applicabile a livello interpretativo,

lo strumento analogico, al punto da arrivare ad affermare che, o si estendono in via

197 Così in Franzoni, op. cit. a nota 166, p. 1.157. 198 Funzioni: punitiva, satisfattoria - consolativa, riparatoria. 199 F. Prosperi, op. cit. a nota 47, p. 198. 200 Bile op. cit. a nota 51, p. 90.

120

analogica alla famiglia di fatto le disposizioni per quella legittima, o nascerebbe una

incostituzionalità di dette norme per violazione dell'art. 3 Cost. (irragionevole disparità

di trattamento per situazioni sostanzialmente analoghe).

Nella stessa ottica, altri autori (es. Gandolfi 201) propongono che sia il legislatore a

compiere tale processo di assimilazione ricorrendo all'introduzione di una disciplina

organica della famiglia di fatto ricorrendo, quando possibile, al richiamo di norme già

previste per la famiglia legittima.

Abbiamo già dimostrato altrove 202 la fallacia di questa impostazione: sia la tutela

preferenziale dell'art. 29 Cost., sia il rispetto del principio di libertà dei partner,

spingono a rifiutare nel modo più assoluto questa impostazione.

Un secondo indirizzo (Gazzoni 203) avverte la necessità di differenziare profondamente

la famiglia di fatto, da quella legittima: questa è tipizzata e legale, quella essenzialmente

frutto dell'autonomia privata. Questa corrente propone di esaltare non l'intervento

legale, bensì l'autonomia privata: come scrisse E. Quadri "… intrinsecamente

contraddittorio, infatti, risulta ogni tentativo di estendere vincoli di tipo coniugale a chi

non abbia voluto, nell'esercizio della sfera di libertà riconosciutagli, far propri gli

affidamenti socialmente garantiti col matrimonio …" 204; anche perché, la

predisposizione di uno statuto minimo delle coppie conviventi, oltre a rischiare di

introdurre nell'ordinamento un "matrimonio di serie B", non tutelerebbe nemmeno il

convivente più debole. Per l'autore infatti, sussiste "… il timore che proprio una

legislazione del genere si ritorca, paradossalmente, contro la parte più debole, finendo

con l'incoraggiare la parte più forte ad imporre la continuazione del rapporto al di fuori

del vincolo matrimoniale, anche quando il matrimonio sarebbe, appunto, possibile onde

privare il partner delle ben maggiori garanzia di cui l'ordinamento continuerebbe,

comunque ed inevitabilmente alla luce dell'art. 29 Cost., a circondare il rapporto fondato

sul matrimonio".

In definitiva questa dottrina propone la valorizzazione dell'autonomia delle parti

attraverso l'incentivo all'utilizzo dell'art. 1.322 cod. civ., spingendo i conviventi alla

conclusione di convenzioni del tipo "matrimoniale" con un atto pubblico (proposta del

mondo del notariato). Anche il ricorso da parte della giurisprudenza a strumenti

201 Gandolfi, "Alcune considerazioni "de iure condendo" sulla famiglia naturale", in Foro it., 1974, V , c. 211, p. 222. 202 Vedi supra p. 63. 203 F. Gazzoni, op. cit. a nota 13, p. 68.

121

normativi desunti dal diritto comune, per assicurare ai partner un minimo di protezione,

viene visto con sfavore da questi autori, per il timore che tali strumenti possano essere

impiegati al perseguimento di fini (il controllo delle vicende familiari), contrastanti con

la insopprimibile esigenza di evitare ogni coartazione, anche indiretta, della volontà dei

conviventi.

Un terzo indirizzo, intermedio, viene prospettato da chi, come Roppo 205, pur ritenendo

la famiglia di fatto "quasi l'immagine speculare (di quella legittima), - rovesciata sì, ma

simmetrica", riconosce alla decisione dei conviventi di non legalizzare il proprio

rapporto, il valore di una positiva rivendicazione di libertà ed autonomia. Per l'autore in

questione occorrerebbe valutare comparativamente gli interessi in gioco e trovare un

punto di equilibrio fra "libertà" e "responsabilità" dei conviventi: la proposta che si

avanza è di introdurre uno "statuto delle coppie conviventi" ispirato ad un modello

normativo giusfamiliare, destinato ad assicurare alla famiglia di fatto un nucleo minimo

di giuridicità, al quale, per converso, sta tendendo anche il diritto di famiglia con la

progressiva valorizzazione dell'elemento volontaristico dei coniugi.

Tutte queste teorie vengono analizzate da Busnelli e Santilli 206 i quali sottolineano

come, per la prima impostazione, è indubbiamente importante responsabilizzare le

persone al fine di assicurare un minimum di livello etico e di conforto economico ad

ogni convivenza familiare, ma sembra eccessivo ricorrere all'assimilazione dell'unione

libera ad una categoria tipica, così da comprimere oltre ogni limite la stessa libertà

personale.

Così come viene criticato l'eccesso in un senso, anche la seconda teoria viene respinta:

l'incontrastato dominio dell'autonomia privata porterebbe davvero all'arbitrio del più

forte, concedendo al soggetto più debole solo la pretesa alla stipulazione di un atto

privato di regolamentazione e solo l'intervento del giudice, anche utilizzando i modelli

del diritto comune (ingiustificato arricchimento, obbligazione naturale ecc.),

riuscirebbe a garantire a questo quel minimo di tutela necessaria.

La tesi che viene appoggiata è quella che si basa sulla necessità di contemperare la

"libertà" e la "responsabilità" dei conviventi. Questo risultato non necessariamente deve

passare attraverso le "forche caudine" dell'intervento del legislatore: anche in sua

204 E. Quadri in "Rilevanza attuale della famiglia di fatto ed esigenze di regolamentazione", in Dir.di fam. e delle pers, 1994, I , p. 288. 205 E. Roppo op. cit. a nota 25, p. 747. 206 Busnelli e Santilli "Il problema della famiglia di fatto" in "Una legislazione per la famiglia di fatto ?", atti del convegno di Tor Vergata (Roma) del 1987, Napoli, 1988, p.95.

122

assenza una norma di diritto comune può consentire la formazione di regole

giurisprudenziali idonee ad attribuire alla famiglia di fatto una specifica rilevanza

"giusfamiliare". Per Busnelli e Santilli dunque, occorrerebbe demandare ai giudici il

compito di delineare un sistema di regole che potrà concedere alla famiglia di fatto una

"valenza giusfamiliare", senza cadere in apriorismi o forzature.

Questa conclusione non è del tutto condivisibile: si demanderebbe al giudice quel

compito di supplenza normativa e di fissazione di un sistema di regole, che invece è di

unica spettanza del legislatore. Questo non per sfiducia verso i giudici, che anzi, in più

occasioni hanno contribuito al mutamento e alla proposizione di nuovi sistemi

normativi, quanto per la necessità che una materia così delicata venga affrontata da

coloro che, unici legittimati dai cittadini, possano farsi carico delle nuove esigenze della

società moderna.

Per questo è, ad avviso di chi scrive, sempre più urgente un intervento del legislatore in

questo ambito: non con la creazione di un sistema, ma con la definizione di un certo

gruppo di norme precise e settoriali, in grado di risolvere tutti i grossi problemi che

abbiamo già affrontati nel corso di questo studio.

E' importante dunque analizzare i tre progetti di legge che, dal 1987, sono stati

presentati in Parlamento, sempre da forze di sinistra, per cercare di regolare in toto o in

parte, la famiglia di fatto. Di questi, i primi due, entrambi degli anni 1987-88, sono stati

parzialmente già superati dalla stessa Corte costituzionale e dal legislatore; il terzo, più

moderno, appare meglio in grado di risolvere puntualmente e senza problemi, alcune

questioni dibattute.

Vediamo in sintesi i primi due progetti, più datati, per poi analizzare nel dettaglio

l'ultimo.

Il primo progetto di legge, promosso dall'area comunista è quello del 9 ottobre 1987 207

(c.d. progetto Calvanese): esso si presenta come una serie di disposizioni settoriali, atte

a risolvere alcuni problemi scottanti, ma non si prefigge l'obbiettivo di costituire un

sistema organico, una disciplina compiuta della famiglia di fatto.

Certamente condivisibili sono quelle disposizioni che riconoscono i diritti della

convivente lavoratrice nell'impresa familiare (art. 14), diritti inviolabili non tanto della

convivente in quanto tale, bensì di ogni lavoratore ex artt. 36 e 36 Cost.; la tutela del

diritto all'abitazione (art. 16) con la possibilità per la convivente di succedere nel

207 Vedi il testo a p. 148.

123

contratto di locazione di immobili al posto del partner defunto (disposizione per altro

già superata con la sentenza n. 404 / 1988 della Corte costituzionale). Ancora

condivisibili sono l'estensione della non punibilità del convivente ex artt. 307 e 384 cod.

pen. già più volte oggetto di qq.ll.cc., mai accolte dalla Corte, ma solo per motivi di

carenza di potere; la facoltà di astensione dal deporre (art. 19), anch'essa superata dalla

formulazione del nuovo art. 199 cod. proc. pen. ed infine quelle disposizioni

sull'affidamento dei figli naturali (artt. 10 - 12) il cui unico neo è l'attribuzione della

competenza al tribunale dei minorenni, piuttosto che a quello ordinario.

Totalmente da respingere è invece l'art. 13 che attribuisce il potere al giudice di

sciogliere il patrimonio familiare: disposizione che vincolerebbe i conviventi ancor più

degli stessi coniugi.

Qualche mese più tardi ecco presentata invece una disciplina organica della famiglia di

fatto: è la proposta 12 febbraio 1988 208(c.d. Cappiello) di provenienza socialista.

Questa proposta parte dalla definizione (art. 1) dei rapporti giuridici fra conviventi,

affermando che "I rapporti fra due persone legate da comunione di vita materiale e

spirituale perdurante da almeno tre anni e risultante da iscrizione anagrafica o da atto

pubblico, sono regolati dalle disposizioni di cui alla presente legge ... In presenza di

figli dette disposizioni si applicano indipendentemente dalla durata della convivenza

…". Si vuole quindi definire in positivo le situazioni disciplinate dalla legge, ma tale

definizione è criticabile per almeno due motivi: in primo luogo perché la convivenza

more uxorio deve essere provata con ogni mezzo e non necessariamente attraverso una

certificazione anagrafica; in secondo luogo perché questa legge potrebbe

tranquillamente indirizzarsi anche alle coppie omosessuali, che, come abbiamo già

visto, si esclude possano dare origine ad "una famiglia di fatto" 209.

Passando ora a vedere come si affrontano i problemi patrimoniali, notiamo che la

proposta di legge prevede l'obbligo degli alimenti (art. 3) annoverando il convivente fra

gli obbligati ex art. 433 cod. civ. Tale disposizione suscita qualche perplessità perché

sembra ".. l'introduzione di una brutta copia della separazione …" 210; piuttosto che

realizzare un piccolo divorzio si poteva pensare, come suggerisce M. Dogliotti, alla

possibilità per il convivente più debole economicamente di ricevere una "buona uscita",

208 Vedi il testo a p. 154. 209 Si vedano le considerazioni svolte al capitolo I, pp. 2 e segg. 210 Così per M. Dogliotti in "Due progetti di legge per la famiglia di fatto" in Giut. civ., 1989, II , p. 328.

124

una somma una tantum determinata sulla base della sproporzione dei redditi, della

durata della convivenza, della presenza di figli ecc.

Non solo: l'art. 4 prevede la possibilità per i partner di disciplinare liberamente i propri

rapporti patrimoniali, assoggettando all'imposta di registro i diversi beni da loro

acquistati. L'art. 5 ribadisce l'inserimento del convivente fra i familiari che partecipano

agli utili dell'impresa familiare ex art. 230-bis cod. civ. e l'art. 6 attribuisce al

convivente come nel precedente progetto di legge, il diritto di successione nel contratto

di locazione di immobili urbani. Disposizioni queste, tutte condivisibili.

L'art. 7 introduce un elemento nuovo: fissa il principio per cui, in caso di uccisione del

partner, il convivente superstite può chiedere al giudice che venga posto a carico degli

eredi, cui è stato liquidato il risarcimento del danno, un assegno periodico o in un'unica

soluzione in relazione all'entità del risarcimento, alla durata della convivenza, ai bisogni

del beneficiario. Questa formulazione è evidentemente il frutto di un compromesso tra

coloro che non ritenevano sussistente un diritto iure proprio al risarcimento in capo al

convivente e i loro antagonisti: da tutte le considerazioni svolte in precedenza è ovvio

criticare tale scelta, in quanto il diritto al risarcimento si ritiene sussistente iure proprio

in capo al convivente superstite e non si comprende la soluzione intricata qui proposta.

Per quanto concerne la problematica dell'affidamento dei figli è da riscontrare la

proposta di attribuire la competenza al tribunale ordinario (art. 9), proposta da

accogliere vista la rapidità e la maggior competenza di questo rispetto a quello dei

minorenni.

Più difficili da giudicare sono altre disposizioni: l'art. 10 che fissa i provvedimenti

relativi alla cessazione della convivenza, stabilendo l'obbligo alimentare quantificato dal

giudice secondo le disposizioni del codice civile; soluzione questa comprensibile dal

punto di vista della giustizia sostanziale, ma che mal si addice con la natura stessa della

famiglia di fatto.

Interessante è il principio dell'art. 11 relativo alla prova dei beni mobili acquistati nel

corso della convivenza: ciascuno può provare con ogni mezzo la propria titolarità

esclusiva, ma in caso contrario, si ritengono di proprietà indivisa pari quota (è un

parallelismo con la disciplina della comunione dei beni nella famiglia legittima, con la

rilevante differenza che in questa, la comunione è la regola, in quella è giustamente la

titolarità individuale).

125

Fortemente criticabili sono sia l'art. 12, che il 13 che estendono i reati di violazione

degli obblighi di assistenza familiare e di maltrattamenti in famiglia al convivente:

disposizioni queste criticabili non tanto dal punto di vista sostanziale, quanto perché

introdurrebbero un controllo pregnante del giudice nel rapporto e che fra l'altro, si

pongono contro la tendenza volta alla soppressione di questi reati, visto che essi

impedirebbero al reo di sottrarsi ad altri, ben più gravi.

Condivisibili invece sono l'inserimento fra i prossimi congiunti ex art. 307 cod. pen. del

convivente e l'estensione della non punibilità allo stesso ex art. 649 cod. pen.

In sintesi questo secondo progetto, con la sua disciplina così penetrante, andrebbe un po'

mitigato e rivolto verso un insieme di disposizioni più simile al primo progetto;

impostazione questa seguita dall'ultimo dei tre progetti, quello n. 682 c.d. Sbarbati del

10 maggio 1996 211.

Esso esordisce definendo il rapporto preso in considerazione dalla legge come: "La

convivenza non occasionale di due persone di sesso diverso che abbiano comunione di

vita materiale e spirituale, a condizione che entrambi non abbiano in corso vincolo

matrimoniale o siano separati legalmente … ": già l'art. 1 dunque è significativo. In

primo luogo perché attribuisce una rilevanza specifica ad un ben determinato rapporto,

specificando la necessità che a costituirlo siano persone di sesso diverso e non

attribuendo una rilevanza fondamentale alla certificazione anagrafica (di cui all'art. 2).

Soluzione questa pienamente condivisibile, in grado di espungere dalla tutela legislativa

tutte quelle convivenze contra legem e tutti quei rapporti (di amicizia o altro) non

qualificabili come "famiglia di fatto". L'art. 3 si occupa dei rapporti patrimoniali

sancendo lapidariamente, ma efficacemente che "I conviventi more uxorio regolano

liberamente i rapporti patrimoniali tra loro": massima libertà secondo il principio di

autonomia negoziale, che sta alla base della stessa famiglia di fatto.

Gli artt. 4 e 5 riprendono ancora le problematiche già presenti nei due testi precedenti e

riguardanti l'impresa familiare e la successione nella locazione. Di estremo interesse è

l'art. 6 laddove afferma che:

211 Progetto presentato dall'onorevole Luciana Sbarbati del Gruppo Misto alla Camera dei deputati il 10 maggio 1996 nominato "Disciplina della convivenza more uxorio". Il 10 febbraio 1998 è stato assegnato in prima lettura alla II Commissione Giustizia in sede referente. Si veda il sito web: www.camera.it/camera/aula/leg13/lavori/schedela/0682.htm (scaricato il 28 gennaio 1999). Il testo è a p. 160.

126

1. Spetta al convivente more uxorio il diritto al risarcimento del danno derivato da

fatto illecito che determini la morte dell'altro convivente, in concorso con gli altri

eredi.

2. La quota spettante al convivente more uxorio è determinata dal giudice in relazione

all'entità del risarcimento, alla durata della convivenza, ai bisogni dei beneficiari.

Con questa disposizione da una parte, si riconosce il diritto al risarcimento iure proprio

per il convivente, abbracciando le nuove teoriche dottrinali sull'argomento, dall'altra

parte si sancisce il principio del concorso con gli eredi: famiglia di fatto e legittima

vengono per la prima volta tutelate in quanto tali e non in quanto "diritti di credito".

Di straordinaria importanza è anche l'art. 7 laddove si occupa dell'attribuzione di diritti

successori al convivente, che sappiamo allo stato attuale, totalmente ed unanimemente

negati: esso recita:

"Art. 551-bis (Diritti del convivente more uxorio) - Quando la convivenza more uxorio

abbia avuto la durata di almeno tre anni, il convivente superstite ha diritto di abitazione

della casa adibita a residenza dei conviventi more uxorio e di uso dei mobili che la

corredano se di proprietà del defunto o comuni. Tali diritti gravano sulla porzione

disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, per il rimanente, sulla quota di riserva.

E' facoltà degli eredi soddisfare le ragioni del convivente more uxorio mediante la

corresponsione di una rendita vitalizia oppure mediante l'assegnazione di un capitale da

determinarsi di comune accordo o in mancanza dal giudice, avuto riguardo alle

circostanze del caso.

Fino a che non sia soddisfatto delle sue ragioni il convivente superstite conserva i propri

diritti di uso e di abitazione".

Questa disposizione garantirebbe effettivamente la prosecuzione di quel sentimento

familiare, che si era instaurato fino alla morte del convivente, senza peraltro intaccare le

ragioni degli eredi: abitare la casa "familiare", utilizzarne gli arredi fino alla

corresponsione di "una buona uscita" mi pare la garanzia minima a favore di un

soggetto che, in vita, si è dedicato totalmente all'altro. Giustizia sostanziale e formale,

con questa disposizione, andrebbero davvero "a braccetto": si tutelerebbe effettivamente

il rapporto anche a discapito di lontane parentele o famiglie legittime passate, che

riappaiono miracolosamente soltanto al momento della suddivisione del patrimonio del

defunto !

127

Qualche dubbio può sussistere sul criterio dei tre anni di convivenza, ma è superabile

comprendendone la ratio: è il medesimo termine per poter ottenere il divorzio, dopo la

separazione. E' un termine posto appunto in parallelo al fine di dare una prevalenza ad

un rapporto di fatto, sulla contestuale perdita dei diritti con il divorzio.

Sono da ripetersi gli apprezzamenti e le perplessità già formulate in precedenza per

quanto concerne l'articolo 8, che annovera tra i soggetti passivi del reato di

maltrattamenti in famiglia, il convivente: certo è che, se non si intende abrogare tale

disposizione, è sicuramente almeno da inserire nel suo campo di applicazione anche il

familiare di fatto. Da accogliere infine gli articoli 9 (inserimento nell'art. 307 cod. pen.

del convivente), 10 (estensione della scriminante di cui all'art. 649 cod. pen.) e 11, sulla

competenza del tribunale sull'affidamento dei figli.

Concludendo quindi questa panoramica de iure condendo non si possono che trarre

alcune considerazioni: nell'arco di meno di dieci anni ben tre proposte di legge sono

state avanzate e questo è il chiaro sintomo della rilevanza sociale e giuridica che la

famiglia di fatto va assumendo.

La necessità di tutelare il sentimento familiare, al di là della sua veste formale, è

un'esigenza primaria insita tra i principi fondamentali del nostro ordinamento ed alla

quale occorre dare una pronta attuazione. Questa materia però è troppo delicata per

essere abbandonata al coraggio dei giudici: troppe volte essi si sono dovuti sobbarcare il

triste compito di sostituire l'ignavia del legislatore che, solo dopo molto tempo, si è

prodigato per "tamponare" le innovazioni introdotte da questi. Si sa che ogni qual volta

in Italia si vadano a porre in discussione i valori della persona, della famiglia, del

matrimonio, una fortissima componente della società si solleva indignata, ma il nostro

ordinamento è prima di tutto laico e democratico: piaccia o pure no, così è. Speriamo

che non si dovrà ricorrere a qualche altro tipo di referendum per sancire l'esistenza della

famiglia di fatto (così come è accaduto per il divorzio o per l'interruzione di

gravidanza).

Guardiamoci intorno, non siamo entrati nella tanto decantata Europa ? Cosa accade in

Svezia, Norvegia, Inghilterra ed in molte altri parti ancora ? La convivenza è tutelata

esplicitamente dalla legge, è un modo di vivere della società moderna che, a parte la

condivisione morale o meno, si sta diffondendo sempre più: perché paradossalmente,

solo adesso il matrimonio viene visto davvero come il coronamento di un sogno

d'Amore e non più come "sistemazione per il futuro", perché anche le donne sono più

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autonome ed indipendenti anche economicamente, perché è l'individualismo ora a

predominare … Per tutta una serie di ragioni la società è cambiata ed è alla ricerca di

nuovi equilibri.

Il diritto non può fare come lo struzzo, deve adeguarsi e regolamentare le nuove

esigenze: quando fra vent'anni sarà forse "normale" sposarsi fra omosessuali, dovremo

forse dire che è morta tutta la società ? No, che è solo cambiata. Ci saranno coloro che

ancora preferiranno il matrimonio eterosessuale, coloro che avranno dei figli in vitro,

quelli che si uniranno "virtualmente" e chissà altro ancora.

Forse si ritornerà invece a qualche decennio fa: magari saranno gli uomini a stare i casa

a fare i "casalinghi", chi lo può sapere … L'importante è che, nell'attuale situazione

sociale, il fenomeno familiare è ancora visto come elemento fondamentale e come

proiezione esterna di un diritto inviolabile dell'uomo, quello di formarsi un proprio

nucleo affettivo: come tale è uno dei pilastri su cui si pone l'intero nostro ordinamento,

dalla Costituzione a tutto il resto. Non ci si può nascondere dietro ad un paramento

formale, ad un "contratto": è giunta l'ora di attribuire alla famiglia la tutela che le si

addice.

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CAPITOLO IV°

DOCUMENTI ALLEGATI

A) Proposta di legge presentata il 9 ottobre 1987 alla Camera dei deputati (c.d. proposta Calvanese).

ART. 1 (Modifica alla norma concernente il cognome della famiglia)

1. L'articolo 143-bis del codice civile è sostituito dal seguente: "ART. 143-bis. - (Cognome della famiglia). - I coniugi conservano il proprio cognome. All'atto del matrimonio i coniugi di comune accordo dichiarano il cognome che assumeranno i figli. Il cognome scelto, sarà assunto da tutti i figli".

ART. 2 (Abrogazione delle norme concernenti il cognome della moglie)

1. L'articolo 156-bis del codice civile e l'articolo 9 della legge 6 marzo 1987, n. 74, sono abrogati.

ART. 3 (Cognome del figlio naturale)

1. L'articolo 262 del codice civile, come modificato dall'articolo 111 della legge 19 maggio 1975, n. 151, è sostituito dal seguente: "ART. 262. - (Cognome del figlio). - Il figlio naturale assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, il figlio naturale assume il cognome che i genitori stabiliscono. La facoltà di scelta del cognome deve essere esercitata congiuntamente e contestualmente dai genitori, con dichiarazione resa all'atto del riconoscimento del figlio naturale. In mancanza di accordo tra i genitori il giudice decide circa l'assunzione del cognome, dando preferenza al cognome del genitore cui il bambino è affidato. Se la filiazione nei confronti di uno dei genitori è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte dell'altro genitore, il figlio naturale può assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto successivamente se il genitore che per primo lo ha riconosciuto vi consente. In mancanza di consenso il figlio mantiene il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Nel caso di riconoscimento di figlio maggiore degli anni 16, il cognome è scelto dal figlio".

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ART. 4 (Abrogazione dell'addebito nella separazione)

1. Il secondo comma dell'articolo 151 del codice civile, come modificato dall'articolo 33 della legge 19 maggio 1975, n. 151, è abrogato. 2. Il primo comma dell'articolo 156 del codice civile è così modificato: "Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge che non abbia adeguati redditi propri il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento".

ART. 5 (Abrogazione della norma di riserva a favore

del coniuge separato) 1. L'articolo 548 del codice civile, come modificato dall'articolo 182 della legge 19 maggio 1975, n. 151, è abrogato.

ART. 6 (Successione del coniuge separato)

1. L'articolo 585 del codice civile, come modificato dall'articolo 193 della legge 19 maggio 1975, n. 151, è sostituito dal seguente: "ART. 585 - (Successione del coniuge separato). Il coniuge separato ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato".

ART. 7 (Modifica della norma concernente la paternità del marito)

1. All'articolo 231 del codice civile sono aggiunti i seguenti commi: "La moglie può dichiarare all'ufficiale di stato civile che il figlio non è del marito. La dichiarazione di cui al comma precedente, può essere resa all'atto della dichiarazione di nascita o prima del parto. In presenza di tale dichiarazione il figlio assume lo stato di figlio naturale. Il marito può promuovere azione di riconoscimento della paternità nel termine di 6 mesi dalla nascita del bambino. Se egli prova di non avere avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia. Il bambino viene registrato come figlio dei genitori che lo riconoscono. È fatto obbligo all'ufficiale di stato civile di recarsi, qualora la donna ne faccia richiesta, nell'ospedale o nel luogo dove è avvenuto il parto per ricevere la dichiarazione di cui al secondo comma del presente articolo. Tale obbligo opera anche per la dichiarazione di riconoscimento del figlio naturale".

ART. 8 (Disconoscimento di paternità)

1. Il secondo comma dell'articolo 235 del codice civile, come modificato dell'articolo 93 della legge 19 maggio 1975, n. 151, è abrogato.

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ART. 9 {Modifica dei termini dell'azione di disconoscimento)

1. Il secondo comma dell'articolo 244 del codice civile, come da ultimo modificato dall'articolo 78 della legge 4 maggio 1983, n. 184, è sostituito dal seguente: "Il marito può disconoscere il figlio nel termine di sei mesi, dal giorno della nascita, quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; dal giorno del suo ritorno nel luogo in cui è nato il figlio o in cui è la residenza familiare se egli ne era lontano. In ogni caso, se egli prova di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuta notizia".

ART. 10 (Affidamento dei figli naturali)

1. In caso di cessazione della convivenza i genitori possono rivolgersi al giudice per l'affidamento dei figli naturali. 2. Il giudice si pronunzia ai sensi dell'articolo 155 del codice civile, come sostituito dall'articolo 36 della legge 19 maggio 1975, n. 151, e limitatamente all'assegno di mantenimento per i figli, ai sensi dei commi 4, 5, 6 e 7 dell'articolo 156 del codice civile, come sostituito dall'articolo 37 della legge 19 maggio 1975, n. 151. 3. Ai fini della corresponsione dell'assegno di mantenimento per i figli, il genitore può chiedere al giudice l'applicazione delle procedure di cui all'articolo 12 della legge 6 marzo 1987, n. 74.

ART. 11 (Competenza del tribunale dei minorenni)

Il giudice competente per le disposizioni di cui all'articolo 3, e all'articolo l0 della presente legge è il tribunale dei minorenni.

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ART. 12 (Riserva a favore dei figli legittimi e naturali)

1. Il terzo comma dell'articolo 537 del codice civile, come sostituito dall'articolo 173 della legge 19 maggio 1975, n. 151, è abrogato.

ART. 13 (Patrimonio della famiglia di fatto)

1. I conviventi more uxorio possono rivolgersi al giudice per chiedere la divisione del patrimonio costituito durante la convivenza. 2. Il giudice valuta, indipendentemente dalla titolarità o dal possesso dei beni, la consistenza del patrimonio costituito dai conviventi con apporti di lavoro professionale, o casalingo, ai sensi degli articoli 177, 178 e 179 del codice civile, come sostituiti rispettivamente dagli articoli 56, 57 e 58 della legge 19 maggio 1975, n. 151. 3. Il giudice procede alla divisione del patrimonio ai sensi dell'articolo 194 del codice civile, come sostituito dall'articolo 73 della legge 19 maggio 1975, n. 151.

ART. 14 (Impresa familiare)

1. All'articolo 230-bis del codice civile aggiungere in fine il seguente comma: "Ciascuno dei conviventi more uxorio che abbia prestato attività lavorativa continuativa nell'impresa di cui sia titolare l'altro convivente, può rivolgersi al giudice per chiedere il riconoscimento della partecipazione agli utili dell'impresa. Il giudice si pronunzierà ai sensi dei commi primo e secondo del presente articolo".

ART. 15 (Facoltà per i conviventi di escludere il regime di comunione e la costituzione di

impresa familiare) 1. Le disposizioni di cui agli articoli 13 e 14 della presente legge non si applicano se i conviventi concordano su ciò con atto pubblico di cui all'articolo 2699 del codice civile.

ART. 16 (Locazione di immobili)

1. Il primo comma dell'articolo 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, è sostituito dal seguente: "In caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, il convivente more uxorio, gli eredi, i parenti e affini con lui abitualmente conviventi". 2. All'articolo 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, è aggiunto in fine il seguente comma: "Al conduttore succede il convivente more uxorio se tra i due così si è convenuto". 3. Ai fini dell'applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo, la convivenza more uxorio è provata dal certificato di stato di famiglia, in mancanza deve essere comunicata dal conduttore almeno 6 mesi prima del fatto da cui consegue la successione nel contratto di locazione.

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ART. 17 (Estensione della non punibilità di cui

all'articolo 307 del codice penale) 1. Il terzo comma dell'articolo 307 del codice penale è sostituito dal seguente: "Non è punibile chi commette il fatto in favore di un prossimo congiunto o del convivente more uxorio".

ART. 18 (Estensione della non punibilità di cui all'articolo 384 del

codice penale) 1. Il primo comma dell'articolo 384 del codice penale è sostituito dal seguente; "Nei casi preveduti dagli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 372, 373, 374 e 378, non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo, un prossimo congiunto ed il convivente more uxorio da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà e nell'onore".

ART. 19 (Astensione dal deporre)

1. Il primo comma dell'articolo 350 del codice di procedura penale è sostituito dal seguente: "I prossimi congiunti o il convivente more uxorio dell'imputato o di uno dei coimputati del medesimo reato, possono astenersi dal deporre".

ART. 20 (Certificazioni anagrafiche)

1. Le certificazioni anagrafiche devono garantire il rispetto della dignità della famiglia di fatto e non possono costituire un elemento di discriminazione tra le famiglie comunque costituite.

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ART. 21 (Esenzione di imposta)

1. Tutti gli atti, documenti ed i provvedimenti relativi ai procedimenti derivanti dall'applicazione della presente legge sono esenti dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa, per chi ha un reddito imponibile individuale inferiore ai 10 milioni annui.

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B) Proposta di legge presentata il 12 febbraio 1988 alla Camera dei Deputati (c.d. Cappiello).

ART. 1 (Rapporti giuridici fra conviventi)

1. I rapporti fra due persone legate da comunione di vita materiale e spirituale perdurante da almeno tre anni e risultante da iscrizione anagrafica o da atto pubblico, sono regolati dalle disposizioni di cui alla presente legge. 2. In presenza di figli dette disposizioni si applicano indipendentemente dalla durata della convivenza. 3. Entrambi i conviventi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia di fatto.

ART. 2 (Iscrizione anagrafica)

I. A seguito di dichiarazione di convivenza avanti l'ufficiale di stato civile del comune di residenza, posta in essere dalle parti, il comune provvede, su richiesta, al rilascio di certificato di stato di famiglia che attesta il rapporto di convivenza. 2. In presenza di figli riconosciuti da conviventi, nella certificazione anagrafica oltre allo stato di convivenza devono essere indicate le dizioni "padre" e "madre".

ART. 3 (Obbligazione alimentare)

1. Dopo il n.2 del primo comma dell'articolo 433 del codice civile, come sostituito dall'articolo 168 del la legge 19 maggio 1975, n. 151, è aggiunto il seguente: "2-bis) il convivente".

ART. 4 (Regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra conviventi)

1. Gli accordi stipulati fra conviventi ai fini di regolamentare i rapporti patrimoniali o di sottoporre a regime di comunione i beni acquistati insieme o separatamente sono assoggettati: a) se aventi per oggetto beni immobili o mobili registrati, all'imposta di registro dovuta ai sensi del testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131; b) se aventi per oggetto beni mobili, all'imposta di registro solo in caso di uso e in misura fissa, analogamente a quanto disposto dalla lettera f) dell'articolo 8 della parte I della tariffa allegata al citato testo unico n. 131 del 1986.

ART. 5

(Impresa familiare) 1. Il terzo comma dell'articolo 230-bis del codice civile introdotto con l'articolo 89 della legge 19 maggio 1975, n. 151, è sostituito dal seguente:

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"Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, il convivente, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, il convivente, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo".

ART. 6 (Successione nel contratto di locazione)

1. Il primo comma dell'articolo 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, è sostituito dal seguente: "In caso di morte del conduttore gli succedono nel contratto il coniuge, il convivente, gli eredi ed i parenti e gli affini con lui abitualmente conviventi".

ART. 7 (Risarcimento del danno causato dal fatto illecito

da cui è derivata la morte del convivente) 1. In caso di decesso del convivente, derivante da fatto illecito, il giudice, su richiesta dell'altro convivente, può porre a carico degli eredi cui è stato liquidato il risarcimento del danno, un assegno periodico o in un'unica soluzione a favore del richiedente, in relazione all'entità del risarcimento, alla durata della convivenza, ai bisogni del beneficiario.

ART. 8 (Provvedimenti relativi all'affidamento dei figli

in caso di cessazione della convivenza)

1. In caso di cessazione della convivenza o di volontà di una delle parti di far venir meno il rapporto di convivenza, le parti possono rivolgersi al giudice al fine di ottenere l'affidamento dei figli minori e la determinazione di un assegno quale contributo per il loro mantenimento a carico del genitore non affidatario, secondo il disposto dell'articolo 155 del codice civile, come sostituito dall'articolo 36 della legge 19 maggio 1975, n. 151. 2. L'abitazione della casa familiare spetta di preferenza al convivente a cui vengono affidati i figli o con il quale i figli maggiorenni convivono. 3. Il giudice si pronuncia altresì, ad istanza della parte, ai sensi dei commi 4, 5, 6 e 7 dell'articolo 156 del codice civile, come sostituiti dall'articolo 37 della legge 19 maggio 1975, n. 151.

ART. 9 (Competenza del giudice ordinario)

1. A parziale modifica dell'articolo 38 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile, approvate con regio decreto 30 marzo 1942, n. 318, e successive modificazioni e integrazioni, i provvedimenti contemplati dall'articolo 317-bis del codice civile e tutti i provvedimenti relativi ai figli naturali, e all'articolo 8, sono di competenza del giudice ordinario.

ART. 10 (Provvedimenti relativi ai conviventi in caso di cessazione della convivenza)

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1. In caso di cessazione della convivenza il convivente che si trova in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, ha diritto nei confronti dell'altro agli alimenti. IL giudice si pronuncia sull'entità e la durata di tale somministrazione tenuto conto del periodo di convivenza, dello stato di bisogno, dei redditi dell'obbligato. 2. Alla fattispecie di cui al comma 1 si applicano le disposizioni del Titolo XIII del libro I del codice civile come modificato dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, e il quarto, il quinto. il sesto e il settimo comma dell'articolo 156 del codice civile, come sostituiti dall'articolo 37 della legge 19 maggio 1975, n. 151.

ART. 11 (Prova della proprietà dei beni mobili acquistati

nel corso della convivenza) 1. Il convivente può provare con ogni mezzo nei confronti dell'altro la proprietà esclusiva di un bene. 2. I beni acquistati nel corso della convivenza e di cui nessuno dei conviventi può dimostrare la proprietà esclusiva, sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi.

ART. 12 (Violazione degli obblighi di assistenza familiare)

1. Il primo comma dell'articolo 570 del codice penale è sostituito dal seguente: "Chiunque, abbandonando il domicilio domestico o comunque serbando una condotta contraria all'ordine o alla morale della famiglia, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori, o alla qualità di coniuge o di convivente, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da lire duecentomila a due milioni"; 2. Il n.2) del secondo comma dell'articolo 570 del codice penale è sostituito dal seguente: "2) - fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minori, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge il quale non sia legalmente separato per sua colpa, o al convivente".

ART. 13 (Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli)

1. Il primo comma dell'articolo 572 del codice penale è sostituito dal seguente: «Chiunque fuori dei casi indicati nell'articolo 571 maltratta una persona della famiglia ivi compreso il convivente, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni».

ART. 14

(Estensione della definizione di prossimi congiunti)

1. Il quarto comma dell'articolo 307 del codice penale è sostituito dal seguente: "Agli effetti della legge penale, si intendono per prossimi congiunti gli

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ascendenti, i discendenti, il coniuge, il convivente, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti. Nondimeno nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole".

ART. 15 (Estensione dei casi di non punibilità

di cui all'articolo 649 del codice penale) 1. Dopo il numero 3 del primo comma dell'articolo 649 del codice penale è aggiunto il seguente:

"3-bis) del convivente".

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C) Proposta di legge presentata il 10 maggio 1996 alla Camera dei Deputati (c.d. Sbarbati).

Onorevoli Colleghi! - E' sentita da più parti l'esigenza di una compiuta disciplina legislativa di quel fenomeno, in rapida espansione, definibile come "famiglia di fatto", che fornisca tutela giuridica agli effetti di una forma di convivenza non corrispondente al matrimonio di tipo "classico", e mantenga salvo anche in questo tipo di convivenza il principio di parità giuridica riconosciuto nel matrimonio e tutelato costituzionalmente.

La convivenza more uxorio, fenomeno rilevato dall'ISTAT in una percentuale di circa l'1,3 per cento delle famiglie, con punte del 4,6 per cento localizzate nei grandi comuni del nord, risulta crescere in misura rilevante, con una stratificazione sociale estremamente diversificata anche per età.

Convivono more uxorio giovani che per libera scelta rifiutano il matrimonio; anziani che trovano nella convivenza una occasione di solidarietà ed assistenza priva di legami formali, ai quali non hanno più interesse anche per mancanza di concrete prospettive nella filiazione; coniugi separati, costretti a tale scelta nelle more della sentenza di divorzio; divorziati, che non intendono ripetere l'esperienza del matrimonio.

Attualmente la legge si occupa del fenomeno in argomento solo con riferimento allo status giuridico dei figli generati da conviventi, e che vengono equiparati ai figli legittimi, se riconosciuti. Sussistono tuttavia ancora disparità di trattamento, ad esempio nel diritto successorio.

La giurisprudenza costante della Cassazione (si vedano la sentenza n.60 del 15 gennaio 1969, e altre successive) si è interessata al problema riconoscendo la figura del convivente more uxorio, in occasione della individuazione della natura giuridica dell'adempimento in favore del convivente, al quale si è riconosciuto carattere di obbligazione naturale, quindi non ripetibile.

L'esigenza di non ledere la libertà di scelta di chi intende costituire un rapporto di coppia alternativo a quello matrimoniale potrebbe consigliare a non introdurre modifiche all'attuale ordinamento; la rilevanza però degli effetti economici derivanti dai rapporti di convivenza e la necessità di tutelare il convivente economicamente più debole hanno indotto invece a regolamentare le singole situazioni con il riconoscimento giuridico della convivenza more uxorio senza giungere ad una vera e propria istituzionalizzazione della stessa.

L'articolo 1 definisce rilevante la convivenza non occasionale, che abbia quindi un minimo di costanza, tra due persone di sesso diverso.

L'articolo 2 introduce formalità anagrafiche, alle quali corrispondono modifiche all'articolo 89 dell'ordinamento dello stato civile, contenute nell'articolo 12.

Nel prevedere il contenuto della dichiarazione di convivenza da rendere all'ufficiale di stato civile si è voluta limitare la formalità al minimo indispensabile per l'applicazione della legge, con il fine di evitare situazioni di incertezza, anche a tutela dei diritti dei terzi (locatore, erede, figli, eccetera).

La difficoltà di prevedere un regime patrimoniale tipico e generale per la famiglia di fatto è stata risolta lasciando piena libertà di scelta ai conviventi, sia per non creare sovrapposizioni con l'istituto del matrimonio, sia per non istituzionalizzare tali rapporti oltre i limiti determinati dalla rilevanza economica e sociale dei rapporti di convivenza. Lo stesso principio ha suggerito la formulazione dell'articolo 4 (impresa familiare), che

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aggiunge il convivente more uxorio tra i beneficiari dell'impresa familiare (articolo 230-bis del codice civile), e dell'articolo 5 (successione nel contratto di locazione), che modifica l'articolo 6 della legge 27 luglio 1978, n.392, prevedendo anche a tutela del locatore che la situazione di convivenza more uxorio sia stata resa nota allo stesso locatore.

Altrettanto opportuno si è ritenuto attribuire al convivente, se la convivenza more uxorio abbia avuto durata di almeno tre anni, diritti successori che lo tutelino dalle conseguenze più gravose, stabilendo in suo favore il diritto di abitazione della casa adibita a residenza e l'uso dei mobili che la corredano se di proprietà del defunto o comuni. L'articolo 8 doverosamente inserisce il convivente more uxorio tra le vittime del reato di maltrattamenti in famiglia; analogamente si è proceduto con l'articolo 9, che estende la definizione di prossimi congiunti di cui all'articolo 307 del codice penale, e con l'articolo 10 che estende i casi di non punibilità di cui all'articolo 649 dello stesso codice. In relazione all'affidamento dei figli si è ritenuto di poter confermare anche per i provvedimenti conseguenti alla cessazione della convivenza more uxorio l'attuale normativa in vigore; si è però voluta espressamente precisare la competenza del tribunale, attribuita ai sensi dell'articolo 155 del codice civile, in virtù dei buoni risultati di tale soluzione già adottata per altre casistiche affini.

Si è poi ritenuto necessario, con l'articolo 12, aggiornare l'articolo 89 del regio decreto 9 luglio 1939, n.1238, con l'inserimento della dichiarazione di convivenza more uxorio tra le annotazioni da apportare nell'atto di nascita.

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ART. 1. (Rilevanza della convivenza more uxorio)

La convivenza non occasionale di due persone di sesso diverso che abbiano comunione di vita materiale e spirituale, a condizione che entrambi non abbiano in corso vincolo matrimoniale o siano separati legalmente, è regolata dalle disposizioni della presente legge.

ART. 2.

(Iscrizione nei registri dello stato civile).

1. A richiesta dei conviventi, con dichiarazione rilasciata da entrambe le parti, l'ufficiale di stato civile del comune di residenza provvede all'iscrizione anagrafica del rapporto di convivenza more uxorio. 2. La dichiarazione di convivenza more uxorio deve confermare la sussistenza di tutti gli elementi di cui all'articolo 1.

3. Nel caso di dichiarazione della cessazione della convivenza more uxorio resa da una delle parti, l'ufficiale dello stato civile deve notificare copia della suddetta dichiarazione all'altro convivente entro venti giorni.

4. L'ufficiale dello stato civile che rifiuti di ricevere la dichiarazione di cui ai commi 2 e 3, deve rilasciare un certificato con la indicazione dei motivi.

ART. 3.

(Rapporti patrimoniali tra i conviventi).

I conviventi more uxorio regolano liberamente i rapporti patrimoniali tra loro.

ART. 4.

(Impresa familiare)

Il terzo comma dell'articolo 230-bis del codice civile è sostituito dal seguente:

"Ai fini delle disposizioni di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, il convivente more uxorio, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, il convivente more uxorio, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo".

ART. 5.

(Successione nel contratto di locazione)

1. L'articolo 6 della legge 27 luglio 1978, n.392, è sostituito dal seguente:

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"Art. 6. (Successione nel contratto)- 1. In caso di morte del conduttore gli succedono nel contratto il coniuge, il convivente more uxorio, gli eredi ed i parenti e gli affini con lui abitualmente conviventi. 2. In caso di separazione giudiziale, di scioglimento del matrimonio, o di cessazione degli effetti civili dello stesso, nel contratto di locazione succede al conduttore l'altro coniuge, se il diritto di abitare nella casa familiare sia attribuito dal giudice a quest'ultimo.

3. In casi di separazione consensuale o di nullità matrimoniale al conduttore succede l'altro coniuge se tra i due si sia così convenuto.

4. In caso di cessazione della convivenza more uxorio il convivente ha diritto di succedere nel contratto di locazione a condizione che sia stata comunicata al locatore la situazione di convivenza more uxorio esistente ai sensi di legge".

ART. 6.

(Risarcimento del danno)

1. Spetta al convivente more uxorio il diritto al risarcimento del danno derivato da fatto illecito che determini la morte dell'altro convivente, in concorso con gli altri eredi.

2. La quota spettante al convivente more uxorio è determinata dal giudice in relazione all'entità del risarcimento, alla durata della convivenza, ai bisogni dei beneficiari.

ART. 7. (Diritti successori del convivente more uxorio)

1. Dopo l'articolo 551 del codice civile è inserito il seguente:

"Art. 551-bis (Diritti del convivente more uxorio) - Quando la convivenza more uxorio abbia avuto la durata di almeno tre anni, il convivente superstite ha diritto di abitazione della casa adibita a residenza dei conviventi more uxorio e di uso dei mobili che la corredano se di proprietà del defunto o comuni. Tali diritti gravano sulla porzione disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, per il rimanente, sulla quota di riserva.

E' facoltà degli eredi soddisfare le ragioni del convivente more uxorio mediante la corresponsione di una rendita vitalizia oppure mediante l'assegnazione di un capitale da determinarsi di comune accordo o in mancanza dal giudice, avuto riguardo alle circostanze del caso.

Fino a che non sia soddisfatto delle sue ragioni il convivente superstite conserva i propri diritti di uso e di abitazione".

ART. 8.

(Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli)

1. Il primo comma dell'articolo 572 del codice penale è sostituito dal seguente:

"Chiunque, fuori dai casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, ivi compreso il convivente more uxorio, un minore di anni quattordici o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione,

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cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni".

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ART. 9.

(Estensione della definizione di prossimi congiunti).

1. Il quarto comma dell'articolo 307 del codice penale è sostituito dal seguente:

"Agli effetti della legge penale, si intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, il convivente more uxorio, i fratelli, le sorelle, gli affini dello stesso grado, gli zii e i nipoti. Nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti non si comprendono gli affini allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole".

ART. 10.

(Estensione dei casi di non punibilità di cui all'articolo 649 del codice penale)

1. Dopo il numero 1) del primo comma dell'articolo 649 del codice penale, è inserito il seguente:

"1-bis) del convivente more uxorio".

ART. 11.

(Affidamento e mantenimento dei figli a seguito della cessazione della convivenza more uxorio)

1. In caso di cessazione della convivenza more uxorio, per l'affidamento e il mantenimento dei figli minori le parti possono rivolgersi al giudice il quale provvede secondo le disposizioni previste dall'articolo 155 del codice civile.

2. La competenza per i relativi provvedimenti è attribuita al tribunale.

ART. 12.

(Modifica all'articolo 89 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238).

1. All'articolo 89 del regio decreto 9 luglio 1939, n.1238, dopo il numero 8) è inserito il seguente:

"8-bis) la dichiarazione di convivenza more uxorio resa ai sensi di legge".

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INDICE DEGLI AUTORI, DELLE SENTENZE e DELLE VOCI PIU' IMPORTANTI

Affaire Kredens .....................................................................................................................104 Affidamento minorile ............................................................................................................. 78 Alagna S. ................................................................................................................................ 65 Alpa G. ..................................................................................................................................103 Antinozzi M............................................................................................................................109 Arbeitlosegeld ........................................................................................................................ 81 Arbeitslosehilfe ...................................................................................................................... 81 Art. 1.322 cod. civ. ................................................................................................................. 68 Art. 1.382 Code civil .............................................................................................................103 Art. 143 III° comma cod. civ.................................................................................................. 64 Art. 148 cod. civ. .................................................................................................................... 63 Art. 155 comma IV° cod. civ.................................................................................................. 70 Art. 17 II° e III° comma della legge 17 febbraio 1992, n. 179 ............................................... 89 Art. 199 cod. proc. pen. .......................................................................................................... 57 Art. 2.034 cod. civ. ................................................................................................................. 64 Art. 207 del DPR n. 645 del 1958 .......................................................................................... 84 Art. 261 cod. civ. .................................................................................................................... 64 Art. 28 della legge 19 febbraio 1992 n. 142 ........................................................................... 86 Art. 30 della legge n. 354 / 1975 ............................................................................................ 57 Art. 307 cod. pen. ................................................................................................................... 54 Art. 317 -bis cod. civ. ............................................................................................................. 52 Art. 4 del DPR 30 maggio 1989, n. 223 ................................................................................. 53 Art. 5 della legge n. 898 / 1970 .............................................................................................. 67 Art. 51 n. 2 cod. proc. civ. ...................................................................................................... 58 Art. 52 DPR 29 settembre 1973, n. 597.................................................................................. 82 Art. 52 del DPR 29 settembre 1973, n. 602............................................................................ 84 Art. 570 cod. pen. ................................................................................................................... 55 Art. 572 cod. pen. ................................................................................................................... 54 Art. 6 della legge n. 392 / 1978 .............................................................................................. 74 Art. 61 n. 11 cod. pen. ............................................................................................................ 55 Art. 619 cod. proc. civ. ........................................................................................................... 83 Art. 62-bis cod. pen. ............................................................................................................... 60 Art. 649 n. 1 cod. pen. ............................................................................................................ 59 Art. 681 cod. proc. pen. .......................................................................................................... 58 Art. 700 cod. proc. civ. ........................................................................................................... 73 Art. 9, IX° comma della legge 24 dicembre 1993, n. 537 ...................................................... 76 Assegno di mantenimento ...................................................................................................... 66 Assegno divorzile ................................................................................................................... 66 Assistenza sanitaria ................................................................................................................ 78 Bargis M................................................................................................................................. 58 Bile F...................................................................................................................................... 25 Bobbio N................................................................................................................................... 7 Bonilini G. .............................................................................................................................116 Branca G. ..............................................................................................................................102 Bundessozialhilfegesetz ......................................................................................................... 81 Busnelli F. D. ..................................................................................................................25, 139 Calamandrei P. ...................................................................................................................... 12 Carbonnier J. ........................................................................................................................... 1 Cassazione del 19 maggio 1911 ............................................................................................... 7 Cassazione 16 giugno 1927 .................................................................................................... 83 Cassazione 13 luglio 1932...................................................................................................... 54 Cassazione 19 luglio 1935...................................................................................................... 97 Cassazione 24 marzo 1938 n. 956 ............................................................................................ 8 Cassazione 18 maggio 1953, n. 1.407 .................................................................................... 65 Cassazione 25 maggio 1953, n. 1.550 .................................................................................... 74 Cassazione 6 maggio 1957 n. 1.529 ....................................................................................... 65 Cassazione 10 luglio 1957, n. 274.......................................................................................... 83 Cassazione 24 gennaio 1958, n. 169....................................................................................... 99 Cassazione 26 giugno 1961 .................................................................................................... 55 Cassazione 1 marzo 1966 ....................................................................................................... 55 Cassazione 16 dicembre 1966, n. 2.951.................................................................................100

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Cassazione 26 marzo 1969, n. 1859 ....................................................................................... 83 Cassazione 18 dicembre 1970 ................................................................................................ 55 Cassazione n. 174 del 25 gennaio 1971.................................................................................128 Cassazione 21 settembre 1981...............................................................................................111 Cassazione 11 maggio 1983, n. 3.253 .................................................................................... 67 Cassazione 12 giugno 1987 n. 9.424 .....................................................................................113 Cassazione 7 luglio 1992.......................................................................................................118 Cassazione n. 2.988 del 1994 ................................................................................................120 Cassazione del 4 aprile 1998 n. 3.503 ...................................................................................126 Catechismo degli adulti ............................................................................................................ 4 Chambre mixte del 27 febbraio 1970.....................................................................................104 Codetenzione qualificata ........................................................................................................ 72 Coniuge apparente.................................................................................................................. 66 Consultori familiari ................................................................................................................ 77 Coppari S. .............................................................................................................................122 Corte assise Genova 18 marzo 1982......................................................................................112 Corte assise Genova 24 ottobre 1984 ....................................................................................112 Corte costituzionale. n. 126, del 19 dicembre 1969.................................................................. 3 Corte costituzionale n. 147, del 3 dicembre 1969.................................................................... 3 Corte costituzionale n. 179, del 15 luglio 1976 ...................................................................... 84 Corte costituzionale n. 6, del 12 gennaio 1977....................................................................... 26 Corte costituzionale n. 45, del 1980 ....................................................................................... 40 Corte costituzionale n. 184, del 1986 ....................................................................................126 Corte costituzionale n. 237, del 18 novembre 1986............................................................... 29 Corte costituzionale n. 404, del 7 aprile 1988. ....................................................................... 43 Corte costituzionale n. 423, del 1988 ..................................................................................... 32 Corte costituzionale n. 1.063, del 1988 .................................................................................. 38 Corte costituzionale n. 310, del 26 maggio 1989................................................................... 87 Corte costituzionale n. 559, del 20 dicembre 1989................................................................. 75 Corte costituzionale n. 188, del 2 maggio 1991….................................................................. 86 Corte costituzionale n. 32, del 1992 ....................................................................................... 38 Corte costituzionale n. 267, del 1992 ..................................................................................... 38 Corte costituzionale n. 385, del 1992 ..................................................................................... 38 Corte costituzionale n. 281,del 1994 ..................................................................................... 45 Corte costituzionale n. 8, del 1996 ......................................................................................... 34 Corte costituzionale n. 203, del 1997 ..................................................................................... 47 Corte costituzionale tedesca (sentenza n. 3 del 1958) ............................................................ 81 Corte d'appello di Firenze 23 maggio 1980...........................................................................108 Corte d'appello di Milano 15 novembre 1935 ........................................................................ 97 Corte d'appello di Milano 13 aprile 1958 ............................................................................... 98 Corte d'appello di Milano, 16 novembre 1993 ......................................................................119 Corte d'appello di Torino 5 marzo 1964 ................................................................................102 D.Lgt. 27 ottobre 1918, n. 1726 ............................................................................................. 79 D.P.C.D. 28 febbraio 1991, n. 2003 ....................................................................................... 78 D'Angeli F .........................................................................................................................11, 26 De Cupis A. ............................................................................................................................ 98 De Leone U ............................................................................................................................ 60 De Luca G. ......................................................................................................................10, 119 Decreto del Min. del Lavoro di concerto con quello del Tesoro del 30 giugno 1994 ............. 77 Decreto del Tribunale dei minorenni di Perugia, 16 gennaio 1998......................................... 50 Diritto sociale all'abitazione ................................................................................................... 75 Dogliotti M. .......................................................................................................................3, 142 D'Orazio E. ............................................................................................................................ 10 Esposito C. ............................................................................................................................. 21 Fine del rapporto questioni patrimoniali................................................................................. 69 Franzoni M............................................................................................................................135 Furgiuele G.. .......................................................................................................................... 64 Gandolfi.................................................................................................................................137 Garavaglia Maria Pia ............................................................................................................ 20 Gazzoni F. .....................................................................................................................3, 5, 137 Gentile G. ............................................................................................................................... 99 Geri V. ...................................................................................................................................100 Iannarelli A. ........................................................................................................................... 42 Il regime degli acquisti durante la convivenza ....................................................................... 68 Imposta di famiglia................................................................................................................. 82 Ingiustificato arricchimento.................................................................................................... 69 Interruzione di gravidanza...................................................................................................... 78 ISTAT, "Indagini multiscopo sulla famiglia 1993-94"............................................................. 1 Jemolo A.C. .........................................................................................................................9, 24 Jotti N. .................................................................................................................................... 13

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Lalou ...................................................................................................................................... 99 Legge 22 maggio 1978 n. 194 ................................................................................................ 78 Legge 24 dicembre 1969, n. 990. ........................................................................................... 84 Legge 28 febbraio 1983, n. 6 della Liguria, all'art. 34 IV° comma......................................... 76 Legge 29 luglio 1975.............................................................................................................. 77 Legge 4 maggio 1983, n. 184 ................................................................................................. 78 Legge 6 ottobre 1986, n. 656.................................................................................................. 79 Legge del Lazio 26 giugno 1987, n. 33, all'art. 3, III° comma ............................................... 76 Legge del Piemonte 10 dicembre 1984 n. 64.......................................................................... 76 Legge dell'Emilia Romagna 14 marzo 1984, n. 12................................................................. 76 Librando V. ...........................................................................................................................127 Luccioli G..............................................................................................................................112 Martino C. .............................................................................................................................. 97 Mastrojanni ............................................................................................................................ 15 Materia assicurativa................................................................................................................ 84 Mazeaud ......................................................................................................................... 99; 104 Meroni (caso) ........................................................................................................................128 Mora A. .................................................................................................................................114 Moro A. ...................................................................................................................... 17; 22; 23 Obbligazioni naturali .............................................................................................................. 64 Oneri di mantenimento della prole naturale ........................................................................... 63 Orlando .................................................................................................................................. 18 Pensione di guerra .................................................................................................................. 79 Pocar V..................................................................................................................................... 2 Possesso di stato ....................................................................................................................101 Pretore di Firenze 27 febbraio 1992. ...................................................................................... 73 Pretore di Galatina 21 novembre 1975 ................................................................................... 56 Pretore di Genova 1 agosto 1977............................................................................................ 74 Pretore di Monza 30 aprile 1988. ........................................................................................... 72 Pretore di Pordenone 9 maggio 1995...................................................................................... 71 Pretore di Sampierdarena 20 ottobre 1979 ............................................................................. 42 Pretore di Sarzana 2 aprile 1976............................................................................................. 85 Pretore di Roma 14 aprile 1971.............................................................................................. 56 Pretore di Vigevano 10 giugno 1996 in in Nuova giur. civ. comm., 1997, I , p. 243 ............. 72 Progetto di legge Calvanese del 9 ottobre 1987.....................................................................140 Progetto di legge Cappiello del 12 febbraio 1988 .................................................................141 Progetto di legge Sbarbati del 10 maggio 1996 .....................................................................143 Prosperi F. ..........................................................................................................24, 75, 86, 137 Quadri E................................................................................................................................128 RD 17 ottobre 1922, n. 1.401. ................................................................................................ 83 RD 14 settembre 1931, n. 1.175. ............................................................................................ 82 Ranieri...................................................................................................................................112 Regolamento della Camera per l'assistenza sanitaria del 7 dicembre 1993 ............................ 79 Responsabilità solidale dei conviventi.................................................................................... 66 Risarcimento del danno per la rottura del ménage.................................................................. 69 Ronfani P.................................................................................................................................. 2 Roppo E. ..........................................................................................................................10, 138 Santilli M. ........................................................................................................................86, 139 Savatier .................................................................................................................................104 Sbisà G.. ..............................................................................................................................7, 96 Scognamiglio.........................................................................................................................136 Segreto A. ............................................................................................................................... 29 Sozialhilfe .............................................................................................................................. 81 Spano Gallico Nadia .............................................................................................................. 17 Stanzione A............................................................................................................................119 Successione ereditaria del convivente .................................................................................... 86 Tacito comodato pro quota..................................................................................................... 72 Testo Unico sulla Finanza locale............................................................................................ 82 Tribunale dei minorenni di Bari 11 giugno 1982................................................................... 70 Tribunale di Firenze 3 gennaio 1956 ...................................................................................... 74 Tribunale di Firenze 18 ottobre 1979 ....................................................................................108 Tribunale di Genova 12 marzo 1979 .................................................................................41, 74 Tribunale di Genova 17 dicembre 1979. ................................................................................ 41 Tribunale di Genova 8 maggio 1980 ...................................................................................... 55 Tribunale di Milano del 16 febbraio 1933 .............................................................................. 97 Tribunale di Milano 18 giugno 1990 .....................................................................................114 Tribunale di Piacenza 20 agosto 1985 .................................................................................... 85 Tribunale di Roma 23 novembre 1954 ................................................................................... 74 Tribunale di Roma 7 novembre 1962 ..................................................................................... 99 Tribunale di Roma 9 luglio 1991...........................................................................................117

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Tribunale di Verona 3 dicembre 1980 ...................................................................................110 Tupini ..................................................................................................................................... 16 Vella A. ................................................................................................................................... 86 Wohngeld ............................................................................................................................... 81 Zotta ....................................................................................................................................... 18

RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare in primo luogo il Prof. Giovanni Pascuzzi per la

cortesia e la disponibilità dimostratami, nonché l'intera facoltà di

Giurisprudenza di Trento per gli strumenti conoscitivi ed informatici

che rende disponibili a noi studenti.

Un grosso ringraziamento ai miei genitori per avermi concesso la

possibilità di ultimare anche questo corso di studi, nella speranza di

saperli adeguatamente premiare nel futuro.

Uno speciale ringraziamento è doveroso al mio amico Claudio R. per

la sua cortesia nell'avermi lasciato utilizzare spesso il suo sito Internet

(W i "parassiti" dell'Internet).

Ringrazio infine tutti coloro, amici in primis, che mi hanno sostenuto

e motivato nel corso di questi anni di studio.