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Dispense corso Sinottici, prof. d. Davide Arcangeli – quarta parte

7. LINEE TEOLOGICHE PER I SINOTTICIjjj

7. 1 VANGELO DI MARCO.

Il vangelo di Marco fa iniziare l’attività di Gesù con l’annuncio del Regno di Dio. Dice Gesù: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete nel Vangelo”. Sullo sfondo di questo sunto della predicazione di Gesù c’è la concezione profetica della regalità di Dio sulla storia e del tempo. L’arrivo della salvezza di Dio è considerato imminente e il profeta ha il compito di annunciarlo e insieme renderlo presente con il suo annuncio. Il Vangelo diviene allora un annuncio che trasforma la realtà, rendendo attuale la stessa salvezza di Dio: “Come sono belli i piedi di colui che annuncia la pace, dell’evangelizzatore che annuncia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio. Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion.” (Is 50, 7 – 8). La parola profetica diviene evento di Dio, presenza salvifica, realtà che trasforma il castigo dell’esilio nella gioia del ritorno a Sion. Modellato su tale teologia anche l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù è una parola profetica che si realizza nell’atto stesso in cui viene proclamata. Essa è infatti una parola autorevole, non solo un insegnamento, che si concretizza in segni di salvezza e di liberazione dal male (cfr. 1, 27 – 28). Il Regno di Dio si instaura con la sconfitta definitiva delle potenze del male e in particolare di Satana (3, 22 – 30) e con la chiamata dei Dodici (3, 13 – 18) che sono il primo seme del Regno di Dio, inviati anch’essi a predicare e a scacciare i demoni. Con il male vengono sconfitte da Gesù anche le sue conseguenze, ossia il peccato e la morte. Il peccato viene vinto dal perdono definitivo che Gesù porta nel mondo (cfr. 2, 1 - 22). Il Regno assume qui i connotati della novità assoluta, la novità di una festa di nozze che lo Sposo, il messia, celebra con l’umanità (2, 19 – 22) grazie alla definitiva sconfitta della morte. Egli sposa l’umanità malata, sofferente e incapace di generare alla vita, per ridarle la speranza radicale della resurrezione (cfr. 5, 21 – 43 racconto dell’emorroissa e della figlia di Giairo).

Se in un primo momento il Regno di Dio predicato da Gesù sembra distinto dalla sua persona, man mano che il vangelo prosegue nella sua narrazione, si comprende sempre meglio che il cuore del Regno di Dio annunciato da Gesù con la parabola del seme gettato nel terreno che porta frutto, è la persona stessa di Gesù. Subito dopo aver pronunciato il discorso in parabole Gesù seda la tempesta con la sua Parola e i discepoli si chiedono: “Chi è costui, al quale il vento e il mare obbediscono?”. Come abbiamo già sottolineato nella sezione dei pani, la narrazione procede attraverso le successive domande sull’identità di Gesù, attraverso cioè quella che si dovrebbe definire come una cristologia implicita, basata sui segni e le parole di Gesù, fino al cuore del vangelo di Marco, li dove i discepoli per bocca di Pietro, arrivano finalmente alla proclamazione dell’identità messianica di Gesù: “Tu sei il Cristo, il Messia” (7, 29).

Da questo punto in poi inizia il secondo versante del vangelo di Marco, in cui non si tratta più di stabilire chi è Gesù, ma come Egli agisce, e che tipo di Messia egli è. Da qui in poi, in una successione martellante di tre annunci della passione, Gesù afferma subito pubblicamente (notare il contrasto con la richiesta di segretezza a riguardo della sua messianicità) di dover subire il destino di rifiuto dei capi, sofferenza e morte, per poi risorgere dopo tre giorni.

Ci concentriamo un po’ di più sul terzo annuncio (Mc 10, 32 – 34) che avviene immediatamente prima dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme ed è un po’ più descrittivo dei precedenti. I dettagli

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sono significativi: si parla non solo di condanna a morte e di consegna ai pagani, ma anche di derisioni, sputi e flagellazioni. Non è a detrimento della verità storica sulla passione di Gesù considerare che questa sequenza ripercorre esattamente le sofferenze descritte nel cosiddetto terzo canto del servo, all’interno della raccolta profetica deuteorisaiana: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. (Is 50, 6). È difficile non riconoscere qui l’intento dell’evangelista di mostrare che il messia non è altri che un servo mite e umile, destinato a compiere la sua missione universale attraverso la sofferenza assunta confidando in Dio che solo rende giustizia (Is 50, 8). Non si può seguire Gesù fin sotto la croce, se non accettando di essere da lui guariti nella nostra cecità di discepoli attratti da un maestro potente e carismatico (cfr. 10, 46 – 52). La cristologia marciana è così un grande commento narrativo ai canti del servo di jhwh, visti alla luce della vicenda storica di Gesù, che culmina con il mistero pasquale della sua morte in croce e resurrezione. Infatti solo nell’umiltà della croce il messia si rivela definitivamente come il servo sofferente di Dio e solo a questo punto il discepolo con le parole del centurione potrà affermare - definitivamente e senza paura di fraintendimenti o ambiguità - : “ Costui era veramente il Figlio di Dio”.

Di fronte a questa progressiva descrizione narrativa della cristologia, Marco intende anche fornirci qualche elemento di ecclesiologia. Cos’è la Chiesa per Marco? Certamente essa è concentrata nei discepoli e in particolare nei Dodici, che sono a servizio del Regno di Dio, chiamati anzitutto da Gesù a stare con lui e poi inviati a predicare e scacciare demoni (3, 13 – 19). Lo stesso numero Dodici indica l’Israele escatologico che si instaura con l’avvento del Regno di Dio. Essi costituiscono il seme, il nucleo più intimo della nuova famiglia di Gesù, ossia di coloro che fanno la volontà di Dio ( 3, 31 – 35) e come Gesù si muovono nei villaggi affidandosi totalmente alla potenza dell’invio di Gesù e non a mezzi umani (6, 7 – 13). Essi sono i testimoni dei segni di Gesù, in particolare della moltiplicazione dei pani (6, 30 - 44) ma al contempo sono incapaci di comprenderli fino in fondo, perché condividono la durezza di cuore degli uomini (6, 51 – 52). Marco sottolinea nettamente l’incomprensione che i discepoli manifestano nei confronti del loro maestro, che non cessa al momento in cui Pietro confessa l’identità messianica di Gesù, ma anzi per così dire aumenta (cfr.8, 33). Ogni annuncio della passione è seguito da un’episodio che manifesta la totale mancanza di sintonia dei discepoli (cfr. anche 9, 33 – 37; 10, 35 – 40) e che rende necessaria un’ulteriore catechesi da parte di Gesù, in forma di parole e di gesti. Alcuni personaggi secondari nella narrazione, mostrano le caratteristiche positive che dovrebbe avere il discepolo, in particolare la sua fede nei confronti di Gesù. Un esempio importante è certamente quello della donna sirofenicia, donna straniera che costituisce un richiama implicito alla futura nascita di una comunità cristiana di provenienza pagana.

Da questi elementi possiamo trarre qualche conclusione sull’ecclesiologia marciana: la Chiesa è una famiglia che attualizza il Regno di Dio in se stessa, un seme del Regno. Essa è per sua natura missionaria, perché inviata dal messia Gesù con una parola potente a compiere i segni del Regno nella sua storia. Essa accoglie al suo interno anche tutti i popoli, è dunque universale. Essa è anche la comunità in cui la fede in Cristo può essere maturata solo stando con lui, e passando attraverso il travaglio della sua croce e resurrezione. Solo alla luce della croce la Chiesa può comprendere fino in fondo chi è chiamata a seguire lungo i sentieri della storia.

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7. 2 VANGELO DI MATTEO.

Notiamo subito che Matteo non parla di Regno di Dio, ma, con un’espressione ancor più semitica, di Regno dei cieli (cfr. 13, 11). Se il Regno dei cieli nel discorso della montagna deve essere caratterizzato da una sovrabbondante giustizia, che sola può integralmente compiere la Legge di Mosè (5, 17 – 20), sono le parabole (c. 13) a manifestare il mistero di tale sovrabbondante giustizia.

La parabola del seminatore (13, 3 – 9) mostra il contrasto tra una semina sovrabbondante e persino sprecata e una risposta differenziata dei diversi terreni. Alcuni di essi non rispondono positivamente, non fanno fruttificare questo dono del seme. Come è possibile che ciò accada, se la parola è rivolta a tutti? Come è possibile che la parola di Gesù fallisca, producendo in molti casi rifiuto anziché accoglienza? È questo l’interrogativo di fondo dei discepoli, sul perché Gesù parli il linguaggio oscuro e difficile delle parabole (cfr. 13, 10). Le parabole mostrano la caratteristica paradossale del Regno dei cieli, che si instaura senza imporre una verità con la forza, ma donando a tutti, anche a chi lo rifiuterà, il seme della Parola di Dio. Così il suo insegnamento parabolico rispetta la libertà dell’interlocutore e non gli impone una verità per via di sillogismi o dimostrazioni. Egli lo invita piuttosto a convertire il cuore all’amore del Padre, che semina sprecando illogicamente il suo seme e che lascia crescere la zizzania insieme con il grano, per non correre il rischio di tagliare anche il grano (13, 24 – 30). Si può arrivare ad affermare che secondo Matteo compimento della giustizia deve passare attraverso il rifiuto degli uomini e in particolare del popolo di Israele, perché è proprio quando il popolo arriva al culmine della sua durezza di cuore, della sua incapacità di ascoltare e comprendere la parola di Dio, che il Signore potrà realizzare improvvisamente la sua guarigione e la sua conversione (cfr. 13, 14 – 14; Iss 6, 9 – 10). Come?

Attraverso la logica della croce, che è il vero mistero significato dal seme gettato in terra della parabola. In fondo anche per Matteo il Regno dei cieli ha a che fare con Gesù, Lui che è il servo mite di Jhwh che non grida la verità in piazza (cfr. 12, 19, Is 42, 2) e porta la giustizia con misericordia (cfr 12, 20 cit di Is 42, 3). Nella cristologia di Matteo è molto più sottolineato che in Marco il carattere ebraico del messia. Egli è collegato a Davide e Abramo nella sua genealogia (1, 1) è figlio di Davide (1, 17. 20) è l’emmanuele di Isaia, ossia il discendente regale che porta Dio in mezzo al suo popolo (Mt 1, 23;cfr. Is 7, 14) ed è il messia d’Israele (2, 6), cosa che Gesù stesso afferma ripetutamente (10, 6; 15, 24). È solo dopo il rifiuto di Israele che i discepoli saranno inviati da Gesù sul monte della galilea ad fare discepoli tutti i popoli (28, 19). Infatti il rifiuto di Israele fa si che il Regno di Dio sarà tolto ai capi giudaici “e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare (21, 43)”.

Il seme di questo nuovo popolo è già presente nel Vangelo di Matteo nei discepoli e apostoli di Gesù. La loro caratterizzazione è più positiva che non in Marco. Essi infatti sono ammessi all’intimità con Gesù e possono accedere alla spiegazione delle parabole e alla comprensione profonda dei misteri del Regno dei cieli. Non solo, ma sono inviati da Gesù a mostrare la gratuità del Padre nell’annuncio del Regno dei cieli (10, 8), fatto a parole, ma anche con i segni delle guarigioni, con la povertà e soprattutto con la perseveranza nelle persecuzioni (10, 17 – 39). In filigrana compare il volto di una Chiesa giudeocristiana fortemente messa alla prova dalle scontro con il giudaismo che si riorganizzava nella sua componente farisaica, dopo la recente distruzione di

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Gerusalemme e del tempio. Si tratta di una Chiesa che alla saggezza umana dei dottori della legge oppone la sapienza della croce, definitiva sapienza dei piccoli, che rivela il volto del Padre e il misterioso e abissale rapporto d’amore tra il Padre e il Figlio (11, 25 – 27). Pur essendo compresa anche dai piccoli, non si tratta di una sapienza infantile o ingenua, anzi, i discepoli di Gesù sono definiti scribi (13, 51), che devono tenere insieme cose nuove e cose antiche (AT e NT) nell’unica sapienza della croce, sono profeti, sapienti e scribi che vivranno su di se il mistero del messia rifiutato e ucciso dal suo popolo (cfr. 23, 34) ma che saranno ricompensati dal ritorno glorioso di Gesù alla fine dei tempi alla luce dell’amore che avranno manifestato, imitando il Padre (24, 3. 27; 25, 31 – 46). Questa Chiesa ha un punto di riferimento centrale in Pietro, del quale viene affermato senza mezzi termini il primato a partire dalle parole di Gesù: “ <<Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del Regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli>>. Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.”.

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7. 3 QUADRI DI TEOLOGIA LUCANA

7. 3. 1 INTRODUZIONE ALLA TIPOLOGIA

I vangeli sono inseriti all’interno di un canone, comprendente Antico e Nuovo Testamento, e una interpretazione esegetica e teologica di essi non può non tenere conto dei rapporti che intercorrono tra questi testi e il loro con-testo. Il documento sulla Parola di Dio del Concilio Vaticano II, denominato Dei Verbum, afferma al n.16 la mutua dipendenza ermeneutica tra Antico e Nuovo Testamento : « …i libri dell’Antico Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento, che essi a loro volta illuminano e spiegano.>>. Da una parte si afferma che il Nuovo Testamento porta a compimento ciò ceè è significato nell’Antico, ma dall’altra si mostra che non si può comprendere il Nuovo senza i libri dell’Antico, che lo illuminano e lo spiegano. Non si possono dunque conoscere adeguatamente i Vangeli senza tener conto dell’Antico Testamento.

Si potrebbe fondare questa affermazione sia dal punto di vista storico che dal punto di vista letterario. L’influenza del mondo giudaico e della letteratura religiosa che ha contribuito a forgiare la sua identità, ossia quello che noi oggi chiamiamo Antico Testamento, e, più nel dettaglio, l’interpretazione viva dell’antico Testamento (torà orale) propria dell’ebraismo del I secolo, sono la matrice nella quale si forgiano tutte le creazioni letterarie successivamente inserite nel canone del Nuovo Testamento. Dal punto di vista letterario poi si trovano forti legami, sottoforma di citazioni, allusioni, echi, riletture che i testi del NT fanno di altri testi dell’AT. In definitiva l’AT costituisce sempre lo sfondo dei testi del NT ed anche dei vangeli, come si può abbondantemente dimostrare anche attraverso un elenco e una catalogazione di tutti i richiami interni al NT.

Tuttavia il lavoro esegetico e teologico che parte da questa constatazione non può certamente fermarsi ad essa. Ci si pone infatti una domanda di fondo, estremamente importante a livello teologico : quale tipo di rapporto viene configurato da tale dipendenza storico- letteraria del NT e dei Vangeli nei confronti dei testi dell’Antico Testamento? Data la poliformità letteraria di testi del NT e il loro diverso utilizzo dell’AT, non è per nulla semplice ricavare delle leggi generali. Talvolta bisogna accontentarsi di ritrovare lo sfondo veterotestamentario e notare l’interesse del narratore nel riferire un compimento. Talaltra però si può scavare maggiormente e notare dei rapporti più precisi e definiti tra elementi dello sfondo veterotestamentario ed altri elementi presenti nel testo del NT. Ogni qual volta si può accostare ad una figura (tipo) propria di un racconto dell’AT, elementi di un racconto del NT (antitipo), mostrando un rapporto di continuità / discontinuità tra di essi, in modo tale che l’antitipo riprende e supera il tipo compiendolo, qui siamo di fronte ad un funzionamento letterario- teoogico che possiamo denominare tipologia. Tali elementi (tipi) possono essere costituiti da eventi, circostanze, persone, popoli, istituzioni e il loro rapporto deve essere di compimento, ossia l’uno è una preparazione dell’altro. Ci può essere una tipologia esodale, mosaica, profetica, regale, sacerdotale, cultuale ecc…

Per il nostro studio è sufficente ammettere che in via di principio non è possibile escludere la possibilità che gli autori del NT abbiamo fatto uso di tale strumento interpretativo, poiché esso era

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presente nella cultura giudaica ed ellenistica del periodo intertestamentario e perchè l’Antico Testamento stesso, al suo interno, ne ha fatto uso. Lo studio della tipologia risulta allora particolarmente interessante, dal momento che contribuisce a riconnettere i Vangeli nel loro contesto canonico e mette in luce in modo assai convincente le loro teologie, nel quadro globale del compimento delle Scritture.

7. 3. 2 LA TIPOLOGIA NEL VANGELO DI LUCA (Lc 17, 11 – 19).

Nel Vangelo di Luca la tipologia profetica, applicata a Gesù, risulta particolarmente evidente ed estesa. A partire dal c. 4 in cui Gesù predica a Nazareth, nella sua terra natale, Gesù è dipinto con i caratteri di un profeta (cfr. 4, 24) che predica la parola di Dio e che è rifiutato dal suo popolo, secondo il destino proprio di tutti i profeti di Israele. Gesù appena consacrato dalla discesa dello Spirito Santo su di lui, dopo il battesimo, è dotato di una “parola” profetica, che si esprime attraverso azioni e discorsi (cfr. 24, 19) e che rende attuale la salvezza di Dio, il tempo del compimento delle promesse di salvezza di Isaia (cfr. 7, 18 – 23).

Ormai al termine del suo itinerario verso Gerusalemme attraversando la Galilea e la Samaria, (Lc 17, 11) Gesù incontra dieci lebbrosi, che si fermano a distanza, e appellandosi alla sua qualità di maestro lo supplicano di avere pietà di loro: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi”. (Lc 17, 12).

La scena della guarigione dei dieci lebbrosi (17, 11 – 19), dipinta con una certa rapidità da Luca, mostra di avere uno sfondo veterotestamentario profetico (cfr. 2 Re 5). In quale modo il narratore allude a tale sfondo? Quali sono gli elementi comuni e le differenze? Gesù è accreditato come un profeta?

Per rispondere a queste domande è necessario approfondire l’esegesi di questo testo.

Dobbiamo anzitutto notare che questo racconto interrompe una serie di discorsi di Gesù con un miracolo di guarigione. L’ultimo miracolo di Gesù prima di questo è in 14, 1 – 6, dopodichè si tratta di una serie di insegnamenti fino a 17,11. Inoltre la notazione geografica di Luca sul cammino verso Gerusalemme contribuisce a creare uno stacco preciso da ciò che precede e favorisce l’idea di un nuovo inizio della narrazione. Si tratta della terza ed ultima sezione del viaggio di Gesù verso Geursalemme che prosegue fino a 19, 27.

Il racconto di questo miracolo si conclude con l’affermazione di Gesù: “alzati e va, la tua fede ti ha salvato” (v. 19), perché dopo il samaritano ex lebbroso sparisce e ritornano in scena i farisei. È interessante il paragone che viene a crearsi (syncrisis) tra la fede constatata da Gesù a proposito del samaritano, che evidentemente ha saputo riconoscere in Gesù la fonte del segno di guarigione appena manifestasi in lui, e la mancanza di fede mostrata dai farisei nei termini di una ricerca esteriore di segni. Il seguito dei discorsi di Gesù porterà avanti il tema della fede parlando della venuta del figlio dell’uomo (Gesù) in rapporto ai segni (cfr. vv. 17, 22 – 37), della preghiera (18, 1 – 14), dell’umiltà di chi accoglie il Regno come un bambino, abbandonando le sue ricchezze per seguire Gesù (18, 15 – 30).

Il cuore di questa sequenza narrativa che culmina con il terzo annuncio della passione e l’arrivo a Gerico ( 18, 31 – 34) è dunque la fede in Gesù come condizione dell’ingresso nel Regno dei cieli.

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Il racconto del lebbroso samaritano contribuisce a introdurre questo tema di fondo, dal momento che il miracolo non è che un passaggio, neanche brevemente descritto, per arrivare a sottolineare invece la salvezza ottenuta per mezzo della fede (v. 18). In effetti il culmine della trama non si ha con il miracolo, ma con la constatazione della fede del samaritano: è qui infatti che la portata rivelativa del racconto si mostra in modo improvviso. Su dieci lebbrosi guariti, la fede è paradossalmente prerogativa di uno solo, di un samaritano, ossia di un eretico, disprezzato dal giudaismo ufficiale dell’epoca rappresentato dai farisei.

Inizialmente il racconto, sapientemente orchestrato da Luca, sembra andare in una direzione più consueta. Come ogni racconto di miracolo che si rispetti, vi deve essere l’incontro con Gesù, alle porte della vittà o all’interno del villaggio. Qui i lebbrosi si fermano a distanza, per motivi cultuali perché sono dichiarati impuri dalla legge di santità del levitica (Lv 13, 45) e a distanza lo supplicano con il titolo di maestro, usato da Luca normalmente per i discepoli (Lc 5, 5; 8, 24) e con l’implorazione “abbi pietà”, che nei salmi si rivolge a Dio stesso (Sal 31, 10; 51, 3). In questi lebbrosi c’è certamente una fede incoativa, iniziale in Gesù, necessaria perché avvenga il miracolo (cfr. Lc 5, 13ss). Fin qui tutto avviene secondo copione.

Dal v. 14 avviene un primo spostamento rispetto alla trama consueta di un racconto di guarigione di miracolo. Ossia Gesù non guarisce direttamente con la sua parola i lebbrosi, prima di mandarli dal sacerdote, ma li invia prima di guarirli. Questa modifica fa si che il miracolo divenga una prova di fede. In questo spostamento Luca segue un altro copione, che gli proviene dall’Antico Testamento, e particolarmente dal racconto, lungo e articolato, di guarigione del lebbroso Naaman, servitore del re siriano, da parte del profeta Eliseo (cfr. 2 Re 5). Infatti il miracolo è una prova di fede di Naaman, che è invitato dal profeta ad andare a bagnarsi del fiume Giordano. Non sono complicati riti fisici a causare la guarigione, ma la fede nella parola del profeta Eliseo ( 2 Re 5, 12 – 15). Come il profeta Eliseo guarisce il lebbroso Naaman, servitore del re siriano, semplicemente con la sua parola e con l’obbedienza di andarsi a lavare nel Giordano, anche nel nostro testo il miracolo di guarigione dei lebbrosi avviene a distanza, tramite la semplice obbedienza alla parola profetica di Gesù, di andare a presentarsi ai sacerdoti. Le analogie non si fermano qui. Come Naaman il siriano ritorna dal profeta Eliseo per mostrare la sua fede nel Dio di Israele e per ringraziarlo attraverso un dono materiale così anche il lebbroso ritorna indietro per ringraziare Gesù (v. 15). Infine ancora come Naaman è uno straniero cui viene donata insieme alla guarigione, la fede nel Dio d’Israele, così anche il lebbroso è un samaritano, a differenza degli altri nove lebbrosi guariti, che invece sono giudei.

Come in 2 Re 5 la posta in gioco del racconto non è quindi semplicemente il miracolo di guarigione fisica, ma più profondamente la fede dello straniero ed è questa fede ad essere manifestata dal ringraziamento del samaritano e autorevolmente confermata dalla dichiarazione finale di Gesù (vv. 18 – 19). Gesù si trova dunque nella stessa posizione del profeta Eliseo: egli è dotato di una parola profetica, in grado di realizzare ciò che dice per mezzo della fede dell’interlocutore, e al termine del miracolo egli stesso è chiamato ad esplicitarla autorevolmente.

Fino a questo punto abbiamo mostrato con considerazioni di tipo narrativo che il nostro racconto ha una sfondo profetico e che tale figura è applicata a Gesù. Ora bisogna chiarire se questa figura dell’antico testamento è applicata in una chiave tipologica, ossia se vi è un compimento del tipo

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profetico nell’antitipo (Gesù), che prevede anche una differenza, un superamento dell’antitipo rispetto al tipo.

Dobbiamo ricorrere ancora a considerazioni di tipo narrativo. Ci sono alcune differenze tra Eliseo e Gesù. Quando Naaman va da Eliseo per ringraziarlo, il profeta rifiuta il dono, mentre Gesù non sembra rifiutare la lode del samaritano. Inoltre i gesti del samaritano sono ben più estremi di quelli di Naaman. Il samaritano infatti si prostra davanti a Gesù, con un atto d’adorazione che è appropriato soltanto per Dio. Infine le parole del ringraziamento sono diverse. Naaman afferma la sua fede nel Dio d’Israele, mentre il Samaritano: “lodando Dio a gran voce, si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo” (v. 16). Nella costruzione retorica di questa frase la lode di Dio è posta in parallelo alla prostrazione davanti a Gesù e al suo ringraziamento.

“Tornava indietro, a gran voce lodando Dio

e si prostrò con la faccia ai suoi piedi, ringraziando Lui.

Se Naaman loda il Dio d’Israele, più di Naaman nel samaritano la lode del Dio di’Israele è strettamente associata con la prostrazione e con il ringraziamento di Gesù. Lodare Dio e ringraziare Gesù sono un unico atto per questo samaritano, che riserva a Gesù l’onore dovuto a Dio prostrandosi ai suoi piedi.

Se il dono rifiutato da Eliseo lascia intendere l’impossibilità di far coincidere la sua persona con il Dio d’Israele, la lode accettata e ratificata da Gesù suggerisce che il compimento del tipo profetico consiste in un radicale superamento della figura stessa. Gesù è un profeta, ma è più che un profeta, perchè è il mistero di una presenza personale di Dio stesso. Egli compie la parola profetica, come profeta definitivo, come messia, come Figlio di Dio. Il samaritano lo riconosce e questa è la vera guarigione, il vero miracolo, la vera salvezza che egli ottiene, e di cui la salvezza fisica era solo un segno provvisorio. Se i nove lebbrosi giudei dopo essere guariti non ritornano indietro è perché evidentemente non riconoscono in Gesù che un profeta, un semplice mediatore di una salvezza, che in fin dei conti è altro da lui. Essi sono incapaci di cogliere il compimento della figura profetica in Gesù come radicale superamento. Essi, a differenza del samaritano, non comprendono che in Gesù la parola profetica e il contenuto che essa annuncia, ossia il Regno di Dio e la sua salvezza, sono radicalmente fusi e identificati. Egli è la salvezza stessa, è il Figlio del Dio altissimo. A questo compimento ci conduce l’intero itinerario del terzo Vangelo.

Infatti per tutto il tempo in cui Gesù è in cammino dalla galilea a Gerusalemme prevale la tipologia profetica, ma quando arriva a Gerusalemme ritorna, come vedremo meglio, la tipologia del messia regale (19, 28 – 37), che è propria dei racconti dell’infanzia (cfr. 2, 8 – 14). Al culmine di questa successione di figure (profeta, re) la narrazione penetra nel mistero del Figlio di Dio. Al termine del Vangelo infatti i discepoli di Emmaus, dialogando con il misterioso viandante che gli si accosta, definiscono Gesù come “un profeta potente in parole ed in opere, davanti a Dio e a tutto il popolo” (Lc 24, 19). Questa consapevolezza non è però sufficiente a liberarli dalla loro tristezza e disillusione a riguardo della morte in croce di Gesù, segno che sono ancorati alla figura del messia regale, senza riuscire ad oltrepassarla: “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”(21a). Solo la parola del viandante, che si rivelerà come lo stesso Gesù risorto, li renderà capaci di scorgere progressivamente in questa morte il compimento messianico delle profezie e di tutte le Scritture di Israele. Solo la luce della resurrezione permette di comprendere che in quel

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profeta potente in parole e opere che muore in croce si compie tutta la Scrittura e che Egli è realmente il Figlio di Dio (cfr. 22, 70).

7. 4 LA TIPOLOGIA REGALE IN MATTEO

7.4.1 MT 21, 1 – 11. SFONDO DELLE NOTAZIONI TOPOGRAFICHE.

Il testo di Matteo si apre con l’arrivo di Gesù a Betfage, verso il monte degli Ulivi. Matteo a differenza di Marco e di Luca non cita Betania, ma mette in maggiore rilievo la menzione del monte degli Ulivi e di Betfage. Come mai?

Anzitutto dobbiamo notare la menzione del termine “Signore”: “Se qualcuno vi dirà qualcosa, gli risponderete che il Signore ne ha bisogno”(v. 2). Questo termine, come abbiamo già potuto notare, ha una forte connotazione teologica e cristologica, esso indica il riconoscimento dell’autorità stessa di Dio in Gesù (cfr. Mt 14, 28. 30; 15, 22. 25. 27; 17, 4. 15 ecc.).

La duplice menzione del termine Signore e della notazione geografica sul monte degli Ulivi si trova in Zc 14, 3 – 4, testo in cui si parla del combattimento finale di Dio contro le nazioni che culmina sul monte degli Ulivi dove si instaura definitivamente la Signoria regale di Dio su tutta la terra (v. 9). Tale regalità sarà adorata nel giorno di Sukkot, o festa della capanne, in cui tutti i superstiti delle nazioni andranno ad adorare il re, il Signore degli eserciti (v. 16).

Altre occorrenze interessanti riguardo al monte degli Ulivi, perché connesse al tema della regalità, sono 2 Sam 15, 13 – 23, in cui troviamo Davide che deve fuggire da Gerusalemme a causa dell’insurrezione guidata dal figlio Assalonne e sale l’erta degli Ulivi piangendo o ancora Ez 11, 23, dove si parla del monte ad oriente della città, identificabile col monte degli Ulivi, luogo da dove si diparte la gloria del Signore che stava nel tempio, per andarsene da Gerusalemme.

Betfage non appare mai nell’Antico Testamento. La sua traduzione dall’ebraico è “casa del fico” e il fico è tradizionalmente secondo il Talmud, figura di Israele stesso. Sempre secondo il Talmud, i pani della proposizione, offerti nella liturgia del tempio (Lv 24, 5 – 9), potevano essere cotti a Betfage. Questo richiama il lettore all’episodio di 1 Sam 21, 2 – 10, in cui si parla di Davide e dei suoi soldati che si nutrono dei pani santi, nella località di Nob, non distante dal monte degli Ulivi.

7.4.2 UNA CONFERMA NARRATIVA

Lo sfondo escatologico e regale alluso dalle menzioni topografiche e dall’uso dell’appellativo “Signore” viene confermato se guardiamo al percorso narrativo di Matteo in questa sequenza dell’ingresso a Gerusalemme. Appena fatto il suo ingresso Gesù, al v. 12 entra nel tempio e scaccia i venditori. Il subitaneo ingresso di Gesù nel tempio non sembra causale. In Mt 11, 10 si trova un riferimento a Giovanni il Battista come all’annunciatore che sta davanti a Gesù per preparare la strada davanti a lui. Questo testo è una citazione esplicita combinata di Es 23, 20 e di Mal 3, 1. In particolare in Mal 3, 1 leggiamo: “ Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti

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a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate”. Dunque la citazione di Gesù a riguardo del Battista indica che dopo il tempo dell’annunciatore, del Battista, vi è l’ingresso del Signore nel tempio. Il tempo escatologico è arrivato e il Signore prende possesso del tempio in Gerusalemme, come è confermato dalla narrazione in 21, 12. Ecco perché appena fatto il suo ingresso a Gerusalemme Gesù entra nel tempio. Qui la narrazione conferma lo sfondo regale/escatologico che abbiamo identificato e accredita la figura regale applicata a Gesù come una tipologia. Si tratta di un messia regale, la cui messianicità implica una presenza radicale di Dio, una definitiva presenza di Dio con noi nel suo tempio!

7.4.3 CITAZIONI ESPLICITE E NARRAZIONE MATTEANA

La trattazione dei versetti che seguono fornisce ulteriori e decisive conferme.

Le citazioni esplicite di Zc 9, 9 e di Is 62, 11 sono concentrate nel v. 5. Si parla qui della figlia di Sion. Il monte Sion è il cuore di Gerusalemme e indica la città stessa di Davide ( 1 Re 8,1; 2 Ch 5, 2). Nei Salmi essa è scelta da Dio stesso (Sal 132, 13), per essere la dimora di Dio (cfr. Sal 50, 2; 99, 2) la dove ciascuno è benedetto e nato (Sal 128, 5; Sal 87, 5). Dunque la città di Davide viene ad essere identificata con la stessa dimora di Dio, dove il Signore consente di abitare (cfr 2 Sam 7, 5 – 6). Il termine “figlia di Sion” si trova anche nei testi profetici, ad indicare Israele come soggetto della collera divina e insieme del suo amore geloso o anche la nuova Gerusalemme/Israele esultante per il ritorno dall’esilio (Is 1, 8; Is 52, 2; 62, 11). Questi testi vengono ad adattarsi bene al messaggio di fondo di Zaccaria, nel quale troviamo l’instaurazione della regalità di Dio, del Signore a Gerusalemme.

Riguardo alla citazione di Zaccaria è ancora interessante notare che Matteo la modifica, tralasciando le due qualifiche iniziali date al Re messia, ossia “giusto e vittorioso”. In tal modo risalta quasi unicamente l’umiltà e la mitezza di questo re che entra in Gerusalemme. L’umiltà è segnalata dall’asino, sul dorso del quale Gesù entra e che è una cavalcature propria del tempo di pace, come conferma il prosieguo della citazione di Zaccaria: “Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti…” (Zc 9, 10). Questi è il re mite e umile di cuore che dona pace e consolazione a tutti coloro che sono oppressi (Mt 11, 29). È anche interessante notare che la definizione della cavalcatura del Signore viene ribadita due volte, un asino, ossia un puledro figlio d’asina nella citazione di Zaccaria. Zaccaria in questo modo cita Gen 49, 11 il testamento di Giacobbe nei riguardi di Giuda, la tribù dalla quale nasce il messia davidico, proprio per indicare che tale Signore è proprio il messia regale atteso. Matteo reduplica gli animali (v. 7) e afferma che Gesù monta sopra entrambi, per sottolineare maggiormente, con il suo particolare gusto narrativo del raddoppiamento, la qualità messianico – regale dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Inoltre Matteo toglie il riferimento alla gioia e all’esultanza in Zc 9, 9 insistendo piuttosto sull’annuncio alla luce di Is 62, 11: “Dite alla figlia di Sion”. In questo modo la profezia si inserisce in modo più coerente col progetto narrativo di Matteo. L’ingresso di Gesù a Gerusalemme è un annuncio che richiede una conversione, un riconoscimento da parte di Gerusalemme, perché la vittoria non è ancora stata ottenuta. Come Gerusalemme accoglierà il suo re mite ed umile? È evidente l’intento narrativo di Matteo. Gesù è certamente il re – messia, ma la narrazione

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confermerà che tale messianismo non assume la forma di una vittoria politico – militare, bensi si compie nella forma del servo sofferente, che instaura il suo regno passando attraverso il rifiuto del suo popolo e la morte. Anche qui la figura regale viene chiaramente appoggiata e insieme superata dalla narrazione, assumendo la connotazione di una “tipologia”.

Nei vv. 6 – 11 viene descritta un’accoglienza festosa del “figlio di David”. Matteo cita esplicitamente il Salmo 118, 26a: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Non a caso questo Salmo viene cantato nella festa popolare delle tende (sukkot) nella quale il popolo, ricordando il cammino nel deserto e l’attesa della terra promessa, attende l’arrivo del messia regale. La liturgia di questa festa, accennata dal Salmo (cfr. v. 27b), prevede l’uso di rami frondosi in corteo, fino ad arrivare ai lati dell’altare, e richiama certamente la descrizione matteana dei rami tagliati dagli alberi e disposti lungo la strada (v. 8). Anche il grido “Osanna” è ripreso dal Salmo 118 al v. 25, dove il testo ebraico recita: “hoshî’anna’” che si traduce: “ tu fai la salvezza”. 1

L’espressione “figlio di Davide” è tipicamente giudaica e matteana. La troviamo nella genealogia di Gesù, fin dall’inizio del Vangelo (1, 20) e in altri contesti di supplica e guarigione (9, 20; 12, 23; 15, 22; 20, 30 – 31), in cui è messa in gioco la fede nel messia. In particolare in 12, 23 il titolo davidico applicato a Gesù da un lato esprime una domanda di fede della folla, ma dall’altro sembra anticipare il rifiuto dei farisei e dei capi giudaici, in altri termini l’incomprensione e il rifiuto di Israele (cfr. 12, 24; 22, 42). Anche qui nell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, la folla reagisce alla fine rispondendo alle domande agitate dei cittadini: “Chi è costui?”: è il profeta Gesù da nazareth d Galilea”. (v. 11) Al termine del nostro percorso matteano, possiamo ben affermare che questa affermazione della folla non possa affatto essere sposata dal narratore anzi, perché Gesù è ben più che un profeta! Essa esprime e quasi inaugura il futuro rifiuto di Gerusalemme nei confronti nel messia regale umile e pacifico che è arrivato a lei.

7.4.4 NEL QUADRO DEL MACRORACCONTO

Una simile agitazione aveva preso i notabili della corte di Erode all’arrivo de magi, che chiedevano: “Dov’è il re dei giudei che è nato?”. Questa allusione alla regalità di Gesù è stata confermata nel racconto matteano dell’infanzia dalla citazione esplicita di Is 7, 9 in 1 , 23, che riguarda un messia davidico e ancora in 2, 5 – 6 dove viene citato Mic 5, 1. 3. Tutta la narrazione inoltre suggerisce uno scontro tra il re davidico Gesù e il falso re Erode, che intende mantenere il potere con la violenza, opponendosi al piano divino. La vittoria divina viene qui anticipata misteriosamente: non si tratta però di una vittoria ottenuta con le armi della politica e con gli eserciti, ma con la forza umile di un re che muore in croce per la salvezza del suo popolo.

Ancora una volta la figura regale appare, lungo tutto il percorso del vangelo, compiuta nella mitezza e umiltà del servo sofferente. Qui si compie l’Emmanuele, il messia Dio con noi, che con la potenza della resurrezione acquisterà potere sulla terra e nei cieli (cfr. 28, 18). Egli sarà con i suoi discepoli tutti i giorni, fino alla fine del mondo ( cfr, 28, 20). Il tipo regale trova compimento definitivo nel mistero pasquale, li dove grazie alla potenza della resurrezione, il re umile sarà vittorioso in ogni tempo e in ogni luogo. È l’instaurazione ultima del Regno dei cieli che si compie nella storia grazie all’invio dei discepoli di Gesù.

1 Nella festa di sukkot, l’ultimo giorno di festa la folla agita il “lulav”, un bouquet di rami, al grido d Osanna (cfr. Lv 23, 40).

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7. 5 LA TIPOLOGIA DEL SERVO SOFFERENTE

Lo sfondo di Is 53 si trova ben presente nelle fonti che i sinottici utilizzano per descrivere la passione e morte di Gesù. Gli annunci della passione (Mc 8, 31/ Mt 16, 21 – 23/ Lc 9, 22; Mc 9, 30 – 31/ Mt 17, 22 – 23/ Lc 9, 43 – 45; Mc 10, 33 – 34/ Mt 20, 17 – 19/ Lc 18, 31 – 33) si basano su delle fonti che hanno come riferimento Is 53, 1 – 12. L’uso del verbo “consegnare” (paradidomi cfr. Mc 9, 31 par.: “Il figlio dell’uomo viene consegnato nella mani degli uomini e lo uccideranno, ma dopo tre giorni risorgerà”; Mc 10, 33 par.; Is 53, 6 LXX: “Il Signore lo ha consegnato per i nostri peccati”; Is 53, 12: “per questo erediterà i molti e dei forti farà bottino, al posto dei quali fu consegnata alla morte la sua vita e fu annoverato tra gli empi ed egli stesso portò i peccati di molti e per i loro peccati fu consegnato”) è un allusione al testo di Is 53, 6. 12 perché il soggetto della consegna è Dio. Nonostante questo termine si trovi spesso anche nei Salmi per indicare la consegna nelle mani dei nemici, in realtà si tratta di un invocazione del Salmista nei confronti di Dio per scongiurarla (Sal 26, 12 LXX; Sal 74, 19 LXX; Sal 87, 9 LXX). Anche nel Salmo 87 in fondo prevale una tonalità di supplica che intende quasi “accusare” Dio per suscitare una sua risposta d’amore, che verrà in effetti nel Salmo 88, con un rapido passaggio dalla supplica alla lode.

Solo In Is 53 la consegna del servo sofferente è vista come un progetto di Dio stabilito fin dall’inizio e di fronte al quale il servo si pone in atteggiamento di obbedienza silenziosa (cfr. Is 53, 7) ed è precisamente questa la prospettiva degli annunci della passione.

Lo sfondo del servo sofferente di Isaia assume un carattere tipologico, che emerge chiaramente nella volontà del narratore in altri punti dei vangeli, come ad esempio in Mt 12, 15 – 21, dove si trova un ampia citazione esplicita di Is 42, 1 – 4 a commento del silenzio imposto da Gesù verso i beneficiari dei suoi miracoli di guarigione (cfr v. 16). La mitezza del servo si pone in antitesi con la violenza dei suoi avversari, che tengono consiglio contro Gesù per farlo morire (cfr. 12, 14), dopo un miracolo compiuto in giorno di sabato. Segue la controversia di Gesù con i farisei a motivo dell’autorità con cui egli scaccia i demoni (cfr. vv. 22 – 32). Il contesto narrativo prepara lentamente il corso degli eventi futuri, ossia il rifiuto che Israele, rappresentato dai suoi capi, farisei e scribi, opporrà al figlio dell’uomo e la sua messa a morte per i peccati del popolo (cfr. Mt 26, 28; Is 53, 12).

Nella versione matteana della cena pasquale (Mt 26, 26 – 30) è sottolineato il carattere espiatorio della morte di Gesù, ossia la sua funzione di remissione dei peccati. Si tratta di una reinterpretazione del testo di Is 53, 5 - 6. 12 dove viene affermato il fatto che il servo sofferente è stato consegnato da Dio a causa dei peccati del popolo e che tramite questo castigo ne è derivata una salvezza per il popolo. Se qui l’idea dell’espiazione è solo implicita (non si parla infatti esplicitamente di remissione dei peccati, ma solo genericamente di salvezza) nel testo di Matteo l’istituzione del sangue della nuova alleanza versato per la remissione dei peccati acquista una connotazione innegabilmente sacrificale ed espiatoria. La morte di Gesù in croce, anticipata e già simbolicamente contenuta nell’istituzione eucaristica, è considerata come un sacrificio che espia i peccati del popolo e questa “consegna” di Dio compie il disegno rivelativo e salvifico del servo sofferente proprio passando attraverso il rifiuto e il male degli uomini e di Israele in particolare.

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Non a caso è proprio il sangue di Gesù che viene invocato dalla folla inferocita che chiede a Pilato la crocefissione di Gesù: “il suo sangue ricada su di noi e suoi nostri figli (cfr. 27, 25 – 26)”. Ad una prima lettura sembra che si tratti di una colpa da far semplicemente ricadere sul popolo, dal momento che Pilato se ne lava le mani dichiarandosi innocente del sangue (v. 24). In realtà proprio il riferimento all’innocenza e alla colpa richiama la tipologia del servo sofferente. Come il servo Gesù porta su di se il peccato del popolo, più del servo Gesù espia il peccato con il suo sangue, il sangue della nuova alleanza che ricade sul popolo e sui figli non per condannarli ma per salvarli in modo definitivo.

8. FILIAZIONE E COMPIMENTO NEI VANGELI

Nel vangelo di Luca e, in particolare, nei racconti dell’infanzia (cc. 1 – 2) lo Spirito è il vero protagonista. Egli è colui che colma i protagonisti di questi racconti (Elisabetta, Zaccaria e Maria cfr. 1, 35. 41. 67) perché accada la novità straordinaria, la nascita miracolosa del figlio dalla sterile e del Figlio dalla vergine.

Ciò che accade compie l’attesa antica e le figure originarie di questa attesa, Abramo e Sara, ma anche Isacco e Rebecca, Giacobbe e Rachele. Figure di spose amate ma sterili, e di padri nella fede in avanzata età (cfr. Gen 18, 11; Lc 1, 7), che hanno attraversato la valle di tenebre del dubbio (cfr. Gn 15, 2; Lc 1, 20).

Nel Vangelo dell’infanzia il compimento dello Scritture è nascita, filiazione, novità improvvisa e inaspettata di un dono: il dono di un figlio, nel quale si anticipa il dono stesso del Figlio. Nella storia di Zaccaria ed Elisabetta è ricapitolata tutta la storia dell’Antico Testamento, storia di un’ attesa, l’attesa di un figlio, che diviene sempre più attesa definitiva del Figlio che ci è stato dato perché sia il Dio con noi (cfr. Lc 1, 32 – 33. 43 - 44).

Ma l’opera dello Spirito non si ferma qui. Egli non solo compie la generazione fisica nella novità del miracolo, ma molto più opera la comunione tra padri e figli, una comunione rinnovata in una rete di rapporti carnali e insieme spirituali. Giovanni il Battista è colui che dovrà preparare un popolo ben disposto con la potenza dello Spirito Santo, riconducendo il cuore dei padri verso i figli (Lc 1, 17), ultima e definitiva ripresa della missione di Elia, secondo l’ultimo profeta dell’Antico Testamento (Mal 3, 24).

Rinnovata comunione tra padre e figli: è questo che opera lo Spirito Santo anche nella tessitura narrativa del vangelo dell’infanzia secondo Luca. Non è forse Maria a recarsi dalla <<madre>> Elisabetta onorando in essa l’anzianità? Non è forse Elisabetta a ricambiare l’onore definendo Maria la “Madre del mio Signore”? (Lc 1, 43). Lo Spirito ha reso uguali nell’onore due generazioni distanti e la sua voce entra talmente nella carne da farsi udire nel ventre: “Ecco appena la voce del tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo” (Lc 1, 44).

Lo Spirito opera l’unione di padri e figli perchè egli stesso è l’amore che compie Antico e Nuovo Testamento nel Figlio e in Lui li rende simultaneamente veri. Nel reciproco onore che Elisabetta e Maria si rendono per opera dello Spirito Santo, c’è la mutua reciprocità di Antico e Nuovo

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Testamento che sono entrambi affacciati al mistero del Figlio, come due grembi partorienti in gioioso contatto tra di loro (Lc 1, 44).

Lo Spirito opera l’unione di padri e figli perché Egli stesso è l’amore del Padre e del Figlio movimento di perenne novità che rivela Gesù come il Figlio amato (Lc 3, 21 – 22) e lo sospinge al compimento della Sua missione (cfr. Lc 4, 1. 14).

Al versante opposto del Vangelo lo Spirito, che verrà donato il giorno di Pentecoste, viene promesso dal Figlio prima della Sua ascensione (Lc 24, 49), per trasferire ad ogni uomo la benedizione di Gesù, benedizione di un padre nei confronti dei suoi figli (Lc 24, 50; cfr. Gn 49; Dt 33). Attraverso lo Spirito che ci ha donato Gesù ci rende figli, così da farci penetrare nella misericordia del Padre, sia che siamo figli maggiori come Israele, sia che siamo figli minori come i pagani (cfr. Lc 15, 11 – 32).

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