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LO STUDIO DI MIO PADRE, UNA TRADIZIONE DI ARCHITETTI LO STUDIO A dirigere l’orchestra, senza spartito, sembrava adatto. Un’orchestra particolare, composta di architetti, geometri, designer e studenti, questi ultimi fortemente impegnati ad apprendere norme elementari di tecnica costruttiva e di composizione architettonica. Del resto, nelle sue confidenze, manifestò più volte: “Se non avessi fatto l’architetto, avrei desiderato immergermi nel mondo musicale classico, formandomi alla scuola dei grandi direttori d’orchestra”. Penso che i due mondi non siano così distanti, perché se le note di una sinfonia classica sono organizzate su una architettura di suoni e di melodie, una bella architettura può trasmettere emozioni percepite come sublimi armonie musicali. Michele Busiri Vici, nei primi anni ’20 si accosta alla professione insieme al fratello minore Andrea ed al milanese Luigi Vietti nello studio del fratello maggiore, Clemente, autore della palazzina di Via Paisiello a Roma, ben nota per le sue caratteristiche “metafisiche”. (fig. 1) Il sodalizio si consolida nel corso di qualche anno di intenso lavoro e di fraterna collaborazione. Anche per la prematura scomparsa del padre Carlo (1856 – 1925), (fig. 2) insigne architetto dell’epoca, attivo a Roma con l’architetto Virginio Vespignani, i percorsi 1

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LO STUDIO DI MIO PADRE, UNA TRADIZIONE DI ARCHITETTI

LO STUDIO

A dirigere l’orchestra, senza spartito, sembrava adatto. Un’orchestra particolare, composta di architetti, geometri, designer e studenti, questi ultimi fortemente impegnati ad apprendere norme elementari di tecnica costruttiva e di composizione architettonica. Del resto, nelle sue confidenze, manifestò più volte: “Se non avessi fatto l’architetto, avrei desiderato immergermi nel mondo musicale classico, formandomi alla scuola dei grandi direttori d’orchestra”.Penso che i due mondi non siano così distanti, perché se le note di una sinfonia classica sono organizzate su una architettura di suoni e di melodie, una bella architettura può trasmettere emozioni percepite come sublimi armonie musicali.Michele Busiri Vici, nei primi anni ’20 si accosta alla professione insieme al fratello minore Andrea ed al milanese Luigi Vietti nello studio del fratello maggiore, Clemente, autore della palazzina di Via Paisiello a Roma, ben nota per le sue caratteristiche “metafisiche”. (fig. 1)Il sodalizio si consolida nel corso di qualche anno di intenso lavoro e di fraterna collaborazione.Anche per la prematura scomparsa del padre Carlo (1856 – 1925), (fig. 2) insigne architetto dell’epoca, attivo a Roma con l’architetto Virginio Vespignani, i percorsi professionali dei fratelli Busiri Vici tendono a rendersi prevalentemente indipendenti, salvo incrociarsi e ritrovarsi poi in occasioni di particolare importanza (Committenza Gualino, Padiglione Italiano a New York, palazzina Bises, collaborazione con il fratello maggiore in alcuni edifici di culto ecc.). E ciò a differenza di altri “storici” studi romani in cui la tradizione professionale di famiglia si è spesso consolidata in una consuetudine unitaria, costante nel tempo.La prima vera organizzazione dello studio professionale Michele Busiri Vici la fonda, nei primi anni ‘30 del secolo scorso, in via Bruxelles, al piano attico di una palazzina realizzata nel 1934 dal fratello minore Andrea e ampiamente documentata su riviste dell’epoca e recenti pubblicazioni, anche per l’uso innovativo di estese strutture in cemento armato, tradotte in balconi a sbalzo che circondano l’edificio su tre lati.

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Curioso ma casuale il fatto che la sua attività professionale venga svolta prima in un edificio di Clemente, poi in un altro di Andrea che, nella stessa strada, realizza altre palazzine ricorrendo a modelli più tradizionali.A via Bruxelles mio padre esercita la professione per oltre vent’anni, con incarichi pubblici e privati di qualità, parzialmente interrotti dallo scoppio della seconda guerra mondiale.A Roma ricordo, fra gli altri, Villa Attolico, la palazzina Bises ed alcuni interventi importanti di architettura degli interni, fra cui l’Atelier delle Sorelle Fontana a Piazza di Spagna. Gli spazi dello studio erano contenuti, ma l’organizzazione e le collaborazioni erano di prim’ordine. Basti ricordare che in quello studio fu progettato il Padiglione Italiano alla Fiera internazionale di New York del 1939-40, (fig. 3) ampiamente commentato nell’apposita scheda. Mi preme qui brevemente ricordare, al riguardo, come mio padre riuscì ad ottimizzare l’impegno e le responsabilità del complesso lavoro newyorkese con gli incarichi che, nello stesso periodo, fioccavano numerosi nel contesto romano e nazionale. A Manhattan, dove mio figlio Michele junior, architetto, oggi è attivo da oltre 20 anni, aprì uno studio dedicato al Padiglione e lì ne sviluppò la fase esecutiva con gli usi americani che, fin d’allora, esigevano una progettazione integrale.L’alternanza tra Roma e New York era misurata in semestri di intenso lavoro, interrotto dalle numerose traversate di navigazione sul Rex e/o sul Conte di Savoia, allora fiori all’occhiello della flotta nazionale. Esse, in assenza all’epoca di voli tra Italia e Stati Uniti, costituivano momenti di riposo e di riflessione, di forte creatività e di positiva rigenerazione fisica. A tali pause ed alle lunghe permanenze a New York corrispose una fitta corrispondenza con i suoi numerosi, giovanissimi figli che, in modo divertente e spigliato si esercitavano in fantasiose ricostruzioni grafiche di navi e grattacieli. (fig. 4).Soltanto negli anni ’50, superato il periodo bellico in cui progettazioni, brillantemente avviate, subirono inevitabili ripensamenti, ritardi e/o cambi di programma, Michele Busiri Vici si decise a un salto di qualità nelle modalità organizzative dello studio professionale. L’occasione gli è offerta dalla progettazione coordinata di un tandem edilizio, villino e palazzina a Via Salaria, nelle immediate adiacenze della villa Lancellotti. A tale progettazione si aggiunse lo studio di una soluzione particolare di nuova viabilità in coincidenza di un nodo di traffico che, a distanza di quasi 70 anni, non solo non è stato mai risolto, ma si è andato progressivamente aggravando per i forti e crescenti volumi di traffico di questi tre quarti di secolo.

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In uno dei due edifici realizzati, riserva a se stesso i piani attico e superattico, per una superficie complessiva di circa 300 mq. A ciascuno dei due livelli corrispondono due ampie terrazze da lui accuratamente organizzate, in un’alternanza di fioriture stagionali e perenni, con l’assortimento di rose delle migliori varietà e l’inserimento di sedute e leggeri divisori che consentissero a tutti i componenti dello staff il respiro di una boccata d’aria e l’esercizio di quattro passi salutari dopo lunghe ore trascorse al tavolo da disegno. (fig.5-6)Presenti sia all’interno sia all’esterno elementi della più classica romanità da lui disegnati a decorare pavimenti, vedute panoramiche e opere in ferro. Il richiamo ricorrente era alle piazze romane, le cui vedute prospettiche riuscivano a dilatare gli spazi in una varietà di immagini e di sintesi fantasiose.Brodo di giuggiole per i numerosi collaboratori stranieri che, arrivando a studio da paesi vicini e lontani, sembravano favorevolmente colpiti da rappresentazioni della memoria storica romana.Studente di architettura, cominciavo allora ad affacciarmi timidamente nello studio paterno, per cercare di assorbirne l’atmosfera fatta di elementi costruttivi, linguaggi compositivi, norme edilizie e comunque tutto ciò che potesse accompagnarmi in modo concreto nel mio percorso universitario. Debbo dire che lo facevo molto discretamente perché la mia posizione, ovviamente privilegiata, non desse mai l’impressione di scalare ruoli e posizioni non conquistate sul campo.Il salone dei disegnatori, con una quindicina di tavoli registrava, talvolta una babele di lingue incomprensibili. (fig.7) Carta e matita, schizzi e ipotesi preliminari, superando difficoltà linguistiche, riconducevano la rumorosa orchestra alla concretezza della sintesi. Mio padre, che per riunioni con fornitori e clienti si era riservato il superattico, amava trascorrere gran parte del suo tempo nella collegialità del salone dove occupava abitualmente un tavolo d’angolo, ricoperto di carte, corrispondenza, documenti, schizzi, disegni. Lo spessore aumentava, quotidianamente, in maniera esponenziale.La sua abituale tranquillità veniva messa a dura prova quando qualche segretaria di turno di buona volontà intendeva, diligentemente, mettere ordine sul suo tavolo. Il risultato immediato era che papà non trovava più niente di quanto necessitasse e la sua ira, controllata e cavalleresca, si indirizzava sulla malcapitata responsabile.Aggirandosi di continuo fra i tavoli, si compiaceva dello stato di avanzamento raggiunto dai responsabili dei progetti, rammaricandosi, invece, quando gli studi e le ipotesi preliminari non erano state correttamente interpretate. Del resto non era sempre facile comprenderle, perché l’approccio progettuale preliminare di mio padre era fatto su pezzetti di carta poco più grandi di un francobollo.

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Pistava e ripistava, sporcando e cancellando, talché non ne risultava uno schema sempre chiaro e leggibile per colui che avesse dovuto prenderlo in carico. Soltanto alcuni giovani e meno giovani, più anziani per frequentazione dello studio, capivano al volo e con poche parole e qualche pupazzo, traducevano l’idea in ipotesi e l’ipotesi in studio preliminare. Di forte tensione emotiva fu il periodo intermedio del mio percorso universitario. Deluso dal risultato negativo e/o mediocre di alcuni esami, interessato al dibattito politico allora fortemente ideologizzato, tentennai molto e fui tentato di lasciare gli studi universitari per occuparmi di politica attiva.Mio padre ebbe una reazione dura, poco indulgente. Avrebbe, in tal caso, chiuso lo studio e si sarebbe ritirato a vita privata. Cedetti, a malincuore, e ripresi gli studi. Col senno di poi, conoscendo pregi e difetti del mio carattere, penso di dovergliene essere grato. (fig. 8)Laureatomi nel 1960, non senza problemi e difficoltà che mi erano causati, frequentemente, dalle idee di una parte del corpo docente secondo la quale i figli di architetti dovessero, necessariamente, essere bravi e “imparati”, mi “accasai” con più frequenza allo studio paterno, per inserirmi in qualche filone progettuale allo stato iniziale, o in corso di elaborazione. Non mi sono sottratto alla regola cui dovevano sottostare i poveri novizi: quella di cominciare a far pratica disegnando, in tutte le salse, nodi di infissi. Esercizio utile, forse serviva a ipotecare il Paradiso ma era quanto di più noioso e monotono si potesse immaginare, riuscendo a provocare frustrazioni e nevrosi.Dopo una breve parentesi di servizio militare, effettuato tra Arezzo e Roma, senza gradi da semplicissimo soldato, feci tombola con l’inizio e l’avvio della splendida esperienza sarda, in quello straordinario territorio di oltre 3000 ettari e 50 chilometri di sviluppo costiero al nord dell’isola, in prossimità della Gallura, poi universalmente noto con il nome “Costa Smeralda”. Conoscere l’integrità di una terra, studiarne le caratteristiche, rispettarne le specificità, esplorarne angoli ed anfratti, fotografarne le mutazioni stagionali, percepirne morbidezze di sabbie candide e trasparenze di acque cristalline fu motivo di emozione e di sfrenati entusiasmi, condivisi con mio padre e gli architetti fondatori. Lo zoccolo duro formato da Michele e Giancarlo Busiri Vici, Jacques Couëlle, Raymond Martin, Antonio Simon Mossa e Luigi Vietti siglò, immediatamente, un patto di non belligeranza con una natura incontaminata e forse attonita al cospetto di alieni che si candidavano ad interagire con essa.Guidati da un giovane principe ismailita, (fig.9) alternavamo riunioni in uno squallido hotel di Olbia a sopralluoghi a piedi, in fuoristrada e/o in ansimanti barconi di

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pescatori. I click reiterati delle macchine fotografiche rompevano i silenzi assordanti di luoghi inaccessibili, esaltati dai profumi sublimi della folta e contorta vegetazione autoctona. Soltanto la determinazione e l’alto livello di sensibilità diffuso del team di architetti infranse, inizialmente, il senso di impotenza e forse di inadeguatezza a colloquiare con luoghi e spazi inaccessibili, lontani da Dio e dagli uomini. Il territorio inesplorato, sembrava volersi sottrarre a intrusioni di ogni natura. La presenza di capacità organizzative e manageriali non comuni riunite intorno a Ivone e Giancarlo Grassetto, costruttori di Padova, riuscirono, in quei primi anni, a colmare lacune apparentemente insuperabili. Mancavano infrastrutture primarie e secondarie, scarseggiava qualsiasi tipo di relazione umana, le distanze si misuravano per via aerea, in decine e decine di chilometri, affioravano diffidenza e incomprensioni con i pochi e spesso irraggiungibili insediamenti locali.Tra gli architetti fondatori si stabilì di aprire uno studio ad Olbia che, tuttavia, ebbe vita breve. Il richiamo esercitato dalle diverse provenienze culturali e professionali dei cinque architetti fondatori – Busiri Vici, Couëlle, Martin, Simon Mossa e Vietti – tendeva a prevalere sulle lunghe permanenze in loco. (fig. 10-11) L’esperienza fu comunque utile per l’affermazione di denominatori comuni, linguaggi omogenei non contrapposti e sacrifici e rinunce a quelle che erano abitudini di vita e di lavoro a Roma, Parigi, Saint’Etienne, Sassari e Milano. Servì, soprattutto, alla stesura collegiale di un piano generale di sviluppo urbanistico con l’individuazione di alcune zone edificabili prioritarie, alternate ad estese porzioni di territorio verdi e rigorosamente inedificate. (fig. 12)Lo studio di mio padre in quegli anni ed in quelli immediatamente successivi, fu fortemente coinvolto in esperienze di breve e medio periodo. La più importante e significativa fu quella dell’Hotel Romazzino, la cui gloriosa dirigenza cinematografica e alberghiera, la Rank Organization, ci affidò l’incarico di una progettazione integrale. Ci si chiedeva di inventare, nell’arco di dodici mesi, i progetti dell’albergo, dell’architettura degli interni, dell’arredamento, delle decorazioni e del parco circostante utilizzando, in quest’ultimo caso, le numerose positive esperienze acquisite da mio padre nel settore paesaggistico. Per non perdere la stagione l’inaugurazione doveva avvenire nell’estate del 1965. O prendere o lasciare. Il tema era affascinante, la sfida intrigante. Non esitammo, incoraggiati e contagiati dalla forte disponibilità dei nostri numerosi collaboratori.Prima ancora dei grafici progettuali, nell’arco di un mese presentammo all’esame del Comitato di Architettura del Consorzio un plastico elaborato e modellato sul piano

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quotato del terreno, coerente alle condizioni orografiche, leggermente acclivi e digradanti verso le sabbie bianchissime del golfo.L’albergo, grazie alla mobilitazione entusiasta del nostro studio ed all’organizzazione di cantiere curata alla perfezione dall’impresa Grassetto che, nella fase conclusiva dei lavori, con tre turni di otto ore, coprì le 24 ore lavorative, sorse nei tempi richiesti, rendendo concreto un obiettivo parso inizialmente problematico e di difficile praticabilità. Accanto alla professionalità dei numerosi collaboratori, si era registrata una forte convergenza familiare guidata da mio padre e costituita dal sottoscritto e dalle mie sorelle Francesca e Giovanna, preziose per ricerche di stoffe ed ambientazioni interne. Si attinse al Lazio e al Centro-Sud italiano, mentre arredi e mobili nobilitati e impreziositi, talvolta, dagli splendidi smalti De Poli di Padova, venivano realizzati, su nostro disegno e previa campionatura di prototipi, dalla Ditta Dal Vera di Conegliano Veneto. Sulla scorta di alcune camere-tipo approvate dalla proprietà, nostro obiettivo era quello di variare, nella successione delle stanze, l’effetto cromatico di stoffe e rivestimenti dei bagni. Ciò riusciva a creare, negli ospiti dell’albergo, una sensazione di novità e curiosità. Dalla stessa Rank fummo chiamati l’anno successivo a Londra per realizzare, in un albergo a torre, affacciato su Hyde Park, due ristoranti. Mio padre ed io, alternandoci, nel corso del mese di agosto, completammo uno dei due ristoranti progettati, con maestranze esclusivamente romane. L’ammirazione soddisfatta dei dirigenti Rank era al colmo, per la rapidità di realizzazione rispetto ai loro tempi di lavoro e per la straordinaria capacità dei vari artigiani e decoratori, da noi lungamente sperimentati e di nostra completa fiducia.A quest’opera, rilevante per dimensioni e qualità, si aggiunsero prima e dopo numerose progettazioni dello studio: condominii, ville, altri alberghi e la Chiesa “Stella Maris”, sorta al centro di Porto Cervo. Concepita esclusivamente da mio padre, risultò gradita a credenti e non credenti, perché di essa si ammira la purezza delle linee, la singolarità dei materiali, il minimalismo dell’aula ecclesiale che, con la luce filtrata dal tamburo e proiettata sull’altare, riesce a creare un’atmosfera surreale, di grande raccoglimento spirituale. Insieme all’attiguo condominio “Sa Conca”, primissimo corpo edilizio da noi realizzato a Porto Cervo, essa costituisce un riferimento importante nello sviluppo del linguaggio architettonico dei primi 50 anni della Costa.Tutto è stato reso possibile dal Comitato di Architettura, filtro interno del Consorzio, severo al punto giusto e talvolta più rigoroso dei controlli pubblici di Comune, Regione e Sovrintendenza.

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Sì, perché sul rispetto e tutela del territorio c’era il consenso unanime di proprietari e architetti fondatori. Ciò pagava anche nei confronti di un’opinione pubblica illuminata ed attenta che non avrebbe tollerato attentati alle identità paesaggistiche dei luoghi. E veniva quindi considerato un vero e proprio valore aggiunto.Il Comitato di Architettura voluto e istituito fin dall’inizio dal principe Karim ha svolto un ruolo essenziale nella preliminare valutazione dei progetti sottoposti al suo esame. Un apposito, dettagliato regolamento edilizio formulato dagli architetti fondatori, ne articolava ruoli e funzioni, aggiungendo ad una minuziosa verifica progettuale a tavolino di grafici, modelli e relazioni il sopralluogo nei siti previsti dall’edificazione. Esso era ed è mirato alla compatibilità di superfici e volumi con la presenza di eventuali emergenze lapidee, particolari esemplari di vegetazione, fra tutte il nobilissimo ginepro nelle sue varie specie e dimensioni, ed infine la consapevolezza di non danneggiare visuali ed orizzonti panoramici di qualità.Tale Comitato, al di là delle gestioni proprietarie del Consorzio susseguitesi nel tempo, gode di riconoscimenti ed apprezzamenti pressoché unanimi e dopo 55 anni di onorato servizio, continua ad assolvere alle sue funzioni.Ne hanno fatto parte gli architetti fondatori, tecnici, esperti rappresentativi di competenze disciplinari diverse. Attualmente è presieduto dal sottoscritto che è ben consapevole delle responsabilità assunte e dell’impegno costante cui è chiamato, anche perché il fenomeno “Costa Smeralda”, dopo oltre mezzo secolo di vita, registra una fase di bilanci, analisi, consuntivi di accentuata problematicità.Se ne sottolineano successi e positività, se ne evidenzia qualche ombra ed alcune fragilità, inevitabili in uno sviluppo turistico di questa portata. La nuova proprietà internazionale sembra proporsi con sensibilità e discrezione.L’evoluzione di lungo periodo è stata talvolta ostacolata da interessi locali di piccolo cabotaggio e da ragioni di Stato non sempre lucide, talvolta incapaci di operare scelte mirate di ampio respiro. Situazioni politiche conflittuali, incertezze di fondo sullo sviluppo dell’isola hanno reso difficoltoso un percorso scrupolosamente rispettoso di leggi e normative, nazionali e regionali. Il dubbio che, per gran tempo, aveva paralizzato le forze politiche era quello di una scelta strategica tra un processo di moderna industrializzazione da un canto e lo sviluppo su larga scala di un turismo di livello dall’altro. Non ci si rendeva forse conto che l’uno non escludeva l’altro e, soprattutto, che un turismo di eccellenza poteva rappresentare un volano formidabile per sviluppi, indotti, di tipo industriale. Del resto, questa fu la scelta di fondo che storici e sociologi, sapranno attentamente valutare.

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Non va dimenticato che mio padre intervenne in Sardegna prima e durante le vicende della Costa Smeralda. Negli anni ’50 a Nuoro, capoluogo della Barbagia, zona spesso agli onori della cronaca per vicende non sempre liete, poi a Palau, Santa Teresa di Gallura e Villasimius, situata all’estremo sud dell’isola su di uno splendido lembo di mare. Le sue frequenti assenze da Roma, dovute anche ad incarichi ricevuti in Puglia, Sicilia e sulle coste laziali e campane, non gli impedivano di seguire con la giusta attenzione il lavoro di studio. Forse perché sapeva di poter contare su di me che lo relazionavo frequentemente anche sui non sempre semplici rapporti con la clientela, talvolta impaziente, sempre esigente e determinata a richiedere la massima disponibilità professionale, quasi che l’architetto e i suoi collaboratori dovessero occuparsene in maniera esclusiva e totale. Certamente, in tale contesto, assumevano grande rilievo anche i collaboratori di studio che tamponavano situazioni delicate, rispondendo a scadenze e responsabilità in maniera puntuale e convincente. Accanto ad italiani di lungo corso, la cui prolungata e costante presenza a studio ne costituiva l’ossatura portante, insieme a numerosi collaboratori taluni più giovani, alle prime armi, altri di esperienze già consolidate, Michele Busiri Vici amava circondarsi di contributi stranieri rispondendo a richieste provenienti dal Nord Europa all’Egitto, dalla Iugoslavia alla Romania, agli Stati Uniti. In particolare lo affascinavano i rappresentanti del mondo scandinavo, come lo svedese Gunnar Martinsson, esperto di paesaggio, o la norvegese Marianne Gulowsen, le cui capacità di designer nell’ambito dell’arredo e della architettura degli interni venivano utilizzate nello sviluppo di progetti dello specifico settore. E’ altresì da ricordare che, già in quel periodo, il mobile svedese batteva cassa al punto di giustificare appositi punti vendita “dedicati”, a Roma ed in numerose città italiane. Fra i tanti collaboratori alternatisi per lunghi periodi nello studio, desidero ricordare Leopoldo Mastrella che, insieme ad altri, si è prodigato a coadiuvare mio padre in tutte le vicende progettuali più significative. Ciò a partire dagli anni cinquanta, quando, poco meno che diciottenne si presentò a studio senza arte né parte. Cresciuto rapidamente nelle capacità di manualità rappresentativa, divenne, in pochi anni, il collaboratore progettuale principale di mio padre, di cui interpretava a volo, sulla base di pochi schizzi preliminari, idee ed obiettivi.Il tema collaborazioni meriterebbe ben altro sviluppo in queste mie sintetiche riflessioni. Anche perché non si può negare che esse abbiano determinato, nelle singole elaborazioni progettuali, variazioni di tecniche rappresentative facilmente

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riconoscibili nella abilità, più o meno spiccata, della mano che “metteva in pulito” il disegno definitivo. In via preliminare tutto rigorosamente a mano libera, poi a riga e squadra, con l’aggiunta finale dei famosissimi retini, mai sufficientemente rimpianti, e di faticosi tratteggi manuali ad evidenziare funzioni, ombre, murature, zonizzazioni.Un solo tecnigrafo testimoniava malinconicamente la “tecnologia” dell’epoca. L’uso era limitato e nascosto a mio padre che non lo amava perché, secondo lui, induceva ad una rappresentazione rigida e squadrata e gli ricordava gli strumenti degli studi odontoiatrici. A metà degli anni ’60 mio padre ed io fummo chiamati dalla Società di navigazione “Italia” a rispondere ad un concorso ad inviti per alcuni importanti raggruppamenti di ambienti della T.N. Raffaello, di 50.000 tonnellate.Lo vincemmo, facendo seguire alla progettazione preliminare una elaborazione esecutiva integrale dettagliatissima che passò, con successo, all’esame dei Cantieri riuniti di Trieste esecutori dell’opera. Per oltre due anni, utilizzando treno, aereo o auto, visitammo frequentemente Trieste. Fu un incarico che accogliemmo con grande gioia per il suo grande fascino, per le novità estetiche, decorative e strutturali che esso coinvolgeva e che, forse, almeno parzialmente, traduceva in realtà i sogni e le fantasie di mio padre, lungamente maturate nel corso delle sue tante traversate transatlantiche Napoli – New York – Napoli al tempo della Fiera Internazionale del 1939. In quegli anni, chiamata frequentemente da mio padre, collaborava allo studio Assia Olsoufieff, moglie di mio zio Andrea. Russa bianca, fuggita rocambolescamente in carrozza a cavalli da Mosca all’avvento dei Soviet, era abilissima ad acquarellare, a velocità supersonica, disegni e prospettive di progetti la cui rappresentazione, per una ragione o per l’altra, doveva risultare più gradita ai committenti. Il clima respirato a studio era “frizzante”, raramente teso o depresso. Il dialogo costante faceva emergere talora convinzioni diverse. Esse venivano ricondotte a soluzioni di sintesi unitaria. La partecipazione a visite di cantiere rendeva a tutti più facile e comprensibile la percezione di quanto lungamente metabolizzato a tavolino.Storica ed unica nel suo genere fu, al riguardo, la visita in Sardegna per il pranzo di copertura dell’hotel Romazzino. L’intero staff, quasi totalmente coinvolto nelle frenetiche fasi progettuali, partecipò ad una “tre giorni” in terra sarda culminata nel festoso pranzo di copertura, alla presenza di oltre 200 operai e dirigenti dell’Impresa Grassetto. Non mancarono discorsi, canti e stornelli in un’atmosfera di soddisfazione e allegria dei presenti, tutti consapevoli che gli stati di avanzamento dei lavori erano stati rispettati e che ci si proponeva ormai in dirittura d’arrivo.

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Mio padre, dopo 17 anni di intensa frequentazione, si ritirò dall’isola, anche a seguito di un brutto incidente automobilistico avvenuto nei pressi di Porto Cervo, quando, a causa del manto stradale viscido, fece un testa coda ribaltandosi. Fu estratto dal finestrino e la sfiorata lesione di una vertebra cervicale lo costrinse ad una lunga degenza al Policlinico Gemelli di Roma ed alla successiva applicazione di un collare protettivo. Guarito, riprese in misura ridotta la sua professione fino al 1978. A tale periodo va ricondotto un evento rarissimo nella sua lunga militanza professionale. L’acceso diverbio che ebbe con un cliente lo segnò fortemente, costringendolo, quindi, a sospendere le sue attività.Alla sua morte, nel 1981, io proseguii il lungo percorso comune iniziato sulle coste sarde nel 1961 ed oggi, dopo 55 anni, mi trovo ancora, insieme ad altri, a dovermi misurare con maggiore impegno e determinazione alla conservazione di scelte di sviluppo strategiche, di medio e lungo periodo, a conquiste irrinunciabili di corretta espansione urbanistica, sporadicamente insidiate da tentativi di sottrazione alle regole.Nel corso di oltre mezzo secolo qualche sbavatura c’è stata e la delusione ha provocato sconforto e amarezza in chi credeva di poter controllare ogni centimetro quadrato di un territorio vasto e complicato.Intanto lo studio romano di via Salaria, fin dalla fine degli anni ’50, si era andato cimentando con un filone importante della sua attività. Si andavano delineando, con chiarezza, le linee guida di un’architettura mediterranea delle coste del Sud Italia. Ne era entusiasta animatore Michele Busiri Vici, che scoprendo il promontorio del Circeo, a poco più di 100 kilometri da Roma, ne aveva intuito valori e potenzialità. Era stata per lui una scoperta magica anche perché integrata da una serie di valori aggiunti, soprattutto la passione per la caccia che, in quei periodi, si poteva ancora praticare senza il rischio di essere impallinati. Ciò avveniva nel triangolo Circeo - Parco Nazionale del Circeo e postazioni venatorie fisse sui laghi del sistema pontino.Una passione che, nel decennio precedente, insieme al fratello Clemente e a noi ragazzini imberbi, lo aveva portato a percorrere, in lungo e in largo, la campagna di comune proprietà compresa tra Tivoli e San Gregorio da Sassola. Non importava tanto il bottino, quanto la gioia di respirare una giornata piena, percependo profumi, ammirando mutazioni vegetazionali in una varietà di colori che in autunno, assumevano tonalità di straordinario fascino.L’ attrazione per il mare, iniziata e praticata, negli anni giovanili, con in suoi sei figli nella casa dei nonni Schanzer a Forte dei Marmi, era profonda. (fig.13)

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L’amore per la natura era in lui globalizzante. Lo aveva coinvolto da giovane e poi in età adulta, anche in rischiose ascensioni alpinistiche sulle Dolomiti, sullo Stelvio, in Val D’Aosta e sul Gran Sasso dove inaugurò una via in roccia ancora inesplorata ed a lui intitolata, superando difficoltà di quinto grado superiore. (fig. 14-15)Nel comprensorio Circeo, Sabaudia, Ponza e parte del litorale di Terracina, erano tutte presenti le condizioni ambientali e paesaggistiche per inventare forme, linee, materiali, sistemi di apertura e di ombreggiamenti in un dialogo costante con la natura. Discreto e rispettoso con quella autoctona, più interventista con quella “creata” nell’immediato intorno della casa che Michele Busiri Vici riempiva di essenze officinali, fioriture perenni e/o stagionali, rampicanti e piante grasse. Nel suo rifiuto di codici e di vincoli non c’era il gusto dell’indisciplina, ma piuttosto la consapevolezza che, allo scadere del 20° secolo, linguaggi e culture avessero maturato il diritto ad esprimersi liberamente, componendo e scomponendo in un processo di addizione e sottrazione che recenti, pur diverse tendenze, hanno proiettato sul panorama internazionale.Fari storici della sua cultura sono stati, fra i tanti da lui studiati ed ammirati, Mies Van des Rohe, Richard Neutra ed Alvar Aalto. Autori di architetture, molto diverse, sempre colte e raffinate. Con loro, in occasione delle loro visite e conferenze romane, ebbe modo di intrattenersi più volte.Con un salto generazionale non indifferente e dando credito ad alcuni “storici” che definiscono le opere di Zaha Hadid femminili perché leggere, sinuose, morbide ed intrecciate, dovrei dedurre che tali caratteristiche potrebbero attribuirsi, frequentemente, anche alle forme plastiche dei progetti di mio padre.E’ ovvio che è un assunto abbastanza curioso, perché introduce il concetto di architetture di genere nella storia dell’architettura contemporanea.La bonifica di Torre in Pietra fondata dal Senatore Albertini proprietario del “Corriere della Sera”, e dall’Ambasciatore Carandini, esponente di spicco del Partito Radicale dell’epoca, costituisce un momento importante dell’attività professionale di mio padre.Altri, dettagliatamente e più scientificamente ne esamineranno i tanti aspetti che, negli anni ’30, ’40 e ’50 del secolo scorso, ne hanno contrassegnato modelli insediativi ed espressioni architettoniche. Mi limito a constatare come a Torre in Pietra si sia andato affermando, su media scala, il concetto di architettura rurale.Si è data risposta ad insediamenti residenziali per le maestranze agricole e le loro famiglie, servizi scolastici, religiosi e ludici oltre a edifici e capannoni dedicati alle lavorazioni agricole e ad alcuni punti vendita per generi di prima necessità.

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Infatti, in quegli anni, la capitale era “lontana” e non si potevano prevedere tempi e modalità di una sua eventuale saldatura con la borgata rurale.In aggiunta Michele Busiri Vici provvide al restauro del Castello ed alla progettazione della residenza del Dott. Leonardo Albertini, nell’attigua località di Torre Pagliaccetto. Torre in Pietra fu anche l’occasione di una cordiale collaborazione con Pier Luigi Nervi. Nella progettazione del “Centro Arenaro”, vasto capannone agricolo a testata semicircolare, insuperabili esigenze funzionali reclamavano uno spazio interno, del tutto libero da pilastri di qualsiasi sezione o forma. Nervi risolse il problema e non poteva essere diversamente.Rinvio una serie di lavori di grande significato “storico” alle schede che li documentano in modo puntuale e analitico. Penso a Villa Calvi di Bergolo, poi Ranucci a Formia, Residenza Guglielmi di Vulci a Montalto di Castro, Villa Baudi di Selve in località Sant’Anastasia, zona agricola sovrastante il lido di Lavinio.Sono tappe che individuano percorsi professionali diversi e tuttavia registrano analogie ed assonanze nei rapporti casa-parco e viceversa, oltre che nel coinvolgimento diverso del mare, a Formia e Montalto.Ciò che di mio padre mi ha sempre positivamente colpito è stata la tenace, costante aspirazione a definire l’approccio progettuale, dopo avere preliminarmente e minuziosamente acquisito, della località oggetto dell’intervento, notizie, caratteristiche, stili di vita, tipologie edilizie, componenti paesaggistiche ed ambientali. Era, in sostanza, la ricerca quasi maniacale del “genius loci” che prescindeva dalle caratteristiche tipologiche dell’intervento, fosse esso residenziale, commerciale, direzionale, ricettivo o quant’altro si possa immaginare.Emblematici, al riguardo, voglio ricordare i progetti per i negozi della Perugina in 15 diverse città italiane (figura?) o il progetto di sviluppo turistico dell’isola Mustique di 500 ettari nell’arcipelago delle Grenadines in zona caraibica.Nell’un caso o nell’altro il progetto, a firma congiunta, ha registrato questa sua assoluta determinazione a rinunciare a strade facili ed immediate che, nel caso caraibico, avrebbero potuto semplicemente riproporre modelli ed esperienze, abbondantemente maturate sulle coste sarde e, nel caso Perugina, limitarsi a confermare e/o reiterare moduli e ambientazioni già risultati di particolare gradimento commerciale.Nel corso di queste, come di altre precedenti o successive collaborazioni, non mancavano fra noi discussioni, convergenze, talvolta dissensi o contrasti.Li superavamo, quasi sempre, senza arroccarci su posizioni precostituite, praticando la via dialettica e dialogante della ricerca della soluzione più convincente.

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Un episodio di piena e solidale sintonia si verificò in Costa Smeralda, quando ricevemmo un incarico per un complesso residenziale da realizzarsi in zona edificabile, arroccata su splendidi esemplari di roccia granitica, dalle forme levigate, concave e convesse. Rifiutammo l’incarico perché riconoscemmo l’ inadeguatezza di un intervento che avrebbe parzialmente cancellato vere e proprie formazioni scultoree di ineguagliabile bellezza. Ci illudemmo che il nostro sacrificio servisse a modificare le previsioni edificabili e a convincere Comune e Soprintendenza ad opportuna retromarcia. Non fu così e, senza fiatare, progettisti più spregiudicati, accettarono l’incarico per un risultato di assoluta mediocrità che veniva a cancellare straordinarie emergenze rocciose. Un ruolo importante lo ebbe, per mio padre, lo studio privato di Via Cornelio Celso. (fig.16-17). Ricavato da una sopraelevazione della nostra abitazione, esso era uno dei suoi ritiri creativi, soprattutto negli anni della seconda guerra mondiale. Serviva a riflettere sul passato e a proporsi per l’avvenire in un illusorio auspicio che l’oscura “nuttata” bellica passasse rapidamente, senza lasciare conseguenze tragiche e distruttive. Nel suo bel rifugio panoramico un lungo stiratore ed un’accogliente libreria lo ispiravano e lo preparavano a un dopo che si sarebbe rivelato vario e produttivo.Riuniva spesso clienti, colleghi ed amici ed io stesso ricordo nei primi anni ’50, piacevoli riunioni conviviali con Gualino, Lionello Venturi, Marcello Piacentini ed altri esponenti del mondo culturale e professionale romano e nazionale. (fig.18)Alla guerra 1915-’18, appena ventunenne, non si sottrasse ma la visse interamente al fronte, prima in Albania e poi sul versante goriziano e carsico.Con i gradi di capitano, fu decorato di due croci di guerra e proposto per la medaglia d’argento. Solo per capire che la sua vita cominciò ad “animarsi” fin da giovanissimo in modo intenso, movimentato, mai monotono o noioso. Del resto nei suoi 86 anni di vita non si è mai lamentato per noia, soprattutto nel tempo libero che riempiva di interessi e curiosità difficilmente coltivabili con gli usuali ritmi e tempi di lavoro. La noia gli era estranea e con chi se ne lamentava, faticava ad empatizzare.Profuse il suo impegno professionale sia nelle grandi sia nelle piccole cose, non discriminando tra clienti blasonati ed altri di origini sociali più modeste. Colpiva, per esempio, che a fronte di committenti di alto lignaggio e talvolta di “sangue blu”, si dedicasse contemporaneamente a risolvere richieste ed esigenze del proprietario di un negozio di carni e polli, nella città di Tivoli e/o altrove. Importanti e talvolta decisivi furono, per mio padre e per lo studio, una schiera di bravissimi artigiani.

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Riuscivano a realizzare, con straordinaria raffinatezza i dettagli fornitigli in scale 1:20, 1:10 ed al vero dallo studio Busiri Vici. Nelle loro affascinanti botteghe del centro storico romano, falegnami, ebanisti, stuccatori, tappezzieri, artigiani del ferro e decoratori, con la loro manualità, traducevano le idee di mio padre in veri e propri capolavori. Ricordo romani veraci come il mitico sor Umberto Borzelli, Alfredo e Virgilio Bombardi, Luciano Ramiconi e Romano Sepe, Alfredo Giuliani, Michele Torelli, Aldo Nafissi, Romolo Del Proposto, i tappezzieri Pieralice e Chiesi ed altri che hanno ben meritato della fiducia in loro risposta. Tutto un composito mondo, in parte purtroppo scomparso, in parte riciclatosi a tecnologie e modalità di lavoro più semplici e più facili. (fig. 19)Episodi divertenti? Sì come quando la storica segretaria Mirella, si trovò ad aprire la porta dello studio a Marcello Mastroianni, al suo primo incontro con mio padre.Bene, tale fu l’emozione di trovarsi davanti, in carne ed ossa, il bello per antonomasia del cinema italiano che, per un attimo svenne , provocando sgomento ed ilarità nei presenti a studio di quel giorno.Oppure circostanze di forte allegria quando, ad ogni ricorrenza natalizia, tutti i componenti dello studio, compresi mio padre ed il sottoscritto, venivano messi alla berlina con caricature personalizzate su disegno acquarellato. Erano gli auguri festivi e nessuno poteva sottrarsi alla evidenziazione di particolari buffi del proprio carattere, delle sue stranezze, dei suoi modi di comportarsi e di vivere in quella piccola comunità che era lo studio. Gli autori caricaturisti erano sempre gli stessi, dalla mano facile e graffiante.

UNA TRADIZIONE DI ARCHITETTI

Che ruolo giocava la tradizione di famiglia nel contesto professionale?Importante e talvolta scomodo perché, inconsapevolmente, aumentava impegno e responsabilità che, forse, in una situazione di maggiore anonimato, sarebbero state meno enfatizzate. Le regole di una buona e corretta professionalità debbono sempre e comunque essere onorate. Ma la leggenda metropolitana che gli architetti Busiri Vici, con la famiglia Busiri e la famiglia Vici originaria delle Marche, poi riunite nelle prolifiche famiglie Busiri Vici, dovessero sempre emergere per meriti acquisiti nei secoli precedenti era in fondo preoccupante per chi invece avesse voluto passare più inosservato, per essere giudicato, di volta in volta, nel merito di quanto realmente prodotto.

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Per la cronaca ricordo che la nostra origine è francese con Jean Beausire (1658 – 1743) ed il figlio Jean Baptiste Augustine Beausire (1694 – 1764) entrambi architetti parigini a servizio di Luigi XIV e Luigi XV.Si conservano ancora fontane ed edifici di loro mano e a Jean Beausire è dedicata a Parigi una via per il suo ruolo di “controleur general de batiments de la ville”.Si contano ormai undici generazioni di architetti, la cui lunga storia potrebbe essere oggetto di uno studio accurato per studiosi e curiosi della materia.Nei tempi più recenti ricordo mio bisnonno Andrea Busiri Vici, presidente dell’Accademia di San Luca e, risalendo nella storia, Andrea Vici Principe della stessa Accademia. (fig. 20)A metà degli anni ’80 del secolo scorso, fui chiamato negli Stati Uniti per tenere conferenze a due Campus universitari sulla tradizione ininterrotta di architetti nella nostra famiglia e sulle vicende che ne hanno contrassegnato i percorsi nel panorama storico dell’architettura italiana. Per gli americani la nostra tradizione plurisecolare era considerata una curiosità rara ed intrigante. La discendenza prosegue con tre giovani architetti Busiri Vici, Clemente e Leonardo nipoti di Clemente senior e mio figlio Michele. Questa pubblicazione, che dedico a mio padre nel 123° anniversario della sua nascita e ai miei tre carissimi figli Silvia, Michele e Lodovica, mi ha arricchito di fatti e notizie inedite. E’ merito dello straordinario impegno e dedizione delle due curatrici Alessandra Muntoni e Maria Luisa Neri, che hanno saputo guidare e “governare” un gruppo di lavoro complesso e variegato nelle specificità delle problematiche affrontate. Voglio qui ricordarne i nomi, anche per gli aspetti di amicizia che si sono andati consolidando nel corso del complesso lavoro. Essi sono Barbara Berta, Giovanna Alberta Campitelli, Carmen Carbone, Rossana Carullo, Valentina Donà, Gerardo Doti, Roberto Faraone, Youri Strozzieri, Elisa Zannoni. Particolare rilevanza, nel settore paesaggistico, ha assunto il contributo prezioso di Alberta Campitelli che di mio padre ha saputo cogliere curiosità e percorsi inesplorati. La mia gratitudine è grande e non escludo, se le forze me lo consentiranno, di proseguire, con lo stesso impegno e con lo stesso entusiasmo, ad una seconda fase di lavoro, approfondendo aspetti che, per esigenze selettive ed editoriali sono state parzialmente escluse da questa pubblicazione.

Giancarlo Busiri Vici 15