· Web view«Esce proprio sugli scogli che vedi dalla strada, ma l'apertura non si nota perché le...
Transcript of · Web view«Esce proprio sugli scogli che vedi dalla strada, ma l'apertura non si nota perché le...
Roberta Melli
Delitto a ritmo di maratona
Roberta Melli
via Beccodoro 5
Creazzo –Vicenza 36051
cel 3405244580
Copyright © 2013 Roberta Melli, tutti i diritti riservati.
IndiceCapitolo 1 - Adela.............................................................................................................5
Capitolo 2 - L'inizio dell'allenamento...............................................................................8
Capitolo 3 - Testimone inaspettata..................................................................................11
Capitolo 4 - Corsa senza speranza...................................................................................16
Capitolo 5 - L'entomologo...............................................................................................21
Capitolo 6 - Giorni difficili..............................................................................................24
Capitolo 7 - Fuga da Ilovik..............................................................................................28
Capitolo 8 - Amicizia......................................................................................................34
Capitolo 9 - Ricomincia la corsa.....................................................................................39
Capitolo 10 - Un incontro inaspettato.............................................................................45
Capitolo 11 - L'impensabile fondista...............................................................................50
Capitolo 12 - Il percorso..................................................................................................55
Capitolo 13 - Meraviglioso mondo sommerso................................................................61
Capitolo 14 - Rivelazioni.................................................................................................68
Capitolo 15 - Sergio delle trappole e delle sorprese........................................................78
Capitolo 16 - Incubi e follie.............................................................................................84
Capitolo 17 - Fuga per la salvezza..................................................................................90
Capitolo 18 - Giochi scoperti..........................................................................................94
Capitolo 19 - L'asta..........................................................................................................98
Capitolo 20 - Strani presagi...........................................................................................101
Capitolo 21 - La coincidenza.........................................................................................104
Capitolo 22 - Una questione di geografia......................................................................108
Capitolo 23 - Il testimone..............................................................................................113
Capitolo 24 - La trappola...............................................................................................118
Capitolo 25 - La voce....................................................................................................122
Capitolo 26 - Il mandante..............................................................................................126
Capitolo 27 - Passato e presente....................................................................................133
Capitolo 28 - Erika........................................................................................................137
Capitolo 29 - Ricomincia la caccia................................................................................142
Capitolo 30 - Un piano per la fuga................................................................................149
Capitolo 31 - Nessuna soluzione...................................................................................161
Capitolo 32 - PTSD.......................................................................................................167
Capitolo 33 - Suzana.....................................................................................................172
Capitolo 34 - Cielo offuscato........................................................................................177
Capitolo 35 - La tortura.................................................................................................184
Capitolo 36 - La morte rende liberi...............................................................................188
Capitolo 37 - La lunga notte..........................................................................................191
Capitolo 38 - Destino.....................................................................................................196
Capitolo 39 - Ana..........................................................................................................200
Capitolo 40 - Indietro non si torna................................................................................203
Capitolo 41 - Giustizia...................................................................................................209
È come quandouna farfalla
a lungo rincorsae con trionfo presa
trova la sua giusta libertà sfuggendo tra le dita
del tuo pugno chiuso.
Capitolo 1
Adela
Novembre 2011
Adela stava camminando per la strada lungomare di Veli, lo faceva tutti i
giorni o quasi, dipendeva da come si svegliava e da quanta forza sentiva
nelle sue gambe stanche per gli anni e per la scarsa circolazione dovuta alla
cardiopatia che l'affliggeva ormai da molto tempo.
Quella mattina era iniziata bene, si era alzata dal letto dopo una notte lunga
e tranquilla e subito si era accorta che le caviglie erano meno gonfie del
solito. Si era vestita lentamente, poiché aveva difficoltà nei movimenti;
aveva appena compiuto ottantaquattro anni e per quell'età in fondo non se la
cavava male: a parte essere dura d'orecchi e non aver più la vista di una
volta, riusciva comunque a vivere da sola senza bisogno dell'aiuto di
nessuno se non del suo bastone per camminare e di qualcuno che le portava
la spesa a casa.
Il giro che faceva era sempre lo stesso: usciva dal portone e subito si trovava
sulla passeggiata essendo la sua casa una delle pochissime fortunate di Veli
a essere fronte mare, andava quindi in direzione del porto e dopo poche
centinaia di metri girava a sinistra per una stradina abbastanza ripida che si
inerpicava su di un'altura.
La via era antica, lastricata con piccoli mattoni di terracotta che però il
tempo e i continui passaggi delle persone che in stagione andavano al mare
avevano in parte smantellato, e anche le toppe in cemento che il Comune
aveva messo chissà quanti anni prima per tamponare i punti rimasti scoperti
si stavano sbriciolando rendendo scomoda la salita.
All'improvviso la donna si trovò davanti l'ombra di un uomo robusto che
stava scendendo a passi veloci il sentiero, ma che a lei sembrava comparso
dal nulla a causa della foschia che non accennava a diminuire: socchiuse le
palpebre nel tentativo di mettere a fuoco l'immagine della persona che si era
fermata proprio di fronte a lei:
«Bok Adela, passeggi anche con un tempo così? È una giornata da lupi.»
«Ah, Goran, mi hai quasi spaventata. Non mancherei mai un giorno, lo sai,
fino a quando arriverà finalmente la mia passeggiata finale e qualcun altro
allora mi porterà qui per l'ultima volta!» rispose la vedova sospirando e
riprendendo il suo lento incedere verso la destinazione scontata. L'uomo si
girò anch'egli per dirigersi a grandi passi dalla parte opposta, dopo aver
salutato con un cenno della testa la vecchia conoscenza.
Adela doveva fare solo pochi metri poiché il cimitero, la sua meta
quotidiana, si trovava subito sulla destra, prendendo il piccolo e breve
sentierino sterrato che si addentrava tra i rami disordinati di cespugli di
pittospori incolti.
Non era una bella giornata, non c'era alcun dubbio: il mare quasi non si
vedeva nascosto com'era da una fitta nebbia che lo lasciava intravedere solo
per il colore plumbeo che la bruma stessa assumeva verso il basso, quando
con il suo manto denso e immobile si poggiava sulle sue acque gelide.
Adela non provava più grandi emozioni, non le importava molto che ci fosse
il sole o la bora, che fosse inverno o estate, il suo cuore si era fermato ormai
molto tempo prima, quando un cancro alle ossa si era portato via il marito in
sei lunghi mesi di agonia e due anni dopo la guerra le aveva tolto il suo
unico figlio, Djurd.
Entrò facendo cigolare in modo sinistro la vecchia cancellata in ferro
battuto, sembrava quasi fatta apposta da qualche regista di film horror d'altri
tempi.
Non c'era anima viva e Adela, anche se non vedeva bene, si muoveva tra le
tombe con la scioltezza di chi conosceva i percorsi a memoria.
Si fermò davanti alle due lapidi di tutto ciò che era stata la sua famiglia e
tirò fuori dalla tasca dell'ampia gonna un lumino rosso; poi cominciò a
rovistare nell'altra alla ricerca dei cerini, ma le mani rigide a causa delle dita
storte dall'artrite non l'aiutavano molto. Improvvisamente, si sentì afferrare
da dietro da quattro braccia che le bloccarono le spalle e letteralmente la
sollevarono in aria: girando la testa nel tentativo di capire cosa le stesse
succedendo, ad Adela caddero gli occhiali e le spesse lenti di vetro si
ruppero impattando sui sassi del passaggio tra le tombe.
La povera donna non vedeva più nulla e il tempo bigio e la nebbia non
l'aiutavano per niente; i due uomini a grande velocità uscirono dal cimitero
tenendo la vecchia in aria con la facilità di una bimba che corre via
portandosi dietro la sua bambola di pezza.
Adela voleva urlare, chiedere aiuto, domandare a quelle due grandi ombre
che cosa mai volessero da lei, dire qualcosa, ma il suo cuore malato aveva
cominciato a saltarle nel petto togliendole quasi del tutto il respiro, e dalla
bocca non le usciva alcun suono.
Gli uomini scesero in un attimo la stradina di vecchi mattoni e girarono a
sinistra, oltrepassarono il bagno chiuso di Timi beach e si fermarono davanti
alla breve scarpata ad appena cento metri dal cimitero: con grande destrezza
alzarono ulteriormente la donna, la girarono quasi di 180 gradi e con
violenza la scaraventarono giù di testa, verso gli scogli appuntiti. Subito
dopo gettarono sul corpo scomposto della donna i suoi occhiali e il bastone
con cui si aiutava a camminare; quindi se ne andarono dileguandosi nella
nebbia certi di non essere stati visti da anima viva.
L'ultima cosa che Adela sentì prima di spirare fu il caldo del sangue che le
usciva dalla testa e che le scorreva sugli occhi e sul naso e ne respirò alcune
gocce.
Nel pomeriggio, verso le tre, passò per la passeggiata Karlo, un giovane
uomo di Rovenska che si occupava di alcuni uliveti di famiglia e di camere
da affittare, ma, essendo fuori stagione, passava il tempo facendo piccoli
lavori di manutenzione dove occorreva. Si accorse della donna riversa sugli
scogli e la riconobbe subito; d'altra parte a Lussingrande, paese di sole
novecento anime, si conoscevano tutti ed era già tanto che non esistesse
sempre tra le persone una qualche parentela diretta o indiretta che fosse.
Karlo scese velocemente gli scogli per vedere se Adela respirava ancora, ma
capì subito che ormai c'era ben poco da fare.
"La morte toglie dignità alle persone" si disse e con un gesto di generosa
sensibilità, nonostante l'odore dolciastro e ferroso del sangue che gli
prendeva lo stomaco, spostò la gonna di Adela e le coprì le gambe scoperte
che mostravano la vecchia biancheria lisa da anni e anni d'uso.
Il giorno dopo un trafiletto sul giornale locale riportava la tragedia della
povera anziana scivolata dalla scogliera a causa probabilmente della nebbia.
Nessuno si pose il problema di come mai la donna avesse cambiato per la
prima volta il percorso che faceva ogni mattina da quando aveva perso il
figlio e il marito.
Capitolo 2
L'inizio dell'allenamento
Giugno 2012
Come al solito Isabella si era svegliata prestissimo per sfruttare il fresco del
mattino. Quel martedì doveva fare un lungo, ben ventidue chilometri a ritmo
di 6 min./km, una velocità tranquilla se non fosse che l'estate era iniziata più
rovente che mai. Così doveva sfruttare le timide luci del giorno appena
prima dell'alba, in modo da non trovarsi, dopo le due ore richieste per
l'allenamento, sotto una canicola che l'avrebbe messa a dura prova.
Erano le cinque e il sole era sorto da mezz'ora ed era già troppo alto per
permettersi di perdere ancora tempo nella preparazione: aveva legato i
capelli molto stretti in una sorta di chignon che le lasciava fuori solo la
frangia, la quale andava adesso bloccata con delle forcine per lasciarle
totalmente libera la fronte al fine di posizionare la fascia di spugna rosa che
avrebbe in questo modo assorbito il sudore che poteva altrimenti scendere
sugli occhi e darle un fastidioso bruciore. Aveva indossato la canottierina
bianca a spalline sottili con il reggiseno incorporato, una sorta di fascia
elastica, che era l'ideale per quel tipo di allenamento, perché le schiacciava
il seno impedendogli di saltellare fastidiosamente.
Davanti allo specchio si spalmò la crema protettiva sul viso, soprattutto
intorno agli occhi e sul naso, onde evitare scottature che le avrebbero
rovinata la bella pelle leggermente olivastra; guardandosi in modo
civettuolo, si compiacque degli occhi quasi neri leggermente a mandorla e
degli zigomi evidenti che le davano un'aria vagamente orientale, anche se i
capelli mossi e chiari distoglievano l'osservatore da quell'idea.
I pantaloncini erano nuovi e molto tecnici, glieli aveva regalati il suo amico
Sergio: rosa, corti fino ad arrivare appena sotto i glutei e con due strisce
nere aggressive sui lati che le davano l'immagine di una vera professionista.
Calzetti, scarpe tecniche da maratona, cinturone in vita con borracce ripiene
di Gatorade, Contra-Dog al peperoncino in tasca, davanti allo specchio
Isabella si guardava e pensava che neanche Gary Cooper in Mezzogiorno di
fuoco era così attrezzato!
Ultima occhiata al suo satellitare da polso per accertarsi che si fosse
agganciato e iPod acceso: sì, adesso era pronta per partire verso l'ignoto.
L'aria era abbastanza fresca, soprattutto considerando che Caronte,
l'anticiclone africano che stazionava da dieci giorni sulla Croazia, portava
temperature a dir poco tropicali; Isabella era arrivata da tre giorni, la
domenica prima, sull'isola di Ilovik, ma solo quella mattina era riuscita a
organizzarsi per la prima corsa di tutta la lunga vacanza. La cosa le dava
molta ansia poiché sapeva che la maratona di New York, alla quale era
iscritta già da febbraio, era più impegnativa dell'unica altra competizione
che aveva fatto, cioè quella di Venezia. Doveva allenarsi minimo tre volte
alla settimana e il calendario da rispettare era progressivamente più gravoso
a ogni sessione.
La sua paura era di non farcela e di doversi fermare durante la gara, cosa
psicologicamente per lei inaccettabile.
Il suo personal trainer, un professore della facoltà di Scienze Motorie
dell'università di Firenze, la seguiva tramite mail; così ogni sabato Isabella
doveva spedire un resoconto completo di tutte le volte che era andata a
correre con indicati i tempi ottenuti e i chilometri percorsi e, ovviamente, se
saltava anche un solo allenamento, si sentiva terribilmente in colpa. Non
conosceva il percorso, perché era la prima volta che andava in vacanza lì a
Ilovik, isola della Croazia con pochissime attrattive mondane, ma con tanta,
tanta pace. La sera prima si era studiata bene la cartina che le avevano dato
all'agenzia turistica e ora aveva ben impressa in mente la strada da fare per
riuscire a coprire gli 11 chilometri richiesti in andata: doveva prendere
l'unica via che partiva dal piccolo porto dell'isola e che subito si inerpicava
su di una bassa collina alle spalle dal centrino del paese; poi doveva
proseguire sempre dritto per quasi un chilometro fino a scollinare e arrivare
finalmente a immergersi nella macchia mediterranea vera e propria. Da lì la
strada diventava sterrata e andava avanti per altri quattro chilometri prima di
arrivare al primo bivio; questo non andava preso, ma doveva continuare a
correre per altri due fino al secondo bivio, quello giusto per raggiungere la
spiaggia proprio agli antipodi del porto. Un ultimo chilometro rasente la
piccola unghia di sabbia tra lecci e ulivi incolti, testimoni di passati agricoli
più fiorenti, su e giù per viottoli serpeggianti e finalmente si poteva tornare
indietro per lo stesso sentiero, una volta raggiunta una piccola radura dove
la strada andava a morire. Perfetto!
Isabella scese le strette scale che separavano la piccola e modesta camera da
letto con il resto della casa, in silenzio per non svegliare Sergio, vecchio
compagno di liceo e adesso il suo miglior amico, che dormiva sul divano
letto della sala da pranzo. Aperta la porta dipinta di un dubbio colore verde
bottiglia, fu subito accolta dai caldi e intensi profumi delle piante di salvia e
origano che erano coltivate in un angolo di terra del piccolo cortile
antistante la casa e che si mischiavano, in un bouquet inebriante, con le note
fruttate del fico e quelle fiorite della bouganville e del pittosporo, e subito
sentì il desiderio irrefrenabile di gettarsi nella corsa agognata.
Capitolo 3
Testimone inaspettata
La corsa iniziò come meglio non poteva immaginare. L'aria, la luce, il
fresco della notte che ancora si opponeva alla prepotenza del sole estivo, i
colori caldi e avvolgenti dei fiori di campo spaesati tra l'erba bruciata dalla
sete dei campi che costeggiavano la strada: tutto era per lei gioia e stupore.
La musica suonava nelle orecchie con lo stesso ritmo della sua andatura e in
un attimo si accorse di aver già superato la salita che la separava dalla fresca
macchia mediterranea. I suoi piedi poggiavano sicuri sul sentiero che era
diventato sterrato e ora, a ogni passo, alzavano sbuffanti nuvole di polvere
rossa, mentre le cicale avevano già cominciato a cantare talmente forte che
Isabella riusciva a sentirle nonostante avesse ben aderenti le cuffiette che
mandavano ad alto volume il tormentone di quell'estate, Au se eu te pego di
Michel Telò, direttamente dentro al canale uditivo. A ogni chilometro
prendeva un sorso dalla borraccia appesa all'elastico in vita dei suoi
pantaloncini che conteneva del liquido salino, al fine di non aver mai sete,
cosa che le avrebbe inevitabilmente rallentato la corsa, come le aveva
spiegato il suo personal trainer.
Superato il primo bivio, si sentì bene e con il ritmo travolgente dei System
of a Down, cominciò a non accorgersi più nemmeno del caldo che
aumentava con intensità crescente, né della fatica che lo sforzo le
richiedeva, padrona totale della sua mente che non permetteva lamentele da
parte del corpo. Secondo bivio e ancora borraccia e la sensazione che i suoi
piedi quasi volassero girando, leggiadra come un'antilope nella savana,
verso la spiaggia che, secondo i suoi ricordi, presto sarebbe dovuta apparire.
Un passaggio arso da giorni di sole pieno senza mai una goccia d'acqua,
privo di alberi e di ombra, la scosse dal suo stato di esclusione dalla realtà e
la ragazza cominciò a pensare che il caldo poteva ora impedirle di
mantenere il ritmo, cosa che non voleva assolutamente rischiare. Altro
sorso, questa volta desiderato, e per fortuna ricominciò l'ombra proprio
quando il sentiero girava dentro a un affascinante e vecchio uliveto
abbandonato. Il fatto di essere stato trascurato per anni, aveva permesso alle
fronde di infittirsi e ora le ampie e folte chiome le procuravano una boccata
rigenerante di fresco e di ossigeno. Un improvviso rumore sordo, giusto di
lato a lei, le fece sobbalzare il cuore e d'istinto mise la mano sullo spray
antiaggressione cercando di controllare la corsa e la paura, ma all'apparire di
un cucciolo di capretta si tranquillizzò subito e così si accorse che a poca
distanza c'era anche la madre con due belle corna imponenti arrotolate su se
stesse a mo' di nastro, la quale la guardava curiosa e per nulla spaventata.
Allora si ricordò che doveva controllare sul satellitare da polso quale fosse
la velocità che stava faticando a tenere a causa della perdita di
concentrazione: 10,2 km/h.
"Troppo" pensò con un po' di stizza per non averlo controllato prima, ma
non fece nemmeno in tempo a riprendere il controllo dell'andatura che si
trovò rovinosamente a terra senza capire dove e su cosa mai fosse
inciampata.
Rimase immobile un istante per rendersi conto se sentiva male da qualche
parte, poi si tolse le cuffiette che continuavano imperterrite a riprodurre
senza sosta musica frenetica ad alto volume. Udì delle voci concitate a poca
distanza: alzò il viso da terra e si accorse che era caduta proprio all'orlo
della macchia che si interrompeva quasi di colpo sulla spiaggia e lì si
trovavano dei militari in divisa tutti intorno a un uomo abbastanza anziano
che indossava un costume da bagno che lei trovò bizzarro per una persona di
quell'età, perché era vistosamente colorato di verde e arancione. L'uomo
urlava e si agitava tenendo in mano una maglia bianca intrisa di sangue
appoggiata su di un lato della fronte.
Isabella rimase un attimo stordita: non si era accorta di nulla, dato che era
rimasta completamente isolata fino alla rovinosa caduta per via della sua
musica e della sua corsa, ma quello che vedeva la lasciava impaurita;
percepiva chiaramente che la situazione era tesa e perciò decise di non farsi
notare, approfittando delle alte dune di alghe secche che a cordoni
seguivano il profilo della spiaggia indubbiamente abbandonata. Sulla riva
c'era un motoscafo della guardia costiera e i quattro militari erano intorno
all'uomo, ma non sembravano preoccupati più di tanto che egli stesse
sanguinando.
Isabella comprese chiaramente che parlavano in tedesco, lo aveva studiato
alle superiori, ma le persone erano troppo distanti per riuscire a distinguere
bene le parole e per capire cosa mai avesse quel povero vecchietto ferito che
continuava a gesticolare in modo agitato e convulso.
Una cosa le era chiara e cioè che il capitano era croato e rispondeva con
difficoltà in quella lingua che evidentemente conosceva poco; in più le
sembrava anche che il militare si tenesse sulla difensiva, come se stesse
cercando di spiegarsi in qualche modo, o meglio, le dava l'idea che stesse
giustificandosi per qualcosa.
Si convinse allora che forse era meglio andarsene via senza farsi notare e,
lentamente, controllando che non la vedessero, si mise in ginocchio per
scegliere il momento migliore per ricominciare il suo allenamento: si stava
girando per vedere su cosa fosse inciampata, quando l'uomo ferito lanciò un
urlo talmente forte e straziante da farle raggelare il sangue. Non avrebbe mai
potuto immaginare che un essere umano fosse capace di emettere un simile
verso di dolore.
Davanti ai suoi occhi la scena si presentò terribile, il cuore quasi le si fermò,
mentre non riusciva a distogliere lo sguardo, atterrita e incredula: con una
pala uno dei militari aveva colpito violentemente il vecchio alle spalle e
quest'ultimo era caduto lanciando quell'urlo di sofferenza estrema che
l'aveva pietrificata, e adesso il poveretto si contorceva sulla sabbia come un
gatto investito da un'auto. Sul suo volto e sul torace si rovesciavano senza
pietà uno dietro l'altro colpi violentissimi con la stessa pala che lo aveva
atterrato un attimo prima e col calcio dei fucili delle altre guardie,
lasciandolo inanime in un silenzio atroce.
Isabella cominciò a sentirsi male, la voglia di scappare a gambe levate la
prese irrefrenabile e, mentre si alzava senza pensare in preda allo sgomento,
vide su cosa aveva inciampato: sotto al leccio, a meno di mezzo metro da
lei, stava un lenzuolo intriso di sangue dal quale usciva una mano femminile
con delle unghie ben curate, laccate alla perfezione e con due anelli: uno sul
medio e l'altro, una fede, sull'anulare. Il corpo era stato posto sotto al grande
albero, probabilmente per tenerlo un po' più al fresco, visto che la spiaggia
era rivolta verso est e che il sole, sorgendo sull'acqua, a quell'ora non
permetteva di trovare ombra se non andando fin dentro alla macchia.
Isabella istintivamente si mise dietro al tronco cercando di trattenere la
paura e rimettendosi a cercare una possibile via di fuga, terrorizzata al
pensiero di perdere la padronanza delle sue azioni se avesse lasciato spazio
al panico.
Sentiva la voce del capitano che con tono molto determinato e autoritario
dettava ordini ai suoi soldati, e allora cercò di sbirciare quello che succedeva
tra i folti e bassi rami dell'albero; una barca stava arrivando, era piccola e di
legno e non aveva nulla di particolare, pareva più che altro un peschereccio.
Si sentì un po' rincuorata pensando che la guardia costiera si sarebbe
distratta all'arrivo del malcapitato, ma non volle nemmeno immaginare cosa
avrebbero fatto questa volta al pescatore se solo si fosse fermato a vedere
cosa stesse succedendo. Una guardia era distaccata dalle altre, stava sempre
di vedetta e osservava attentamente intorno ogni piccolo movimento.
Aveva qualcosa nel modo di fare che non la convinceva, ma Isabella non
riusciva a individuare cosa fosse; tutti i soldati avevano uno strano
comportamento simile tra loro che non le sfuggì, nonostante la situazione di
estremo pericolo in cui la ragazza si trovava.
In fondo era una neuropsichiatra e con il suo lavoro, malgrado la giovane
età di soli trentatré anni, aveva una certa esperienza nel capire gli stati fisici
e d'animo delle persone.
Ecco, erano ebbri! Improvvisamente se ne rese conto e comprese anche che
la vedetta era addirittura ubriaca. Di contro il capitano sembrava
assolutamente sobrio e continuava imperiosamente a urlare ordini a tutti in
croato e non aveva alcuna inflessione o atteggiamento che potesse farlo
sembrare alterato, anzi, aveva un controllo di se stesso assoluto e
un'espressione glaciale. La barchetta approdò proprio quando tutto era stato
per così dire messo in ordine: il corpo giaceva sulla battigia coperto da un
altro lenzuolo bianco, la pala era sparita e Isabella non sapeva dove, i fucili
erano stati ripuliti e tutti si erano più o meno ricomposti. Il pescatore era un
uomo robusto con i capelli cortissimi e un curioso modo di parlare, come se
fischiasse a ogni esse che pronunciava. Lui e il capitano prima si diedero la
mano e poi, senza lasciarla, si abbracciarono come vecchi compagni che si
rivedevano dopo anni. Il militare cominciò a indicare il corpo coperto e
straziato dell'uomo, poi la barca da vedetta e infine anche i suoi militari.
Il nuovo arrivato, a differenza degli altri, sembrava relativamente
impressionato e continuava a passarsi una mano sulla fronte e sul viso e
distoglieva lo sguardo dal lenzuolo che si tingeva di rosso a vista d'occhio.
A un certo punto il capitano si girò verso il grande leccio indicando il
secondo corpo; Isabella fece appena in tempo a ritirare la testa dietro al
tronco per non farsi scoprire e sentì nel petto il cuore battere talmente forte
che ebbe l'impressione che salisse violentemente fino in gola. Stette
immobile con il terrore anche solo di respirare e inavvertitamente buttò
l'occhio verso quello che si scorgeva del corpo straziato della povera donna.
Un conato violento e irrefrenabile le salì dallo stomaco e un colpo acido e a
spasmo la obbligò a piegarsi in avanti. Il fiato divenne agitato e profondo,
mentre non riusciva più a ragionare essendosi accorta che sotto il lenzuolo
la donna non aveva il corpo dal torace in giù. Quel triste sudario si
afflosciava su una pozza di sangue piena di mosche e lasciava intravedere la
brusca interruzione delle costole per la mancanza totale del bacino e delle
gambe.
Il secondo conato fu talmente incontrollabile che la obbligò a piegarsi
letteralmente in avanti con un colpo a frusta del collo e della testa che le
fece sfuggire un verso sordo e strozzato.
Con la coda dell'occhio vide che la guardia di vedetta si era accorta di lei, la
stava guardando e aveva imbracciato il fucile di ordinanza come se stesse
studiando verso chi o cosa sparare. La paura questa volta le fece quasi
esplodere il cuore, le gambe partirono prima ancora del suo pensiero e,
trattenendo un terzo conato con del liquido acido in bocca che le impastava
in modo disgustoso la lingua, cominciò a scappare riprendendo la strada che
aveva percorso all'inizio, l'unica che conosceva.
Capitolo 4
Corsa senza speranza
Isabella correva senza guardarsi indietro, i rami dei lentischi, che
invadevano il sentiero, la colpivano come frustate impietose e la bocca si era
riempita di saliva talmente aspra che le bruciava la lingua e la gola e la
costringeva suo malgrado a sputare di lato sporcandosi la guancia pur di non
rallentare la fuga. Dietro di lei sentiva urlare con rabbia il suo inseguitore e
le sembrava che si stesse avvicinando sempre di più, ma non aveva il
coraggio di girarsi per la paura di perdere preziosi secondi di distacco. La
sua mente, che fino ad allora non era riuscita ad avere il tempo di ragionare,
ricominciò a funzionare e sentì dentro di sé la necessità di organizzare
meglio quella fuga agitata e scomposta.
“Tranquilla, calma il cuore altrimenti tra poco non ce la farai più! Basta
agitarti, puoi farcela.”
Quella convinzione ripetuta nella sua mente come un disco rotto le calmò il
battito cardiaco che ora, anche se rimaneva accelerato, non era spasmodico
come prima e il respiro, non più così affannoso, cominciava ad
accompagnare il ritmo frenetico della corsa senza scoordinarla.
"Sei una maratoneta, lui è ubriaco e ha addosso un'ingombrante divisa e un
pesante fucile sulle spalle, non può prenderti se tieni un ritmo veloce senza
esagerare, non può correre per tutti i chilometri che tu puoi fare, tranquilla,
tranquilla. Ce la puoi fare!"
Il pensiero le dava una forza che non credeva, non ricordava più l'orrore che
aveva visto appena qualche minuto prima, si sentiva sempre più sicura.
Prese il controllo del suo corpo come fosse un duro e difficile allenamento o
poco di più. La voce del militare adesso le sembrava più distante, anche se
sempre rabbiosa e ansimante, e la fiducia che forse ce la stesse facendo sul
serio le diede una nuova spinta per controllare quella che, nella sua testa, era
diventata una vera e propria competizione.
“Brava, stai andando bene, tranquilla, non può più raggiungerti, tranquilla.”
Uno sparo improvviso e un sibilo di qualcosa che impattò sul tronco di un
ulivo proprio davanti a lei la riportò alla realtà e ancora una volta, seguendo
l'istinto invece che la ragione, scartò sulla destra saltando un basso muretto a
secco e inoltrandosi in un vecchio uliveto abbandonato, conquistato solo dai
rovi. Ora il ritmo non c'era più, la corsa era di nuovo scomposta e frenetica e
la mente annebbiata dalla paura: un altro muretto a secco, poi ancora strada,
viottoli, sassi, rami che apparivano dal nulla, campi incolti, gusci di case
svuotate dall'abbandono e invase da arbusti disordinati e il tempo che non
sembrava scorrere mai, mentre continuava a fuggire a caso per chissà quanti
chilometri.
Un balzo e come un dono dal cielo si ritrovò a livello del primo bivio,
riconoscendo con la coda dell'occhio il cartello di legno dipinto a mano con
disegni quasi infantili che indicavano la spiaggia con l'immagine di un uomo
e una donna in costume.
L'adrenalina le impediva un movimento sciolto delle gambe le quali, in
sincronia con la sua paura, sembravano faticare nella corsa con una
insistente sensazione di tremore e le ginocchia parevano cederle a ogni
passo, ma nonostante ciò Isabella non diminuì l'andatura; ed ecco l'ultima
discesa per il paese e finalmente un po' di sollievo.
L'aria le spostava il sudore dal viso disegnando lunghe linee umide che si
fermavano sui capelli o giravano sul collo; era da un po' che non sentiva più
alcun rumore alle sue spalle, ma non per questo diminuì la folle corsa. 3,40
min/km, il satellitare le mostrò il suo record assoluto mentre girava
velocemente al primo approdo sul porticciolo per nascondersi quasi
buttandosi in scivolata dietro al bancone della gostionica "Porto".
Il fiato era profondo e affannoso, incontrollabile come il panico che ora la
scuoteva impietoso con brividi che le scorrevano per tutto il corpo; le gocce
di sudore che colavano dalla fronte dritte dentro agli occhi, riuscendo a
trapassare la fascia che ne era ormai intrisa, le lasciavano un fastidioso
senso di bruciore e di vista annebbiata e tutto quel terribile silenzio che la
circondava le dava l'angosciante sensazione che anche il battito del suo
cuore e quel respiro agitato potessero essere chiaramente percepiti da
qualcuno se solo le fosse passato vicino in quel momento.
Dopo interminabili minuti di attesa, finalmente la ragione le consentì di
riprendere il dominio delle sue emozioni e così Isabella, accorgendosi che
stava ritrovando la calma, cominciò a guardare il suo corpo con attenzione
visto che non era per nulla sicura di non essere ferita, ma anche cautamente
per non sporgersi troppo al di fuori del suo nascondiglio.
In realtà non era sicura proprio di nulla, a parte che da lì non sarebbe uscita
fino a che non avesse avuto un piano chiaro nella sua mente o, per lo meno,
la certezza che nessuno l'avrebbe più potuta raggiungere e, nell'eventualità
ancora peggiore che qualcuno avesse visto dove si era nascosta e che magari
la stesse osservando curioso, voleva essere in grado di gestire una scusa
credibile ben distante dalla verità. Il ristorante era avvolto nello stesso
silenzio di quando vi si era rifugiata e il caldo sole di inizio estate faceva
sprigionare intensi profumi dalle numerose erbe aromatiche.
Tirò fuori dalla tasca posteriore delle braghette l'unico fazzoletto di carta
che aveva e, nonostante fosse tutto bagnato, cominciò a pulirsi la fronte e il
viso dalla terra che, impalpabile come cipria, si era depositata sul viso e su
tutto il corpo. Si accorse così che aveva una sottile e lunga ferita sulla
guancia che sanguinava copiosamente. Le gocce che uscivano da quel taglio
quasi filiforme si mischiavano, formando una specie di melma, con la
polvere e con il sudore che non smetteva di imperlarle tutta la testa e che
creava rivoli da sotto il seno e da dietro alle ginocchia flesse.
“Probabilmente qualche ramo” pensò mentre si esplorava alla ricerca di
qualche altra lacerazione. Un graffio sulla coscia in mezzo a delle strisce
lunghe e arrossate fatte anch'esse da mani erbacee, un livido sulla spalla
destra e una fastidiosa scheggia di legno sull'avambraccio dallo stesso lato:
null'altro.
Il respiro ora era quasi tornato normale anche se la paura le dava ancora la
sensazione continua di tremore alle gambe; adesso però doveva decidere il
da farsi, non poteva rimanere lì sotto per sempre.
La prima cosa importante era non portare eventuali inseguitori a casa, non
dovevano sapere nulla di lei. Non sentiva rumori ormai da più di dieci
minuti e così Isabella decise di alzarsi lentamente e di esplorare visivamente
il paesaggio intorno: nulla, solo un gatto magro a strisce grigie che
mangiava una sarda ormai ridotta a sola lisca. Si alzò del tutto e con falsa
tranquillità e passo lento si avviò verso il piccolo appartamento, ultimo in
fila di tre unità ricavate da una tipica, vecchia casa locale.
Arrivata davanti al cancello si sentì bene e quasi al sicuro, ma prima di
accennare a entrare, volle guardare in giro e valutare bene il comportamento
di tutte le persone che vedeva in assonnato movimento nel piccolo centrino.
Il fruttivendolo aveva appena finito di esporre le cassette della frutta e ora si
stava impegnando per sistemare un cartello dove aveva scritto a gesso le
offerte del giorno; due anziani erano seduti al tavolino di un piccolo bar e
sorseggiavano due bicchierini di Slivovitz, liquore locale di prugne
fermentate non proprio adatto a una colazione. Infine, una signora tedesca
lottava con un bambino recalcitrante nel vano tentativo di farsi ubbidire:
nulla di sospetto, nessuno la notava o faceva più di tanto caso a lei. Isabella
volle assicurarsi che non ci fossero pericoli con un ultimo sguardo verso il
mare che si vedeva dall'angolo del suo piccolo cortile, scorrendo con occhi
attenti la sottile linea di costa e il porticciolo: ed ecco di nuovo amara e
violenta la paura. Davanti ai suoi occhi la vedetta della polizia solcava
lentamente il mare con il capitano e una guardia in piedi sulla prua che
osservavano con attenzione la terraferma.
Si ritrasse e, certa di non essere stata vista, questa volta scappò dentro casa.
Il silenzio regnava nella stanza che fungeva da sala da pranzo e da camera
da letto di Sergio, il quale era ancora totalmente perso tra le braccia di
Morfeo e, nonostante il fiatone e l'agitazione che aveva nel petto, Isabella
riuscì a trattenersi dal correre. Si mosse con il passo felpato di un gatto a
caccia di lucertole; salì le strette scale che scricchiolavano sotto il peso dei
suoi piedi scandendo il ritmo del suo incedere e si chiuse subito in bagno.
Dopo essersi abbandonata a un sospiro che partiva talmente dal basso da
farle contrarre la pancia in una sorta di spasmo, pensò: “Forse sono salva” e
scoppiò in singhiozzi liberatori che, senza pausa tra l'uno e l'altro, la
scuotevano fino al diaframma togliendole il fiato. Intanto, in preda a una
crisi isterica, con le mani e con le unghie si strappava i vestiti di dosso,
come se questo potesse toglierle tutto l'orrore al quale aveva dovuto
assistere quella mattina e che ora le appariva talmente vivido e a sprazzi da
farla sentire come un malato in balia di allucinazioni dovute a una crisi
psicotica.
Quando si calmò abbastanza da riprendere un po' di lucidità, esausta come
se fosse a digiuno da giorni e ancora con il sapore acido del vomito in
bocca, si alzò dall'angolino dove si era rannicchiata per sfogarsi e si guardò
allo specchio, sentendo la forte necessità di riprendersi dalla disperazione
della situazione e soprattutto imponendosi di smettere di autocommiserarsi:
“Non ho fatto la tinta prima di partire e con i capelli così raccolti sembro
castana scura” si disse mettendosi nei panni del suo inseguitore e pensando
alla descrizione che avrebbe potuto fare di lei.
“Se mi slego i capelli, sono lunghi oltre le spalle, ma così raccolti è
impossibile intuirne la misura o il taglio e poi ho anche la frangia, ma con le
forcine non sembra proprio che ce l'abbia!”
E intanto cercò nervosamente dentro al suo beauty la tinta per il ritocco che
si era previdentemente portata via da casa, sapendo che altre tre settimane
senza colorarli e la ricrescita sarebbe stata talmente evidente da dare l'idea
del trasandato. Prese subito la ciotolina con il colore e cominciò a
impastarlo con l'acqua ossigenata usando il pennello piatto fatto
appositamente per quell'uso e nervosamente iniziò a preparare la mistura
colorante. Mentre con attenzione si spalmava la pastella ciocca su ciocca,
spostandole di lato per non lasciare zone senza tintura, si guardò allo
specchio e quasi non si riconobbe: aveva il viso contratto, due vistose borse
sotto agli occhi e quel lungo graffio sottile che le attraversava la guancia e
che per fortuna aveva finito di sanguinare. Che differenza con sole due ore
prima, non sembrava nemmeno la stessa persona!
“Oh no, i pantaloncini rosa, quelli sì che devo farli sparire” pensò con un
misto di orrore e rammarico, ricordando con quanta gioia li aveva indossati
per la prima volta appena quella mattina. Sciacquati i capelli e bloccati con
una pinza, Isabella s'infilò nella doccia e, sotto quel getto fresco e
rigenerante, si chiarì le idee: non avrebbe detto nulla a nessuno, troppo
pericoloso per lei e per Sergio. Non conoscevano nessuno in Croazia da cui
andare a chiedere aiuto; Isabella non sapeva di chi fidarsi e il fatto che gli
assassini fossero guardie costiere, non le dava certo fiducia sulla polizia
locale.
Una sola cosa era certa, quella settimana non avrebbe più corso, di sicuro
sull'isola di Ilovik di maratonete c'era solo lei, e questo sì che l'avrebbe
tradita.
Capitolo 5
L'entomologo
Sergio era un uomo dal fisico atletico più per genetica che per attività
sportive. In realtà amava molto la montagna, le passeggiate e le ferrate in
altitudine e faceva spesso anche free climbing, ma nulla con totale dedizione
o scadenze precise; era un naturalista specializzato in entomologia e questa
sembrava la sua vera aspirazione. Lavorava al museo di Scienze Naturali di
Verona come curatore delle collezioni di invertebrati, per la determinazione
delle specie e anche per completare quelle sezioni che venivano aperte a
scopo didattico per le scuole. La sua specialità era la creazione di percorsi
interattivi sia pratici che informatici per ogni ordine e grado, dalle
elementari ai laboratori universitari. Proprio in quell'ambiente si era fatto
conoscere e apprezzare, tanto che riusciva sempre a girare l'Italia, e a volte
anche l'estero, finanziato da vari enti alla ricerca di materiale zoologico utile
su richiesta.
Quell'estate stava preparando una revisione della collezione entomologica
del museo di Scienze Naturali nel palazzo Herzler di Varazdin in una sorta
di gemellaggio tra la Croazia e la regione Veneto. In particolare doveva
trovare gli stessi campioni del museo croato, per una nuova sezione a
Verona dedicata a quegli artropodi che si erano naturalizzati in ambienti
diversi da quelli di origine grazie al trasporto casuale legato alle attività
dell'uomo. L'impresa non era semplice, soprattutto perché doveva riuscire a
scovare dei coleotteri molto rappresentativi mancanti al suo museo, che si
trovavano solo sulle isole del Quarnaro e che provenivano sia da regioni più
a nord della Croazia come il centro Europa, sia da luoghi più a sud come la
Sicilia e anche come il nord Africa. A Isabella piaceva vedere l'amico
andare sempre in giro munito di scatolette, etichette, boccetta di etere con
cotone idrofilo e, tanto per non farsi notare, retino per farfalle, anche quando
non andava "a caccia", perché avrebbe potuto perdere chissà quante
occasioni di incrociare la Cetonia aurata1 tanto agognata!
La loro era un'amicizia con radici lontane; al liceo inizialmente non si
sopportavano, fino a che Isabella, che già aveva l'attitudine speciale di
1 Coleottero scarabeide dal colore verde metallico.
capire le persone, non trovò la chiave per cambiare il loro rapporto
conflittuale senza ragioni; così era bastato che lo andasse a trovare a casa
sorprendendolo con una piccola dimostrazione di attenzione nei suoi
riguardi, cosa che lui non si sarebbe mai aspettato da parte di quella
ragazzina saccente e indisponente, per iniziare una lunga e profonda
amicizia. All'inizio tra loro c'era stata una breve infatuazione, più che altro
adolescenziale, ma era finita talmente in fretta che ancora un po' nemmeno
se lo ricordavano più. A quel tempo erano entrambi attratti da partner con
personalità ben diverse dalle loro.
Sergio cercava ragazze con un carattere più controllabile di quello di
Isabella, che lo adorassero e che, soprattutto, amassero le sue passioni o per
lo meno ne dimostrassero un certo interesse e che quindi lo seguissero nelle
sue “temerarie” avventure a caccia di animali vari che collezionava fin da
bambino, e da allora non era cambiato molto.
Trovare le donne per lui non era certo un problema: l'affascinante
entomologo che lavorava in un museo, le difficoltà si presentavano
inevitabilmente quando queste cominciavano a conoscerlo. Sergio non
usciva facilmente fuori di sera, a cena o con amici; preferiva fare
passeggiate di giorno in campagna, in collina e non importava se faceva
freddo, caldo, piovesse o nevicasse, perché ogni tempo era buono per
trovare “casualmente” l'insetto che mancava alla sua collezione e che,
guarda caso, gli capitava sempre di inseguire a ogni sua uscita. Non si
faceva poi alcun problema, anche se andava in qualche locale o ristorante o
altro, a presentarsi sempre munito della sua attrezzatura che lo faceva
apparire ridicolo agli occhi dei profani dell'entomologia: se usciva con il
buio poi, aveva sempre dietro le sue trappole per falene, con tanto di luce
nera alla fine di una specie di ombrello bianco che andava aperto per
attivarle.
Isabella non era gelosa delle avventure amorose dell'amico, anzi, si divertiva
a scommettere con sé stessa quanto sarebbe durata questa volta la storia con
la sfortunata di turno; quello che poi succedeva immancabilmente era che,
alle prime lamentele della compagna del momento, Sergio diventava
insofferente e in poco tempo, sentendosi incompreso, troncava il rapporto
praticamente quasi sul nascere.
Isabella da parte sua era attratta invece da ragazzi difficili da conquistare,
con personalità complesse per non dire contorte, spericolati nelle passioni e
spesso con qualche problema nell'accettare l'autorità di chicchessia: in fondo
coltivava l'aspirazione, o forse la mania, di volerli riportare sulla retta via.
Sergio era diventato il suo confessore nonché il consigliere saggio, l'amico
sempre presente e il compagno di vacanze: e Isabella per lui?
Non era un rapporto biunivoco, lui era molto riservato sui propri sentimenti
e sulle sue avventure intense e tumultuose, sempre che poi ce ne fosse mai
stata una durevole che valesse la pena raccontare (almeno così diceva
tagliando corto ogni volta il discorso quasi sul nascere); parlavano molto del
loro lavoro, delle loro emozioni, ma oltre non si erano mai spinti, a parte
quel lontano primo bacio dei quindici anni.
Né l'uno né l'altro aveva mai pensato sul serio a una storia vera e propria tra
loro, almeno così raccontava Isabella alle amiche, ai parenti e ai genitori che
non riuscivano proprio a ammettere che potesse esistere un'amicizia tra sessi
opposti.
Isabella voleva veramente bene a quel ragazzo. Sergio l'aveva sempre
consolata ogni volta che era finito uno dei tanti rapporti amorosi: la giovane
psichiatra aveva la prerogativa di iniziare delle relazioni con uomini
assolutamente incompatibili con lei, ma chissà perché, le piacevano proprio
fatti così, cioè possessivi, gelosi, con passati difficili; l'ultima storia,
terminata ormai da otto mesi, l'aveva avuta con un compagno a dir poco
violento.
Sergio, come al solito, l'aveva protetta riuscendo anche a ottenere, grazie
alla sua testimonianza, un'ordinanza di diffida emessa dal giudice con
l'obbligo di non avvicinarsi a meno di un chilometro da Isabella, cosa che
gli era costata la sua vecchia Ford Fiesta, misteriosamente andata a fuoco
una notte nel parcheggio sotto casa.
Capitolo 6
Giorni difficili
Isabella scese le scale con i capelli perfettamente acconciati, vestita di tutto
punto e sfoderando una tranquillità che non le era consona nemmeno in
condizioni normali, tutto per far notare il meno possibile le piccole ferite
che si era procurata durante la fuga disperata. Sergio era già intento a
spillare alcuni curculionidi2 mentre sulla povera cucina economica c'era una
cuccuma ancora fumante e il bricco del latte sul tavolo che quasi si
confondeva con i vari barattolini in vetro di tutte le grandezze, abitati da
sfortunati insetti che aspettavano inconsapevoli il lungo sonno dell'etere
prima di passare all'essiccatoio.
«Ti ho preparato il caffè, com'è andato l'allenamento?» chiese Sergio senza
alzare gli occhi dal suo lavoro minuzioso.
«Molto bene, ho fatto un tempo superiore al programma, quindi dovrò stare
ferma almeno tre giorni, altrimenti affaticherei troppo i muscoli...» mentì
Isabella, conoscendo l'ignoranza dell'amico sull'argomento e preparandosi
già una giustificazione per non correre più a Ilovik. Sergio intanto aveva
alzato gli occhi e le stava scrutando il viso strisciato:
«Ti sei fatta male? Sei caduta?»
«Sì, nessun problema, sono scivolata su un sasso e prima di cadere ho preso
dei rami di lentisco sul viso, ma fa tutto parte del gioco» rispose con un
forte senso di nausea, non riuscendo a non pensare alla vera rovinosa caduta
e a tutto quello che ne era conseguito dopo. Si sedette a fianco dell'amico
dopo aver preso la sua tazza con latte e caffè caldo e Sergio le toccò il lungo
taglio sulla guancia dandole l'impressione che non fosse completamente
convinto dell'incidente:
«Stasera andiamo a mangiare i famosi calamari alla griglia della Konoba
Panino?» gli chiese Isabella, per distrarlo dallo studiare il suo
comportamento e i vari lividi che l'entomologo continuava a notare sul suo
corpo, dato che era troppo abituato a vedere i minutissimi particolari dei
suoi insetti e molto veloce a cogliere tutto ciò che differiva dall'abituale.
«Va benissimo, ho proprio voglia di passare una serata rilassante, anche
perché oggi devo assolutamente girare l'interno dell'isola alla ricerca di un
2 Particolari coleotteri dallo strano muso allungato.
Rutelidae spero almeno in una Anisoplia austriaca, che dovrebbe essere
naturalizzata proprio qui e nell'isola di Lussino ancora dai tempi della
dominazione austriaca, quando hanno piantumato la grande pineta. Questo
insetto non si trova mai troppo vicino alla costa; bisogna girare almeno tre-
quattrocento metri verso l'interno per avere qualche chance di catturarlo,
posizionare delle trappole con feromoni e...»
«Ti accompagno, molto volentieri, posso?»
Lo interruppe Isabella che già stava per andare in panico all'idea di rimanere
sola a casa, o peggio, in giro per il paese. Sergio da sempre le infondeva una
grande sicurezza e lei sperava che, seguendolo nel suo noiosissimo e
disgustoso lavoro, almeno non avrebbe pensato a tutto ciò che le era appena
capitato.
«Splendido, è la prima volta che mi chiedi di venire, non vedo l'ora di
spiegarti tutti i trucchi del mestiere, uno diverso dall'altro a seconda della
specie che vuoi catturare.»
Sergio, contentissimo, la guardava ora stupito e con una nuova luce negli
occhi di piena soddisfazione, tanto che Isabella interpretò la sua sorpresa
come un invito e una speranza a farla diventare la sua aiutante e si pentì
subito della richiesta mal interpretata, ma la paura di restare chiusa in casa
da sola con l'angoscia era talmente forte che non tornò indietro sui suoi
passi. La preparazione degli zaini era già di per sé la cosa più tediosa che le
fosse capitata, anche a causa del perfezionismo dell'amico, che per lei
rasentava la paranoia. Ogni barattolino andava controllato affinché non
avesse la minima umidità, altrimenti delle pericolosissime muffe avrebbero
colonizzato in poche ore i fragili esoscheletri dei coleotteri.
«Normalmente si lavano in lavastoviglie con temperature di 60°C per
sterilizzarli ed escono anche perfettamente asciutti, ma qui a Ilovik siamo
prima della rivoluzione industriale!» le disse guardandone uno in
trasparenza per vedere se ci fosse dell'umidità nascosta nella filettatura del
tappo.
«E poi ci metto della carta assorbente sul fondo, come quella da cucina, così
gli insetti possono andarci sotto, se vogliono, e ne fanno un nascondiglio. In
questo modo non solo si agitano meno, ma in più non continuano a sbattere
sulle pareti durante il trasporto.»
Isabella lo ascoltava con una espressione di interesse talmente falsa che
quasi si dava fastidio, ma non riusciva a trovare nessun'altra alternativa
migliore per evitare di restare da sola.
E così continuò nel suo meticoloso lavoro di preparatrice di trappole,
sacchettini, cotone, etere, pinzette, etichette, cartina del luogo con piccole
puntine colorate per segnare con precisione i posti dove sarebbero state
posizionate le trappole e perfino block-notes e matita per disegnare qualche
insetto catturato durante le lunghe pause per gli appostamenti, e ancora carta
da cucina, forbicine.... Carichi come esploratori alla David Livingstone in
partenza per l'Africa nera, finalmente si incamminarono verso il centro
dell'isola. L'aria era rovente e i due cercatori di invertebrati si muovevano
svelti sotto un sole che splendeva senza alcuna velatura del cielo e al loro
passaggio l'erba arsa dalla prolungata siccità scricchiolava al solo piccolo
salto di impertinenti e minute cavallette colorate spaventate dai loro passi
pesanti; intensi profumi di liquirizia e salvia inebriavano l'aria che
stazionava ferma per mancanza di vento.
Isabella, affascinata da tanta estiva bellezza mediterranea, seguiva senza
pensare l'amico, dimentica finalmente dei fatti del mattino. Arrivarono alla
macchia mediterranea subito dopo la salita che, dalla Konoba Porto, si
tuffava verso l'interno e da lì incominciarono a sistemare le prime trappole,
segnando nella cartina dei chiari riferimenti per capire in qualche modo in
che posizione erano stati posti tra loro quei piccoli congegni e soprattutto
per ricordare esattamente il numero totale e il luogo dove li avevano
collocati, al fine di controllare che fossero stati disposti in modo omogeneo
e per poterli recuperare tutti alla sera.
«Questi coleotteri non si spostano molto col caldo afoso, ma,» disse Sergio
«essendo questa la stagione in cui si accoppiano, in realtà sono vigili e
sensibili ai loro feromoni, pronti a lottare violentemente anche tra sette, otto
maschi per una sola femmina. Se siamo fortunati, occorrerà solo che nel
raggio di venti metri ci sia una Anisoplia, per riuscire a farle percepire
l'odore e farla cadere in una delle trappole. Dobbiamo calcolare questa
distanza a cerchio per sistemarne altre tre a 120° una dall'altra e di sicuro
prima di sera ne prendiamo qualcuna. Devi disegnare ogni volta un cerchio
col compasso in corrispondenza della trappola che abbiamo posizionato,
ricordandoti di considerare che la scala della mappa è 1:5000. Sono
eccitatissimo al solo pensiero di quando torneremo a vedere quante saremo
riusciti a catturarne!» terminò senza degnare di uno sguardo l'aiutante
improvvisata che continuava imperterrita a eseguire gli ordini.
“Non ti dico io quanto sono eccitata al pensiero di recuperare schifosissimi
barattolini con orribili insetti disgustosi, yuuu!” pensò Isabella nel segreto
della sua mente e sorrise tra sé.
Capitolo 7
Fuga da Ilovik
Erano passati già tre giorni e quel giovedì Isabella e Sergio avevano deciso
di mangiare dei ćevapčići per pranzo al bar Oliva, proprio di fronte alla loro
casetta. Avevano consumato un'altra mattina posizionando le solite trappole
per la caccia disperata di coleotteri, con grande entusiasmo da parte del
giovane entomologo che riteneva un enorme successo il fatto di aver
catturato ben tre Anisoplia e numerose altre specie di insetti tra cui
scarabeidi, curculionidi, stafilinidi, buprestiti e diversi altri artropodi con
nomi complicati e totalmente privi di interesse per l'amica. Isabella aveva
deciso di riprendere a correre una volta che fosse arrivata a Lussin Grande,
dove sarebbe stata ospite di zia Romina, sorella di sua madre, della quale
aveva profonda stima e simpatia. Aveva accettato di buon grado l'invito a
passare tre settimane nella camera degli ospiti, invito esteso anche a Sergio
e insieme avrebbero condiviso la stanza, ma ovviamente lui avrebbe dormito
sullo scomodo divano letto stile anni '70.
«Domenica, con calma, prendiamo il taxi boat alle 11:00, così la zia fa in
tempo a venire a prenderci appena finisce la messa, alla quale non rinuncia
mai, nemmeno se è in lingua croata!» esordì la ragazza pregustando già la
prima corsa in Valdarke la sera stessa.
«Ottimo, devo giusto cercare un particolare ortottero, una sorta di cavalletta,
che è stata segnalata una volta sola proprio nella campagna vicino a Veli,
ma non è stata mai catturata. Se lo trovo io, il museo di Varazdin mi
finanzierà altri dieci giorni perché vuole averne un esemplare. Riuscirei a
fare tutto il periodo spesato. Sarebbe favoloso visto quello che mi pagano!»
Sergio non era certamente legato al denaro, tuttavia non riusciva a
guadagnare molto con il suo lavoro, anche se dal punto di vista della
passione era pienamente appagato.
Spesso aveva confessato che avere una famiglia avrebbe comportato la
rinuncia a quel posto poco remunerativo per un impiego più redditizio,
almeno come insegnante. Isabella lo ascoltava e pensava
contemporaneamente a quanto fosse fortunata ad avere un lavoro che, oltre a
piacerle moltissimo, le dava anche uno stipendio molto alto, soprattutto in
considerazione della sua giovane età; nonostante la situazione fosse nel suo
caso molto favorevole e stabile, non le era mai venuto il forte desiderio di
crearsi una famiglia, anzi. Mentre si perdeva in pensieri di mero bilancio
della sua vita, sentì come un sobbalzo al cuore e si accorse che
inconsciamente stava ascoltando un discorso tra un'italiana e un croato
seduti al tavolo vicino:
«L'hanno trovato morto sulla spiaggia e adesso cercano il battello o il
motoscafo che lo ha ridotto così. La moglie era divisa a metà e si trovava
sempre sulla spiaggia a poca distanza dal marito, ma le gambe sembrano
sparite nel nulla: la guardia costiera teme che sia stata uccisa anche lei da un
pirata del mare, ma che non sia stata trasportata subito dalla corrente sulla
battigia come il marito e i pesci abbiano ormai fatto sparire per sempre
l'altra parte del corpo.
Mi hanno fermata proprio ieri e mi chiedevano un mucchio di cose che non
capivo, soprattutto volevano sapere quando ero arrivata qui nell'isola e se
avevo visto qualcosa che potesse aiutarli, ma quando ho fatto vedere loro il
biglietto del traghetto di mercoledì, mi hanno lasciata andare via subito:
cercano qualcuno che sia qui almeno da lunedì...»
Isabella cominciò a respirare profondamente e l'aria pareva non bastarle
mai; Sergio si accorse del suo disagio e non ne capiva il motivo, soprattutto
non avendo fatto attenzione ai discorsi dei due vicini:
«Stai male? Ti vedo strana, sembra quasi che tu abbia una crisi di panico» le
chiese premuroso.
«Scusa, ma stavo ascoltando i discorsi delle due persone dietro di te che
parlavano di un cadavere a pezzi proprio qui a Ilovik e di altre cose orribili e
mi sono impressionata...» rispose non riuscendo a trovare nessun'altra
ragione plausibile per il suo malessere improvviso. Intanto Sergio si era
girato verso il tavolino alle sue spalle e con la semplicità di sempre aveva
iniziato a parlare con i due individui, per capire il motivo di tanto
turbamento di Isabella.
«Davvero? Lunedì sulla spiaggia sabbiosa di Ilovik?» E girandosi verso
l'amica aggiunse: «Ma non è dove sei andata a correre tu proprio lunedì
mattina presto?».
Isabella cominciò ad avere un senso di nausea irrefrenabile, in un momento
tutto l'orrore che aveva negato per giorni le ritornò davanti agli occhi più
vivo che mai.
Non riuscendo più a trattenere lo sgomento che le cresceva dentro e che le
strozzava la voce, si alzò di scatto quasi facendo cadere la sedia e a fatica
disse:
«Scusate, sto male, questo caldo mi sta dando alla testa, devo andare!».
E mentre si girava per rientrare in casa alla ricerca di un luogo rassicurante
per riprendere il controllo, vide il capitano e due guardie costiere che si
stavano avvicinando guardandosi intorno con scrupolosa attenzione. Isabella
si girò di scatto verso l'amico, dando così le spalle ai due militari e aggiunse:
«Ho un calo di pressione, forse un collasso per il caldo, mi sento svenire,
scusa, lascia i soldi subito e portami dentro casa.»
Mentre Sergio si apprestava a fare quello che gli aveva chiesto, la sua mente
stava valutando la pericolosità della situazione: se solo la guardia costiera
avesse interrogato l'amico, lui avrebbe raccontato del suo allenamento sulla
spiaggia di quella maledetta mattina del duplice omicidio e per lei non ci
sarebbe stato più scampo e probabilmente nemmeno per l'entomologo.
Guardò indietro con discrezione e vide che le guardie si erano fermate a
parlare con una ragazza straniera, probabilmente tedesca. Approfittando di
quei minuti preziosi, affrettò ancora di più il pagamento del conto e
finalmente sgusciarono entrambi dentro casa senza essersi fatti notare.
Dentro le mura sicure Isabella si buttò sul letto di Sergio e con il viso
pallido per la paura e il respiro corto, cominciò a studiare un piano di fuga
da Ilovik, senza renderne partecipe il compagno che intanto si era messo a
prepararle una camomilla, convinto del suo malessere improvviso.
«Non ti ho mai visto ridotta così, non sapevo che soffrissi di pressione
bassa. Mi ricordo solo una volta, ancora quando eravamo al liceo, che ti sei
sentita male nello stesso modo. Le ragazze avevano detto al professor
Galvan che avevi il ciclo, subito dopo che i tuoi genitori ti avevano portato
via dalla classe. Mi ricordo che quel termine mi aveva dato un fastidio
terribile. Sono discorsi da donne, pensai, non cose da dire a un insegnante,
maschio per giunta.»
«Sì, hai ragione, forse è per quello che sto male, non preoccuparti, adesso
mi riprendo subito.»
Isabella non aveva alcuna voglia di chiacchierare e così aveva cercato di
tagliar corto il discorso pur di riuscire a zittirlo e a liberare la mente per
pensare.
«Ma non ti sono mai venute le mestruazioni con me in tutti questi anni? Me
ne sarei accorto visto l'effetto che ti fanno. Di solito non danno questi
sintomi alle adolescenti? Non mi sembra che tu sia poi così giovane!»
Sergio le continuava a parlare convinto di alleviarle la sofferenza e faceva
delle battutine che pensava simpatiche, ma non vedeva alcun sollievo in lei
e si preoccupava sempre più. Di contro Isabella voleva essere lasciata in
pace sia per percepire e studiare i rumori che provenivano dal bar a pochi
metri della loro porta, sia per avere un po' di lucidità per pianificare il
viaggio verso Lussino, che dovevano anticipare. La zia l'avrebbe accolta di
sicuro a braccia aperte, ma preferiva darle una spiegazione verosimile per
l'anticipo. Udì distintamente appena fuori dalla porta la voce forte e rauca
del capitano che chiedeva qualcosa d’incomprensibile al barista; le mancò il
fiato e il terrore sui suoi occhi venne immediatamente notato da Sergio che
subito le si avvicinò:
«Ti senti male? Posso f...»
«Zitto!» fu la risposta ruvida e quasi sgradevole che le uscì incontrollata.
«Scusa,» aggiunse a bassa voce «ho un gran mal di testa, lasciami qui al
buio, sola e soprattutto in silenzio.»
La ragazza si protese ancora di più verso il lato del letto vicino alla porta
d'ingresso per ascoltare le voci che venivano dall'esterno mentre Sergio, con
espressione tra il dubbioso e il sorpreso, non avendo mai sentito Isabella
rispondergli in modo così strano e acido, salì le scale e se ne andò in bagno
per farsi una doccia rinfrescante.
Il capitano continuava a porre domande al ragazzo del bar, il quale gli
rispondeva tranquillo, quasi felice di essere di aiuto, ma Isabella non aveva
la minima idea di cosa si stessero dicendo.
Si era alzata per sbirciar fuori attraverso le fessure delle vecchie imposte
sgangherate e, nonostante il forte senso di nausea che le davano i
raccapriccianti ricordi rianimati dall'inconfondibile e imperioso timbro di
voce del soldato, rimase a studiare la situazione fino a che lo vide
finalmente allontanarsi insieme ai suoi inseparabili quanto ripugnanti
sottoposti. Si alzò decisa a scappare quello stesso giorno, iniziò subito a
riassettare alla meglio tutto ciò che doveva portare via in gran fretta per
farlo entrare nelle valige e intanto la sua mente aveva incominciato a
imbastire una scusa abbastanza credibile da propinare a Sergio e alla zia
Romina.
Dalla sua camera si prendeva il Wi-Fi free del bar Oliva e così scrisse subito
a Massimo, il suo allenatore, riguardo ai vari problemi di allenamento legati
alla struttura dell'isola: il caldo torrido la obbligava a correre solo dopo il
tramonto, ma non esisteva illuminazione nell'isola e facilmente poteva
cadere ancora inciampando in qualche radice o sasso, e magari questa volta
farsi male sul serio. Alla mattina bisognava partire presto, prima del sorgere
del sole, altrimenti si sarebbe trovata tutto il tragitto scoperto dall'ombra a
causa dell'esposizione di quell'unica strada possibile e, data la sua pressione
bassa, rischiava un vero collasso: che fare? In più tutto il percorso era
accidentato e aveva già preso una piccola storta che l'aveva tenuta ferma per
ben quattro giorni; lo sterrato non era per lei proprio l'ideale, anche se in
realtà quel tipo di fondo era preferito dai maratoneti per gli allenamenti
rispetto alla strada, più "rigida" e quindi stressante per le articolazioni. La
risposta quasi immediata del personal trainer era scontata: anticipare la
partenza per la più facile Lussin Grande, non poteva permettersi di perdere
tutta la settimana di allenamento o, peggio, subire qualche piccolo incidente
che l'avrebbe tenuta ferma per chissà quanto tempo.
A quel punto scrisse un'altra mail, ma questa volta ad Armando, un tecnico
computazionale con il quale aveva collaborato ad alcune perizie per
l'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino.
Armando lavorava per la U.A.C.V (Unità per l'Analisi del Crimine
Violento) della polizia di stato ed era addetto alla ricerca o all'archiviazione
dei dati nel sistema di supporto informatico denominato S.A.S.C. (Sistema
per l'Analisi della Scena del Crimine). Tutte le informazioni relative a
omicidi, rapine e violenze a sfondo sessuale trasmesse dall'autorità
giudiziaria o dagli organismi investigativi venivano analizzate e
memorizzate all'interno del S.A.S.C., e quindi passavano per le mani di
Armando o comunque egli ne aveva accesso.
Per Isabella era l'esperto informatico che le serviva, specializzato nel trovare
qualsiasi notizia riguardo a una data persona, era lui che poteva accedere
all'archivio e che veniva consultato quando bisognava incrociare dati e
scoprire per esempio le varie identità di chi cercava di nascondersi sotto
mentite spoglie.
Isabella era entrata nelle sue grazie, anche troppo, ma la ragazza sapeva
molto bene come rifiutare le avances senza offendere né perderne i vantaggi
e di certo non si faceva scrupoli, se ne aveva bisogno, a essere civettuola per
ottenerli.
Armando era figlio di un criminologo che lavorava all'università di Firenze
e di un’esperta informatica giapponese dalla quale aveva ereditato
inclinazioni e un aspetto per nulla affascinante, almeno così pensava
Isabella che non era di certo attratta da quel piccolo uomo grassoccio e con
uno strano colore di pelle tendente al grigio. Ma il ragazzo era talmente
simpatico e brillante che, dopo poco tempo passato insieme, il suo aspetto
fisico scompariva e rimaneva nella memoria solo lo sguardo intelligente e la
sagacia dei discorsi e delle battute.
Nella mail Isabella gli chiese di informarsi su di un incidente che era costato
la vita a due persone, un uomo e una donna, avvenuto in Croazia nell'isola
di Ilovik e anche tutto ciò che si poteva scovare sul capitano della guardia
costiera che aveva scoperto i cadaveri: voleva sapere il suo nome e il più
possibile che si potesse svelare del suo passato: il motivo glielo avrebbe
spiegato in seguito.
Adesso doveva mandare un sms alla zia nella speranza che fosse a casa e
che potesse venire a prenderli all'approdo sull'altra isola e infine informare
dell'anticipo Sergio, in modo che anche lui si mettesse di buona lena a fare
le valige fin da subito.
Il taxi boat era sempre disponibile, bastava una telefonata.
A Sergio non serviva molto tempo per ritirare le poche trappole rimaste in
campo e intanto lei avrebbe pensato a come sistemare il suo bagaglio.
Capitolo 8
Amicizia
Sergio era ancora in bagno mentre Isabella continuava imperterrita a
preparare bagagli su bagagli, senza porsi il vero problema: cosa avrebbe
detto il suo amico entomologo di quella fuga da Ilovik improvvisa e
apparentemente senza valide ragioni, proprio adesso che stava catturando le
tanto ricercate Anisoplie?
Senza farsi troppe domande, quasi a esorcizzare il problema, Isabella tirò
fuori da sopra l'armadio-dispensa della cucina anche la valigia di Sergio e la
mise sul letto a fianco della sua, ma non l'aprì e continuò invece impassibile
a recuperare tutti i vestiti che trovava sparsi per la sala da pranzo. Mentre
sentiva di dover andar via il più presto possibile da quel luogo diventato per
lei insopportabile, non si accorse che alle sue spalle era arrivato l'amico per
vedere come stava, ancora convinto del suo malessere.
Il ragazzo rimase fermo a osservarla curioso, aspettando che si girasse e gli
spiegasse cosa stesse succedendo, ma alla fine lui stesso dovette arrendersi
al fatto che Isabella fosse talmente concentrata nel suo lavoro da non
accorgersi della sua presenza.
«Ma sei impazzita? Mi sembri quasi una posseduta! Ti ho lasciato mezz'ora
fa semimorta e adesso ti trovo in preda a una crisi compulsiva che fai incetta
dei tuoi vestiti. Mi stai cacciando di casa visto che vedo lì la mia valigia o
stai scappando per caso da me senza dirmi nulla? Non credi che tu mi debba
delle spiegazioni?»
Sergio la sorprese parlandole all'improvviso e con un tono talmente
scocciato da farle fare un salto all'indietro e, quasi sconvolta da una piccola
crisi isterica, Isabella lanciò un urlo di paura che spaventò a sua volta ancora
di più l’amico:
«Isabella, ma cosa ti sta succedendo? Fermati subito e parlami!»
Con fare preoccupato e allo stesso tempo determinato le si avvicinò vedendo
che non smetteva di sistemare in modo scomposto le sue cose e le afferrò le
mani per cercare di calmarla dall'agitazione incomprensibile che l'aveva
colta e soprattutto perché si rendeva conto che la ragazza in quel momento
non lo stava nemmeno più ascoltando. Presa senza preavviso, Isabella cercò
di dimenarsi da quella morsa forte e che non ammetteva discussioni ma,
sentendosi messa al muro, scoppiò in lacrime appoggiando la testa sul petto
dell'amico, il quale le lasciò andare i polsi, che aveva bloccato fino a un
attimo prima in modo risoluto, e la strinse a sé con un abbraccio delicato e
avvolgente. Quando sentì che ormai i singhiozzi andavano diminuendo
lasciandole finalmente la capacità di parlare, Isabella alzò lo sguardo verso
il viso di Sergio e si perse per un attimo in quei lunghi occhi verdi che la
fissavano con un'espressione mista di affetto e di perplessità. Il taglio delle
palpebre era quasi orientale, tanto che l'iride appariva in parte nascosta nella
porzione alta dalla plica di pelle, dando l'impressione di uno sguardo
profondo, ma che nascondeva sempre pensieri difficili da decodificare.
Sergio aveva indossato una fresca camicia di lino color coloniale che stava
abbottonando poco prima di vederla in quelle condizioni e per questo non
aveva finito di chiuderla del tutto; così si posava con pieghe quasi rigide sul
torace forte e ampio lasciando intravedere la pelle lucida resa ambrata
dall'esposizione al sole. Isabella si abbandonò al piacevole contatto della sua
guancia con la cute profumata e tesa del petto di Sergio e si accorse che il
suo odore le stava donando un attimo di calma e un inaspettato piacere.
D'istinto pensò di dirgli tutto: in fondo era sempre stato più comprensivo di
chiunque altro in qualsiasi circostanza, ma cercò di ragionare un attimo con
lucidità prima di agire d'impulso, valutando velocemente la situazione e
immaginandone le conseguenze.
Isabella con il suo lavoro era venuta a conoscenza di storie di violenza
inaudita, aveva visto foto di scene brutali, di corpi straziati e analizzato la
complessa e contorta personalità di malati mentali capaci di crimini efferati.
Ma allora perché era così spaventata? Non avrebbe dovuto essere in qualche
modo preparata a situazioni estreme come quella in cui si era trovata
implicata? Non esiste forse una sorte di vaccinazione quando grazie alla tua
professione sai perfettamente che quello che stai passando poteva capitare a
chiunque? Se la stessa cosa fosse successa a Sergio lei gli avrebbe
sicuramente consigliato di andare dalle autorità competenti, di fare
denuncia, soprattutto di adempiere al suo dovere di testimone di un orribile
delitto per dare giustizia a quella povera coppia.
No, adesso capiva che nei giudizi ci vuole sempre grande umiltà: nessuno
può prevedere con certezza le proprie emozioni e ancor meno le reazioni a
cui andrà incontro, fino a che non si trova coinvolto personalmente.
Una cosa è essere l'autorità competente, un'altra è essere il testimone
consapevole di un assassinio di ferocia inumana ed essere braccata niente
meno che dalla guardia costiera.
No, non avrebbe capito, esattamente come lei non ne sarebbe stata capace al
posto suo.
Isabella però aveva una dote che a Sergio proprio mancava: sapeva mentire
benissimo, quasi da arrivare ad autoconvincersi di quello che voleva far
credere per ottenere tutto ciò che si era prefissata, anche in situazioni
delicate come quella. Si impose perciò di cambiare strategia e di arrivare
dove aveva deciso, anche imbrogliando l'amico, ma solo a fin di bene.
«Scusami, non so cosa mi è preso, sono fuori di me, me ne rendo conto. Ho
ricevuto una mail da Massimo in cui mi dice che devo assolutamente
andarmene da Ilovik se voglio avere una speranza di farcela a New York. Lo
so, ti sembrerà infantile, ma ci tengo da impazzire, è una sfida importante
con me stessa, una prova di volontà che mi serve in un momento molto
delicato della vita e adesso mi sembra di stare perdendo tutto solo perché
sono venuta qui in vacanza. E quello che più mi fa star male è dover
obbligare te a venire via, proprio ora che ti vedo felice per i tuoi coleotteri
anitrofile o artrosiche o non mi ricordo più come caspita si chiamano. Mi
stavo divertendo così tanto a seguirti nelle tue caccie e adesso mi sento
malissimo nel chiederti di accontentarti dei pochi esemplari che hai trovato
per aiutarmi ancora una volta in questa avventura.
Ne ho tanto bisogno per superare la brutta storia che ho avuto con quel
delinquente di Giuseppe, e tu solo sai quanto sia stata dura… forse non ne
sono ancora uscita del tutto…
Quando penso alla maratona e all'opportunità di correre per tutta New York,
mi dimentico dei problemi passati e sento che finalmente sto facendo un
bilancio costruttivo della mia vita e che sto iniziando una fase nuova e
importante; ma ho ancora bisogno di te, della tua approvazione e di sentirti
vicino...»
Sergio la guardò con un'espressione di tenerezza e dolcezza talmente intensa
che quasi la fece sentire in colpa per aver strumentalizzato la loro amicizia e
per aver usato la sua capacità di sfruttare la conoscenza viscerale della
personalità dell'amico. Isabella era molto abile nel toccare le corde giuste
per ottenere sempre da lui quello che voleva! Non era brava solo perché era
una psichiatra; in realtà l'essere camaleontica nelle diverse situazioni e saper
mutare il proprio comportamento, adattandosi alla personalità con cui in
quel momento interagiva, faceva parte di una dote naturale che le aveva
spesso aperto porte altrimenti difficilmente accessibili.
Gli si strinse ancora un po' facendo finta di non avere più fretta di partire e
lasciò che lui le accarezzasse la testa, sapendo interpretare benissimo quel
gesto come il segno inequivocabile che stava cedendo alle sue richieste. Due
ore dopo sbarcarono sull'isola di Lussino e la zia, radiosa come sempre, era
lì con la sua Fiat Panda ad aspettarli.
«Ragazzi, che bello rivedervi! Vi trovo in splendida forma, qui l'unica che
invecchia sono sempre e solo io.» Romina amava scherzare sulla sua età, il
suo era un gioco scontato, dato che nessuno le attribuiva certo i suoi anni e
sentirselo ripetere per lei era una grande soddisfazione.
Saliti in auto, cominciarono i racconti sulla loro breve permanenza a Ilovik e
sulla vita spartana e incontaminata dell'isola, priva di qualsivoglia struttura
turistica moderna, che subito strega il turista, il quale deve scoprire dentro di
sé la propria dimensione del "divertimento".
«Quella specie di amazzone che guidava il taxi boat ci diceva che esistono
due fazioni tra i proprietari dell'isola: quelli che sono rimasti lì ad abitare,
che vorrebbero renderla più moderna e turistica, e quelli che adesso abitano
negli Stati Uniti o in Australia, che non vogliono assolutamente che si
modifichi nulla!»
«Eh sì, cara zia, devi sapere che il timido Sergio ha passato tutto il tempo a
discorrere con quell'energumena, senza mai permettermi di entrare nelle
loro chiacchiere, nemmeno quando si sono messi a parlare proprio di me,
del fatto che sono iscritta alla maratona di New York, che oramai non penso
ad altro, ecc., come se nemmeno fossi presente. E poi, cosa le interessava
sapere del mio sport? Forse voleva perdere quei cento chili in più
cominciando a correre?»
Così la compagnia, scherzando e ridendo di gusto, arrivò a destinazione
senza nemmeno fare caso al paesaggio mozzafiato che sfrecciava via in
silenzio da dietro i finestrini.
Capitolo 9
Ricomincia la corsa
Zia Romina era una signora alta e molto magra di circa sessant'anni,
decisamente curata nell'aspetto, tanto da avere sempre le unghie
perfettamente laccate, con il ricercato particolare di usare lo smalto di un
tono più scuro per quelle dei piedi. Non si era mai sposata, anche se nella
sua vita aveva collezionato numerose storie sentimentali che poi lei stessa
aveva fatto finire in un modo o nell'altro. Isabella proprio non ne capiva il
motivo; la zia era ancora bella, intelligente, sportiva ed esercitava con
notevole successo nel suo studio privato come psicologa e psicoterapeuta.
Donna dolce e volitiva, era stata più di una seconda madre per lei, visto che
fin da bambina riusciva a confidarsi con la zia come con nessun altro, a
parte Sergio, e ne aveva sempre ricevuto conforto quando qualcosa le
andava storto, o comunque qualche saggio consiglio e un'analisi distaccata e
precisa su qualsiasi situazione che poteva darle una nuova prospettiva. Così
Isabella riusciva ad affrontare i problemi vedendoli sotto l'ottica di una
nuova opportunità, perché, come Romina le diceva sempre, "non esistono
condizioni solo positive o solo negative, ma tutte le circostanze sono sempre
complesse e possiedono sfaccettature che a volte sfuggono, ma, se
individuate, possono essere sfruttate a nostro favore a patto che non si perda
mai il punto di vista razionale."
Insomma, Isabella pensava che una donna così meravigliosa avrebbe potuto
avere una vita matrimoniale felice e magari dei figli, che avrebbe certamente
tirato su con amore e fermezza; ma qualcosa ogni volta andava
immancabilmente storto, forse a causa del tipo di uomo da cui era
fatalmente attratta: come si assomigliavano!
La casa a Lussin Grande, di una calda tinta mattone leggermente tendente al
rosa, era proprio nel cuore del paese, distante appena duecento metri sia dal
piccolo centro di casette dipinte ognuna con colori tra loro diversi e
contrastanti sia dal mare, cosa che le permetteva di raggiungere in un attimo
ogni luogo, ma allo stesso tempo di rimanere un po' esclusa dalla confusione
estiva. Zia Romina amava passarci tutti i tre mesi estivi e in particolare
aveva preso l'abitudine di arrivare ogni anno il 21 di giugno per vivere il
giorno più lungo dell'anno come il primo della vacanza, tanto da sacrificare
qualsiasi altro impegno si presentasse, previsto o imprevisto che fosse, e
qualche volta anche non senza qualche imbarazzo da parte di persone che
evidentemente non la conoscevano bene.
Il giardino era delizioso e curato con grande impegno; all'interno vi
troneggiavano imponenti tre palme che apparivano già da distante uscendo
con la loro chioma fitta da sopra il vecchio muro di sassi che lo recintava. A
Isabella avevano sempre dato l'impressione che ogni anno la stessero
aspettando, quasi fossero dei giganti che muovevano volutamente le loro
lunghe mani verdi per salutarla appena la scorgevano da distante, come
fossero state messe lì apposta per indicarle la giusta direzione da seguire per
raggiungere quel posto ameno.
Una volta arrivati alla casa la prima impressione era sempre quella di
trovarsi immersi in un Ikebana, nel quale le grandi piante si mescolavano
mirabilmente con le numerose essenze che facevano parte di quel piccolo
parco botanico costruito con tanto amore dalla zia in molti anni di passione
e dedizione al suo arredo. Isabella adorava passare ore sotto i tre grandi
nespoli del Giappone che, con le loro fronde alte e dense, disegnavano una
volta naturale e ombrosa sopra alla cosiddetta “sala da pranzo estiva”, come
amava chiamarla la zia, una sorta di ampia terrazza piastrellata dove erano
state messe ad arte delle sdraio e un ampio tavolo con ben dieci posti a
sedere.
La camera degli ospiti si trovava al primo piano ed era arredata con gusto
semplice, rispettando lo stile minimalista e aggraziato del mobilio locale:
alle pareti erano appesi due quadri che rappresentavano delle marine e un
grande specchio ornato da rami sbiancati dal mare, che infondevano un
profumo salino e davano la piacevole sensazione che fossero stati appena
raccolti dalla battigia.
Tutto era così famigliare e confortante che Isabella, buttandosi sul letto
matrimoniale e guardando attraverso le finestre il cielo azzurro sopra alle
foglie dei maestosi alberi, per un attimo le sembrò di tornare indietro nel
tempo, quando da ragazzina inquieta e fin troppo vivace scappava di notte
per trovarsi con la compagnia di amici, per poi ritornare verso mattina e far
finta di essere assonnata per le lunghe ore di studio.
Così, per un momento, dimenticò tutta l'angoscia che l'aveva portata
precipitosamente a casa della zia.
Il desiderio irrefrenabile di mettersi una tutina e andare a correre come
amava fare ogni anno all'arrivo a Lussino la prese irrefrenabile e, in una
sorta di rito scaramantico, cominciò a tirar fuori tutti i vestiti dalla valigia
alla ricerca dell’attrezzatura da running.
Intanto Sergio era salito anch'egli in camera, dopo aver intrattenuto la zia
con il resoconto dettagliato della loro breve vacanza a Ilovik e, con le
lenzuola tra le braccia che gli aveva porto Romina, iniziò a sistemare il
divano letto.
Isabella uscì dal bagno indossando il completo da running nero, come la
fascia di spugna che teneva in fronte, satellitare e MP3 accesi e pronti, e una
gran voglia di sentire i muscoli delle gambe guizzare in una corsa
liberatoria. Il suo entusiasmo non sfuggì a Sergio che la guardò con un
sorriso colmo di tenerezza e uno sguardo soddisfatto per aver ritrovato
l'amica serena e piena di vita che non vedeva ormai da parecchi giorni, cioè
da quando erano arrivati a Ilovik, e si rese conto che la corsa era per lei,
come gli aveva confessato qualche ora prima, un bisogno non solo fisico,
ma soprattutto psicologico.
Appena uscì dal piccolo cancello di legno che dava sulla strada pedonale,
l'aria calda della sera l'accolse avvolgendola in un tiepido abbraccio reso
dorato dalla luce di un limpido tramonto estivo ed essa divenne subito
ancora più piacevole sul viso grazie alla velocità che Isabella riuscì a tenere
da subito senza fatica, aiutata anche dal fatto che il percorso iniziava con
una ripida discesa. Infatti, la casa della zia si trovava quasi in cima a una
collinetta rivolta verso sud ed era perciò anche riparata dalla bora e dal
maestrale che spiravano spesso e con insistenza in quell'isola.
La ragazza girò a velocità sostenuta dentro la stretta strada che tagliava
perpendicolarmente la passeggiata principale per il porticciolo e poi, sempre
mantenendo un ritmo alquanto elevato, si diresse con le ali ai piedi verso il
mare, passando in mezzo ai villeggianti che lenti percorrevano la piazza,
evitandoli in una gincana resa quasi acrobatica dall’elevata andatura che non
voleva assolutamente ridurre. La salita verso l'hotel Punta non le fece
diminuire la cadenza sostenuta, euforica per il paesaggio mozzafiato che le
si apriva davanti, ammantato di una luce calda data dai colori di tutte le
tonalità del rosso fuoco del tramonto che facevano riverberare l'acqua,
leggermente increspata, di mille riflessi che contrastavano tra loro a seconda
che rispecchiassero il blu intenso del cielo o il rosa quasi fucsia delle
nuvole. Maestoso, fermo e silenzioso il largo campanile della chiesa si
ergeva quasi sulla punta del promontorio e a Isabella ricordava un faro che
emetteva luce, però per le anime pie più che per i marinai distratti. Superata
l'altura, sgusciando con movimento veloce e sinuoso tra le sbarre che alla
fine della salita permettevano solo il passaggio dei pedoni, ecco che per lei
iniziò la discesa, fresca ed esaltante, che istantaneamente girava a gomito a
sinistra nella stretta passeggiata lungo un mare che l'attendeva ancora
dall'anno prima. In questa nuova prospettiva la grande distesa d'acqua si
presentava di un freddo color verde bottiglia, reso irregolare nei riflessi, a
guisa di un quadro impressionista, per le chiazze scure o a macchie
luminose causate delle ampie ombre gibbose dei pini secolari che si
susseguivano quasi ininterrottamente lungo il sentiero e che sembravano
volervisi tuffare dentro da tempi immemorabili da quanto erano inclinati
verso gli scogli.
La musica nelle sue orecchie improvvisamente esplose in un ritmo frenetico
che ancor più le diede la spinta per accelerare la corsa, a tal punto da farle
piegare le ginocchia fino a sentire che a ogni passo sfiorava i glutei con i
suoi stessi talloni. E così via, sempre più eccitata, seguendo le curve del
sentiero con una gioia irrefrenabile e la sensazione di libertà di uno stallone
al galoppo in una prateria.
Altra piccola salita e, scollinando, apparve il piccolo molo della Valdarke
che occupava una tonda insenatura rivolta verso un mare aperto dall'aspetto
infinito, se solo non fosse stato interrotto sulla sinistra dal profilo delle
brulle montagne della costa dalmata, spazzata senza pietà dalla bora. Ma in
un attimo lo stomaco le si contrasse, la saliva improvvisamente divenne
insopportabile da quanto le bruciava la gola fino all'esofago, mentre i suoi
occhi cadevano sulla maledetta imbarcazione della guardia costiera che
procedeva lentamente verso il molo. Il panico spietato, inesorabile e ormai
compagno fedele di quella che invece di essere una vacanza si era già
trasformata nell'incubo peggiore della sua vita, la riafferrò fin dentro le ossa.
Cosa fare? Se fosse andata avanti avrebbe di sicuro incrociato i loro occhi e
magari vi avrebbero scorto dentro il terrore di una sfortunata testimone.
Tornare indietro forse li avrebbe insospettiti meno, visto che una ragazza
stava procedendo in direzione opposta alla sua e in quel momento i militari
sembravano più interessati a osservare la sfortunata di turno. Senza perdere
istanti preziosi girò velocemente su se stessa proprio a livello di un grande
pino che pendeva verso la roccia scoscesa nascondendo, almeno in parte, la
sua manovra.
“Calma, tutto è sotto controllo” pensò nel tentativo di diminuire il battito del
cuore che le sembrava impazzito nel petto e che certo non l'aiutava a
mantenere il ritmo sostenuto della corsa.
Girò l'ampia curva che portava al clivo dove si affacciavano le sparute
piccole villette sulla passeggiata e si sentì al sicuro da sguardi pericolosi
anche se, ovviamente, ora dava le spalle al porto e non poteva controllare
cosa stesse facendo la maledetta pattuglia in quel momento.
Isabella spense la musica nel vano tentativo di concentrarsi per riprendere
una falcata più uniforme, poiché si rendeva conto che presto avrebbe dovuto
affrontare la salita: con la palpitazione che aveva, unita al ritmo disordinato
del suo passo, le sarebbe mancato necessariamente il fiato per affrontare la
ripida rampa che l'aspettava.
Ascoltare ogni piccolo rumore intorno e sentire il proprio respiro che si era
ridotto ormai a un rantolo non le fu certo di aiuto e il suo raziocinio venne
obnubilato quasi del tutto; Isabella smise così di concentrarsi e cedette alla
paura che non lasciava più spazio ad alcunché se non alla folle corsa,
ritrovando un'energia che non pensava di avere e che solo la disperazione
poteva tirare fuori.
E allora via sotto la pineta, e poi ancora su per la salita del parcheggio
dell'albergo e giù fino al paese che intanto era stato inglobato nello scenario
incantevole di un tramonto ormai alla fine che lo rendeva ancora più
suggestivo, con le casette variopinte della piazzetta illuminate dalle prime
luci dei lampioni, ma che a lei invece davano la sgradevole impressione che
fossero solo delle stupide cicale che cantavano l'afa dell'estate dall'alto dei
rami dei pini, inconsapevoli o insensibili alle sofferenze di chi vi passava
sotto.
Dentro le mura rassicuranti della casa di zia Romina, sotto al getto sferzante
e leggermente fresco della doccia, Isabella ritrovò la calma e il raziocinio.
Si vestì con lentezza, si pettinò e si truccò con molta attenzione dei
particolari, come se la cura della propria persona e la ricercatezza del suo
bel vestito color corallo in tinta con gli orecchini potessero nascondere agli
altri l'agitazione che ancora la scuoteva dentro.
In realtà, sapeva molto bene come celare i suoi pensieri e sentimenti alle
persone: era un'abilità che faceva parte anche del suo mestiere e non solo
una dote di natura.
Capitolo 10
Un incontro inaspettato
Quella sera Romina aveva preparato un misto di pesce azzurro da fare alla
griglia: sarde, palamite, sgombri e merluzzi facevano bella mostra di sé sul
vassoio di acciaio lucido poggiato sopra al tavolino rotondo insieme agli
attrezzi per il barbecue vicino al caminetto acceso. L'intingolo preparato
dalla zia era fatto con sale, olio e aglio ed era accompagnato da un
“pennello” di rosmarino che usava per aromatizzare la carne durante la
cottura mentre distribuiva il condimento; nel frattempo le braci crepitavano
su un lato del focolare, mentre la griglia era già posizionata sul piano al
centro dello stesso.
Isabella guardava quasi ipnotizzata la fiamma scoppiettante e intanto
rimuginava su quanto aveva ritenuto rischioso il suo lavoro in clinica ogni
volta che aveva dovuto affrontare casi particolarmente difficili: come quella
volta che aveva dovuto fare una perizia a un maniaco violento con un'accusa
di pedofilia reiterata. In preda a un raptus di rabbia, l'uomo le si era
scagliato contro nell'unico momento in cui era stata lasciata sola; Isabella
aveva provato un senso di terrore indicibile, ma era riuscita comunque a
controllare in qualche modo la pericolosa circostanza e anche con tale
fermezza, da credere poi, a emergenza conclusa, di poter affrontare ormai
qualsiasi situazione… in realtà nemmeno allora aveva conosciuto la vera
paura.
Pensando ai passaggi più difficili della sua vita, si rese conto che sia lei che
la zia avevano sempre avuto poi un debole per gli uomini difficili e al limite
del violento, probabilmente in una sorta di sindrome dell'infermiera che le
accomunava e che le aveva portate, almeno fino a quel momento, a non
avere alcun legame stabile.
Quanto si sentiva stupida: la brutalità vera e propria vista non attraverso gli
occhi dello psichiatra, ma con quelli della vittima, è tutt'altra cosa. Come
aveva potuto giocare così tante volte con il fuoco? Si rendeva conto di
essersi comportata come un domatore che crede di aver sempre il controllo
della fiera e ora rischiava di finire sbranata per aver sottovalutato il
momento o forse per essersi sopravvalutata; no, non era come aveva sempre
creduto e adesso, solo adesso, ne aveva la reale percezione.
In ospedale come nei rapporti sentimentali tumultuosi, Isabella si era
permessa delle leggerezze, perché sapeva in cuor suo che non era mai sola:
o Sergio o l'infermiere o il poliziotto di guardia, comunque qualcuno che le
guardava le spalle c'era sempre. Ma questa volta era sola e nessuno poteva
proteggerla, nessuno sapeva.
L'ultima relazione amorosa l'aveva scottata, è vero, ma non così tanto da
farla riflettere a fondo sul perché di certe sue scelte. E la zia? Anche lei era
stata attratta sia nel lavoro che nel privato da casi difficili, e aveva così
sprecato la sua vita sentimentale e l'occasione per avere il calore di una
famiglia propria.
“No2 pensò “se ne uscirò, cambierò il mio modo di vedere la vita e le mie
relazioni.”
E con questo pensiero quasi malinconico, si girò per vedere chi fosse
arrivato alle sue spalle, avendo sentito Sergio e la zia che stavano
dialogando con qualcuno.
Un uomo di più o meno cinquant'anni stava ascoltando Romina che era
intenta a illustrargli, con il suo solito entusiasmo, come fare per poter
ottenere una talea dall'albero di limoni; quella pianta era il suo orgoglio
essendo un cultivar particolare che aveva ereditato ancora dalla nonna.
Qualcosa le era famigliare nel nuovo arrivato e così Isabella si avvicinò al
piccolo gruppo che chiacchierava per cercare di capire chi le ricordasse.
Rimase distrattamente ad ascoltarli pensando a tutt'altro e beandosi della
vista del cielo che stava assumendo un colore blu cobalto e che per questo le
ricordava le tempere che usava da bambina per dipingere il firmamento sui
candidi e ruvidi fogli da disegno. Quando però il nuovo arrivato cominciò a
parlare con Romina, Isabella prestò maggiore attenzione alla conversazione,
poiché percepiva qualcosa che le dava un senso di forte disagio:
d’improvviso ne capì il motivo. Sbarrò gli occhi, non le sembrava vero,
adesso la situazione aveva un che di grottesco e le sembrava di essere in
preda a una crisi di anancasmo: l'uomo parlava con uno strano accento, anzi,
piuttosto con un difetto di pronuncia che gli faceva sibilare la “s”. Sì, era
proprio lui, quello del peschereccio della terribile mattina a Ilovik, l'ultima
persona che era arrivata sul luogo del delitto.
“No, calma Isabella, lui non ti ha visto in viso quella mattina, calma. Adesso
sei completamente diversa, non può immaginare chi sei, è impossibile.
Calma… calma.”
E come al solito il pensiero razionale che la contraddistingueva, in una sorta
di training autogeno, le diede il controllo apparente di se stessa,
permettendole di non essere notata da alcuno dei presenti in quel fugace
momento di panico e di ritrovare sicurezza per affrontare la nuova
inaspettata situazione.
L'atteggiamento sereno e rilassato dell'ospite di zia Romina, lo sguardo di
sincera curiosità riguardo a quello che la donna gli diceva e la postura che
rivelava quanto si sentisse a suo agio in quel posto la tranquillizzarono
subito; in fondo era in grado di capire bene le persone solo a un primo
sguardo, era il suo mestiere e così, facendo finta di essere anche lei
interessata alla lezione di giardinaggio, scrutò la mimica facciale del
pescatore per capire quale persona fosse in realtà.
Il viso non presentava alcun segno di tensione, l'espressione era gioviale e
totalmente priva di aggressività o freddezza emotiva, il gesticolare delle
mani dimostrava coinvolgimento e partecipazione, anzi quell'uomo
sembrava sinceramente interessato alla talea e interveniva con sensibilità e
premura alla "conferenza" della zia.
Prepararono insieme la tavola e l'ospite inaspettato fu invitato a rimanere a
cena con soddisfazione di Isabella, che cominciava a intravedere in lui la
possibilità di aggiungere qualche tassello in più per poter arguire il perché
del brutale duplice omicidio sulla spiaggia. Oltretutto per lei era anche di
vitale importanza sapere se veramente la guardia costiera volesse a tutti i
costi trovare il testimone e, in tal caso, come intendesse giustificare quella
caccia all'uomo: quel croato era l'unico filo che Isabella poteva afferrare per
entrare in qualche modo nel tessuto locale, altrimenti per lei inaccessibile, e
dipanare la matassa di misteri e menzogne degli assassini.
L'ospite si chiamava Goran e non era in realtà un pescatore, ma un sub
professionista: Isabella cominciava già in parte a collegare i fatti e a chiarire
alcuni aspetti della storia.
Probabilmente il sub era stato chiamato dalla guardia costiera per crearsi un
alibi con la scusa di ritrovare la metà del corpo della donna; ma perché poi
era stata recisa a metà? L'incidente doveva essere stato intenzionale: per
tranciare un corpo in quel modo, l'elica non era stata presa di taglio. Solo
centrando la nuotatrice con la prua la si poteva spingere sotto alla chiglia e
poi, con l'inerzia del natante, la donna sarebbe finita per scivolare
frontalmente alle eliche. Come mai nessuno si era ancora fatto delle
domande su di un incidente con una dinamica palesemente tanto dubbia?
Erano tante le questioni ancora senza una risposta logica. A Ilovik aveva
sentito che era vittima di un incidente causato da un pirata del mare: ma se
fosse così, perché uccidere anche il marito della sfortunata?
Forse la guardia costiera aveva preso con l'elica la donna accidentalmente
ma, essendo le guardie ubriache durante il servizio, quell’incidente non
poteva certo passare solo per una banale fatalità e quindi cercavano di
eliminare il testimone, cioè lei, della seconda falsa disgrazia. Se fosse stato
così Isabella non aveva scampo, se l'avessero trovata, l'avrebbero eliminata
a maggior ragione, poiché era l'unica che aveva assistito all'uccisione del
marito della donna, e quello sì che era un omicidio premeditato, non certo
un incidente in mare.
Rimuginando sull'accaduto, le venne in mente che gli uomini erano ebbri, il
che spiegava l'infortunio, ma il capitano era invece perfettamente sobrio.
No, la chiave del mistero doveva essere più complessa e lei era l'unica che
potesse smascherare gli assassini. Ma di chi si poteva fidare? Nel suo lavoro
aveva visto casi di tutti i generi, colpevoli di ogni sorta, collusioni tra parti
altrimenti impensabili e per questo era irreparabilmente disillusa: non
esisteva una categoria immune alle debolezze umane, in qualsiasi ambiente
si poteva nascondere un potenziale assassino, anche all'interno della polizia,
proprio quella che avrebbe dovuto proteggerla. E se fosse tornata in Italia a
denunciare il fatto? Era una possibilità da non scartare.
Con quel nuovo proposito in testa, finalmente si abbandonò all'ascolto delle
chiacchiere della serata, che intanto andavano avanti senza che nessuno
facesse caso a lei e ai suoi pensieri.
Goran era molto simpatico e dava l'idea di un uomo mite, tanto che Isabella
sentì l'impulso di fargli alcune domande sui fatti di Ilovik: ma
inaspettatamente la zia Romina esordì:
«Isabella, ma tu non avevi fatto un brevetto da sub qualche anno fa?»
Tutti si girarono a guardarla.
«Sì, ma era solo un corso breve, dovrei farne degli altri per sentirmi un vero
sub. Non mi ricordo molto in realtà.»
Isabella era stata colta di sorpresa e non sapeva dove zia Romina volesse
arrivare.
«Ma perché non ti metti d'accordo con Goran e andate a fare delle
immersioni? Tu cosa ne pensi?» insistette la zia rivolgendosi al sub che, con
un sorriso quasi di circostanza e facendo spallucce, rispose:
«Sì, perché no, ma non domani, sono occupato a Sansego per finire un
molo. Andrebbe bene sabato?»
Sembrava quasi uno scherzo come quell'uomo cordiale riuscisse ad avere
sempre molte esse nelle parole dei suoi discorsi, che lo facevano sibilare in
modo simpatico e caratteristico. Isabella si sentiva rilassata e curiosa e senza
pensarci molto, accettò di buon grado.
Quella notte a letto, appena il buio e il silenzio furono intorno a lei, sentì
tornare la paura e pensò che era stata stupida a fidarsi del suo istinto: e se
invece Goran sapendo chi era l’avesse consegnata ai suoi amici assassini?
Con questo pensiero angosciante si addormentò a fatica, cadendo in un
sonno agitato e interrotto, pieno di immagini terribili di pale che le cadevano
sulla testa impietose e uomini che la inseguivano facendola precipitare in
burroni senza fine.
Capitolo 11
L'impensabile fondista
Sergio si svegliò prima di Isabella e andò a prendere i krapfen per la
colazione di tutti. Romina aveva preparato i cappuccini e il the, e stava
canticchiando in cucina. Il sonno agitato non aveva permesso a Isabella di
dormire profondamente, così si trovava ancora in uno stato di dormiveglia
dal quale non riusciva proprio a uscire. La mano leggera e tenera di Sergio
la sorprese nel risveglio difficile e quando aprì gli occhi lo vide chinato su
di lei che la guardava con sguardo interrogativo e che le spostava i capelli
scompigliati dalla fronte:
«Cosa ti succede, Isabella? Sono tanti anni che dormo vicino a te, ma non
ho mai visto un sonno così agitato: hai scalciato, ti sei dimenata, a un certo
punto hai lanciato un urlo che ho ancora il cuore in gola dalla paura. Mi stai
nascondendo qualcosa? Sai che a me puoi dire tutto…»
Il suo sguardo era sinceramente preoccupato; Sergio la stava scrutando con i
suoi lunghi occhi verdi che sembravano quasi asiatici ogni qual volta li
stringeva in quel modo per concentrarsi, e che nascondevano un misto di
fanciullezza e fascino maschile in un contrasto che Isabella non aveva mai
notato.
I suoi lineamenti erano regolari, il naso dritto, la bocca leggermente carnosa
con il labbro superiore un po' più sporgente di quello inferiore e una
notevole chioma di capelli lucidi, neri corvini, che nascevano lisci per poi
piegarsi all'indietro, quasi fossero modellati da un vento impercettibile.
Tutto questo lei lo aveva sempre visto, ma non lo aveva mai notato dal
punto di vista di una donna che guarda un uomo e, distratta finalmente dalle
angosce notturne, rispose solo accarezzandogli una guancia e regalandogli
un sorriso disteso e di sincera tenerezza che gli bastò per non farle più
domande.
Strano rapporto era il loro, incomprensibile sotto ogni aspetto, ma solido e
pieno di fiducia e di intesa anche senza la necessità di parlarsi. Isabella si
alzò dal letto per lavarsi la faccia e per pensare per la prima volta che stava
dormendo con un ragazzo che avrebbe fatto morire di invidia (e
probabilmente lo faceva) tutte le sue amiche.
“Chissà poi perché lo noto solo adesso; che sia solo una reazione al mio
senso di insicurezza? Un effetto stimolato dalla paura?”
Isabella non aveva risposte a quello che trovava un quesito quasi
cervellotico in un tentativo di auto psicanalisi contrario a qualsiasi
applicazione corretta di quella scienza e nemmeno le cercava, perché aveva
ben altri pensieri che le impegnavano la mente e, dopo aver indossato un
semplice vestitino a canottiera, scese le scale per raggiungere gli altri a
colazione. Romina stava organizzando il programma della giornata e appena
si accorse che Isabella era arrivata per la colazione, le porse il computer
sapendo che era il giorno di controllo del suo allenatore.
Massimo, infatti, le aveva scritto una lunga mail preoccupato perché non
riceveva da quasi quindici giorni sue notizie riguardo alle distanze percorse
e ai tempi ottenuti e le chiedeva, senza mezzi termini, dove volesse arrivare:
la maratona di New York era veramente dura e lei stava scantinando le
ultime due settimane di allenamento.
Se voleva rinunciare alla competizione doveva farglielo sapere il più presto
possibile anche perché, alla luce di tutto quel tempo senza né ripetute né
lunghi, ma solo percorsi medi, il personal trainer doveva rivedere la sua
tabella di marcia, altrimenti rischiava di farle subire un pericoloso
sovraccarico sulle articolazioni o peggio, uno strappo.
Massimo era un bravissimo allenatore, ma anche un uomo molto permaloso
che prendeva come offesa personale il non seguire alla lettera i suoi
programmi, nonostante che i suoi prospetti di allenamento fossero a
pagamento. Isabella sapeva che più di una volta il personal trainer aveva
abbandonato altri atleti solo perché due/tre volte di seguito non lo avevano
ascoltato e questo lei non poteva permetterselo.
Il viaggio a N.Y. era già pagato da febbraio, come il pettorale, e non voleva
rinunciarvi per alcuna ragione; ma soprattutto il suo orgoglio di maratoneta
non le avrebbe certo permesso di rischiare seriamente di camminare per dei
pezzi durante la gara, o peggio, di ritirarsi: e senza di lui non poteva farcela.
Gli rispose subito con una mail promettendogli che avrebbe seguito alla
lettera il nuovo programma e giustificando il ritardo per cause di forza
maggiore: aveva avuto degli intoppi imprevisti, ma ora era tutto superato e
non avrebbe permesso a nulla e a nessuno di ritardarla ulteriormente. Quel
giorno stesso era programmato un lungo di diciotto chilometri, e giurò a se
stessa che l'avrebbe concluso a ogni costo.
Ma dove farli? Conosceva abbastanza bene l'isola, ma andare a correre
lungo la strada principale che univa il paesino di Veli con quello di Mali, era
un problema perché troppo polverosa e completamente esposta al sole
cocente di inizio estate; meglio un percorso su un leggero sali-scendi
distante dal paese di Lussin Piccolo, il quale era sempre molto frequentato e
pieno di traffico. Questo pensiero la distrasse dagli altri suoi proponimenti e
cominciò a studiare la mappa della zona insieme alla zia per scegliere il
percorso migliore e calcolarne le distanze.
«Buon giorno! Vi ho portato dei fichi del mio albero prima di andare a
lavorare.»
La voce di Goran le distolse dallo studio della cartina:
«Perfetto, lupus in fabula. Proprio te, Goran! Conosci un bel percorso da far
fare a Isabella, che deve allenarsi per la maratona e non può perdere ancora
tempo? Deve fare assolutamente una corsa di una ventina di chilometri ma
non riusciamo a trovare una strada adatta.»
L'esordio della zia fu immediato, dato che aveva visto nell'amico croato la
soluzione al problema della nipote.
«Maratona? Davvero? Anch'io correvo da giovane e ho fatto molte mezze
maratone, ma mai una intera. Mi sono allenato per anni e ho corso per tutte
le vie dell'isola. Conosco io la strada giusta. Sto andando a Nerezine per
prendere del materiale idraulico da portare a Sansego. Quanti chilometri
devi fare?»
L'imprevisto entusiasmo di Goran e la sua esperienza da maratoneta
sorprese Isabella, che si animò di nuova forza e volontà.
«Oggi diciotto chilometri a 5:40 min./km. Un medio-lungo a velocità
sostenuta.»
Isabella era entrata subito nel tecnico per capire fino a che punto quell'atleta
inaspettato fosse sincero e, soprattutto, quanto fosse preparato
sull'argomento. Come al solito, si concentrò sulla sua mimica facciale per
carpire quelle microespressioni che dicono molto di più delle parole a chi sa
interpretarle. Prossemica, cinesica e semiotica le aveva studiate
all'università e le aveva applicate spesso con successo, tanto che veniva
considerata nell'ambiente un'esperta: in quel modo riusciva sempre a fare un
lucido esame della persona che doveva analizzare. Per esempio, era in grado
di capire se aveva realmente a che fare con un malato patologico o solo con
un abile mistificatore che voleva ottenere l'incapacità di intendere e di
volere come scappatoia a pene ben più severe.
Gli angoli della bocca di Goran si alzarono subito e la pupilla si dilatò come
solo un vero appassionato poteva fare, provando quasi eccitazione al ricordo
dei suoi trascorsi podistici. Le braccia e le mani non si chiusero, anzi,
rimasero aperte e si muovevano seguendo il ritmo eccitato del racconto
dell'uomo.
Iniziarono entrambi a farsi una cascata di domande a vicenda e a raccontarsi
aneddoti e storie di corse passate e di prestazioni ottenute, condividendo
l'uno l'entusiasmo dell'altro e incalzandosi reciprocamente per sapere
sempre di più delle loro esperienze o per scoprire i piccoli trucchi e le
strategie che avevano usato per migliorarsi.
Alla fine, vedendo che si faceva tardi, Isabella corse di sopra a vestirsi,
eccitata all'idea di un nuovo percorso: Goran l'avrebbe portata a Nerezine, le
avrebbe indicato la strada e poi, più o meno un'ora e mezzo dopo, l'avrebbe
recuperata al suo ritorno, una volta finiti gli impegni di lavoro, giusto in
tempo per completare la distanza richiesta.
Se poi avesse ritardato, nessun problema, il maratoneta sa che, se deve
allungare, basta cambiare passo, tornare ai 6 min/km, e può proseguire in
questo modo per molto tempo all'andatura di quasi un defaticamento.
Pronta, con il suo inseparabile satellitare al polso e le cuffiette già nelle
orecchie, uscì dal bagno e trovò Sergio che l'aspettava seduto sul letto.
«Sei sicura di quello che fai? Tu non conosci Goran e in più non sei mai
partita così tardi con temperature proibitive come queste. Non credi di
essere un po' infantile nell'affrontare le situazioni più per entusiasmo che per
logica? Non sarebbe meglio andare stasera a fare il tuo benedetto
allenamento? Se vuoi ti accompagno io e ti aspetto mentre metto le
trappole…»
Solo a sentire la parola “trappole” a Isabella venne un brivido di rifiuto,
ricordando quanta fatica e quanto tedio aveva provato seguendo l'amico in
quel noiosissimo lavoro: per non parlare poi di quegli schifosissimi insetti!
L'espressione che le comparve sul viso questa volta non poteva lasciare
adito ad alcun dubbio sulla sua decisione ad andare via con Goran. Sergio le
parlò fissandola con uno sguardo di dissenso e, con una leggera sfumatura di
collera nella voce, aggiunse:
«Non puoi non prendere mai in considerazione quello che ti dico. Non
voglio aver ragione come sempre e poi, nonostante tutto, dover mettere a
posto le situazioni difficili dove ti sei andata a ficcare!»
«Se non ti conoscessi da una vita direi che sei geloso!» rispose Isabella dopo
essersi presa una piccola pausa per osservarlo con attenzione, e ridendo se
ne andò via canticchiando.
Isabella, uscendo dal cancello per raggiungere Goran, che la stava
aspettando sulla strada, passò davanti al suo portatile che aveva
distrattamente lasciato aperto: nell'atto di chiuderlo vide che era appena
arrivata una mail di Armando.
“Accidenti!” pensò, ma subito, fiduciosa come sempre sulle sue scelte, si
disse:
“Iacta alea est, e speriamo vada tutto bene!”.
E così uscì dal cancello con l'entusiasmo di una bambina che segue lo
sconosciuto che le ha dato le caramelle.
Capitolo 12
Il percorso
Il piccolo pick-up da lavoro si muoveva veloce nelle ampie curve della
strada che portava a Nerezine; Isabella si sentiva sicura, aveva una fiducia
istintiva per quell'uomo dall'aspetto sereno, ma pieno di sorprese e affinità,
nonostante in lei rimanesse sempre quella sensazione di prudenza che il suo
lavoro le aveva insegnato e, in fondo in fondo, non negava a se stessa
quanto fosse strana la coincidenza che anche Goran fosse un corridore.
I suoi racconti sulle varie gare a cui aveva partecipato da giovane erano però
credibili, ben costruiti e la affascinavano, perché nel periodo in cui Goran
aveva iniziato la sua attività agonistica, la moda del running era ancora
lontana e chi vi si avviava allora possedeva veramente doti e passione. E
così l'uomo le raccontò anche di quando aveva fatto le olimpiadi militari
sotto Tito, di quella volta che era arrivato secondo in tutta la ex Jugoslavia
sul mezzofondo con la mimetica addosso e il Kalashnikov sulle spalle e di
come poi aveva dovuto abbandonare quello sport a causa degli impegni
lavorativi e famigliari sempre più fitti.
Alla fine aveva comunque raggiunto lo scopo di dedicarsi a qualcosa che
per lui era veramente appagante, alla sua altra grande passione, anche se
attraverso qualche compromesso: lavorare come sub.
Fare il sommozzatore non era esattamente come andare a fare diving in
vacanza: bisognava immergersi per lunghi periodi indipendentemente dalla
stagione e dalle condizioni meteorologiche e senza il tempo per osservare il
meraviglioso mondo sommerso che lui sentiva come la sua vera dimensione.
Goran si trovava talmente a suo agio nelle profondità marine, da amare quel
lavoro al di là sia della fatica fisica che comportava sia dello stipendio
decisamente basso che gli corrispondevano: le raccontò con sincero
trasporto di come in questo caso era riuscito a far diventare quell'hobby la
sua occupazione per la vita. Tutto il resto, per lui, non era importante.
Isabella lo ascoltava rapita, pensando a quanto Goran fosse stato fortunato
ad aver avuto questa opportunità e soprattutto ad aver capito che a volte
un'esistenza più umile, ma che viene impostata sulle proprie passioni senza
compromessi, priva di infrastrutture, lontana dalla ricerca dell'utile e del
guadagno, è il vero sapore della vita.
Che poi lei, nonostante ne fosse affascinata, sarebbe mai stata in grado di
fare una scelta così coraggiosa, era tutto da dimostrare e di questo se ne
rendeva conto non senza rammarico.
Arrivarono all'imbocco di Sveti Jakov, prima frazione di Nerezine e da lì
entrarono in una strada parallela completamente vuota che si immergeva
dentro alle piccole frazioni che si susseguivano senza confini netti, passando
per vecchie case con ancora il leone di Venezia scolpito in pietra sopra al
portone principale, o usato come capitelli di vecchi gloriosi cancelli in ferro
battuto.
Le ombre fresche e scure dei bagolari facevano apparire a macchie di
leopardo la strada di asfalto, mentre gruppi di canne con lunghi fiori rossi
come creste di galli adornavano le piccole aiuole esterne lungo il ciglio
sassoso. Il profumo era intenso, acre e aromatico, tipico delle erbe bruciate
dal sole e non dolce di fiori, ma non per questo meno inebriante e piacevole.
Arrivati davanti a un ampio cortile antistante a un magazzino con infinite
scritte di tutte le marche immaginabili e possibili di elettrodomestici, Goran
la fece scendere dal pick-up e le disse di percorrere la strada che avevano
appena fatto al contrario, e le promise che l'avrebbe recuperata più o meno
all'altezza di Mali, prima quindi che si disidratasse per il caldo che
cominciava già a essere soffocante.
Isabella si sentì come un cavallo davanti a una prateria senza fine e, sciolte
le briglie, partì inalando l'aria arsa e odorosa e godendo del vento che lei
stessa si procurava, ubriaca di emozioni e sensazioni di libertà.
Una volta uscita dalla strada di Sveti Jakov, la ragazza iniziò a percorrere la
superstrada lungo mare e, nonostante l'aumento inesorabile della
temperatura dell'aria, la brezza frizzante, che saliva dalla riva scoscesa a
picco sulla macchia mediterranea, riusciva a donarle il fresco essenziale per
non accumulare troppo sudore e le permetteva di continuare a mantenere la
sostenuta andatura senza particolare fatica, in un saliscendi che nel
complesso scendeva più che salire.
Il respiro era regolare, i piedi poggiavano sicuri sull'asfalto reso chiaro dal
sole e dal sale, tutto procedeva bene e Isabella si sentiva rinata, lontani i
ricordi dolorosi e le paure continue.
I minuti passavano veloci come non mai, con lo stesso ritmo della musica
che scandiva in brevi e intensi intervalli i suoi stati di eccitazione diversi
dettati ora dall'apparire di un minuscolo uccello dalla lunga coda bifida, o
dal passare vicino a distese di euforbie gialle che con la loro chioma a
ombrello tentavano di nascondere i numerosi sassi che ricoprivano i terreni
incolti.
“Quanto avrò corso?” si chiese a un certo punto rendendosi conto che il
tempo necessario per coprire il percorso era trascorso di certo, talmente era
distratta dal panorama che, con la sua bellezza, non le aveva permesso di
controllare la distanza: 18,8 km. “Troppi! Ma dov'è finito Goran?”
Come le accadeva sempre, bastava un piccolo intoppo e subito tutto quello
di spiacevole che non provava prima, come la fatica, la sete, il caldo o il
freddo, le crollava addosso impietoso approfittando della perdita
momentanea di controllo. Infatti, si sentì improvvisamente debole e iniziò
ad avvertire la sgradevole sensazione di avere i piedi gonfi, i quali ora non
poggiavano più con sicurezza, ma con un leggero tremore al contatto con il
suolo.
Tutto questo le diventò d'un tratto insopportabile assieme all'afa, della quale
fino ad allora non si era curata, e alle gocce di sudore che le colavano dal
viso e dal collo.
«Com'è andata?»
La voce di Goran le arrivò alle spalle facendola sobbalzare e subito, come
per magia, ritrovò il buon umore; contenta salì dietro al piccolo rimorchio
per far passare velocemente la sensazione di calore e diminuire la
trasudazione che era diventata copiosa. Dopo qualche chilometro Isabella
bussò sul vetro del camioncino e lo fece arrestare per entrare dentro alla
cabina e lì, lei e Goran, ricominciarono a parlare e a raccontarsi delle loro
esperienze agonistiche.
Una volta arrivati a casa della zia, si diedero appuntamento per il giorno
dopo per fare una immersione in una grotta sotterranea che, spiegò Goran,
solo in pochi conoscevano. Isabella, canticchiando a bassa voce e
muovendosi quasi ballando, andò in camera a farsi una doccia fredda.
Quando uscì si trovò lì Sergio, che sembrava non aver perso l'espressione di
disapprovazione della mattina; Isabella, guardandolo con una smorfia faceta,
tutta avvolta da asciugamani che le cingevano il corpo e i capelli come le
bende attorno a una mummia egizia, gli regalò un buffetto sulla guancia:
«Ancora imbronciato? E le tue trappole? Hai già finito o sei tornato a vedere
se ero ancora intera?» gli disse mentre si girava a cercare i vestiti
nell'armadio, per dargli le spalle al fine di non guardarlo negli occhi.
Isabella sapeva bene che questa sequenza di gesti servivano inconsciamente
a trasmettere un messaggio di tranquillità che doveva smorzare il
nervosismo dell'amico e sdrammatizzare la situazione. Sergio non aveva
molta voglia di ridere, né di farsi confondere dai trucchetti dell'amica
psichiatra ed entrò senza preamboli a sciorinare i problemi che riteneva ci
fossero nel suo comportamento:
«Non ce la faccio più, un altro rapporto pericoloso col pazzo di turno e io
schiatto, sempre che prima quel Goran non mi faccia fuori!»
Isabella si rigirò verso di lui e, fissandolo un po' offesa, lo attaccò a sua
volta:
«Primo, non ho nessun interesse sentimentale per quel croato, è solo un
uomo intelligente e condividiamo passioni sportive, cosa che con te è
impossibile; secondo, so benissimo badare a me stessa; terzo, e non meno
importante, da quando devo giustificarmi con te? Pensi forse di essere mia
madre? Il sole ti dà alla testa?»
La ragazza aveva cambiato atteggiamento e ora non aveva più alcuna
intenzione di essere diplomatica o di usare strategie per calmare l'amico:
anche lei ogni tanto aveva bisogno di raffrontarsi con qualcun altro e di dare
sfogo alle sue emozioni più spontanee e anche legittime.
«A me dà alla testa? Ti ricordo che ti ho parato il culo un'infinità di volte, a
causa della tua fottutissima sindrome dell'infermiera perché tu, invece di
curare i pazzi maniaci, ti ci metti insieme!»
Sergio si accorse che stava alzando la voce in modo quasi rabbioso e capì
che stava proprio esagerando vedendo Isabella ferma con il vestito in mano
che lo osservava perplessa con espressione dubbiosa e, cercando un
atteggiamento più calmo e civile, aggiunse:
«Scusa, ho perso il controllo, ma è da un po' di tempo che ti vedo strana, di
notte continui a fare incubi, ansimi come se un mostro ti stesse inseguendo e
spesso finisci per urlare; di giorno a volte sei pallida e agitata, altre volte
euforica e anche impudente, non ti riconosco più, non so cosa ti stia
succedendo...»
Il ragazzo era riuscito a contenere la collera, ma i pugni serrati al punto da
sbiancare le nocche per la mancanza di sangue tradivano un pathos ben
diverso.
Sergio la guardava con sincera preoccupazione e Isabella si rese conto che
in effetti aveva avuto dei comportamenti quasi schizofrenici, ma non poteva
e non voleva spiegargliene il motivo per non coinvolgerlo, soprattutto
adesso che con Goran aveva la possibilità di scoprire qualcosa di più sul
delitto di Ilovik.
Sergio era troppo ligio al dovere, credeva ciecamente nella giustizia e lei
sapeva che sarebbe stato impossibile impedirgli di andare alla polizia: mai
avrebbe preso in considerazione che potesse essere corrotta. No, sarebbero
finiti entrambi nelle mani della guardia costiera, ne era certa.
Allora gli si avvicinò, lo abbracciò, gli diede un bacio sulla guancia e sentì
che lui, a sua volta, la stringeva forte a sé:
«Non ti preoccupare, so che mi vuoi proteggere, anche da me stessa, ma non
mi sta succedendo nulla, sono solo contenta perché ho ripreso a correre e
perché domani ricomincerò anche a fare un po' di immersioni: sai quanto mi
sono piaciute! Se vedo che c'è qualsiasi pericolo anche minimo, ti prometto
che smetto subito, contento?»
Sergio scrollò la testa sentendo che stava come al solito sbattendo contro a
un muro di gomma.
«Sarà, ma tu i guai li riconosci solo quando ci sei dentro fino al collo, sei
lucida solo nel tuo lavoro, lì sì che sai distinguere la persona pericolosa o il
bugiardo, l'assassino o il mistificatore: nel privato sei peggio del calzolaio
che gira con le scarpe sempre rotte!»
Isabella si fermò un attimo a pensare che in fondo Sergio aveva ragione, ma
ormai non poteva tornare indietro nel tempo e sentì dentro di sé crescere un
sentimento di cupa rassegnazione. «Questa volta è diverso, non ho nessuna
storia né la cerco. Voglio solo fare la maratona di New York, il sogno di
tutti i maratoneti. Promesso!»
E con quelle parole Isabella si girò e finì di prendere i vestiti da indossare e
Sergio capì, conoscendola, che l'argomento era chiuso e si sedette sul letto
quasi sconsolato: il giorno dopo se ne sarebbe andata con uno sconosciuto in
immersione e nessuno poteva fermarla.
Appena sola in camera, Isabella prese il portatile per leggere la mail di
Armando; aprendola ebbe un tuffo al cuore, come se stesse per entrare
dentro a una realtà parallela che tentava di nascondere e negare a sé stessa,
ma che alla fine doveva affrontare, ritornando così coi piedi per terra.
Carissima stellina,
ho le informazioni che mi hai chiesto sull'incidente: le vittime sono marito e
moglie di nazionalità austriaca. Sono, o meglio, erano due medici in
vacanza e sono stati uccisi da un pirata del mare al quale sembra stiano
dando la caccia le guardie costiere, perché hanno una pista da seguire.
Non so ancora di cosa si tratti, però credo di poterci arrivare attraverso la
banca dati della polizia croata, ma devo trovare una scusa credibile per
accedervi. Il capitano della guardia costiera si chiama Andrej Horvat, ma
non so altro. Appena riesco a mettere le mani sul loro archivio, sarò in
grado di sapere anche cosa mangia la mattina per colazione. Non sarà un
lavoro veloce, anche perché devo farmi tradurre da Gabrijel quella
maledetta lingua incomprensibile, che però è molto impegnato con
l'antidroga.
Ti scrivo appena so qualcosa.
Ti mando un bacio
Tuo Armando
“Tuo Armando? Ma quello è pazzo!” pensò ridendo Isabella. Perse però in
un attimo tutta la sua allegria: valutò che non aveva avuto alcuna
informazione utile a capire il perché degli omicidi.
“Devo avere pazienza!” e così scrisse una mail di risposta ringraziando
l'amico, ma firmandosi semplicemente Isabella.
Capitolo 13
Meraviglioso mondo sommerso
L'appuntamento quella mattina era alle 9:30 e così Isabella decise di non
mangiare dolci a colazione, ma solo frutta per non aver problemi durante il
bagno con la famosa acqua gelida di Lussino. Era eccitatissima per l'uscita,
anche se in cuor suo non era mai stata particolarmente coraggiosa in mare,
ma Goran le aveva assicurato un'immersione in acque poco profonde per
visitare una grotta che solo lui conosceva, o almeno così credeva.
Isabella non aveva mai fatto esplorazioni di cavità sommerse e l'idea la
incuriosiva tantissimo. Il sub arrivò in perfetto orario e se la portò via sotto
gli occhi scrutatori di Sergio, il quale lo fissò così intensamente, da far
distogliere lo sguardo al povero uomo che si sentì colpevole di un qualcosa
che non capiva.
«È un tipo strano il tuo fidanzato...»
Le disse appena fuori portata d'ascolto di Sergio.
«Non è il mio fidanzato, è il mio più caro amico, niente di più. Ma perché
dici questo?»
Isabella conosceva benissimo il motivo, ma era curiosa di intavolare quella
discussione con Goran per conoscerlo meglio.
«Non so, mi sembrava non approvasse che tu uscissi con me ora.»
«Può darsi, ha paura che io mi faccia male, ma è solo molto protettivo,
null'altro.»
E intanto erano arrivati dall'altra parte della collina che separava la casa di
zia Romina dalla costa dal lato nord ed erano scesi fino al mare.
Sulla passeggiata in cemento Goran aveva lasciato tutta l'attrezzatura,
evidentemente molto fiducioso della serietà delle persone che vi passavano.
La giornata era splendida: l'atmosfera limpida e cristallina, spazzata da una
leggera e fresca brezza che proveniva da nord, ampliava la prospettiva verso
le montagne del continente che apparivano grigie e rocciose nei versanti
dove imperversava con regolarità la bora; il mare rifletteva la luce dorata del
sole in mille piccoli specchi creati dalle infinite increspature dell'acqua e
l'aria sapeva di liquirizia e menta. Isabella sentiva tutti i sensi dilatati nel
tentativo di godere appieno di quella serenità che le infondevano, stimolati
dalle continue piccole scariche elettriche che si liberavano a ogni nuova
percezione e che le donavano piacere sprigionando endorfine.
Goran la fece scendere per i gradoni di cemento che creavano uno spazio
relativamente comodo per i turisti in cerca di bagni e abbronzatura. Insieme,
in un fragile equilibrio, si fermarono con l'attrezzatura sugli scogli merlettati
di riccioli di roccia resi taglienti dalla risacca, ultime avanguardie prima
delle volubili onde del mare. Isabella aveva notato che c'era una sola
bombola e si chiedeva il perché, ma non fece domande, avendo poca fiducia
nella sua preparazione da sub e per la paura che un banale quesito potesse
farla apparire come un'inesperta, come in effetti si sentiva.
Indossò quindi le pinne sfoggiando grande sicurezza e disinvoltura,
mantenendosi miracolosamente in piedi sugli scogli, mentre Goran si
infilava una tuta a maniche e gambe tagliate; poi entrambi presero la
maschera e contemporaneamente vi sputarono dentro.
«Allora sei un sub sul serio, Isy» le disse Goran che la stava osservando di
sottecchi forse per metterla un po' alla prova e, guardandola ora direttamente
negli occhi e sorridendo in modo sornione, aggiunse:
«Quando facevo l'istruttore, non sopportavo le donne che si rifiutavano di
sputare dentro alla maschera, come se fosse volgare. Poi, in immersione,
appena queste ovviamente si appannavano, ci provavo gusto a fargliele
togliere e svuotare sott'acqua, così imparavano ad atteggiarsi meno da gran
dame. O sei sportiva, o fai la schifiltosa, le due cose non possono stare
assieme! Tu sei un vero sub, si capisce.»
Isabella si sentì molto lusingata a quelle parole, anche se sapeva di essere
assolutamente mediocre in acqua, ma per lei i complimenti più graditi non
erano le espressioni di ammirazione per la sua bellezza o intelligenza o
chissà che altro, ma i riconoscimenti sulle sue doti sportive, sia che fossero
reali o presunte; e si sentì animata da una gran voglia di dimostrare che era
capace sul serio.
«Ho preso una bombola sola per non farti mettere la muta, così ti senti
anche più libera nei movimenti. Stammi vicino ché ho due erogatori, tanto
non dobbiamo fare un’immersione molto lunga; all'interno della grotta c'è
una grande stanza con un'apertura su un camino naturale che fa entrare un
po' di aria e di luce e lì dentro si respira senza problemi.»
Isabella, che era stata appena battezzata da Goran come Isy, e anche questo
le piaceva molto, immerse prima i piedi, sentì i brividi al contatto con quel
ghiaccio fondente e allora si gettò subito in mare per mantenere la sua
immagine di vero sub e non di “donnetta”.
La temperatura subito divenne piacevolmente fresca e tonificante e senza
perdere tempo la ragazza si mise a nuotare con la testa sotto al pelo
dell'acqua per vedere il meraviglioso mondo sommerso di Lussino. Goran la
richiamò indietro facendole segno con le mani di avere un po' di pazienza e
le diede l'erogatore:
«Adesso dobbiamo dirigerci verso Rovenska; appena prima delle scalette,
dove c'è un muro alto che si getta in acqua, si trova una piccola insenatura.
Lì ci immergeremo giusto al di sotto degli scogli che disegnano quella
piccola conca; ti indicherò tutto senza emergere, ti ricordi i segni
convenzionali, vero?» le chiese senza guardarla, mentre si aggiustava gli
spallacci della bombola.
«Ovviamente» rispose d'istinto la ragazza e pensò tra sé: “Ovviamente no!
Improvviserò” e si sorprese a ridere da sola.
Goran rise con lei senza capirne il perché e si immersero in sincronia.
Attraverso il vetro della maschera la sensazione era quella di essere dentro a
un acquario, dove pesci di ogni sorta e colore si scostavano quasi a fatica al
loro passaggio; Goran le aveva messo una cintura con due chili di zavorra,
visto il suo peso piuma reso ancora più esiguo dai duri allenamenti in
preparazione per la maratona.
In questo modo Isabella riusciva a rimanere perfettamente neutra in mare e
nuotava stando a più di un metro dal pelo dell'acqua, provando la strana
sensazione di essere una manta che scivola lieve nel suo elemento con
grande naturalezza. Il mare, la sua acqua, i suoi abitanti visibili, grandi e
affascinanti; o piccoli, quasi microscopici e incolori, silenziosi nel suono,
ma assordanti nella loro pulsione vitale.
Tutti insieme le erano intorno come se Isabella fosse penetrata nelle arterie
di un gigantesco organismo vivo e pulsante, e lei quasi quasi aveva paura di
fare rumore per non svegliarlo e farsi scoprire.
Il sub le indicava ora un pesce, ora una conchiglia o quant'altro di vivo che
gli apparisse davanti o sotto di loro e la sincronia nei loro movimenti era
tenuta anche dalla necessità di rimanere vicini per il doppio erogatore
collegato all'unica bombola d'aria in spalla a Goran. Quella sì che era
un'immersione facile e tranquilla, non come durante il corso che aveva fatto
anni prima, dove l'istruttore continuamente la obbligava a fare qualcosa di
fastidioso: svuotare la maschera sott'acqua oppure nuotare senza, ma
respirando con l'erogatore, immergersi velocemente e compensare la
pressione nelle orecchie durante la discesa rapida e senza pause, seguire la
bussola per orientarsi e calcolare la profondità e così via, senza un attimo di
tempo per godere della nuova dimensione che l’accoglieva in quel
momento.
L'acqua che si opponeva al suo peso e lo scivolare con Goran sopra alle loro
ombre tremule diedero a Isabella la percezione che gli uccelli dovessero
rimanere in equilibrio immersi nel loro cielo in quello stesso modo, e così
chiuse per pochi istanti gli occhi abbandonandosi alle dita fredde e turchine
del mare che in numero infinito la spingevano sempre più avanti verso
ignoti percorsi.
Isy osservava il fondale irregolare, che a ogni minimo anfratto nascondeva
un riccio, un crostaceo a righe grigie e rosse simile a un gamberetto che
timidamente usciva da una piccola fessura della roccia o dei minuscoli
anonimi pescetti argentini che si confondevano tra i poligoni irregolari di
luce che le arricciature della superficie del mare dipingevano fino al fondale,
e che ondeggiavano senza mai aprirsi: tutto gridava vita, in un silenzio
interrotto solo da qualche raro rumore indistinto e ovattato.
A un tratto Goran si fermò e la guardò facendo con la mano il segno di ok;
poi, alla risposta di ok di Isy, le indicò il preannunciato piccolo anfiteatro di
scogli e proprio sotto a quello centrale, Isabella vide una grande stella
marina color verde muschio la quale, sporgendo solo con tre tentacoli da
sotto la roccia bruna, tradiva l'entrata alla grotta altrimenti quasi del tutto
invisibile.
Goran la prese per mano in modo da evitare che potessero allontanarsi
troppo per l'ulteriore immersione e, facendole fare una rotazione di novanta
gradi, la obbligò a portare le gambe in posizione verticale in modo che il
loro stesso peso la facesse scendere facilmente fino all'entrata dell'anfratto e
soprattutto con una certa velocità; sgusciarono quindi sotto alle rocce
frastagliate e aguzze e dopo un tratto breve di un metro e mezzo, riemersero
all'interno dell'antro bramato.
La luce fioca circondò Isabella mentre usciva dall'acqua, svelando un
piccolo ambiente freddo e affascinante dove si intravedevano gli strani
colori delle pareti spigolose, dovuti forse a delle minuscole alghe
abbarbicate che riuscivano a vivere nella fascia bagnata dalla marea, le quali
sembravano delle pennellate di tempera nelle tonalità del rosa e del viola.
Isabella si tolse la maschera e lasciò l'erogatore per cominciare a respirare
l'aria fresca e salmastra che proveniva da una piccola apertura in alto.
«Ma dove porta quel buco?» fu la prima cosa che le venne da chiedere,
incantata dall'atmosfera quasi fiabesca che l'accerchiava.
«Esce proprio sugli scogli che vedi dalla strada, ma l'apertura non si nota
perché le rocce hanno un andamento molto accidentato. Pensa che se vuoi
puoi arrampicarti e uscire senza quasi farti vedere. Io l'ho fatto tante volte in
stagione con turisti dappertutto e nessuno mi ha mai notato, basta non fare
rumore e, una volta uscita, sederti in mezzo a loro senza muoverti troppo.
Non si accorge nessuno fino a che non cominci a camminare, e allora
sembri un fantasma comparso dal nulla!»
Ritornarono passando ancora vicino alla stella marina che non si era
minimamente spostata e Isy, divertita, la prese per un tentacolo e la lasciò
cadere capovolta sul fondale per vedere come faceva a girarsi su se stessa.
La stella rimase immobile per qualche secondo; poi, facendo perno su se
stessa, si girò in un attimo, riposizionandosi esattamente con la stessa
angolatura di prima, per metà sotto alle rocce.
Finalmente Isabella fece cenno a Goran che potevano andare e ripartirono
ripercorrendo la stessa strada dell'andata.
Tornati fuori dall'acqua, si tolsero l'attrezzatura e, ripensando alla recente
esperienza, si persero in chiacchiere senza guardare l'orologio. Il sole era già
alto e il caldo sempre più prepotente era riuscito ad asciugare malamente i
capelli di Isabella, che decise a quel punto di tornare a casa.
Con il peso dell'armamentario diviso tra loro, si avviarono verso la casa di
Goran per riporre la bombola nella rimessa, ma appena furono sulla
passeggiata si trovarono inaspettatamente davanti il capitano della guardia
costiera con i soliti tre scagnozzi dall'espressione molto poco rassicurante.
«Andrej!» esordì tranquillamente Goran e così i due amici si diedero la
mano destra in un saluto particolare che prevedeva di stringersi solo con il
pollice.
«Goran!» rispose il capitano e subito dopo si abbracciarono mentre il sub
lasciava delicatamente gli attrezzi per terra.
Isy aveva praticamente smesso di respirare e, nonostante il primo momento
di totale smarrimento, ebbe il tempo di riprendere il controllo di se stessa e
di concentrarsi, con uno sforzo indicibile, per sfoderare l'espressione più
tranquilla e distante che riuscisse a sostenere, approfittando dei saluti quasi
di rito tra i due vecchi amici. Sentiva su di sé, e soprattutto sul suo corpo
praticamente seminudo, gli occhi viscidi e senza pudore dei soldati, i quali
non erano per nulla interessati al loro capo e al suo amico. A Isabella
davano l'idea di uomini difficilissimi da controllare, completamente privi di
un'espressione, per così dire, normale, semmai sembravano animati da istinti
primordiali.
L'idea che le trasmettevano era quella che fossero uniti tra loro da un'indole
comune, come se avessero intorno un alone di mutuo compiacimento nel
condividere chissà quali ricordi aberranti e speranzosi di qualcosa di peggio
da spartire per il futuro: insomma, una sorta di piccolo branco di belve senza
alcun sentimento umano.
Isabella conosceva bene tutti i trucchi che usavano i suoi vari pazienti coatti
per mentire e nascondere i propri pensieri che invece a lei erano
assolutamente necessari per poter costruire le meticolose perizie
psichiatriche, e adottò la tecnica, che trovava nauseante, di sostenere gli
sguardi con espressione civettuola.
Il suo intento era di trasmettere l'idea di esserne quasi lusingata, sia per
ostentare tranquillità, ma anche perché in questo modo riusciva a
confondere la paura e lo schifo che le prendevano lo stomaco e il respiro.
Intanto Goran e Andrej avevano intavolato un lungo discorso in croato che
le risultava totalmente incomprensibile, fino a che Isabella non distinse la
parola Ilovik in mezzo alle altre e questo le fece di nuovo perdere per un
momento la fittizia tranquillità che tentava di manifestare.
Distolse lo sguardo e con un gran respiro fece finta di aggiustarsi le scarpine
di gomma da spiaggia per non incrociare i loro occhi fin troppo scrutatori.
Le bastarono solo pochi attimi di concentrazione e recuperò la calma e poté
continuare a fare la distaccata amica di Goran e allo stesso tempo la
compiacente ragazza maliziosa.
«Isy, Andrej vuole sapere se conosco donne che corrono qui a Veli. Io gli ho
detto che tu stai preparando la maratona di New York e che ti alleni spesso.
Sei appena tornata da Ilovik, vero?»
Senza preavviso tutti si erano concentrati su di lei e la guardavano con
interesse e, a quella domanda, Isabella si trovava a dover dominare la
situazione più pericolosa della sua vita e anche a controllare il rossore che
sentì divampare sulle guance.
Con grande serenità guardò Goran negli occhi, si tirò su i capelli con
entrambe le mani tenendo in alto i gomiti divaricati sapendo che quel gesto
di apertura avrebbe dato l'idea istintiva a chi osservava di avere di fronte una
persona calma, serena e sincera e quasi senza pensare rispose:
«Ti stai sbagliando, la settimana prossima andiamo a Ilovik, io e Sergio; non
la conosco e spero sia bella come dice Romina. Ma perché me lo chiedi?»
Intanto, orgogliosa della sua inaspettata capacità di padroneggiare la
situazione, si girò verso il capitano e lo fissò negli occhi sfoderando un
sorriso innocente e un'espressione curiosa. Nel frattempo Goran si era messo
a tradurre la risposta ad Andrej che fece una smorfia di moderata
convinzione, poi salutò entrambi con un breve cenno della testa, toccandosi
il frontino del cappello con due dita e finalmente la compagnia girò i tacchi
e se ne andò. Isabella ebbe paura che, nonostante la sua sicurezza e lo
sguardo calmo, il capitano avesse notato il cuore che quasi usciva dal petto
giusto sotto al reggiseno del bichini.
«Perché hai detto che non eri stata a Ilovik?» le chiese Goran quasi
distrattamente mentre riprendeva l'attrezzatura da terra «Eri tu la ragazza
che correva sulla spiaggia, vero?» e intanto si era girato a guardarla dritta
negli occhi, mentre Isabella era rimasta impietrita e non riusciva ad aprire
bocca.
Una cosa era mentire a degli sconosciuti, l'aveva visto fare tante volte da
confondersi lei stessa con i suoi pazienti, ma il sub era ormai un amico e
cominciava a conoscerla, lei sentiva di potersi fidare di quell'uomo, non era
così facile improvvisare e inventare una storia credibile, soprattutto perché
Goran era un affezionato conoscente della zia Romina e presto o tardi
avrebbe scoperto la verità, anche se ormai era evidente che aveva capito
molto di più di quanto Isabella avesse voluto.
Capitolo 14
Rivelazioni
La risposta di Isabella non arrivava e Goran non insistette molto:
«Vieni a casa mia che beviamo una birra, cosa ne dici?»
Isabella lo guardò negli occhi e ne lesse un reale interessamento nei suoi
riguardi e così annuì, grata anche perché in quel momento non aveva preteso
che dicesse qualcosa vedendola in evidente difficoltà.
La casa era piccola e ben tenuta nella sua architettura modesta e soprattutto
si affacciava sul mare in un delizioso connubio con la vegetazione
rigogliosa del giardino, la quale scemava verso ovest con vecchi e bassi
cespugli di pittosporo, diradandosi man mano che aumentavano gli scogli
bruni di calcare bucato dalla risacca.
Goran non la fece entrare perché in casa c'era la moglie Suzana indaffarata
nelle pulizie. Preferiva stare quindi, con un po' più di privacy, sul tavolino in
giardino sotto l'ombra di un vecchio ombrellone scolorito, residuato degli
anni settanta con la marca stampata del gelato Algida ormai quasi illeggibile
sul tessuto liso; si trovava vicino al capanno dove teneva l'attrezzatura da
sub. Arrivò con due bottiglie ghiacciate di Ozujsko pivo3 e senza bicchieri,
per bere direttamente dalla bottiglia come solitamente fanno gli slavi
quando si trovano tra amici.
Isabella aveva riordinato i suoi pensieri e represso la paura per poter
finalmente affrontare l'argomento che ancora la tratteneva in Croazia,
nonostante il grande pericolo che correva, e cioè avere qualche elemento in
più per capire il motivo che aveva spinto la guardia costiera a macchiarsi di
quel terribile duplice omicidio.
Adesso doveva cercare il modo per entrare in confidenza con Goran e
riuscire contemporaneamente a evitare le domande da parte del sub alle
quali per prudenza non voleva dare risposta.
Ma Goran sapeva poi qualcosa? In realtà lo aveva visto arrivare a cose già
accadute ed era stato chiamato proprio dalla guardia costiera, forse per
crearsi un alibi: trovava così improbabile una possibile complicità da parte
di quell'uomo che l'aveva difesa senza una ragione poco prima perfino dal
3 Tipica birra croata.
suo amico Andrej, e Isabella si fidava del proprio istinto e della sua capacità
di capire le persone: Goran era limpido come l'acqua vitrea e cristallina del
suo mare.
«Mi spieghi di cosa hai paura, Isy?» esordì senza mezzi termini.
Lei ci pensò sopra un attimo prima di parlare, sapeva che la miglior difesa è
l'attacco e che quindi le conveniva iniziare con delle domande per sfuggire a
delle spiegazioni difficili; poi, in base a come si sarebbe svolto il dialogo,
avrebbe deciso la strategia più adatta.
«Perché la guardia costiera cerca una runner? Ti sembra una cosa
normale?»
Chiese usando un tono accusatore senza nascondere il senso di diffidenza
verso i suoi amici militari, e attese la risposta con grande tensione.
«Cercano solo un testimone a un duplice omicidio colposo che è accaduto
qualche giorno fa a Ilovik, lo sapevi?»
«Sì, certo ne ho sentito parlare, ma non ne so molto…» rispose cercando di
essere convincente.
«Ti ricordo, visto che sai di cosa parlo, che un pirata del mare ha ucciso due
persone ed è scappato senza neanche fermarsi. Cosa c'è di strano nel voler
trovare l'unica testimone?»
Goran non era sorpreso delle perplessità di Isabella e questo lei non se lo
aspettava: forse l'amico voleva già da tempo iniziare con lei quel dialogo
delicato. Isabella allora incalzò:
«Ma se non c'erano, come fanno a sapere che esiste un testimone?
Dovevano esserci anche loro al momento del cosiddetto incidente, o no? E
se erano presenti non hanno bisogno di altre persone, possono raccontare
loro stessi esattamente quello che è successo…»
Isabella stava progressivamente cambiando l'inflessione della voce,
aumentandone il tono al solo pensiero di come Andrej aveva cambiato i
fatti, e sentiva crescere la rabbia dentro di sé vedendo Goran che sembrava
convinto della loro veridicità. Il sub si accorse della reazione dell'amica e la
interruppe subito.
«No, le cose non sono andate così. Io c'ero quando hanno visto una donna
che correva ed è scappata via quando hanno cercato di fermarla; era
chiaramente impaurita. Probabilmente aveva assistito a qualcosa, ma non
aveva il coraggio di raccontare quello che aveva visto. È una reazione
normale, ma adesso bisogna pensare a chi ha perso la vita a causa della
superficialità di qualcuno che è pure fuggito. Se sai qualcosa devi dirlo, è
importante.»
Goran sembrava così sincero che per un attimo Isabella pensò di rivelargli
tutto, ma poi decise che non era il momento, c'erano tante cose che non
capiva e poteva scoprire di più se rimaneva nell'ombra.
«Ma chi erano poi quelle povere persone? Tu sai qualcosa su di loro?»
«Non le conoscevo personalmente, ma so che erano una coppia affiatata e
che qui avevano molti amici. Erano due medici austriaci, marito e moglie:
lei esercitava come pneumologa e lui come pediatra, ma non avevano avuto
figli. Venivano da anni a Lussino in vacanza, erano innamorati di
quest'isola. Sapevano che era stata famosa per la cura delle allergie, delle
malattie della pelle, dei bronchi e dei polmoni e si erano interessati per
capire come mai adesso non lo fosse più.»
«Per caso sono venuti a conoscenza di qualcosa che non si aspettavano?»
Isabella cominciava a pensare che nel racconto di Goran potesse esserci
qualche indizio per capire il perché degli omicidi, era forse un inizio per
direzionare una eventuale indagine.
«Non credo. Quando il golfo del Quarnaro era sotto la dominazione
austriaca, l'arciduca Carlo Stefano veniva ogni estate sull'isola in vacanza
per qualche mese: poi la moglie nel 1856 si ammalò di tubercolosi e, non
riuscendo a farla guarire in patria, l'arciduca decise di trasferire a Veli i
propri medici e di farla curare anche grazie all'ausilio del clima di Lussino,
che aveva già da allora la fama di essere miracoloso per questo tipo di
patologie.
La moglie Elisabetta alla fine guarì in meno di un anno e allora l'arciduca
decise di fondare un ospedale per le malattie dell'apparato respiratorio
proprio all'entrata di Veli, che in pochi anni divenne famoso in tutta Europa
per le sue cure quasi miracolose. La struttura continuò a funzionare anche
sotto il presidente Tito, solo che fu in parte modificato diventando un
ospedale vero e proprio e divenne presto il principale dell'isola, ma non
possedeva più la connotazione particolare di clinica specializzata che aveva
voluto l'arciduca.»
«Io però non ho mai visto un ospedale qui a Veli» disse Isabella.
«Infatti ora non c’è: un po' alla volta perse d'importanza e non venne
nemmeno più ristrutturato, nonostante fosse un bell'edificio in stile
vittoriano. Oggi è diventato un ospizio e Veli non usufruisce più di tutto
quel turismo che veniva qui per questo tipo di problemi e che soprattutto
non aveva stagioni: una vera perdita.
Adesso, con l'entrata in Europa della Croazia, si sapeva che l'edificio poteva
usufruire di una sovvenzione dell'EU per farlo ritornare un ospedale di punta
per tutte le malattie polmonari e soprattutto per curare l'asma nei bambini. I
coniugi Mayer, così si chiamavano le vittime dell’incidente, avevano già
preso accordi con questo Stato e con il loro per presentare il progetto di
ristrutturazione e ricostituzione giusto ad agosto del 2013, prima data utile
dopo l'entrata ufficiale del nostro paese in Europa.»
«Allora i due medici non erano qui in vacanza, ma per affari ben più
importanti.»
«Sì, ma ormai è tutto perso, erano loro i depositari dell'accordo e l'Austria
ha già detto che non si assume quest'impegno, visto soprattutto che non è
stato nemmeno preso il pirata del mare. Una figura terribile a livello
internazionale e una grande sconfitta per Lussino, purtroppo!»
Isabella rimase colpita dalla storia che cominciava a delinearsi più
complessa e misteriosa a ogni particolare che Goran aggiungeva, in più era
contenta perché le informazioni che aveva avuto da Armando, anche se
superficiali, potevano permetterle di comprendere quanto quell'uomo fosse
sincero.
«Non capisco, che cosa mai ci guadagnerà chi ha voluto far eliminare i
coniugi Mayer? Non ha senso» disse tra sé e sé la psichiatra, trasportata dai
suoi pensieri senza rendersi conto che Goran la stava ascoltando.
«Eliminarli? Ma che assurdità vai dicendo? Nessuno li avrebbe mai uccisi
volutamente, non ci sono motivi, sempre che tu non sappia qualcosa e non ti
decida a parlare. Ti rendi conto del danno che abbiamo avuto per queste
morti e che ingiustizia sarebbe verso quelle due brave persone se non
venissero arrestati gli assassini?»
Goran provava veramente dolore per quei fatti incresciosi e voleva fare
qualcosa, ma ancora Isabella preferiva la prudenza.
A quel punto però non capiva più nulla: ma allora perché Goran non l'aveva
denunciata ad Andrej?
Se voleva aiutare la giustizia, non aveva senso che avesse fatto finta di
credere che lei fosse estranea alla storia: forte della logica del suo
ragionamento che le stava aprendo degli spiragli di luce, incalzò:
«Io non ho visto nulla a Ilovik, non sono io la donna che cercano, ma se tu
veramente credevi che potessi essere io, perché non lo hai detto al tuo amico
capitano?»
L'espressione di Goran divenne cupa, prima la scrutò, poi distolse lo
sguardo verso orizzonti lontani nel tempo, rimase in silenzio come se fosse
indeciso se raccontarle qualcosa; alla fine fece spallucce e alzando un
sopracciglio, aggiunse:
«Non so…» ma non ci credette né lui né Isabella.
«Io non ti conosco ancora bene, ma di te mi fido e vedo davanti a me una
persona che non fa le cose a caso. Ti sono grata se non hai detto niente
pensando di proteggermi, anche se alla fine io non c'entro nulla. Andrej,
invece, a pelle non mi piace e ancora meno quei tre scagnozzi che, per dirla
tutta, a differenza del capitano, mi sembrano pure dei deficienti. C'è
qualcosa in loro che mi mette paura, mi sembrano persone prive di
sentimenti ed emozioni, e te lo dico anche come neuropsichiatra. Nel mio
lavoro ho a che fare con casi clinici particolari, collaboro anche per il
tribunale e ho fatto perizie psichiatriche su assassini che si erano macchiati
di delitti particolarmente crudeli, serial killer e altri delinquenti che si
fingevano malati per poter subire condanne minori o addirittura per farsi
curare invece che passare il resto della loro vita in galera.
Quell'uomo mi mette i brividi, secondo me potrebbe assistere a un omicidio
o commetterlo e avere il battito cardiaco a sessanta pulsazioni al minuto, te
lo dico io.»
Isy si accorse che forse stava esagerando, si era fatta prendere la mano e
adesso stava per accusare Andrej, e questo poteva tradirla anche perché, se
non era lei la testimone, come poteva giustificare tanto astio verso il
militare? Inaspettatamente Goran, invece, la guardò quasi con ammirazione
e partì come un fiume in piena:
«La guerra qui in Croazia iniziò nel 1991 e io fui scelto per entrare già da
subito nell'unità speciale subacquei e incursori che aveva la propria base
logistica giusto qui a Lussino. Dovevo cominciare il servizio il 23 settembre
1993, ma a febbraio di quell'anno a Novigrad ci fu un vero e proprio
massacro. Morirono tutti i soldati in trincea, come quelli prima e quelli
prima ancora. L'esercito croato era formato da poche persone rispetto a
quello Popolare Jugoslavo, nel quale erano impiegati soldati di tutti gli stati
confederati, compresa la stessa Croazia con moltissimi dei suoi uomini che
combattevano contro i loro stessi connazionali e che purtroppo non avevano
altra scelta: o così o altrimenti erano disertori.
La polizia speciale croata venne qui a Lussino a rastrellare tutti gli uomini
dai venti anni in su per portarli in quella che tutti noi chiamavamo la trincea
maledetta, ma la cartolina per il reclutamento non fu mandata a nessuno: chi
trovavano prendevano e chi non trovavano, pazienza. Si nascosero in molti,
ma io no, volevo andare in guerra, avevo paura per la mia famiglia e mi
sembrava giusto combattere.»
«Il tuo è un sentimento molto nobile, sono poche le persone che non
penserebbero semplicemente a salvarsi la vita!»
«Infatti! La polizia riuscì a trovare una cinquantina di uomini oltre a me tra
Cherso e Lussino e insieme fummo destinati all'isola di Pag per
l'addestramento; da lì ci spostarono per un breve periodo a Lika-Krbava e
alla fine alcuni di noi, compreso me, furono rimandati a Pag.
Dopo due mesi fummo assegnati definitivamente a Novigrad e finimmo
proprio sotto Andrej: lui era il nostro capitano e noi soldati semplici. Rimasi
sotto il suo comando per nove mesi e poi mi rimandarono a casa a prendere
servizio nel corpo speciale, che era quello per cui avevo ricevuto la cartolina
di chiamata. Dopo di noi morirono tutti i soldati che ci sostituirono, io non
so ancora perché solo il nostro reggimento fu risparmiato, il destino ci ha
voluto salvare per un disegno che non ho ancora capito...»
Isabella era affascinata dal sentire un vero soldato di trincea parlare di una
guerra così recente e vicina, ma che era anche così lontana da lei e dalla sua
vita.
«Non è facile spiegare cosa succeda durante la guerra; ho visto persone miti
diventare spietati assassini e ho scoperto cosa vuol veramente dire la lealtà,
la codardia, l'odio e l'amicizia. Un giorno, era la vigilia di Natale, i serbi
della trincea di fronte a noi alzarono una bandiera bianca e così ci
parlammo, sempre però ognuno dalla propria parte, stando comunque tutti
sotto, dentro al fosso e dietro alla parete di sassi che avevano costruito i
soldati prima di noi come ulteriore protezione da eventuali colpi.
Decidemmo insieme di fare tre giorni di tregua tra le trincee
indipendentemente dagli ordini e quindi di non spararci per vivere in modo
meno triste le feste.»
«Mi sembra una scelta di grande umanità da parte di soldati che fino ad
allora si combattevano, non pensavo che fosse possibile!» disse la ragazza
sorpresa dal racconto che riusciva a commuoverla, ma lo sguardo freddo del
sub le fece intuire che la fine era ben diversa.
«Il primo giorno andò tutto bene, potevamo uscire, bevevamo e
scherzavamo senza paura di farci ammazzare. La notte di Natale però un
giovane soldato dell'altro fronte uscì ubriaco e con la mitraglietta cominciò a
sparare in aria all'impazzata.
Devi sapere che qui da noi per la notte di Natale c'è la tradizione di
esplodere dei colpi in aria per festeggiare, ma ovviamente non era il caso di
farlo in una situazione così tesa. Tutti ci buttammo a terra per paura che il
ragazzo ci potesse colpire, anche se si capiva che stava solo facendo festa e
che non aveva alcuna intenzione di fare del male. Quel ragazzo avrà avuto al
massimo diciannove, vent’anni ed era talmente brillo da non rendersi conto
di quello che stava facendo. Stupidamente si avvicinò troppo alla nostra
zona, senza capire minimamente dove stesse finendo... O forse pensava che
ormai eravamo tutti amici, in fondo era Natale!»
Goran si fermò un attimo, prese la sua bottiglietta di birra e ne bevve due,
tre piccoli sorsi, ma sembrava che il liquido facesse fatica a scendergli in
gola. Poi si passò una mano sul viso e si stropicciò gli occhi coi polpastrelli
e infine, ingoiando a vuoto, riprese il racconto mentre Isabella aveva la
sensazione di essere di troppo, lì, dentro a quella trincea che i racconti di
Goran le avevano costruito intorno.
Il caldo stava diventando insopportabile, ma la ragazza percepiva il freddo
della neve e quello dei sassi del racconto del sub, e ogni tanto aveva dei
brividi che le scendevano giù per la schiena.
«Andrej uscì fuori dalla trincea, gli si avvicinò senza nessun indugio e senza
dire nulla… gli prese la mitraglietta, lo fece inginocchiare storcendogli un
braccio e gli sparò alla nuca.»
La ragazza lo stava osservando con grande trasporto e attenzione e vide una
cosa che non aveva mai percepito prima: gli occhi celesti, che fino a un
attimo prima brillavano di una luce intensa, si erano come spenti e avevano
anche smesso di fare quei piccoli movimenti quasi impercettibili che
abbiamo tutti quando guardiamo qualcosa.
Goran non c'era più, non era più lì con lei, in quella giornata di afa e di sole
di giugno: se n'era andato, e quello che stava vedendo e vivendo in quel
momento era solo dentro alla sua mente.
Isabella si sentì un improvviso nodo alla gola, il freddo ora le divenne quasi
insopportabile: si rendeva conto che aveva smesso di parlare, ma non capiva
cosa gli stesse succedendo in quel momento. Sapeva che con il pensiero era
indietro, risucchiato dentro ai meandri dei suoi ricordi dove ora si trovava a
rivivere situazioni che non riusciva a dimenticare, e si percepiva forte il suo
dolore ancora vivo.
Dopo secondi interminabili di silenzio, quasi stesse parlando con sé stesso,
riprese il racconto.
Il suo viso adesso non trasmetteva più il dolore che la difficile rievocazione
gli aveva fatto riemergere pochi attimi prima, ma si era trasformato
assumendo una smorfia di odio che gli scolpiva in modo rigido i lineamenti,
i quali apparivano quasi intagliati nel legno e la giovane psichiatra li
interpretò come incisi dalla rassegnazione non del tutto sopita dal tempo.
«Successero molte cose in quei mesi, Andrej ubbidiva sempre agli ordini
che gli arrivavano senza battere ciglio: come però li portava a compimento è
meglio non saperlo. Non esistevano persone, donne, bambini, ma solo
obiettivi da raggiungere e il prezzo per lui era irrilevante. Personalmente lo
vidi uccidere solo quella notte di Natale, ma lui aveva creato un gruppo di
soldati senza alcuna paura, né etica né morale.
La sua tecnica era sempre uguale: li lasciava bere quanto volevano ma mai
troppo da non stare in piedi; gli spiegava la missione che dovevano eseguire,
gli dava carta bianca su come portarla a termine, poi li seguiva e li
osservava mandando ordini. Non partecipava mai direttamente a esse, e...
non l'ho mai visto ubriacarsi, né prima né dopo!»
Goran si prese ancora una pausa perdendosi in chissà quali luoghi
inaccessibili che non esistevano più da molto tempo, gli occhi erano due
fessure, la bocca sottile dalla tensione e gli angoli leggermente rivolti verso
il basso; le mani si stringevano l'un l'altra e Isabella non si sentiva a suo
agio. Avrebbe voluto dire qualcosa, almeno toccargli il braccio per non farlo
sentire solo, così affogato in un trascorso che lo schiacciava sotto macigni di
rimpianti che non riusciva a sotterrare e che lo facevano respirare a stento,
ma le mancò il coraggio.
Goran non era in quel momento il sub di Lussino che solo qualche ora prima
l'aveva accompagnata in una piacevole immersione, godendo insieme delle
bellezze del mare e assaporando la spensieratezza di una giornata estiva.
Adesso era un soldato, un uomo cupo, perso in un passato che non gli
lasciava vivere il presente standogli inesorabilmente vicino, a volte come
un’eco lontano e a volte, come in quel momento, riprendendoselo e
avvinghiandolo tra le maglie maligne del tempo.
Isabella si sentiva un’ingombrante presenza, era solo una ragazza che, per
quanto si sforzasse, poteva forse percepire quanto dure erano state quelle
esperienze, ma non poteva nemmeno avvicinarsi al dolore che infliggevano
e che sembrava lacerare Goran a ogni suo respiro. D'istinto lo fece uscire dal
suo torpore e gli chiese:
«Ma allora, come mai sei tanto suo amico? Non mi sembra che tra te e lui
possa esserci qualcosa che vi unisca, non ti capisco...»
Isabella si pentì subito di quel giudizio avventato e si preparò a ricevere una
risposta di commiserazione o, peggio, nessuna risposta e la fine dello sfogo
di Goran.
«Andrej avrebbe potuto mettermi nelle sue missioni, e io non avrei potuto
fare nulla per evitarlo. Lui capisce le persone con uno sguardo, mi utilizzò
spesso quando gli serviva qualcuno di fiducia, mi dava la responsabilità del
campo quando era via per delle strane uscite con il suo gruppo di spietati
scagnozzi. Anche se ero solo un soldato semplice, i miei commilitoni mi
obbedivano, perché nessuno avrebbe mai discusso i suoi ordini, nessuno ne
avrebbe avuto il coraggio. Non mi ha mai obbligato a uccidere e mi ha
sempre rispettato. Lui ha un suo codice d'onore, ma non è quello che ci si
aspetta, e nemmeno io lo capisco, ma sono vivo anche grazie a lui. La
guerra tira fuori la parte più oscura delle persone, lui non è stato certo il
peggiore!»
Adesso la guardava fisso, era come se fosse ritornato dal suo strappo spazio
temporale e a Isabella dava l'idea che volesse convincere se stesso, più che
lei, del perché ancora fosse legato a quello che sicuramente era un volgare
assassino e chissà che altro ancora.
Poi il sub riprese a parlare; era di nuovo presente nel tempo e nel luogo con
Isabella e la guerra sembrava un ricordo recente, una cicatrice fresca, ma
rimarginata.
«Proprio la settimana scorsa doveva esserci uno dei processi più importanti
per i crimini di guerra di Lika-Krbava. Per voi i cattivi sono i serbi, perché
noi abbiamo vinto la guerra. Non è vero, non c'era differenza tra noi e loro,
te l'assicuro. L'ennesimo testimone, guarda caso, si è ucciso gettandosi da un
dirupo vicino casa la sera prima. Altri sono scomparsi nel nulla andando a
fare una passeggiata o a fare la spesa, alcuni si sono suicidati e uno solo è
stato giustiziato per strada! E non erano soldati semplici come me, erano
ben più alti in grado e potevano testimoniare i crimini brutali a cui avevano
assistito. Io non ho mai visto nulla… in realtà.»
Il viso di Goran però tradiva una verità ben diversa, ma evidentemente non
era possibile conoscerla, i perché erano di certo molti e tutti validi.
«Fammi indovinare, quei tre brutti ceffi con cui si accompagna facevano
parte della spietata compagnia delle missioni misteriose, vero?»
Goran fece un sorriso amaro:
«No, solo due. Marko è più giovane, ma non c'è molta differenza tra lui e gli
altri, purtroppo. Non sempre ci vuole una guerra per diventare una bestia, a
volte ci nasci. Sei proprio intelligente Isy, stai attenta, ti prego.»
E con quelle parole poco rassicuranti, si alzò facendo capire che il racconto
era finito lì.
Capitolo 15
Sergio delle trappole e delle sorprese
Isabella era colpita dal racconto di Goran, adesso capiva perfettamente le
dinamiche di quella banda di assassini che confermavano la sua sensazione:
se l'avessero presa, sarebbe stata certamente uccisa. Quello che ancora le
sfuggiva era il perché del duplice omicidio. Probabilmente il progetto era
legato al progetto dell'ospedale che loro, e chissà chi altro, non volevano far
risorgere: ma perché? E soprattutto, che cosa c'entrava la guardia costiera
con affari di quel genere? Andrej aveva un vantaggio nel far sparire per
sempre i due medici, difficile però capire quale fosse. Era forse un sicario,
un mercenario con nostalgia degli orrori della guerra ai quali lui stesso
aveva dato il suo contributo personale? Isabella non riusciva però a trovare
il bandolo della matassa con i soli elementi forniti da Goran.
Andrej era un assassino e un valido esecutore di azioni indegne di un essere
umano dotato di anima e coscienza, ma non le dava l'idea che potesse ordire
chissà quale progetto complesso; era e rimaneva un soldato che eseguiva gli
ordini, fiero di poter esprimere, per qualche oscuro motivo, la sua bestiale
crudeltà e di dar sfogo alla sua violenza repressa e passare anche come un
bravo difensore dell’amata patria.
Doveva sapere di più su quell'uomo e forse era arrivato il momento per
informarsi anche su Goran, ma non ne conosceva il cognome, e senza di
esso difficilmente Armando avrebbe potuto scoprire qualcosa.
Persa in domande che non trovavano risposta nell'immediato, si ritrovò a
casa della zia e fu accolta al cancello da Romina, vestita di tutto punto con
tanto di valigia al suo fianco.
«Ah, finalmente sei arrivata, divertita con l'immersione? Certo che è durata
parecchio! Il tuo amico Sergio era preoccupato nel non vederti, ma alla fine
ha ceduto ed è andato a mettere trappole per quel verme che gli sfugge, un
ortottero mi pare dica…»
Isabella scosse la testa, esagerando un'espressione di compatimento.
«Zia, gli ortotteri sono insetti, non vermi. Se ti sente minimo sviene e poi ti
propina una lezione di due ore sulla sistematica con tanto di disegnetti
esplicativi dal suo taccuino inseparabile: se fossi in te, starei attenta a come
parli!»
E insieme risero alle spalle dell'entomologo incompreso.
«Dove stai andando, zia?» chiese Isabella guardando la valigia.
«Vi lascio per soli tre giorni, devo tornare a casa perché ho dei problemi con
la mia banca, niente di importante, ma ho delle scadenze e devo fare
assolutamente dei bonifici e da qui non riesco a far partire nulla tramite
Internet; poi approfitto anche per comprare alcune cose che a Lussino non si
trovano. La qualità croata lascia spesso molto a desiderare, purtroppo!
Ricordati solo che domani mattina viene Cornelia a fare le pulizie; per il
resto fate come se foste a casa vostra. Adesso devo salutarti ché ho il
traghetto alle due.»
Romina era veramente impaziente di partire visto che la nipote, che sarebbe
dovuta arrivare almeno due ore prima, si era presentata invece con un forte
ritardo.
«Scusa zia, una sola domanda velocissima, qual è il cognome di Goran?»
«Radić, Goran Radić, se non sbaglio e adesso scappo.»
Le diede un bacio e, presa la piccola inseparabile valigia rossa, si avviò a
piedi verso il parcheggio.
Isabella rimase a guardarla mentre si allontanava con passo svelto e deciso;
era proprio una bella donna, impeccabile come sempre nello stile e dal
portamento fiero.
Quel giorno tutto questo le diede però una triste sensazione di solitudine,
come se solo ora si stesse accorgendo di qualcosa che aveva sempre avuto
davanti agli occhi, ma che, per qualche strano meccanismo, non aveva mai
voluto capire. Per la prima volta Isabella stava guardando Romina con
sguardo diverso.
La zia era una persona sola, che nascondeva il vuoto che la circondava con
una cura eccessiva della persona, esibendo la forte personalità come il
vessillo della libertà femminile, ostentando la sicurezza della donna
emancipata e padrona della propria vita, artefice soddisfatta del destino che
aveva voluto e plasmato esattamente così com'era: insomma, un'anima piena
di dubbi e di rimpianti. Lei e la zia si assomigliavano moltissimo, sia per la
loro bellezza particolare, lontana dai classici canoni estetici, sia per
intelligenza e inclinazioni.
“No, io non diventerò come lei, non voglio” si disse Isabella, sicura di aver
finalmente capito cosa non volesse dalla propria vita, anche se ancora non
aveva individuato cosa invece desiderasse appieno.
Quella sera Sergio aveva deciso di preparare il pesce che aveva comperato
al mercato di Mali: dei calamari, qualche seppiolina e un pesce San Pietro
da fare ai ferri.
Il barbecue si trovava di lato alla terrazza piastrellata, tra i rami di una
palma non troppo grande e davanti a una piccola aiuola con dei bellissimi
agapanti in fiore; il camino era in cemento armato a forma di piccola casetta
con tanto di tetto in tegole ed era dipinto dello stesso colore bordeaux della
casa.
L'entomologo aveva anche comprato una bottiglia di Malvazija istriana, il
vino che Isabella preferiva.
Sergio era felicissimo: avevano tutta la casa per loro e una bella lunga serata
per raccontarsi reciprocamente ogni cosa sulla giornata; era euforico anche
per aver trovato un coleottero che all'apparenza sembrava un Lucanus
Lucanus femmina, ma delle sottilissime righe grigie sull'elitre gli facevano
ben sperare di aver scoperto una specie endemica dell'isola (cosa non così
improbabile) e aveva voglia di condividere la sua gioia con Isabella. Era
anche sinceramente curioso di sapere com'era andata l'immersione
dell'amica, nonostante non approvasse quello sport che riteneva troppo
pericoloso se non si era particolarmente esperti.
Aveva preparato un'ampia base di carboni ardenti sul piano del caminetto e
la griglia era pronta, avendovi sistemato sopra con cura i quattro calamari e
le seppioline ben conditi con olio, limone e aglio. Sergio si dilettava spesso
in cucina e adorava sentire Isabella sciogliersi ogni volta in mille
complimenti per i suoi piatti, anche perché lei non era proprio, come si suol
dire, una cuoca provetta.
Quella sera la ragazza era però tesa e di poche parole e Sergio, dopo aver
ampiamente descritto tutte le sue emozionanti imprese con le trappole per
insetti, se ne accorse e davanti a un bel bicchiere del vino bianco istriano,
guardandola attraverso il vetro mentre faceva ondeggiare il liquido dorato,
le chiese:
«Hai avuto problemi oggi? Ti vedo strana… e a dirla tutta, non solo
stasera.»
Isabella semplicemente non lo guardò in viso e si alzò da tavola per
prendere l'oliera che era rimasta vicino al caminetto, con il chiaro intento di
sfuggire alle domande dell'amico. Sergio rimase seduto e l'aspettò per
riprendere il discorso, ma questa volta con tono più determinato, che non
ammetteva altre fughe.
«Ci siamo sempre confidati l'uno con l'altro, ci siamo detti cose irripetibili,
esperienze di qualsiasi tipo e senza farci problemi né tantomeno ce ne siamo
pentiti dopo, ma per la prima volta ho la sensazione che tu mi nasconda
qualcosa e che non voglia farmene partecipe. Sai bene che se tra noi c'è un
rapporto speciale è proprio perché condividiamo le nostre emozioni senza
giudicarci.
A volte esistono soluzioni semplici a situazioni apparentemente complesse,
ma non è detto che riusciamo a vederle se non ci rapportiamo con qualcun
altro: è una cosa che mi hai insegnato tu, ricordi?»
Sergio adesso aspettava una risposta e la osservava così intensamente da
dare ad Isabella la sensazione che con i suoi lunghi occhi verdi cercasse di
entrarle nel cervello per strapparle quel segreto che tanto la faceva stare
male. Era proprio un vero amico, molto spesso una presenza silenziosa nella
sua vita, ma non per questo passiva o distaccata.
Lei sapeva bene che Sergio la conosceva più di sua madre, anche perché
avevano sempre condiviso le loro esperienze e confidenze, aiutandosi a
vicenda.
Andavano talmente nel profondo che era quasi come avere un monologo
con sé stessi, una sorta di reciproca psicoanalisi… però, a pensarci bene, era
sempre lei il centro dei loro dialoghi.
Chissà perché non si era mai accorta che in tutti quegli anni d’intensa
affezione era solo lei che confidava tutto e Sergio invece restava ad
ascoltarla, la consigliava, l'aiutava e la confortava: ma lei, di lui, cosa
sapeva?
Conosceva benissimo la sua vita lavorativa e un po' quella affettiva, fatta di
fugaci storie travolgenti, ma che poi si rivelavano immancabilmente senza
futuro. Sergio però non l'aveva mai fatta entrare nel loro intimo, in fondo
erano state sempre descrizioni più di cronaca che di emozioni.
Probabilmente non dimostrava la giusta attenzione ai suoi racconti e perciò
non la faceva più di tanto partecipe. Solo ora si stava rendendo conto che era
stata egoista nel loro rapporto di amicizia, era lei a parlare e lui ad ascoltare.
E Sergio nei suoi riguardi? Lui era la coscienza sempre presente quando
serviva, la parte lucida della sua mente quando veniva sopraffatta da storie
sentimentali burrascose, la spalla su cui piangere e anche l'amico con cui
gioire; ma era ogni volta lei e solo lei il centro di tutto. Come poteva una
professionista della mente umana non essersi mai resa conto di quanto stesse
approfittando di quel ragazzo troppo leale, puro e disponibile?
Forse aveva avuto bisogno del suo aiuto nella vita al di fuori del suo lavoro
e di lei, che tuttavia era troppo preoccupata per se stessa: no, non ne sapeva
molto del ragazzo entomologo che ora le stava davanti e che la osservava
meditabondo, non aveva nemmeno idea delle sue vere emozioni e
sentimenti, conosceva solo l'involucro del vecchio compagno di tutti i
giorni, il contenuto non lo aveva ancora guardato.
«Sei sempre così pensierosa ultimamente. Raccontami almeno
dell'immersione con Goran, anche se quel tipo non mi piace.»
Isabella lo guardava come fosse la prima volta che se lo trovava davanti. Gli
voleva bene, era tentata di raccontargli tutto, ma voleva proteggerlo e
sapeva che l'unico modo era tenerlo all'oscuro di quella sordida storia: così
si decise a rispondergli.
«Bellissima, forse l'acqua è la mia vera dimensione. Tutto è così diverso: tu
sgusci dentro a questo fluido che se vuoi e lo sai domare ti tiene su e ti
permette di esplorarlo. Sono convinta che la sensazione che provo sia simile
a quella che hanno gli uccelli in volo. È come se fossimo un tutt'uno: io,
l'acqua con i suoi incredibili abitanti e le sue foreste di poseidonia fluttuanti:
ma in fondo senti sempre di essere un ospite lì dentro, uno straniero che può
solo approfittare dell'invito del mare, ma senza esagerare. Se provi a
sfruttarlo e a violarlo la sensazione è che solo lui abbia il controllo delle sue
creature e anche di te stessa finché stai tra le sue braccia umide: sarà lui che
bene o male alla fine, se vorrà, ti lascerà andare via o ti tratterrà per sempre.
La grotta non è stata proprio facilissima da raggiungere; quello che poi la
rende particolarmente affascinante, sta nel fatto che è assolutamente
invisibile se non sai esattamente dove cercare l'imbocco. Puoi sparirci
dentro e sbucare molto più in là sugli scogli senza che nessuno sia in grado
di vederti uscire, o di capire dove sia il passaggio sotterraneo. Goran è molto
bravo e rassicurante, secondo me lo giudichi male perché non lo conosci.
Comunque sono solo stanca, non ho nessun problema, te l'assicuro.»
Il fiume di parole che uscì dalla bocca di Isabella aveva lo scopo di
confondere Sergio e di portarlo distante dal suo intento di conoscere la
ragione degli incubi ricorrenti dell'amica.
E intanto con questo racconto tranquillizzante e ricco di apparente serenità,
Isabella si era alzata, lo aveva baciato sulla guancia e aveva iniziato a far
finta di preoccuparsi della griglia, mentendo spudoratamente anche con il
linguaggio del corpo, certa di essere stata ancora una volta creduta.
Sergio invece andò a controllare l'immancabile trappola per falene con la
luce a UV al centro, che aveva posizionato nel mezzo del giardino
approfittando della partenza di Romina.
Capitolo 16
Incubi e follie
La sera si era conclusa lieta e i due amici avevano messo tutto al loro posto
rispettando il desiderio di Romina di avere sempre la cucina in ordine. Alla
fine erano andati a dormire al piano superiore dove avevano la loro stanza,
passando per le uniche scale esterne dietro a un intimo cortile dominato da
una palma imponente. Dopo una breve lettura dei rispettivi classici romanzi
estivi scacciapensieri, i due amici avevano spento la luce anche se erano
appena le undici di sera. Il sonno di Isabella iniziò subito male: appena
chiudeva gli occhi rivedeva la scena di Ilovik come un collage di immagini
sovrapposte tra loro e dai colori atrocemente vividi e i racconti di Goran le
apparivano talmente reali e palpitanti da credere di averli vissuti in prima
persona. La notte era lunga e a ogni ora la ragazza si svegliava con il cuore
in crisi tachicardica e con una continua sensazione di mancanza d'aria e di
gola arsa: guardò per l'ennesima volta l'orologio, le due.
Isabella non ebbe nemmeno il tempo di pensare che forse era meglio
prendere un tranquillante, che cadde in un sonno ancora più agitato: Andrej
la guardava mentre scappava in mezzo agli ulivi, i visi alterati e grotteschi
dei soldati la circondavano e apparivano sempre più grandi, dilatati e
deformi nelle espressioni bestiali.
Intanto i piedi le si trasformavano a ogni passo, gonfiandosi come fossero
dei palloncini, diventando sempre più difficili da manovrare e gradualmente
anche più pesanti; inoltre, come se non bastasse, anche il terreno sembrava
modificarsi divenendo viscido e talmente scosceso da impedirle di stare in
piedi e perciò di scappare via.
Infine Andrej, avanzando con sconcertante lentezza e con cadenza talmente
pesante da far tremare il terreno a ogni spostamento, le si avvicinava
ineluttabilmente, nonostante che Isabella cercasse con tutte le forze di
scappare, senza però riuscire a fare nemmeno un passo, in un terreno che si
trasformava in sabbie mobili inghiottendola, quasi ci fosse una larva di
formicaleone che avesse costruito quell'imbuto infernale dalle pareti
instabili per farla cadere direttamente nelle sue fauci crudeli. Il capitano le
arrivò da dietro immune a qualsiasi trappola, incedendo stabile come se solo
per lui il suolo fosse solido, la prese quindi per i capelli e tirò fuori la pistola
dal fodero con una calma angosciante…
Isabella sentì il freddo della canna sulla sua nuca, percepì il rumore del
grilletto che si caricava per prepararsi a esplodere il colpo micidiale, ne
avvertì lo scatto e alla fine sentì il tuonare dello sparo che deflagrava, ma
prima di cadere colpita dalla pallottola mortale, lanciò un urlo
agghiacciante, si mise di colpo seduta sul letto e iniziò a singhiozzare senza
riuscire a recuperare la calma, come se il sogno e la realtà fossero la stessa
cosa, incapace di capire dove si trovasse in quel momento.
«No, piccola, calma. È solo un brutto incubo, non ti può succedere più nulla.
Ci sono io, tranquilla.»
La voce pacata e rassicurante di Sergio e il suo abbraccio vellutato le fecero
tornare del tutto la coscienza e allora si strinse forte a lui sentendo che i
singulti, che le facevano sussultare in modo spasmodico il petto, andavano
diminuendo di frequenza e intensità.
«Ti prego, dormi qui con me, non lasciarmi…»
Furono le uniche parole che le uscirono fioche dalla gola contratta mentre
non riusciva a staccarsi da lui in una stretta nervosa quasi come in una
morsa.
«Sono qui, non preoccuparti, dormi che non ti lascio sola.»
Sergio si infilò dentro al letto, la fece distendere a fianco a lui senza mai
lasciare quel contatto fisico di cui tanto aveva bisogno e, tenendola
appoggiata di schiena al suo petto, cominciò ad accarezzarle la testa con la
stessa delicatezza di una mamma che vuole addormentare il suo bimbo
inquieto. La giovane, cullata da quel movimento monotono come una
cantilena e rassicurata dalla vicinanza fisica protettiva, questa volta si
addormentò profondamente e cadde in un sonno finalmente muto.
Alle quattro e mezza Isabella si svegliò d’improvviso e senza una ragione.
Sergio dormiva ancora a fianco a lei nella medesima posizione di quando si
era addormentata. Si sfilò lentamente dal letto e, a passo felpato, uscì dalla
camera e andò giù in cucina con l'intento di farsi una tisana calda.
La mattina si stava avvicinando e a est un debole chiarore preannunciava
l'arrivo del sole in un'altra magnifica giornata tersa.
La cucina era lunga e stretta, arredata con dei mobili bianchi che si
susseguivano occupando tutto il muro principale, ma poiché le numerose
ante di fòrmica grigia chiara erano tutte uguali tra loro e non lasciavano
intravedere cosa nascondessero al loro interno, Isabella si apprestò a cercare
dove la zia tenesse le bustine di camomilla aprendo gli sportelli a partire dal
primo vicino alla porta che dava nel salotto.
Mentre era intenta a controllare il cassettone estraibile dove si trovava il
caffè insieme a delle masserizie da colazione, sentì i passi di Sergio alle sue
spalle e senza girarsi, dispiaciuta, gli disse:
«Ho fatto il più piano possibile, non volevo svegliarti, scusa…» ma non
riuscì a finire la frase, che lui le aveva già cinto la vita con le braccia e
poggiato la testa sul suo collo con l'intento di annusarle i capelli. Rimase un
attimo interdetta percependo che Sergio le spostava le morbide ciocche
muovendo il naso e, intrufolandosi tra esse con movimenti leggeri a cerchio,
le arrotolava l'un l'altra a guisa di piccoli bocconi che afferrava poi a labbra
piegate in una sorta di morso delicato.
«Sergio, che fai? Sono qui per farmi una tis…» ma non riuscì a terminare la
frase; le parole le furono bloccate dalla bocca di Sergio mentre, con un
fluido scatto repentino, aveva cominciato a baciarla dopo averla girata e
attratta a sé, impedendole di dire qualsiasi altra cosa da quanto veemente e
intenso era quel contatto di labbra e d'altro.
Isabella spalancò gli occhi incredula: Sergio non si era mai avvicinato a lei
in quel modo, né tantomeno l'aveva baciata se non sulla guancia e solo come
saluto, a parte quella lontana e ormai dimenticata fugace storia al liceo, che
era durata il tempo di una festa di compleanno.
Cercò di staccarsi da quel contatto inaspettato, ma lui per tutta risposta la
spinse contro il muro bloccandole i movimenti: le afferrò delicatamente i
polsi continuando con decisione e bramosia il lungo e appassionato bacio e
la obbligò con dolce pressione a distendere le braccia sulla parete
mantenendo una vellutata quanto decisa stretta che non le lasciava spazio a
tentativi di rifiuto. Isabella si lasciò andare a quel piccolo segno di finta
violenza provando piacere e stupore per un comportamento gradito quanto
inaspettato.
Sergio percepì la sua accondiscendenza e, approfittando di quel momento di
arrendevolezza, scese con morbide labbra, disegnando linee sottili con la
lingua lungo il bianco collo, intervallando ogni tanto il sinuoso disegno
invisibile che stava tracciando con morsi lievi. Poi le alzò le mani, che non
aveva mai sbloccato, fin sopra alla testa e, afferrandole insieme, usandone
una sola delle sue, ne bloccò entrambi i polsi.
Sergio lasciò scivolare l'altra sua mano, che ora era libera, lungo il corpo
dell'amica e la infilò, con tocco leggero, sotto alla sottile sottoveste di seta
che le faceva da camicia da notte e si protese a percepire la reazione di
Isabella. Egli sentiva chiaramente che la compagna era tesa per l'emozione e
sottomessa per il desiderio crescente e, con questa consapevolezza, continuò
con ancora più ardore a tessere la trama dell'amplesso che aveva
pazientemente desiderato e forse immaginato da chissà quanto tempo.
Da lì risalì fino al piccolo seno e con dita lisce, abituate ad aprire leggere ali
di farfalle e piccole zampe di insetto senza romperle, e con movimento
dolce le afferrò il capezzolo e simultaneamente ricominciò a baciarla con
passione.
Isabella iniziò a perdere il controllo del suo corpo e del suo pensiero, ma a
sprazzi, tra un senso di forte godimento e finti movimenti di rifiuto poco
convincenti, ancora la sua razionalità non l'abbandonava del tutto e si
chiedeva: “Ma chi è questo qui? Sergio, il mio Sergio delle trappole e degli
insetti?”.
E intanto con un rapido scatto e un movimento quasi impercettibile,
approfittando di un suo distratto momento di intenso piacere, le aveva tolto
la sottoveste color corallo di seta levigata e le aveva ribloccato i polsi con
entrambe le mani, per riabbassarli fino alle spalle. Adesso l'assaggiava in
tutto il corpo, esplorando con lingua delicata ogni piccolo angolo
sconosciuto a lui fino a quel momento, fermandosi nell'incavo delle ascelle,
per poi risalire fino al collo e ancora scendere seguendo la linea parallela
della clavicole, e un'altra volta giù di nuovo sul seno.
Le abbassò ulteriormente le mani senza staccarsi con le labbra da quella
pelle profumata che si imperlava di piccole gocce di sudore e con lingua
dolce e leggera continuò a seguire l'ombra dritta che unisce lo sterno
all'ombelico e da lì con un cambio di movimento, quasi accelerando, vi girò
intorno per scendere di nuovo con lentezza misurata, ancora più giù, fino a
sfiorare il confine di sottili peli che gradatamente aumentavano
preannunciando l'inizio del pube voluttuoso.
Dio, quanto la conosceva, di lei sapeva ogni cosa, Isabella gli aveva
confessato più volte, durante lunghe sere di chiacchiere annebbiate da un po'
di buon vino, cosa le piaceva e cosa non le piaceva delle sue esperienze
sessuali, spesso non soddisfacenti perché l'uomo tende a mettere davanti il
proprio piacere a quello della sua amante.
Il bloccarla senza farle male, l'andare e venire con il suo tatto, rispettando i
suoi ritmi più protesi verso una lunga esplorazione, erano gesti che
mostravano un'inaspettata sensibilità e una conoscenza del piacere
femminile che Isabella proprio non riusciva a spiegarsi: Sergio non
permetteva alla sua passione di esplodere troppo presto, aspettando di
sentire quando più la mente dell'amata se ne andava e allora, né prima né
dopo, ecco che ci si poteva spingere oltre, in un'armonia di sensazioni
piacevoli.
Sì, seguiva lo schema perfettamente, l'aveva ascoltata sul serio con grande
attenzione e adesso riusciva a impedirle di dire di no, toccando le corde del
piacere come nessun altro prima. Presa dall'eccitazione, quasi non si accorse
che era entrato in lei e la sollevava lungo quel muro con movenza cadenzata,
lasciandole finalmente libere le braccia. Di tutta risposta in un gesto
inconsapevole, inarcò di voluttà la schiena e quando Sergio fece cenno con
un cambio di ritmo di volersi allontanare dalla parete, lei lo cinse intorno
alla vita con le gambe forti e, senza separarsi, finirono ora sul pavimento in
un finale che era totalmente fuori dalla loro coscienza, scritto dalla penna
del desiderio che vuole essere appagato del tutto, persi nel piacere che
supera anche il confine fisico, quasi abbandonati in una dimensione
parallela di un mondo percettibile agli uomini solo per pochi infiniti,
meravigliosi attimi.
Si risvegliò probabilmente mezz'ora dopo, riprendendosi da quel torpore che
l'intensità del rapporto aveva richiesto come prezzo e si accorse che Sergio
l'aveva girata e, tenendola sopra di sé senza staccarsi, ora dormiva sul
pavimento freddo.
Questa volta riuscì ad alzarsi senza svegliarlo e lo coprì con un asciugamano
da spiaggia che si trovava sul divano in sala, poco distante dalla cucina. Con
un profondo respiro riprese i suoi pensieri, lo guardò e lo vide per tutta
quella bellezza che era e che lei aveva in cuor suo sempre negato. Con un
tuffo al cuore pensò:
“Mio Dio, cosa ho fatto. Ho distrutto per sempre l'amicizia più bella della
mia vita!”
Capitolo 17
Fuga per la salvezza
Sotto al getto freddo e sferzante della doccia Isabella ritrovava sempre la
serenità, ma questa volta non riusciva a recuperare la calma e così decise
che l'unica soluzione era uscire per andare a correre: in questo modo,
liberando copiosamente endorfine grazie allo sforzo prolungato, avrebbe
ripreso la tranquillità necessaria per immaginare delle credibili
giustificazioni ai quesiti che le giravano per la testa. Si infilò dei
pantaloncini neri cortissimi, una canottiera tecnica sempre nera, le scarpe da
runner e poi si legò senza pensare i capelli in una crocchia, come faceva
prima di Ilovik e ancora si mise la fascia per bloccare il sudore che presto le
avrebbe solcato la fronte: iPod, cuffiette, satellitare e via fuori dal
cancelletto per andare incontro a un'alba chiara, fresca e terribilmente
incerta.
Isabella, presa dalla fuga dai suoi nuovi errori, sempre che di errori si
trattassero, iniziò subito con una corsa energica. Il suo pensiero non era
lucido, l'uomo con cui aveva appena condiviso l'esperienza più appagante
della sua vita, era anche il suo migliore amico, l'aveva sempre considerato
un fratello e ancora il ricordo di quel rapporto così perfetto e completo, le
dava l'idea un po' ovattata di una sorta di incesto.
Ormai non si accorgeva più della musica che passava chiassosa dalle
cuffiette dentro alle orecchie, poiché sentiva solo il desiderio di scappare via
verso la prima strada che la conducesse al mare.
Ed eccolo, azzurro, luccicante, calmo, quasi immobile il mare, che incurante
contrastava con un risveglio prepotente della natura intorno: il canto delle
cicale incominciava a echeggiare con rinnovata intensità, sincrono con la
luce del giorno che via via si faceva più viva e, con quel gioioso cicaleggio,
passava dentro alle orecchie di Isabella sovrastando la melodia di James
Blunt che in quel momento suonava Same mistake. Farfalle e api si alzavano
in volo subito prima che i suoi piedi calpestassero i fiori e le erbe quasi
secche per la lunga assenza d'acqua, i quali, sbriciolandosi nell'impatto con
la suola, sprigionavano intensi oli essenziali.
Sergio non era l'uomo con cui voleva condividere la sua vita, almeno non
era il tipo che aveva immaginato di avere come compagno al suo fianco; era
però incredibilmente bravo nel fare l'amore, ma come era possibile? Non
doveva essere in realtà così esperto, ma evidentemente il sesso è
un'attitudine che si possiede oppure no; l'intesa da quel punto di vista è
fondamentale in un rapporto. E poi c'era la loro amicizia che aveva superato
indenne anni e anni di quasi convivenza: ma lei lo amava?
Non aveva risposta, non riusciva a vedere con lucidità dentro al suo cuore,
però l'idea di stare con lui, in mezzo ai suoi insetti e alle sue trappole in
realtà non le andava per nulla.
Un rumore sordo che passò dentro agli auricolari tra una canzone e l'altra e
la brutta sensazione di essere osservata la colsero d'improvviso e,
assecondando l'istinto, non si girò subito per vedere cosa le stesse
procurando quel presentimento di disagio.
Flesse leggermente la testa in modo da poter osservare da dietro, ma senza
far vedere in modo chiaro il suo viso: ed eccola lì, la tremenda presenza era
ricomparsa, inesorabile e maligna e non solo nei suoi incubi, pronta a farla
ricadere nell'imbuto del panico. La piccola imbarcazione della guardia
costiera stava procedendo verso di lei; sopra si trovava la solita compagnia
dei tre uomini e poi lui, Andrej, in piedi a prua, quasi una polena, che
osservava con attenzione la sua figura. Fece finta di non essersi accorta di
nulla e continuò a correre spegnendo la musica per poter calcolare dal
rumore del motore la distanza che li separava e intanto, di nuovo, la saliva
acida e bruciante e il tremore nelle gambe le ricordarono ancora una volta
com'era fatta la paura.
Che fare? Dove andare? Erano le cinque e un quarto, non un'anima in giro,
la pineta da un lato e il mare dall'altro: quale strada imboccare per fuggire?
Lei si sentiva forte della sua resistenza alla corsa e alla fatica, ma non aveva
grande distanza da loro, come aveva invece quella terribile mattina
dell'omicidio. Non importa, loro erano in mare, lei lungo la passeggiata che
lo costeggiava, non potevano fermarla se d’improvviso avesse cambiato
direzione. Un suono sordo e dei passi talmente pesanti da darle la
percezione del suolo che vibrava a ogni colpo: si girò e vide che in un
attimo avevano accostato l'imbarcazione a un piccolo approdo sugli scogli e
un soldato si dirigeva di corsa verso di lei.
Nessuna possibilità, gli altri stavano scendendo dalla barca e a lei non
rimaneva che fuggire sul lungomare; e allora via, la galoppata divenne
rapida e terribile, senza freni.
Isabella girò sotto all'arco del romantico castelletto che si trovava sulla
curva che separava la zona nei dintorni del porto da quella meno battuta dei
bagnanti alla ricerca di un angolino scomodo purché solitario per prendere il
sole, e lei sapeva che l'alto muro della costruzione per un po' l'avrebbe
nascosta alla vista degli inseguitori. Il soldato come al solito non le stava
dietro del tutto, ma presto ne avrebbe avuti altri due alle costole: e poi c'era
anche Andrej, cosa avrebbe escogitato la sua fredda malvagità per catturarla
Di sicuro questa volta non poteva coglierli alla sprovvista, qualcosa avevano
programmato se l'avessero rivista, e allora?
Lo sconforto la prese e per un momento pensò di fermarsi non sostenendo
più quella tensione e quella fuga senza possibilità di un rifugio. Ma ecco che
come d'incanto si accorse di essere arrivata davanti agli scogli dove Goran
le aveva fatto scoprire la grotta sommersa. Non ci pensò su, era questione di
una frazione di secondo e il soldato avrebbe girato la curva e l'avrebbe vista.
Gli scogli erano taglienti e irti, ma Isabella non ci fece caso, neppure quando
sfiorò uno spigolo un po’ più sporgente degli altri che le tagliò la pelle del
polpaccio come un bisturi affilato. Aveva ben altro di cui preoccuparsi e
imperterrita si infilò in un avvallamento al limite della linea d'acqua che
separava il mare dal frangente.
Un tuffo e subito portò i suoi piedi in alto per permettere alle gambe di
mettersi sulla verticale, al fine di darle il peso necessario per sparire
repentinamente dalla superficie.
Aveva pochissimo ossigeno nei polmoni, la corsa e la paura le avevano
bruciato quasi ogni riserva: se avesse sbagliato direzione avrebbe dovuto
riemergere immediatamente per non annegare e le scarpe le sembravano dei
galleggianti che si opponevano a quella disperata immersione.
Si aggrappò alla roccia che vedeva attraverso gli occhi appannati dal sale
dell'acqua di mare, si spinse fino all'apertura della grotta sommersa e da lì
ancora più giù con un ultimo disperato sforzo e con tutta la forza che le
rimaneva sentendo fortissimo il desiderio di respirare. Ebbe un attimo di
panico attraversando il breve tratto sommerso, poi la luce e la velocissima
risalita e finalmente l'aria che rientrava nei suoi polmoni e che le ridiede la
vita che pensava di aver perso in un modo o nell'altro. E poi zitta, in
silenzio, ferma dentro quel buco semi sommerso e buio, illuminato dal solo
cono di luce che filtrava dall'uscita in alto sugli scogli. Se Andrej e i soldati
non conoscevano il nascondiglio e non l'avevano vista tuffarsi, forse era
salva. Attimi di tensione, poi le voci degli uomini che si fermarono proprio
davanti a quegli scogli, erano arrabbiati tra loro, probabilmente con la prima
guardia che l'aveva persa di nuovo. E lei in silenzio lì sotto, impietrita dalla
paura e tremante dal freddo. La voce di Andrej che dava un incomprensibile
comando in croato non le fece più soffrire il freddo, poiché era presa da
sensazioni più violente che le facevano esplodere il cuore; con la paura
anche solo di respirare, non si mosse, nonostante li sentisse allontanarsi in
fretta. Ferma e ferma ancora per chissà quanto tempo, fino a quando, non
udendo più nulla, nemmeno il motore della barca, decise che era il momento
di arrampicarsi verso l'uscita sulla terra ferma.
Le scarpe erano pesantissime, imbibite com'erano d'acqua, l'iPod appannato,
i vestiti gelati e gocciolanti e Isabella, senza più forze e con un desiderio di
esplodere in un pianto di disperazione, avendo un opprimente nodo alla gola
che le bloccava il diaframma, si avviò confusa cercando un nascondiglio più
asciutto e caldo possibile dove rimanere nascosta per decidere il da farsi e
soprattutto per aspettare che ci fosse gente per strada.
Capitolo 18
Giochi scoperti
Isabella arrivò a casa di Goran disorientata e senza forze, sensazioni che
finora le erano state estranee; spinse il cancelletto d'entrata e si infilò nel
giardino nascosto dall'alto muro di sassi che serviva come riparo dalla bora.
Si rannicchiò in un angolo vicino al salottino di plastica dove aveva bevuto
la birra appena il giorno prima e pianse, finalmente sicura di non essere
vista, ma cercando di trattenere i singhiozzi per non svegliare chi si trovava
in casa. Si strappò quasi dalla testa l'elastico che le teneva la pettinatura e
che, ne era assolutamente convinta, l'aveva tradita agli occhi di Andrej.
E pianse ancora, incapace di trovare una soluzione a quella che era diventata
una caccia all'uomo e la preda era lei.
“Basta,” pensò “adesso me ne vado, torno a casa!”
E con le mani sul viso riprese a piangere.
«Cosa ti succede, piccola?» la voce di Goran e la sua mano che le
accarezzava la testa le fecero fare un salto.
Nonostante ciò riuscì a ricomporsi subito, ma non fu capace di dire una
parola. Goran le si sedette accanto per terra e iniziò a raccontarle di quando
sua figlia da piccola litigava con qualcuno e sceglieva per frignare proprio
quell'angolino dove si era messa; non era mai riuscito a scoprirne il motivo,
ma adesso, visto che anche Isabella si era rifugiata nello stesso posto, capiva
che aveva realmente qualcosa di speciale:
«La prossima volta che mi viene da piangere, vengo anch'io qui ad
accucciarmi!» disse senza guardarla. E Isabella, suo malgrado, riuscì a
abbozzare un sorriso.
«Raccontami tutto, c'è sempre una soluzione a qualsiasi problema, non va
bene tenersi i guai per se stessi!» disse Goran continuando a non guardarla
in viso per non metterla in imbarazzo, vista la condizione terribile in cui si
trovava: aveva i capelli crespi per la salsedine, annodati in una sorta di
grumo color paglia a causa dell'elastico che aveva tolto con rabbia. I suoi
occhi erano tumefatti per il pianto e per il prolungato contatto con l'acqua di
mare; e poi il viso, teso, solcato da piccole rughe di espressione che ora
sembravano profonde a causa delle occhiaie che erano gonfie e livide e del
sale che aveva lasciato sulla sua pelle dei minuscoli cristalli bianchissimi
che ne riempivano le irregolarità. Isabella pensò a quell'uomo che le sedeva
accanto: era un essere singolare, veramente sensibile, capace di capire gli
stati d'animo delle persone vicine e di essere anche in grado di comportarsi
di conseguenza, probabilmente per il fatto che lui stesso era dotato di forte
empatia.
Eh sì, non occorre essere una psichiatra laureata, specializzata e blasonata
per saper cogliere e rispettare i momenti di intenso disagio emotivo di chi ti
interessa.
Isabella notò inoltre che Goran aveva usato parole più o meno simili a
quelle che le aveva detto la sera prima Sergio, tentando di farla parlare
nell'inutile tentativo di aiutarla.
Ormai non aveva più nulla da nascondere, voleva scappare e forse quel sub
era l'unica persona di cui si fidasse ciecamente e che potesse aiutarla; così
partì come un fiume in piena, raccontandogli con tutti i dettagli possibili
quello che era successo, dalla maledetta mattina a Ilovik fino a quel
momento.
Isabella si sentì incredibilmente meglio e quasi sollevata; guardò Goran, il
quale invece aveva assunto un'espressione scura e preoccupata.
«Sei in pericolo di vita, non immagini nemmeno quanto. Domani devi
assolutamente andartene e senza farti notare. Meglio se parti di notte, anche
questa notte, se puoi.»
Goran tradiva nella voce una nota di disperazione e a Isabella vennero i
brividi.
«Ma perché Andrej ha fatto uccidere quei due poveracci? Cosa mai ci
guadagnerà?» gli chiese pretendendo che, dopo quello che gli aveva
confidato, anche lui adesso dovesse dirle tutto quello che sapeva, soprattutto
perché si trattava della sua vita.
«Avevo intuito che eri tu quella di Ilovik, ma Andrej si fida di me e so che
mi ha creduto, ma non del tutto: non è uno stupido e capisce la gente a uno
sguardo. Tu sei stata convincente, per tua fortuna, ma io ho visto che
comunque non eravamo riusciti a imbrogliarlo completamente. Non sapevo
però per quale motivo ci tenesse tanto a trovarti, non pensavo che volesse
eliminare un testimone, e ti assicuro, non mollerà finché non ti avrà
scovata.»
Con quelle parole terribili, si girò a guardarla fisso negli occhi e Isabella li
vide umidi e terrorizzati.
«Ma non mi hai ancora detto perché li ha uccisi e cosa ci facevi quella
mattina lì da loro a Ilovik.»
Adesso il suo tono era diventato quasi aggressivo; non riusciva a ottenere
risposte, ma solo che Andrej la voleva morta, cosa che sapeva già senza il
suo aiuto.
«Quella mattina mi chiamò raccontandomi quello che hai letto sui giornali,
e cioè che un pirata del mare aveva ucciso i Mayer e che la donna non aveva
la parte inferiore del corpo.
Andrej voleva che io come sub la recuperassi subito prima che i pesci la
facessero sparire; in questi mari riescono a divorare un corpo intero in poche
ore. Io ci ho provato, ma l'incidente era avvenuto prima della spiaggia e lì il
fondale arriva a quasi 50 m di profondità e, se non bastasse, c'è una corrente
sottomarina molto forte che porta al largo, dove il fondo marino arriva fino
a oltre 60 m. Non sono riuscito a trovare le gambe, anche perché, senza la
parte superiore del corpo, in proporzione pesano molto di più e vanno a
fondo in un attimo. Adesso capisco che in realtà voleva solo un testimone e
un alibi dalla sua parte: che stupido che sono!»
Goran si fermò con il racconto e nel suo silenzio Isabella immaginava che
stesse pensando a quello che avrebbe potuto capire, ma che non aveva
voluto vedere. Poi riprese con tono sconcertato:
«Non ho idea del perché l'abbia fatto, ma una cosa è certa, lui ubbidisce
sempre a degli ordini, escludo l'abbia fatto di sua iniziativa!»
«L'ho pensato anch'io, deve esserci qualcun altro dietro e deve essere legato
alla storia della clinica, qualcuno che ha interesse a non farla risorgere»
aggiunse Isabella, che intanto cominciava a vederci chiaro dentro a quella
storia.
«Posso chiedere a qualcuno notizie sull'ospedale per capire quali possono
essere gli interessi in gioco. Ma tu adesso hai finito, devi tornare a casa
senza guardarti indietro, ne va della tua vita. Ti accompagno io al traghetto
stanotte: fa' i bagagli, tu e anche quel tuo amico insetto» disse alzandosi
quasi impaziente di mandarla via al sicuro il più presto possibile.
«Stanotte non posso, domani devo aspettare mia zia che ritorna dal suo
breve viaggio. Mi ha lasciato la casa in custodia e anche le chiavi e non
saprei come rintracciarla. Sono sicura che Andrej non mi ha vista in faccia.
Un giorno in più non cambierà molto. Io starò a casa e da lì non mi muoverò
per nessun motivo! E domani notte partiamo, ok?»
Goran non sembrava per nulla convinto:
«Posso tenere io le chiavi e domani le posso portare a Romina senza destare
sospetti, appena arriva al parcheggio in piazza. Non puoi essere sicura che
Andrej non ti abbia riconosciuto. Fidati, parti stanotte!»
«Non se ne parla nemmeno. Mia zia non si berrebbe mai nessuna storia
strana sulla mia sparizione, la conosco bene, comincerebbe a chiedere in
giro informazioni e così sarebbe in pericolo anche lei. Quando arriverà, con
tranquillità le dirò che mi hanno chiamata in tribunale per una perizia molto
delicata e partirò senza dar adito a dubbi. E dirò lo stesso a Sergio… che poi
non è un insetto!» gli rispose un po' stizzita per l'appellativo che aveva dato
all’amico.
«Come vuoi, con te non cavo un ragno dal buco. Adesso però tu vieni a fare
una doccia e ti metti dei vestiti di mia figlia così se incroci Andrej non
sospetterà di nulla. E ti accompagno io a casa, è meglio!»
E con quelle parole, la prese per mano, l'alzò e la condusse in casa.
Capitolo 19
L'asta
Tornata a casa, Isabella si liberò velocemente di Goran, assicurandogli che
da lì non si sarebbe mossa: quindi prese il suo portatile decisa a scrivere ad
Armando per sapere questa volta informazioni più precise sull'ospedale, ma
vide che c'era una sua mail.
Ciao stellina,
Ho le informazioni che cercavi: i due medici non erano lì per una vacanza,
ma avevano in cantiere un progetto di ricostruzione di un vecchio ospedale
storico ottocentesco per le malattie respiratorie.
Andrej Horvat durante la guerra ha ricoperto prima il ruolo di
vicecomandante e poi fu promosso a comandante di una compagnia di
fanteria praticamente in campo: è un eroe di guerra ed è stato medagliato
insieme al suo capitano, un certo Dinko Jurković per un'azione di guerra. È
sposato, non ha figli e ha un curriculum di tutto rispetto. Ha avuto solo
qualche problema una volta ritornato dal fronte, per cui è stato in cura
psicologica in una clinica specializzata per il recupero mentale dei reduci,
cosa che però è molto frequente e che non compromette la carriera militare
se vieni dimesso entro otto mesi.
Se ti serve altro, sono a tua disposizione.
Un bacio.
P.s. Non so se è importante, ma a breve ci sarà un'asta senza incanto (cioè
in busta chiusa) e l'ospedale è uno dei pezzi principali insieme ad altre tre
case.
Tuo Armando
«Bravo Armando!» disse ad alta voce e si affrettò a scrivere la mail di
risposta in cui chiedeva informazioni su un certo Goran Radić con il quale
aveva fatto amicizia e che le sarebbe stato forse utile per l'indagine, e sulla
ricostruzione dell'ospedale di Veli a opera delle due vittime dell'incidente,
per capire se l'asta potesse essere un movente possibile. Isabella si fermò un
attimo a pensare: ma perché non dire tutto al suo amico hacker che in questo
modo, venendo a conoscenza dell'intera terribile situazione, poteva aiutarla
ancora di più ampliando le ricerche come solo lui era in grado di fare? In
fondo non rischiava nulla, per telefono non avrebbe mai rivelato il suo
segreto, ma per mail si sentiva più sicura, al massimo poteva essere
intercettata dalla stessa polizia italiana e da questa Isabella non poteva che
averne solo dei vantaggi.
Presa la decisione, si tuffò in un racconto a fiume, ricco di particolari e di
preoccupazione. La sua richiesta era di aiuto per sbrogliare la matassa di
intrighi e delitti prima che la situazione diventasse per lei troppo pericolosa.
Aveva le ore contate, ormai Andrej era vicino a capire dove andare a
cercarla e dovevano entrambi affrettarsi nelle ricerche.
Prima di schiacciare il tasto invio, Isabella rimase col dito fermo a
mezz'aria: era la cosa giusta? Senza che se ne rendesse conto, come
comandato da una forza esterna, il dito premette il pulsante della tastiera e la
mail partì.
Isabella chiuse il portatile e istintivamente lo nascose, anche se era protetto
da password. Si alzò per andare a farsi un the e, con un tuffo al cuore, le
venne in mente Sergio. Con tutto quello che le era successo, si era quasi
dimenticata di lui e di quello che era accaduto tra loro solo qualche ora
prima: un brivido di piacere le passò come un fremito prodotto da ali di
farfalla, partendo dallo stomaco fino a farle battere il cuore talmente forte da
procurarle quasi dolore.
Non aveva consciamente ancora razionalizzato nulla, ma la reazione
spontanea al suo solo pensiero fu per lei esplicativa: lo amava come non
aveva mai amato nessun altro fino ad allora e lo amava da sempre, adesso se
ne rendeva conto. Lo aveva avuto accanto ininterrottamente da quando era
ragazzina e le loro strade avevano corso in parallelo non per puro caso, ma
perché lo avevano voluto entrambi.
Forse Sergio l'aveva capito prima di lei, o forse si era mosso solo per puro
istinto: in fondo lei gli aveva mentito facendo finta di amare finalmente il
suo orrido lavoro con quegli esseri striscianti, e questo era quello che lui da
sempre cercava in una sua eventuale compagna.
Lei invece adesso sentiva di desiderarlo nonostante la totale avversione per
il lavoro di entomologo: ma quando mai i gusti opposti e le scelte di vita
assolutamente divergenti avevano compromesso il loro rapporto di
amicizia? Mai, mai una sola volta in tanti anni.
L'amore tra un uomo e una donna è vero e duraturo quando si basa su di una
profonda amicizia e su un’intensa attrazione fisica: due condizioni che
certamente non mancavano nel loro nuovo rapporto.
Rimaneva solo un problema da risolvere: Isabella avrebbe mai avuto il
coraggio di confidargli che il suo interesse per la ricerca di insetti era dettato
da finzione per paura di rimanere sola e per riuscire a scappare da Ilovik
senza che nessuno la identificasse come runner, ma credesse che fosse solo
un'entomologa? E come avrebbe reagito Sergio scoprendo che gli aveva
nascosto una cosa tanto importante come il fatto di essere stata testimone di
un duplice omicidio? Era innegabile che non aveva avuto abbastanza fiducia
in lui per condividere la tragica circostanza, e questo poteva minare il loro
rapporto proprio sul nascere. Difficile spiegare che lo aveva fatto solo per
proteggerlo; lui avrebbe potuto avere una chiave di lettura diversa, per
esempio sentendosi non sufficientemente considerato o, peggio, giudicato
inutile come possibile aiuto, se non addirittura un ostacolo alla grande
psichiatra che risolveva sempre tutto da sola e per il bene di tutti.
“No, non posso ancora dirgli nulla!” Convinta ora che, con un po' più di
tempo e vedendo come sarebbero maturati gli eventi, avrebbe trovato il
modo giusto per spiegargli tutto senza offenderlo.
Decisa su questa linea da seguire, andò in bagno a truccarsi e a mettere in
ordine i capelli che aveva malamente lavato con un terribile shampoo croato
che sembrava più un sapone per i piatti. Pensava che ormai il suo amore
sarebbe tornato e lei voleva essere bella come era la sera prima.
Capitolo 20
Strani presagi
Goran aveva lasciato Isabella sul cancello di casa e poi si era diretto spedito
verso casa. Appena dentro al cortile chiamò a gran voce Suzana.
La donna scese velocemente le scale e si affrettò a raggiungere il marito,
avendo capito dal tono di voce che doveva esserci qualche problema
importante.
«Cosa succede?» chiese ancora con il fiatone, avendo fatto a due a due gli
scalini.
«Devo andare in gran fretta a Mali, ma prima devi farmi un piacere. Dammi
il numero di Sonija: devo sentire se posso passare subito in ufficio da lei.»
«In ufficio da Sonija? Aspetta stasera… ha detto che passerà, perché tutta
questa fretta?» Suzana guardava il marito sperando che le dicesse qualcosa e
intanto il fiato le era diventato corto: sapeva che non faceva mai nulla per
caso e lo conosceva abbastanza per prevedere che comunque non le avrebbe
detto nulla.
«Nessun problema, non preoccuparti.» Mentre parlava, Goran si era messo
ad aprire tutti i cassetti della sala da pranzo cercando qualcosa che
evidentemente non era proprio lì dove si ricordava e Suzana, invece,
continuava a guardarlo capendo bene che c'era di sicuro qualcosa di cui
preoccuparsi.
Finalmente il sub trovò l'oggetto che stava cercando con tanta animosità e,
senza farlo vedere alla moglie, lo fece scivolare dentro alla tasca dei
pantaloni: poi, con una falsa calma, prese il casco della moto e si girò verso
l'uscita.
«Io vado, ma starò via solo un'ora.»
«Ok, tieni il numero di Sonija» rispose porgendogli un fogliettino piegato in
due. Intanto il marito si era infilato il casco e si era diretto verso la porta
d'ingresso, quando Suzana quasi di sfuggita, aggiunse:
«A proposito, ho visto Andrej prima e ti cercava.»
Goran si gelò con la mano sulla maniglia, poi si girò di scatto verso la
moglie e togliendosi il casco, aggiunse:
«E tu cosa gli hai detto?»
«Niente, che eri in giro in paese. Poi se n'è andato verso il porto.»
«E non ti ha chiesto null'altro?» chiese l'uomo con un filo di voce.
«No, mi ha solo domandato se avevo visto o sentito qualcosa di diverso
questa mattina presto.»
«E tu? Cosa gli hai detto?»
«La verità. Niente di particolare, a parte che eri uscito molto presto con una
ragazza italiana» rispose quasi sulla difensiva.
Goran si passò la mano sul viso, rimase in silenzio cercando di rielaborare
quanto era successo e tutte le possibili conseguenze.
«Ti ha detto dove stava andando?»
«Sì, a Mali.»
«A Mali? Allora devo sbrigarmi! Si è fatto tardissimo...»
«No, no» aggiunse Suzana «è inutile che corri, lo raggiungerai senza
problemi perché è andato via mare. Doveva fare la costa fino a Polijana per
un controllo sulle turiste uscite questa mattina presto a fare running. Ha
detto che aveva appuntamento con la guardia armata all'ingresso del
villaggio, visto che nessuno può entrare o uscire senza essere registrato,
nemmeno se va a fare una passeggiata in riva al mare.»
«Ottimo, finalmente una buona notizia» sospirò l'uomo rimettendosi il casco
e aprendo con decisione la porta d'ingresso.
«Sì, lo troverai di sicuro, dopo andava in municipio, non preoccuparti. Ci
vediamo a pranzo» rispose Suzana quasi urlando al marito che era uscito
senza girarsi. La donna rimase con un’espressione perplessa sul portone a
guardare Goran che si allontanava velocemente in moto.
Appena fu sola, Suzana si precipitò al cassetto dove lo aveva visto prendere
qualcosa, lo aprì cercando di capire cosa mancasse: niente, non le sembrava
ci fosse nulla in meno rispetto a quanto ricordasse: d'altra parte era pieno di
cianfrusaglie e anche mettendosi d'impegno non sarebbe stata capace di
elencarne più di metà.
Stava succedendo qualcosa, aveva percepito che il marito era preoccupato e
che stava organizzandosi, ma non aveva minimamente idea di cosa e del
perché.
Non sapendo cosa pensare, tornò dentro la sala da pranzo e andò in cucina a
scaldarsi un caffè turco; poi, con la tazza bollente in mano, si sedette sul suo
posto a tavola e sorseggiando l'amara bevanda guardava fuori dalla finestra
da dove il mare, con il suo lento moto ondoso che lo faceva andare su e giù
come fosse la cassa toracica di un gigante che respirava profondamente,
sembrava volesse sussurrarle qualcosa.
“Dio aiutami” pensò rivolgendosi alla grande distesa turchina quasi fosse
una divinità pronta ad ascoltarla “non sono pronta a vivere ancora
nell'angoscia.”
Ma il mare non le rispose e Suzana, appena finito il suo caffè, si alzò per
andare a riassettare la camera da letto.
Capitolo 21
La coincidenza
Era quasi ora di pranzo quando Sergio fece ritorno a casa. Appena oltre al
cancello, trovandolo aperto, chiamò a gran voce Isabella, ma non ebbe
risposta. Poggiò allora la sua attrezzatura sul tavolo esterno e notò che era
nelle stesse condizioni di come lo aveva lasciato la mattina: c'era la tazzina
del caffè ancora sul tavolo dove una poco interessante mosca grigia stava
trovando di suo gusto lo zucchero rimasto appiccicato sul cucchiaino:
“Strano” pensò “la Sarcophaga carnaria normalmente non è attratta dalle
cose dolci: che sia il caffè a ingannarla?” E così, senza smentire sé stesso, si
bloccò a osservare l'insetto che succhiava avidamente con la sua
spirotromba il liquido scuro che stava cristallizzando. Dopo pochi minuti si
distolse dalla sua osservazione rendendosi conto che non sentiva alcun
rumore in casa; con destrezza tirò fuori una scatolina di policarbonato a base
rettangolare e vi bloccò dentro l'insetto insieme al suo insolito pasto
incrostato nella posata e chiuse il contenitore. Poggiò la parte di attrezzatura
che aveva ancora a tracolla ed entrò dalla porta della sala che era
completamente spalancata:
«Isabella? Sei qui? Isabella?»
Nessuna risposta.
Sergio si diresse verso la cucina e buttò l'occhio sull'asciugamano che lo
aveva coperto quella stessa mattina e gli sfuggì un sorriso di
compiacimento:
“Evidentemente Isabella da qui non è ancora passata” pensò sapendo quanto
fosse precisa nel mettere sempre tutto in ordine il più velocemente possibile.
In cucina c'era anche la tazza della camomilla ancora sul lavandino. Uscì
dall'altra porta di ingresso e notò che anche questa era aperta. Girò l'angolo
per andare a cercarla al piano superiore:
«Isabella? Dove sei sparita?» chiamò con tono più forte mentre saliva le
scale.
Nessuna risposta.
La vecchia porta d'ingresso a vetri era socchiusa, Sergio la spinse e, non
sentendo il minimo rumore, cominciò a provare uno strano senso di disagio.
«Isabella? vuoi rispondere? Se è uno scherzo non lo trovo per nulla
divertente.»
Nessuna risposta.
Entrò cauto nella camera che aveva ancora i letti disfatti e molti vestiti di
Isabella in giro; la porta del bagno era socchiusa, ma non fece in tempo ad
aprirla del tutto che un urlo agghiacciante lo investì facendogli sussultare il
cuore quasi da fargli credere che si sarebbe fermato, e gli sfuggì a sua volta
un urlo di vero terrore.
«Ma sei impazzita? Vuoi farmi morire prima di crepacuore e poi, visto che
sono sopravvissuto, d'infarto?»
Isabella, pallida per la paura, si tolse le cuffiette dalle orecchie e gli buttò le
braccia al collo, sollevata alla vista dell'amato e non di chissà quale uomo
nero con cattive intenzioni.
«Mi hai fatto morire di paura, non puoi entrare così senza farti sentire.»
«Senza farmi sentire? Ma se sono dieci minuti che mi sgolo per tutti gli
angoli della casa a chiamarti, tanto che i vicini devono pensare che sono
fuori di testa. Cerca di non metterti le cuffiette quando sei sola, se
succedesse qualsiasi cosa non te ne accorgeresti tanto presto e potrebbe
essere seriamente pericoloso.»
Isabella si rese conto che Sergio aveva ragione, avrebbe potuto essere una
qualsiasi delle brutali guardie assassine e lei non se ne sarebbe resa conto se
non quando sarebbe stato troppo tardi.
Stava per aggiungere qualcosa, quando sentì arrivare un messaggio sul suo
cellulare.
«Scusa, controllo chi è. Non vorrei fosse la zia.» E così si affrettò a prendere
il telefonino.
Armando!
“Strano” pensò, e subito escogitò una scusa per allontanare l'amico e poter
leggere l'SMS da sola:
«È solo mia madre. Potresti preparare qualcosa per il pranzo? Io intanto
finisco di vestirmi» E così gli si avvicinò e, stringendolo a sé lasciò che i
piccoli seni aderissero al suo corpo, sentendo con piacere che, di tutta
risposta, lui aveva respirato profondamente. Lo baciò afferrando dolcemente
coi denti il suo labbro superiore e poi gli sussurrò:
«Stasera ci penso io alla cena, ok?»
«Va bene, piccola, ti aspetto giù» e l'entomologo uscì canticchiando dalla
stanza.
Appena sola, Isabella si affrettò a leggere l'SMS: Guarda subito le mail.
Con un tuffo al cuore prese il portatile e lo aprì: se Armando le aveva scritto
così in fretta, c'era qualcosa di grosso, ne era certa.
Ciao stellina,
sono molto preoccupato per quello che mi hai scritto. Ho controllato le case
che sono state messe all'asta, e sai cosa ho scoperto? Una è di un’anziana
che ancora ci abita dentro e che ha più di novant'anni, un'altra invece era
di una vedova che stranamente è morta il novembre scorso per un
incidente: è caduta dalla scogliera.
E con questa sono tre i morti a causa di misteriose disgrazie legate in
qualche modo all'asta maledetta. E indovina di chi è la terza? Del tuo
"nuovo" amico Goran Radić!
Sai cosa ti dico? Troppe coincidenze e troppi incidenti.
Stai attenta, non vorrei che capitasse qualcosa anche a te.
Se vuoi sapere qualcosa di più sulla vedova ricordati che si chiamava Adela
Jancho.
A proposito: non ho trovato nulla su quel Goran, non è un eroe di guerra,
non ha mai preso nemmeno una multa, niente di niente. Sembra quasi che
non esista o, per lo meno, non ha mai fatto nulla, nel bene o nel male, degno
di nota.
Scrivimi appena scopri qualcosa e intanto io continuo la ricerca.
Non fidarti di nessuno, mi raccomando.
Tuo Armando
Isabella chiuse il portatile con un nodo alla gola: non capiva se era più
spaventata o delusa. La terza casa era di Goran?
Aveva ragione Armando, troppe coincidenze! Possibile che si fosse
sbagliata su quell'uomo?
Lei, proprio lei, una professionista che si fa ingannare da un semplice sub
croato? Ma dove era finita? In mezzo a un gruppo di reduci assassini capaci
di nefandezze immonde e di mistificatori talmente abili da far impallidire i
peggiori imbroglioni assassini che avesse mai incontrato nella sua carriera?
Ma come poteva cercare la casa della Jancho e a chi poteva chiedere
informazioni proprio ora che la zia era via? Lei non conosceva nessuno e
non avrebbe saputo nemmeno da dove cominciare, a meno che…
“Basta, adesso comincio io a prendere per i fondelli questi maledetti reduci
che credono di poter fare quello che vogliono senza che nessuno se ne
interessi. Sono morte fin troppe persone e io sono l'unica che può portargli
un po' di giustizia!”
Isabella si vestì immediatamente con un paio di shorts sabbia, infradito di
pelle marrone, comodi e a rasoterra e si infilò infine una bella canottiera
viola ametista che riprendeva il trucco che si era fatta con tanta cura prima
che Sergio la spaventasse a morte.
Scese le scale per il pranzo, mentre con la mente stava ideando una valida
scusa per stare via tutto il pomeriggio senza insospettire il fidanzato e
andare così da Goran a scoprire quello che sapeva sulla sfortunata, vecchia
vedova Jancho.
A Sergio avrebbe raccontato che sarebbe andata finalmente a prendere il
sole su di una vera sedia a sdraio, e non sul cemento o in bilico sugli scogli,
per passare un pomeriggio di relax in totale solitudine.
Ma le sue intenzioni erano ben altre: sicura di poter sostenere il gioco e di
essere in grado di non far capire al sub le sue ultime scoperte sull'asta, lo
avrebbe prima trovato, cosa non così difficile, data l'esigua dimensione del
paese, e poi lo avrebbe circuito in modo da ottenere più informazioni
possibili sull'omicidio e capire anche quanto fosse coinvolto in quella turpe
storia.
Capitolo 22
Una questione di geografia
Isabella uscì di casa con la borsa da spiaggia per passare un bel pomeriggio
di sole e tornando avrebbe anche fatto la spesa dal mesnica4 per una grigliata
di ćevapčići5 inondati di salsa ajvar. Sergio invece sarebbe rimasto a casa a
mettere in ordine tutto il materiale che aveva accumulato in quei giorni e
soprattutto doveva lavorare all'essiccatoio prima che gli insetti catturati
cominciassero a deperire. Appena fuori dal cancello, Isabella affrettò il
passo per arrivare al più vicino gradone di cemento sul mare per lasciare giù
lo scomodo fardello di oggetti utili per rosolarsi al sole, cosa che non aveva
preso per nulla in considerazione visto che doveva scoprire di più sulle tre
case e sulla vedova uccisa.
Il posto ideale era il bagno di Timi Beach, uno stabilimento balneare
alquanto decadente che sembrava nato da un'unica colata di cemento la
quale aveva costruito ogni cosa, dalla strada di accesso ai muretti, alle
panche, perfino delle vasche comunicanti tra loro e con il mare, che più di
dare l'idea di piscine sembravano degli enormi vecchi serbatoi di gasolio
dismessi e abbandonati in mare. Le grandi cisterne stavano per essere
inglobate del tutto dall'ambiente marino grazie a delle cozze che crescevano
lungo tutta la linea disegnata dal movimento delle maree in numerose
colonie scure e spigolose, insieme a delle alghe verdi mucillaginose che
ondeggiavano come chiome di streghe seguendo il ritmo della risacca e,
infine, ai granchi rossicci o marrone scuro che si divertivano a camminare di
taglio, soprattutto sulle scheggiature degli angoli, muovendosi a piccoli
gruppi di due, tre al massimo.
Isabella aveva deciso di prendere una sedia a sdraio e lasciare lì la roba da
spiaggia; ne scelse quindi una che fosse meno sgangherata possibile e, dopo
averla occupata, si diresse dal signor Timi per pagare il noleggio. Girandosi
verso il bar, anche se chiamarlo bar era forse un po' eccessivo, e guardando
sulla terrazza si accorse che c'era Goran che stava ridendo con degli amici
davanti a delle bottiglie di birra che sorseggiavano tra una chiacchiera e 4 Macelleria in croato.5 Salsiccette di carne aromatizzate che si accompagnano con la salsa ajvar a base di
peperoni.
l'altra. Cosa fare? Con Goran era d'accordo che non si sarebbe mossa di casa
fino alla partenza e invece lei era candidamente andata a prendere il sole
nientemeno che nella stessa strada che solo qualche ora prima l'aveva vista
scappare inseguita da un'accozzaglia di assassini!
Isabella non era certo il tipo da non avere subito una soluzione pronta, così
si spogliò, si mise in costume e, facendo finta di non averlo visto, andò
ancheggiando alla biglietteria a pagare. La sua idea era quella di staccare
l'amico sub da quel gruppo di uomini croati dei quali non sapeva nulla e di
obbligarlo a seguirla al fine di farsi accompagnare a vedere la casa della
Jancho.
Non era poi un piano difficile da eseguire; Isabella aveva notato che gli
uomini slavi, a differenza di quelli italiani, non guardavano mai le donne
direttamente e tantomeno fischiavano dietro o lanciavano commenti ad alta
voce.
Loro le osservavano solo quando sapevano di non essere notati, ma le
squadravano tanto quanto qualsiasi altro maschio di nazionalità diversa.
Infatti, spiando il riflesso del vetro del bar, vide che il gruppetto la stava
fissando di sottecchi: allora si girò e fece con la mano un vezzoso gesto di
saluto in direzione di Goran e poi si diresse con noncuranza verso la sua
sdraio.
Appena due minuti dopo aver chiuso gli occhi per prendere il sole, si sentì
toccare la mano:
«Isabella, sei impazzita? Non puoi stare qui, è troppo pericoloso. Vestiti
subito che ti riporto a casa.»
Goran si era liberato senza problemi dell'allegra compagnia, angustiato dalla
paura che Isy fosse notata da troppe persone e adesso era accucciato di
fianco alla ragazza, la quale notò lo sguardo sinceramente preoccupato.
«Non innervosirti, fare le cose che nessuno mai si aspetterebbe da una
testimone braccata è il metodo migliore per non essere notata, fidati, è il mio
mestiere. Comunque usciamo che devo chiederti qualcosa.»
Il sub annuì senza aggiungere nulla, quasi volesse evitare qualsiasi altro
intoppo che avrebbe potuto rallentare la loro uscita da Timi Beach.
Appena fuori, Isabella prese il lungomare nella direzione opposta a casa sua,
verso la dimora di Goran il quale, sempre più allarmato dall'incomprensibile
atteggiamento della ragazza, tentava di fermarla senza farsi notare dai
passanti.
«Dove stiamo andando? Vuoi ascoltarmi? Non puoi giocare, non ti rendi
conto che qui siamo vulnerabili?»
«Non sono d'accordo, te l'ho già detto» rispose ostentando sicurezza «e poi
devo andare a vedere la casa di una certa vedova, la vedova Jancho, la
conoscevi?»
«Ma cosa stai dicendo, sei impazzita? Cosa c'entra adesso la casa di quella
povera donna che per di più è morta appena qualche mese fa?»
Goran, nella sorpresa e sentendosi impotente nel comandare quella donna,
aveva cominciato quasi a balbettare per lo sconforto, emozione che non
sfuggì a Isabella la quale, ancora più di prima, si stava convincendo che
quell'uomo fosse sincero e onesto come aveva creduto fin dal primo
momento e che non avesse nulla a che vedere con gli omicidi.
«Ok, mi voglio confidare con te» disse bloccandosi di colpo sulla
passeggiata. «Ho fatto delle scoperte importanti, ma ho bisogno di sapere di
più sulla morte di quella donna e solo tu puoi aiutarmi. Adesso, se smetti di
tentare di fermarmi, andiamo dove ti ho chiesto e durante il tragitto ti spiego
tutto.»
E così, senza più storie, ripresero a camminare tranquillamente con la
differenza che ora era Goran a fare strada.
D’improvviso Isabella ebbe la netta sensazione che qualcuno li stesse
seguendo dall'interno della pineta, nascosto dalle ombre scure dei grandi
alberi che la confondevano nella vista contrastando con i coni di luce e le
macchie sfavillanti che il chiarore del sole disegnava sul terreno, infilandosi
tra le fitte chiome, appena riusciva a trovare un varco.
«Ti sei accorto anche tu?» disse fermandosi un momento e guardando verso
l'altura.
«Accorto di cosa?»
«Non ti sembrava che ci fosse qualcuno che ci seguisse dalla pineta?»
Goran guardò in alto nella direzione che Isabella gli aveva indicato, ma non
vide nulla.
«Sarà solo qualche turista in cerca di fresco.»
«Non so, mi sembrava che ci fosse una persona che si fosse nascosta dietro
ai tronchi appena mi sono girata. Forse mi sono confusa.»
Ripresero quindi la loro passeggiata, nonostante che la ragazza non fosse del
tutto convinta di essersi sbagliata; intanto aveva preso la decisione di
rivelare la scoperta dell'asta con l'intento di capire quanto realmente ne
sapesse quell'uomo che, da una parte sembrava sincero e generoso, ma
dall'altra continuava a ricomparire come presenza passiva dentro alla storia
che portava dritto ai miserevoli fatti legati agli omicidi.
«Ci sarà un'asta immobiliare a breve e anche l'ospedale dei Mayer è inserito
tra gli altri lotti, questo non ti dice niente?»
«L'ospedale? Adesso capisco dove vuoi arrivare, anche la casa della vedova
Jancho è dentro l'asta, insieme alla mia e a un'altra, ma nessuno mi aveva
detto che c'era un'altra struttura nell'elenco.»
Gli occhi di Goran tradivano stupore misto a preoccupazione, era un uomo
intelligente e non gli ci volle molto per arrivare alle stesse conclusioni di
Isabella, la quale incalzò:
«Devo vedere la posizione della casa, per capire se esiste un collegamento
tra gli incidenti. E vorrei conoscere anche i particolari della morte della
donna. Magari, sapendo cosa cercare, troviamo qualche elemento che ci
svelerà se c'è stato o meno un omicidio.»
Goran era rimasto zitto, assorto in pensieri e ragionamenti che Isabella non
poteva intuire, ma il viso, la mimica facciale, il continuo roteare delle
pupille dell'uomo, oltre alla posizione delle mani, rivelavano come al solito
la mancanza di menzogna ed erano coerenti con le emozioni che
manifestava con le parole.
«Ma allora la casa non è tua, giusto? E questo non ti preoccupa, oppure
andrai tu ad aggiudicartela?» chiese intanto la ragazza per continuare a
tenerlo sotto pressione, attenta al primo segno contraddittorio che poteva
labilmente apparire rispetto a quanto avrebbe affermato.
«Figurati, non ho i soldi. Comunque io ne possiedo l'usufrutto a vita e
quindi non mi cambia niente!» e lì si prese una pausa ingoiando a fatica e
poi, come se ne avesse trovato il coraggio, aggiunse: «Come la vedova
Jancho e la vecchia signora Vidulich, che vive nella terza casa.»
«Questo sì che è un indizio non da poco, mi dispiace per te, Goran!» gli
rispose d'impulso comprendendo la sua nuova e quanto mai triste
preoccupazione. «Ma non riesco a trovare il collegamento con i due
medici.»
La ragazza sentiva sempre più che il tempo scorreva senza pietà e quello che
le rimaneva era certamente poco, visto che a ogni minima ricerca che
conduceva saltavano fuori particolari inquietanti.
«Questa è la casa di Adela che, come puoi notare, si trova sul mare come la
mia e quella della Vidulich.»
Goran aveva detto quelle parole sapendo bene che poteva essere un ulteriore
indizio o anche solo una informazione importante.
Isabella rimase ferma davanti alla vecchia magione fatiscente la quale,
avendo tutte le finestre chiuse da persiane semi divelte e la porta sbarrata da
una trave messa di traverso e inchiodata malamente, emanava un alone
intorno che la rendeva ancora più spettrale di come dovesse presentarsi
prima della morte dell'anziana.
«E adesso?» si chiese Isabella.
Goran fece spallucce mentre oscillava la testa in segno di negazione:
«Non so, ormai non so più nulla.»
Capitolo 23
Il testimone
«E adesso?» ripeté Goran guardando la vecchia casa. «Cosa possiamo capire
da una porta sbarrata?»
«Ci vuole solo un po' di intuizione: noi studiamo tutto e magari incappiamo
in qualche particolare che potrebbe illuminarci su qualcosa. Per esempio:
abbiamo percorso la strada da casa tua a qui senza trovarne altre in mezzo,
giusto?»
«Esatto»
«Ma il confine tra le proprietà, dove si trova?»
«Non c'è, tutt'e tre sono in fila su una lunghezza di più di un chilometro, il
terreno è di proprietà delle case, ma il limite è segnato solo da vecchi cippi
semicoperti dal terreno ancora risalenti alla fine dell'Ottocento, a parte il
mio che è più antico, tanto che ha ancora il leone di Venezia scolpito sopra.»
«Questo è un particolare interessante: quante case ci sono fronte mare oltre a
queste tre?» chiese Isabella mentre rimuginava sul valore di più di un
chilometro di pineta direttamente sul mare, a parte la passeggiata. Non
sentendo risposta, si girò verso Goran che stranamente non aveva parlato:
«Allora? C'è qualche problema?»
«Non avevo mai pensato a questo particolare.»
«Quale particolare?» chiese la ragazza che non riusciva a capire dove
volesse andare a parare.
«Queste sono le uniche case fronte mare di Veli.»
«Le uniche?» Isabella sentì il fiato che le mancava. «Com'è possibile che in
questo paese nato su di una costa ci siano solo tre case sul mare?»
«È così» rispose Goran «probabilmente il fatto che la bora imperversi
spesso ha fatto sì che nessuno costruisse direttamente sul mare. Adesso le
nuove costruzioni sono bloccate e sono rimaste solo quelle storiche. Non ho
mai preso in considerazione il valore che hanno ora, visto che sono per così
dire esclusive.»
Goran aveva ragione, ora quelle tre fatiscenti case avevano assunto un
valore enorme rispetto a quello di un tempo, anche in considerazione del
fatto che tutt'e tre erano dotate di una notevole quantità di spazio per il
momento occupato dalla pineta. Bastava che cambiasse il piano regolatore,
pensò Isy, e il valore di quegli immobili decuplicava come minimo.
«Anche l'ospedale è sul mare?» chiese al sub pensando di aver trovato la
chiave di volta del caso.
«No,» rispose scrollando la testa in segno di sconfitta «assolutamente.
L'ospedale è dall'altra parte della collina, e dà sul bosco. Mi dispiace, ma il
collegamento deve trovarsi da qualche altra parte.»
«Oppure» disse la psichiatra seguendo ad alta voce un ragionamento: «il
collegamento è sotto i nostri occhi e a noi semplicemente sfugge. Secondo
me questa è la strada giusta.»
Goran rimase un attimo in silenzio: poi, come illuminato dalle parole
dell'amica, disse:
«Ho un'idea, seguimi.»
«Dove mi porti?» chiese Isabella incuriosita dal passo svelto e deciso che
teneva Goran, quasi avesse paura di non riuscire ad arrivare in tempo.
«Qui vicino, se siamo fortunati, dovrebbe trovarsi una persona che forse può
aiutarci»
Dopo pochissimi minuti arrivarono davanti a un basso muro a secco che
delimitava un fazzoletto di terra coltivato a ulivi: un uomo stava
appendendo dei foglietti appiccicosi ad alcuni rami e si accorse subito di
loro.
«Ciao Goran.»
Era Karlo Živković, vecchia conoscenza del sub. Karlo non parlava
normalmente croato essendo in realtà di origine triestina, anche se
ovviamente conosceva perfettamente quella lingua; finì di sistemare l'ultimo
fogliettino, il quale non era altro che una carta moschicida contro alcuni
parassiti degli ulivi, e poi si diresse verso di loro. Dopo aver scambiato
qualche chiacchiera poco interessante, Goran si rivolse a Isabella e le
presentò l'amico, spiegandole anche che era stato lui a scoprire per primo il
cadavere della vedova Jancho. Alla psichiatra non sembrò vero di poter fare
delle domande al suo unico testimone disponibile su quello che aveva deciso
fosse certamente un assassinio e un fugace occhiolino del sub verso di lei,
ma di nascosto da Karlo, le svelò che Goran aveva fatto lo stesso suo
ragionamento. Dopo pochi convenevoli, Isabella gli chiese abilmente se
potesse raccontarle quanto era accaduto il giorno della morte della vedova,
facendo trasparire nella sua richiesta solo una semplice curiosità dettata
dalla pietà; l'uomo si dimostrò molto disponibile e iniziò subito a sciorinare
tutto quanto sapeva di quella mattina di novembre:
«Stavo andando verso il porto di Veli e saranno state al massimo le tre di
pomeriggio, quando ho intravisto una sagoma scura riversa sugli scogli.»
Karlo raccontava la vicenda usando molti particolari e la psichiatra era
attenta anche alle minuzie per cogliere un dettaglio che potesse dimostrarsi
utile alla sua ipotesi:
«Non avevo capito subito che fosse la Jancho, perché non andava mai oltre
il cimitero. Faceva sempre e solo la strada da casa sua al camposanto e poi
indietro. Si vede che la nebbia quella mattina l'ha disorientata.»
«Faceva solo quella strada? E chi le portava da mangiare, se non andava a
far la spesa?» chiese d'impulso sentendo come un campanello suonare nel
suo cervello che le indicava dove andare a scavare:
«Stela, la panettiera» rispose «per i lavoretti di manutenzione della casa ero
incaricato io e mio cugino, anche se lui si occupava più che altro del
giardino.»
«Posso approfittare e chiederle di farmi vedere la strada che faceva Adela e
il luogo dove invece poi è morta?»
Karlo non si fece tanti problemi ad accettare, annuì con gentilezza pensando
alla solita turista attirata dalla macabra storia del paese, e così si
incamminarono tutti insieme conversando anche di banalità, mentre
Isabella, quasi distrattamente per non insospettire l'uomo, intercalava
domande molto precise sui fatti della mattina dell'incidente, ottenendo
sempre risposte altrettanto dettagliate e interessanti.
«Nessun altro aveva visto Adela quella terribile mattina?» chiese Isabella
rivolgendosi a Karlo, ma con sua sorpresa non fu lui a rispondere.
«Io l’avevo incontrata! Quella mattina avevo visto Adela poco prima che
morisse, proprio sulla stradina che porta al cimitero» rispose Goran senza
preavviso. Isabella si gelò e sentì un sobbalzo al cuore: possibile che ogni
volta che iniziava a indagare su una nuova pista, Goran sembrava sbucare
dal nulla per essere sempre presente nei luoghi più caldi della storia? Era
come se saltabeccasse da un omicidio a un altro con l’innocenza di un
fanciullo.
«E perché me lo dici solo adesso?» gli chiese cercando di tenere un tono
calmo, in modo da non far capire a Karlo la sua inquietudine.
«Non mi sembrava importante. L’ho salutata e poi sono andato a casa. Non
ho visto nessun altro, che importanza può avere questo particolare?»
«In effetti, non ne ha» rispose la ragazza ingoiando la saliva quasi a
fatica.Isabella era come sempre attenta all'espressioni delle persone con le
quali parlava: Goran ancora una volta appariva sincero e aveva sempre una
scusa più che ragionevole. Karlo, invece, era molto lento nell'elaborare le
risposte alle sue domande e nel parlare, tanto che la psichiatra aveva
rischiato di riformularle un paio di volte, convinta che non fossero state
comprese. Quello che diceva dimostrava però che era un uomo intelligente,
capace di osservazioni analitiche e meditate: Isabella aveva notato che i
reduci, anche se non spontaneamente, amavano raccontare della guerra e di
come l'avevano vissuta personalmente, così intavolò l'argomento per creare
un clima confidenziale. Karlo incominciò subito a narrare i suoi ricordi sul
conflitto, ma il coinvolgimento emotivo era ben diverso da quello di Goran:
«Fui chiamato subito per fare la guardia all'ufficio postale: eravamo solo in
due, facevamo turni di dieci ore continue e smontavamo per sole sei ore tra
uno e l'altro.»
«E per quanto tempo sei stato impiegato per quest'incarico?» chiese la
ragazza.
«Per diciotto mesi, poi ebbi il congedo anche perché la guerra era finita.
Sono stato fortunato, ho combattuto senza sparare un colpo e non ho mai
vissuto un solo giorno di trincea!»
«D'altra parte in un conflitto, purtroppo, ci vogliono sia le trincee sia i
presidi agli obiettivi sensibili: il fatto poi che nel tuo caso i combattimenti
non si siano spinti fino a Mali, è stato il destino a deciderlo!» gli rispose
pensando a come invece aveva vissuto la guerra Goran, che non aveva avuto
la sua fortuna.
Intanto erano arrivati fino alla strada di mattoncini in terracotta che
s’inerpicava sull'altura: dopo pochi metri girarono a destra ed entrarono nel
camposanto.
Karlo li portò fino alle tre tombe della famiglia Jancho:
«Ecco, qui riposa Adela. Quella mattina, quando arrivò la polizia, gli dissi
che la vedova doveva essere stata al cimitero, come ogni mattina.»
«E loro cosa fecero?» chiese Isabella pensando che, se ci fosse stato
qualcosa da scoprire, doveva nascondersi lì.
«Mi chiesero di accompagnarli e così feci.»
«E poi?» chiese la ragazza che non riusciva a trattenersi dall'incalzare Karlo.
«E poi niente! Quando arrivammo, trovammo proprio qui...» disse Karlo
indicando con la mano la stradina di sassi che separava le due lapidi dei
famigliari «un lumino a terra e dei cerini, come se fossero caduti di mano ad
Adela.»
«E la polizia cosa disse?»
«Niente, te lo ripeto, non diede importanza a questo fatto e basta.»
La giovane ebbe l'impressione che Karlo non fosse d'accordo con
l'interpretazione ufficiale dei fatti; rimase un attimo in silenzio per valutare
se insistere ancora o lasciar perdere.
«E tu non sei convinto che si sia trattato di un incidente, non è vero?»
Isabella attese la lenta risposta dell'uomo, avendo così tutto il tempo per
chiedersi se tanto ritardo fosse dovuto solo al suo modo strano di
interloquire o se avesse esagerato nel voler sapere troppo da una persona che
aveva appena conosciuto.
«Adela non poteva sbagliare strada, non ho alcun dubbio» fu la sua
categorica affermazione, dopodiché uscirono per andare a vedere dove era
morta la vedova.
Alla fine Karlo li salutò per tornare al suo lavoro nell'uliveto.
Capitolo 24
La trappola
Karlo se n'era andato lasciando i due amici seduti sul ciglio della
passeggiata in corrispondenza degli scogli che avevano visto morire Adela.
Erano rimasti alcuni minuti in silenzio, ognuno seguendo i propri pensieri e
ragionamenti. Isabella si decise a parlare per prima:
«Io non ho dubbi. Non posso credere che un’anziana quasi ceca che fa da
anni lo stesso identico percorso possa essersi confusa per la nebbia. Le
nebbia quella poveretta l'aveva da anni negli occhi! E poi, hai sentito cosa
ha detto sul lumino?»
«Sì, certo. Il lumino spento era a terra rovesciato sulla tomba, coi cerini lì
vicino. Non capisco perché non abbiano voluto considerare questo
particolare.»
«Ah, be’, questo dovresti dirmelo tu! Io non capisco invece come funzioni
la giustizia qui in Croazia. Mi sembra che sia più un Far West che un paese
in bilico per l'Europa.»
«Eh sì!» rispose il sub «da voi a Napoli regna la giustizia!»
«Touché» Isabella si rese subito conto di essere stata superficiale nel fare
una tale affermazione. Goran non rispose, ma dall'espressione che assunse,
capì che ci era passato sopra.
«Adesso però siamo a un punto morto: sicuramente si potrà far riaprire il
caso e, se è vero che agli atti c'è la testimonianza di Karlo anche sulla storia
del cero del cimitero, abbiamo qualche chance per far sorgere il dubbio
sull'omicidio. Ma per essere creduti, dobbiamo collegarlo in qualche modo
alla morte dei Mayer; la mia testimonianza può solo inchiodare il gruppo di
soldati fuori di testa, ma non arriverebbe a capo di nulla.»
Isabella guardava gli scogli affilati con espressione di sconforto, perché
stava razionalizzando che in mano aveva ben poco per arrivare oltre a quello
che già sapeva. Dove poteva andare a cercare adesso?
«Io ho fatto qualcosa che potrebbe essere importante come no, ma ancora
non so niente.»
«A cosa ti riferisci?» chiese Isabella.
«Dopo quello che mi hai raccontato su Andrej e sugli assassinii dei coniugi
Mayer ho capito che la situazione non solo è grave e pericolosa, ma che sta
anche precipitando e abbiamo poco tempo. Andrej ti sta dando la caccia e se
non scopro il motivo di tali omicidi, non so più fino a che punto questa
storia possa degenerare. Credimi, ho vissuto molto con Andrej in condizioni
estreme e non sto esagerando. Così mi è venuto in mente un particolare
importante: è da qualche mese che mia nipote Sonija mi parla proprio di
Andrej.»
«Di chi? Del capitano?» disse cercando di contenere la voglia di sapere
subito tutto.
«Sonija lavora a Mali all'ufficio postale che fa capo a tutta l'isola. È la
segretaria personale del direttore e, poiché sa che sono amico di Andrej, mi
chiedeva come mai lui vada spesso a trovare il suo capo durante le ore di
lavoro. Il problema di mia nipote è che lui le fa una paura incredibile e si
meraviglia che io possa frequentare una persona così inquietante.»
«Questa è una scoperta veramente eccezionale, cosa ci andrà a fare alle
poste dal direttore così tante volte? Forse è lui il collegamento che
cerchiamo.» Isabella era entusiasta che si fosse materializzata una possibile
nuova pista da seguire, proprio quando stava prendendole lo sconforto.
«E sai chi è?» chiese incalzando sempre più «Lo conosci?»
«È impossibile non conoscersi a Mali e a Veli, si chiama Dinko...»
«Dinko?» ripeté con un tuffo al cuore.
«Sì, perché, ti dice qualcosa?» Goran era rimasto molto sorpreso dal suo
tono e per un attimo rimase in silenzio osservandola.
«No, scusa, è solo che sono eccitata all'idea che possiamo ancora scoprire
qualcosa.»
L'aveva creduta? Si chiese perplessa, mentre aveva deciso d'istinto di non
dire che quello era un nome che le era famigliare. Era veramente l'ex
capitano di Andrej durante la guerra d'indipendenza croata? Questo sarebbe
stato un caso da manuale! Andrej era un reduce con chiari e seri problemi
psicologici e rispondeva agli ordini di qualcuno che aveva su di lui un forte
ascendente e un'autorità indiscutibile: chi meglio del suo ex superiore? Era
perfetto!
Quasi come se i suoi pensieri fossero stati espressi ad alta voce, Goran
continuò dandole conferma.
«Dinko era il suo capitano durante il conflitto e ho pensato che potesse
esserci un collegamento, visto che lui risponde sempre a degli ordini e non
fa mai nulla di propria iniziativa.»
Isabella pensò, mentre il suo fiato si faceva corto per l'emozione, che se il
suo cuore non smetteva di battere in quel modo dentro al petto, avrebbe
potuto avere una sincope: era proprio lui l'uomo indicatole da Armando, di
sicuro un mandante credibile, anche se il perché lo facesse ancora era
lontano dall’essere scoperto; ma Goran non aveva ancora finito di
sorprenderla.
«Ho paura, Isy, te lo ripeto. Sento che abbiamo poco tempo e che, se non
riusciamo a fare qualcosa, la situazione potrebbe ulteriormente degenerare.
Fermare Andrej non porterebbe lontano, bisogna arrivare alla testa del
serpente e decapitarlo! Allora ho avuto un'idea: ho chiesto a Sonija di farmi
un piacere. Le ho dato un mini registratore nel quale può incidere le
telefonate che secondo lei non hanno nulla a che vedere con il lavoro di
direttore delle poste, tanto ascolta sempre tutto, dice, perché si annoia.»
«Goran, sei un genio, e quando comincerà?»
«Stasera mi darà il primo nastro, passerà da me verso le nove. Vuoi che
dopo venga da te e lo ascoltiamo insieme?»
«Ti aspetterò, non importa l'ora, non andrò a dormire fino a che non ti
vedrò.»
Così si salutarono e presero ognuno la propria strada: Goran andò verso
casa, mentre Isabella entrò da Timi Beach a riprendersi la borsa da spiaggia
e l'asciugamano che aveva lasciato sulla sdraio.
Entrando nello stabilimento, ebbe nuovamente la sgradevole sensazione di
essere spiata da qualcuno nella pineta. Si girò di scatto: nessuno.
“Sto diventando paranoica!” pensò.
Si fermò un attimo a guardare il mare dal muro fatiscente della struttura e,
affascinata da tanta bellezza decadente, si sedette sullo sgabellino in legno a
bere una birra per gustare l'inizio di un tramonto terso e dal color corallo
come le guance di un bimbo stanco che si adagiano sul morbido guanciale;
così il vespro si posava cautamente lungo la linea nera del monte Ossero e
ne sottolineava il suo netto profilo.
Guardando giù dalla parete, Isabella si beava a scrutare la vita sottomarina
attraverso l'acqua dai freddi riflessi vitrei che si lasciava esplorare fino al
fondale dove una salpa a righe grigie e gialle brucava le alghe abbarbicate
alle rocce color bronzo. Improvvisamente, un'ombra scura e fulminea
scivolò sopra al pesce e un metro più in là, in un batter d'occhio, apparve un
cormorano quasi si fosse materializzato dalla sottile pellicola della
superficie del mare.
L'uccello aveva nel becco la povera salpa e in un attimo, con un elegante
movimento del lungo collo affusolato, lo fece scivolare giù direttamente in
gola con la facilità di uno spadaccino che ripone la sua spada nella guaina
appesa alla cintura in vita.
“Mors tua, vita mea” pensò Isabella compatendo il povero pesce sparito nel
buio interno del suo predatore.
Decise quindi che era tempo di andarsene: prese la borsa da spiaggia e uscì
per andare dal macellaio, come aveva promesso a Sergio.
Capitolo 25
La voce
La sera passò tranquilla, con Sergio che discorreva allegramente,
intercalando ogni tanto un abbraccio da dietro, un bacio sul collo, o più
semplicemente gesti di tenerezza: sì, il loro rapporto stava proprio
cambiando, aveva acquistato quel pizzico di complicità che prima mancava
e che ora avrebbe svelato all'osservatore una indubbia intimità.
Sergio non aveva riparlato della mattina prima, quasi avesse paura di
sentirsi dire che era stato un gioco, un momento di debolezza o, peggio, un
errore. E così, con i suoi gesti continui di affetto o con il fugace contatto
fisico ricco di vibrante desiderio, sembrava rinfrancarsi sentendo che la sua
amata lo ricambiava con il medesimo trasporto.
Finita la serata, davanti a una Pelinkovac con ghiaccio e fettina di limone, i
due amanti stavano discorrendo allegramente; a un certo punto Sergio si
alzò e disse:
«Adesso stai qui, non muoverti, ho qualcosa per te!»
Isabella rimase seduta immobile, eccitata dalla sorpresa misteriosa che stava
per arrivare. Cosa poteva essere? In fondo non conosceva Sergio sotto la
veste di fidanzato e quindi si stava immaginando di tutto: dai fiori, a una
poesia, forse un semplice souvenir preso ai banchetti che avrebbe però avuto
un sapore semplice e romantico com’era lui.
“Non è che adesso arriva con qualche schifosissimo verme spillato, una vera
rarità che darebbe solo al suo vero amore?” pensò a un certo punto tra il
divertito e il disgustato, conoscendo molto bene con chi aveva a che fare.
«Eccomi qui, guarda.»
L'entomologo si era fermato alle sue spalle e Isabella, pregustando una
tenera sorpresa senza aspettarsi nulla di particolare, si girò lentamente, ma,
appena vide di che cosa si trattava, rimase gelata con un'espressione tra lo
stupito e il deluso.
«E cosa mai sarebbe quella roba?» gli chiese senza nascondere la sua
contrarietà. Il fidanzato era fermo in piedi davanti a lei con indosso delle
cuffie avvolgenti e di dimensioni vistose per ascoltare chissà che; a tracolla
portava una specie di scatola metallica con vari bottoni e levette dal
carattere quasi artigianale. Dal lato della cassetta partiva un cavo al quale
era attaccato una sorta di microfono che non aveva la classica forma a cono
gelato, ma sembrava piuttosto un lungo cilindro che però, a livello della
mano, aveva una strana lamina in metallo a guisa di parabola con la
concavità rivolta verso il microfono stesso.
«Ma che caspita sarebbe quella roba lì?» chiese non capendo a cosa potesse
servire e, soprattutto, dove stesse la sorpresa.
«È meraviglioso, vero? È un microfono omnidirezionale parabolico per
ascoltare e registrare il verso degli insetti.»
Isabella sbarrò gli occhi incredula, capì subito che non stava scherzando:
cosa fare?
Far finta di essere entusiasta anche lei per l'incredibile sorpresa, o dirgli che
adesso non aveva più dubbi sul motivo per cui un uomo tanto bello e
intelligente non avesse mai avuto una storia sentimentale durevole!
Sentì dentro di sé crescere quasi con prepotenza un sentimento di tenerezza
verso quel ragazzo privo di sovrastrutture superflue, di conformismi fatti per
persone che si fermano alle apparenze, così distante dai cliché dell'uomo che
deve conquistare la propria donna mostrandosi a seconda della situazione un
vero macho, oppure galante e affettato per convenzione. No, lui proprio no:
la sua anima era in quell'aggeggio che voleva mostrarle come un dono
prezioso, perché lei avrebbe capito e condiviso la sua gioia, perché loro
erano speciali insieme, unici.
E così Isabella si fece spiegare quanto fosse interessante direzionare quel
lungo tubo per captare il canto di una Tettigonia viridissima6 mentre zilla
alla ricerca di compagne, escludendo ogni disturbo grazie alla parabola di
cui era dotato, oppure catturare il frinire dei grilli per poi poter calcolare la
temperatura dell'aria:
«Pensa, misuriamo con attenzione il numero degli stridii emessi dal grillo in
otto secondi, poi aggiungiamo quattro e avremo l'esatta temperatura del
posto in cui ci troviamo. Il grillo per questa sua caratteristica è conosciuto
proprio con la definizione di termometro dei poveri.»
E ancora parole, parole e parole scientifiche, sconosciute, incomprensibili,
ma belle, le più romantiche che avesse mai sentito prima di allora.
6 La comune cavalletta verde brillante.
«Permesso. Scusate se vi disturbo. Sono arrivato come d'accordo» li
interruppe Goran mentre varcava la soglia.
Isabella, che si era del tutto distratta e non si ricordava dell'appuntamento
importantissimo con il sub, subito realizzò quanto aveva dimenticato e
felicissima per la curiosità, gli andò incontro; comprendendo la sua
impazienza, l'uomo le fece vedere di nascosto da Sergio un minuscolo
registratore digitale vocale.
«Buonanotte a tutti» fu l'unica frase ruvida che uscì di bocca all'entomologo,
mentre Goran si stava sedendo invitato a farlo da Isabella, la quale fece
spallucce con un certo imbarazzo per l'ennesima dimostrazione di
insofferenza del suo ragazzo per il sub croato.
Appena soli, Goran illustrò tutto quello che Sonija gli aveva detto, in
particolare del fatto che quella chiamata, che aveva registrato proprio nel
pomeriggio, proveniva dall'estero ed erano più volte che la medesima voce
si rivolgeva alla segretaria pretendendo di parlare con il direttore, senza dire
il proprio nome nemmeno se sollecitato a farlo.
«Questo è un ottimo inizio. Avrei bisogno di sentire cosa si dicono, ma non
ho il registratore.»
«Per quello non ci sono problemi, ho già passato la registrazione in formato
MP3, solo che devo andare a casa a restituire l'apparecchio. C'è Sonija che
mi aspetta per riaverlo. Posso spedirtelo via mail, così puoi ascoltarlo con
calma.»
«Ottimo. Aspetterò di riceverlo stasera stessa, mi raccomando.»
Poco dopo il sub uscì e Isabella finì di mettere in ordine con calma la
cucina, sapendo che non sarebbe andata a dormire fino a che non avrebbe
ricevuto l'allegato vocale.
Quando salì al piano superiore, andò a sbirciare Sergio per assicurarsi che
stesse dormendo: l'amico chiuse gli occhi in quel momento.
Rassicurata di potersi muovere con libertà, si fece una doccia e subito dopo
andò al computer a controllare le mail: arrivata!
Si mise le cuffiette e… impossibile! La conversazione era incomprensibile,
prima parlavano in croato e poi in inglese: che fare? L'unica cosa era spedire
il tutto ad Armando, aspettare che Gabrijel traducesse e poi insieme ne
avrebbero tratte le valutazioni del caso. Farlo tradurre a Goran, per poi
spedirlo ad Armando per cercare collegamenti con gli omicidi, era un
passaggio in più e il tempo stringeva. E se Gabrijel non fosse stato
disponibile perché ancora occupato con l’antidroga? Di certo, pensò, c'era
un altro traduttore per quella lingua nella polizia italiana, visto il numero
non indifferente di croati che lavoravano in Italia e non sempre provvisti di
permesso di soggiorno.
Gli scrisse velocemente una mail spiegando tutto quello che era accaduto in
quella intensa giornata, la inviò e poi chiuse il portatile per andare
finalmente a dormire.
Capitolo 26
Il mandante
Dinko era arrivato in anticipo nel suo ufficio alle poste di Mali, aveva
sistemato la scrivania e stava prendendo tutti i fascicoli da riordinare in
giornata, al fine di riuscire a controllare il suo nervosismo occupandosi per
il momento del quotidiano. Quella mattina stava aspettando Andrej con
grande apprensione, poiché tutto il progetto al quale stava lavorando da
mesi rischiava ora di andare a monte a causa di quell'odioso imprevisto che
il capitano non era riuscito a controllare a Ilovik. Non potevano permettersi
altri errori, avevano solo una settimana di tempo affinché tutto andasse
come doveva andare e se Andrej non eliminava in qualche modo quella
stupida quanto inopportuna testimone, rischiavano di perdere l'affare che li
avrebbe messi a posto per il resto della loro vita e, quel che era ancora più
assurdo, potevano anche essere accusati di omicidio. Dinko conosceva
Andrej dai tempi della guerra e sapeva che neanche sotto tortura l'avrebbe
tradito; si rendeva conto però che una situazione che sfugge al controllo,
può evolvere in modi inaspettati e perciò pericolosi e magari, se quella
stronza fosse arrivata a raccontare dell'omicidio, sarebbero riusciti a risalire
a lui.
In realtà dalla guerra Andrej non era mai tornato e Dinko approfittava di
questo particolare stato psicologico del capitano, utilizzandolo per i suoi fini
decisamente illeciti.
Si erano conosciuti durante il conflitto tra la Croazia e la ex Jugoslavia:
Dinko era capitano di fanteria e Andrej era il suo vice comandante. Dinko
capì la totale dedizione del sottoposto il giorno in cui si trovarono da soli al
convento francescano nei pressi di Vukovar, durante la ritirata dell'esercito
croato nel novembre del 1991, prima dell'entrata degli irregolari. Avevano
avuto notizia certa dell'arrivo degli uomini di Zeliko Raznatovic detto
Arkan, comandante della guardia volontaria serba con un seguito di varia
umanità attirata dall'illegalità e dalle "voci" sulla possibilità di arricchirsi
con il saccheggio. L'esercito croato era impegnato in una ritirata disperata
insieme ai civili che riuscivano a unirsi a loro e Dinko aveva scelto di
mandare avanti il battaglione per la città, ma con l'ordine che, appena
fossero giunti in periferia, si sparpagliassero per dare l'opportunità al
maggior numero di persone possibili di salvarsi. Lui invece aveva scelto di
restare indietro solo con Andrej per controllare il passaggio a ovest.
Mentre tornavano verso le postazioni, sicuri ormai di essere sfuggiti
all'eccidio, Dinko aveva portato dentro al convento abbandonato una
ragazzina serba di appena quindici anni che aveva avuto la sfortuna di
trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato e, dopo averla violentata,
se n'era andato lasciandola malconcia ma viva.
Il suo vice non aveva partecipato allo stupro ed era rimasto fuori dalla porta
divelta a controllare che nessuno fosse nelle vicinanze.
Andrej si trattenne qualche minuto in più dentro lo stabile e poi raggiunse
velocemente il suo capitano che si era già incamminato verso la salvezza.
Vedendolo arrivare di corsa, non gli chiese niente riguardo a quello che
aveva fatto in quel breve frangente, cioè dopo che lui se n'era uscito da quel
luogo diroccato e desolato, nemmeno a proposito di quel colpo di pistola
che aveva sentito esplodere.
In fondo non gli interessava nulla.
Alla fine della guerra entrambi ricevettero la medaglia all'onore per aver
permesso a un cospicuo numero di civili e soldati di salvarsi appena in
tempo dalla strage di Vukovar.
Dopo due mesi dal congedo avevano riconosciuto ad Andrej la sindrome del
soldato, meglio conosciuta come “sindrome del ritorno” e questa diagnosi
l'aveva salvato dal carcere sicuro, poiché una sera, durante una tranquilla
cena tra amici, aveva quasi ucciso a pugni e calci un barista che aveva
servito loro del vino, a dir suo, artefatto. Aveva così affrontato sei mesi di
terapia, prima in ospedale psichiatrico a Fiume poi, per altri due, era passato
alla terapia di gruppo coatta. Ne era uscito pulito come un bambino: i
medici lo avevano dichiarato non solo perfettamente guarito, ma addirittura
adatto a riassumere il lavoro che faceva prima, cioè la guardia costiera.
Andrej si fidava di pochissime persone e soprattutto aveva l'abitudine di
pensare che meno gente fosse a conoscenza della situazione in cui era
coinvolto, meglio era per tutti; inoltre, lui si accompagnava con uomini
fidati e alquanto stupidi e crudeli, delle vere belve al pari di cani addestrati
per le arene, feroci senza uguali, ma legati al loro padrone
incondizionatamente e incapaci di chiedersi il perché di certe azioni. Ma uno
zelante investigatore poteva arrivare a lui in qualche modo e l'unica
soluzione era eliminare la ragazza il più presto possibile e farlo passare per
un incidente o chissà cos'altro.
Alle otto e un quarto in punto arrivò Andrej con il solito passo felpato con il
quale ogni volta lo prendeva di sorpresa: Dinko non voleva sembrare
impaziente e per alcuni minuti lo lasciò sulla porta ad aspettare mentre
sbrigava una inutile pratica sui vaglia postali.
Poi si alzò dalla scrivania, si diresse verso Andrej, e parlando in croato gli
disse:
«Usciamo che mi voglio fumare una cicca.»
Andarono insieme nel corridoio per dirigersi nel terrazzino poco distante
dalla porta del suo ufficio. Dinko si accese una sigaretta senza emettere una
sillaba e poi ne inspirò due boccate a pieni polmoni per trovare un po' di
calma, sperando in qualche buona notizia da parte del suo sicario. Alla fine,
con tranquillità misurata, gli rivolse la fatidica domanda, l'unica che doveva
fargli:
«E allora?»
Dinko decise al momento che era preferibile usare solo poche parole da
rivolgere ad Andrej, guardandolo dritto negli occhi, nel tentativo di evitare
fraintendimenti da parte di quest'ultimo, poiché potevano essere
controproducenti nel loro rapporto di collaborazione. Non sarebbe stato utile
attaccarlo per gli errori fatti, Andrej aveva una personalità criptica e Dinko
temeva sempre di poter perdere il controllo di un individuo così pericoloso;
ma, nonostante la ferma ricerca di condurre la situazione, fece trasparire
ugualmente una vena di preoccupazione dalla voce. Andrej rispose con una
flemma esasperante.
«Stamattina l'abbiamo trovata, è qui a Veli come avevamo sospettato, non
abbiamo ancora il nome ma è questione di poco.»
Andrej parlava senza alcuna emozione nel tono e sembrava, estremamente
tranquillo e sicuro di sé.
Dinko non riusciva a trattenere l'impazienza e si muoveva nervosamente nel
terrazzino; buttò a terra il filtro ormai giallo dalla nicotina e mezzo bruciato,
lo pestò per spegnerlo girando troppe volte il piede, quasi a volerlo far
passare attraverso le piastrelle del balcone e subito si accese un'altra
sigaretta.
Ancora due boccate inspirate con avidità e poi si decise a parlare:
«Non abbiamo più tempo, la settimana prossima ci sarà l'asta e i clienti non
faranno mai l'affare se ci sono complicazioni. Potrebbero chiamare anche
oggi e non saprei cosa dire, non posso rassicurarli. Sanno che abbiamo
eliminato i Mayer come richiesto, ma senza la testimone fuori gioco non
usciranno mai allo scoperto e noi ci troveremo con due omicidi e nient'altro
in mano. Nessun errore, mi raccomando. Ma perché non l'avete fermata se
l'avete vista?»
Dinko trovava strano che Andrej potesse essersela fatta scappare di nuovo.
Questa volta non aveva assolutamente idea di come fossero andate le cose,
perché non era abituato a vedere il capitano fallire due volte di seguito.
«Non l'ho capito nemmeno io; è sparita anche stavolta, probabilmente
perché abbiamo tentato di inseguirla, ma è troppo veloce anche per i miei
uomini. La ragazza è svelta ed abituata alle lunghe distanze, probabilmente
è una maratoneta. I miei uomini sono diventati troppo pesanti, sono poco
allenati e sempre carichi di divisa e armi. La prossima volta l'aspettiamo,
non le corriamo dietro, non faremo per la terza volta lo stesso errore.
Ormai conosciamo sia i luoghi dove va ad allenarsi, sia gli orari. Basta solo
aver pazienza e cadrà tra le nostre braccia come una mosca nella tela di un
ragno!»
Andrej rispondeva con la lucidità propria di un osservatore distaccato e
analitico.
Dinko aveva voglia di continuare a tampinare il complice con tutte le
questioni che rimanevano ancora in sospeso e che erano di fondamentale
importanza per portare a compimento il suo vile progetto e aveva paura che,
se avessero perso troppo tempo dietro alla sfuggevole maratoneta, si sarebbe
potuta vanificare tutta la fatica che avevano investito fino ad allora. Doveva
chiudere quella faccenda definitivamente, per potersi concentrare sul resto.
«Per la villa della Vidulich meglio se aspettiamo, vale meno se la vecchia è
dentro, quella della Jancho nessuno la vuole a causa della voce che c'è il suo
fantasma dentro, ma bisognerà pensare a cosa fare con Goran, quello non è
facile da eliminare.»
Dinko lo guardò ancora una volta fisso negli occhi; sapeva benissimo cosa
pensava il capitano dell'eliminazione del sub e sentiva la rabbia salirgli
dentro mentre aspettava la risposta che già conosceva.
«Goran non si tocca. È tutto?»
Chiese Andrej rispondendo con voce glaciale e guardandolo a sua volta
dritto in viso con atteggiamento altero, tanto da fargli distogliere lo sguardo.
Dinko scosse la testa e diede un calcio a un immaginario fantoccio a terra:
con lui non si ragionava, aveva dei principi a dir poco ridicoli. Come poteva
preoccuparsi di un essere insignificante come Goran, quando in palio c'era
la loro futura tranquillità economica?
«Non capisco come tu possa fidarti di quell'uomo. Prima o poi ti tradirà e
porterà giù anche me…»
Rispose Dinko con una nota di rabbia parzialmente repressa, sapendo
quanto importante fosse Andrej per il suo progetto e anche quanto fosse un
uomo pericoloso per lui stesso.
«È tutto?» chiese di nuovo il comandante con tono fermo.
«Sì» rispose arrendendosi per il momento e accontentandosi delle risposte
ricevute.
Andrej batté i tacchi, fece il saluto militare e Dinko non poté non
rabbrividire pensando al complice che ancora lo salutava come se fosse il
suo comandante in guerra.
«Chissà se ne uscirà mai!» si domandò.
Ma in fondo anche di questo non gli importava nulla.
Alle 11 in punto suonò il telefono e Dinko, con un profondo respiro, tirò su
la cornetta; era Sonjia la segretaria che aveva in linea una telefonata
dall'estero:
«Direttore, una chiamata urgente per lei.»
«Passamela.» Dinko prese a parlare in inglese. «Pronto?»
«Confermata l'asta di venerdì prossimo?»
«Tutto confermato, non ci dovrebbero essere molti acquirenti, abbiamo
cercato di non fare pubblicità. Per l'ospedale siamo tranquilli, si parte da 400
mila euro, ma pochissime persone hanno la disponibilità per superare il
milione e quindi possiamo salire fino a poco di più, anche se è stato valutato
un milione e mezzo ed è oltretutto, come sappiamo, fortemente
sottostimato.»
«E per le tre case?» chiese la misteriosa voce dall'altra parte. Dinko temeva
quella domanda, ma non poteva certo non rispondere, l'interlocutore non
ammetteva di tergiversare e lo sapeva.
«Due sono praticamente già nostre, nessuno vuole spendere per delle case
con inquilini dentro o infestate dai fantasmi! La gente è più superstiziosa di
quanto si possa immaginare» rispose quasi sottovoce nella speranza che
sfuggisse quel due invece di tre.
«E la terza invece?» chiese calma la voce dall'altra parte del filo, che non si
lasciava di certo confondere con delle mezze risposte.
«La terza non riusciamo a liberarla una volta acquistata, secondo me è
meglio rinunciarvi.»
Dinko rispose con un ennesimo profondo sospiro, maledicendo mentalmente
Andrej e tutte le sue remore.
«No, non è possibile! Come otteniate le case non mi interessa, ma l'accordo
era per il pacchetto completo. Mi faccia sapere entro tre giorni se vuole o no
concludere l'operazione; se trovate una soluzione entro tale data, bene,
altrimenti non procederò con la transazione.»
La voce all'altro capo del telefono non sembrava minimamente interessata
alle difficoltà che Dinko doveva affrontare per arrivare con tutte le carte a
posto all'asta, e poi lui stesso non capiva perché mai quella casa fosse così
importante: non bastavano le altre due e l'ospedale? Una cosa comunque era
certa: non voleva rinunciare all'affare della sua vita, proprio adesso che era
alla conclusione e che ci aveva investito anche con due omicidi. Al direttore
delle poste non interessava che la persona in questione fosse Goran o un
qualsiasi altro testimone: in qualche modo avrebbe chiuso quella partita.
«Ci penserò personalmente, non si preoccupi. Ci aggiorniamo per la clinica
quando abbiamo risolto il problema più urgente; per le case bisognerà
aspettare la fine dell'asta, come ho detto, con gli inquilini dentro valgono
molto meno. Adesso mettiamo a posto la testimone del…» ma fu interrotto
immediatamente.
«Non voglio sentire nulla né su cosa né su come conduciate le vostre
faccende, soprattutto per telefono; mi interessano i risultati e basta. Ci
sentiamo tra tre giorni, ma solo se avrete messo a posto i vostri pasticci, e
poi procederemo con il resto. Arrivederci!»
E senza permettergli di aggiungere altro, la voce aveva chiuso la telefonata,
lasciando Dinko in uno stato ansioso, non sapendo come portare a termine
tutta la questione che sembrava sgusciargli dal suo controllo come fa un
viscido e freddo orbettino dalle mani di un bimbo inesperto.
Capitolo 27
Passato e presente
Dinko non aveva la più pallida idea di chi ci fosse dietro a quella voce
misteriosa, ma una cosa l'aveva capita fin da subito: quell'uomo non era di
lingua inglese. Gli slavi, si sa, sono molto bravi con gli idiomi e, oltre a
impararli con grande spontaneità, ne capiscono facilmente anche le
inflessioni che tradiscono il paese di origine di chi sta parlando. Secondo lui
il suo committente doveva essere europeo, probabilmente tedesco o
austriaco o svizzero o chissà che altro, ma non certamente un uomo con
provenienza linguistica neolatina, quindi escludeva Francia, Italia e Spagna.
Riteneva possibili invece tutti i paesi dell'Est, o anche la stessa Russia, ma
era più propenso a scommettere sulla lingua germanica, quindi il tedesco, il
danese, il norvegese e lo svedese.
Era stato contattato tramite mail fin dalla prima volta e l'interlocutore aveva
esordito facendogli chiaramente capire che sapeva con chi stesse trattando:
nessun errore quindi, e gli proponeva un'operazione molto interessante.
All'inizio non ci aveva dato molto peso, in fondo di sedicenti affaristi che
vogliono generosamente farti partecipe delle loro irripetibili opportunità per
diventare ricchi ne è pieno il mondo virtuale; ma questo era diverso.
Gli aveva fatto sapere che conosceva il suo passato come militare e in
particolare anche alcuni trascorsi della guerra, in realtà poco edificanti, dove
Dinko si era per così dire distinto per aver risolto situazioni altrimenti
insolubili.
Quando poi la misteriosa persona gli aveva fatto avere i saluti da Marko e
Divan, a Dinko era venuta la pelle d'oca. Subito pensò che stesse per essere
vittima di un ricatto: chi mai poteva essere a conoscenza di quella vecchia
storia? Marko e Divan al tempo erano due militari di ventisette e ventinove
anni ed erano stati arruolati dall'esercito croato nel 1992. Erano due ragazzi
estremamente problematici, violenti e poco inclini ad accettare l'autorità,
qualunque essa fosse. Si divertivano durante le libere uscite a fare piccole
incursioni nelle case dei serbi che vivevano nell'isola e più di una volta
avevano creato dei momenti di forte tensione tra le due etnie, che invece
cercavano di mantenere una convivenza pacifica almeno in quel luogo. Ai
primi di marzo del 1993 arrivò la notizia che l'esercito popolare Jugoslavo
(che ormai era diventato l'esercito serbo) stava arrivando sull'isola.
Dinko venne contattato dai vertici militari e gli fu dato il compito di
risolvere la situazione, che rischiava di diventare troppo pericolosa, ma con
l'accortezza di non coinvolgere l'esercito croato. Fu un'operazione perfetta:
il 19 marzo, durante la solita libera uscita dei due ragazzi, ci fu un agguato
in piena notte alla baia di Cikat.
I cadaveri di Marko e Divan furono ritrovati la mattina dopo e tutti
pensarono che fossero stati i soldati serbi, approdati sull'isola appena due
giorni prima.
Dopo quella missione condotta con precisione chirurgica, a Dinko furono
affidate altre missioni delicate che richiedevano la rara capacità di non
lasciare alcuna traccia.
Come potesse quell'uomo misterioso essere a conoscenza di queste vecchie
vicende proprio non riusciva a capirlo.
Così Dinko, preoccupato che l'affare fosse una trappola, aveva cominciato a
cercare di scoprire la provenienza delle misteriose mail.
Niente da fare: arrivavano sempre da luoghi diversi e soprattutto da stati
diversi e partivano da degli anonimi Internet caffè; impossibile risalire alla
persona. Dinko non capiva come la voce potesse contattarlo da Parigi,
Vienna, Ginevra, Monaco di Baviera, Venezia e persino Cres: era arrivato
alla deduzione che doveva esserci più di una persona dietro e che qualcuno
era anche un suo conoscente; ma non trovava mai un filo conduttore logico
che potesse portarlo a una conclusione certa. Quando arrivò la mail con la
proposta, Dinko decise di far finta di accettare: cinquantamila euro in
anticipo per risolvere il problema dei coniugi Mayer, più duecentomila
appena il fatto fosse stato compiuto. E non si poteva dire che la voce non
fosse di parola!
Aperto il conto in Svizzera, gli accrediti furono immediati: il giorno stesso
in cui Dinko aveva accettato arrivò la prima tranche e lo stesso successe alla
morte dei medici austriaci. E una volta ricevuti i primi cinquantamila euro,
Dinko non ebbe più paura né che fosse una trappola, né tantomeno un
ricatto.
Perfetto! Adesso però la situazione si stava complicando: i problemi legati
all'acquisizione degli immobili non erano pochi e in più Andrej lo stava
obbligando a entrare direttamente in azione, cosa alquanto pericolosa: ma
aveva scelta?
Cominciò a pensare a qualche soluzione per la terza casa: la questione non
era facilmente risolvibile poiché Goran era amico di Andrej e questi avrebbe
di sicuro capito che c'era lui dietro a un'eventuale sua sparizione. Diversa
era invece la faccenda delle altre due villette fatiscenti fronte mare. La
vedova Jancho era stata eliminata senza difficoltà.
Con la vecchia signorina Vidulich, di ormai novant'anni, sarebbe stato
ancora più facile: aveva la stufa a legna in sala da pranzo dove dormiva per
non fare le scale e, si sa, facilmente quelle vecchie ferraglie prendono fuoco
o liberano monossido di carbonio se qualche uccello per esempio fa il nido
proprio sulla canna fumaria. Ma Goran? Non era un vecchio, ma un uomo
ancora nel pieno della sua forza fisica, un ex soldato, uno sportivo e, in più,
non era solo. Goran aveva una moglie, Suzana, con cui viveva e una figlia,
che aveva sposato uno sloveno e per questo adesso abitava in un paesino
sperso nella boscaglia nei pressi di Pirano. Anche se non risiedeva più
nell'isola, Ana, così si chiamava la ragazza, si sarebbe fatta certamente delle
domande in caso di un fatale incidente del padre. E poi, cosa mai legava
Goran ad Andrej a tal punto da essere difeso da questi a costo di mandare
all'aria un progetto così ben organizzato? Cosa poteva unirli tanto? A Dinko
sfuggiva il vero ruolo di Goran in quella storia.
In più, grazie anche al fatto che era l'unico sub di Veli, era molto conosciuto
e stimato in paese. Privato dell'aiuto di Andrej, Dinko non sapeva proprio
come riuscire a eliminarlo senza creare sospetti.
Andrej purtroppo non era avido: anche per il lavoro che stava svolgendo per
il lucroso affare della clinica, non voleva denaro; desiderava solamente una
casetta, più che altro un ricovero per le capre, che Dinko aveva avuto in
eredità da una vecchia zia senza figli.
Non aveva nulla di speciale se non fosse per il fatto che comprendeva anche
un fazzoletto di terra proprio sul mare con accesso privato e in più per
arrivarci bisognava percorrere una mulattiera sempre facente parte della
proprietà. Andrej voleva ristrutturarla, ovviamente ingrandirla e andarci a
vivere quando fosse arrivato alla pensione; avrebbe avuto il suo piccolo
approdo privato e un peschereccio parcheggiato lì, pronto a sciogliere gli
ormeggi verso lidi lontani appena ne avesse avuto voglia.
Che strano uomo, pieno di contraddizioni, pensò: capace di azioni di
crudeltà indicibile che compiva con una freddezza che faceva venire i
brividi anche a un assassino; allo stesso tempo invece sembrava desiderare
solo una vecchiaia tranquilla e senza comodità, per godersi finalmente la
bellezza di una vita piena di poesia, dimostrando in questo una sensibilità
quasi da donna. Bah! In fondo il vero compenso per Andrej e le belve dei
suoi soldati era la violenza pura e semplice, fine a se stessa, schiavi
com'erano della nostalgia del potere di vita e di morte sugli uomini che
avevano assaporato durante la guerra.
Anche lui aveva provato la sensazione quasi di onnipotenza davanti agli
occhi imploranti di uno sfortunato soldato che gli aveva sparato per primo
con un meraviglioso AK-47 scarico.
Dinko, a sua volta, aveva tirato fuori con lentezza misurata la pistola di
ordinanza, l'aveva caricata a poca distanza dagli occhi del ragazzo, il quale,
senza vie d'uscita, veniva pervaso progressivamente da un terrore
indescrivibile che gli traspariva dalla pupilla contratta a punta di spillo e dal
pallore terreo del viso.
Poi il capitano croato aveva aspettato di vedere fino a che punto il panico
potesse aumentare e alla fine, dopo aver indossato un sorriso soddisfatto che
esprimeva senza alcun dubbio la sua intenzione, gli aveva sparato in fronte.
Bellissimo quel Kalashnikov che faceva mostra di sé sulla cappa del camino
in taverna! Ma Dinko non uccideva se non ne aveva un tornaconto
personale, mai, anche se ricordava bene quanto fosse stata esaltante
quell'adrenalina che gli si sprigionava dentro mentre assaporava la
consapevolezza di essere l'unico con il diritto di togliere la vita a un uomo
implorante, o di lasciargliela: eh sì, Dio doveva provare ogni volta la stessa
emozione.
Adesso aveva ancora qualche giorno per escogitare un piano: ma perché non
fare in modo che Andrej pensasse che Goran l'aveva imbrogliato? Così non
avrebbe più fatto tante storie per eliminarlo. Sì, pensò, quella era la strada
giusta, l'unica percorribile per avere un risultato sicuro e senza rischi. E con
quel progetto che doveva ora affinare, riprese quasi sollevato il lavoro sui
fascicoli che ancora gli occupavano quasi tutta la scrivania e si accorse che
stava fischiettando.
Capitolo 28
Erika
Erika era felice, quel pomeriggio sarebbe arrivato Peter, il suo fidanzato,
dalla Danimarca. Vivere in quel paese era difficile, soprattutto a causa della
vicinanza con il circolo polare artico, che portava il sole a essere sempre
molto basso all'orizzonte e d'inverno si trovavano a trascorrere quasi sei
mesi di deprimente crepuscolo che, anche se non era proprio la notte artica,
non era poi così differente. Guardandosi allo specchio, si fece una crocchia
con i capelli per poter andare a correre senza il fastidio di averli negli occhi,
poi mise l'iPod, nel taschino dietro ai suoi pantaloncini rosa e infine chiuse
la zip. Lasciò uscire il filo delle cuffiette da un lato, lo fece quindi passare
sotto alla canottierina al fine di non impigliarcisi con il gomito, sapendo che
avrebbe corso veloce, e lo fece uscire giusto al centro tra i due seni per
poterlo agganciare comodamente alle orecchie.
Erika non era certo una ragazza vanitosa, ma quella mattina si scrutava
davanti allo specchio pensando all'effetto che avrebbe fatto su Peter.
Nonostante i capelli tiratissimi all'indietro, il suo viso si presentava con
lineamenti delicati dove il piccolo naso leggermente all'insù faceva da
padrone.
Gli occhi erano grandi e di una particolare tonalità tra il verde acqua e
l'azzurro che tendeva quasi al viola; ma la loro bellezza stava nello sguardo
profondo e intelligente, sottolineato dalla grande espressività delle
sopracciglia molto mobili che si arcuavano in modo asimmetrico per dare
enfasi a quello che diceva e soprattutto a quello che espressamente non
esplicitava a parole.
La sua bocca invece era decisamente troppo grande, soprattutto quando
rideva, ma a Peter piaceva tanto perché gli dava l'idea che fosse la
caratteristica peculiare delle persone sincere e solari.
Ecco, ora era pronta per il percorso che si era studiata il giorno prima
andando a prendere il sole: sarebbe partita da casa in discesa verso il
parcheggio più alto di Veli, avrebbe proseguito fino al secondo parcheggio
più in basso e poi avrebbe girato verso la chiesa di Santa Maria per prendere
la strada lastricata di pietra bianca che portava al bel porticciolo. Da lì, dopo
aver attraversato la piccola piazza, sarebbe risalita verso l'hotel Punta e poi
giù per il lungomare verso la Val Scura prima e la Valdarke dopo, fino a
Mali, e alla fine avrebbe fatto ritorno per la stessa strada. Il percorso doveva
essere lungo più o meno nove chilometri, una distanza ottima per una brava
mezzofondista come lei, abituata a fare i dieci chilometri alla media di 4:40
min/km.
Guardò l'ora, le cinque in punto: la mattina si apriva con una meravigliosa
luce dorata ed Erika si sentiva in forze.
Chiusa la porta e messa la chiave nel posto più impensabile, cioè sotto lo
zerbino, scattò via veloce e, come la brezza del mattino, sentiva riflessa
sulla sua pelle candida l'intensa luce del sole nascente che pian piano
l'avvolgeva in un'atmosfera aurea di polveri sottili: un piacere raro per lei.
La musica suonava forte nelle sue orecchie e i suoi pensieri erano lontani
dallo stress che aveva accumulato durante l'inverno: c'era solo lei con la sua
corsa e l'isola che la chiamava.
La strada era silenziosa, le cicale non avevano ancora iniziato a cantare ed
Erika assaporava tutta la bellezza della natura in assoluta solitudine; nessuno
si era alzato, solo un grosso e vecchio cane meticcio le aveva stancamente
attraversato la strada quasi senza accorgersi della sua presenza. Superato il
porto sonnacchioso di barche che beccheggiavano sommessamente, adesso
Erika si apprestava a iniziare la salita tra le bancarelle chiuse che vendevano
vari articoli da mare; dopo un'ampia curva il piano preannunciava
l'imminente discesa verso l'agognato lungo mare in mezzo alla pineta
secolare che rendeva Veli così particolare e selvaggia.
Stava percorrendo con grande velocità lo stretto sentiero proprio di fronte al
sole che si era alzato fino all'altezza degli occhi, quando improvvisamente si
sentì afferrare per un braccio e, senza nemmeno il tempo per razionalizzare
cosa stesse succedendo, sentì il suo viso colpire con un urto tremendo il
grosso tronco di un pino.
Rintronata e sbalzata all'indietro per il contraccolpo, finì a terra
arrotolandosi sul suo stesso braccio; ancora incredula e senza capire nulla,
vide che era trattenuta saldamente da un uomo vestito con una qualche
divisa che non conosceva.
Non ebbe nemmeno lo spazio per chiedersi cosa mai stesse succedendo, che
fu divorata da un dolore lancinante arrivatole come un macigno e reso
insopportabile dall'assurda compressione dell'uomo che le immobilizzava il
braccio e la spalla in una posizione innaturale.
A terra, con il braccio bloccato da quella morsa senza senso, in preda a una
sofferenza sempre più acuta e penetrante come se la clavicola e l'omero non
fossero più collegati se non con la sola carne, senza il fiato per riuscire a
dire qualcosa e con il sangue che aveva cominciato a uscirle copiosamente
dal naso, Erika riuscì a vedere solo che quell'uomo non era solo. Alzò lo
sguardo implorante proprio verso colui che l'aveva fatta rovinosamente
cadere a terra e vide che ora gli altri uomini lo avevano affiancato: parevano
tutti delle guardie, forse guardie costiere e sentiva, attutito dall'acufene che
le faceva fischiare in modo insopportabile le orecchie, che ridevano e
scherzavano come se fossero ubriachi e che parlavano in un'altra lingua,
probabilmente in croato.
Un quarto uomo, più vecchio e in disparte, guardava la scena come se la
cosa lo lasciasse del tutto indifferente e la ragazza, in preda allo sgomento
più assoluto che potesse mai immaginare di provare, cercò di richiamare la
sua attenzione sperando di vedere una qualche espressione di pietà per
quello che le stava capitando.
Inaspettatamente l'uomo che la teneva ferma per un braccio, la lasciò, giusto
il tempo per andare alle sue spalle e la ribloccò spingendola lunga distesa
sul suolo sassoso, ma stavolta la tenne usando entrambe le mani.
Erika non si ribellò a causa delle fitte, che già pensava insopportabili prima,
e che si acuirono ulteriormente per il peso che la guardia imprimeva su di
lei, incurante della pressione che apportava sulle ossa rotte e scomposte.
Nello stordimento e nel panico totale, trovando la situazione priva di senso e
senza individuare alcuna sua colpa che potesse giustificare tanta crudeltà da
parte di quegli sconosciuti, non si accorse subito che uno dei tre uomini
l'aveva afferrata per i fianchi e, infilate le mani dentro ai pantaloncini dalla
parte della vita, ora glieli stava violentemente sfilando.
L'orrore e lo schifo che sentì esplodere dentro appena se ne rese conto le
zittirono per un momento la sofferenza e con un colpo di reni, facendo
perno con tutta la forza che aveva su di una gamba e sulle spalle bloccate,
sferrò con l'altra un calcio sul viso dell'uomo.
Preso alla sprovvista, la guardia rovesciò con violenza la testa da un lato,
poiché il colpo subito era stato inferto con una forza inaspettata, soprattutto
per essere partito da una donna ferita. La rabbia che la ragazza gli vide
esplodere in volto fu veloce come il bagliore di una saetta: quell'uomo,
punto nel suo orgoglio e con lo sguardo pieno di disprezzo, le sferrò a sua
volta un pugno con la furia di chi non può accettare, soprattutto davanti ai
suoi compagni, di aver ricevuto un calcio da quel corpo senza nome né
importanza.
L'inaudita violenza del fendente portò l'articolazione della mascella a
staccarsi da un lato.
Tutto il dolore adesso si sommò a quello che già provava da prima e quando
lui le fu sopra e cominciò a violentarla, Erika non ebbe nemmeno la forza di
provare disgusto.
Alzatosi finalmente, ecco che il secondo le fu a sua volta sopra; il primo
soldato intanto, mentre si abbottonava i pantaloni, le si mise di lato e, non
ancora soddisfatto per il colpo ricevuto prima, dopo essersi massaggiato la
guancia livida, le sferrò un fortissimo calcio nelle costole che le tolse il
respiro, già difficile e faticoso da prima. Quando riuscì di nuovo e con
grande sforzo a dilatare la gabbia toracica, sentì salire dallo stomaco un
violento conato, nonostante fosse ancora bloccata per le spalle da uno degli
uomini e che ne avesse sopra un altro che a sua volta stava approfittando di
lei.
Erika non riuscì a controllare la contrazione del diaframma e così le uscì
dalla bocca uno sbuffo denso di sangue e saliva che andò a imbrattare la
maglia della guardia che le stava sopra in quel momento.
La violenza che suscitò questo suo pur irrefrenabile gesto divenne tale che
ciò che le fecero dopo non aveva più nulla di umanamente immaginabile; fu
travolta da colpi, calci e pugni che piovevano da ogni parte, così veloci e
crudeli da non riuscire nemmeno più a sentirne il dolore. Un attimo di
coscienza e si accorse che non era più in grado di girare la testa e ogni
muscolo del suo corpo era incapace anche del più piccolo movimento; la
sofferenza fisica era totalmente scomparsa e quello che ora anche il terzo
stava facendo con il suo corpo straziato, con il solo scopo di umiliarla, non
le apparteneva più.
Il suo viso era bloccato verso il mare e a stento riusciva ad aprire gli occhi:
uno era vistosamente gonfio, ma dalla stretta e lunga fessura tra le palpebre
tumefatte entrava la luce cristallina di un cielo turchino che non era
minimamente interrotto dalle nuvole.
L'altro occhio lasciava filtrare la luce attraverso un velo rosso cupo di
sangue che le appannava la vista; uno sforzo immenso ed ecco che gli occhi,
chiudendosi e riaprendosi a fatica, lasciavano ora a Erika la possibilità di
godere di quella vista meravigliosa che le infondeva una serenità crescente.
Un gabbiano bianchissimo con il suo verso ruvido che sapeva di mare,
tagliò l'azzurro davanti ai suoi occhi e lei si sentì bene: era pervasa da una
felicità intensa, quasi viscerale; si sentiva totalmente libera e con una gioia
dentro mai provata prima.
Improvvisamente le sembrò di volare insieme a quel gabbiano, si sentì
librare nell'aria trasparente resa luminosa dal sole e dopo un respiro
profondo, sentendo tutta la forza tornarle dentro, assaporò di nuovo il vento
e il profumo della libertà.
Non è qui tutto l'uomo;
vive altrove la divina favilla.
Capitolo 29
Ricomincia la caccia
Isabella si svegliò quasi di soprassalto essendosi ricordata nel dormiveglia
della mail che aveva spedito la sera prima ad Armando: aveva ascoltato la
registrazione? Aveva capito se la conversazione poteva essere legata in
qualche modo ai fatti di Ilovik e all'asta maledetta? Le domande erano tante,
ma nessuna avrebbe avuto risposta fino a che l'amico informatico non fosse
riuscito a tradurla.
Alzandosi, Isabella si accorse subito che Sergio non era nel suo letto: si
guardò intorno e non vide nemmeno l'attrezzatura per registrare che le aveva
mostrato appena qualche ora prima.
“Si vede che la mattina presto gli insetti hanno più cose da dirsi” pensò
divertita mentre si alzava e si dirigeva verso il portatile.
Scese le scale e andò a prepararsi un caffè sul tavolino in giardino: la pace
intorno le trasmetteva una serenità profonda. Decise che quel giorno lo
avrebbe impiegato a ragionare sugli eventi e a ricostruirli con tutti i dati che
aveva raccolto fino ad allora per cercare una storia credibile da sottoporre
alle autorità italiane una volta a casa e poter così intervenire su quelle
croate.
Aprì il portatile con poche speranze di trovarci una mail di risposta: in fondo
Armando poteva non aver ancora letto nulla, ma con un tuffo al cuore vide
che invece c'era un suo messaggio.
Carissima stellina,
la registrazione è abbastanza buona e posso risalire con certezza alla
persona che parla col direttore delle poste, ma solo se ho delle voci con cui
fare un confronto: trovami dei nomi di qualsiasi soggetto che potrebbe
essere collegato all'asta e a quel Dinko e, se c'è tra loro quello della
registrazione, te lo inchiodo col riconoscimento biometrico dell'identità
mediante l'elaborazione delle impronte vocali.
Non ho ancora la traduzione completa e scritta, ma solo quella parziale e
fatta a voce. Credo che la mia piccola investigatrice questa volta abbia
colto nel segno! Brava.
Mi raccomando, trova le informazioni e poi vai via: quello che si dicono
non è per nulla rassicurante.
Un abbraccio e a presto
Tuo Armando
Isabella era euforica: finalmente tutto l'orrore che aveva vissuto, la fatica e il
rischio che aveva corso avevano un perché, ora possedeva una
giustificazione per sé stessa per aver sopportato tutto ciò.
Si mise subito a cercare su Internet una qualche informazione che potesse
collegare gli omicidi dei Mayer all'ospedale e, dopo poche ricerche, forse
aveva trovato qualcosa: un vecchio articolo sul “Kleine Zeitung” di un anno
e mezzo prima trattava proprio della dottoressa Mayer e del suo intento di
riportare l'ospedale di Lussino agli antichi fasti.
Il giornalista scriveva soprattutto riguardo alla polemica con un sedicente
dottor Herbert Kluger, il quale contrastava fermamente il progetto perché
voleva invece far risorgere l'ospedale con una concezione nuova e più
moderna, cioè come una delle sue numerose cliniche sparse per l'Europa,
all'avanguardia sui problemi alimentari.
Il dottor Kluger, oltre a essere un medico dietologo, era anche un valido
imprenditore e vantava ben otto strutture di successo a Parigi, Vienna,
Ginevra, Zurigo, Monaco di Baviera, Bolzano, Milano e Barcellona. Le case
di cura volute dal dottor Kluger erano specializzate nel far ritrovare il peso
forma e la tonicità fisica “che non si possiedono più a causa dello stile di
vita sempre più sedentario e delle abitudini alimentari troppo ricche di
grassi animali idrogenati; lontani i sapori dei cibi genuini di una volta!”.
La ricetta del dottor Kluger era apparentemente semplice e accattivante:
attraverso una visita medica all'arrivo, lo specialista individuava i problemi
del paziente e gli costruiva una dieta personalizzata principalmente a base di
frutta, verdura, cereali e pesce e priva di carni rosse e latticini.
Le cliniche vantavano cuochi famosi capaci di unire l'arte culinaria più
ricercata, con la sana alimentazione. Il pacchetto standard di degenza era di
quindici giorni e al controllo della dieta e alla rieducazione alimentare si
associava anche un percorso di meditazione e di esercizio fisico basato sulla
filosofia yoga e sulla nosologia olistica ayurvedica, il tutto rivisitato in
un'ottica moderna e sotto un attento controllo medico.
Il giornale annoverava clienti importanti come capi di stato e manager di
fama mondiale che frequentavano le sue cliniche e spiegava che queste
erano anche meta fissa di attori, politici e miliardari di ogni genere.
Oltre a tutto ciò, il famoso medico affermava di aver individuato dei “rimedi
miracolosi” per quelle patologie che venivano sanate a Lussino fin dai tempi
della dominazione austriaca.
La sua terapia non prevedeva l'uso di medicine inutili, che servono solo ad
arricchire le multinazionali e che hanno come unico risultato la cura dei
sintomi senza eliminarne le cause.
“Il principale problema degli asmatici e di chi soffre di psoriasi è la dieta
sbagliata che permette di accumulare tossine e, in sinergia con lo stress e la
poca autostima, porta a un quadro clinico che continua a peggiorare
progressivamente nel tempo” riportava il giornalista usando le parole dello
stesso Kluger.
“Moltissime delle patologie della pelle e dell'apparato respiratorio si
possono guarire con un percorso di rinnovamento psico-fisico (slogan delle
celeberrime cliniche); poi, con un'adeguata educazione impartita nei
programmi-pacchetto delle beauty farm si può eseguire un planning di
mantenimento durante tutto l'anno, fino ad arrivare alla vacanza-degenza
della stagione successiva.”
“Insomma,” pensò Isabella che vedeva nel dottor Kluger il più probabile tra
i mandanti del duplice omicidio “una vera presa in giro per persone annoiate
o troppo famose e impegnate che non sanno dove buttare via i soldi e che
vorrebbero perdere peso ma non hanno la personalità per farlo!”
L'articolo divenne poi una vera rivelazione quando il dottore criticava
aspramente la richiesta da parte della collega Mayer dell'inclusione
dell'ospedale all'interno del progetto della comunità europea di rivalutazione
delle strutture storiche con fini medici legati a un ambiente che vantasse
proprietà terapeutiche, cosa che avrebbe escluso l'antico ospedale dall'asta
che sarebbe avvenuta nei primi giorni del luglio 2012, esattamente un anno
prima che la Croazia entrasse nell'Unione Europea.
Questa scelta non avrebbe permesso una libera concorrenza ai danni,
soprattutto, di quelle povere persone che non avrebbero più potuto
beneficiare di questa sua innovazione sanitaria o meglio, sottolineava
sempre Kluger, di quello che era una vera rivoluzione nel campo medico in
grado di escludere l'uso di farmaci, che poi si sono sempre rivelati tossici, e
che in compenso risolveva definitivamente delle malattie considerate
croniche. L'articolo sembrava più una pubblicità a favore di queste cliniche
molto simili a delle beauty farm, piuttosto che un neutrale servizio di
cronaca.
“Non è che la collega, forse, sia legata da interessi economici a delle
multinazionali?” Erano le ultime parole di Kluger con cui la giornalista
concludeva l’intervista.
Quell'uomo che ad Isabella sembrava sempre più un verme invece che un
benefattore della salute pubblica concludeva squallidamente l'intervista con
quella frase sibillina.
Per lei il dottor Kluger era un possibile colpevole, o meglio, il mandante
probabile dei delitti, dato che aveva un movente e l’opportunità per farlo.
Di certo esistevano delle registrazioni dell'intervista, magari era anche stata
filmata.
Bastava riuscire a trovare l'impronta vocale entro due giorni e, se coincideva
con quella della telefonata con Dinko, durante l'asta sarebbe venuto allo
scoperto tutto quell'intricato complotto e, soprattutto, si sarebbero potuti
individuare i veri assassini e non solo gli esecutori materiali del duplice
omicidio, collegandolo forse anche alla morte della vedova Jancho.
Isabella era euforica ancora più di prima, sentiva che per lei iniziava la fine
di un incubo che la perseguitava ormai dappertutto, il suo intuito le indicava
quella come la strada giusta da percorrere, ma doveva fare in fretta perché
aveva solo pochissimo tempo poiché era già il 30 giugno e l'asta sarebbe
stata di lì a breve.
Tutto a un tratto, mentre era ancora assorta nei suoi pensieri per trovare una
strategia efficace che le permettesse di portare a termine quella che ormai
per lei era diventata la sua missione, entrò Goran senza bussare e
visibilmente sconvolto:
«Ma che succede, cosa…» iniziò a dire Isabella non capendo il perché di
tanta agitazione.
«Devi scappare stanotte stessa, non abbiamo più tempo. Fai subito le valige
e intanto per oggi ti nascondi da me. Appena ritorna il tuo amico, lo aspetto
io, gli faccio preparare i suoi bagagli e lo porto a casa mia. Sempre che non
lo facciano venire qui accompagnato dalla polizia»
Ancora più sconvolto, il sub aveva freneticamente iniziato a cercare la
valigia di Isabella e, non trovandola nello sgabuzzino vicino alla sala da
pranzo, aveva tirato su dalla sedia la ragazza prendendola per un braccio e
con determinazione la stava portando al piano di sopra a prepararsi in fretta
per la fuga.
«Goran, lasciami, non capisco cosa tu voglia fare, mi stai a sentire? La
smetti?»
Isabella, incredula per il comportamento del sub che rasentava la violenza,
si dimenava cercando di divincolarsi dalla stretta che la obbligava suo
malgrado a seguirlo, ma si ritrovò fuori nel cortile senza essere riuscita
minimamente a farsi ascoltare.
«Adesso basta! Io da qui non mi muovo se non mi spieghi subito cosa sta
succedendo, è chiaro?» gridò puntando i piedi e, buttandosi a terra, riuscì
finalmente a staccarsi dalla pur salda presa di Goran, il quale, in tutta
risposta, impallidì preso da un panico quasi tangibile e con un filo di voce le
disse:
«Ti prego, non gridare qui fuori, potrebbero sentirci. Andiamo di sopra e ti
spiego, ma ora non parlare. Ti prego»
Gli occhi di Goran tradivano un sottile velo umido e la sua espressione era
cambiata: si era bloccato a guardarla e il suo viso aveva assunto un colore
cinereo, innaturale.
Isabella capì che la situazione era più seria di quanto immaginasse: senza
più storie e soprattutto in silenzio andò insieme a lui e in gran fretta al piano
di sopra.
Goran si sedette sul letto e, dopo aver messo la testa tra le mani, cominciò a
raccontare, aspettando però a iniziare fino a quando Isabella non avesse
cominciato a tirar fuori dall'armadio le sue cose, anche perché era l'unica
cosa che la ragazza potesse fare per calmare almeno parzialmente il panico e
l'agitazione che lo sconvolgevano.
«Stamattina alle 7:30 è arrivata la polizia a casa mia e mi hanno portato in
Val Scura. Probabilmente solo un'ora, massimo un'ora e mezza prima, una
ragazza era stata uccisa nella pineta vicino alla passeggiata; una donna che
passava di lì per caso ha scoperto il cadavere verso le 6:30.»
Isabella cominciò a non sentirsi più le gambe e si sedette nel letto affianco a
Goran ad ascoltare sconvolta.
«Lì c'era Andrej ed è stato lui che mi aveva fatto chiamare perché cercavano
qualcuno che potesse riconoscere il cadavere.»
A quel punto si fermò con un evidente blocco della voce a causa della forte
emozione che provava; Isabella questa volta gli prese la mano,
trasmettendogli empatia e commozione e così Goran riprese a parlare.
«Il volto era irriconoscibile, è stata massacrata di botte, l'hanno presa a calci
e a pugni… dopo essere stata violentata; gli agenti si sono accorti da subito
che aveva perfino… il collo spezzato. La polizia ha detto che dovevano
essere almeno in due o in tre, dopo l'autopsia magari si saprà di più.»
«È terribile, ma io che cosa c'entro? Cosa c'entriamo noi con questa storia?
E poi, perché hanno chiamato te per il riconoscimento?»
In fondo si immaginava la risposta, ma voleva una conferma nella vana
speranza che in realtà non ci fosse alcun collegamento con lei e con la storia
di Ilovik. La risposta di Goran arrivò pesante come la lama di una
ghigliottina e non poteva dar adito a dubbi.
«La ragazza era una runner ed è stata presa mentre correva. Indossava dei
pantaloncini rosa, come quelli che hai usato tu a Ilovik. Non si capiva molto
da come era ridotta: il viso era irriconoscibile e la poverina era nuda.
All'inizio pensavo fossi tu, ma poi guardandola bene ho capito che non
l'avevo mai vista prima. Non aveva documenti con sé, né una fede al dito e
così la polizia sta cercando tutte le persone che conoscono delle giovani con
la passione della corsa per capire chi mai fosse quella sventurata. La cosa
più terribile è che con loro c'è Andrej e sta interrogando assieme agli
investigatori, chiedendo più informazioni possibili e approfitta di questa
situazione anche per sapere se per caso qualcuno conosce una ragazza che,
oltre a correre, è stata a Ilovik prima di arrivare qui. La situazione non è più
sotto controllo, è solo questione di tempo e arriverà a te e anche a me.»
Isabella cominciava a capire cosa era successo: avevano ucciso quella
poveretta e adesso cercavano di essere sicuri di aver preso la ragazza giusta:
ma perché avevano poi dei dubbi? Questo non le era molto chiaro, in fondo
se l'avevano uccisa, dovevano essere convinti che quella giovane donna
sfortunata fosse la testimone; e perché allora cercare ancora? Ma non fece in
tempo a formulare la domanda, che Goran, quasi leggendole nel pensiero,
aggiunse:
«L'unica cosa certa sulla ragazza, ha detto la polizia, è che era appena
arrivata, perché aveva la pelle arrossata tipica di chi ha preso troppo sole in
poche ore e non ne è abituato. Andrej ha capito di aver sbagliato bersaglio.
Ma non è importante per lui, è solo un danno collaterale, perché hanno già
bloccato i traghetti per il continente e per le isole e tutte le persone devono,
prima di imbarcarsi, rispondere a delle domande ed esibire i documenti. Lui
ha carta bianca sull'operazione e può interrogare chiunque e accedere a tutte
le informazioni.
Tra poco arriverà a te, non c'è alcun dubbio. E tu non puoi più prendere il
traghetto. Stanotte andiamo con la mia barca fino in Slovenia e da lì poi
andrai in Italia. Ho pensato a tutto io, sbarcheremo a Pirano e una volta
arrivati, troveremo mia figlia che ti farà avere una macchina a noleggio con
cui potrai andare a casa. Sperando che il tuo amico Sergio non si faccia
prendere dal panico adesso che l'hanno chiamato per identificare la
ragazza.»
«Sergio cosa? E perché proprio lui?» rispose urlando Isabella
completamente fuori controllo sentendo d'un colpo il fiato diventar corto e il
cuore che esplodeva in un attacco al cardiopalmo.
«Non so perché, stavo andando via e ho solo visto che veniva avanti con un
poliziotto, non so altro, mi dispiace» le rispose Goran quasi sulla difensiva
rendendosi conto di aver dato quell'informazione con troppa leggerezza e
senza un briciolo di tatto.
«Siamo rovinati, lui dirà tutto, lo conosco, non è capace di mentire alla
polizia. Ammazzeranno prima lui e poi me!»
A quel punto Isabella scoppiò in lacrime schiacciata dagli eventi che le
turbinavano intorno come ombre malefiche in cerchio sopra a un falò
propiziatorio acceso da streghe di un racconto horror.
Capitolo 30
Un piano per la fuga
A casa di Goran i due fuggitivi arrivarono tagliando per la pineta
abbandonata di una fatiscente villa principesca del periodo austriaco,
passando attraverso il cancelletto semi divelto in ferro battuto che si apriva a
poca distanza dal giardino di zia Romina. Scavalcarono poi un muro a secco
fatto di enormi sassi sovrapposti a incastro e che in varie parti aveva ceduto
a causa di tanti anni di incuria e di bora. Da lì fecero ancora una traversata
non consentita passando per il parco della colonia di ragazzi e bambini
croati, i quali a quell'ora erano già andati al mare e poi, grazie all'ennesima
peripezia, oltrepassarono l'ultimo muro che confinava con il cortile di Goran
e finalmente si trovarono dentro alla sua proprietà al riparo da sguardi
indiscreti.
La moglie li stava aspettando fuori, nella corte a tergo vicino ai lunghi fili
per stendere la biancheria che correvano, tesi come corde di chitarra, da dei
ganci infissi sulla parete di casa fino al muro della recinzione dalla parte
opposta. Provvidenzialmente la donna quella mattina aveva fatto anche un
improvvisato bucato di bianche e ampie lenzuola per occultare meglio la
loro entrata dal retro.
Appena fu dentro al soggiorno, Isabella si apprestò a cercare nel borsone da
viaggio il portatile per collegarsi a Internet al fine di far vedere all'amico
croato l'articolo sull'ospedale che aveva trovato quella mattina.
Goran non la degnò quasi di uno sguardo, preso com'era da altre
preoccupazioni più imminenti.
«Ne parliamo dopo, ho anch'io delle informazioni da darti, ma adesso devo
recuperare il tuo amico.»
E senza aspettare risposta il sub si girò e uscì in gran fretta. Isabella
continuò comunque la sua navigazione nel web per riuscire a trovare più
indicazioni possibili che l'aiutassero a capire con precisione dove si sarebbe
svolta l'asta. Sperava di riuscire in qualche modo a costruire una strategia
efficace per affrontare quella pericolosissima situazione, non sapendo cosa
mai potesse aver combinato Sergio che era rimasto fino ad allora all'oscuro
di tutto. Il pensiero che potesse essergli successo qualcosa anche a causa
sua, per non avergli confidato ogni cosa a suo tempo, le faceva sobbalzare il
cuore in modo talmente doloroso da non riuscire a contenere il senso di
disperazione e impotenza che le prendeva il petto quasi come se si chiudesse
in una morsa impietosa impedendole di respirare a fondo.
Così l'unica cosa da fare era concentrarsi in un'occupazione qualsiasi che
potesse essere utile per contrastare il terribile presentimento di sentirsi in
balia di un ineluttabile e crudele destino, quasi a esorcizzare i cattivi
pensieri che le giravano per la testa.
Tentò nuovamente di trovare un quid che potesse indicarle la data dell'asta
e, navigando in siti locali, s'imbatté in un altro articolo interessante, ma che
purtroppo aveva l'handicap di essere scritto in croato; il traduttore di Google
era alquanto maccheronico nell'interpretazione del testo, ma nonostante tutto
si capiva che era un bando comunale che trattava dell'asta dell'ospedale e la
data indicata era il sette di luglio:
“Troppo tardi” pensò “io per allora sarò già morta e sepolta se non scapperò
via di qui!”
Ed ecco che il senso d'inettitudine e di frustrazione le ritornò ancora più
violento, tanto da farle desiderare di uscire e farsi prendere purché tutto
finisse, un sentimento che fino al giorno prima non credeva che, proprio lei,
potesse provare. Il ricordo del racconto di Goran, di come avevano ucciso la
ragazza pensando fosse lei, la riportò alla ragionevolezza e cercò di
controllare in modo lucido le sue emozioni e l'illogicità che ne poteva
conseguire: spense il computer e si concentrò sulla fuga di quella notte.
Niente, la sua mente continuava a rimuginare su tutto ciò che era successo e
su quello che ancora doveva accadere: forse una volta arrivata in Italia se
avesse denunciato gli omicidi, sarebbero state arrestate le guardie costiere,
ma non il mandante.
Ma lei non era in grado di fare delle accuse credibili solo con le sue
deduzioni e un articolo di un dottore interessato all'ospedale.
Era troppo tardi per trovare un altro mandante possibile, o la sua intuizione
era corretta e Armando riusciva a sovrapporre le due impronte vocali
inchiodando così anche Dinko e il dottor Kluger, o tutto il lavoro fatto fino
ad allora non avrebbe portato a nulla, se non ad avere delle denunce per
delle intercettazioni telefoniche non permesse e quindi ottenute illegalmente
e magari anche la povera Sonija avrebbe perso il posto di lavoro.
Bisognava pensare ancora per il poco tempo che le restava e trovare ogni
aggancio possibile.
Una cosa proprio non aveva senso in tutta la storia: perché uccidere in modo
così plateale la povera ragazza e violentarla pure? Non sarebbe stato meglio
farla sparire e basta?
Probabilmente, ragionò, in quel modo gli ispettori avrebbero preso in
considerazione il fatto che il movente non doveva essere premeditato: era
uno stupro di gruppo, presumibilmente a opera di turisti fuori di testa reduci
da qualche droga-party o chissà che altro, scappati magari in barca in acque
sicure subito dopo il crimine: non trovando gli assassini, alla polizia non
sarebbe rimasta altra scelta se non archiviare prima o poi il caso. Chi mai
avrebbe potuto collegare l'omicidio della Val Scura con la morte dei coniugi
Mayer a Ilovik? Si sentivano molto sicuri Andrej e la sua gang, e avevano
esagerato nel credersi insospettabili e intoccabili: “Ma” pensò Isabella “se
quella banda di guardie deviate avesse con la violenza sessuale lasciato delle
tracce biologiche sulla ragazza, una volta arrestata per la morte dei due
medici, sarebbe stata riconosciuta colpevole attraverso un'analisi del DNA
anche per quell'ultimo brutale omicidio. Ma come collegarli all'uccisione
della ragazza?”
Isabella era troppo dentro all'ambiente dei tribunali per non sapere che senza
un collegamento credibile la difesa avrebbe rifiutato quell'analisi: ancora
una volta non riusciva ad avere certezze su come unire tutti i fatti per
imbastire una tesi credibile e completa da sottoporre alle autorità una volta
che ne fosse uscita viva da quella storia: era un vero impasse!
Il suo asso nella manica era Armando: se fosse riuscito a collegare Dinko,
Andrej e il dottor Kluger, tutto il resto sarebbe venuto fuori da sé, gli
omicidi si sarebbero collegati tra loro come pezzi di un puzzle e, invocando
la legittima suspicione, si sarebbe potuto avere il processo in qualche sede
lontana da quell'ambiente ormai fin troppo inquinato.
Questo pensiero le diede un dimenticato senso di sollievo e, avendo trovato
un po' di relativo buon umore, si alzò dalla sedia e si apprestò a guardare
dalla finestra se tornavano Goran e Sergio. Quasi come se si fossero messi
d'accordo, appena sbirciò fuori dalla finestra, li vide che stavano entrando
proprio in quel momento dalla porta sul retro e con un tuffo al cuore di
felicità, saltò al collo di Sergio appena questi mise il piede in casa.
«Se volevi farmi morire di batticuore, ci sei quasi riuscito!» gli disse
stringendosi forte a lui. Poi, staccandosi, con un cambio di tono repentino e
recuperando la sua solita razionalità, aggiunse:
«Cosa hai raccontato alla polizia? Hai detto che venivamo da Ilovik? Che
accordi hai preso con loro? Perché poi ti hanno portato a riconoscere la
ragazza? Hai avuto paura che fossi io?»
Isabella era talmente agitata e ansiosa di sapere tutto (e non certo per banale
curiosità), da formulare le domande una dietro l'altra senza dare all'amico il
tempo di rispondere.
«Calma, calma!» rispose Sergio con un sorriso sornione:
«So bene che la mia fidanzata mi ha sempre sottovalutato!»
«La tua fidanzata? Ma non era solo un amico, Isy?» chiese Goran che fino a
quel momento era rimasto in disparte.
«Gli hai detto solo un amico? E da quando ti chiami Isy?» disse Sergio a
Isabella girandosi e guardandola negli occhi. La ragazza rimase un momento
spaesata dalla reazione fuori luogo di Sergio e per un attimo sentì il bisogno
di giustificarsi, anche se questo non faceva certamente parte della sua
indole.
«Certo, cosa eri prima?» gli rispose sorpresa.
«Prima di cosa?» chiese Goran incuriosito con l'espressione di chi si è perso
qualche evento importante.
«Non credo sia un argomento da trattare in pubblico» rispose Sergio senza
guardarlo negli occhi e continuando di contro a scrutare la cosiddetta
fidanzata. Isabella si riprese dalla sua momentanea sottomissione al
“fidanzato” e con tono stizzito diede fine a quella piccola quanto
inopportuna bagarre:
«Ma siamo tutti fuori di testa? Hanno appena ucciso una ragazza pensando
fossi io, dobbiamo scappare come ladri stanotte in un peschereccio, e adesso
ci mettiamo a discutere se sei un amico, un fidanzato, un cugino o magari
mio nonno? Possiamo parlare di cose più importanti per favore?»
Il tono quasi isterico della ragazza tradiva anche il suo fastidio nei riguardi
di Sergio, perché aveva capito immediatamente che non aspettava altro che
colpire Goran, dato che fin dal primo istante non lo aveva mai potuto
sopportare, ma non era proprio né il caso né il momento di permettergli
quella stupida e insignificante rivalsa. Il sub oltretutto li stava aiutando
mettendo generosamente se stesso in pericolo e proprio non si meritava un
atteggiamento tanto ostile nei suoi riguardi.
«Hai ragione, Isy» rispose l'entomologo rendendosi conto del proprio
atteggiamento infantile, ma senza risparmiarsi comunque un accento di
sarcasmo sul nomignolo, e finalmente incominciò a raccontare.
«Stamattina ero uscito a mettere alcuni feromoni sulle trappole che avevo
posizionato vicino ai campi da tennis per prendere delle Saga pedo7 e per
registrare il canto delle sei specie di cicale dell'isola per poi distinguerle
e…»
«Ti prego, vai al dunque che delle cicale, pedi o di quel caspita che dici non
ci interessa minimamente, almeno non adesso» lo interruppe subito Isabella
che già lo immaginava perdersi in lezioni di canto delle cicale magari
intonandone qualcuno per far capire loro la differenza tra le specie.
«Sì, hai ragione, scusami. Stavo dicendo che ero partito con tutta la mia
attrezzatura anche per cercare di proteggere una certa persona che si è
trovata dentro a un gioco troppo grande e pericoloso…»
«Cosa stai dicendo? Di chi staresti parlando?» lo interruppe di nuovo
Isabella sentendo il tono sarcastico di Sergio, che sembrava volesse farle
avere una qualche reazione.
«Ma cosa credi? Pensi che io sia talmente perso tra i miei insetti da non
accorgermi dei guai che stai passando? Ho sperato che tu me ne parlassi, ma
dato che usavi le tue solite strategie per evitare il discorso, astuzie che con
me non funzionano visto che ti conosco meglio di te stessa, mi sono messo a
seguirti per proteggerti. Ho cominciato anche a usare il rilevatore di voci a
distanza per sentire i tuoi discorsi con lui» disse indicando Goran, senza
degnarlo comunque di uno sguardo «e ho scoperto che state investigando su
degli omicidi. Ma chi credi di essere, Sherlock Holmes? Hai forse deciso di
farti ammazzare?»
7 Cavalletta carnivora europea.
Isabella non aveva parole, Sergio le stava dimostrando di essere molto meno
ingenuo di quanto lei credesse: l'aveva spiata, aveva anche capito degli
omicidi, ma quali? Le girava la testa: lei che coglieva tutto, capace di
interpretare segni di espressione anche minimi, gesti e atteggiamenti
inconsci che sarebbero sfuggiti anche a degli esperti del settore, si era fatta
sgamare da un entomologo che di psicologia ne sapeva tanto quanto una sua
stupida cavalletta!
«Tu mi hai spiato? Tu hai registrato le mie conversazioni private senza
dirmi nulla? Mi hai seguito raccontandomi fandonie sui tuoi stupidi vermi
disgustosi? E magari hai anche guardato le mie mail!»
Isabella si sentiva stupida e presa in giro.
Come si era permesso Sergio di entrare nella sua sfera privata con mezzucci
da investigatore da quattro soldi? E lei non si era accorta di nulla: questa era
la cosa che più le bruciava.
«Certo che ho guardato le tue mail, cosa credi? Soprattutto quelle con
Armando!» rispose il ragazzo.
Intanto Goran si era seduto distante dai due e osservava la loro lite tra il
divertito e il preoccupato. Chi era Armando? Quanto sapeva quella specie di
scienziato degli insetti degli omicidi e dell'asta, e cosa aveva scoperto quella
mattina? Goran, a differenza di Isabella che era accecata da un sentimento di
rabbia mista all'umiliazione di non aver capito troppe cose, aveva compreso
che Sergio stava tentando di spiegarle che, per difenderla, era stato costretto
a spiarla e in quel modo era incappato in qualcosa, ma cosa? In quel
momento entrò Suzana forse preoccupata per le voci concitate e attratta dal
tono troppo acceso dei due giovani, ma il marito le fece cenno di uscire
subito, prima che questi si accorgessero della sua presenza.
«Non ti rendi conto che tratti le persone come se fossero dei bambini
incoscienti e decidi tu per loro, sulla base di una presunzione inaccettabile?
Ho letto le tue mail perché sei stata tu che mi hai dato la password ancora
quando avevi chiesto il mio aiuto per paura che Giuseppe potesse farti del
male. Sei stata tu che allora mi hai chiesto di controllarti in futuro, anche se
non me lo avresti domandato, perché sapevi che prima o poi ti saresti di
nuovo ficcata dentro a qualche guaio e sai benissimo che te ne saresti
accorta solo quando diventava troppo tardi, o quasi, come al tuo solito. Ho
fatto solo quello che mi hai chiesto di fare, in uno di quei rari momenti in
cui sei scesa dal pero e ti sei resa conto delle tue fragilità.»
Il tono di Sergio era cambiato, era riuscito a dire tutto quello che voleva in
un fiato e adesso aveva solo voglia di abbracciarla e di consolarla, di farle
sentire quanto l'amasse e che solo per questo l'aveva ingannata.
Isabella si sedette un attimo e restò in silenzio: quanta verità nelle parole
dell'uomo che ormai amava più di quanto credesse di esserne capace: era
tutto vero, lei gli aveva chiesto aiuto nel modo che lui adesso le aveva
ricordato, non poteva dargli torto, sarebbe stato ipocrita insistere con un
atteggiamento indignato. Si riprese subito dal suo breve momento di
torpore, era riuscita come al solito a rielaborare la situazione e a riprendere
il controllo della sua razionalità, superando in un attimo le sue stesse
emozioni che aveva lasciato esprimersi così violentemente solo qualche
attimo prima.
«Allora adesso devi dirmi cosa hai scoperto, credo che sia tempo di mettere
insieme tutte le nostre informazioni e di pensare a come agire, visto il poco
tempo che ci è rimasto e considerando il pericolo estremo della situazione in
cui ci troviamo.»
Il tono della ragazza era pacato, serio e grave e Sergio annuì per riprendere
il filo del racconto, senza però nascondere uno sguardo di ammirazione e di
amore per quella donna capace di superare qualsiasi crisi emotiva in un
tempo brevissimo e soprattutto tralasciando sentimenti stupidi quanto umani
come l'orgoglio e la presunzione.
«Insomma, ero uscito pensando di anticiparti per poterti proteggere: sapevo
che saresti andata a correre, ma non sarei mai stato in grado di inseguirti,
ovviamente sei troppo veloce, e allora ho pensato di andare in Valdarke e di
aspettare lì che passassi e intanto guardavo la strada. Mentre stavo
registrando una Cicada orni8 proprio nella stessa direzione del canto
dell'insetto è passata una ragazza, aveva dei pantaloncini come quelli che ti
avevo regalato e i capelli acconciati esattamente come li porti tu quando vai
a correre: dopo forse un minuto al massimo mi è sembrato di sentire un urlo.
Non ci ho fatto molto caso, non potevo immaginare, e ho continuato a
registrare il frinire della cicala. Sapete cosa vuol dire?»
8 La classica cicala estiva europea, la più diffusa.
«Cosa? Che hai perso l'occasione di registrare l'omicidio?» chiese Isabella
quasi ironica pensando che i soliti insulsi insetti avevano tolto l'opportunità
di avere delle prove inconfutabili dell'ennesimo omicidio.
«Esattamente l'opposto. Il mio apparecchio è identico a quello utilizzato per
intercettare dialoghi a lunga distanza: prima si registra, poi in laboratorio si
separano i vari rumori e infine si isolano ognuno in un nastro diverso. Io ho
registrato proprio nella direzione di quella poveretta; non ho fatto in tempo a
riascoltare il nastro, ma so perfettamente che dentro c'è tutto, voci, grida,
anche i discorsi delle guardie, se per caso ne avessero fatti.»
«Ma come hai fatto a non sentirli?» chiese Isabella stupita che Sergio non
avesse tentato di salvare la povera runner.
«No, non hai capito. La sensibilità del mio orecchio è molto inferiore a
quello dell'apparecchio. Io ho solo sentito qualcosa che sembrava un grido
molto lontano e soffocato e poi basta. È il registratore che contiene molto di
più di quello che io ero in grado di udire. So di averlo direzionato
correttamente e basta.
Sarà in laboratorio che avrò la certezza di avere le voci. Comunque, prima
di decidere di spostarmi, poiché tanto ormai avevo intuito che da lì tu non
saresti più passata, ho visto arrivare i soldati con il capitano. Loro non mi
hanno notato perché ero nascosto tra i pini per le mie rilevazioni e poi anche
perché erano visibilmente concentrati a fuggire senza fare troppo rumore e
senza perdere tempo.»
«Incredibile, adesso abbiamo un testimone per l'omicidio dei dottori Mayer,
cioè io, la registrazione di un dialogo compromettente tra il possibile
mandante e il direttore delle poste che li collega ai mercenari assassini e la
registrazione, speriamo, delle voci degli assassini e della ragazza e infine un
altro testimone, cioè tu, che li ha visti venire dal luogo dell'uccisione subito
dopo il fatto.»
Isabella cominciava a razionalizzare che potevano scappare anche subito,
tanto avevano abbastanza prove per far partire delle indagini mirate che
avrebbero portato a unire tutti gli omicidi in un unico disegno che
comprendeva anche la vedova Jancho.
«Continua il racconto, dimmi cosa è successo poi con la polizia» lo incalzò
Isabella che voleva avere il quadro completo. Allora l'entomologo continuò
il resoconto:
«Mi ero spostato verso i campi da tennis giusto dietro al Punta e avevo
appena messo via l'apparecchiatura per l'ascolto nella valigetta, quando un
agente di polizia mi ha raggiunto e mi ha pregato di seguirlo. Ci siamo
diretti verso il mare passando per un sentiero nel bosco che finiva sotto, in
Val Scura. Lì c'era, credo, un ispettore che mi ha fatto alcune domande: mi
ha chiesto da quanto tempo mi aggirassi in zona e se avessi visto, sentito o
notato qualcosa.
Gli ho risposto che ero appena arrivato e che non avevo visto nulla di strano
e, mentre parlavo, mi sono accorto che c'era un lenzuolo che copriva un
corpo appena qualche metro più in là.
Non mi hanno detto di identificare nessuno, ma vicino, sull'erba, c'erano i
pantaloncini rosa da corsa della ragazza che avevo visto passare.
Mentre stavamo ancora parlando è arrivato un altro tipo, direi un militare,
che si è presentato come Andrej Horvat capitano della guardia costiera, il
quale ha iniziato a farmi delle domande che non mi sembravano del tutto
attinenti con quello che era successo lì. Quando poi ha cominciato a essere
molto insistente chiedendomi informazioni su di una mia amica con cui
vado in giro, che sapeva essere una runner, ho pensato che ci fosse qualcosa
che mi sfuggiva. Sono stato elusivo nelle risposte ma il capitano è diventato
particolarmente insistente perché voleva anche sapere se io e te eravamo
stati a Ilovik prima di sbarcare sull'isola. A quel punto ho capito che era
meglio non dire nulla e così sono rimasto sul vago, rispondendo solo che
eravamo arrivati da poco dall'Italia. Quell'uomo mi metteva proprio
soggezione, soprattutto quando mi ha chiesto come se fosse normale, di
mostrargli il biglietto di arrivo del traghetto. Per fortuna il capo della polizia
lo ha chiamato con urgenza non so per cosa e gli agenti rimasti lì mi hanno
lasciato andare via, ma si sono raccomandati di non lasciare il paese perché
devono interrogarmi ulteriormente.»
Sergio, fermatosi un momento a guardarli, sapendo benissimo a cosa
stavano pensando, aggiunse:
«Non sono così scemo da non capire quando c'è qualcosa che non quadra
visto che sono quasi due settimane che continui ad avere incubi talmente
agitati, che finisci immancabilmente a urlare in piena notte con tale forza da
far rizzare i capelli anche ai muri e se non bastasse non più tardi di due sere
fa hai persino gridato: “Nooo, Andrej, nooo”. Ho collegato quell'uomo con
tutto quello che avevo sentito dalle tue conversazioni e dalle mail con
Armando e ho capito anche che era lui davanti al drappello che avevo visto
allontanarsi dalla Valdarke, ma lì comunque i suoi soldati non c'erano, di
questo ne sono certo.
Non ci vuole un genio a non fidarsi di uno con quel nome che, guarda caso,
vuole sapere tutto su di te e insiste anche per essere edotto su dove eravamo
noi due proprio quindici giorni fa, giusto quando hai incominciato a non
dormire più!»
Sergio disse tutto di un fiato, zittendosi subito dopo con il chiaro sottinteso
che adesso toccava a loro parlare.
Isabella si girò di scatto e rivolgendosi preoccupata a Goran disse: «Ma
possono pretendere il biglietto del traghetto? Com'è possibile?».
L'uomo rispose abbassando la testa, scuotendola lateralmente in segno di
rifiuto e socchiudendo gli occhi quasi soverchiato dalla mera disperazione.
«Purtroppo sì, ma solo se non hai fatto denuncia per pagare la tassa di
soggiorno, sai se Romina l'ha fatto?»
Goran aveva parlato con un filo di voce. Isabella ci pensò su.
«Conoscendo la zia, di sicuro l'avrà fatto, ma se è così Andrej può solo
sapere quando siamo arrivati qui a Lussino, non quando in realtà abbiamo
preso il traghetto.»
Il sub aveva assunto un'espressione quasi rassegnata e il suo pessimismo
traspariva nitido anche dal tono sommesso.
«Non c'è più alcun dubbio, Andrej ha mangiato la foglia e ha capito che sei
tu la ragazza che cerca. Adesso, con la scusa dell'indagine sull'omicidio, ti
può bloccare al traghetto se solo cerchi di prenderlo. Con la storia della
tassa di soggiorno arriverà presto anche al tuo nome e, visto che controllano
tutti i turisti in uscita e in entrata, ti fermeranno di certo prima o poi e ti
consegneranno a lui. Che cosa avrà in mente a quel punto non ne ho idea,
ma tu dalla polizia non ci arriverai mai, per lo meno non viva, questo è
indubbio.
E ora dovranno far sparire anche lui! E vedrai che dopo farà risultare che
voi eravate entrambi in qualche modo coinvolti nell'omicidio della ragazza,
visto che può inquinare prove e scena del delitto alla luce del sole!»
Isabella però non ne era del tutto convinta: non riusciva ad ammettere che
quel militare croato possedesse una capacità di analisi così sofisticata da
riuscire a trovarla solo avendola intravista da lontano in un bosco mentre
scappava.
«Ma come faceva Andrej a sapere che da Ilovik mi sono spostata qui a
Veli?»
Chiese allora nella speranza che Goran si sbagliasse sulle certezze del
capitano.
«Quando ancora eri a Ilovik Andrej, con la scusa di cercare un testimone,
aveva detto alle donne del taxi boat di avvertirlo se una ragazza lasciava
l'isola e di cercare di capire se per caso avesse la passione della corsa. Fu
però avvertito tardi da Lucija, la tassista che ti ha portato, perché quel
giorno in cui voi partiste, a causa della festa di San Pietro, patrono dell'isola,
lei aveva avuto molti passaggi verso Pecina. Così per tua fortuna lo chiamò
solo la sera dopo e per semplice dimenticanza! Andrej sapeva, grazie a lei,
che la runner si accompagnava a un amico; sapeva inoltre che tu sei iscritta
alla maratona di New York, perché purtroppo glielo dissi io quando
facemmo l’immersione: avrà quindi fatto un semplice collegamento.
Probabilmente avrà saputo da qualcuno che sei sempre insieme a un
ragazzo, anche perché non si può dire che lui non si faccia ben notare
girando per il paese con retini e strani aggeggi.»
Isabella cominciò a illuminarsi: adesso aveva la possibilità di collegare
alcuni tasselli mancanti della storia di Ilovik, utili a capire come agiva
Andrej e, cosa più importante di tutte, ad avere un'idea di come ragionasse
quell'uomo al fine di poter prevedere le sue prossime mosse.
«Adesso mi ricordo, è vero, quella del taxi boat ci chiedeva un mucchio di
cose; e tu Sergio le hai anche detto che ero iscritta alla maratona di New
York!» disse adirata la ragazza rendendosi conto del pericolo corso, al quale
era sfuggita solo per mera fortuna.
Sergio non accettò la critica dell'amica: di solito Isabella si lamentava del
fatto che lui non era molto socievole con le persone e lo spronava spesso a
essere più loquace e a socializzare con maggiore convinzione. Per una volta
che era riuscito a essere cordiale e simpatico!
«Forse, se tu avessi avuto più fiducia in me e mi avessi raccontato tutto fin
dall'inizio, adesso non saremmo implicati in questa storia disastrosa!»
Isabella capì che aveva ragione: l'aveva sottovalutato e ancora una volta si
era resa conto che in fondo in fondo non lo conosceva sul serio come
pensava.
Capitolo 31
Nessuna soluzione
Isabella, Sergio e Goran avevano scoperto ognuno qualcosa sugli altri due
che non si aspettavano: Isabella aveva capito che Sergio era molto più
attento a lei di quanto si fosse resa conto in altre spiacevoli occasioni in cui
comunque lui aveva dovuto proteggerla. In più si era dimostrato smaliziato
verso le sue tecniche psicologiche bypassando ogni tentativo da parte di
Isabella di eludere le sue domande o di mostrargli stati d'animo lontani dalle
vere emozioni che provava.
Goran aveva preso atto del nuovo ruolo attivo di quella specie di scienziato
in realtà non così immerso in un minimondo fatto di esserini che per il sub
erano solo fonte di fastidio o di indifferenza: ma c'era anche Isabella che
aveva condotto delle indagini senza farlo partecipe con un certo Armando,
persona che gli appariva più virtuale che reale. Infine, c'era Sergio, che
aveva ascoltato le conversazioni tra Goran e Isabella e aveva captato
informazioni difficilmente organizzabili in una storia chiara, aveva da parte
sua raccolto delle prove fondamentali e adesso però pretendeva di unire ogni
dato per poter dare organicità a quella storia difficile.
Ognuno quindi diede il proprio contributo per raccontare ogni particolare
che non fosse a conoscenza degli altri e tutti alla fine erano certi di aver
comunque in parte colto le intenzioni e il disegno comune che univano
quelle persone tra loro e a dei crimini tanto efferati.
«Ho capito tutto, Isy, adesso ti dirò di più!» disse a un certo punto Goran
che sentì di aver trovato uno dei tasselli che ancora mancavano per
completare il quadro.
Così il sub si alzò e andò nell'altra stanza per tornare con in mano una
cartina del paese di Veli. Dopo averla distesa sul tavolo, cominciò a
spiegare:
«Vedete questo lotto?»
L'uomo, mentre parlava, segnava con la penna la mappa che altro non era
che un gadget di quelli che le agenzie turistiche davano ai vacanzieri estivi
appena arrivavano sull'isola.
«Qui c'è l'ospedale in questione e il bosco dietro è compreso nel pacchetto
che verrà battuto all'asta. Ma adesso guardate questo appezzamento: è il
grande parco della colonia che offre i centri estivi per ragazzi, quello che
abbiamo attraversato prima per non farci notare e arrivare fin dentro casa
mia. Come potete constatare in realtà è una vecchia villa del periodo
austriaco, esattamente come l'ospedale. Adesso guardate bene con chi
confina: vedete, qui c'è la mia casa e poco distante, seguendo la costa ce ne
sono altre due, una è quella della povera vedova Jancho e l'altra di una
zitella piuttosto anziana.
Dovete sapere che queste tre case sono le uniche di Lussino con accesso
diretto al mare e per questo ai tempi di Tito furono accatastate come ville. In
questo modo, per legge, non potevano essere di proprietà del popolo, ma
solo dello Stato, cioè di tutti e quindi di nessuno.
Io ho avuto la mia casa come lascito da una vecchia signora austriaca alla
quale ero stato vicino come factotum e che avevo accudito fino al giorno in
cui morì, a 94 anni.
Nonostante l'abitazione fosse un suo possedimento e fosse stata registrata
come casa, subito dopo la lettura del testamento venne cambiata di
destinazione da parte del Comune, ovviamente per averne la proprietà.»
«Questo non è giusto! Come può uno Stato permettere che si cambino le
leggi a comodo o si tolgano le case alle persone che ne sono i legittimi
proprietari? È come non avere alcuna tutela proprio da parte di chi dovrebbe
salvaguardare i diritti dei propri cittadini.» disse Isabella quasi incredula.
«Capisco la tua difficoltà, ma devi pensare che Tito aveva eliminato il
concetto di proprietà privata: tutto era del popolo e il popolo era lo Stato. E
la stessa cosa successe alle altre due vecchie signore, alle quali la casa fu
espropriata, ma con diritto di usufrutto a vita anche se comunque dietro al
pagamento dell'affitto mensile, sempre al Comune ovviamente. Con la
prossima entrata in Europa della Croazia noi potremmo richiedere la
revisione degli atti di confisca e, con altissima probabilità, riavremo il diritto
al possesso; così il Comune, per evitare di perdere queste ville molto
ambite, ha deciso di metterle all'asta prima di luglio 2013, cioè prima
dell'entrata ufficiale in Europa. In questo modo ci hanno fregato un’altra
volta.
Quello che è ancora più interessante è che la colonia verrà anch'essa messa
all'asta, ma a quella successiva, che si terrà ad aprile 2013.»
«Tu sapevi tutto questo e non ti sei mai fatto delle domande?» chiese Sergio
che proprio non era capace a trattenersi, lanciando uno sguardo interrogativo
anche verso la psichiatra.
Sentendosi nuovamente attaccato dall’entomologo, il sub non riuscì a non
rispondere senza alzare la voce e, guardandolo fisso negli occhi, gli urlò:
«Una donna anziana muore in un incidente in una giornata di nebbia a
novembre e io avrei dovuto fare quale collegamento secondo te? Ti ricordo
che anch’io mi sono posto “delle domande” quando la tua “fidanzata” mi ha
raccontato cosa era realmente successo a Ilovik. Non sono un veggente, se è
questo che vuoi sapere!»
«Adesso basta, Sergio. È ovvio che solo ora tutti noi siamo in grado di
collegare i fatti, basta con i sospetti e i sottintesi, ti prego. E tu, Goran,
scusalo, è solo troppo protettivo nei miei riguardi, non ce l’ha con te» mentì
Isabella per cercare di calmare gli animi e di arrivare a una collaborazione
totale da parte di tutti.
Goran sbuffò nervosamente e dopo qualche secondo di silenzio, con voce
più calma, riprese a parlare:
«Ebbene, se qualcuno riuscisse ad acquisire tutti questi beni immobili,
potrebbe diventare l'unico possessore degli accessi privati al mare del paese
e avere anche la più grande pineta sita direttamente dentro all'abitato.
Bisogna anche considerare che i due palazzi di epoca vittoriana sono i più
ampi ed eleganti sia
di Veli che di Mali e sono perciò adattissimi a una ristrutturazione per essere
destinati a diventare un grande centro medico con beauty farm associata e
così le nuove strutture riuscirebbero a diventare forse tra le più belle
cliniche al mondo, anche solo per la loro posizione. Chi riuscirà a unire
questi possedimenti in un'unica soluzione, avrà a disposizione da una parte
della collina tutto il mare per le cure e il turismo classico e, dall'altra, un
bosco che oltretutto diverrà, dicono, in parte edificabile.
Qui a Veli solo l'hotel Punta ha accesso diretto al mare ed è collocato
all'entrata del paese, ma è già di proprietà di una multinazionale, la quale ha
scelto la formula hotel con possibilità di fitness in occasione dell'ultima
ristrutturazione proprio di quest'anno. Invece la soluzione per così dire di
clinica-vacanza sarebbe la prima e l'unica in Croazia e diventerebbe una
vera miniera d'oro.»
Isabella era rimasta a bocca aperta, quell'uomo aveva veramente le idee
chiare sulla situazione e stava sbrogliando tutti i fili della matassa.
«Ma allora, se anche comprassero le tre case sul mare, cioè la tua e quella
delle due anziane, cosa se ne farebbero? Tu non sei né vecchio né malato,
vogliono comprare per aspettare chissà quanto… a meno che…»
A Isabella venne l'ennesimo tuffo al cuore.
«Ma dove vogliono arrivare? Non capiscono che questa catena di omicidi
può far venire dei sospetti a qualcuno?»
La situazione stava assumendo sempre più i connotati di una strage
annunciata. Quasi gridando e alzandosi di scatto dalla sedia, Isabella disse:
«Io credo che la situazione gli sia sfuggita di mano e adesso sono, diciamo
quasi per assurdo, obbligati a eliminare testimoni a catena e tutto perché io
quella mattina mi trovavo nel posto sbagliato e soprattutto al momento
sbagliato!».
Goran scosse la testa con espressione rassegnata.
«Credo proprio che tu non c'entri nulla; noi tre proprietari delle case sul
mare eravamo già destinati a fare una brutta fine: saremo stati casualmente
vittime di incidenti o di suicidi, come Adela. O meglio, probabilmente lo
saremo molto presto!»
Goran parlava con un filo di voce. Isabella e Sergio erano in silenzio
ognuno perso in pensieri a tratti convulsi, perché alla ricerca di soluzioni, e
a tratti tristi a causa di un crescente sentimento d’incapacità a individuarle e
di inadeguatezza alla situazione. Il sub, dopo qualche secondo di pausa,
riprese a parlare:
«Dinko è riuscito a boicottare gli altri eventuali acquirenti facendo finta di
essere a conoscenza di confidenze sull'affare e su quelli che avrebbero
partecipato, i quali, diceva lui, avrebbero offerto cifre spropositate ben al di
sopra delle condizioni economiche di una qualsiasi società croata. In più
l'asta è stata pubblicizzata pochissimo, così da avere il minor numero
possibile di altri ipotetici compratori esteri; ma in realtà lui non sarà neppure
un prestanome, ma solo un regista dietro alle quinte.»
«Ma come hai saputo del boicottaggio del direttore?» chiese ancora Sergio,
questa volta con tono pacato.
«Sempre attraverso Sonija, mia nipote» rispose rivolgendo però la testa
verso Isabella.
«Ho avuto un lungo dialogo con lei ieri mattina e sono riuscito a venire a
capo della situazione proprio grazie al suo lavoro di segretaria personale di
Dinko. Quell’uomo non si è mai preoccupato di ciò che poteva pensare e
l’ha utilizzata come telefonista per i suoi affari.»
Sergio era frastornato: durante una vacanza che doveva svolgersi in uno dei
luoghi più famosi per la sua tranquillità, era venuto a conoscenza di delitti,
assassini senza alcuna remora, affari sporchi con pura finalità di sordido
lucro e per finire di una caccia all'uomo di cui lui ne faceva parte come
preda: era veramente troppo!
«Bellissimo, con questo racconto adesso sappiamo che siamo tutti
praticamente morti, che facciamo ora?»
Lui, un semplice entomologo voleva riuscire a trovare una soluzione che
fosse in grado di far uscire tutti indenni da quella ignobile storia di avidità
che coinvolgeva due Stati, medici, direttori delle poste, guardie costiere e
chissà che altro, senza dimenticare che quattro omicidi erano già stati
compiuti e altri erano per così dire in via di esecuzione. In realtà, non aveva
la minima idea di come fare e il tempo stava correndo veloce. Si sentiva
terribilmente inutile, in fondo la sua ragazza non lo aveva fatto partecipe
della storia fino a quando non ne era stata costretta; forse non lo riteneva
all'altezza?
Ora avrebbe voluto dimostrare a lei e al suo amico croato che invece si
erano sbagliati di grosso, che lui poteva essere di fondamentale importanza
per uscire da quell'impasse, ma non aveva la più pallida idea di come si
potesse gestire la situazione e questo gli causava una grande frustrazione.
Goran rispose subito anticipando le intenzioni del ragazzo.
«Non preoccupatevi, ho pensato a tutto. Adesso andate di sopra nella
camera che era di mia figlia Ana e riposatevi, perché stanotte dovremo fare
un lungo viaggio, l'ultimo spero. Tra poco dovrò finire delle cose e non
posso perdere altro tempo.»
Il sub con queste parole, concluse il discorso e si alzò dalla sedia fremente
di andare a fare quel qualcosa che, si capiva, doveva essere una questione di
grande importanza.
Sergio si alzò a sua volta per fare quello che Goran aveva detto, ma Isabella
non accennò minimamente a tirarsi su dalla sedia, incantata verso un punto
inesistente davanti a lei, immersa in ragionamenti con tale concentrazione
da non essersi accorta che gli altri se ne stavano andando:
«Isabella? E allora, che fai? Non vieni?» le disse Sergio, ma non ottenne
risposta.
Capitolo 32
PTSD
Sergio e Goran si erano fermati sulla porta a guardare Isabella che rimaneva
in uno stato catalettico, fino a che, quasi risvegliandosi, la giovane
psichiatra si rianimò e cominciò a parlare come se non fosse successo nulla:
«Stanotte viene anche tua moglie con noi? Siete tutti in pericolo, l'hai
capito, vero?»
Chiese la ragazza che stava ancora meditando sulle ultime sconvolgenti, ma
anche illuminanti notizie ricevute. Goran non rispose con parole, ma scosse
la testa in segno di negazione. La ragazza non voleva darsi per vinta e
aggiunse:
«Andrej soffre di PTSD e ormai non riusciremo più a controllarlo…»
Sergio e Goran la guardarono con espressione tra l'interrogativo e lo stupito:
«PTRS, PSRT, ma di che accidenti stai blaterando adesso? Ti conosco da
tanti anni ma non ti ho mai sentito parlare di… di… di cosa poi?»
I due uomini erano pieni d'ansia e poco inclini a discorsi che non fossero di
immediata comprensione.
Isabella invece aveva fatto una diagnosi importante riguardo alla condizione
psicologica del capitano della guardia. Con calma la neuropsichiatra iniziò
la spiegazione, ma solo dopo aver fatto accomodare tutti attorno alla tavola
della sala:
«La PTSD, Post Traumatic Stress Disorder, è la patologia che affligge
Andrej e credo anche le altre guardie. Sergio, ti ricordi di Ivan? Ci ho
lavorato per mesi ed è stato l'esperienza lavorativa più difficile della mia
vita» quindi, rivolgendosi a Goran, continuò «un giorno a Treviso ci fu un
orribile duplice omicidio: una giovane mamma insieme alla sua bimba di
soli undici anni vennero sgozzate in casa senza un apparente movente:
nessun furto, nessuna rapina o scasso in casa; era come se conoscessero
l'aggressore. L'ex compagno della donna nonché padre della bimba era
all'estero quando avvennero gli omicidi.»
«Ah sì, mi ricordo» disse Sergio che aveva ricollegato il fatto a uno dei
momenti più difficili della carriera della giovane psichiatra «quello per cui ti
sei sentita in colpa per così tanto tempo! Che assurdità, tu non avevi fatto
nulla che ti potesse essere imputato, ma hai continuato lo stesso a stare male
per quel caso.»
«Insomma, dopo poco più di un mese ci fu un altro assassinio sempre di una
madre e della sua bambina e sempre senza movente alcuno. Allora, non
avendo sospettati, gli inquirenti cominciarono a passare in rassegna tutte le
persone che avevano a che vedere con entrambi i casi, persone che fossero
conoscenti di tutte le vittime. Essi arrivarono a individuare tre soggetti, tutti
senza precedenti penali che erano però venuti a contatto con le due donne:
tra questi c'era Ivan, un elettricista di origine russa che aveva messo a posto
l'impianto elettrico alla prima vittima e aveva anche lavorato per un quadro
elettrico bruciato nell'ufficio dove lavorava la seconda. Io fui chiamata ad
assistere all'interrogatorio dei tre sospettati senza che questi mi vedessero e
poi per fare dei test per capire se c'era qualche patologia in uno di loro o
solo per scoprire se mentivano. Purtroppo i test di Ivan furono negativi e
anche l'atteggiamento psicologico nonché le inflessioni vocali diedero tutti il
medesimo risultato: il soggetto diceva la verità, quindi era innocente.»
«Diceva la verità? Com’è possibile riuscire a dire la verità mentendo? Mi
sembra un’affermazione che si nega da sola!» Sergio era talmente
interessato a quanto stava dicendo la fidanzata, che non si accorse che al
contrario Goran tamburellava nervosamente le dita sul tavolo e guardava
continuamente verso la porta.
«Se ne sei veramente convinto, non stai fingendo. Per Ivan la situazione era
questa, ma ancora non lo sapevamo. Quando furono comunque controllate
le impronte digitali e la provenienza reale di Ivan si scoprì che in realtà
aveva mentito: non era russo, bensì ceceno.
Partirono subito delle ricerche per capire chi fosse in realtà e mi fu richiesta
una nuova perizia psicologica visto che quella precedente non corrispondeva
con il profilo che avevo redatto. Mi sentii malissimo, come potevo aver
sbagliato? Al di là della mia soggettività nell'interpretazione della mimica
facciale, gestuale e della voce, c'erano i test e questi sono oggettivi!
Ivan comunque fu rilasciato con obbligo di firma, anche perché a suo carico
c'era solo un'accusa di falsa identità in stato di necessità, grazie al suo
avvocato che dimostrò che era fuggito durante la seconda guerra
d’indipendenza cecena per evitare persecuzioni da parte dell'esercito russo.
Con la sua falsa identità sovietica Ivan era riuscito a uscire dalla Cecenia
prima e dalla Russia poi e ad arrivare in Italia, ricostruendosi una vita.
Una mattina, mentre stavo andando in ospedale per un’altra perizia, ricevetti
una telefonata da Armando. Aveva scoperto qualcosa di importante sul
passato di Ivan e mi pregava di raggiungerlo subito. Mi rifiutai
stupidamente a causa dell'impegno di quel giorno: dovevo fare una
valutazione psicologica su una minore, forse vittima di abusi da parte del
nonno. Gli dissi che lo avrei chiamato quella stessa sera.»
A quel punto Isabella si fermò visibilmente emozionata: il velo umido che
apparve sui suoi occhi in un attimo diventò pesante e scivolò sulle guance
come lacrime.
«Quella sera tornai a casa molto tardi, ero stanca e mi dimenticai di
chiamare Armando. Così persi un altro giorno. Lo sentii il pomeriggio dopo
e ci trovammo la sera stessa. Armando aveva scoperto che Ivan aveva perso
la moglie e la sua bimba di appena dieci anni durante la battaglia di
Groznyj, nel 1999: furono sgozzate entrambe da parte dell'esercito russo
durante la battaglia in cui fu rasa al suolo la capitale. Ivan, che si chiamava
in realtà Aslan Basayev, entrò a far parte dell'esercito indipendentista
ceceno proprio a causa della terribile perdita che aveva subito. Si sospettò
poi che facesse parte del commando della strage di Beslan e che fosse uno
dei terroristi che riuscì a scappare durante l'assalto alla palestra della scuola
delle forze speciali russe. In ogni caso dal 2004 di lui si era persa ogni
traccia.»
«Mi dispiace per tutto quello che stai soffrendo» disse a un certo punto
Goran, che era stato zitto fino a quel momento «ma abbiamo poco tempo e
proprio non capisco cosa c'entri questa storia con noi e con Andrej.»
Il sub sembrava spazientito, si capiva che voleva andare a fare qualcosa di
importante per la fuga e non aveva molta voglia di perdere tempo
inutilmente.
Isabella capiva la fretta dell'amico croato, ma era certa che Goran stava
sottovalutando la situazione, fidandosi più del suo istinto e delle sue
conoscenze personali.
«Porta ancora un po' di pazienza, ho subito finito» gli rispose e ricominciò il
racconto.
«Ivan era arrivato in Italia proprio nel 2004 con documenti falsi e insieme
anche a una compagna e a una figlia piccola. Quando Armando mi illustrò
tutto questo, capii subito il mio errore: Ivan era affetto da PTSD, quindi
aveva sì uno sdoppiamento, ma non di personalità, ma di temporaneità.
Viveva nel presente come elettricista e contemporaneamente nel passato
ricreando esperienze traumatiche, subite e inflitte evidentemente, ogni volta
che gli si innescava il ricordo che aveva dato origine alla terribile patologia:
la vista di una mamma felice con una bimba, compatibile con l'età di quella
che gli era stata terribilmente sottratta. Con Armando cercammo di capire
l'età della figlia che aveva in Italia e quando scoprimmo che aveva compiuto
dieci anni, corsi contro il tempo per avvisare e convincere le autorità del
pericolo che stavano correndo la nuova moglie e la sua bimba.»
Isabella si fermò di nuovo: le lacrime avevano ricominciato a rigarle il bel
viso abbronzato e la stanza rimase immersa in un silenzio grave.
«Arrivammo troppo tardi,» disse con un filo di voce contratta «sarebbe
bastato un solo giorno, uno solo, e invece io avevo altro da fare!» Isabella si
era trasformata in un attimo e ora la rabbia aveva preso in lei il posto della
pietà alterandole la voce fino a farla urlare. Si riprese subito vedendo
l'espressione degli altri quasi atterriti dalla violenza con cui stava sfogando
il suo senso di frustrazione e di autocommiserazione e, ritrovando il
controllo, continuò:
«Insomma, per farvela breve, Andrej e la sua banda di schifosi assassini
stanno combattendo una guerra nel senso reale e più temibile della parola e
il nemico da distruggere siamo noi. Goran, mi dispiace dirtelo, ma sono
arrivata alla conclusione che anche tu sei passato, ai suoi occhi, dall'altra
parte della trincea. La patologia ormai ha preso in lui il sopravvento e ho il
fondato timore che Andrej si stia preparando per la battaglia finale. La fine
brutale e gratuita della ragazza è un chiaro indizio che il capitano sta
rievocando e ricostruendo qualcosa che ha vissuto durante il servizio
militare negli anni del conflitto e che lo ha segnato a tal punto da non
riuscire più a relegare nel passato tali ricordi dolorosi.»
L'analisi di Isabella fu talmente lucida, brutale e convincente, che Sergio si
sentì girare la testa così tanto da buttarsi di peso indietro sulla spalliera della
sedia e con le mani si nascose il viso preso da un senso di cupa disperazione
dettata dall'incapacità di difendersi in una terra che non gli apparteneva e
che non offriva vie d'uscita rassicuranti.
«Io odio la guerra in ogni sua forma, ho scelto di fare l'obiettore di
coscienza e ho giurato a me stesso che non mi sarei mai fatto trovare in
alcun luogo che fosse anche lontanamente in odore di qualsivoglia specie di
conflitto. E adesso rischio invece di morire e di non poter difendere la donna
più importante della mia vita, a causa di un branco di malati psicopatici che
non riescono a uscire dalla loro maledetta battaglia personale, che per di più
sono dei reduci armati fino ai denti e degli esperti assassini!»
Isabella non amava vedere le persone sopraffatte dal senso di impotenza,
emozione che purtroppo conosceva molto bene:
«Ti sbagli, c'è sempre una via d'uscita, ma non possiamo fare sciocchezze,
dobbiamo muoverci con estrema cautela e cercando di prevedere qualsiasi
mossa di Andrej. Il capitano è sicuramente manovrato da quel Dinko che
sfrutta la sua grave patologia a fini personali e di certo poco edificanti, ma
ho come l'impressione che sia sfuggito anche al suo controllo. Quel
delinquente deve aver causato qualcosa che ha fatto uscire del tutto Andrej
dal fragile equilibrio che lo legava in parte alla realtà, e adesso è un cane
sciolto. Ma ho soprattutto molta paura per te, Goran!»
Isabella adesso si era girata verso l'amico straniero che ancora non aveva
detto nulla. E aggiunse: «Dobbiamo scappare tutti insieme, anche con tua
moglie, e dobbiamo farlo il più presto possibile».
L'obiezione del sub arrivò senza mezzi termini e con grande determinazione.
«No, lei non corre nessun pericolo, può restare qui tranquillamente. Non è
Suzana che vogliono, oltretutto non erediterebbe nemmeno l'usufrutto della
casa anche se morissi, invece se sparisse pure lei insieme a noi, la nostra
fuga sarebbe più evidente. Anzi, Suzana si farà vedere tranquillamente in
paese. Mi dispiace per quello che hai sofferto, ma qui non sei nel tuo
ospedale psichiatrico, non hai fatto test o altre cose che possano darti
ragione. Io conosco il mio paese e la mia gente e non da sole due settimane!
Sei tu che devi fidarti di me.»
Il sub rispose sicuro e con una tale risolutezza da non lasciare spazio a
ulteriori obiezioni e si alzò in piedi trasmettendo il chiaro messaggio che
non avrebbe ascoltato nessun'altra storia od obiezione che fosse. Isabella
annuì sconfitta e si alzò insieme a Sergio per andare a riposare.
Capitolo 33
Suzana
La stanza di Ana era arredata con semplicità e solo con l'essenziale: il letto
aveva una squadrata e bassa testiera in legno chiaro che lasciava intravedere
agli angoli la scollatura dell'impiallacciatura di qualità modesta. La stretta
finestra incastonata tra i muri larghi almeno trenta centimetri incanalava la
luce in un cono che si arrestava sul pavimento con un rettangolo luminoso
dai lati ben definiti, facendolo brillare grazie alle piastrelle bianche
pulitissime. Sopra al letto un piccolo crocifisso vegliava attento e sofferente
su chi vi si buttava a riposare. Il comodino, dello stesso legno del letto e con
gli angoli consunti, era un tozzo cubo vuoto con un cassetto sottile
“abbellito” da un pomello non dello stesso colore e anche troppo grande,
che stonava nelle proporzioni. Di fronte si trovava l'armadio: una tavola di
legno che chiudeva un parallelepipedo senza alcun fregio, movimento o
abbellimento se non un pomolo identico a quello del comodino, che però, in
questo caso, si perdeva nel vuoto delle forme.
Isabella, guardandolo, ebbe la sgradevole sensazione di una cassa da morto
in piedi, pronta a caderle addosso e a chiuderla dentro per sempre. Per
ultima, a fianco dell'armadio, si trovava una sedia di legno sbiadito con la
seduta dritta e liscia.
“Qui nessuno soffre di horror vacui!” pensò Isabella provando un senso di
disagio per quelle pareti spoglie.
Sergio si sdraiò sul letto e fece cenno con la mano alla compagna affinché si
mettesse al suo fianco e insieme rimasero in silenzio a guardare il soffitto
imbiancato chissà quanti anni prima e costellato da macchie di umido di
ogni dimensione e tonalità, dal grigio al beige, ognuna con i propri bizzarri
anelli di accrescimento ammuffiti che le facevano assomigliare a vecchi
tronchi d'albero tagliati. Il tempo passava lento e la loro mente continuava a
lavorare senza tregua: Isabella era preoccupata per la vita di tutti e non
trovava alcun sollievo al pensiero che il giorno dopo, a quella stessa ora,
sarebbe stata a casa, fuori da quell'inferno e al sicuro, sempre che fossero
riusciti a sfuggire ancora per poche ore.
Sergio, invece, si tormentava alla ricerca di una strategia che lo
coinvolgesse personalmente, mal sopportando il fatto di essere in mano a
uno sconosciuto, o quasi, del quale ancora non si sentiva sicuro e che non
credeva poi così diverso dagli altri slavi che li braccavano. Per quanto si
sforzasse, l'entomologo si rendeva conto della sua impotenza in quella
situazione della quale era venuto a conoscenza da troppo poco tempo, e
l'unica conclusione ragionevole alla quale continuava ad arrivare era proprio
quella di affidarsi a quel sub croato nella speranza che davvero fosse una
vittima come loro.
Verso ora di pranzo Sergio si assopì stanco per la troppa adrenalina che
continuava a liberare dentro di sé ogni volta che ripensava alla fuga di
quella notte. Isabella si alzò, uscì in silenzio dalla stanza e scese in cucina
dove sentiva Suzana che stava rumorosamente cucinando per tutti:
«Che profumo delizioso!» Mentì spudoratamente, percependo solo un acre
odore di aglio bruciato che sovrastava qualsiasi profumo di buon cibo,
sempre che ce ne fosse stato uno!
«Grazie, vi sto preparando bietole e patate e spezzatino di maiale con le
cipolle, un piatto che piace molto a Goran.»
Isabella sorrise a denti stretti pensando alla difficile digestione alla quale
sarebbe presto andata incontro.
Suzana parlava molto bene italiano e il suo vocabolario era molto ampio
grazie al fatto che spesso dialogava in quella lingua con il marito, il quale
era stato cresciuto sia dalla mamma sia dalla nonna materna che era di
nazionalità italiana, più precisamente figlia di due pescatori chiozzotti che si
erano trasferiti a Lussino verso la metà dell'Ottocento.
Suzana era una donna molto alta e corpulenta, con i capelli corti e tinti di un
biondo eccessivo. La ricrescita era ampia, almeno di tre centimetri, e dava
l'idea di trasandatezza, svelando in modo quasi chiassoso il vero colore
grigio originale. Il corpo era dritto, privo di vita, probabilmente l'età e la
gravidanza l'avevano segnato eccessivamente a causa della poca attenzione
e volontà a ritornare al proprio peso forma; il seno pesante stonava con
l'aspetto androgino tipico delle donne croate di quella età. La sua
espressione era sempre dolce e affabile, sorrideva silenziosa e non la si
vedeva spesso, perché sfuggiva veloce verso continue occupazioni
domestiche.
Isabella sentiva l'impulso irrefrenabile di mettere in guardia quella amabile e
gentile signora dal terribile pericolo che, secondo lei, correva seriamente.
«Goran ti ha raccontato tutto, ti ha messo al corrente di quello che sta
succedendo qui a Lussino e che purtroppo ci ha coinvolto a tal punto da
dover fuggire come ladri stanotte stessa?» disse Isabella tutto di un fiato non
sapendo come riuscire a esordire in modo più morbido. Suzana poggiò
lentamente il mestolo dello spezzatino sul piattino sbocconcellato a fianco
dei vecchi fornelli a gas, si asciugò le mani sulla traversina sbiadita e bucata
in più parti che le cingeva la vita e si girò per guardare Isabella dritto negli
occhi.
«La guerra è una malattia dalla quale non si può guarire. Solo chi non l'ha
mai vissuta, ne è immune. È dal giorno in cui Goran partì per la trincea che
ho capito quanto la mia vita non valga nulla, siamo solo formiche e il piede
che ti può schiacciare è grande, offusca il cielo, ma non lo senti arrivare e
non lo puoi fermare se ha deciso di passare proprio sopra di te.»
Isabella spalancò i suoi grandi occhi in segno di confusione: Suzana aveva
parlato più come un capo indiano Sioux invece che come una casalinga
croata. Aveva capito giusto? Forse il concetto era più grande di quanto lei
stessa potesse attribuire a una persona semplice con un grado di istruzione
sicuramente non molto elevato. Rimase interdetta mentre Suzana si girava
nuovamente verso la pentola che bofonchiava tranquilla emanando il suo
odore intenso in piccole nuvole di vapore.
Non era da Isabella arrendersi una volta che aveva deciso qualcosa e così
incalzò:
«Credo che siamo tutti in pericolo, compresi te e Goran, e forse sarebbe
meglio se stanotte ce ne andassimo via insieme. Una volta che la situazione
si sarà calmata, potrete tornare tranquillamente. Andrej, il capo della guardia
costiera…»
Isabella non riuscì a finire la frase che Suzana alzò la voce per sovrastare la
sua e questa volta si girò di scatto e con il mestolo umido in mano:
«Andrej Horvat, so benissimo chi è. Abbiamo fatto sia le elementari che le
medie insieme, siamo dello stesso anno. Lei non deve preoccuparsi di nulla,
Goran sa cosa fare. Voi non potete capire, voi non siete di qua.»
La voce della donna faceva intendere che ci fosse quasi dell'aggressività in
lei e Isabella si sentì a disagio. La casalinga sembrò rendersene conto e
cambiò tono, anche se non mutò però parere sull'argomento.
«Vada di su con il suo amico, la chiamo per il pranzo.»
Suzana abbozzò un sorriso poco convincente e ancora una volta Isabella
dovette arrendersi. La sua anima da psichiatra però la faceva elucubrare
sull'accaduto e si rese conto che la reazione della moglie di Goran era in
realtà più che normale. Quella donna era prima di tutto una madre e una
moglie e aveva già sofferto della precarietà della situazione quando, come
lei stessa aveva ricordato, suo marito era partito per la guerra. Chissà quanta
angoscia aveva provato aspettando il ritorno di Goran e temendo invece
l'arrivo della fatale notizia da parte dei militari addetti ad avvertire le
famiglie nel caso della perdita del proprio caro. Mesi e mesi passati in un
paese allo sbando e con una bambina da tirar su e magari dovendo
sopportare la fatica di mostrarle sicurezza per darle una serenità fittizia.
E adesso?
È un normale processo mentale, un desiderio innato quello di attribuire a
qualcosa o, meglio, di personificare in qualcuno di avventizio la causa del
proprio dolore per il ritorno all'incertezza, alla sensazione di impotenza
verso degli avvenimenti che vedono in persone senza Dio e senza morale il
potere di decidere il destino degli altri con la stessa facilità con cui un
giocatore d'azzardo tira i dadi su di un tappetino verde.
E se devi morire, sono loro a decidere come, quando e soprattutto con
quanta sofferenza. Povera Suzana: Isabella e Sergio erano sicuramente la
causa del ritorno all'inferno suo e del suo compagno di vita, ed erano anche
stranieri, due persone che non conoscono il tessuto locale e che quindi si
muovono come elefanti in una cristalleria scatenando reazioni a catena
senza rendersene conto.
“Ma questo è veramente il pensiero di Suzana, o sono solo le mie paure che
ora attribuisco a lei?” pensò Isabella provando anche ammirazione per le
regole che disciplinano il modus operandi del medico, a volte
apparentemente rigide, ma che poi mostrano tutta la loro valenza: come in
questo caso, in cui la ragazza capiva il motivo per il quale il bravo psichiatra
non può farsi coinvolgere personalmente nella situazione che sta indagando,
altrimenti perde di obiettività e quindi non può svolgere la sua mansione di
bravo diagnosta. Quanta verità, quanta amarezza! Consapevole della sua
impotenza, Isabella si distese a fianco di Sergio, si cullò del suo calore che
le infondeva sicurezza e sentì crescere in sé la consapevolezza di quanto
importante fosse condividere con qualcuno la propria vita, anche se il
prezzo della paura di perderlo è molto alto.
Goran arrivò dopo una mezzoretta e Suzana chiamò gli ospiti per il pranzo.
Il nervosismo era palpabile nella stanza e solo Isabella tentava inutilmente
di aprire un qualsiasi argomento per tagliare l'aria. Stufa di tergiversare,
decise di andare dritto al sodo, che alla fine era proprio il modo migliore per
diminuire la tensione.
«Sei riuscito a fare quello che volevi?» Si rivolse a Goran tentando di sapere
anche cosa mai avesse avuto da fare per almeno due ore.
«Sì, grazie. Ho spostato la barca in un angusto approdo tra Rovenska e
Javorna, un’insenatura con un piccolo molo in cemento che avevo fatto io
una decina di anni fa. È vicinissima al porticciolo di Rovenska ma è anche
molto stretta e profonda e non è facile vederla se proprio non la vai a
cercare. In più la camminata in cemento arriva fino a lì, così tra un paio
d'ore potrò andare al moletto con l'Ape car e portare i vostri bagagli in
barca. Verso le sei, con molta calma tu e Sergio, vestiti da mare, con un
cappello di paglia in testa e gli occhiali da sole, vi incamminerete fino alla
baietta. Poi da lì partiremo subito verso la Slovenia. Ci vorranno più o meno
dodici ore. Per le sette di domani mattina dovremmo aver varcato il
confine.»
Goran aveva parlato con la sicurezza di chi ci aveva pensato a lungo e aveva
preso in considerazione ogni possibilità con le relative implicazioni. Isabella
annuì insieme a Sergio; le indicazioni erano semplici, chiare e non c'era
molto da aggiungere. Finirono tutti il pranzo in silenzio.
Capitolo 34
Cielo offuscato
L'ora della dipartita tardava ad arrivare come non mai, anche perché le
giornate dei primi di luglio sono le più lunghe e soleggiate dell'anno. Il cielo
era sempre così incredibilmente terso da non scandire le varie parti del dì,
poiché non cambiava mai luce se non fino a quando si arrivava proprio a
ridosso del tramonto; solo allora il sole si dilatava abbassandosi
sull'orizzonte e, assumendo un caldo colore aranciato, inondava il
firmamento con il suo splendore annunciando l'arrivo della sera. Verso le
cinque consumarono tutti un semplice spuntino di pane e formaggio di
pecora; i due ragazzi si erano preparati con i vestiti da spiaggia per uscire di
casa, arrivare con tranquillità apparente all'appuntamento e salire poi
velocemente in barca appena Goran fosse arrivato al piccolo approdo sito
dopo il porticciolo di Rovenska. Zia Romina, intanto, era tornata a casa e
aveva trovato la lettera di Isabella che le illustrava il motivo dell'improvviso
rientro in Italia a causa della chiamata da parte del tribunale dei minori per
un caso molto delicato che stava seguendo proprio lei. Goran era andato ad
accoglierla, l'aveva informata che la nipote era partita e che lui stesso
l'aveva accompagnata al traghetto quel mattino.
Il sub le aveva spiegato brevemente anche il perché di tanta polizia alla
stazione d'imbarco, ma aveva sorvolato sui terribili particolari dell'omicidio
e anche sul fatto che la ragazza fosse una runner. Poi si era fatto vedere
tranquillamente in paese passeggiando come se non avesse né fretta né nulla
da fare.
Alla fine aveva preso l'Ape car e, come programmato, si era diretto verso il
luogo della partenza, ma solo successivamente all'aver caricato i bagagli nel
piccolo pick-up, sotto a sterpaglie e ramaglie che li nascondevano
perfettamente.
Isabella e Sergio intanto avevano calcolato circa trenta minuti abbondanti
per raggiungere il luogo dell'incontro. Dopo essersi vestiti di tutto punto,
scesero dalla stanza di Ana e passarono per la cucina a salutare Suzana.
Uscirono dalla casa e subito arrivarono sul lungomare; tenendosi per mano,
si incamminarono verso la baia. Molti turisti stavano percorrendo il sentiero,
poiché a quella l'ora la maggior parte della gente tornava a casa alla fine di
una lunga giornata di sole, ma loro andavano in un certo senso contro
corrente.
Scesero giù sulla piazzetta di Rovenska, dove si trovavano in fila i tre
famosi ristoranti di pesce che occupavano quasi tutto il passaggio con i loro
tavolini già ben preparati; in mezzo i camerieri sorridevano ammiccando e
facendo cenno con un movimento del braccio ai passanti di accomodarsi per
mangiare.
Isabella pensò che quello non era certo il momento per consumare una
cenetta romantica in riva al mare, ma guardando tra i tavoli vide che
qualcuno di essi era già occupato da turisti tedeschi che stavano
pasteggiando anche se l'ora sarebbe stata più adatta per consumare the e
pasticcini.
Lei e Sergio non avevano il coraggio di dirsi nemmeno una parola e, come
ombre che scorrono alla veloce luce dei fari di una macchina in movimento,
uscirono svelti quasi scivolando dal piccolo porto e si incamminarono verso
la salita che conduceva alla spiaggia di sassi della frazione.
Scesero speditamente l'altura e si trovarono di fronte allo stretto bivio che
portava in due luoghi distinti: a sinistra verso la lunga diga rivolta a nord
mentre a destra la strada svoltava invece verso le baie di roccia bianca più
scomode e selvagge. I ragazzi iniziarono a percorrere il sentiero che
conduceva alle cale più lontane e più ambite. Dopo pochi minuti videro la
breve scogliera ingentilita dal cemento e la barca di Goran ancorata al
piccolo approdo; la raggiunsero e vi entrarono nel silenzio più assoluto.
Goran aveva spento il motore e, anch'egli senza parlare, si apprestò a
indicare loro il luogo dove aveva riposto le valige, cioè sotto a una cerata
sulla quale poggiava una grande rete da pesca. Poi li fece allogare lunghi
distesi sotto alle due panchette di legno che adornavano la sobria cabina
della barca e sopra a esse mise delle vecchie lenzuola che uscivano
abbondantemente dai lati nascondendoli alla vista. Alla fine partì tenendo il
motore a basso regime per fare meno rumore possibile; non accese alcuna
luce di posizione, considerato che il sole era ancora sopra all'orizzonte e
lentamente prese il largo senza perdere altro tempo, per evitare che qualcuno
dal vicino porto di Rovenska potesse sentirli o notarli.
Suzana era uscita di casa seguendo le indicazioni del marito: si era fatta
vedere in paese passando per il supermercato a comprare del latte, poi si era
fermata al piccolo Pekara nella piazza del porto di Veli, aveva acquistato un
kremsnite e si era intrattenuta a chiacchierare con Stela, la panettiera sempre
stanca e con due vistosissime occhiaie gonfie e livide sotto agli occhi.
Avevano parlato del più e del meno, fino a che non erano entrati dei turisti
italiani e Suzana si era così decisa a incamminarsi verso casa. Seguì la
strada in direzione della grande chiesa che troneggiava sulla collina sopra
alla banchina del porto, salì la scalinata in pietra bianca e liscia per la
consunzione, poi aggirò il grande edificio per passare davanti al cimitero e
infine arrivò sulla passeggiata lungomare a poche centinaia di metri da casa
sua.
Il cielo cominciava ad assumere un caldo colore rosso acceso e si
specchiava sulla superficie increspata del mare che brillava di infinite lingue
infuocate. La donna sentì un forte senso di disagio al pensiero che non
avrebbe saputo nulla del marito per almeno due giorni e sospirò pensando
che in fondo aveva passato momenti peggiori senza averne alcuna notizia,
anche per tre mesi consecutivi.
Entrò dal cancello di casa e si diresse verso la porta principale con le chiavi
in una mano e la borsa a tracolla con dentro il latte e il sacchetto in carta con
il dolcetto nell'altra:
«Bok Suzana!»
La voce calma e profonda di Andrej la sorprese di lato.
Suzana lasciò cadere la busta del Pekara a terra per l'inaspettata presenza
che era comparsa senza far rumore girando probabilmente l'angolo della
casa.
Si voltò verso il comandante e vide che i suoi tre scagnozzi erano seduti sul
vecchio tavolino da giardino che spuntava dal cortile adiacente, quasi
fossero a casa loro.
«Bok Andrej» rispose la donna con voce ferma e tranquilla e si abbassò con
misurata lentezza a tirar su il pacchetto che le era sfuggito di mano. Poi,
girando la chiave nella toppa sempre con un gran controllo delle sue
emozioni e dei suoi movimenti, senza guardare nessuno in viso, continuò:
«Come mai sei qui? Hai bisogno di qualcosa, o sei solo venuto a
salutarmi?».
Suzana aveva intanto aperto la porta, ma l'aveva lasciata socchiusa perché
non aveva alcuna intenzione di far entrare quelle persone pericolose e
viscide in casa sua, ed era rimasta ferma davanti a essa sperando che la cosa
si risolvesse velocemente.
«Solo un'informazione, Suzana, non siamo riusciti a trovare Goran in paese,
sai dove lo possiamo rintracciare?»
Andrej era strano e il suo atteggiamento, diverso dal solito, non sfuggì alla
donna che cominciò a sentirsi a disagio.
«Non so di preciso, ma tornerà tra un quarto d'ora, forse mezzora, al
massimo per la cena. Ti faccio chiamare appena arriva…»
L'ingenuità di Suzana la spinse a tentare di introdursi dentro casa come se il
discorso si fosse concluso in quel modo, ma con la mano pronta Andrej
bloccò la porta impedendole di entrare e aggiunse:
«Se non ti dispiace l'aspettiamo qua, ci offri un caffè?»
E a quelle parole i tre scagnozzi si erano alzati e si erano avvicinati tutti
insieme verso l’entrata quasi a fare pressione per insinuarvisi all'interno.
«A proposito, Goran è insieme ai due turisti italiani?» le chiese quasi con
distrazione il capitano.
Suzana fece un'espressione concentrata e poi rispose come se avesse fatto
un'attenta analisi delle sue conoscenze:
«Quali turisti? Non mi sembra che Goran fosse con degli italiani. È uscito
da solo a buttar via i resti delle potature che ha fatto nelle case che
custodisce.»
Andrej la osservava con grande intensità e, senza staccarle lo sguardo
scrutatore, aggiunse:
«Non conosci i turisti italiani che sono ospiti a casa di Romina Resia?
Quello che raccoglie insetti e la ragazza che corre?»
Di nuovo Suzana sembrò concentrarsi sulla domanda:
«Ah, ho capito, i due italiani ospiti di Romina. No, non li vedo da giorni,
non credo li abbia visti nemmeno Goran.»
E ancora la donna rimase ferma sulla porta quasi a bloccarne l'entrata,
infastidita dalla vicinanza fisica di quei militari che non si facevano distrarre
dalla sua apparente sincerità e dal candore che voleva trasmettere.
Marko, Luka e Ivan erano imponenti con la loro statura al di sopra della
media e facevano apparire quasi mingherlino Andrej, nonostante fosse un
uomo robusto di un metro e settantacinque di altezza. Luka e Ivan erano
uomini che andavano per i quarant'anni, mentre Marko era molto più
giovane; era anche una vecchia conoscenza di famiglia: aveva frequentato la
stessa scuola di Ana, ma era di una classe avanti.
Suzana lo conosceva molto bene, anche perché aveva creato non pochi
problemi alla figlia dopo che i due avevano avuto una veloce storia
sentimentale finita quando ancora era sul nascere.
Marko non riusciva ad accettare che Ana lo avesse lasciato solo dopo aver
assistito a una lite tra lui e un compagno della stessa risma che alla fine
aveva lasciato esangue a terra e con il naso fratturato.
Allora era un bellissimo ragazzo, alto, atletico, biondissimo e con due occhi
di un incredibile azzurro pastello, ma ora si era imbruttito a causa della
struttura eccessivamente massiccia e, guardandogli le pupille e l'iride, queste
non trasmettevano alcun sentimento: erano ridotte a due macchie celesti
inespressive perse in due sclere rese rosse da una fitta ragnatela di capillari.
Suzana si girò a osservare Andrej e capì, dal quasi impercettibile sorrisetto
che aveva, che la domanda era retorica e non ammetteva rifiuti: adesso,
volente o nolente, doveva accoglierli in casa per il caffè.
«Anche loro devono entrare?» chiese nell'ultimo vano tentativo di evitare
quello che temeva.
«Perché no?» domandò il capitano, e con un gesto quasi elegante la invitò a
entrare. Il piccolo ingresso dava tre possibilità di scelta: a destra si andava
su di una sala con la vecchia televisione davanti a un logoro divano e a due
poltrone di velluto liscio e dai colori autunnali. Dritto c'era la scala che
portava alle camere da letto e al secondo bagno. A sinistra un'apertura senza
porta conduceva alla cucina che era usata anche come sala da pranzo; era
una stanza spaziosa e al centro si trovava un grande tavolo di legno con
intorno quattro sedie.
Due pareti del locale erano occupate da mobili: da una parte dal grande
lavandino in sasso, come quelli che si usavano una volta, quando non c'era
la lavatrice e il bucato si faceva dentro all'ampia vasca ricavata con lo
scalpellino da un unico blocco di pietra, e intorno a esso c'erano dei pensili
in legno, dipinti molti anni addietro di un colore bianco crema.
Nell'altra parete, quella confinante, si trovavano i fornelli a gas e ancora
degli altri mobili pitturati, chissà quanto tempo prima degli altri, dello stesso
bianco-giallognolo, residuati dagli anni ’60 e recuperati dalla cucina di sua
madre. Nella terza parete si trovava una graziosa credenza del medesimo
colore, con all'interno in bella mostra tra i vetri, un set da caffè in porcellana
a tazzine piatte di elegante fattura cinese e conservato con cura.
Andrej aspettò che Suzana entrasse in cucina e poi vi si accomodò anch'egli
insieme ai suoi tre scagnozzi. Il capitano osservò con attenzione la tavola
che non era ancora stata sparecchiata dallo spuntino che avevano fatto i
ragazzi italiani insieme a Goran e alla moglie appena un'ora e mezza prima.
«Vedo che non hai ancora messo in ordine la cucina. Avete avuto ospiti?»
chiese il capitano indicando i quattro piatti con i relativi bicchieri che non
lasciavano spazio a interpretazioni diverse o fantasiose. Suzana proprio non
sapeva cosa dire, il paese era piccolo e facilmente una menzogna era
smontabile in un batter d'occhio: ma aveva scelta?
«Sì, abbiamo mangiato con degli amici francesi che sono arrivati ieri sera...»
Suzana aveva risposto distrattamente, perché la sua attenzione era rivolta
verso Luka il quale, dopo aver strappato la piccola tendina che nascondeva i
detersivi sotto al lavello tenuta su da una asticella di latta gommata, era ora
impegnato a tagliarla in sottili striscioline con la forbice, che aveva preso
dal cesto delle posate. Marko invece aveva chiuso il tappo del lavandino di
pietra e lo stava riempiendo d'acqua. Non c'erano più dubbi, quello che
stavano per farle, anche se non sapeva cosa, la spaventava a morte.
La donna era consapevole di non avere vie di fuga; Ivan era l'unico fermo in
piedi, addetto a bloccare l'uscita e allo stesso tempo osservava la strada
attraverso la finestra: aveva anche chiuso la porta d'entrata a chiave!
Nessuno dei quattro uomini aveva parlato, a parte Andrej che però aveva
comunicato solo con lei; quello che stavano costruendo in quel momento era
già stato deciso in precedenza.
Suzana inspirò profondamente e a fatica, pensò ad Ana, che forse non
avrebbe più rivisto, e a Goran, l'amore unico e grande della sua vita che
adesso non poteva proteggerla perché impegnato a salvare la vita di quegli
stupidi italiani.
Un sentimento di odio verso la psichiatra, quella Isabella, le fece stringere
gli occhi e i pugni: una piccola, presuntuosa, saccente ragazzina che aveva
coinvolto la sua famiglia in beghe che non le competevano e che aveva
anche avuto la faccia tosta di avvertirla del pericolo che correva: proprio lei,
un'italiana che della Croazia non sapeva nulla, che si comportava come se
fosse l'eroina che voleva salvarli e che aveva tutta la verità in mano, quando
invece per colpa sua adesso Suzana forse non sarebbe uscita viva da quella
storia.
«Ma cosa vuoi fare, Andrej?»
La donna cominciò a cambiare atteggiamento e anche tono per ritrovare in
lui il compaesano che era una volta: «Non capisci che qualsiasi cosa tu mi
voglia fare, Goran lo verrà a sapere e non te lo perdonerà mai?».
Intanto, con la coda dell'occhio Suzana aveva visto che i due soldati
avevano finito il loro lavoro: Marko aveva chiuso il rubinetto perché il
lavandino era pieno e Luka aveva legato tra loro le strisce di stoffa
facendone dei lacci.
Andrej rimase impassibile sulla sedia, e con un filo di voce le rispose:
«Goran è solo un disertore!»
Mentre pronunciava quelle parole, gelido come sempre, aveva alzato appena
appena il mento facendo cenno ai suoi uomini che potevano cominciare
l'operazione.
Capitolo 35
La tortura
La donna si sentì afferrare alle spalle e con violenza le furono tirate indietro
le braccia e legate con le corde improvvisate, che le stringevano i polsi
facendole provare un dolore intenso. Spaventata e piena di rabbia cominciò
a urlare al capitano:
«Disertore? Sei solo uno psicopatico! La guerra è finita, non riesci proprio a
capire? Goran non è più un soldato, non ti ha mai tradito, ma non riesci
proprio a capire…»
Ma le ultime parole le furono ricacciate in gola da Marko che, incurante
dell'agitazione della donna, l'aveva portata fino al lavello e le aveva
immerso la testa dentro all'acqua e adesso la spingeva fin sotto alle spalle
tanto che la casalinga toccava con la fronte il fondo della vasca e girava
inutilmente la testa sentendosi soffocare in un'istintiva quanto vana ricerca
d'aria; e lui, il ragazzino di una volta che aveva spesso accolto in casa,
invece guardava divertito le bolle che uscivano dalla sua bocca.
Quando il soldato esperto si accorse che Suzana aveva cominciato a
respirare l'acqua, la tirò fuori e, tenendola ferma per i capelli in ginocchio, la
guardava sempre con sadico compiacimento mentre la poverina sputava
fuori il liquido dai polmoni con colpi di tosse convulsa.
Andrej non aveva mosso un muscolo, nemmeno del viso, imperturbabile
come una statua di marmo: appena la tosse finì, il capitano le si rivolse
ancora:
«Lo sai che mi dirai dove sono andati gli italiani: decidi subito se vuoi
farmelo sapere spontaneamente e la finiamo qua.»
Suzana lo guardò con cupa rassegnazione e gli rispose:
«Io so solo che comunque da questa casa non uscirò viva, ma cosa vuoi che
ti dica? Non so nulla e comunque non ho nulla da perdere.»
La donna aveva temuto molte volte la morte, ma una cosa aveva sempre
giurato a se stessa: nulla e nessuno le avrebbe mai fatto abbandonare la
dignità. Aveva perso il fratello in guerra, ucciso dalla sua stessa gente; loro
avevano il cognome croato, ma la mamma era serba. Stefan era militare di
leva quando iniziò il conflitto tra le due etnie, ma in realtà la lotta doveva
essere tra la Croazia che voleva l'indipendenza e lo stato della Jugoslavia.
Lui fu uno dei primi soldati mandati al fronte, in trincea proprio contro il
suo popolo, i croati, a causa del suo cognome, in quel perfido gioco che
avevano escogitato i capi miliziani serbi per colpire anche psicologicamente
i ribelli, i quali non avrebbero avuto alcuna scelta, se non quella di sparare
contro i propri ragazzi. Il padre aveva pianto nel tentativo inutile di
convincere Stefan a far valere la sua parte di sangue serbo, ma lui niente.
«No, papà, non manderò a morire qualcun altro al posto mio. Sono un
soldato e ubbidirò agli ordini. Ti voglio bene, dillo anche alla mamma.»
Queste erano state le sue parole definitive: il padre le aveva ripetute fino al
suo ultimo respiro, fiero del coraggio e della dignità del figlio, un vero
guerriero.
E così il pover'uomo si era lasciato morire di dolore, seguito solo qualche
mese più tardi dalla mamma. No, lei sarebbe morta con la stessa fierezza,
non avrebbe chiesto pietà a nessuno, cosa che oltretutto sapeva, come
Stefan, quanto fosse del tutto inutile.
Marko aspettò di incrociare lo sguardo del suo capitano e, con un brivido di
piacere, prese Suzana e di nuovo, con più violenza di prima, le mise la testa
sott'acqua usando una forza eccessiva, tanto da farle sbattere la fronte sulla
dura parete di pietra inclinata, fatta apposta per facilitare l'insaponatura della
biancheria sul lavandino. La terribile sensazione di non respirare le faceva
battere ancora di più il cuore e le dava l'incontenibile desiderio d'aria. E
invece la poverina vedeva solo le bolle che le uscivano dalle narici e dalla
bocca e sentiva la lurida mano del vecchio compagno di Ana che le scuoteva
la testa sott'acqua, come fa il coccodrillo con la sua preda dopo averla
afferrata con le possenti mascelle, una volta trascinata sotto alla superficie
della palude.
E ancora una volta Marko la tirò fuori per farle sputare l'acqua che aveva
cominciato a respirare, aspettando solo quell'attimo sufficiente a farle
riprendere fiato, per poi rificcarle la testa dentro alla vasca, al fine di
ripetere ancora quella tortura senza alcuna pietà. Suzana questa volta non si
dimenò, pensò a Stefan, ad Ana, a mamma e papà e, con un profondo e
voluto respiro, cominciò a far entrare copiosamente l'acqua dentro ai
polmoni, concentrandosi ora sul viso del suo amato Goran.
Andrej scattò in piedi come un fulmine, spostò Marko con forza e tirò fuori
Suzana prima che svenisse.
Appena la donna si accasciò sul pavimento, Andrej le sferrò con gli anfibi
un deciso calcio sulla schiena facendola tossire violentemente e
obbligandola così a espellere suo malgrado tutta l'acqua che aveva respirato.
Il capitano, coartato a muoversi e a intervenire di persona per evitare che
Suzana sfuggisse alla tortura, perse per la prima volta la calma, si girò verso
il giovane soldato e gli tirò un pugno in pieno viso rompendogli il naso. Poi,
con una rabbia dentro incontenibile, urlò:
«Razza di deficiente, bestione senza cervello, non ti sei accorto che si stava
uccidendo?»
E senza riuscire a ritrovare il controllo si girò verso Suzana che era ancora a
terra e aggredendola con un altro calcio nello stomaco, le urlò:
«Ti credi tanto furba? Tu muori quando lo decido io!»
Sfogatosi per l'intoppo imprevisto, Andrej tornò con calma ritrovata in un
brevissimo intervallo di tempo a sedersi sulla sedia e, senza parlare, fece
cenno a Ivan di sostituire Marko, il quale, mortificato, con la testa bassa e
con una mano che tentava inutilmente di fermare il sangue che zampillava
dalle narici, si spostò alla porta a controllare le entrate e la strada. Ivan tirò
su Suzana, la fece sedere su una sedia al centro della stanza e le legò i piedi;
poi, con l'ultimo laccio, le strinse la vita intorno allo schienale per evitare
che si potesse muovere.
Luka intanto si era appostato davanti alla vecchia cucina a gas, aveva acceso
un fornello e stava arroventando un affilacoltelli, quello strano attrezzo
lungo, a forma di tubo pieno e sottile, zigrinato per tutta la sua lunghezza e
con la punta smussata.
Quando vide che la parte finale era diventata di un cupo colore rosso e che
nella punta tendeva quasi al giallo, si voltò a guardare Andrej e, vedendolo
imperturbabile, si scostò dal fuoco e andò deciso verso Suzana. La donna
era di spalle e non aveva potuto vedere cosa stesse avvenendo nella sua
cucina, ma sentendo i rumori aveva incominciato a immaginare quale
tortura adesso volessero farle patire e tra sé aveva iniziato a pregare
cercando di contenere il panico. Appena Luka le fu davanti con la punta
arroventata vicinissima al suo viso, non poté fare a meno di trattenere le
lacrime che iniziarono a scorrerle copiose sulle guance e ringraziò
nonostante tutto il Signore che almeno non la faceva singhiozzare. Il
soldato, totalmente insensibile, si pose alle sue spalle, l'afferrò per i capelli e
con brutalità le spinse lo spunzone sulla guancia. Il fumo e l'odore di carne
bruciata che si sprigionarono dal viso della povera donna, insieme a un
crepitio agghiacciante, riempirono la cucina in poco tempo e Suzana non fu
più in grado di trattenersi da un urlo straziante. Le mani del militare non
lasciavano spazio a movimenti che potessero permetterle di ritrarsi anche
solo parzialmente, poiché imprimeva una forza incredibile sul suo cuoio
capelluto, che tratteneva saldamente con il pugno chiuso a morsa e con una
grossa ciocca di capelli tra le dita tozze; frattanto l’uomo usava il gomito
dello stesso braccio per bloccarle il viso dal lato opposto alla guancia sotto
tortura dove stava affondando con ignobile determinazione la punta
arroventata. Luka le lasciò la testa ed estrasse il ferro solo nel momento in
cui vide che non faceva quasi più fumo, giusto quando l'affilacoltelli aveva
attraversato tutta la carne ed era arrivato a toccare un molare della povera
donna.
A quel punto l'uomo si girò e tornò ai fornelli a scaldare nuovamente
l'attrezzo, mentre Suzana poté finalmente accasciarsi sulle corde lasciando
penzolare il capo.
Eloì, Eloì,
lemà sabactàni?
Capitolo 36
La morte rende liberi
Andrej comandò di slegare il corpo della vecchia compagna di scuola e lo
fece sistemare come fosse seduto al tavolo, in modo che posasse la testa sui
suppellettili della cena che ancora riempivano in modo disordinato il piano.
Il viso era irriconoscibile per le profonde bruciature che occupavano gran
parte delle guance. Un occhio era cauterizzato e appariva totalmente bianco;
aveva assunto un aspetto grinzoso per la consistenza quasi solida dell'umor
acqueo che si era gelificato a causa dell'alta temperatura al quale era stato
sottoposto, anche se senza il contatto diretto con il ferro arroventato. Non
era stato facile riuscire a far parlare Suzana, ma Andrej sapeva che era solo
una questione di tempo e di trovare la formula giusta: prima o poi le persone
cedono alle torture. Luka aveva trovato dei vecchi giornali e li aveva dati ad
Andrej, il quale era intento a collocare un tostapane sui pensili vicino alla
cucina economica, un vetusto elettrodomestico con solo il timer e un'unica
temperatura. Marko non si era mosso dalla posizione di guardia della strada,
ma non rinunciava ogni tanto a lanciare uno sguardo di disprezzo verso il
corpo straziato di Suzana, quella vecchia e inutile donna che gli aveva
causato una umiliazione talmente cocente, che avrebbe potuto avere
soddisfazione solo se Andrej gli avesse lasciato finire quello che aveva
iniziato.
Proprio adesso che stava riuscendo a essere considerato al pari di Luka e
Ivan! Lui era il più giovane di tutti, ma soprattutto quello meno esperto,
anche perché Marko, la guerra, l'aveva vista solo con gli occhi di un
bambino incosciente.
Quella sarebbe stata l'occasione per entrare a pieno titolo nel gruppo; infatti
Andrej gli aveva affidato il compito più delicato dell'intera operazione: la
tortura. E invece Suzana aveva rovinato tutto, l'aveva umiliato davanti ai
suoi compagni e fatto colpire dal suo capitano. No, quella donna avrebbe
meritato di passare per le sue mani, e lì sì che il giovane soldato avrebbe
avuto la possibilità di dimostrare quanto valeva davvero!
Ivan era intento a slegare tra loro i lacci fatti con la tendina tagliata e aveva
già riposto nel cassetto l'affilacoltelli dopo averlo ripulito con cura. Il
lavandino venne svuotato dall'acqua e il pavimento ripulito sia dal sangue
della vittima sia da quello del naso di Marko: tutta la cucina stava
assumendo un aspetto di tranquilla quotidianità e di pulizia, come era prima
del loro arrivo nella casa. Andrej intanto aveva attaccato alla corrente il
tostapane e aveva tirato fuori le gabbiette per il pane a cassetta; poi vi aveva
inserito la carta di giornale stropicciata, ma in modo che non fosse troppo
pressata, al fine di far passare aria nel mezzo. Ivan gli si avvicinò e gli porse
una boccetta di trielina, che aveva trovato sotto al lavandino, dove erano
sistemati con cura i detersivi utili per le pulizie di casa. Andrej abbassò la
testa in senso di approvazione e così il soldato si spostò verso il corpo di
Suzana e le versò l'intera boccetta sui capelli e sui vestiti. Poi il soldato
ripose la bottiglietta vuota sotto al lavello.
Tutto ora sembrava a posto: il comandante fece cenno a Luka di andare ai
fornelli; il soldato vi si precipitò e aprì tutte le manopole. Intanto, lui stesso
aveva controllato che le porte e le finestre fossero chiuse e, una volta che
ogni cosa era perfettamente in ordine come programmato, Andrej fece
uscire i soldati dalla casa, rimanendoci dentro da solo.
Il capitano aspettò un minuto abbondante, fino a che non sentì forte l'odore
del gas; a quel punto tirò giù la leva del tostapane, chiuse tutti i fornelli a
parte uno con sopra la cuccuma del caffè e con grande velocità uscì prima
dalla cucina e poi dalla casa chiudendo la porta alle sue spalle.
I soldati intanto erano saliti sulla barca che era ancorata pochi metri più
avanti della villetta, appena sotto a un alto muretto che si tuffava
perpendicolarmente sulla costa e direttamente nel mare e che per questo
aveva nascosto la presenza dell'imbarcazione della guardia costiera solo
qualche ora prima alla vista della donna. Appena Andrej fu a bordo, il
motoscafo salpò a piena velocità solcando il mare in direzione del porto di
Rovenska. Pochi istanti dopo una enorme deflagrazione fece vibrare tutti i
vetri delle case: una lingua di fuoco rossastra e il rumore vibrante di vetri
che esplodevano uno dietro l'altro insieme a quello roco di bombole da sub,
piene di ossigeno compresso, che si squarciavano, riempirono il cielo e l'aria
come i tuoni e le scintille dei fuochi d'artificio a Pechino durante la notte del
Capodanno cinese.
Andrej ormai non rispondeva più ad alcun ordine, aveva solo una missione
da portare avanti: trovare il traditore a ogni costo.
L'imbarcazione continuò a procedere incurante verso la direzione opposta
che aveva preso la gente atterrita e curiosa di andare a vedere cosa mai fosse
successo alla casa di Goran.
Il cielo cominciava a mostrare le note scure blu cobalto in direzione nord,
mentre si opponeva alle tenebre verso ovest con strisce di nubi argentee su
un tramonto aranciato che lasciava brillare unico e splendido come non mai
Venere, quasi fosse un'anima che non volesse assurgere al suo posto nel
firmamento.
Il capitano non si era girato a osservare la devastazione che era in atto alle
sue spalle, concentrato unicamente verso il suo obiettivo:
“Tra meno di tre ore raggiungeremo il bersaglio, ma solo se non faremo
errori!”
E la barca sfrecciò sicura verso nord est.
Capitolo 37
La lunga notte
Erano le 9:30 di sera e la notte si apriva scura come inchiostro perché la
luna non sarebbe sorta se non poco prima dell'alba; il rumore basso della
barca di Goran, troppo vicina alla costa, fece sobbalzare il cuore dei ragazzi
italiani i quali, con un fastidioso tremore alle gambe, uscirono dalla piccola
cabina guardandosi circospetti. Avevano passato ormai la maggior parte
della zona abitata e per questo il sub si avvicinava con cautela alla riva dopo
aver comunque tagliato dritte le tre baie che si susseguivano in fila: prima
Javorna, poi Kriska e infine Jamna. Erano sul punto di attraversare il canale
di Trasorka, un passaggio tra la costa e una bell'isola disabitata chiamata
“Asinello” che preannunciava l'arrivo alla grande curva del litorale di
Lussino, che avrebbe permesso di vedere finalmente Ilovik e San Pietro.
Goran aveva chiamato i due ragazzi per farli uscire dallo scomodo
nascondiglio e per lasciargli respirare la fresca brezza della notte con i suoi
sentori salini che impregnavano le acque scure, le quali venivano tagliate
dalla prua come una lama sulla seta. L'aroma intenso e quasi maschile di
mirto e di ginepro insieme che proveniva dal litorale inebriava l'aria fin sulla
barca permettendo ai tre a bordo di godere del paesaggio che per un
momento poteva distrarli dal viaggio ricco di ansie e di incognite che
stavano affrontando.
«Come mai hai scelto la via di fuga più lunga per la Slovenia? Non era
meglio andare su dal lato est di Ossero, passare il ponte e poi virare verso
nord? Non sarebbe stato più conveniente, vista la lunghezza del tragitto che
hai scelto?»
Sergio aveva atteso il momento secondo lui più adatto per porre quella
domanda a Goran, il quale aveva deciso, totalmente da solo, cosa fosse
meglio fare per sfuggire ad Andrej. L'entomologo non riusciva proprio a
fidarsi del tutto di quell'uomo che, apparentemente senza alcuna ragione, li
stava aiutando a rischio della sua stessa vita.
«Chiunque avrebbe scelto quella via, perché più breve, troppo scontato! E
poi il ponte di Ossero ci avrebbe obbligato a passare all'ora di apertura, alle
cinque di pomeriggio. Facilmente la guardia costiera o la polizia lo stanno
presidiando.»
La risposta di Goran zittì Sergio insieme ai suoi dubbi che l'uomo aveva
perfettamente decodificato. Isabella invece aveva interpretato il quesito
come un tentativo da parte del compagno di essere partecipe e attivo, una
sorta di voglia di essere protagonista in prima persona al fine di proteggerla
come poteva, un sentimento primordiale di tutela da parte del maschio nei
riguardi della propria femmina: quanta tenerezza provò nei suoi confronti!
Passati attraverso il canale di Trasorka immerso nel buio e nel silenzio,
interrotto a intervalli regolari dal verso dell'assiuolo, ecco apparire con le
loro luci tremolanti nel riflesso del mare leggermente increspato, le case del
porto di Ilovik. Dal lato opposto, scura e quasi inquietante, stava immobile e
silenziosa l'ombra nera dell'isola di San Pietro dove si intravedevano, grazie
alla fioca luce riflessa dalle piccole onde, solo le alte e folte chiome delle
palme secolari.
Ora del tutto incolte, le piante imponenti conservavano sovrapposte anni e
anni di corone di vecchie e lunghe foglie secche, le quali non avevano
alcuna intenzione di staccarsi dalle piante madri, colonne maestose e
guardiane incrollabili di anime ormai sparite, immobili testimoni dentro al
chiostro semidiroccato del monastero abbandonato. Isabella stava in
rispettoso silenzio davanti a tanta bellezza, resa ancora più affascinante
dall'atmosfera misteriosa della notte scura, accompagnata dal rumore basso
e costante del motore della barca che procedeva ancora a fari spenti e con
grande cautela.
L'umidità dell'aria le imperlava i capelli di minuscole goccioline di
condensa che glieli faceva scendere in ciocche pesanti che quasi si
appiccicavano intorno al viso e al collo e Sergio, con un abbraccio caldo e
rassicurante, la strinse da dietro, infilando il viso tra la pelle umida e la bella
capigliatura quasi incolta, annusandole entrambe. Per un momento si
dimenticarono del momento difficile e, trovandosi ora uno di fronte all'altro,
si abbandonarono a un bacio appassionato che si perdeva dall'iniziale
tenerezza, in un vortice di emozioni forti e voluttuose fino a far perdere a
entrambi il fiato. Rimasero poi ancora un attimo attaccati l'uno con il viso
sul collo dell'altro e Isabella sentì che le gambe le tremavano, consapevole
ora più che mai che aveva trovato l'amore della sua vita e che stava anche
seriamente rischiando di perderlo a causa di un destino bizzarro, per non
dire crudele che, facendola entrare in una storia di avidità e violenza, glielo
aveva svelato e che ora poteva anche toglierlo. Goran guidava e sembrava
non accorgersi dei due amanti, proteso a percepire ogni rumore o
movimento anche lontani.
Dovevano arrivare a Pirano, primo porto utile della Slovenia, per poter
uscire dalle acque territoriali croate e portarsi tutti in salvo; c'era ancora
molta strada da fare, adesso erano davanti alla baia di Balvanida e, con
grande destrezza, Goran continuava a mantenere una rotta che lambiva la
costa per poter approdare o nascondersi velocemente all'interno di una delle
numerose insenature che si susseguivano come ricami sul profilo dell'isola.
La strategia era semplice: se lui, il capitano, avesse improvvisamente notato
o sentito qualcosa di sospetto come un rumore, una luce o altro che
preannunciasse la presenza o l'arrivo di una imbarcazione, approfittando del
buio e delle luci spente, avrebbe fatto una virata a motore quasi spento. La
risalita era ancora lunga ma Goran, un vero lupo di mare, conosceva come
nessun altro ogni piccolo movimento della costa, ogni scoglio o anfratto che
fosse, perché c'era nato e navigava solcando quelle acque da quando era
troppo piccolo per averne memoria, prima accompagnando il nonno
pescatore in lunghe notti interminabili e poi lui stesso come sub e
quant'altro. Una luce all'improvviso, non troppo distante da loro, comparve
da dietro in direzione sud ovest. Goran se ne accorse immediatamente e così
riparò nella piccola insenatura subito dopo quella di Balvanida, che avevano
superato da poco, dove c'erano già due barche a vela e tre motoscafi che
stavano ormeggiati quieti nel silenzio e nel sonno conciliato dalla cantilena
vibrante dei grilli.
Si accostò lentamente verso il lato più scuro della baia, dove si trovava una
grotta che si apriva sull'acqua con un'ampia apertura che sembrava quasi
risucchiasse la luce da quanto quell'antro si presentava buio; lasciò andare la
barca all’apparente deriva, controllando in realtà la sua inerzia e si fermò a
osservare la situazione solo dopo aver mandato nei loro nascondigli i due
ragazzi. Minuti di silenzio e di attesa con il cuore in gola. La barca a motore
passò lemme lemme e si accostò al golfetto a motore basso; un silenzio
assoluto regnava dappertutto, anche l'assiuolo sembrava avesse percepito il
pericolo e aveva smesso di lanciare il suo fischio caratteristico quasi dalle
note elettroniche. Goran si accucciò vicino al timone senza però perdere di
vista l'imbarcazione, nel tentativo di capire se fosse quella temuta. La
guardia costiera accese un grande faro e illuminò rapidamente le barche
sfiorando appena la loro, poi lo spense e con velocità se ne andò.
Silenzio e ancora grilli e ancora attesa con il cuore in gola.
Passato il momentaneo pericolo, Goran si tirò su dall'angolo dove si era
riparato e rimase immobile a cercare di trovare una spiegazione logica che
giustificasse il fatto che Andrej avesse capito dove erano diretti.
Come poteva essere così abile da riuscire a prevedere senza alcun dubbio la
rotta che avevano studiato per la fuga? Ma veramente stava cercando
proprio loro? Goran non poteva ammettere che il suo vecchio comandante,
per quanto bravo che fosse, avesse già capito che a casa c'era solo Suzana:
forse era meglio che la chiamasse per avere qualche informazione in più, ma
non prima di aver abbandonato quella zona d'ombra, troppo vicina alle
imbarcazioni che stavano ancora nel silenzio più assoluto.
Così riprese il mare con la medesima strategia che si era dimostrata fino a
quel momento vincente, motore a basso regime e luci spente, e dopo un po'
fece riuscire alla notte Isabella e Sergio dal loro scomodo loculo. Intanto
prese il cellulare e chiamò a casa: il telefono suonava occupato come
quando c'è un guasto sulla linea:
«Accidenti!» disse al terzo inutile tentativo e buttò l'apparecchio sul
portaoggetti con un motto di stizza, tanto che il cellulare si aprì in due per
l'impatto, lasciando scivolare la batteria in qualche angolo nascosto della
barca.
«Ma imprechi in italiano?» gli chiese Isabella che non sapeva quale fosse il
problema.
«Era la guardia costiera, vero? Sei preoccupato... lo siamo tutti.»
La giovane psichiatra voleva riuscire a essere ottimista, anche se il momento
era difficile, visto che Andrej aveva intuito quale via di fuga avessero scelto.
Sergio era molto pensieroso, ma non voleva creare eccessivo stress su
Goran, anche se voleva capire cosa nel suo piano fosse andato storto. Alla
fine si decise:
«Come ha fatto quel maledetto assassino a capire la tua rotta? Non avevi
detto che era quella più improbabile?»
Goran strinse le mani con forza sul timone, tanto da far sbiancare le nocche
per la mancanza di sangue; a fatica rispose:
«Ho provato a chiamare Suzana per chiederle se sapeva qualcosa, ma il
telefono deve essere isolato. Non so altro, ma ormai dobbiamo proseguire in
questa direzione, non abbiamo altra scelta.»
Il viaggio continuava monotono e nessuno di loro aveva né sonno né voglia
di parlare.
La notte in mare era umida e afosa e i ragazzi rimasero a poppa nel vano
tentativo di trovare refrigerio in un improbabile refolo d'aria. Il silenzio e il
buio attorniavano la barca che proseguiva senza sosta verso il porto di
Pirano. Verso le quattro la luna fece capolino con la sua sottile unghia di
luce.
Capitolo 38
Destino
Il debole chiarore aranciato delle nubi verso est, sottili come veli stirati dal
vento d'alta quota, preannunciava l'alba quasi imminente; il mare era ancora
scuro e si confondeva verso nord con il cielo, giusto nella direzione di
navigazione della piccola imbarcazione. Isabella era dovuta rientrare con
Sergio per ordine di Goran, che vedeva la fine del viaggio vicina, ma ancora
non si fidava e non abbassava la guardia. La notte era passata senza intoppi
a parte il fugace incontro con il motoscafo della guardia costiera, che poi era
sparito nel nulla. Tutti volevano archiviare quell'incontro con Andrej come
una spiacevole casualità, ma Goran ancora ragionava sull'accaduto non
credendo in cuor suo che fosse solo una coincidenza. Ormai i corpi dei due
ragazzi si erano adattati a quella condizione di scomodo riposo e avevano
entrambi quasi preso sonno, stremati dalle lunghe ore passate a scrutare un
mare e un cielo talmente scuri da dare loro l'impressione che gli occhi
fossero in parte usciti dalle proprie orbite per lo sforzo. Avevano passato da
una mezzoretta la zona di Novigrad e adesso stavano per transitare vicino
alla costa di Umago, a poche miglia da Pirano. Il confine era proprio lì, a
distanza di dieci minuti di navigazione, anche se si sa che in mare la linea di
demarcazione delle acque territoriali non è mai così definita.
Il viaggio era andato anche meglio del previsto, dato che avevano un buon
anticipo con cui si avvicinavano alla meta: le correnti erano state blande e
sempre a loro favore come la rara brezza che era comparsa a tratti a dare un
po' di refrigerio a Goran che non si era più mosso dalla posizione di
comando che teneva ormai da molte ore. L'uomo non sentiva la stanchezza e
non aveva mai smesso di scrutare l'orizzonte, anche se adesso aveva deciso
che era tempo di ricostruire il cellulare per tentare di chiamare Suzana. Non
era certo nel suo carattere distrarsi, ma la luce faceva capolino sempre più
decisa all'orizzonte e il non avere l'illuminazione della barca ormai non
rappresentava più un pericolo per la traversata. Si protese verso il
portaoggetti davanti al vetro della zona di pilotaggio, dove il timone di
legno chiaro verniciato faceva pendant con lo strato lucido e delicatamente
venato che ricopriva il vano dove si era aperto, smontandosi, il telefonino.
Senza abbandonare la guida, Goran cominciò a tastare intorno, ma non
riusciva a incappare con la batteria che era stata eiettata in qualche anfratto
senza che lui se ne fosse accorto.
Nulla, l'oggetto sembrava sparito e certamente non si trovava lì e adesso il
capitano doveva fare una scelta: o abbandonava per un momento il controllo
della barca, o rinunciava una volta per tutte a chiamare Suzana.
Le luci tremolanti di Umago all'orizzonte, l'aria limpida e cristallina che
andava a diradare l'umidità della notte scelsero al posto suo: l'ultima volta
che aveva percorso quel lungo tragitto, era stato proprio con lei, la paziente
e fedele compagna della sua vita, e insieme avevano assaporato in silenzio
la bellezza di quel paesaggio che d'allora era rimasto immutato come dentro
a una cartolina.
Il desiderio di chiamarla divenne insostenibile e così si accucciò per
esplorare gli angoli scuri della barca dove la pila poteva essersi infilata.
Un rumore di motore di motoscafo in veloce accelerazione lo fece rialzare di
scatto e Goran dovette comandare l'arresto improvviso della sua
imbarcazione per non andare a impattare con un natante della guardia
costiera. Intanto, Sergio e Isabella erano stati scossi dall'improvvisa frenata
e si erano gelati nella loro scomoda posizione, rallentando istintivamente
anche il respiro: la tensione divenne talmente forte da impedire a entrambi
di dirsi anche una sola parola e tutti i loro sensi erano come acuiti nel
tentativo di capire se stava succedendo proprio quello che avevano temuto.
La luce potente di un faro che filtrava fredda come la paura da sotto le
vecchie lenzuola che li nascondevano e una voce dura, forte, imperiosa che
urlava degli ordini presumibilmente a Goran tolse ai due fuggitivi la
speranza di essere usciti dall'incubo:
«Andrej, è lui, siamo finiti!» disse Sergio con un filo di voce.
«No,» rispose Isabella «non è ancora detto. Ho mandato una mail ad
Armando affinché mandasse la guardia costiera italiana a prenderci al
confine. Mi ha risposto che le autorità avevano dato parere positivo,
trattandosi della protezione da dare a dei testimoni di più omicidi a opera di
autorità locali, ma dovevano accordarsi con la guardia slovena, altrimenti
potevano esserci dei problemi e mi avrebbe fatto sapere appena aveva
notizie.»
«Bravissima, sei sempre la migliore!» rispose Sergio rincuorato
dall'efficienza e dalla prontezza dell'amica «E cosa ti ha risposto?»
«Non mi ha risposto.» Isabella aveva la voce che tremava: stava valutando
la situazione e cominciava a non essere poi così sicura come un attimo
prima.
«Non ho fatto in tempo a controllare la posta, perché siamo partiti, ma…»
«Ma cosa?» chiese l'amico che aveva intuito che forse c'erano altri
problemi.
«L'ora. Che ore sono? Io ho detto che saremmo stati al confine sloveno
verso le sette» Attese la risposta dell'entomologo con molta trepidazione
non avendo con sé l'orologio.
«Le sei e cinque.» Tra i due cadde un silenzio pesante come un macigno,
mentre dall'esterno della cabina si sentì chiaramente la voce autoritaria di
Andrej che intimava qualcosa a Goran.
E con la triste consapevolezza che la guardia costiera italiana sarebbe
arrivata quando forse sarebbe stato troppo tardi, Isabella si sentì smarrita,
svuotata dell’energia che invece altre volte in situazione di pericolo aveva
cosi prepotentemente ritrovato, e tutto il corpo cominciò a tremare come
mai le era successo prima, per la consapevolezza quasi caustica che questa
volta non esistevano vie di fuga: erano topi in gabbia.
Le voci di Goran e Andrej erano concitate, ma la lingua croata non le dava
la possibilità di capire minimamente quello che stava succedendo e cosa mai
si stessero dicendo.
L'unica cosa che Isabella vedeva ora davanti a sé, come una premonizione,
erano le figure delle guardie sbronze e lei che veniva picchiata a morte nel
dolore fisico e in quello morale, ancora più crudele, perché scaturito dalla
sconfitta e dall'impotenza.
La rabbia e la paura si mischiarono dentro di lei: ripensò alla sua vita, a
quanta fatica le era costata la posizione che ora aveva raggiunto nella
società.
Aveva studiato duramente per anni e anni, aveva rinunciato a vivere
esperienze che altri suoi coetanei invece avevano potuto permettersi, il tutto
perché lei voleva investire in un futuro solido, vero, d'intelletto. Aveva
scelto di aspettare a farsi una famiglia perché non voleva accontentarsi del
primo arrivato, aveva trovato nel suo lavoro la vera essenza del giuramento
di Ippocrate, ci aveva creduto a tal punto da avere la presunzione di essere
arrivata fino a lì perché quello era il destino voluto per lei direttamente da
Dio e perché aveva un ruolo da svolgere, una missione verso gli altri.
Ma quale giustizia esisterà mai che possa permettere a degli uomini, più
vicini ad animali che a esseri umani, di sentirsi onnipotenti? Persone
ignoranti, cattive, crudeli senza possibilità di salvezza, di recupero, privi di
ideali e di morale, ma capaci di sentirsi padroni delle vite degli altri, in
grado di decidere il destino di chi vogliono, scegliere chi può vivere e chi
deve morire e in che modo, nella certezza dell'impunità.
La sua stessa vigliaccheria le dava la nausea: lei, la donna che si sentiva
forte in ogni situazione, in grado di trovare sempre soluzioni ai problemi più
intricati, capace di dispensare sicurezza e verità a chiunque, di distribuire
consigli a pioggia come se esistesse sistematicamente una via d'uscita per
qualsiasi circostanza.
Lei era quella dai mille rimedi per tutti, che elargiva saggezza e certezze
dall'alto del suo equilibrio: lei, proprio lei, l'infallibile, che aveva fatto un
errore così ingenuo da mandare un orario certo, quando di certo non aveva
proprio nulla e adesso era ridotta a nascondersi come un ratto nel buio delle
condutture sotterranee, sperando ormai solo nell'intervento dell'arcangelo
Gabriele.
Lei, che adesso nascondeva il viso tra i pugni serrati spingendo con forza gli
occhi dentro le orbite nell’infantile convinzione inconscia che, se gli avesse
impedito di vedere, non le sarebbe successo nulla.
Capitolo 39
Ana
Ana stava camminando nervosamente davanti al telefono di casa, senza
sapere come fare: aveva cercato di comunicare con la madre, ma la linea
sembrava isolata e in più il padre aveva il cellulare che suonava a vuoto.
L'impossibilità di avere notizie dai genitori in una situazione così pericolosa
le dava angoscia e una brutta sensazione che continuava a reprimere dentro
di sé e che non voleva razionalizzare.
Ana era una donna alta, imponente nel fisico come sua madre dalla quale
però non aveva preso null'altro; lo sguardo e il colore celeste pastello degli
occhi erano quelli di Goran, così come le inclinazioni e le passioni.
Amavano entrambi il mare più di ogni altra cosa e da questo ne traevano la
linfa vitale. Ana aveva sposato Stjepan, un ragazzo sloveno che lavorava
come guardia forestale e così si era trasferita in una casetta in legno e
cemento nei boschi presso Pirano dove il marito svolgeva la mansione di
guardiacaccia. Non si era mai pentita della sua scelta, soprattutto adesso che
aveva avuto una bimba di nome Jadranka, ma non poteva negare a se stessa
quanto le mancasse il mare, la vicinanza con i suoi genitori e le immersioni
che, prima di sposarsi, erano la sua occupazione preferita anche perché
d'estate insegnava in un Diving a Mali.
D’improvviso suonò il telefono e Ana si precipitò a rispondere nella
speranza che fosse Suzana o Goran. Era la polizia: prima di parlarle si
assicurarono che la ragazza fosse seduta.
L'agente non girò molto intorno alla tragica notizia dell'incidente che aveva
distrutto la casa dei genitori, ma la sua preoccupazione era di avere delle
informazioni su chi potesse esserci stato nell'edificio al momento
dell'incendio. Ana, presa di sorpresa, cercò di balbettare qualcosa: era
confusa, sapeva che non doveva dire a nessuno, tantomeno alle autorità di
Lussino, dove fosse andato il padre e perché, ma poi, con uno sprazzo di
lucidità, chiese:
«Perché mi chiede se so chi c'era in casa?» La ragazza temeva la risposta e
trattenne il fiato.
«Purtroppo è stato trovato un cadavere carbonizzato in cucina e non siamo
riusciti a identificarlo. Il medico legale, da una prima analisi, ha detto che
probabilmente si tratta di una donna.»
«Po... potrebbe quindi essere mia madre?» rispose con voce tremante e con
una domanda, quasi non volesse capire bene cosa intendesse l'agente.
«Avremmo bisogno di rintracciare i suoi genitori per avere chiarezza sulle
dinamiche, se avesse notizie o la possibilità di comunicare con uno di loro,
ci dovrebbe chiamare subito.»
Il poliziotto le diede i numeri da contattare appena avesse avuto una
qualsiasi indicazione o novità di dove si trovassero i suoi genitori.
Ana, con grande dignità e controllo di sé, riuscì a rispondere cortesemente
che non aveva idea di dove cercarli, ma che si sarebbe adoperata per
informarli immediatamente appena avesse saputo qualcosa: poi, con modo
garbato, chiese di poter essere lasciata libera dalla telefonata per andare
dalla sua bambina che piangeva.
Dopo aver appoggiato giù il telefono, scoppiò in un pianto isterico e cadde a
terra in ginocchio, nascondendo il viso tra le mani: non sapeva se anche il
padre fosse stato ucciso o fosse invece già in salvo, ma il suo cellulare, che
risultava irraggiungibile per l'ennesima volta, le fece rovesciare tutto ciò che
era sulla credenza in cucina. Sapeva che di certo era la madre il cadavere
carbonizzato e che era stata uccisa ovviamente dalla maledetta guardia
costiera. Si sentiva inerte contro una realtà violenta che non era in grado di
controllare né tantomeno di prevedere; abitava lontano e aveva una bimba
appena nata che non avrebbe mai conosciuto sua nonna.
Il pianto di Jadranka che si era svegliata per il frastuono delle stoviglie rotte
le fece ritrovare un po' di lucidità: si sciacquò il viso e riprese il telefono, ma
questa volta chiamò Stjepan.
Anche il cellulare del marito era irraggiungibile: Ana sapeva benissimo che
era già partito per l'appuntamento, ma voleva informarlo della tragica sorte
toccata a sua madre e metterlo in guardia.
Niente, il telefono ripeteva solo il messaggio dell'operatore: «Siamo
spiacenti, il numero da lei selezionato non è raggiungibile».
Sconfitta, prese dalla culla la bimba, se la poggiò sul cuore e le baciò il
piccolo collo profumato di talco; poi si mise sulla sedia a dondolo vicino
alla porta finestra che dava sul giardino posteriore lasciando correre lo
sguardo fino ai bui boschi confinanti.
Ana pensò a come la sua vita non sarebbe stata più la stessa, rievocò sua
madre e l'ultima volta che l'aveva sentita, appena due giorni prima; i ricordi
antichi e recenti le scorrevano disordinati per la mente e il dolore che le
stringeva il cuore, le toglieva a tratti la forza di respirare. Jadranka sembrava
non essersi accorta di nulla, anzi si beava della calda vicinanza con la madre
che la cullava con il suo pianto sommesso. Ana se la strinse forte al petto
cercando in quel dolce e tenero contatto la forza per affrontare una realtà
che la stava schiacciando con un peso insostenibile, un vero macigno di
desolazione.
Le lacrime le scendevano continue e le rigavano il viso prima di essere
assorbite dalla tutina rosa della bimba e quando la donna sentiva che
stavano partendo i singhiozzi con incontrollabile cadenza, immergeva la
testa nel corpicino di Jadranka, cercando solo di soffocarne il sussulto, per
poi riprendersi per qualche minuto tentando di cantare una ninna nanna.
Capitolo 40
Indietro non si torna
«Fermati, sappiamo che sei tu, Goran, e sappiamo chi trasporti!» La voce di
Andrej in croato non ammetteva discussioni.
«Siamo in acque territoriali slovene e tu non puoi fermarmi, lo sai
benissimo.»
Goran rispose con voce ferma contrastando l'intenzione del capitano di farlo
cadere nel panico.
«Credi che qualcuno possa venire in tuo aiuto, qui, adesso?» Andrej
mostrava una sicurezza nella voce che faceva trapelare la sua soddisfazione
per aver raggiunto l'obiettivo che si era prefisso, ed era ancora più tracotante
del solito per aver ideato e realizzato l'ennesimo piano con la conclusione
che voleva. Sapeva che ormai Goran pensava di avercela fatta e
sorprenderlo proprio alla fine rendeva la cattura ancora più esaltante.
«Mi conosci, Andrej, ho preso le mie precauzioni, ho avvisato la guardia
costiera e sta arrivando, sai che non mento.»
«Benissimo, allora quando arriverà troverà tre cadaveri ad aspettarli, sempre
che non mi consegni subito la ragazza e il suo amico.»
Il capitano conosceva sul serio bene Goran e cominciò a non essere più così
persuaso della realizzazione completa della missione.
«Lo sai che non posso, non lo farei mai.»
La voce di Goran si era fatta grave e tradiva una nota di terrore, sicuramente
non per sé stesso, ma per la certezza della terribile morte a cui sarebbero
andati incontro comunque i due ragazzi se gli aiuti non fossero arrivati in
tempo. Goran era in piedi nella parte posteriore della sua barca, a poppa, e
teneva con un piede il timone a barra anche se il natante era fermo. Andrej si
era accostato con la sua prua e ora le due imbarcazioni quasi si toccavano e i
due “amici” si fronteggiavano l'un l'altro. Andrej tirò fuori dal fodero la
pistola di ordinanza e gliela puntò dritta in volto, cacciò indietro il grilletto e
quel gesto freddo e deciso diede ai suoi scagnozzi un fremito di adrenalina e
di impazienza, come cani da caccia che anelano ad avventarsi sulla preda,
ma sentono l'autorità forte del padrone e non osano muoversi, guaendo e
sbavando per il cruento desiderio di sangue.
«Perché ti vuoi far uccidere? Tanto non cambierà nulla per quegli inutili
italiani, moriranno comunque.»
Il capitano ancora non voleva esplodere il colpo micidiale, forse perché
aspettava delle risposte per le scelte di Goran che non riusciva a capire.
Come poteva preferire la vita di due sconosciuti per di più stranieri,
all'amicizia, alla lealtà, alla sua stessa vita e a quella dei suoi famigliari?
«Sono stanco, Andrej, adesso basta. È arrivato il momento che ognuno
paghi per le proprie colpe» rispose il sub con un sospiro ampio e sofferto.
Quel dialogo avrebbero dovuto farlo anni e anni prima, ma entrambi lo
avevano temuto, era la chiave che apriva loro la porta dell'inferno.
«Non hai premuto il grilletto, quando avresti potuto farlo, non hai voluto
salvarlo, è stata una tua scelta, Goran, non c'entra nulla il destino, il caso o
qualcos'altro. Sei stato un soldato valoroso, hai scelto il tuo capitano a
quell'inutile soldato.» Andrej godeva nel fargli ricordare uno dei momenti
più dolorosi della loro guerra.
«Lui ti aveva risparmiato, se ne stava andando, ti dava le spalle e tu l'hai
ucciso senza pensarci su un secondo!»
«Era solo un serbo schifoso…» rispose Andrej con disprezzo.
«Era un ragazzo, e ti aveva risparmiato la vita perché eri disarmato.»
«Infatti, è stata la tua pistola a sparare!»
«Me l'hai strappata di mano…» rispose Goran con una rabbia profonda che
traspariva anche dallo sguardo intenso con il quale fissava l'oggetto del suo
odio tra le palpebre socchiuse.
«Tu non ti sei opposto!»
«Non ho fatto in tempo a capire, non me lo perdonerò mai.»
Il capitano fece un attimo di silenzio, poi rispose con voce cupa:
«Se me lo avessi impedito, allora ti avrei ucciso!»
«Sono morto lo stesso, ma l'agonia è stata molto più lunga, infinita.»
Andrej fissava con intenso rancore l'ex amico, ma non riusciva a premere il
grilletto: forse stava pensando di non fargli il piacere di ucciderlo prima di
poter assistere alla morte dei suoi protetti italiani? O forse stava meditando
se distruggerlo di dolore svelandogli cosa era rimasto della sua casa e di
Suzana?
Alla fine decise di rispondere e riprendere il difficile confronto.
Goran era stato sempre molto diverso dai suoi scagnozzi: con lui si poteva
ragionare alla pari, aveva ogni volta un punto di vista equilibrato anche nelle
situazioni più difficili e in più di una occasione, durante il conflitto, Andrej
si era rivolto a lui quando aveva sentito la necessità di maggiore lucidità per
prendere delle decisioni difficili. Però non lo aveva mai ascoltato, anzi le
sue scelte andavano sempre in una direzione divergente.
«Quello che ho fatto allora, è stato anche grazie a te, e lo sai. L'episodio del
soldatino non è l'unico dove tu hai fatto finta di non capire; la verità è che tu
il coraggio di uccidere o di impedirlo non l'hai mai posseduto. Se vado a
fondo io, anneghi anche tu.»
Goran scosse la testa per liberarsi o per negare quel peso che non aveva mai
smesso di schiacciarlo.
«Sono stanco, te l'ho detto. Le immagini di quei maledetti giorni mi
perseguitano tutte le notti, nessuna esclusa. Non so come puoi dormire tu,
che hai fatto quello che hai fatto. Io in fondo non ho fatto nulla, ma non
dormo lo stesso.» Goran rispose alzando progressivamente il tono di voce in
modo quasi spavaldo: questa volta anch'egli si era lasciato prendere dalla
curiosità della risposta a quella domanda che avrebbe voluto fargli chissà
quante volte, ma che non aveva mai avuto il coraggio di formulare.
Adesso non aveva niente da perdere, era arrivato alla conclusione di tutto,
semmai prendere tempo poteva solo salvarlo.
«Non dovevi tradirmi, Goran, non ora. Mi sei stato fedele per anni in guerra,
non mi hai mai impedito nulla e adesso, per difendere degli inutili italiani, ti
farai uccidere. Io rispondo a degli ordini, non li ho mai discussi, e tu? Pensi
di poter capire o giudicare decisioni che vengono prese dai tuoi superiori?
Chi sei tu per osare anche solo alzare gli occhi verso il tuo capitano? Sei
solo un disertore, un verme senza onore!»
«Capitano? Disertore? Ordini?» rispose urlando il sub senza togliersi dalla
direzione di tiro di Andrej.
«Sei uno psicopatico, non esistono ordini dall'alto, non siamo più in guerra.
Io non devo rispondere a nessuno, non più. Ho smesso di fare il soldato
quando sono sopravvissuto alla trincea maledetta. Possibile che non capisci?
Sei una guardia costiera! Dinko non è più il tuo superiore, ti sta usando per
arricchirsi, non per salvare la patria: tu uccidi per lui, ma tu andrai in galera,
tu la pagherai, lui invece ne uscirà pulito, come sempre. Passerà anche
stavolta da eroe, magari vendendoti, ti tradirà e tu ancora gli crederai.»
«Sei tu che mi hai tradito, tu nascondi gli italiani. Tu mi hai mentito. E io
invece ti avevo sempre protetto.»
Andrej rispondeva a tono, ma a differenza di Goran, non alzava mai la voce,
rimaneva freddo nelle espressioni, anche se quello che asseriva era tutt'altro
che privo di emozioni. Il sub se ne rese conto: intuì in un attimo che tutto
quello che lui urlava veniva trasferito dal compagno in un'altra dimensione,
non reale, una via di mezzo tra il passato già vissuto e un presente
contaminato da ricostruzioni di eventi fuori dalla realtà, proprio come aveva
tentato inutilmente di dirgli Isabella. Andrej traslocava ogni nuova
esperienza in un vissuto che evidentemente si modificava nella sua mente,
come se stesse rivivendo ricordi che potevano essere cambiati al momento,
per adattarli alla nuova situazione e riprovando quelle stesse emozioni che
lo avevano segnato nel profondo.
«Protetto? E da chi? Da te? Sei tu l'unico lurido assassino che conosco!»
Poi, come una saetta, Goran si sentì trafitto da un ricordo spaventoso:
Florijan e Dragan.
Dragan era un soldato che, durante la guerra, aveva preso parte alle prime
missioni di Andrej insieme al manipolo di assassini che ancora gli era
legato.
Ma lui era diverso e scappò via una notte per andare a denunciare il capitano
e i compagni; Florijan era suo amico e stupidamente confidò l'intenzione di
Dragan ai compagni e queste arrivarono subito all'orecchio del capitano. Fu
torturato a morte fino a che non confessò dove si era diretto il compagno:
questi fu poi raggiunto quella stessa notte e, dopo un lungo dialogo con
Andrej, fu giustiziato sul luogo come disertore.
Non è che Andrej stava ricostruendo in quel momento quella tragica vicenda
di guerra? Goran ricordava che il capitano, prima di sparare il colpo mortale
alla fronte di Dragan, aveva parlato con lui cercando di farsi spiegare per
quale motivo lo avesse tradito.
“E Suzana?” pensò trafitto da un dubbio atroce. Se Isabella avesse avuto
ragione, Andrej poteva averle fatto del male per farsi dire dove erano andati,
proprio come aveva fatto con il povero Florijan? Com'era riuscito a sapere
quel maledetto assassino dove erano diretti?
Mentre il sub cominciava a soffrire rendendosi conto che forse aveva fatto
un errore talmente atroce da poter essere costato caro alla sua amata, il
capitano stava ancora seguendo i suoi pensieri malati e continuava
imperterrito ad andar dietro alle sue elucubrazioni.
Andrej non aveva mai abbassato l'arma e la teneva ferma, puntata alla fronte
di Goran, il quale continuava a non mostrare alcuna paura per se stesso, anzi
era quasi assente perché immerso in dubbi laceranti e stava cercando di
ragionare su quanto stava accadendo; il capitano intanto gli parlò con
misurata lentezza quasi a sottolineare quelle parole che, sapeva, lo
avrebbero ferito ben più di una pallottola.
«Non c'è differenza tra la mano che uccide e l'occhio che guarda, siamo
uguali e ci ritroveremo nello stesso posto. Entrambi all'inferno.»
«Hai fatto qualcosa a Suzana?» chiese l'uomo ormai certo di voler sapere la
verità che aveva intuito.
Andrej sorrise e rimase in silenzio, quasi gustandosi la sofferenza che stava
trasfigurando Goran, il quale prendeva sempre più consapevolezza della
tremenda realtà.
«Rispondimi, maledetto: hai torturato Suzana? È per questo che sapevi dove
aspettarci e a che ora?»
Andrej ancora non rispondeva, mantenendo la sua espressione di
compiacimento.
Un rumore improvviso, un altro faro, un megafono e una voce imperiosa
urlò sorprendendoli entrambi, poiché non si erano accorti dell'arrivo di
un'imbarcazione militare slovena da quanto erano concentrati sulla loro
posizione di stallo: Andrej comunque non girò nemmeno la testa
continuando a fissare il suo ex sottoposto senza perdere minimamente il
terribile, sadico sorriso, e pure Goran dal canto suo non si era scomposto.
«Te lo avevo detto Andrej, sono le guardie costiere e la polizia slovena.
Sono venuti a prenderti. Io non bleffo mai, avresti dovuto saperlo! Ma
adesso dimmi: hai fatto del male a Suzana?»
«Giù quell'arma» ripeté il megafono.
Due cecchini erano disposti su un motoscafo, mentre un'altra imbarcazione
era sopraggiunta e si stava posizionando dal lato della barca di Goran; sopra
si trovavano altri due tiratori scelti con i fucili spianati e il loro capitano
stava in piedi sulla prua con il megafono poggiato alla bocca.
«Capitano Andrej Horvat, metta giù la pistola o saremo costretti ad aprire il
fuoco!»
Improvvisamente, partì uno sparo e subito ne seguirono altri.
Isabella era atterrita sotto alla panchetta in posizione fetale senza riuscire a
muovere nemmeno un muscolo; non capiva nulla di quello che era successo
e che ancora stava accadendo; aspettava con disperazione di sentire solo il
silenzio. All'improvviso delle mani forti l'afferrarono da sotto il lenzuolo e
la trascinarono fuori di peso: urlò terrorizzata, scalciò, tirò pugni e graffiò
fino a che due militari non la bloccarono a forza e allora cominciò a
piangere disperata.
Davanti a lei c'era Sergio che, con la sua solita delicatezza, la fece liberare
dalle braccia serrate delle guardie costiere slovene e se la prese tra le sue,
lasciandola sfogare fino a che non avesse più la forza nemmeno di piangere.
Allora si sedette e la prese in braccio come una bambina e la cullò un
attimo; quando sentì il suo respiro più regolare, si alzò e sempre tenendola
in braccio uscì dalla cabina per portarla sulla barca degli sloveni.
Una splendida alba di un nuovo giorno si apriva a loro del tutto insensibile a
quelle sofferenze, portandosi dietro una fresca brezza mattutina e una luce
chiara che ora rendeva vividi e intensi i colori della vicina costa, la quale si
rifletteva leggermente ondulata nei profili su di un mare fermo come il
silenzio.
Goran giaceva a terra con gli occhi aperti e con un foro sulla fronte dal
quale non usciva neanche una goccia di sangue; Isabella lo guardò impietrita
e cominciò a girare la testa in modo sconnesso e incontrollato come se quel
movimento isterico potesse cancellare l'immagine terribile dell'amico morto,
la gola le si chiuse e le uscì un unico singhiozzo asciutto e dal tono acuto,
non avendo più lacrime da versare.
Andrej era crivellato di colpi al torace e i suoi uomini ammanettati si
trovavano ancora sulla loro barca con le guardie slovene che li stavano
trasbordando in quel momento sulla motovedetta.
Isabella non sentì più nulla e tutto intorno si fece scuro.
Capitolo 41
Giustizia
Una volta ritornati in Italia, Isabella e Sergio iniziarono subito a collaborare
con la polizia italiana e croata per ricostruire i fatti e istituire quindi un
processo. Non fu possibile fare un’unica istruttoria per la complessità della
storia e per il numero elevato di omicidi che dovettero essere trattati in
modo distinto. Grazie alla testimonianza di Isabella i soldati di Andrej
furono accusati di omicidio plurimo premeditato per l'uccisione dei coniugi
Mayer. Sergio riuscì a ottenere la registrazione pulita della voce di Erika
mentre subiva la tortura e insieme alla sua testimonianza, che collocava
Andrej e compagni sul luogo del delitto alla stessa ora, furono fatti degli
accertamenti sul corpo della vittima. Le prove biologiche dei tre uomini li
inchiodavano per l'ennesima accusa di omicidio con l'aggravante della
crudeltà e vilipendio di cadavere.
Le registrazioni delle chiamate tra il dottor Kluger e il direttore delle poste
Dinko Jurković furono accettate come prove grazie al tempestivo
interessamento di Armando che, man mano che veniva a conoscenza delle
scoperte e intenzioni di Isabella, informava il suo superiore e faceva relativa
richiesta di legittimità di intercettazioni senza l'ausilio delle autorità croate,
per evidente necessità dettata dal parziale coinvolgimento delle forze
dell'ordine locale e per la protezione di un testimone in evidente stato di
pericolo.
Nonostante questo, il dottor Kluger fu accusato solo di aggiotaggio non
avendo trovato prove certe sufficienti, ma solo indiziarie, che lo
collegassero agli omicidi.
Dinko fu accusato sempre di aggiotaggio, ma fu anche riconosciuto
colpevole come mandante di tutti gli omicidi anche grazie alle confessioni
di Marko che si dissociò dai due compagni, che invece si avvalsero della
facoltà di non rispondere.
Marko confessò la tortura operata ai danni di Suzana, ma attribuì l'omicidio
all'ex compagno Luka.
Non ci fu alcun procedimento per l'omicidio della vedova Adela Jancho per
insufficienza di prove, poiché quelle raccolte da Isabella e Goran furono
ritenute solo indiziarie.
Goran prima di partire per la fuga era riuscito ad avvisare il genero del loro
arrivo al confine sloveno presumibilmente dalle sei di mattina in poi, e
aveva mandato per mail anche una ricostruzione dei fatti affinché la polizia
slovena preparasse la protezione e il trasporto in Italia di due testimoni in
pericolo di vita, poiché braccati dalla stessa guardia costiera croata. Grazie
ad Armando che era riuscito a coordinare la polizia italiana e slovena con
tempestivo interessamento del suo stesso dipartimento, la guardia costiera di
entrambi i paesi era arrivata in tempo per salvarli, anche se troppo tardi per
evitare l'uccisione del sub, avendo sparato in ritardo al capitano Andrej
Horvat, sottovalutandone le reali intenzioni.
Isabella e Sergio andarono a vivere insieme e furono presenti a tutti i
processi, anche a quelli dove non era richiesta la loro testimonianza.
Andrej e Goran se n'erano andati portandosi dietro con loro i terribili segreti
di cosa fosse successo in trincea durante la guerra e Isabella non cercò in
alcun modo di scoprirlo.
Isabella corse la maratona di New York l'anno successivo (poiché per la
prima volta da quando fu istituita, la maratona fu soppressa a causa
dell'uragano Sandy) in 3h 55min 27sec vestendo una maglietta con stampato
sopra: “For my friend Goran”.