UNIVERSITÀ MESTRE - unitremestre.it · foto di Luciano Bettini dalla mostra: Astrazioni Quotidiane...

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il Gabbiano Felice n.77 Maggio 2018 UNIVERSITÀ DELLA TERZA ETÀ MESTRE dalla mostra: Astrazioni Quodiane fotografia di Bernardino Selmin

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il Gabbiano Felice

n.77Maggio 2018

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dalla mostra: Astrazioni Quotidianefotografia di Luciano Bettini

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Numero 77Maggio 2018

Bollettino non periodico a cura dell’Unitre di Mestre-Venezia a diffusione interna gratuita

DirettoreGianfranco Pontini

Comitato di RedazioneMarilena Babato GrientiSandro GalanteAntonio SocalAndroniky Stavridis

Segretaria di redazioneCarla Tozzato

Progetto grafico e impaginazioneSandro Galante

Università della Terza Etàvia Cardinal Massaia30170 Venezia - MestreTelefono: 041.95.08.44www.unitre-mestre.it

[email protected]@[email protected]

Orario segreteria:Lunedì, Mercoledì, Venerdì dalle ore 9.30 alle 11,30

Stampa:COMBIGRAF S.R.L.2, Via Ormelle - 31020 San Polo Di Piave (TV)tel. 0422 853274, 0422 202117

INVITO A COLLABORARE ALLA REALIZZAZIONEDEL GABBIANO FELICE

corsisti, docenti, assistenti e dirigenti; inviate i vostri articoli, memorie, riflessioni,

racconti, documenti, poesie, immagini a:

[email protected]

G R A Z I E

S o m m a r i o

Copertina foto di Bernardino Selmin dalla mostra: Astrazioni Quotidiane

II e III di copertina foto di Luciano Bettini dalla mostra: Astrazioni Quotidiane

2 Trieste città di confine di Anna Maria Campagnolo

5I misteri di Praga di Remo Ardu

8In Ungheria di Claudio Zampini

11Una notte a Bambolandia di Nadia Pomolato

15La rivoluzione verde di Mestre: il bosco di Cielle

18Amarcord: il cinema a Mestre negli anni ‘50 di Marilena Babato Grienti

20 Come eravamo: il poeta di paese e il canto della Befana di Franco Macchi

24 Astrazioni quotidiane: mostra fotografica di fine anno al Laurentianum di Sandro Galante

28Storia di Venezia (terza parte) di Gianfranco Pontini

32Libri - a cura di Niky

IV di copertina foto di Fernando Anzani dalla mostra: Astrazioni Quotidiane

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All’estremo Nord Est dell’Adriatico, sorge una millenaria città situata ai piedi del sassoso altipiano carsico. Nel secolo scorso ha visto sventolare ben sette bandiere: Impero Asburgico,

Regno d’Italia, Germania nazista, Repubblica Jugoslava, Gran Bretagna, Stati uniti d’America e Repubblica Italiana.Erano appena iniziati gli anni Cinquanta, quando andai la prima volta a Trieste. Questa città era ancora occupata, vi stazionavano le truppe alleate inglesi ed americane. Per accedervi, si doveva passare il posto di blocco, la frontiera si trovava vicino a Duino. Ero stata invitata da zia Cecilia, una delle tre sorelle di mamma che vivevano in quel capoluogo, per trascorrere con la sua famiglia il periodo estivo. Papà mi accompagnò con la moto carrozzina. Passata la frontiera, percorrendo la strada panoramica, vidi per la prima volta la scogliera e l’emozione fu grande! Solo con la fantasia avrei potuto immaginare un posto così suggestivo. Le onde s’infrangevano contro gli scogli per un lungo tratto di costa a picco sul mare. Alle porte della città, su un promontorio. si scorgeva il Castello di Miramare. Infine arrivammo in una località, detta Barcola, dove un incredibile numero di bagnanti, incuranti della gente che passava per strada, se ne stavano beatamente sdraiati in costume a prendere il sole. Capii subito che Trieste era una città, strana e bellissima, con molte contraddizioni. L’influenza della dominazione Asburgica, durata alcuni secoli, si vedeva non solo nel modo di vivere, ma anche nell’aspetto esteriore della città. I bei palazzi in stile austriaco, Piazza Unità e il grande porto, mi hanno dato all’impatto un’impressione grandiosa. Trovai le ragazze molto disinvolte, camminavano a passo spedito con zoccoli e prendisole che lasciavano in bella mostra braccia e spalle tornite e abbronzate. Raggiungevano i vari stabilimenti balneari e presto mi resi conto che per loro nuotare era una pratica sportiva esercitata sin da piccole. Da generazioni erano TR

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di Anna Maria Campagnolo

“Il popolo desiderava

ritornare all’Italia senza più frontiere.

Gli inglesi non furono clementi

con i manifestanti e al grido di

“Viva l’Italia” caricavano spesso i

loro fucili!...”

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temprate a prendere confidenza con l’acqua alta per le caratteristiche del loro bel mare di scogliera. Ma la città era anche insofferente per le molte costrizioni e lotte interne politiche. Alla fine della guerra era stata invasa dalle truppe iugoslave del maresciallo Tito. Ci furono persecuzioni e tragedie e molti finirono sepolti nelle foibe del Carso. In quel periodo è iniziato l’esodo per 350.000 istriani e dalmati. Poi la città fu occupata dagli alleati e questo portò altro malcontento! Il popolo desiderava ritornare all’Italia senza più frontiere. Gli inglesi non furono clementi con i manifestanti e al grido di “Viva l’Italia” caricavano spesso i loro fucili!... Tutti questi malumori che da ragazzina captai, mi meravigliarono, per me che venivo dalla provincia, la guerra era una cosa che noi avevamo già rimosso. Solo crescendo mi resi conto di queste tragedie. Il 26 ottobre del 54, gli alleati consegnarono il territorio libero di Trieste all’Italia. Pioveva a dirotto, mentre la colonna motorizzata dei bersaglieri cercava di raggiungere le rive. Le truppe arrivarono accolte con grande giubilo. I triestini volevano salire sugli automezzi, per festeggiare i soldati italiani e i bersaglieri furono sommersi e bloccati da una marea di gente festante. “Le mule” bagnate dalla pioggia e dalle lacrime, abbracciandoli strappavano piume dai loro cappelli! Sui pennoni della piazza salivano due bandiere, quella rossa alabardata della città e quella, tanto attesa, del tricolore italiano. Dopo ben quattordici anni era finalmente finita la Seconda Guerra Mondiale! Questo racconto me lo fece Concetta, mia cugina di qualche anno più grande, quando ritornai quell’estate per le vacanze. Con Laura, la più piccola, ci scambiavamo l’ospitalità lei raggiungeva le mie sorelle a Conegliano. Frequentai Trieste per molti anni e mi creai amicizie e conobbi meglio le sorelle di mamma. Una era nubile, lavorava e viveva in Ospedale, era crocerossina e capo reparto in chirurgia. L’altra era sposata con

La didascalia al fondo della copertina recita:

“Da questo gesto hanno avuto origine le giornate sanguinose di Trioeste. Si strappa il tricolore dalle mani dei triestini reduci da Redipuglia; in quest’odio insolente e ottuso, in queste manifestazioni brutali di antitalianità si riassume l’atteggiamento degl’inglesi a Trieste dopo la mancata attuazione dei ripetuti, solenni impegni. Si prende per freddezza e viltà ciò che è calma e civile attesa, si reagisce al sentimento patriottico con una repressione di tipo coloniale: un oscuro e incivile generale inglese lancia sulla folla inerme i gruppi più slavofili della polizia. Il tragico bilancio in morti e feriti, resterà nella menoria di ognuno.

(Disegno di Vittorio Pisani)

La copertina del settimanale fotografico d’informazione politica e letteraria.N.27 - Anno I - Milano, 14 Novembre 1953

Sopra, accanto al titolo26 Ottobre 1954. Un momento di festa popolare per il ritorno di Trieste all’Italia

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“Pedocin” lì una ragazza era al sicuro! C’era una “muraglia” che divideva gli uomini dalle donne, non ci incontravamo mai nemmeno in acqua! In questi ultimi anni c’è stata una proposta per demolirla, ma i triestini si sono opposti. Il più disponibile tra i miei tre cugini era Nino, aveva vent’anni era bello e simpatico, si occupava di me facendomi da guida per la conoscenza di Trieste e dintorni: con la sua Lambretta oppure con il tram per Opicina,

una specie di funicolare, che porta a 300 metri sopra il livello del mare, andavamo sulle colline del Carso. Qualche volta ci siamo seduti allo storico Caffè degli Specchi in Piazza Unità o in viale XX settembre a gustarci un gelato. Con lui mi sono fatta le più belle risate della mia vita.Trieste è una città che da sempre ha riempito i teatri sia d’inverno che d’ estate. Con gli zii, appassionati melomani, andavo al Castello di San Giusto, nella grande platea all’aperto e ho cominciato a capire e amare Opere e Operette. Al Castello di Miramare ho assistito allo spettacolo di Luci e Suoni sulla vita di Massimiliano D’Austria. Questa terra di confine e di culture diverse, è stato per me un contesto stimolante per farmi crescere e maturare. Avrò sempre per la famiglia di zia Cecilia e per questa città un ricordo grato e incancellabile.

u n avvocato, non aveva figli,

insegnava pianoforte e viveva in un bellissimo appartamento nella zona di Miramare. Con loro ho avuto rapporti affettuosi ma più formali. Anche a casa di zia Cecilia c’era un pianoforte che tutti sapevano strimpellare. Il nonno materno era maestro di musica e aveva trasmesso alle sue figlie questa passione. Le mie estati triestine erano piene di stimoli: alcuni giorni andavo al mare con Marisa, una vicina di casa, campionessa di nuoto. Lei si lanciava dai trampolini e io imparavo a stare a galla. Una volta, con un gommone, ci siamo spinti un po’ al largo e gli amici di Marisa, pensando sapessi nuotare, mi hanno buttato in acqua!.. Per fortuna, erano tutti esperti e mi hanno velocemente ripescato! Quando non avevo compagnia, gli zii preferivano un Bagno più tranquillo, mi recavo con il tram allo stabilimento Lanterna detto dai triestini

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Che fare a Pasqua? La tradizione consiglia di trascorrerla con chi vuoi e dove vuoi. Tutto sommato scelgo una meta non troppo lontana, in Europa, dove ogni luogo offre ambiente, arte, storia,

folklore, in atmosfere in qualche modo sempre familiari. Allora vado a Praga, da non molto capitale della repubblica Ceca. Bel viaggio, faccio molte fotografie, senza pretese tecniche, spesso seguendo l’impulso, in modo che saranno il mio diario di bordo da rivedere e riassaporare comodamente. Al di là dei luoghi e dei monumenti, accade di cogliere qualcosa di inatteso, sorprendente, da approfondire. Il giorno di Pasqua nel centro di Praga vedo banchi che offrono in abbondanzamazzi che si rivelano non di fiori, ma di fruste! Sono di tre dimensioni, grandi, medie e piccole, composte ciascuna da otto lisci, sottili e diritti rami di salice ben intrecciati. Sulle punte sono annodati dei nastri colorati. La nostra guida accetta di spiegare il senso di quella offerta di fruste. Da tempi immemorabili in Boemia gli uomini di ogni età si preparano con cura o acquistano quella frusta apparentemente così minacciosa che si chiama pomlazka. Il lunedì di Pasqua, senza una vera relazione con la ricorrenza religiosa cristiana, si mettono barbaramente in agguato per strada con frusta, un cestino e facoltativamente un secchio d’acqua. Nonni e papà escono da casa con la frusta grande, ragazzi con la frusta media e bambini con la frusta piccola, ma non meno determinati, anzi estasiati dalla prospettiva di usarla. Quando incontrano un esemplare del gentile sesso lo frustano preferibilmente là dove ci si siede. Le dolci creature che non incontrano vanno a cercarle chiedendo e

I misteri di Pragadi Remo Ardu

“Nonni e papà escono da casa con la frusta grande,

ragazzi con la frusta media e bambini con la

frusta piccola....”

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ottenendo il permesso di entrare nelle case. Poichè spesso i signori non sono abbastanza soddisfatti, a loro insindacabile giudizio bagnano le vittime con l’acqua dei secchi. Per la verità le frustate sono solo accennate con la dovuta delicatezza e l’acqua si usa solo se la temperatura lo permette, e generalmente ci si limita a spruzzarla con parsimonia.I cestini servono a raccogliere uova decorate, le Kraslice, che pare siano state inventate qui, o dolci che le grate vittime sono tenute ad offrire. E non basterà perchè ognuna sarà invitata ad annodare un nastro sulla punta della frusta che l’avrà toccata. Gloria a chi avrà il cestino più ricco e la frusta con più nastri! La tradizione proviene dalla notte dei tempi, quando i celtici druidi si arrampicavano sugli alberi a raccogliere il vischio. I praghesi e i boemi non convinti all’ateismo dal recente regime comunista sono prevalentemente cattolici. Tuttavia l’usanza è diffusamente rispettata, tanto che si organizzano anche spettacolini folk con i costumi nazionali pittoreschi e ricamati, con sfilate su carri con cavalli o buoi, canti e balletti, finte contese fra ragazzi e ragazze. Perfino nelle scuole dei bambini piccoli la tradizione viene spesso riproposta, con gioia delle maestre accarezzate dalle piccole fruste e talvolta da quelle grandi dei rispettosi genitori. Provo ad approfondire molto liberamente la cosa. La tradizione è diffusa nella Boemia, terra dell’antico popolo dei Boi, feroce e barbaro per i nostri potenti antenati romani, e facente parte dell’etnia dei Celti. Si sa che i Celti consideravano sacra la natura, e in particolare gli alberi. Il salice è pianta che germoglia producendo caratteristiche infiorescenze grigie, oltre a sottili e lunghi rami flessibili molto adatti a vari usi (dove si coltivano le viti sono ineguagliabili per legare i tralci dopo la potatura) e perfetti per frustare. Non meravigliamoci, anche dalle nostre parti, qualche nonna in tempi non troppo remoti faceva uso di quei rami, nei luoghi veneti chiamati “vis-ce”, sulle gambette dei bambini per convincerli al rispetto delle buone regole. Il salice è pianta che vive bene accosto all’acqua, sempre luogo e simbolo di vita e fertilità. Anche l’acqua che si spruzza nei riti cristiani ha un simile antico valore simbolico, oltre a quello della benedizione e della purificazione. Rametti fioriti di

“Perfino nelle scuole dei bambini piccoli la tradizione viene spesso

riproposta, con gioia delle maestre accarezzate

dalle piccole fruste e talvolta da quelle grandi

dei rispettosi genitori.”

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salice vengono qui, in Boemia e dintorni, benedetti nei riti cristiani pasquali, e portati nelle case come da noi i rami di ulivo, che qui non si troverebbero facilmente. Dalla corteccia del salice si ricavavano tisane di buona efficacia curativa perchè contiene, specialmente in primavera, acido acetilsalicilico, oggi prodotto chimicamente come “aspirina”. Ciò confermerebbe l’uso bene augurante del salice di cui è fatta la frusta. I rami di salice che formano la frusta sono otto, numero sacrale collegato ai cicli vitali. Il periodo primaverile è ovviamente legato al

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rinnovamento della vita ed alla fertilità.Infine con molta libertà e fantasia possiamo accostare la celtica tradizione della pomlazka ai riti misterici del culto del dio Dioniso ed ai riti detti “lupercalia” praticati nell’antica Roma, anche se nessun documento o autore ci offre conferma. Dei riti dionisiaci si sa ben poco in generale, ma un chiaro esempio si trova nella cosidetta villa dei misteri a Pompei dove tutti possono vedere un grande affresco in cui una giovane donna appare ritualmente frustata, presumibilmente per avere il favore del dio. A Roma infine, come detto prima, venivano annualmente celebrati nel mese di febbraio, i lupercalia, forse perchè dedicati al dio fauno detto Luperco in quanto protettore delle greggi dai lupi, o forse perchè dedicati alla mitica lupa che aveva allattato Romolo e Remo fondatori della città. Giovani maschi si riunivano in luoghi appartati e sacrificavano dei capri. Le pelli degli animali venivano poste su teste e spalle dei giovanotti, per il resto nudi, e anche ridotte in strisce per formare delle fruste. Così conciati ed armati correvano infine per Roma colpendo chi incontravano. In particolare molte donne si offrivano ai colpi ritenendo di favorire la loro fertilità e in generale la buona fortuna. Chissà, forse le scorrerie dei Celti verso Roma, nonostante la buona guardia delle oche del Campidoglio, potrebbero aver riportato nei loro paesi quella bella pratica da accostare ai loro culti per le piante ed i salici.

“...possiamo accostare la celtica tradizione della pomlazka ai riti misterici del culto del dio Dioniso ed ai riti detti “lupercalia” praticati nell’antica Roma, anche se nessun documento o autore ci offre conferma.”

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InUngheria

Se si pensa ad un viaggio in Ungheria si è portati a considerare questa nazione come un posto “a parte”, almeno così ha subito pensato L. quando

si presentò l’occasione di percorrere con la sua nuova bici (telaio in alluminio e cambio a 24 rapporti) il tragitto da Vienna a Budapest seguendo nel percorso le impetuose acque del Danubio lungo la pista ciclabile che si snoda sul più esterno dei suoi argini. Forse, diceva fra sé, è una delle poche nazioni europee di cui si conosca così poco.Riguardo alla prima guerra mondiale, ad esempio, noi italiani abbiamo sempre considerato come nostri nemici gli austriaci trascurando gli ungarici che, pur essendo la loro nazione scesa in guerra contro di noi, abbiamo continuato a confonderli con i sudditi di Francesco Giuseppe. Per quanto riguarda la lingua poi non si ha la minima idea di come si dica sì oppure no, come si ringrazi o si saluti, eppure gli Ungheresi sono separati da noi solo da una piccola nazione. Inoltre qui in Italia solo i più informati sanno forse che la loro bandiera ha gli stessi colori della nostra e, per finire, se ricordo bene credo di non aver avuto occasione di incontrare un ungherese

Un tratto della ciclabile lungo il Danubio

Il tracciato della pista ciclabile che si snoda da

Vienna a Budapest.

di Claudio Zampini

Un brano di paesaggio vicino alla cittadina di Mosonmagyarovar dove i due fiumi, Danubio e Moson-Danubio, formano l’isola piú grande dell’Ungheria.

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qui da noi nemmeno come turista. Queste considerazioni erano certo uno stimolo a scoprire cose poco conosciute, ma allo stesso tempo contribuivano ad aggiungere all’impresa che L. si accingeva compiere anche una connotazione di mistero, quasi un’aspettativa per qualcosa che sarebbe potuto succedere e che tuttavia egli non riusciva ad immaginare di preciso ma che si manifestò il terzo giorno di viaggio per un fatto strano che si verificò. Ma andiamo con ordine. Sono due giorni che sto pedalando in riva al fiume, ho attraversato la parte austriaca dell’antica Pannonia e il nome mi richiama alla mente il granaio dell’Impero (Romano naturalmente) ed ora sto lasciando alle mie spalle Bratislava percorrendo il bel ponte strallato che mi porta sull’altra sponda della maestosa colata d’acqua che incessante continua a fluire pensando al suo futuro dilagare nel mar Nero. Cercando di non fare una carneficina delle lumache che molto imprudentemente attraversano a decine questo tratto di pista mi dirigo verso Mosonmagyarovar, cittadina finalmente in territorio Magiaro. Mentre costeggio il piccolo fiume che la attraversa sono colpito dal numero d’insegne e di scritte poste sui tetti e le facciate delle case che segnalano la presenza di una miriade di centri e cliniche dentistiche; scatto una foto e la invio a Marco che sta studiando

odontoiatria all’università, questo paesetto dal nome impronunciabile, potrebbe essere il suo prossimo luogo di lavoro. Visito il centro storico, spendo 250 fiorini (0,8 €) per un discreto caffè e vengo a sapere che i centri dentistici sono 350; saluto e ringrazio il cameriere e proseguo in bici fino ad Alaji.È proprio ad Alaji e più precisamente presso l unica pensione del posto il luogo dove si verificherà lo strano fatto a cui poco sopra abbiamo accennato .Non riesco ad individuare subito la pensione, hanno saputo fare meglio due cicliste inglesi che dopo averle superate sulla pista ciclabile le trovo comodamente sedute sotto il portico dell’albergo in riva al Lajta con i calici di vino in mano e gli anelli di cipolla fritti in un contenitore di ceramica al centro del tavolo. L’atmosfera è molto rilassata ed il discreto via vai dei camerieri tra i clienti genera una piacevole animazione. La cena, servita nel patio, si prolunga fino a tardi in un incrocio di conversazioni in lingue diverse.Al mattino seguente di buon’ora viene servita la colazione che consumo nella terrazza che dà sul fiume dove si fanno trasportare dall’acqua lenta e trasparente alcuni turisti tra i più temerari. È ora di partire, il personale sempre molto gentile ed affabile augura buon viaggio, la bici è inforcata e si comincia a pedalare lungo la ciclabile. La giornata si preannuncia calda per cui è consigliabile una tappa, dopo poche centinaia di metri, per comprare della frutta in un piccolo supermercato. Nel chiudere la bici con il lucchetto mi accorgo di non avere con me il portachiavi di casa.E’ una vera scocciatura tanto più che agganciata tra le chiavi c’è anche quella con la lama estraibile a cui tanto tengo essendo un ricordo di famiglia; decido allora di ritornare a vedere se per caso il portachiavi possa essere caduto sul pavimento del garage dell’albergo dove era stata ricoverata la bici per la notte e su cui erano state frettolosamente caricate le sacche. Arrivo in pochi minuti ma il portone del garage è già chiuso; costeggiando l’acqua risalgo al portico dove poco prima ho terminato di fare colazione, cerco di recarmi alla reception attraverso l’ampia vetrata ma la porta non si apre, all’interno non si vede anima viva come del resto all’esterno. Nessun cliente, nessun attempato bagnante che si lasci trascinare dalle acque del Lajta che sta scorrendo silenzioso a pochi passi da me. Ripercorro la leggera salita del giardino e giungo all’entrata dell’albergo che si affaccia sulla strada, ma la porta è chiusa e nessuno del personale viene richiamato dalle scampanellate che con una certa concitazione esercito premendo il pulsante. Cerco di guardare attraverso il vetro facendomi schermo con la mano per eliminare il riflesso ma non registro nessun movimento. Decido di fare un ultimo tentativo per riuscire ad entrare in quello che fino ad un quarto Il castello della città di Mosonmagyarovar

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tid’ora prima è stato il mio albergo ed ora si presenta come una muta ed inespugnabile fortezza. Potrei tentare con la porta che si affaccia malandata su di un defilato cortiletto che prima ho intravisto sul retro risalendo dal fiume. Ruoto lentamente il vecchio pomolo di ottone, l’anta si socchiude e la luce del sole approfitta del varco e subito si infila a rischiarare il buio di un locale di deposito; gli occhi non si sono ancora regolati sulla penombra quando, con un balzo improvviso, un grosso gatto rosso vola con un sibilo lacerante sopra la mia testa scomparendo attraverso la lama di luce della porta; ..... me ne esco di gran fretta dopo aver constatato che la seconda porta all’interno del locale risulta inesorabilmente chiusa e decido di togliere l’assedio al caparbio fortilizio. Pedalo perplesso e rassegnato e, mentre mi avvicino al Minimarket ABC, scorgo ai bordi della pista la sagoma marrone di un piccolo astuccio più o meno nel punto che avevo lasciato qualche tempo prima quando avevo deciso di far ritorno all’albergo: mi chino, lo raccolgo, controllo che al suo interno ci siano tutte le chiavi, lo pulisco dalla polvere battendolo con le dita e lo ripongo nella tasca dello zainetto. Accompagna l’avanzare della bici un profondo silenzio,

i campi gialli di cereali e le cangianti estensioni di girasoli che, con i loro visi tutti uguali, fanno a gara per guardare il sole; in lontananza si intravede la macchia azzurrognola delle boscaglie lungo il corso del Danubio da dove sembrano provenire delle voci indistinte portate dal vento; probabilmente sono quelle degli elfi, degli gnomi e delle fate presenti nella mitologia Ungherese. Sono loro secondo la tradizione popolare, che in questo paese aiutano, spaventano e fanno gli scherzi agli umani.

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Una notte a BambolandiaDedicato all’amica Beatrice Perini ed alle sue amate bambole

di Nadia Pomolato

Xe l’imbrunir, Bea tira sù la porta, el dlin dlon ghe dise bonaséra, la zira la ciàve, la tira zò la saràcinesca e la se strenze de più la siàrpa..- fà freschèto stasera - la pensa, e la se incamina su par el ponte in mezo à la calighèra…In botèga xe silenzio…..

- La xe ‘ndada via?? - Isidoro dal scafàl de véro de la vitrìna sbrega el silénsio con la sò vose arzentina …

- Si Si, la xe ‘ndada….. - fa eco ‘na vozeta..- Sito ti Pinocchiupi! - dise Isidoro - che te cresse el naso

se no ti disi el vero….- No, no la xe ‘ndada dise la Jumeau dala sò postassìòn

dessòra l’armaròn..- Alòra smonta da de là e viéne versàre - dise el vecio

Teddy co la vose baritonal.La Jumeau se stiràchìa, la mete un pìe zò dal trèspolo, po’ la mete zoso stàltro e co’ un picolo salto la xe sul bancon del negossio…

- Alora ti te movi o no?? - dise Isidoro spassientìo – Ufa quanto che ti te la tiri..!!!

- Ciò! nato ‘ieri!!! – dise ela - un poca de passiensa che rivo eh?? E po’, miga xe fassile rampegarse sul par la vitrina eh?? Go el cappèlo coi nastri, gòne sottogòne e tute le braghesse longhe, miga xe fassile…Ti discori ti…….to ciàpa!! – e la vèrze la seràdura che zìgola un poco…

- E ti invesse ti dovaressi star sìtta - dise Zuzu - ti xe bocca chiusa, e boca serada …. tase…..ihihihih

- Gà parlà la saccente, la ga fàto la sparàda - …i mormora tuti.Isidoro smonta dala vitrìna, se sporse a vardàr de fora, se picòla sula mensola e pò el schìssa el bottòn co’ scrito: “luci per la giostrina”,…. e la fà ‘ndar…..le luzete à intermitensa le se impìssa e la ziòstrina zìra….Un can passa in quel momento fòra del negòssìo, el varda, el alsa un sopraciglio, na recia….e el và….el profumo del frittolin vissin de porta, xe molto più interessante de un amménìcolo che zìra..

- Maria Vérzene, ti vol che ne i scovèrse - dise Tommaso azìtando in aria le manine….- Sta bon eh?? - dise Isidoro - sennò te ciapo par le rece e te scarto come ‘na Golia…- E mi invesse digo, digo digo digo!!!!!- e el sbatte el taco del sandoèto… ma po’ el sbassa

la testa sconsolà – Digo che no digo niente ….éco…, parchè pò ti me zighi e mi no voggio che ti zighi, qua xe un silènzio …..solo el rumor del ponte, e se i ne scoverse, ti sa che filipica che ne tira su a Giumò…. La xe la comandante qua, la xe rivada prima.. - el dise pianeto fasendo portavoze con la man…

- Ah…ti lo sa da sì che son la più veccia qua drento!! -- Si si lo savemo, lo savemo…..che ti te la tiri da vinti ani…..- dise piàn Isidoro- Ciò picòlo, parla ben co ‘la boca eh?? Nissun te gà insignà dir zerte robe…

Andrea osserva tuti e tase, la gà oncora el panetton che la gà sbecolà el del dì de Nadal sul stomégo…..la se rimira into al riflesso dea vitrìna: destra, sinistra, destra…. e de bòto la vede Tonino che con la facìa desperà el reména tuto el negossio…cori de qua e cori de là, el par mato…

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va-Tonino…cossa ti fa. Te gà ciapà el matesso?? – dise Tommaso- La baléta, go perso la baléta smontando dal scaffal!!!….desso si che xe un casìn, come la xe cascàda la baléta dal scaffal?? -

Tuti li zìoghi del negossio se mette a zercarla col culo pa’rària: salta fora qualche coriandolo ‘ndà de màl, qualche gatoèto de polvare……. ma de baléte manco l’ombra…

- ‘Eco, bravo pandòlo ti ga fàto la tua - dise la Dep che da sora l’armaròn li varda tuti ‘ndare intorno…. – ti xe ‘na bambola sempìa, chissà dove che te la gà inbusà… - dise ociando Tonino….

- Mì?…. mì non so ‘na bambola - dise Tonino batendose el peto co’ el deléto –mi son màssa altro oncòra….

- Anca mi, - dise Andrea ciucciandose il pollice e a continua à specciarse e rimirarse pareciàndose la traverséta…..destra …..sinistra…destra….

- E cosa ti saressi?? – dise Isidoro sbattendose le braghete e i zenocci dala ricognission sul terasso..

- Mi so un idea…..un’idea …nata da un sogno, e po’ vegnùa creatura….- e el fa si co’ la testa come par darse ragion…

Nel negossio xe tornà silensio solo defòra el bordèlo del ponte e de qualche colonbo che ziérca compagnìa…

- La mama Bea la me gà sognà e po’ la me gà pensà e po’ la me gà disegnà, e po’ la me gà plasmà, e po’ la me gà cusinà e po’ la me gà…. -

- Eeeeeeeeeeeeeee che sbàtòla!!!! come te la tiri longa òstrega!!! – ì fa in coro tuti quanti

- parchè voialtri non ve ricordè de quando che zèri drio nàsser?? Mi si me ricordo( tuti se ghe fà darènte a scòltarlo), …..tuto su un momento ghe go visto da un occio, e po’ da staltro….e quel che vedevo me piazeva tanto (el se dondola fasendo la punta ai deeti de le man)…’na bela signora che me sorideva e la me faseva tuti i mòti che gavaria volesto far mi….la me insegnava…. come dìr….a far strambéssi col muso…Ala fine mòvevo le manìne e i penìni….e me son ritrovà nùo e crùo su la tòla

de la cusìna, co vissìn tanti de voialtri che no zèra oncora …nati.- Oh Cospetòn……e mi me so persa tuto sto popò de roba??? – dise la Jumeau – eh già mi son la bòcìa da negossìo, xe natural!! Mai cressuda e sempre qua so desòra l’armaron!! -

- Ma nianca mi son ‘dada mai niziogo, quando che so vegnua qua, zero drento de un scatolon, e non go visto mondo….- dise Isadora, provando un arabesque…- El rumor de la giostrina rompe el silensio, e le lucete ombrisa el muro del negossio… par un atimo tutti se ga dismentegà de Tonino, nùo e crùo sula tola…- Beh, - dise Andrea, dondolandose oncora – mi credo che tra poco vedaremo solo el mondo defora…. e la caseta de la mama…-- Come come? Cossa ti voressi dir?- Isidoro se inquieta, e sbatte i occi…

Andrea pissega un bordin de la traversa e ciucciandose el deleto la dise – lo ga dito la mama Bea, el ziorno de Nadal..cambiemo casa….. -

Xe el putiferio, al Teddy se ghe drissa la goba, le machinete à mola sfreccia sul terasso, Tonino sbrissa e casca, l’arlechin piccà sul muro perde i tacòni….parfin i coriandoli in sachetin se agita come se fusse carneval…insomma xe el

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delirio….Andrea se varda intorno imbambolada, e pian pianeto la se tira più darente el bancon….. - O Mariavè - la pensa - cossa gojo dito de mal?? - Giura!! – dise Isidoro – giura!! Ghe cascasse la lengua a Tonino che ti disi el vero!!- - Oh Cospeton, - dise Tonino – cossa diavolo zentro mi co ela?? La vanegia, la se insogna de ombrelini…..ghe se andà el sarvelo in azeo coi canditi del paneton!! - Nooo – dise Andrea - xe vero…no xe question de canditi, xe la verità! Mama Bea la xe dolorà, ma bisogna che cambiemo casa..- e la va ìncantonarse drìo del banco… - Ma varda questa, varda…..cò la so mignògnòla la sortisse cò sta cavàtina e la ne làssa tuti de stùco…. - Se tuti dei ‘gnorànti dise la Jumeau, - che non savè lesare, xe scrito sul cartelo dela vitrìna che el negossio sèra le porte à otóbre! -

- Mi non son ‘gnorànte - dise Cuoricino, tegnendose vissin el so cunìcétto - mi son picòlo e non so lèsar…- e ‘na làgrema ghe spunta da un océto…- par lu xe un ofésa che i ghe daga del ‘gnorante - E noialtri non podemo fare niente?? – dise Tommaso

- Tipo??- fa tuti più o meno in coro..- Tipo un bel siòparo dela fame!!-- Bravo baucòto!! - dise Isidoro e Andrea già la pensa ala feta del panettòn che la gà lassà

sul piàtoà Nadàl e el stomego ghe se intòrcòla un pochèto.. - Cossa ti vorresi far? finir sul gazetin?? Me li vedo già i titòli del zòrnal: Bambola desperàda, tenta el siòparo della fame par non cambiar casa….Oh!!Ti sa le sgànàssae !! Nà comica la sàrìa!! Ihihihihihihi -

Dopo qualche ridariola, xe dànòvo el silènsìo e nissùn ga voja de parlàr par primo….tuti se varda à ponta dei pìe, tranne Tonino che con la coa dei occi xe oncora preoccupà par la so balèta..

- Cussì ‘ndemo via - dise Isidoro fazendo zércièti sul teràsso con la punta del pìe…. - Ma staremo sempre insieme no? Dapartùto dove sarà se vorèmo sìempre bén - dise Cuoricino fasèndose coràgio… - Noialtre semo le bambole de la mama Bea, miga batarìa! – lo dise, ma intanto ghe s-ciòpa el cuor…

Po’ el fa do, tre passèti el và brincàre par manina Andrea che se gà sconto drìo del bancon e la trema tuta come na foja. - Vien qua – el ghe dìse - noialtri semo una sola fameja e le fameje sta tute insieme cò sucède calcòssa. Dovémo prometàr de star tuti boni e bravi e de far dapuìto tutte le nostre smorfiéte che la mama Bea no gavarà de bisogno de’ musi lònghi!! -Tuti xe dacordo co lù, ma tuti gà un magòn in gola…..fòra la calighèra se sbiànca, el sol nasse soa laguna e xe giorno denòvo.

- Tuti par ùno, ùno par tuti me par giùsto! - dise la Jumeau

- Mi so indòve che xe la balèta…. - Xe Pinocchiupi che lo dise co’ un fil de fià. El xe restà sentà su la mensola in alto e nissùn gà visto che el fà òncòra parte del mobilio.Tuti se gìra e varda in sù, verso de jù…. - Mi so indòve che xe la balèta – el dise alzàndo un fià la vose, ma lo dise piàn piànin, par paura che i ghe daga del buziàro… - Ti lo savevi da tuto sto tempo e no ti ne gà dito gnénte?? - Dise Isidoro strénzèndo i pugnèti e par un atìmo le ganàsse ghe se colora de un rosso fògo…po’ el pensa che i gà problemi più gravi al momento, e el sospira… L’unico che se ghe slùséga i occi xe Tonino, che no spetàva altra notìssia.. - ‘Oi Pelè – el dise - tìrame la balèta ! - No posso …dise Pinocchiupi – la mama no me gà fa fato le gambète come le tue…e po’ scusa, le xe do fadìghe, co ti torni qua ti la trovi, sta sicuro che no la scampa….

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vaEl caréto del fornàro che porta el pan à l’Ostaria de cantòn passa sburatàndo davanti ala vitrìna del negòssio, e el tòso tìra un mòcolo par la calighèra che fà la sbrìssariòla sul ponte e calcossa à proposito de qualche sporchèsso scagazà dal solito can de passàgio.Tuti li zioghi dela botega tratien el fià, tuti spasemà i pàr che i zìoga à un-do-tre stélla..….ma quelo và come ‘na s-cénza e no se ìncòrse de lòri. Un’ultima schincaròla e el scompare nella calighèra..

- Xe ora de smolàr la riunión – dise la Jumeau vardandose el belèto se el xe à posto - qua se fà matina, e tra poco ghe xe fermènto in càle…

Tuti xe dacòrdo co èla e tuti fa sì cola testa. Avilìi e col gròpo i fa sì de tornar al proprio posto.

Tonino se ràmpèga su par la vitrìna e Cuoricino méte à posto la tràverséta spiegassàda de Andrea. La balèta torna sottobrasso à Tonino che felisse come ‘na Pascua la caressa cò le manine. El vecio Teddy porta su la goba e el se mete stracàntòn drènto el scaffàl par fàrghéla stare ‘ncrucàda e el se còmoda ben, parchè dopo sinò ghe vien el sgrànfo.

- Quà dessóra semo a posto! – dise Tonino par far mòver la Jumeau che la xe òncòra drio imbeletàrse. Isadora par la freta la se ingànbara, la vetrina tintìna un poco, ma xe roba da nìnte e la ciàpa posìssiòn.

In tuto sto férmento nìssùn se incòrse del solito can de passàgio che stavolta el bùta un òcio drénto in negòssio, ma el xe un can dabèn e dei àfari dei altri non se ne impàssa. Ghe despiase che nol vedarà più le creature dela signora Bea, che la xe zentil e quando ch’ el sol brùsa i colonbi de istà la ghe da ‘na ciotola de àqua par dissetar la gola àrsa. Par quelo nol ghe pìssa mai su la porta dela vitrìna. Oncòra un ocio drento, e po’ el move la coa in segno de festa e el và….i bocéte drento al negossio xe quasi tuti ai posti de combatimento. Nissun vede, ma el gà un soriso sul muso ‘nando via….

Isidoro ciàpa posto tristo tristo, e ghe smonta so par la ganàssa na làgréméta…

- Giumò, sera tuto che sémo à posto - el dise….

El sol xe alto e la vita scomìnsia in càle e sul pontesélo.

La sèrànda del negossìo sbarèla e Bea verze la porta, el dlin dlon ghe dise bonzìorno.

- Ma varda - la dise a voze alta - go lassà impissàda la giostrina ieri sera! -Tommaso tira na occiàda de sbrissovìa à Isidoro che el gà òncòra na làgréma che sìvola zo da la gànàssa. - Xe da speràr che la se sùga in prèssa- el pensa - o che la mama créda che la calighèra xe rivada fin drento al negossìo ….. - Cussì el fa finta de niente, el gà promesso de aver un musetto felisse e el xe na creatura de parola, e alóra lo fà…..

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Fino agli anni ’80 Mestre era considerata una delle città più brutte d’Italia: si diceva che ogni abitante avesse a disposizione una quantità di verde pubblico pari alla superficie di un vaso

da fiori. Non era vero ma, effettivamente, nella statistica del verde per abitante, Mestre si posizionava verso gli ultimi posti. L’inversione di tendenza si verificò dopo il 1984 quando sorse un vasto movimento di protesta in seguito alla scellerata proposta di distruggere uno degli ultimi residui del bosco planiziale della pianura veneta, il bosco di Carpenedo, per far posto al nuovo ospedale. Gaetano Zorzetto, ultimo prosindaco della città e consigliere della Azienda Regionale delle Foreste sognava di dare alla città qualcosa di straordinario, che la riqualificasse anche valorizzando la storia del territorio. In quegli anni era già stato impiantato il Parco Albanese, un grande polmone verde di 33 ettari, si cominciava a discutere per la realizzazione del Parco di San Giuliano, ma gli obiettivi del progetto bosco andavano ben oltre a quello di recuperare una memoria storica, rafforzare l’identità della città e creare aree per lo svago e il tempo libero: erano quelli di disinquinare l’aria e i corsi d’acqua che sfociano in Laguna, proteggere la terraferma dalle alluvioni, rinaturalizzare e aumentare la biodiversità, educare all’ambiente e creare un “laboratorio vivente naturale”. Nel 2005 il Comune di Venezia costituì l’Istituzione Bosco di Mestre, poi diventata Istituzione Bosco e Grandi Parchi, per progettare, realizzare e gestire il Bosco di Mestre.Le aree forestali hanno oggi un’estensione di 230 ettari di cui 120 sono aperti al pubblico; il Piano regolatore vigente ne prevede circa 1100.La prima area recuperata è stata quella del Bosco di Carpenedo, residuo della foresta di querce e carpini che anticamente ricopriva l’entroterra veneziano.Il Bosco di Carpenedo è costituito da quattro ambienti ben distinti

la rivoluzione

verde di Mestre:

IL BOSCOdi Cielle

le fotografie sono state tratte dai siti:ilmiomondoinventato.com/2014/06/25/il-bosco-di-mestre-carpenedo/

http://www.assboscomestre.it/foto/

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fra loro per un totale di 10 ettari: il bosco storico, i nuovi impianti realizzati negli anni ’90, i prati stabili e gli ambienti umidi. Per la qualità e la rarità di questi ambienti, l’area è stata classificata come sito d’interesse Comunitario, è protetta dall’Unione Europea e inoltre, per l’avifauna presente, è Zona a Protezione Speciale.Il bosco è aperto al pubblico dalla primavera all’autunno, di sabato e domenica.Un’altra area boschiva facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici, ma anche in bicicletta è il Bosco dell’Osellino: si estende su una superficie di 8 ettari di proprietà del Comune di Venezia, dislocata nell’area PEEP Bissuola, compresa tra il canale Osellino, il canale di scolo Acque Basse e via Pertini. Si tratta di un querco-carpineto: nel 1994 sono state messe a dimora 13000 piante di provenienza autoctona,appartenenti a 35 specie diverse di alberi ed arbusti: Ontano Nero, Frassino Ossifillo , Pioppo Nero, ma anche Melo e Pero selvatico, Pioppo bianco e Olmo campestre. Tra le piante arbustive vi sono il Prugnolo, la Rosa di macchia, il Sambuco nero, il Nocciolo, la Frangola e il Pado. Nel 2005 sono state realizzate una serie di piccole infrastrutture quali la torre di osservazione, i percorsi ciclabili e pedonali all’interno ed attorno il bosco. Nel 2012 l’Associazione per il Bosco di Mestre ha realizzato un monumento dedicato a Gaetano Zorzetto, collocato in corrispondenza della “porta 5”, uno degli accessi al Bosco.Gli appezzamenti boschivi più estesi sono stati realizzati a Favaro, lungo la via Altinia: il Bosco Ottolenghi, di 30 ettari dedicato alla memoria di Adolfo Ottolenghi, rabbino di Venezia durante la Shoah, deportato e ucciso ad Auschwitz nel 1944, è stata la prima area boscata aperta al pubblico,di proprietà della Fondazione Querini Stampalia ed ora in usufrutto al Comune di Venezia. L’Istituzione “Bosco di Mestre” ha realizzato le attrezzature (percorsi pedonali e ciclabili, aree di sosta, passerelle, parcheggio, segnaletica, ecc..) che permettono ai cittadini di frequentarlo.Adiacente al bosco Ottolenghi c’è il Bosco di Franca, dedicato ai ragazzi “desaparecidos” argentini. Quest’area, che ha un’estensione di circa 22 ettari, è particolarmente interessante in quanto al suo interno

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interagiscono tre diversi ecosistemi: il bosco, le aree umide e il prato.Il Bosco Zaher, anch’esso tra Favaro e Dese, ha un’estensione di 44 ettari ed è stato aperto al pubblico nel 2010. Al suo interno si trovano siepi boscate di Platani, Robinie, Olmi campestri e Salici bianchi che sono state conservate e valorizzate per essere testimonianza della gestione agricola tradizionale che da queste ricavava vimini, fascine e legname. All’interno del Bosco passano 1,7 km dell’Ippovia Litoranea Mestre-Jesolo e un percorso ciclo pedonale di 3,2 km.Il Bosco di Campalto, 6,7 ettari di superficie è un riuscito esempio di bosco naturale usato come parco urbano Nell’ambito dell’ecosistema “bosco” si sono conservati alcuni spazi aperti (radure e corridoi verdi) per garantire un migliore grado di biodiversità; è stata realizzata un’area a prato alberato, attrezzata con sedute di vario tipo.Gestire queste aree è un compito non facile: ognuno dei siti descritti ha caratteristiche diverse. Inoltre, il bosco adiacente a quartieri densamente abitati, se da un lato costituisce un ottimo esempio della compatibilità tra bosco e città, dall’altro presenta problemi tipici della coabitazione quali atti di vandalismo, presenza invasiva di animali domestici o commensali dell’uomo come i ratti, che possono alterare il delicato equilibrio degli ecosistemi che si vanno formando. Una gestione forestale appropriata richiede osservazione e cure costanti da parte di persone competenti, impegno economico, ma anche partecipazione degli abitanti, che devono interessarsi di questo patrimonio, frequentare i boschi con un atteggiamento di rispetto: i tempi di evoluzione di un ecosistema di questo tipo sono lunghissimi rispetto ai tempi dell’uomo. Se i parchi si frequentano per le attività ricreative, i boschi si visitano anche per imparare.Negli ultimi trent’anni nel Veneto l’estensione dei boschi in pianura è passata da 50 a 500 ettari.L’obiettivo a medio-lungo termine è quello di giungere entro il 2050 a una copertura pari ad almeno 5.000 ettari di boschi planiziali: Mestre con i 1100 ettari previsti si posiziona ai primi posti.

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Talvolta, entrando in una odierna sala cinematografica, mi ritorna in mente come si viveva nella Mestre degli anni ‘50. Ahi, ahi, se ho ricordi personali è un brutto segno! Mestre,

non città ma paesotto senza giardini e con poche scuole, era considerata da Venezia solo una periferia senza importanza e senza bisogni, poco più che un dormitorio. Il riferimento serio per uffici, istituzioni, scuole superiori di vario indirizzo, piscine, spettacoli, mostre ma anche per acquisti di un certo tipo in negozi buoni, era la città lagunare. Le sale cinematografiche, però, presenti già da molti anni, c’erano ed erano tra le poche occasioni di divertimento offerte ai più. I ragazzi giovani, e anche quelli meno giovani, ora fanno fatica a entrare nello spirito del tempo. Se racconti loro che l’ingresso alle sale era “a orario continuato”, ti guardano con un po’ di sospetto, forse pensano benevolmente che cominci a perdere qualche colpo. Cresciuti in epoca televisiva, non capiscono come si potesse iniziare a guardare un film da metà o anche dalla fine; certo qualche volta non si riusciva a entrare subito nella trama della storia narrata, ma niente paura: una volta dentro nessuno ti buttava fuori fino alla chiusura della sala, in tarda serata. C’erano persone che riguardavano lo stesso film per tre, quattro volte e non erano critici cinematografici o addetti ai lavori! Posti prenotati? Idee da fantascienza! La domenica pomeriggio, soprattutto se c’era un film molto romantico e strappalacrime, si formavano lunghe code già parecchio tempo prima dell’apertura della sala: d’altra parte, se ti volevi sedere, non potevi agire diversamente. Le sale, immerse in un azzurrognolo, ondeggiante fumo di sigarette, erano a volte gremite fino all’inverosimile di persone in piedi. Sicurezza? Torniamo alla fantascienza! A Mestre c’erano due cinema buoni, da prima visione: il Toniolo e il Corso. In questi la platea, più cara della galleria, aveva le poltroncine imbottite; tutte le altre sedute erano rigorosamente di duro legno. C’erano il Marconi (ora Palazzo), l’Excelsior, il Piave, il Concordia, forse anche il Dante. In questi i biglietti più cari erano quelli di galleria. Come mai? Semplice: siccome erano di un livello più basso e costavano meno avevano spesso un pubblico più “ruspante” e chi stava ai piani alti era più tranquillo e sicuro che qualche burlone non gli avrebbe lanciato addosso carte di caramelle o residui di

Amarcord: il cinema a Mestre negli anni ‘50

di Marilena Babato Grienti

“La domenica pomeriggio, soprattutto se c’era un film molto romantico e

strappalacrime, si formavano lunghe code

già parecchio tempo prima dell’apertura della sala”

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bagigi. Il Concordia era il cinema “dei preti” dove programmavano solo film “per tutti”. Nelle bacheche delle chiese, infatti, venivano affissi i titoli dei film in programmazione con le diciture: per tutti, per adulti, per adulti con riserva, escluso. L’esclusione poteva dipendere dall’argomento difficile, scabroso o politicamente scorretto, quindi non valutabile serenamente da menti giovani, inesperte o incolte, ma anche solo da qualche inquadratura un po’ osè. Ricordate le scene tagliate di “Nuovo cinema paradiso”? La visione occasionale di un film per adulti o addirittura escluso, portava naturalmente i giovani direttamente in confessionale. Anche le parrocchie si erano attrezzate per i pomeriggi domenicali: seduti su dure panche e immersi in un vociare assordante bambini e ragazzi si godevano, succhiando liquirizia, i cartoni animati, le comiche o i western americani e uscivano felici come pasque. Amarcord…

Amarcord: il cinema a Mestre negli anni ‘50

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Come eravamo:il poeta di paese e il canto della befana

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Ho cercato di rendere questa rievocazione il più impersonale possibile. Cosa non facile, visto che il poeta Angiolino era proprio mio padre. Di lui non posso dimenticare l’orgoglio di essere poeta e la coscienza di avere una capacità che non era di tutti e gli dava la possibilità di svolgere una funzione sociale importante e riconosciuta. Apprezzava ovviamente l’erudizione delle

persone che avevano studiato, ma avevacoscienza di possedere una dote “culturale”, che spesso gli “intellettuali” non hanno, quella di saper interpretare e comunicare “artisticamente” il sentimento delle persone del popolo. Era contento che io, figlio di lui contadino, fossi stato fra i primi del paese a laurearmi e a diventare professore, ma spesso un po’ sul serio e un po’ per scherzo, si divertiva di fronte agli altri a lanciarmi una sfida: “tu che hai studiato tanto e vai ad insegnare agli altri”, mi diceva “perché non ti provi ad improvvisare su qualche argomento un’ottava rima come faccio io?”. E io non potevo fare altro che rispondergli:” Caro babbo, hai ragione, ma non ne sono capace!”.

di Franco Macchi

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Negli anni 40-50, quelli della mia infanzia e della mia giovinezza, tutti nel mio paese, anche lo stupidotto, avevano un ruolo ed erano conosciuti e riconosciuti per quello che

erano. Tutti erano coinvolti nelle manifestazioni che caratterizzavano il dipanarsi della vita collettiva, scandita dai ritmi dell’attività agricola, delle manifestazioni religiose e delle feste che caratterizzavano i vari periodi dell’anno. Vorrei ricordare in questo articolo un personaggio, quello del poeta ed una manifestazione annuale, quella del canto della Befana. Un personaggio ed un evento strettamente collegati fra loro e testimoni della ricchezza umane e culturale che rendeva viva l’esistenza di una comunità semplice, contadina, ma ricca di umanità e, oserei dire, di cultura.

Il Poeta

Il poeta del mio paese non era certamente un erudito, aveva infatti frequentato al massimo le cinque classi delle elementari. Eppure godeva di una notevole considerazione. Quasi nessun conosceva, se non per il nome, i grandi poeti italiani, ma tutti conoscevano Il poeta Angiolino del Rosini. Nel paese e nei dintorni c’erano allora anche altri poeti, almeno una decina, ma Angiolino del Rosini era il più stimato per la sua capacità di improvvisare su qualsiasi argomento cantando in “ottava rima. Chi lo conosceva diceva che era “bernesco” cioè originale e sufficientemente mordace ed ironico. Ma la battuta, anche se pungente, era sempre resa digeribile da un bonario tono scherzoso. Per questo anche chi era colpito non si sentiva mai offeso. Si tenevano di frequente delle ”tenzoni” poetiche sui più svariati argomenti e fra questi non mancavano quelli politici con le relative passioni che agitavano la società di allora. Ricordiamoci che erano gli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale. In queste tenzoni su argomenti politici c’era il poeta paladino dei “comunisti”, quello dei “democristiani” e anche quello nostalgico del regime da poco sconfitto. A me bambino rimaneva impresso come per i poeti, quando dibattevano improvvisando le loro rime, c’era un grande rispetto da parte del numeroso pubblico, anche di quello della parte avversa. Quando al suo turno un poeta non aveva più argomenti e taceva, veniva eliminato. Alla fine, chiunque fosse stato il poeta che aveva vinto, c’era un battimani da parte di tutti e una sportivissima e civilissima stretta di mano fra i contendenti. Come se si riconoscesse al “poeta” un ruolo superiore e quindi si garantiva a loro di poter esprimere liberalmente il proprio pensiero. Una vera e propria lezione di civiltà che ha qualcosa da insegnare anche oggi.

Il canto della befana

Per Angiolino il poeta era di particolare importanza il periodo post natalizio, il tempo del Canto della befana. Compagnie di attori dilettanti andavano per le case dove erano invitate a rappresentare il mistero del

Angiolino mentre cura l’orto di casa

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inatale. Le manovre cominciavano già all’inizio dell’autunno. Le giornate si accorciavano, le serate diventavano lunghe e i lavori dei campi erano meno impegnativi. Le lunghe serate si passavano a sfogliare le pannocchie, a intrecciare cestini e corbelli, a raccontare storie. C’era anche chi si ritrovava per mettere su una “befana”. L’impresa non era poi così semplice. Ci voleva prima di tutto un autore capace di scrivere un testo in versi, che potesse essere cantato su una melodia semplice e ripetuta. Allora il più ricercato era l’Orlandini, il poeta per definizione. Era stato anche il maestro dei poetanti di quella generazione. Questi poeti si erano formati in casa sua. Per intere serate I’Orlandini parlava loro dei grandi poeti antichi, di Omero, di Dante, dell’Ariosto, di Torquato Tasso, e leggeva loro i passi più famosi dell’ Iliade, dell’Odissea, della Divina Commedia, dell’Orlando Furioso, della Gerusalemme Liberata. Per questo,quando cantava in poesia al poeta Angiolino affioravano le reminiscenze di queste letture e si sentivano riecheggiare i nomi di Pia de Tolomei, di Orlando, di Rolando, del prode Tancredi e del piè veloce Achille. Una volta assicuratosi l’autore del testo, chi voleva mettere su una befana, doveva trovare gli interpreti. C’era allora tutta una fase di diplomatico corteggiamento di coloro che avevano esperienza in materia, talvolta anche con piccoli conflitti e gelosie. Le manovre più laboriose erano quelle della ricerca di due, diciamo così, “specialisti”: quella del suonatore di fisarmonica e quella, ancora più importante, del poeta. Il fisarmonicista poteva essere uno che suonava nel modo più elementare la facilissima melodia dei personaggi, ma se sapeva anche improvvisare o, meglio ancora, suonare pezzi popolari o da ballo, avrebbe dato un lustro particolare alla compagnia. Era il poeta però l’artista che più di ogni altro richiamava l’attenzione degli spettatori e che rendeva più appetibile tutto il gruppo dei befanieri. Il poeta era un po’ il presentatore dello spettacolo. Lo introduceva e lo concludeva. Se poi era un improvvisatore bernesco, il tutto assumeva un altro aspetto e lo spettacolo diventava particolarmente gradito. Un anno ebbi la fortuna di seguire la stagione della befana svolta dalla compagnia del poeta Angiolino. Si saliva su un camioncino un po’ scassato, ci si accomodava sul pianale attrezzato con delle panchette di legno posticce e ricoperto con un tendone, che riparava dalla eventuale pioggia, ma non certamente dal freddo, e si partiva per le tappe programmate. Anche questo lavoro di programmazione non era semplice. Non tutti volevano o potevano ospitare una recita di una befana, perché non disponevano di spazi adatti , o anche perché non erano in grado di offrire un pur modesto rinfresco. Era questa anche un’occasione per le famiglie più importanti di mettersi in mostra. Specialmente i padroni delle fattorie che avevano dato a mezzadria i loro poderi a più contadini, ci tenevano paternalisticamente a dimostrare la loro benevolenza e generosità. Ricordiamo che siamo negli anni 1946/50. Ma in questa gara di generosità non si tiravano indietro neppure le famiglie a vario titolo più in vista come quella del farmacista, del dottore, del maestro, del bar frequentato dai benpensanti ... Ma ritorniamo al ruolo centrale del poeta. Se sapeva improvvisare ed era dotato di inventiva e fantasia, ogni volta adattava alla situazione e all’ambiente la presentazione e la conclusione dello spettacolo. Il suo ruolo diventava poi particolarmente rilevante dopo l’esibizione. C’era sempre qualcuno che segnalava la presenza

“Era il poeta però l’artista che più di

ogni altro richiamava l’attenzione degli

spettatori e che rendeva più appetibile

tutto il gruppo dei befanieri. Il poeta era un po’ il presentatore

dello spettacolo. Lo introduceva e lo

concludeva.”

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di qualche persona sconosciuta ed importante e chiedeva al poeta

di “tirare” una poesia al suo indirizzo. Se c’erano nella casa degli innamorati, non poteva mancare un’ottava indirizzata direttamente a loro ... Questi interventi erano inframmezzati, se il fisarmonicista era bravo, da esecuzioni di brani conosciuti o da qualche ritmo di danza che accompagnava il ballo di qualche coppia coraggiosa presente. Questo era anche il momento dei bambini presenti, perché non mancava mai un tavolo imbandito di dolcetti e di ghiottonerie, al quale i presenti si avvicinavano per sgranocchiare qualcosa. Il tutto era annaffiato, per gli adulti, da bevute abbondanti di vino generoso e di qualche altro liquore messo a disposizione dal padrone di casa. Tutto si concludeva con un’ottava di congedo del poeta, mentre qualcuno del gruppo della befana passava a raccogliere eventuali offerte anche in denaro. Una volta terminato il programma delle visite delle case, la stagione della befana si concludeva con una “mangiata” spensierata e allegra in una casa di un componente del gruppo o, rarissimamente, in un’osteria, con un arrivederci alla befana dell’anno successivo.

Non solo nostalgia

È un mondo scomparso, che, almeno in quelle forme, non esiste più. Fa bene però rammentare le esperienze di quegli anni, non per una curiosità nostalgica e un po’ melanconica, ma per cercare di scoprire ciò che c’era allora di vivo e di valorizzarlo anche nelle condizioni di vita attuale. Prima di tutto piace rievocare il senso di appartenenza ad una società per quanto, piccola e limitata, in cui gli individui si sentivano riconosciuti in quanto tali, accettati e valorizzati per le loro effettive qualità umane. Una pienezza che a stento si riesce a realizzare oggi, in un mondo in cui regna l’anonimato, povero di relazioni interpersonali. Un anonimato ed un vuoto esistenziale che con fatica, e per lo più invano, si cerca di vincere sgomitando, urlando, pubblicando fotomontaggi, scrivendo post a dir poco volgari, nel tentativo di farsi notare e di sentirsi vivi almeno per un giorno.

“Prima di tutto piace rievocare il senso di appartenenza

ad una società per quanto, piccola e limitata, in cui gli individui si sentivano riconosciuti in quanto tali, accettati e valorizzati per le loro effettive qualità umane.”

la compagnia della Befana di Angiolino

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di Sandro Galante

Caterina Seguso

Il giorno 11 Maggio è stata inaugurata al Laurentianum di Mestre la mostra fotografica allestita dai corsisti del mio corso di Fotografia.

La mostra nasce da una esercitazione che diedi un tre-quattro estati fa. Quella delle esercitazioni estive è una nostra caratteristica e, oltre a darne annuncio all’ultimo o penultimo incontro dell’anno accademico, mi premuro di dare anche indicazioni via email per sostenere la loro ricerca. Questo, in stralcio, il testo di quella email: “ASTRAZIONI QUOTIDIANE. In arte l’Astrattismo nasce dalla scelta degli artisti di negare la rappresentazione della realtà per esaltare i propri sentimenti attraverso forme, linee e colori (...). Con il termine “astrattismo” vengono quindi spesso disegnate tutte le forme di espressione artistica visuale non figurative, dove non vi siano appigli che consentano di ricondurre l’immagine dipinta ad una qualsiasi rappresentazione della realtà. Tuttavia in alcune accezioni con “astrattismo” s’intende anche la ricerca della forma pura per tramite di colori e forme geometriche, (...). Accanto a questo tipo di astrattismo c’è anche quello non figurativo che viene definito quale espressionismo astratto, informale: la personalità di maggior spicco in questa forma di astrattismo è Kandinskij che iniziò la sua carriera d’artista da una pittura espressionistica con l’accentuazione del colore per passare ad una pittura completamente astratta priva di figure riconoscibili. Dati questi rapidissimi cenni storico-critici sull’astrattismo in Arte, passiamo ora alla fotografia astratta o delle astrazioni quotidiane come ci siamo abituati a chiamarle. L’invito che faccio a tutti è quello di cominciare a osservare con attenzione la produzione di fotografi quali Man Ray, un maestro, assieme a Moholy Nagy e il nostro Luigi Veronesi; senza dimenticare i più “giovani” Franco Fontana, Mario Giacomelli (fotografo sì ma anche poeta e tipografo) e Nino Migliori.Tecnicamente parlando dovrete far intervenire più opzioni della

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Nadia Codolo

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vostra fotocamera ma, la prima in assoluto, direi che “l’abbandonare” l’uso del grandangolare potrebbe essere la regola da adottare (il tele isola

maggiormente e, schiacciando i piani prospettici aiuta l’astrazione). Detto della lunghezza focale passerei alla combinazione ripresa ravvicinata (non obbligatoriamente macro) con tele più o meno spinto (attenzione alla messa a fuoco e al mosso: se sono troppo vicino potrei avere la sfocatura - che potrebbe essere una scelta - mentre se il tele è molto spinto, il mosso. Ricordate? Più spinto è lo zoom più veloce deve essere il tempo di esposizione). Infine provate a fare “astrazione quotidiana” usando sia la sfocatura sia il mosso, ovviamente voluto, ricordando che la prima la otterrò con la priorità della massima apertura (lettera A del selettore); la

seconda con l’impostazione della lettera T (priorità dei tempi di esposizione).

Questa, invece, la “spiega” esposta in mostra.

ASTRAZIONI QUOTIDIANEIl vocabolario Treccani ci ricorda che l’astrazione è: “il processo mentale mediante il quale una cosa viene isolata da altre con cui si trova in rapporto, per considerarla come specifico oggetto di indagine...”. Ebbene noi siamo partiti proprio da qui, dall’idea che bisognava cercare nel nostro quotidiano quel qualcosa che ci permettesse di creare quell’isolamento necessario, obbligato, per far sì che quella cosa, oggetto o situazione, isolandosi dal suo specifico contesto, assumesse quella nuova dimensione capace di dichiararsi come un nuovo e particolare elemento figurale, sensibile e autonomo.Questo tema ci ha portato a indagare la realtà - ovvero il nostro intorno - con una consapevolezza nuova: non più la risposta emozionale nata dall’oggetto della nostra attenzione, come d’altra parte ci hanno insegnato gli Impressionisti ma, quasi, il suo contrario. Se il flusso visivo per questi artisti partiva sempre dall’oggetto verso il soggetto, cioè l’artista, nel nostro caso si doveva, invece, mettere in atto l’opposto: non più dall’oggetto al soggetto ma dal soggetto (in questo caso il fotografo) all’oggetto (la cosa fotografata).l’Astrattismo nasce dalla volontà degli artisti di negare la rappresentazione di quel reale oggettivo in favore dell’espressione del proprio io attraverso forme, linee, colori. L’immagine ottenuta mediante questo processo sarà determinata dal superamento della realtà generatrice, in favore di quella realtà (nuova) che si è andati a configurare grazie, appunto, all’intervento di isolamento visuale.Questa è la sfida del tema sulle astrazioni quotidiane, nato due anni fa e che oggi si manifesta in questa

Gianfranco Ferla Mara Penso

Ewa Smagala

Mara Penso Francesca Sulis

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mostra. I ventidue corsisti-espositori hanno cominciato a osservare la realtà avendo come guida quel precetto detto prima: dal soggetto all’oggetto. Così, con il corretto uso della lingua (e tecnologia) della fotografia, hanno prodotto molte decine e decine di immagini tanto da rendere difficoltosa - questo il bello - la scelta delle eleggibili. Ecco allora che un’ombra, una luce, un riflesso, un brano di cielo azzurro, un muro scrostato, la ripresa ravvicinata di una caraffa, di un fanalino direzionale, di un soffitto, di una facciata, di un monumento celebrativo o di un paesaggio, ripresi con la “giusta” intenzione fotografica staccandosi

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dall’abituale contesto, diventano il giusto pretesto, grazie a quel clic, una nuova oggettività, una nuova realtà. In questa mostra, nostro parere ovviamente, ci sono ben trentadue “ritratti” di questa nuova rivelata realtà ed è per questo che ci permettiamo di dirvi: buona astrazione a tutti.

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STORIA DI

VENEZIAIII parte

di Gianfranco Pontini

Continua dal numero precedente

Venezia intervenne una prima volta nel 1081 assediando Durazzo con la sua flotta. Vinse, ma non in modo risolutivo tanto che i normanni riconquistarono la città. Un nuovo tentativo nel 1084 si concluse con una clamorosa sconfitta e la perdita di sette navi. A Venezia la notizia della sconfitta provocò una sommossa popolare, la deposizione del doge Domenico Selvo, che finì in un convento, e l’ elezione dogale di Vitale Falier (1085-1096).Solo nel 1085, con la morte di peste di Roberto il Guiscardo, la lotta volse al meglio per la Repubblica: Bisanzio riprese le sue posizioni in Epiro ed in Albania. La flotta normanna fu definitivamente sconfitta da quella veneziana e la vittoria veneto-bizantina poté dirsi completa. Venezia fu così in grado di iniziare a cogliere i vantaggi della Crisobolla del 1082.Verso la fine del secolo (1095) ottenne anche un altro risultato importante: la libertà di transito delle strade che conducevano da una parte a Pavia e dall’ altra al Brennero.L’imperatore tedesco Enrico IV concesse alla repubblica tale libertà come riconoscimento per la politica di neutralità tenuta dalla Serenissima nella contesa tra l’Imperatore ed il papa Gregorio VII.La spiegazione del successo economico della città nel XII secolo, ed in quelli successivi, si legge anche con questi due importanti avvenimenti della fine del secolo XI: la Crisobolla che favorisce l’espansione commerciale in Oriente e vi esclude, almeno per il momento, genovesi e pisani; la libertà di traffico commerciale verso il nord d’Italia e d’Europa che assicura espansione nei mercati delle Fiandre, della Francia e della Germania.

Il consiglio dei Sapienti

Dopo un secolo da quando il doge Flabianico avviò la politica di contenimento delle aspirazioni monarchiche dei dogi, che si associavano i figli al Dogado per garantirne la successione, al potere della loro famiglia, le tentazioni ereditarie non erano ancora del tutto vinte.Gli influssi di carattere familiare sul potere erano perseguiti in altri modi, ad esempio il Doge che si imbarcava per una missione lontana, dalla quale poteva non tornare, trasferiva durante la sua assenza il potere ad un altro membro della sua famiglia; oppure affidava a propri familiari alti comandi militari od incorporava nei propri beni di famiglia possedimenti della Repubblica di nuova acquisizione.Col dogado di Pietro Polani (1130-1148) prende finalmente avvio una riforma importantissima perché apre un processo di cambiamento istituzionale. Infatti nel 1143 nasce un nuovo organismo di governo da cui si svilupperà nel giro di qualche decennio il Maggior Consiglio: il Consiglio dei Sapienti.Il Consiglio dei Sapienti era un organo con poteri deliberanti che si riuniva sotto la presidenza del Doge e la partecipazione dei giudici. Le sue deliberazioni erano immediatamente esecutive e tutti dovevano sottostarvi.Da esso nel 1207 nascerà il Maggior Consiglio formato da 35 membri. I membri del Maggior consiglio, più i dieci del Minor Consiglio, più il Doge, formano il Consiglio dei Savi.

Le Crociate

La potenza navale della Serenissima compì un salto di qualità quando si allontanò dal mare Adriatico ed ampliò la sua sfera d’influenza nel Mediterraneo dove, seguendo l’ esempio di tutti, trovò nuove fonti

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finanziarie nelle razzie e nella pirateria.Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo si apre per Venezia un’occasione storica unica che la renderà il più grande impero coloniale del mondo: le crociate.Il periodo delle crociate inizia nel 1095 quando il papa Urbano II invita i principi cristiani a riconquistare i luoghi santi. Aderirono in molti perché i territori ed i mercati orientali facevano gola a tutti. Anche Venezia partecipò alla prima crociata, nel 1099; si fermò a Rodi per svernare dove ebbe uno scontro navale con i pisani giunti nel porto per lo stesso motivo. Cacciati i pisani, i Veneziani rimasero in Romania (queste terre erano dette Romania perché considerate una continuazione dell’ impero romano) aiutando Goffredo di Buglione a conquistare Haifa e s’impadronirono delle spoglie di San Nicola.La morte del condottiero impedì a Venezia di trarre profitto dall’aiuto accordatogli. Ma la sua partecipazione alla crociata servì alla Serenissima per comprendere che stavano sorgendo per lei nuovi problemi internazionali: il Mediterraneo orientale vedeva la presenza ingombrante di Pisa e Genova.Infatti la linea commerciale tra Oriente ed Occidente dell’Adriatico, controllata dalla potenza navale di Venezia, non era più l’unica via di mare per l’Oriente. Se ne apriva un’altra controllata da Pisa, quella tirrenica. Il predominio veneziano veniva così messo in discussione ed il favore di Bisanzio per Venezia non sembrava più certo come un tempo.Agli inizi del secolo XI, oltre a queste difficoltà, continuano quelle relative al controllo della Dalmazia, sempre insidiata dagli ungheresi che si ripresero molte città nel 1104. Venezia per un altro decennio dovette impiegare uomini e mezzi per ristabilire il proprio dominio ed un doge, Ordelaffio Falier, fu assassinato a Zara durante le operazioni.I rapporti con Bisanzio si complicano nuovamente nel 1118 perché l’imperatore si rifiuta di riconoscere i privilegi veneziani in oriente, sanciti da almeno due crisobolle. Il gesto di Giovanni Comneno è dovuto anche all’insofferenza della popolazione per l’invadente presenza veneziana nella vita locale. I veneziani hanno monopolizzato, o quasi, il commercio dell’olio e della seta; e gestiscono interessi cospicui nel trasporto dei panni lavorati, delle spezie, del cotone, del legname e delle armi Molti di loro sposano le donne greche e sono presenti in ogni quartiere suscitando l’odio soprattutto dei greci, appunto.Nel 1122, per far fronte a questo stato di tensione, parte la spedizione di Domenico Michiel che, dopo una sosta a Corfù, prende il mare da Cipro per fermare una flotta egiziana intenzionata ad occupare Giaffa, in Palestina, per scacciare i veneziani dallo scalo.Il 30 maggio del 1123 la flotta egiziana venne intercettata ad Ascalona e sconfitta. L’armata ducale partecipa poi alla conquista di Tiro nel luglio del 1124.

Con queste vittorie Venezia estende la sua espansione nel Mediterraneo orientale sebbene i vantaggi conquistati in Siria non compensino la perdita dei privilegi commerciali nei mercati bizantini. Domenico Michiel fece rotta quindi nell’ Egeo e nell’ Adriatico: conquistò Rodi, Chio, Samo, Lesbo, Andros, Modone, Cefalonia e riconquistò la Dalmazia, strappandola agli ungheresi.Fu una campagna militare di grande riaffermazione di potenza e di grandi razzie e una lotta imperialistica per la riaffermazione di antichi privilegi concessi da Bisanzio a Venezia per meriti non recenti di tutela della libertà di navigazione, violati dall’ imperatore Giovanni Comneno, sia per l’ ostilità del suo popolo verso i veneziani sia per sostituirli, ricavandone vantaggi personali, nel commercio con l’Oriente con i pisani.Fu dunque la vittoria di un imperialismo, quello veneziano, contro un altro imperialismo, quello pisano.Senza questa reazione vittoriosa di Venezia, Bisanzio non sarebbe forse stata indotta ad una più realistica valutazione del proprio tornaconto. Infatti nell’agosto del 1126 una nuova Crisobolla riconfermava le concessioni a Venezia fatte da Alessio I.La bolla del 1126 ed il privilegio di re Baldovino del 1125 in Siria, quale ricompensa della conquista di Tiro e della sua liberazione dalla prigionia, chiudono un periodo molto difficile ma molto produttivo per il Ducato.Venezia conosce poi un ventennio di pace sebbene motivi locali di tensione continuassero ad esistere con Verona per la navigazione dell’Adige e con Padova che voleva deviare il Brenta per abbreviare la sua distanza dalle lagune.A questo progetto la Repubblica si oppose decisamente perché la deviazione del Brenta avrebbe gravemente alterato l’assetto idrogeologico della laguna e quindi l’ escursione delle maree.Anche le turbolenze delle città istriane, che reclamavano maggior autonomia, conoscono un periodo di tregua in seguito agli accordi con le città di Umago, Citttanova, Parenzo, Rovigno, Pola, Capodistria, che riconoscono formalmente il dominio di Venezia.

Gli avversari della Repubblica

I risultati raggiunti non potevano però far sperare al doge Vitale Venier (1156-1172) una pace di lunga durata. Troppe tensioni, troppe contrapposizioni facevano prevedere che la seconda metà del XII secolo non sarebbe trascorsa in pace.In effetti l’assetto politico generale dell’Europa stava cambiando, il potere politico universale dell’imperatore si stava frantumando: le ribellioni per l’autonomia dei comuni italiani e la nascita delle monarchie nazionali in Francia ed Inghilterra costringevano l’imperatore del sacro romano impero germanico a lottare per riaffermare il proprio potere universale derivato da quello degli imperatori romani di cui si sentiva il legittimo erede.Il potere dei monarchi nazionali era, secondo questa

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teteoria, di rango inferiore e sempre dipendente da quello dell’imperatore romano.Stesso disfacimento stava conoscendo l’altra metà del sacro romano impero, quello d’ oriente, (anch’esso erede della divisione voluta da Costantino), per la sua debolezza, l’espansione incontenibile della potenza araba e la decadenza dei suoi regnanti. Resta poi da notare che la posizione geografica di Costantinopoli era lontana dai teatri della guerra e della diplomazia, dove si decidevano le sorti del futuro assetto mondiale, e per questo gli imperatori d’oriente non potevano governare i processi e tutelare efficacemente i loro interessi.Il papato, dal canto suo, vedeva messa in discussione ora dagli imperatori d’occidente, e presto anche dalle monarchie nazionali, la sua supremazia assoluta sul potere politico che la Chiesa sosteneva in base alle teorie teocratiche secondo le quali il Papa, quando parlava dalla cattedra di Pietro, doveva essere obbedito anche dall’Imperatore.E sebbene l’Imperatore, nella sfera del potere temporale, si vedesse riconosciuta formalmente dal Papa la propria autonomia, la dottrina teocratica aggiungeva però subito dopo che, se il successore di Pietro riteneva opportuno estendere i suoi insegnamenti anche alla sfera temporale, l’Imperatore aveva il dovere di ascoltarlo con la deferenza con cui il figlio segue i suggerimenti del padre.La dottrina teocratica giustificava tali posizioni affermando che quando il Papa interveniva nelle faccende temporali non era mosso da interessi di potere ma dalla preoccupazione per le conseguenze che le vicende del mondo potevano avere per la salvezza delle anime. Ed essendo la felicità umana inferiore di gran lunga alla felicità eterna, l’Imperatore era anche in questo caso tenuto all’ obbedienza.La teocrazia quindi affermava sempre e comunque la supremazia del potere spirituale su quello temporale.Lo scontro tra Papato ed Impero, con queste premesse, non poteva che essere inevitabile. In ogni modo, da oriente ad occidente, si stava formando un nuovo ordine politico e morale, sebbene ad Aquisgrana e a Costantinopoli si cercasse di salvare un sistema politico colpito da una crisi senza ritorno.Venezia non poteva ovviamente rimanere estranea ad un processo generale di mutamento e ne subì le conseguenze, come tutti: i rischi e le lotte, non furono poche; ma i risultati furono splendidi. La bufera si riaccese nel 1161 quando Federico Barbarossa scese per la seconda volta in Italia per riaffermare il potere imperiale contro i comuni ribelli della Lombardia.È da notare che Venezia, di fatto, aveva già preso posizione contro di lui. Infatti sebbene non appoggiasse direttamente i comuni in lotta, indirettamente li sosteneva finanziando la Lega dei comuni lombardi e, poiché non aveva riconosciuto l’antipapa nominato da Federico Barbarossa, era rimasta fedele ad Alessandro III ostile all’Imperatore.

Appena questi mise piede in Italia il Ducato si trovò nella bufera, circondato da ribelli: trevigiani per il transito del Piave, padovani per quello del Po e del Brenta, veronesi per l’ Adige; tutti i veneti dimostrano una diffusa ostilità verso Venezia.Il cardinale di Aquileia spera di far tornare di attualità le sue rivendicazioni, mai ascoltate, ed attacca Grado.Non poteva mancare Zara, che nel corso dei secoli si ribellerà un numero impressionante di volte, sostenuta da 30000 magiari alleati con gli ungheresi. Trenta galere al comando del Doge riportarono subito la città nell’ordine veneziano.Ancona trama con Bisanzio, di cui Venezia comincia a diffidare in modo profondo, per contrastare il predominio del ducato nel commercio del medio e basso Adriatico.Come si può osservare la città è accerchiata da ogni lato e ci si può chiedere per quale miracolo, in questi frangenti, non abbia fatto la fine di tanti altri staterelli risucchiati nel corso dei secoli. A queste difficoltà si deve aggiungere la situazione in oriente che si andava maggiormente complicando.Il latini erano sempre più detestati dalle popolazioni locali e, tra questi, i veneziani erano tra i più mal visti dai greci che non avevano dimenticato gli affronti subìti durante l’assedio di Tiro del 1148. I rapporti giungono alla rottura quando i veneziani non accettano di aiutare l’impero di Bisanzio nella riconquista del Mediterraneo.Maunele Comneno si allea allora con Pisa e per ritorsione, il 12 marzo 1171, ordina la cattura di tutti i veneziani che operano nell’impero. Solo pochi transfughi si salvano imbarcandosi per le colonie veneziane in Siria o raggiungendo Venezia. La colonia veneziana di Costantinopoli è saccheggiata ed i beni confiscati. 10.000 veneziani furono arrestati, imprigionati, molti uccisi. Una flotta al comando del doge Vitale Michiel partì per recuperare, almeno in parte i beni perduti e per infliggere una punizione all’Imperatore che non aveva mantenuto i patti.Fu un insuccesso. Dopo aver inutilmente tentato l’ assedio di Ragusa e di Chio, sopraffatta dalla pestilenza, la flotta ritornò a Venezia. In città scoppiarono gravi tumulti contro il Doge che fu assalito in palazzo ducale da un gruppo di rivoltosi e cercò scampo nel convento di S. Zaccaria ma, raggiunto, fu pugnalato da un insorto. La sua morte placò subito gli animi dei veneziani mai propensi in tutta la loro storia a ribellarsi alla Repubblica. Fu subito eletto doge Sebastiano Ziani (1172-1178) che riprese inutilmente le trattative con Costantinopoli. Infatti un’altra crisi con Bisanzio investe ancora Venezia in modo violento nel 1182. Nel frattempo la città conosce un momento di grande prestigio internazionale quando, nel 1177, viene scelta dal papa Alessandro III e dall’imperatore Federico Barbarossa per giungere ad un accordo tra Papato ed Impero dopo tanti anni di conflitti.

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La scelta cadde su Venezia per la sua fedeltà al Papa e perché non aveva, nello stesso tempo, mai apertamente avversato l’Imperatore. La pace tra i due poteri fu conclusa e Venezia trasse benefici sia dal Barbarossa che confermò i privilegi della città sia dal Papa che risolse il conflitto tra il patriarcato di Aquileia e quello di Grado, ripartendo equamente i benefici delle due sedi ecclesiastiche secondo i desideri di Venezia, senza privilegiare nessuno dei due, come avrebbero voluto, ciascuno per sé, i due patriarchi.Tornando ai rapporti con Bisanzio , erano circa 80.000 i latini che vi operavano coi loro privilegi e protezioni e tra questi i più dinamici, e i più malvisti, soprattutto dai greci, erano i veneziani. La morte di Emanuele Comneno nel 1182 fu accompagnata da una furiosa ribellione che distrusse ogni cosa di latini e veneziani, compresa la vita di moltissimi. Anche se il conflitto con Bisanzio conobbe momenti di tregua, si risolse, almeno formalmente, solo nel 1195 con l’avvento al trono del nuovo imperatore Alessio Comneno. Furono aperte per i veneziani nuove strade commerciali in Epiro, Macedonia, Bulgaria, Tracia e nelle isole Cicladi, a Zante, Creta...L’ imperatore erogò anche un risarcimento in denaro ai veneziani per le confische del 1171, ma il nuovo accordo non servì a ristabilire il clima di fiducia per tanti secoli vivo tra Venezia e Bisanzio. Il governo aveva maturato la convinzione che Bisanzio fosse ormai un alleato infido, militarmente debole e pronto a tradirlo con anconitani, pisani e quanti altri alla prima occasione.In questo clima matura la quarta crociata che risolve in modo imprevedibile la decadenza di un impero secolare e decide, oltre ogni aspettativa di successo, il destino futuro di una stato ancora piccolo e periferico.

La caduta dell’Impero Romano d’Oriente

La quarta crociata fu indetta dal papa Innocenzo III e trovò particolare accoglienza in Francia dove la religiosità era molto sentita.I crociati si incontrarono a Compiègne e da lì inviarono sei delegati a Venezia per contrattare il trasporto per mare delle truppe: il contratto di passaggio.L’ obiettivo della crociata era la riconquista di Gerusalemme e Venezia avrebbe fornito le navi necessarie al trasporto oltremare di 4.500 cavalieri, 4.500 cavalli, 9.000 scudieri e 20.000 fanti, le salmerie necessarie alle truppe per un anno e avrebbe contribuito alla crociata, per la sua parte, con cinquanta galere.Il compenso fu pattuito in 85.000 marche d’argento e la metà dei profitti realizzati durante la spedizione. Ma il 29 giugno 1202, data concordata per la partenza, Venezia era pronta e gli altri no.Infatti dopo gli accordi del contratto di passaggio venne

scelto il capo della spedizione, Bonifacio di Monferrato, la rotta da seguire, la Siria o l’ Egitto, ed il periodo di concentrazione delle truppe a Venezia: aprile 1202.A Venezia giunsero molto meno crociati del previsto perché si erano imbarcati in altri porti, forse per mancanza di sufficienti informazioni o forse per accorciare la durata del viaggio; erano male armati ed alla somma pattuita mancavano 34.000 marche d’ argento.Il governo allora propose ai crociati di compensare la somma mancante aiutandolo a riconquistare Zara, eterna ribelle. Nel frattempo a Bisanzio un colpo di stato aveva deposto l’ imperatore Isacco Comneno. Suo figlio Alessio, per riconquistare il trono, si recò a Verona per incontrare i crociati e, sostenuto dal cognato Filippo di Svevia, promise loro grandi ricompense e la riunificazione delle due chiese, greca e latina, se lo avessero aiutato a riprendere il potere.La proposta interessava un po’ tutti i componenti della crociata sia perché l’assedio di Zara si prolungava oltre il previsto sia perché i franchi, in modo particolare, ci tenevano molto alla riunificazione religiosa promessa da Alessio Comneno. Ma a Zara i capi crociati non riuscivano ad accordarsi circa la strada da seguire per la terra santa: la Siria o l’Egitto.Intervenne allora il doge Enrico Dandolo che adoperò tutta la sua influenza per imporre l’operazione verso Costantinopoli, centro del Sacro Romano Impero d’Oriente. Era spinto da molte buone ragioni quali la necessità di dare un obiettivo certo e di impiegare presto l’armata crociata, pena la sua dissoluzione; in secondo luogo l’azione avrebbe tutelato, mettendoli a frutto secondo i patti, i grandi capitali anticipati da Venezia; ed infine, egli faceva assai poco conto, ed i fatti gli avrebbero dato ragione, delle promesse di Alessio IV Comneno.Non da ultimo il suo intervento era dettato dalle notizie delle violenze scatenate, ancora una volta, dai greci contro la colonia veneziana di Costantinopoli. I crociati accettarono le proposte di Dandolo, impegnandosi però a riprendere la strada per la terra santa, una volta risolto il problema di Costantinopoli. La flotta si mosse da Corfù attraverso il Bosforo e si distese davanti al Corno d’Oro; la flotta greca l’aspettava protetta dai monti Galata.Sconfitta la flotta greca, Costantinopoli fu conquistata il 17 luglio 1204. La vittoria era stata raggiunta, Alessio IV ed il padre Isacco rimessi sul trono, l’ unità delle chiese dichiarata. I crociati decisero, a questo punto, di riprendere dopo l’ inverno, la strada per la Siria o per l’ Egitto.Ma il nuovo ordine non aveva riportato la tranquillità politica a Costantinopoli: gli scontri per le strade erano quotidiani e i nuovi sovrani erano considerati dei pupazzi rimessi sul trono dai latini; essi erano inoltre incapaci di sedare i disordini e di garantire l’incolumità dei crociati.

(Continua nel prossimo numero)

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L’INCOLORE TAZAKI TSUKURU E I SUOI ANNI DI PELLEGRINAGGIO

di Haruki MurakamiEinaudi editore

«Posso capire quanto sia doloroso essere rifiutati. Quando ti feriscono, magari succede che erigi un muro emozionale intorno al cuore. Ma a un certo punto riesci a rimetterti in piedi e ad

andare avanti. È questo tipo di storia che volevo scrivere». Murakami Haruki.

“L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”, romanzo intenso e coinvolgente, è uno dei libri più realistici che l’autore abbia scritto, nonostante non manchino passaggi onirici e un finale a sorpresa. Si tratta di una storia di amicizia tradita, di solitudine e abbandono, di misteri irrisolti. A Nagoya abitano cinque ragazzi, tre maschi e due femmine, che tra i sedici e i vent’anni sperimentano la più perfetta e pura delle amicizie, ma ad un certo punto uno di loro, Tazaki Tsukuru, riceve una telefonata dagli altri: non deve più cercarli. Da quel giorno, senza nessuna spiegazione, non li vedrà mai più. Il dolore per un abbandono così incomprensibile è lacerante, e nel ragazzo incomincia a crescere un desiderio di morte che lo accompagnerà, e poi lo trasformerà, per molto tempo. Solo l’incontro con Sara, che intuisce l’inquietudine di Tsukuru, gli dà la forza di cercare le risposte a quelle domande che per tanto tempo lo hanno ossessionato ma non ha mai avuto il coraggio di affrontare. E’ così che Tazaki Tsukuru intraprende un viaggio coraggioso, spinto dalla necessità di riordinare i tasselli di un passato doloroso per costruire le basi di un futuro diverso e migliore, ma che si conclude nell’incertezza.

IL MORSO DELLA RECLUSA

di Fred VargasEinaudi editore

“In questo ultimo romanzo di Fred Vargas ritorna il capo dell’Anticrimine al tredicesimo arrondissement parigino. il commissario Adamsberg, indolente, intuitivo, perso nei suoi pensieri.

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Quattro morti, una donna investita e due uomini anziani. In tutti è presente il veleno di un ragno, la reclusa, un ragno velenoso ma non abbastanza per uccidere all’istante. Nella mente di Adamsberg mille sono i pensieri e i ragionamenti per capire come sia potuto accadere. Perché quelle persone sono decedute dopo il morso di un ragno che generalmente si nasconde, non aggredisce e che, se anche lo facesse, potrebbe creare problemi seri, ma non certo la morte? Cosa avevano in comune quelle tre persone? Nessuno sembra capire che queste morti non sono tragiche fatalità, ma omicidi. Nessuno tranne Jean-Baptiste, che decide di indagare a dispetto di tutti, anche dei suoi collaboratori.Anche se “Il morso della reclusa” non ha la tensione di un thriller, l’autrice è molto abile a gestire un romanzo molto articolato riuscendo sempre a tenere un buon ritmo e a coinvolgere il lettore nella ricerca della soluzione.

LA PIETRAPER GLI OCCHI. VENEZIA 1106 d.C

di Roberto TiraboschiE/O Editore

“Ho visto un’ombra in bilico sulla sommità della torre. Oscillava verso il baratro, balbettando una preghiera, sotto un cielo annegato nella pece. Una notte d’inverno dell’anno 1106 di Cristo Nostro Signore …”

(dal testo)

Edgardo d’Arduino, il personaggio principale, è il primogenito di una famiglia nobile ma è affetto da una grave malformazione che ne condiziona l’aspetto e il carattere rendendolo schiavo di un forte sentimento di perenne inettitudine ed inadeguatezza. Per fuggire dal mondo dove si trova a disagio, è diventato chierico e abilissimo amanuense, ma sta perdendo la vista. Per risolvere questo gravissimo problema Edgardo va alla ricerca della fantomatica “pietra per gli occhi” a Venezia, patria dei famosi maestri vetrai.Primo libro del ciclo noir (da leggere in ordine cronologico) sulla nascita di Venezia, ambientato nei primi anni del dodicesimo secolo. Grazie alla magia di una scrittura coinvolgente e incalzante l’autore immerge il lettore nello scenario di una Venezia inedita, una città nascente fatta di fango e di paludi, ben lontana dalla iconografia classica della Serenissima a cui siamo più abituati; una città desiderosa “di rubare terra alle acque e di edificare sul nulla”, ma anche ricettacolo di miasmi e miseria.

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a cura dei docenti, assistenti e allievi dell’Unitre di Mestre-Venezia

il Gabbiano Felice

n.77Maggio 2018

UNIVERSITÀDELLA TERZA ETÀMESTRE

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