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CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI

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Quaderni di Politica Internazionale

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Mediterraneo e Medio OrienteUno sguardo d’assieme. Nuove incertezze.

Amb. Mario E. Maiolini(La Sapienza 22 settembre 2016)

Gli allineamenti nell’ampio scacchiere del Mediterraneo e del Medio Oriente stanno cambiando con una rapidità che non ha precedenti nella storia recente e con capovolgimenti di fronte che non fanno presagire stabilità, anche se questa è l’obiettivo di politica interna dei principali Stati della regione e delle due grandi potenze sempre protagoniste, Stati Uniti e Russia.

I fatti sono numerosi e di vasta portata. Il fallito colpo di stato in Turchia ha riavvicinato Ankara a Teheran e a Mosca. Ha accelerato lo sfaldamento del kemalismo e della tradizionale supremazia dell’esercito turco nella vita politica del paese. Ha mostrato le fragilità del paese anatolico, ma ha dato inizio alla supremazia assoluta di Erdogan nella leadership interna. Ha dato il via ad una politica estera assertiva ed indipendente come mai prima nella moderna storia turca a partire dagli anni venti del novecento.

L’Iran, a cui molti osservatori attribuiscono il merito di avere preavvertito Erdogan dell’imminente colpo di Stato, ha optato, una volta messo in serbo il prezioso accordo con gli Stati Uniti sul nucleare, per la stabilità ai suoi confini, e su un alleato, la Russia, che i proprî alleati li difende con decisione e senso di quella realpolitik che sta caratterizzando i comportamenti dei vari protagonisti della regione.

Con una decisione che non ha riscontro nella sua prassi e nella sua costituzione, la Repubblica Islamica ha concesso a Putin l’utilizzo della sua base aerea di Hamdan per facilitare i bombardamenti in Siria contro gli oppositori di Assad.

L'Egitto, alle prese con una grave situazione sociale e con una minaccia terroristica ben superiore a quella che affrontarono’ Nasser, Sadat e Mubarak, sta perseguendo linee di condotta innovative dall’esito incerto. L’accordo con il F.M.I. che lo impegna ad una politica economica di abolizione dei sussidi, di riduzione dei privilegi, di flessibilità dei cambi, e conseguente svalutazione che a breve aggraverà il disagio delle masse popolari. Allineamento diplomatico su Mosca che ne appoggia la politica di ingerenza in Cirenaica e di mano dura in fatto di diritti umani. Tensione con Washington in vari settori, anche se gli Stati Uniti rimangono il principale sostegno economico (aiuti bilaterali civili e militari e appoggio nelle trattative col FMI per il prestito di 12 miliardi di dollari). Rilancio dei rapporti con Israele con cui ha ripreso i rapporti diplomatici formali da anni interrotti e intensificazione della collaborazione con Gerusalemme contro il terrorismo specialmente nel Sinai.

L’importanza del grande giacimento di gas scoperto dall’ENI al largo delle coste egiziane, contiguo con quelli al largo di Cipro (in fase avanzata di messa in opera) e delle coste del Mediterraneo orientale, ha indotto il Cairo ad un accordo con Nicosia per la costruzione di gasdotto che da Cipro dovrebbe alimentare il mercato egiziano, ma anche propiziare – secondo gli osservatori – prospettive di collaborazione fra gli Stati rivieraschi e la Turchia, via obbligata per l’utilizzo in Europa di tale enorme risorsa energetica. Per ora si registra però l’opposizione del Governo turco cipriota.

Lo stesso Israele non è più l’Israele laico, socialista, ashkenazi, elitario (sabra) di Ben Gurion, con un forte ed indipendente potere giudiziario e con un esercito da cui la classe politica ha tratto molti dei suoi più prestigiosi esponenti. E’ – come emerge dal voluminoso studio pubblicato sul numero di luglio-agosto 2016 di Foreign Affairs - lo Stato giudaico, mizrahim (a forte presenza sefardita) di Netanyahu che ha abbandonato l’idea di accettare due Stati separati - palestinese e israeliano-conservatore, che non teme di contrastare apertamente le politiche delle Amministrazioni americane e la cui opinione pubblica non vuole necessariamente compiacere gli Stati Uniti. Anche Israele avverte che dopo il “retrenchment” e l’accordo sul nucleare iraniano l'America è più lontana

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ed occorre pensare a nuovi allineamenti ed alleanze come dimostra la riconciliazione con la Turchia e i contatti con Mosca sulla problematica medio orientale.

Il perdurante conflitto in Siria, che in questi giorni registra un accordo russo-americano, ha certo messo in evidenza l’arretramento dell’Isis, ma ha fatto sorgere una nuova entità territoriale curda, denominata Rojava, che ha più o meno la superficie territoriale del Belgio, al confine fra Siria e Turchia per più di 550 Km equivocamente appoggiata dagli Stati Uniti e fortemente osteggiata dalla Turchia. Fatto che comunque crea una ulteriore entità autonoma curda – anche se precaria – oltre al Kurdistan iracheno, suscettibile di creare futuri contrasti politici e diplomatici alla Comunità Internazionale. Basti pensare ai curdi iraniani oltre a quelli turchi e alle comunità curde sparse in molti paesi europei e negli Stati Uniti che daranno origine a vari gruppi di pressione influenti nelle varie politiche interne.

A completare il quadro ricordiamo le difficoltà dell’Arabia Saudita, invischiata in un conflitto nello Yemen che, per la prima volta, ha suscitato nel Congresso americano e nei suoi più importanti organi di informazione severe critiche a Riad e alla politica pluridecennale di amicizia di Washington verso il Regno Saudita. Quest’ultimo però è ossessionato dalla possibilità che un Governo ad orientamento sciita possa prevalere ai suoi confini meridionali con una popolazione povera, bellicosa, instabile ben più delle comunità sciite che popolano i suoi territori lungo le coste del Golfo.

Ugualmente bisogna parlare di Libia non solo perché le sue divisioni interne fanno male presagire, ma anche perché la sconfitta dell’Isis a Sirte è forse una metastasi che si allarga all’entroterra nord africano e al Sahara, minacciando in particolare Tunisia e Algeria.

Russia e Stati Uniti rimangono due protagonisti importanti e con intenti contrapposti sia concettualmente che storicamente.

La Russia agisce secondo gli schemi di una politica estera tradizionale consolidatasi nella storia: sicurezza e mantenimento dei confini così come han preso forma nei momenti di maggiore forza ed espansione, stabilità interna e prestigio, mantenimento delle alleanze tradizionali, contrasto ai movimenti autonomisti o terroristici che ne possano minare la compattezza, scarsa sensibilità per tutto ciò che è politica dei diritti umani e organizzazioni umanitarie.

Gli Stati Uniti hanno – come sempre – una politica estera basata sul concetto di interesse nazionale-dinamico che non è meno esente da accenti cinici e di realpolitik – ma che varia in funzione della solidità della loro economia, in funzione della percezione di “interesse” nazionale da parte delle classi sociali prevalenti, dell’orientamento “moralistico ed umanitario” dell’opinione pubblica, dei convincimenti dei loro organi di informazione più influenti. Fattori che hanno indotto il Generale Petreus a dichiarare – al tempo in cui era uno dei più prestigiosi ed ascoltati esponenti militari - che “Israele non è un interesse nazionale dell’America”, Carter ad abbandonare alla sua sorte lo Scià di Persia, Obama a lasciare l’alleanza con Mubarak, sempre Obama ad assicurare Erdogan che “i golpisti pagheranno il loro conto con la giustizia” (con buona pace per il diritto d’asilo di Gulen Fetullah), e il Congresso americano e i principali media statunitensi a criticare apertamente l’Arabia Saudita per il suo disastroso intervento militare in Yemen, dopo che per più di cinquanta anni l’alleanza col Regno Saudita aveva resistito persino al coinvolgimento di cittadini sauditi nell’attentato delle Torri Gemelle. Forse questo non sarebbe successo se non si fosse realizzata la rivoluzione delle scisti bituminose e l’accordo sul nucleare iraniano che hanno impresso una svolta agli interessi americani.

E vi è un altro mutamento che Charles Krauthammer tratteggia sul Washington Post del 13 agosto e che è anche rivelatore della flessibilità e capacità di percepire i tempi nuovi del pensiero politico americano. Il convincimento – secondo l’autore – dell’Amministrazione Obama che le fluttuazioni nelle relazioni fra le grandi potenze sono – nel mondo globalizzato di oggi – “essenzialmente effimere”. “Le priorità sono domestiche”. Quest'ultimo concetto è stato più volte espresso da Obama. Per quanto il giudizio di Krauthammer sia forse troppo marcato, esso è tuttavia interessante per capire certe linee di tendenza americane. E la campagna elettorale in corso negli Stati Uniti li ha fatti in parte affiorare.

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L’Unione Europea’, da parte sua, evidenzia il suo realismo e le sue capacità di essere un buon “incassatore di colpi” con i risultati del Vertice di Bratislava di fine agosto: evitare una deriva della Turchia verso Mosca,nonostante il disaccordo Ankara-Bruxelles sulla libera concessione dei visti di ingresso in Europa per i cittadini turchi, nonostante la severità della repressione contro coloro che Erdogan accusa di collusione con i golpisti e nonostante le dure condizioni che il Governo turco ha posto per il mantenimento dell’accordo sui rifugiati siriani, sempre minacciato di abrogazione dal leader turco ad ogni accenno di sgraditi atteggiamenti europei.

Scendendo dal quadro d’assieme agli accadimenti specifici, essi sono portatori di novità che imprimeranno dinamismo e imprevedibilità alla scena medio orientale. Appunto il fallito colpo di Stato in Turchia può essere considerato la chiave di volta di molti mutamenti e tensioni future.

La società turca infatti ha iniziato una propria rifondazione profonda. L’esercito innanzi tutto, che Erdogan vede come il centro di quella opposizione che ha tentato di spodestarlo, esce indebolito in modo permanente dalle vicende di agosto. Se si ricorda quale fu l’impatto sull’esercito sovietico della purga staliniana dopo il processo Timoshenko, si può facilmente immaginare che le purghe in atto in Turchia mineranno abbastanza quello che si era soliti considerare non solo il più numeroso ma anche fra i più motivati eserciti della NATO. Con una conseguenza: che Erdogan dovrà considerare che sino a quando il rinnovamento dei vertici militari non sarà completato, i suoi confini “non occidentali” non saranno tutelati con quella efficienza e dedizione che Ataturk aveva creato. Ciò porterà anche ad una politica estera molto sensibile a tutti quegli accadimenti suscettibili di creare pericoli ai confini. Quindi importanza per i rapporti con Iran, Russia, Siria, Iraq.

Sul piano interno la Turchia avrà anche la difficoltà di assorbire i contraccolpi delle epurazioni e di trovare una politica che superi la spinta islamizzatrice che era propria del movimento di Gulen Fetullah e del suo modello, per molti aspetti non lontano da quello assistenziale e riformista dei Fratelli Musulmani. Vi è da chiedersi se Erdogan non sentirà l’esigenza di attenuare la sua politica di islamizzazione anche per non alienarsi le simpatie delle classi medie e intellettuali che hanno mostrato solidarietà contro il fallito colpo di stato.

L’importanza dei pericoli che potrebbero venire dai suoi confini meridionali e orientali, accentua certo il compito di mantenere buoni rapporti con Mosca, che alla stabilità interna dedica particolare attenzione. Al tempo stesso darà maggiore flessibilità e spregiudicatezza ad Erdogan nella sua politica verso l’Europa che certo non darà particolari preoccupazioni militari e verso gli Stati Uniti, che probabilmente assorbiranno eventuali screzi pur di evitare sia uno slittamento eccessivo della Turchia verso Mosca, sia atteggiamenti che minaccino Israele e politiche che pregiudichino Egitto e Arabia Saudita.

E’ quindi probabile che gli interessi di politica interna del Governo turco – incluso quello di acquisire prestigio estero che rinsaldi la sua opinione pubblica – avranno un ruolo importante nella sua politica medio orientale. Con una ulteriore osservazione: Erdogan sa che il proseguimento dello sviluppo economico del suo paese dipende dai capitali americani ed europei, per cui vi devono essere “caveat” a possibili divergenze con l’Occidente. Il capitale – dicevano i vecchi economisti – è coniglio.

L’Egitto rimane sempre un fattore chiave negli equilibri medio orientali, come oramai è un mantra dire nelle analisi degli osservatori dai tempi del conflitto arabo-israeliano. I motivi sono storici (geografia, popolazione, cultura, conflitto arabo-israeliano), ma anche nuovi: crisi demografica e occupazionale, collegata a mancanza di crescita, disastrosa gestione economica, inflazione, tensione sociale, terrorismo. Però questi dati negativi si assommano alle conseguenze del progetto di dare l’avvio ad una politica di riforme imposta dal Fondo Monetario come condizione per la concessione del prestito già menzionato agli inizi; dell’obbligo di trovare fonti aggiuntive di finanziamento; della tendenza dei paesi del Golfo a convertire in prestito quello che dopo la sostituzione di Morsi poteva essere dono di oltre 14 miliardi.Tutto ciò costringe il Governo del Cairo ad alcune scelte fondamentali. La necessità cioè di poter contare su alleanze certe e durevoli poiché le scelte riformiste di politica economica promesse agli enti finanziari internazionali implicheranno una severa politica repressiva del malcontento provocato dalla abolizione graduale di

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sussidi e facilitazioni alla massa povera della popolazione. La promessa di introdurre nel tempo maggiore giustizia sociale non sarà facilmente considerata beneficio per cui poter attendere. E in questo momento solo Mosca è alleato capace di difendere senza titubanze politiche interne antidemocratiche e repressive e capace all’occorrenza di mettere in atto azioni militari. L’America e l’Europa sono certo l’unico o principale sostegno economico, ma di certo anche vulnerabili alle oscillazioni umanitarie imposte dalle loro opinioni pubbliche, come la caduta di Mubarak indelebilmente ricorda ad Al-Sisi e alle monarchie arabe del Golfo.

Sono quindi motivi di stabilità e bisogno di prospettive ragionevolmente certe che spiegano come oggi Mosca sia riferimento privilegiato della politica estera del Cairo.

In una situazione per alcuni versi similare di trova l’Arabia Saudita che ha imboccato la strada di innovare in molti settori.

Nell’analizzare gli eventi del Regno è da ricordare che è da alcuni decenni, dopo l’assassinio di Re Faisal, che molti osservatori e diplomatici pronosticano – per ora senza successo – crolli e crisi epocali per ora non realizzatesi. E’ però un fatto che molti sono i motivi di preoccupazione. La regolarità nella linea di successione è stata interrotta dal nuovo Re Salman in favore del proprio giovanissimo figlio Mohammad, mettendo in ombra l’erede designato Mohammad bin Nayef e creando dissapori nella famiglia reale. L’accordo sul nucleare iraniano e le vicende delle fonti energetiche mondiali hanno reso gli Stati Uniti un alleato non infedele bensì nella condizione di dover bilanciare interessi e alleati contrapposti. Riad di conseguenza non si sente più l’alleato privilegiato di Washington in Medio Oriente. In parte ritiene di dover fare scelte autonome come con l’appoggio alle tribù e minoranze sunnite in Siria e Iraq, in parte vuole propugnare una politica anti-iraniana che comporta la difesa dei fondamenti della sua legittimità istituzionale (wahabismo). Lo stesso precipitoso intervento militare in Yemen non è servito a bloccare i progressi degli Houthi – che naturalmente guardano a Teheran. L’intervento ha provocato massicce manifestazioni popolari yemenite contro la guerra che Riad alimenta e conduce. I risultati sono negativi per Riad criticata aspramente dall’opinione pubblica americana ed europea. Di rimando il Governo saudita ha cercato o rinnovato nuovi allineamenti. Con Erdogan a cui ha subito manifestato il suo appoggio mentre era in corso di repressione il tentativo di colpo di Stato; con Putin negoziando un accordo di massima per il controllo della produzione petrolifera mirante a frenare la caduta dei prezzi . in margine al G20 di Pechino. L’editoriale dell’International New York Times del 30 agosto ha persino parlato apertamente di contatti tra Israele ed Arabia Saudita.

Altra grande novità nella politica estera saudita sarà la quotazione in borsa delle obbligazioni garantite dagli assets petroliferi del Regno e di altri suoi alleati del C.C.G.

Mentre da un lato la politica americana, che in questi mesi risente delle incertezze della campagna elettorale, nonché delle scelte prudenti e attendiste dell’Amministrazione Obama e dall’altro il revanchismo di Mosca, che occupa gli spazi vuoti che Europa e Stati Uniti lasciano nel teatro mediterraneo, costituiscono la tela di fondo della situazione, gli eventi in Turchia sono quelli a cui è legata la maggiore probabilità di incertezze e di tensioni.

Non ne è esente anche l’Iran. Per un verso l’accordo sul nucleare di ostacoli ne incontrerà per i motivi evidenziati dalla campagna elettorale americana in cui numerose sono le voci antiiraniane e per la tenacia di Israele nel trovare pretesti ed alleati contrari all’accordo. Con l’accordo Teheran ha acquisito - per ora e forse per lungo tempo - il grande vantaggio di essersi messa al riparo da quel “regime change” minacciato dai conservatori americani. E così pure nel lungo periodo Teheran dovrebbe mantenere quella supremazia nell’arco sciita che si è delineata dopo il sostanziale ritiro dall’Iraq da parte di Washington. Ma è una supremazia relativa anche perché comporta uno sforzo militare ingente per cui occorrono risorse finanziarie che erodono i capitali che affluiranno nelle casse statali dopo l’accordo con l’America, ma anche risorse umane e militari che attualmente non siamo in grado di quantificare, ma che si ripercuotono su un tessuto sociale che di perdite e sacrifici e sanzioni ne ha dovuti affrontare tanti in anni di guerra (contro l’Iraq, contro l’Isis, contro la coalizione antisiriana). A parte che la guerra all’Isis non è finita, nessuno può escludere che lo Stato Islamico sposti il suo campo d’azione all’interno dell’Iran e in Afghanistan. Su questo sfondo si

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aggiunge la non monolitica consistenza delle forze che Khamenei controlla, ma che fra loro sono contrapposte: militari, pasdaran, polizia del regime, classi borghesi e studenti.

Nella stabilità iraniana un grande ruolo giuocano Mosca, gli stati confinanti e l’Europa, che verso l’Iran ha molte simpatie e interessi economici così come la Turchia. Questa non solo per i motivi su cui abbiamo insistito, ma anche perché è ormai al riparo da una possibile acquisizione di status nucleare del suo vicino.

La panoramica che si è cercato di tracciare ha mirato principalmente ad evidenziare i fattori di instabilità che stanno caratterizzando l’area medio orientale e mediterranea. E’ però incontestabile che la principale fra quelle degli ultimi anni – senza andare troppo a ritroso – è il sorgere dello Stato Islamico (Daesh o Isis) che per tanti versi è fenomeno originale e pericolosissimo per la stabilità degli stati della regione e motivo di contrasto fra gli stessi. Gli ultimi sviluppi hanno messo in luce un suo indebolimento e una notevole erosione di controllo territoriale, sia in Siria che in Iraq, sia in Cirenaica. Di rimando però, quasi un contrappasso, la sua capacità terroristica in Europa, Turchia, Sinai, Yemen (per parlare dei principali settori di attività) si è accentuata, sia che le azioni compiute siano state attribuite all’Isis vero e proprio ovvero ad Al-Qaeda e a gruppi affiliati. In Cirenaica i successi delle milizie di Misurata, sostenute dai raids dei droni americani ed alleate del Governo Sarraj, stanno eliminando le ultime sacche di resistenza a Sirte.

La vittoria a Sirte del Governo di Tripoli non comporta di per sé un superamento dei contrasti con il Governo di Tobruk sempre più appoggiato da Egitto, Russia, Turchia e paesi del Golfo. Per di più la sconfitta ha spinto molti guerriglieri dell’Isis e dei gruppi islamici affiliati verso il meridione della Libia e verso le zone del Sahara, accentuando i timori e i pericoli di Tunisia, Algeria e in minor misura il Marocco per non parlare degli Stati dell’Africa. Siamo lontani, sembra, dal poter allentare la tensione. La scarsa compattezza del fronte anti-Isis e persino dei paesi euro-occidentali fa presagire tempi lunghi.

In questi giorni - 10 e 11 settembre - l’annunzio di un accordo russo americano per una tregua in Siria ha fatto sorgere molte speranze. Non si conoscono tutte le clausole dell’intesa e non è dato sapere se anche Al-Nousra aderirà.

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Mediterraneo e Medio OrienteThe Iraqi question

Amb. Maurizio Melani (La Sapienza 22 settembre 2016)

"L'Ambasciatore Maurizio Melani, nella sua partecipazione alla Tavola Rotonda, ha rappresentato il contenuto del suo presente articolo pubblicato sul sito della NATO Defense College Foundation nella rubrica Food for thought".

* * *

The origins and the complexities of Iraq

The State of Iraq was the product of the British will to control, after the demise of the Ottoman Empire at the end of first world war, the rich oil resources of Mesopotamia located in the former Ottoman provinces of Basra in the South and of Mosul in the North. According to the Sykes-Picot agreement of 1916 the former was to be put under the control of the United Kingdom together with the province of Baghdad, while the latter was supposed to be under French influence, as Syria. But the "fait accompli" of the British military occupation of Mosul in 1918 obliged France to accept, with some compensations in the field of oil exploitation, the provisions of the Treaties of San Remo and Lausanne and the following decisions by the League of Nations according to which the province of Baghdad with a mix of Sunni-Arab and Shia-Arab population, the province of Mosul with Sunni-Arabs, Kurds, Turkmen, Jews (at that time), Christians and others, and the province of Basra, overwhelmingly Shia, were united within the British mandate of Iraq. With a King of the Hashemite dynasty, the new country became formally independent in 1932 but under the strong influence and military presence of the United Kingdom. British oil Companies, already well established in Iran, had thus the upper hand in Iraq, with some room left to French, American and Italian companies. American companies signed contracts with the new neighbouring Kingdom of Saudi Arabia, ruled by the Saudi dynasty which had evicted some years before the Hashemites from the Holy places of Mecca and Medina. It was discovered that in this country oil reserves were larger than those in Iraq.

During the British mandate and after, the power in Iraq was essentially based on Sunni-Arab tribal leaders, many of them army officers, and on few Shia landlords of the fertile agricultural region around the Southern courses of Tigris and Euphrates.

At the beginning the opposition to British control was essentially from Southern Shias and Kurds, the latter deprived of the statehood promised by the Treaty of Sevres and then definitely wiped out by the Treaty of Lausanne. But despite the heterogeneous nature of the country, the Arab component in particular developed a national sentiment which turned against the British presence and control of natural resources, as it was happening in other mainly artificial colonial entities around the World. This sentiment, strong especially in urban elites and army officers, was exploited by the Axis powers which supported an anti-British military coup in 1941 and a short lived proxy government in Baghdad.

After second world war, amid recurrent disputes with foreign companies on oil revenues, Iraq became a member of CENTO together with Turkey, Iran and Pakistan, and therefore of the system of containment of the Soviet Union on its southern flank. But nationalist and "socialist" feelings which shacked the Arab world, starting with the Egyptian army uprising in 1952 and the seizure of power by Nasser in 1954, had an important focus in Iraq, where "nasserist" officers overthrew the Monarchy in 1958 with the support of the Communist Party (the strongest in the Middle East), of the rival nationalist Baath Party and of Kurds movements. In the meantime, after the unfortunate Anglo-French Suez expedition in 1956, the role of major Western power in the area was taken by the United States at the expenses of the two former European colonial powers.

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Baathist rule and Saddam Hussein adventurism

After further coups in 1963 and 1968 baathist officers took power in Iraq. And among them Saddam Hussein took in 1979 the overall control of the party, of the army and of the State. He then followed a foreign policy of shrewd balance between the Soviet Union and Western powers, with a strong anti-Israeli stance.

Baathist launched bloody repressions of opponents which hit in particular Kurds an Shias. The latter not because of their religious affiliation, which at that time, before the Iranian revolution, had little political relevance, but because it was mainly in the Shia south that the communists had their major constituencies, focused on oil and port workers and technicians around Basra, sedentary agricultural labourers in large estates in the fertile areas and the University of Nassiryia.As an alternative to republican, nationalist and socialist forces of various kinds which had taken power in Egypt, Iraq, Syria, Algeria and Libya and were spreading in the whole Arab world, support from oil rich Gulf Monarchies went to Sunni Islamist movements among which those inspired by the Wahabit interpretation of Islam, the same of the Saudi establishment. This support increased after the Shia Islamic revolution in Iran in 1979. The new Islamic Republic of Iran was in turn supporting Shia political movements in Iraq, Lebanon and elsewhere, and it was increasingly perceived as a major threat especially by countries with relevant Shia populations.Saddam Hussein thought that with weapons coming from East and West and the explicit or tacit support from Gulf countries it was the right time to attack Iran in order to solve territorial disputes and affirm Iraqi power in the region. Its adventure failed and the country entered into an increasing economic decline. Making another huge miscalculation, while the cold war was at the end, he then invaded Kuwait in 1990. It was too much, and a coalition led by the United States including Western and Arab Countries re-established the international legality. A weak Iraq under embargo but still ruled by Saddam Hussein as an obstacle to a new political settlement based on the Shia majority and with good relations with Iran was considered  an acceptable solution by Saudi Arabia and other Gulf Countries, both in geopolitical terms and for their interests as major oil exporters.

The US led intervention and its consequences

The last phase of the Soviet Union brought other developments. The jihadist forces which had been supported by Saudi Arabia and Pakistan to evict the Soviets from Afghanistan turned against the West. And it was from these groups that emerged Al Qaeda. The response by the Bush Administration to the attack on the United States on September 11 2001 included the occupation of Iraq and the demise of Saddam Hussein, who was not however involved in the attacks. UK and few other countries joined immediately the Americans. Others, like Italy and Japan, responded positively to the request by the United Nations after the fall of Saddam Hussein to support the institutional and security reconstruction of Iraq.

The aim of the US intervention, which produced a rift within NATO and the EU, was to establish a democratic Iraq as the focus of a new order in the Middle East linked to the West. The outcome was quite different. The Arab Countries, as well as Turkey, were not comfortable with a regime change imposed by outside powers and considered that an Iraqi Government based on majority rule would have been under the control of Shia Islamic parties, in alliance with Kurds, supported by Iran. This was what actually happened. Moreover, an extremely rigid implementation of  debathification brought to the dissolution of the army, of the security structure and of most of the public administration, and therefore to the substantial disenfranchising of a large part of Sunni-Arabs. They joined an armed opposition to foreign occupation led by stay behind baathists and jihadists forces. The latter had thus the opportunity to penetrate in Iraq exploiting the Sunni-Arab discontent. After having boycotted the Constitutional Assembly elections, Islamic Sunni parties took part to the general elections in December 2005 and joined the institutions. But despite having Ministers in the Government and nominally important posts in other bodies, their participation to

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the control of resources and security was marginal. In the same situation was a rather consistent gathering of secular forces, from communists to liberals, led by the former Head of the first Provisional Government, Ayad Allawi. The Kurds had obtained an almost full autonomy of their region (KRG). And despite different views among them they established growing economic and political relations with Turkey. The fate of disputed areas with mixed populations around KRG including the rich oil area of Kirkuk and the management of oil revenues remained however a dangerous open issue with the Central Government.

Iran on one side and Arab countries on the other did not respectively encouraged the inclusion of Sunni-Arabs in the real power system and the acceptance that the hegemonic rule of Sunni elites could not be restored.

In 2007 a change in the American policy, implemented on the ground by General Petraeus with an hesitating approval by Prime Minister Nouri Al Maliki, led to the rejection of Al Qaeda and Baathists by relevant Sunni-Arab tribes with the perspective of the inclusion of their fighters into the army and security forces. At the same time NATO decided to launch a training mission of the National Police conducted by the Italian Carabinieri with positive results. It was at the request of the Iraqi Government which considered positively the multilateral framework of NATO.

The rise and decline of the “Islamic State” and the problems ahead

However, the promise of inclusion was not fulfilled by Maliki in its second mandate, while the role of the coalition forces was progressively reduced according to the expiring limitations of sovereignty and mandates of Security Council Resolutions, up to the total withdrawal at the end of 2011. The Prime Minister sectarian policies produced increasing tensions with Sunni-Arab and even Kurd parties. And the events in Syria, together with the growing discontent of the Sunni population, favoured the establishment and the expansion in relevant areas of both countries, including Mosul, of the self-proclaimed Islamic State (IS), issued from jihadist groups which had received supports coming in various ways from some Gulf Countries in opposition to Shia militias supported by Iran. The most effective resistance to the horrific expansion of IS came from Shia militias in central Iraq and from Kurd Peshmergas in the north. Turkey did not put obstacles to their action, considering its good relations with KRG, as instead It did against PYD Peshmergas in Syria, allegedly linked to PKK. The resistance to IS gave however the opportunity to Iraqi Kurds to occupy disputed areas including Kirkuk.

The Western support (logisics, training and air cover) to the reorganized Iraqi army and the Peshmergas, as well as the Iranian support to Shia militias have progressively reduced the territory controlled by IS. Arab-Sunni militias are again on the ground. And the Iraqi Government, with Western advice, is cautious about the use of Shia forces in the recovering of Sunni areas in order to avoid retaliatory violences which could jeopardise the whole process. Prime Minister Heider Al Abadi, in charge since the resignation of Maliki in 2014 supported by both the United States and Iran, is well aware of the relevance of this point.

But with the view of the announced final battle for Mosul, the fact that all forces on the ground have their own agenda is a source of concern. An agreement on power sharing based on citizenship without ethnical and sectarian (religious) attempts to dominate others in specific areas is necessary. The rights of all minorities in those areas should be guaranteed in a sustainable an credible way. Particularly critical will be the issue of disputed areas now occupied by peshmergas, amid also the divisions among the different components of the Kurdish polity with their complex relations with regional powers and other political forces in Baghdad. The issue of hydrocarbon management will continue to be key. The fact that the Parliament has approved in August at least a number of new Ministers proposed by Abadi, including the Minister of Oil, in order to give more efficiency and honesty to its cabinet is a positive sign, but there is still a long way to go.As it has been the case especially since the demise of Saddan Hussein the role of regional powers will be crucial. It has to be seen if Iran will be ready to accept the full inclusion of Sunni-Arabs and

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if Saudi Arabia will encourage the latter to cooperate with Shias components for the stabilisation of Iraq, letting this country be again at the top of hydrocarbons producers and exporters. It has also to be seen if Turkey will accept the KRG expansion in oil rich disputed areas, opposed by Iraqi Arabs, within the framework of its overall Kurdish policy. For economic and geopolitical reasons Turkey should have a strategic interest in the full stabilization of Iraq. But developments in the whole region, where also shifts of alliances and convergences among regional and external powers are taking place, leave many questions open.

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Mediterraneo e Medio Oriente: Siria Amb. Laura Mirachian

(La Sapienza 22 settembre 2016)

Premessa – La Siria di Sykes-Picot

La Siria nei suoi confini attuali è uno Stato artificiale. Il territorio delimitato dalle intese di Sykes-Picot è particolarmente composito, comprendendo assieme a una maggioranza sunnita di circa il 70% una variegata compagine di minoranze etniche o religiose, alawiti, curdi, ismaeliti, drusi, yezidi, armeni ortodossi e cattolici, cristiani maroniti, di rito bizantino, siriaco, latino, aramaici, caldei, assiri nestoriani, circassi, e qualche migliaia di protestanti. Per 40 anni il Paese, che in precedenza aveva conosciuto numerosi colpi di stato di matrice sunnita, ha retto tramite un Partito unico (Baath) e il dominio della minoranza Alawita sui gangli vitali. L’avvio del processo di destabilizzazione del Paese, che aveva ormai raggiunto un grado medio di sviluppo, si può grosso modo collocare tra l’invasione dell’Iraq nel 2003 e le cosiddette primavere arabe nel 2011.

I tre circuiti

In Siria si registra la “più grande catastrofe umanitaria dal dopo-guerra”: vittime civili stimate in oltre 400.000, rifugiati e sfollati interni in circa 10 milioni, una miriade di gruppi di opposizione in armi.

La Siria è l’epicentro della crisi che ha investito il Medio Oriente ed oltre. Ultima delle ‘primavere arabe’ e la più drammatica: da oltre 5 anni si scatenano forze contrapposte all’interno dei tre circuiti, locale (Assad-Opposizione-Forze Jihadiste), regionale (Turchia-Arabia Saudita-Iran), internazionale (USA-Russia-UE, che peraltro è pressoché assente). Il problema è individuare un equilibrio degli interessi in causa tra i tre circuiti e all’interno di ognuno di essi. La guerra civile siriana si è tradotta in una “guerra per procura”. 1- Quali le origini del conflitto? Era forse possibile frenare la dinamica bellica nel 2011 a due condizioni:

1) che Assad avesse capito, o voluto capire, che la classe media emergente, in maggioranza sunnita, reclamava diritto di rappresentanza politica e liberalizzazione economica (fine del partito unico, riforma costituzionale, libere elezioni); 2) che le Risoluzioni dell’ONU sulla crisi (dal 2012 al dicembre 2015 sulla strategia anti-terrorismo) venissero attuate, in particolare laddove statuiscono il divieto di forniture di armi e sostegno logistico a ISIS, Al-Qaida e “affiliati”.

Così non è stato. Il Piano predisposto da Kofi Annan nel giugno 2012 - cessazione delle ostilità, fase di transizione con un governo dotato di “full executive powers”, redazione di una nuova Costituzione, elezioni generali multipartitiche, continuità delle istituzioni statali, “accountability” dei crimini di guerra - rimane tuttora disatteso. A questo stadio, i punti più controversi riguardano il destino di Bashar Al-Assad, se possa o meno essere parte del negoziato e della transizione, e l’identificazione dei gruppi armati da considerarsi “affiliati” ad Al-Qaida e pertanto da abbattere.

2- Perché la questione Siria/Medio Oriente ci riguarda da vicino? La destabilizzazione in corso ha ripercussioni dirette nel Mediterraneo, in Europa, nel Mondo. Per l’Europa in particolare, è una con-causa dell’involuzione delle nostre opinioni pubbliche, del semi-collasso di Schengen, della

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Brexit, dell’erosione vistosa della fiducia reciproca e dei valori della costruzione europea. Nel discorso sullo Stato dell’Unione Junker ha parlato di “crisi” del progetto europeo. L’Europa sta faticosamente attrezzandosi, in particolare per la difesa delle frontiere dalle migrazioni e contro il contagio del terrorismo.

La guerra ha infatti generato un mostro, il jihadismo estremo e il cosiddetto Califfato dell’ISIS. Inaugurando nell’estate 2014 un inedito “terrorismo territoriale”, l’ISIS ha insediato un secondo quartiere generale nel nord-est curdo a Raqqa (dopo quello di Mosul in Iraq), ha avviato l’occupazione di risorse idriche e petrolifere e una feroce repressione indistintamente contro tutti coloro che tentano di contrastarlo siano essi minoranze o sunniti – è errato pensare che i sunniti vengano risparmiati, e che si tratti di un rigurgito dei contrasti inter-religiosi tra sunniti e sciiti; quanto ai cristiani, essi sono presi particolarmente di mira perché hanno un’identità molto forte e, soprattutto ad Aleppo, un’organizzazione molto solida -- e infine tracimando in Europa ove ha attinto foreign fighters ed esportato terrorismo.

3- Quali le posizioni dei protagonisti in campo? Incertezze e contraddizioni La comparsa dell’ISIS in area avrebbe dovuto consolidare una coalizione di tutte le forze in campo. Ma hanno prevalso, e stanno tuttora prevalendo, i disegni contrastanti dei singoli protagonisti regionali e internazionali. Il negoziato di Ginevra, avviato in febbraio, si è interrotto subito. Il cessate-il-fuoco non ha mai trovato se non sporadica attuazione. Con tutta evidenza, per tornare al tavolo negoziale occorre una sinergia tra Stati Uniti e Russia, con una partecipazione attiva anche della UE, e tra Turchia-Arabia Saudita-Iran. Constatiamo che: Gli STATI UNITI, avendo deciso ‘no boots on the ground’, si sono finora limitati a fornire

appoggio operativo e copertura aerea all’opposizione moderata e ai curdi del Nord, delegando loro il compito di combattere ISIS ed estremisti sul terreno. Ma l’opposizione moderata è sopraffatta dai jihadisti di Al-Nushra (ex-Al-Qaida, ora Fatah al-Sham) e spesso combatte assieme a loro. Difficile distinguerli. A fronte della debolezza dell’opposizione moderata, dovuta anche alla scarsa coesione delle sue file, e per contro della tenuta delle forze armate di Assad sorrette dalle forze russe, Washington è parsa da ultimo più possibilista circa un ruolo dei governativi nel negoziato e nella transizione; e per quanto riguarda i curdi, è passata dal sostegno militare in funzione anti-ISIS fornito per anni ai combattenti del PYG, all’intimazione di ritirarsi a Est dell’Eufrate, in riscontro all’irritazione di Ankara preoccupata della loro avanzata a ridosso dei propri confini (di qui il commento amaro dell’ex-Ambasciatore americano a Damasco, Robert Ford: siamo riusciti a far arrabbiare tutti, opposizione, curdo-siriani, e turchi!).

La RUSSIA nel frattempo, dall’autunno 2015 ha occupato la scena. Ha preso la decisione opposta, entrando in campo con forze aeree e di terra a sostegno dei governativi di Damasco, con il duplice obiettivo di mantenere e rafforzare l’influenza storica in Siria (1971, Latakia) e soprattutto di acquisire uno status internazionale utile ad interloquire con l’Occidente da posizioni di forza. Il progetto russo è tuttora perseguito con vigore.

L’UNIONE EUROPEA, traumatizzata dalle migrazioni massicce e delle contaminazioni jihadiste, si è concentrata sugli aiuti umanitari convogliati tramite le Organizzazioni Internazionali, partecipando formalmente al cosiddetto “Syrian Support Group” senza peraltro incidere sullo scenario che è rimasto dominato da USA e Russia. Solo Regno Unito e Francia partecipano attivamente alla Coalizione militare a guida americana.

ARABIA SAUDITA/GOLFO e IRAN (‘sdoganato’ dopo l’accordo nucleare del luglio 2015) sono impegnati in una competizione aperta per acquisire un’influenza determinante in area: l’Arabia Saudita in particolare, pur partecipando formalmente alla Coalizione Internazionale, ha continuato ad appoggiare e finanziare gruppi islamici anche estremi in assonanza con il

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wahabismo interno; Teheran continua a fiancheggiare assieme alla Russia i governativi di Damasco anche con forze militari sul terreno.

La TURCHIA, dopo aver coltivato aspirazioni di influenza neo-ottomana in area, offrendo alle formazioni islamiche appoggio politico, santuari, facilitazioni di transito per jihadisti e foreign fighters, nonché accogliendo generosamente 2,7 milioni di rifugiati, ha da ultimo repentinamente virato verso un “Piano B” centrato sulla protezione del proprio territorio, a fronte di paventati attacchi dell’ISIS e soprattutto di collegamenti trai curdi interni del PKK e i curdo-siriani del PYG ugualmente considerati terroristi; vengono ora ventilati, in funzione anti-curda, contatti sottobanco con lo stesso Assad. Da ultimo il 24 agosto, acquisito l’accordo di Stati Uniti e Russia, è entrata militarmente nel nord siriano a Jarablus, puntando a dislocare i curdi ed impedirne un compattamento a ridosso delle proprie frontiere E’ inoltre disponibile a collaborare con gli Stati Uniti in una prossima offensiva su Raqqa, purché non vi partecipino i curdi.

4. Il risultato ad oggi……?

L’opposizione moderata, che ha avviato la rivolta nel lontano 2011 e che avrebbe dovuto essere ‘il futuro della Siria’, è schiacciata trai Jihadisti e i governativi di Damasco, con debole sostegno dell’Occidente. Non aiuta il fatto che sia molto frammentata. Il ceto medio che essa avrebbe dovuto interpretare percorre nel frattempo i tragitti della fuga.

I curdi, a causa dei distinguo ora introdotti dagli Stati Uniti, perdono capacità di influire nelle dinamiche, e dovranno rinunciare al sogno di riunire i territori tradizionali di insediamento in un’unica entità al Nord, nonostante i risultati conseguiti sul terreno contro jihadisti e ISIS e le gravissime perdite subite (Kobane nel novembre 2014, Manbij nell’agosto 2016, strage di curdi-Yazidi nel Monte Sinjar nell’agosto 2014 etc.).

Turchia e Governativi emergono come forze potenzialmente preponderanti sul terreno: Assad riesce a tenere il controllo dell’Ovest e parte del Nord-Est (la cosiddetta ‘Siria utile’), Erdogan punta al controllo dei territori curdi al Nord invocando una “zona di sicurezza” di 5.000 Kmq.

Restano contesi i territori del Centro-Nord, lungo l’asse Homs-Hama-Aleppo fino a Deir er-Zoor – di qui la battaglia campale per Aleppo – e del Sud a ridosso di Giordania e Israele (che in questi anni è intervenuta solo sporadicamente, a difesa delle frontiere del Golan ex-siriano).

5-Tramontata l’intesa USA-RUSSIA del 9 agosto?

L’intesa sancisce una tregua (a partire da Aleppo), cui dovrebbe seguire una collaborazione di intelligence e militare per coordinare gli interventi bellici contro i jihadisti, con l’obiettivo di riprendere i negoziati di Ginevra sotto egida dell’ONU. Il testo non è stato reso pubblico né è stato reso noto integralmente al CdS. Al di là delle forti obiezioni del Pentagono e di gran parte dei Repubblicani rispetto a una collaborazione stretta con la Russia, l’intesa lascia impregiudicati due punti cruciali: i destini di Assad e l’identificazione delle formazioni jihadiste da abbattere congiuntamente, oltre all’ISIS. La Russia preme per colpire anche altri gruppi islamici (Arhar Al-Islam, Jaish al-Sham ed altre) e chiede di conoscerne la localizzazione, gli Stati Uniti esitano considerando cruciale concentrarsi sull’ISIS.

Nel contesto di tale ambiguità, il 19 settembre, dopo sette giorni di tregua o semi-tregua, avrebbe dovuto scattare la fase della collaborazione concreta. Ma gli eventi sono rapidamente precipitati in una dinamica convulsa, scontri sul terreno e raid aerei governativi e russi sono ripresi il 18 settembre, preceduti il 17 dal bombardamento americano di una base governativa a Deir-er-Zoor

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“per errore” (di cui Washington si è subito scusata), e seguiti il 20 settembre dall’attacco a un convoglio umanitario dell’ONU diretto ad Aleppo. Forti accuse di responsabilità sono state rivolte dall’Occidente (e velatamente da Ban Ki-moon) a Russia e governativi, da questi restituite al mittente. Forse “il cessate-il-fuoco non è morto”, come dichiarato a New York da Kerry e dal Syrian Support Group, ma certo appare estremamente difficile ripristinarlo.

6- Il futuro della Siria

I testi ufficiali e le Risoluzioni ONU nonché il “Framework” presentato dall’Opposizione sanciscono l’integrità territoriale del Paese. Tuttavia:

- gli STATI UNITI sono ormai prossimi alle elezioni, ed è assai improbabile che Obama riveda la strategia di non-intervento a terra mantenuta in questi anni; potrebbe piuttosto orientarsi, esaudendo peraltro la pressione interna, per il ricorso a raid mirati contro infrastrutture militari governative per demolirne la capacità offensiva, incorrendo tuttavia nell’incognita di reazioni russe; ovvero, potrebbe semplicemente interrompere il processo di dialogo Kerry-Lavrov, in attesa di un gesto russo che segnali una migliore volontà di controllo su Assad; - la RUSSIA, confermandosi come prima protagonista del conflitto, ha conseguito lo scopo di evitare il collasso di Assad e controllare la fascia mediterranea del paese; ma certamente risentirebbe del fallimento del cessate-il-fuoco in termini di erosione della posizione acquisita come controparte diretta degli Stati Uniti, il suo obiettivo primario, vanificando inoltre l’aspirazione a guadagnare un credito ai fini del ritiro delle sanzioni relative all’Ucraina; - l’EUROPA, occupata con i propri problemi interni, rimane concentrata sulla sicurezza e sulla difesa delle frontiere (terrorismo, migrazioni), e pressoché assente anche sul piano politico-diplomatico; -cruciale potrebbe rivelarsi il ruolo della TURCHIA, un paese peraltro instabile perché impegnato contestualmente su tre fronti (PKK interno, Curdi di Rojava, ingente repressione dei ‘gulenisti’);

La conseguenza dello stallo potrebbe essere un ulteriore deterioramento del conflitto, fino ad una “lacerazione” della Siria in “aree di influenza” (dinamica che potrebbe avere un effetto domino nell’intera regione del Medio Oriente);

La formula più razionale sarebbe l’organizzazione di una Siria unitaria ma de-centralizzata, con un ‘power-sharing’ a livello di distretti e con uno ‘statuto speciale’ per i Curdi entro i confini. La formula, che potrebbe facilitare il rientro dei rifugiati quantomeno dai paesi vicini, richiederebbe comunque l’abbattimento dei jihadisti nonché la ricostruzione di un minimo di fiducia tra governativi e opposizione e tra la stessa miriade di gruppi armati consolidatisi localmente su linee etniche o claniche (circa 1.500, secondo fonti americane!), mediante un negoziato che, nelle circostanze date, non sembra tuttavia ancora alla portata.

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Mediterraneo e Medio OrienteL'Egitto dalla “Primavera" ai giorni nostri.

Amb. Claudio Pacifico(La Sapienza 22 settembre 2016)

L'Egitto è stato, insieme alla Tunisia, uno dei Paesi arabi che è in qualche modo riuscito a resistere alla rivoluzione dirompente delle "Primavere Arabe" e ad evitare di precipitare nel caos della guerra civile e del terrorismo islamico come, innanzitutto Siria, Libia o Yemen.

In effetti, la potenzialità destabilizzante della "Primavera" egiziana era, ad osservatori attenti, ben visibile sin dai suoi primi giorni, nel Gennaio 2011, quando tutto il mondo occidentale, i grandi media, l'opinione pubblica in generale seguivano con un atteggiamento positivo la ribellione dei giovani di Piazza Tahrir, credendo, sperando che tali movimenti avrebbero in qualche modo portato il Paese ad una crescita democratica, economica e sociale.

In altri termini, della cosiddetta " Primavera egiziana", soprattutto al suo inizio, l’Occidente aveva voluto cogliere un aspetto molto importante, ma purtroppo non esclusivo. Aveva voluto vedere in essa una ribellione libertaria, innescata anche dalle conseguenze della prima crisi economica internazionale del 2009, innanzitutto di tanti giovani e studenti contro il regime autoritario che li opprimeva. Si vedeva la ribellione di nuove classi medie emergenti, che prima non esistevano, (come gli studenti, spesso disoccupati o semi-occupati che si coordinavano con Facebook e i social network, o i lavoratori degli importanti complessi industriali sviluppatisi soprattutto negli ultimi dieci- quindici anni) che cercavano una loro strada per migliorare le loro condizioni di vita, per avere un Paese più libero, più giusto e soprattutto per ridurre la sperequazione sociale.

Si trattava, in sostanza, di una ribellione che aveva i tratti della " modernità" e non dissimili da quelle che, in un mondo sempre più simile e globalizzato, saranno tante altre ribellioni come conseguenza della crisi economica, della disoccupazione, del profondo malessere sociale e della protesta contro la dirigenza politica, giudicata inadeguata e responsabile della crisi. E, in effetti, si possono cogliere, soprattutto in questa prima fase, similitudini tra la ribellione egiziana e i movimenti di protesta in Grecia, o gli "indignados" in Spagna, sino alle crisi più recenti come - tanto per citarne una delle ultime - quella di Hong Kong. Insomma si pensava che anche l'Egitto, come - si sperava - altri Paesi del Mondo arabo, stesse cercando di entrare nel mondo globalizzato, e che i giovani rivoluzionari arabi di Piazza Tahrir, non erano dissimili dai loro omologhi europei.

E tutto ciò aveva contribuito a far nascere anche in Europa e in Occidente la speranza di poter assistere all'alba di un nuovo" rinascimento" politico dell'Egitto e dei "Paesi delle Primavere": un rinascimento che potesse portarli ad approdare a sistemi democratici e libertari, favorendo al tempo stesso un maggiore sviluppo economico e sociale, una riduzione delle sperequazioni sociali, e dunque alla fine un maggiore benessere delle popolazioni ed una maggiore stabilità.

Ma ciò che NON si era capito in Occidente, era che la "Primavera egiziana" NON era solo questo. Essa, in realtà, costituiva un fenomeno più ampio e complesso, forse - si potrebbe dire - anche più contorto, con matrici e concause anche molto differenti, e dunque con potenziali implicazioni, risultati ed effetti molto diversi da quello che all'inizio si pensava o si sperava in Occidente.

In particolare, l'aspetto che non era stato subito ben colto nella rivoluzione egiziana era che alle forze laiche si erano rapidamente uniti i Movimenti islamisti (innanzitutto i Fratelli Musulmani, ma anche i Salafiti ed altri movimenti più radicali) che, con una politica molto abile, avevano saputo mobilitare i milioni di diseredati che vivevano nel Paese. E saranno proprio queste forze a svolgere un ruolo determinante per il successo della rivoluzione.

Per circa trent'anni il regime di Mubarak aveva duramente represso e saputo contenere l'avanzata di tali forze. Ma tale azione era saltata, quando nelle prime settimane della ribellione era divenuto chiaro a tutti che gli americani in primis, ma anche tutti gli altri europei avevano in qualche modo

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preso le distanze dal regime di Mubarak. Questa decisione era stata interpretrata da tutti i movimenti islamisti come un inequivocabile segnale di via libera.

A titolo di esempio, vorrei ricordare (non solo perché mi sono trovato ad essere giorno per giorno testimone diretto), che nella ormai mitica Piazza Tahrir per la prima settimana della rivoluzione, dal 25 gennaio 2011 a circa la fine del mese, i manifestanti non superavano le dieci - quindici mila unità. Poi, quando la posizione degli americani e in genere degli europei a sostegno delle rivoluzioni si era maggiormente chiarita con una serie di dichiarazioni pubbliche del Presidente Obama e del Segretario di Stato Clinton ed altri leader europei, improvvisamente, quasi fosse un segnale convenuto, si erano mossi, con tutta la forza della loro macchina organizzativa, i Fratelli Mussulmani, i Salafiti e altri movimenti. E rapidamente, in pochi giorni, piazza Tahrir era arrivata a traboccare di milioni di manifestanti.

Nel frattempo, nel mentre l'Occidente continuava a plaudire alla maturità delle" libere, democratiche e pacifiche" manifestazioni di dissenso degli studenti a Piazza Tahrir, nel Paese accadeva di tutto: bande di estremisti - e in molti casi di veri e propri criminali comuni - assaltavano le prigioni del Paese, liberando tutti i detenuti, che presto avevano costituito centinaia di gruppi armati che avevano attaccato tutte le principali stazioni di polizia, uccidendo decine di poliziotti ed impossessandosi delle loro armi e poi si erano dati al metodico saccheggio di alberghi ed abitazioni private. A Il Cairo era nata una grandissima preoccupazione sia tra gli Occidentali che tra gli Egiziani benestanti, che rapidamente avevano cominciato un vero e proprio esodo per lasciare l'Egitto (al riguardo giova ricordare che la recente condanna a morte, pronunciata nei confronti dell'ex Presidente Morsi, si riferisce, a torto o a ragione, proprio a quel periodo e a quegli episodi).

Proprio la progressiva emergenza del radicalismo islamico, ci porta a tenere particolarmente conto di una dimensione in cui si sono sviluppate le "Primavere" o rivoluzioni arabe che è stata ampiamente sottovalutata in Occidente. Alla degenerazione delle " Primavere " hanno contribuito in maniera rilevante anche tutti i giochi e scontri di potere interni al mondo arabo (e spesso in buona parte misconosciuti in Occidente). In alcuni casi estremi, poi, un ruolo particolarmente nefasto è stato svolto da piccoli ma ricchissimi Stati arabi, che per ragioni di potere, per le ambizioni dei loro leader, o malinteso prestigio nazionale, hanno esercitato un'azione rilevante nel processo di destabilizzazione di grandi Paesi come Egitto o Tunisia, o in particolare della Libia o della Siria. Basti pensare che varie di queste rivoluzioni sono state segretamente combattute da jihadisti, vecchi guerriglieri (tra cui i c.d. afghani) e criminali comuni (i c.d. baltageya) prezzolati e armati per favorire la destabilizzazione. Od ancora basti pensare al massiccio sostegno finanziario dato a specifici movimenti; od ancora al martellante ruolo giocato a livello di mass media da alcune grandi televisioni arabe come, prima di tutte, Al Jazera .

Tale aspetto, gravido di ripercussioni nel fallimento delle Primavere e nella rapida crescita dell'estremismo e terrorismo islamico, rientra in quella che potrebbe essere definita la "Dimensione Araba " delle " Primavere ": ovvero delle logiche di potere e dei tradizionali scontri all'interno del Mondo arabo. Scontri che, soprattutto dopo la rivoluzione nasseriana, hanno visto contrapposti monarchie tradizionali (spesso oscurantiste e sostenitrici di una visione arcaica dell'Islam e della società) contro regimi laici secolari (spesso dispotici, ma fautori della laicità e di un vago socialismo populista); Sunni contro Shia; fazioni Sunni contro altre fazioni Sunni; e che soprattutto hanno visto scatenarsi un conflitto mortale tra Islam moderato e Islam radicale. Nella logica e dinamica di tale scontro, poi, oggi si registrano casi che sono arrivati a contrapporre tra di loro persino i movimenti terroristi (come la competizione tra Al Qaeda e l'Isis-Daesh).

Ora, qui manca il tempo per poter approfondire i drammatici sviluppi che hanno caratterizzato le convulse e drammatiche fasi della rivoluzione egiziana, ma è importante rilevare che sin dalle sue prime fasi, essa, oltre a rilanciare tutti i movimenti islamisti tra cui anche quelli più estremisti e terroristi, aveva precipitato il Paese in una situazione di caos ed anarchia.

A sua volta la distruzione dell'ordine pubblico e sociale, aveva causato una grave crisi economica indotta in particolare da: massicce fughe di capitali; dal crollo del turismo (che, con circa 13 miliardi di euro raggiunti prima dell'inizio della rivoluzione del 2011, costituiva una delle

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principali fonti di entrata dell'economia egiziana, nonché una delle più importanti opportunità di impiego soprattutto giovanile); dal forte rallentamento della produzione industriale, dato che quasi tutte le fabbriche venivano occupate da lavoratori con richieste spesso inesaudibili o masse di estranei che, pur senza alcuna qualificazione professionale, pretendevano di essere assunti. In sostanza la rivoluzione era stata all'origine di una grave caduta dell'ordine pubblico, che, a sua volta, aveva originato una gravissima crisi economica.

L'arrivo al potere di Mohamed Morsi (uno degli esponenti di punta dei Fratelli Musulmani), che era stato nominato Presidente nel giugno del 2012 dopo aver vinto di misura le elezioni presidenziali (nel secondo ballottaggio delle elezioni il 16-17 giugno 2012 con il 24,8 % contro l'ex generale e ultimo Primo Ministro del regime di Mubarak, Ahmed Shafiq, che aveva ottenuto il 23,7%), aveva suscitato molte speranze anche in Occidente. Ma presto si era dovuto constatare che la leadership di Morsi, per quanto egli fosse un tecnocrate moderato e competente, non solo era fallita nel tentativo di ricostruire il Paese, ma era diventata sempre più una specie di "cavallo di Troia" che favoriva l'affermarsi delle fazioni più estreme sia dei Fratelli Musulmani che degli altri movimenti islamisti più radicali. E soprattutto si era dovuto constatare che anche in Egitto, nell'inevitabile destabilizzazione e vuoto di potere creatisi a seguito della rivoluzione, fiorivano e si rafforzavano i movimenti radicali, jihadisti e il terrorismo.

Il fallimento di Mohamed Morsi e dell'Islamismo politico moderato in Egitto sembra riproporre un'altra delle questioni di fondo circa il fallimento delle Primavere arabe. In effetti, se le primavere arabe non sono, con la sola eccezione della Tunisia (per ora almeno), riuscite a mantenere le speranze che avevano suscitato, ciò sembra essere sostanzialmente imputabile a due cause: da una parte, come dicevamo, l'incapacità delle forze laiche di tradursi in un vasto movimento popolare (in Egitto c'era riuscito Nasser, ma non ci sono purtroppo riusciti i giovani, o gli studenti, gli intellettuali, o le " forze nuove" laiche di Piazza Tahrir); dall'altra parte, il fallimento dell'Islam politico moderato, che è riuscito a portare con sé le masse, ma poi ha perso la vitale battaglia con i movimenti islamisti più estremi e radicali.

La parabola di Morsi e dei Fratelli Musulmani si compie in Egitto in un solo anno (nel giugno 2012 Morsi è eletto Presidente; nel luglio 2013 è deposto, direi quasi a furor di popolo, dopo aver perduto il sostegno di gran parte di quelle forze e quelle masse che lo avevano sostenuto).

Il fallimento di Morsi e dei Fratelli Musulmani in Egitto costituisce una pagina troppo recente e complessa per poterla capire, e spiegare a fondo. E poi solleva mille interrogativi: ad esempio viene da chiedersi perché Erdogan è riuscito a portare un islamismo politico moderato in Turchia, e Morsi non è riuscito in Egitto? O perché, pur se con equilibri che sembrano rimanere delicati, l'islamismo moderato ha avuto ben altro destino in Tunisia? Insomma, ci sono numerosi punti che non appaiono ad oggi completamente chiari.

Tuttavia, si potrebbero tentare alcune spiegazioni. Forse una delle cause principali del fallimento di Morsi è innanzitutto costituita dalla sua incapacità di rilanciare l'economia e dare dunque una risposta a quelle masse di diseredati che lo avevano sostenuto proprio con la speranza di poter veder migliorare le proprie condizioni di vita. In secondo luogo, il destino dell'ex Presidente egiziano sembra essere stato segnato dalle trame e congiure ordite contro di lui all'interno dei Fratelli Mussulmani, (che - giova ricordare - non era un partito coeso controllato da Morsi, ma una galassia di movimenti, dalla cui costole sono via via nati vari e rilevanti gruppi estremisti e radicali, a cominciare dai Salafiti, tutti con generosi finanziamenti provenienti da varie monarchie arabe). C'è poi chi ha sostenuto che contro Morsi abbiano giocato anche ragioni di geo-politica: la contiguità di Gaza e l'influenza nefasta di Hamas, avrebbero non poco contribuito al fallimento di un islamismo politico moderato in Egitto.

La conclusione di tutti questi vari fattori è che Morsi, che pure sembrava avere le carte per riuscire, è fallito perché è stato incapace di risollevare il Paese economicamente e socialmente; e poi, progressivamente indebolito, ha finito per cedere alle pressioni e al ricatto delle ali più radicali del suo movimento, permettendo una sempre maggiore islamizzazione, radicalizzazione e destabilizzazione dell'Egitto.

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L'incapacità di Morsi di far fronte ai gravissimi problemi del Paese, oltre a favorire un'ulteriore destabilizzazione dell’Egitto, registra, insieme alla crescita degli estremisti islamici e dei movimenti terroristi (innanzitutto nel Sinai) una polarizzazione del conflitto sociale tra laici e Copti, da una parte, e islamisti dall'altra: in un Paese sempre più impoverito, aumentano gli scontri di piazza tra le varie fazioni e aleggia lo spettro di una guerra civile.

In tale gravissimo contesto e sull'onda di un forte movimento popolare contro Morsi (nasce Tamarrod, che in arabo significa" Ribellione", una nuova organizzazione, fondata nella Primavera del 2013 da "giovani di Piazza Tahrir" ed altri partiti laici - che arriva a raccogliere 22 milioni di firme per la deposizione di Morsi), il 30 giugno 2014, nel primo anniversario della presidenza Morsi, milioni di dimostranti circondano il palazzo presidenziale chiedendo le dimissioni del Presidente e il 3 luglio il Capo delle Forze armate egiziane, il Generale Abdul Fatah al-Sisi dichiara decaduto Morsi, sospende la Costituzione e assume tutti i poteri in attesa di nuove elezioni.

Con tali sviluppi, si può dire che in sostanza tutto il percorso rivoluzionario è stato annullato d'un colpo: si ritorna ad una situazione "pre-Primavera" ma con un Paese nel caos, molto più impoverito, praticamente senza ordine pubblico, in cui si sono enormemente rafforzati i gruppi di estremisti e terroristi, e in cui alcune parti del Paese (come il Sinai, o la regione lungo il confine libico o quella sahariana) sono praticamente fuori controllo.

Il primo compito, cui, dopo il colpo di Stato, i militari si dedicano, è proprio quello di ristabilire l'ordine pubblico e neutralizzare le forze islamiste. Morsi, Badie e tutti i capi dei fratelli Musulmani oltre a migliaia di simpatizzanti sono arrestati. Analogo destino viene riservato a Salafiti ed altre formazioni jihadiste, ma molti dei militanti più estremisti trovano rifugio nel Sinai dove iniziano forme di guerriglia e compiono vari attentati terroristici.

Violenti scontri continuano anche a Il Cairo e nell'Egitto metropolitano. Tra i più violenti scontri si possono ricordare quelli, durati giorni e a più riprese, tra le forze dell'ordine e dimostranti pro-Morsi presso la Piazza della Moschea Rabaa Al- Adawiya o, in agosto (sempre del 2013), sempre a Rabaa con un bilancio di circa 600 morti (dopodiché, proprio per ridurre la tensione, i militari dichiareranno un coprifuoco di un mese). Durante gli scontri molte chiese copte sono attaccate dagli estremisti islamici e circa 40 chiese sono distrutte. Si registrano vari attentati terroristi, anche al di fuori del Sinai, il più grave dei quali ha luogo a Mansura nel dicembre del 2013, con un bilancio di 12 morti.

All'inizio del 2014 viene approvata una nuova Costituzione, che vieta la formazione di partiti che abbiano base religiosa (e ripristina il vecchio art.2 sulla sharia, riprendendo la formula usata nelle costituzioni pre-rivoluzione e che si limita a fare un generico richiamo ai valori e principî generali della sharia). Si intensificano gli arresti e i processi a Fratelli Musulmani, Salafiti ed altri membri di gruppi islamisti. In Marzo si conclude un maxi-processo con 529 sentenze di condanna a morte, mentre il numero degli islamisti in detenzione arriva, stando a dati attendibili, ai circa 16 mila. Anche l'ex Presidente Morsi subisce una prima condanna a 20 anni di detenzione (per crimini Commessi durante il suo anno di Presidenza). Poi, nel maggio 2015 Morsi subirà una seconda condanna, a morte, (per i crimini commessi nel 2011 nelle prime settimane della rivoluzione).

Nelle elezioni presidenziali del maggio 2014 il Generale al-Sisi presenta la sua candidatura e viene eletto con una maggioranza schiacciante (96,9 %), che ricorda a molti osservatori le maggioranze con cui veniva ogni volta rieletto il Presidente Mubarak.

Al Sisi cerca di intensificare la normalizzazione del Paese, anche se a scapito della democrazia, ponendosi come priorità il pieno ristabilimento dell'ordine pubblico, la lotta al terrorismo e il rilancio dell'economia.

Ma la destabilizzazione del Paese durante la rivoluzione è stata talmente profonda che, nonostante il pugno di ferro usato dal nuovo Presidente, che suscita qualche imbarazzo in Occidente, sinora l'Egitto rimane in condizioni precarie.

Sul fronte della sicurezza, molti dei simpatizzanti dei Fratelli Musulmani sono passati alla clandestinità e alla lotta armata. In Sinai e lungo il confine libico i gruppi terroristici che già operavano si sono alleati con l'Isis/Daesh (tra essi il caso più importante riguarda gli Ansar Bait al-

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Page 19:  · Web viewBasti pensare che varie di queste rivoluzioni sono state segretamente combattute da jihadisti, vecchi guerriglieri (tra cui i c.d. afghani) e criminali comuni (i c.d.

Maqdis, "i Partigiani di Gerusalemme", che costituiscono il principale gruppo terrorista basato in Sinai), che nel novembre del 2014 hanno dichiarato la loro adesione all'Isis/Daesh e cambiato il loro nome in Wilayat Sina, "Stato del Sinai"). I terroristi, dopo aver compiuto numerosi attacchi, sono stati gli autori del " Grande Attacco Simultaneo" contro le forze di sicurezza egiziane a Al Arish, Sheik Zuweid e Rafah, che hanno provocato circa una quarantina di vittime.

In sostanza, l'Egitto ancora instabile al suo interno, si trova in qualche modo schiacciato tra le minacce terroristiche in Sinai e quelle che provengono dalla Libia. Proprio per cercare di stabilizzare la situazione su quest'ultimo fronte gli egiziani hanno incominciato a sostenere le milizie del Generale Haftar, sono ripetutamente intervenuti contro i terroristi affiliati all'Isis/Daesh in Cirenaica (al riguardo si possono ricordare i bombardamenti aerei effettuati lo scorso febbraio come ritorsione all'uccisione di 21 lavoratori copti uccisi dall'Isis) e si sono resi promotori di un'azione mirata ad ottenere l'approvazione, sotto l'egida delle Nazioni Unite, di un'azione internazionale contro i gruppi terroristi in Libia.

Nel frattempo, proprio a causa della precaria di situazione di sicurezza, è aumentato notevolmente il traffico di clandestini e di egiziani che cercano di lasciare il Paese, soprattutto da Alessandria e piccoli porti contigui, come Rashid. Si tratta di un altro di quei nuovi sviluppi negativi - e particolarmente negativi per il nostro Paese - che, prima delle "Primavere" erano (per quanto concerne l'Egitto) praticamente inesistenti. Le autorità egiziane hanno varato provvedimenti che inaspriscono le pene per i trafficanti, ma apparentemente senza grandi risultati.

L'unico fronte dove si registra qualche progresso significativo è quello economico. Buona parte delle industrie hanno ripreso la loro attività e nel 2014 è stata registrata una crescita di oltre il 4%.Sono cresciute anche le esportazioni (quelle verso l'Italia nel 2014 sono aumentate, rispetto all'anno precedente del 28 %, portando complessivamente l'interscambio a oltre 5 miliardi di euro). Il Governo ha varato un ampio piano per rilanciare gli investimenti, il turismo e gli investimenti diretti dall'estero. Con la partecipazione dello stesso Al Sisi è stata organizzata a Sharm El Sheik dal 13 al 15 marzo scorso una grande Conferenza Internazionale (alla quale ha partecipato anche il Presidente del Consiglio Italiano con un'ampia delegazione) in cui sono stati presentati agli investitori oltre 120 progetti di investimento (nel settore infrastrutturale, tra cui quello del raddoppio del Canale di Suez, energetico, turistico, edile).Il valore complessivo dei progetti, ove fossero tutti realizzati, sarebbe di circa 150 miliardi di dollari. Ma, nonostante varie disponibilità dichiarate, soprattutto dai Paesi del Golfo, inevitabilmente anche sui nuovi investimenti, così come sul turismo, continua a gravare l'ombra di una situazione politica, sociale e di sicurezza, ancora incerta.

In effetti, proprio per impedire un pieno ritorno alla normalità del Paese e mantenere una situazione di incertezza, gli jihadisti hanno ripreso la vecchia strategia degli anni Novanta e hanno realizzato numerosi attacchi terroristici dinamitardi in varie parti del Paese e nella stessa capitale.

Proprio negli ultimi giorni si sono registrati nuovi attacchi terroristici di particolare gravità : Il primo è avvenuto il 29 giugno scorso, a Heliopolis uno dei quartieri residenziali de Il Cairo e situato nel cuore della capitale, quando un'autobomba è stata fatta esplodere al passaggio del corteo che scortava il Procuratore Generale Hisham Barakat. Il Procuratore (che aveva svolto un ruolo importante in vari processi contro gli islamisti) è morto e cinque delle sue guardie del corpo ed alcuni passanti sono rimasti feriti (al riguardo può essere ricordato che ancora nel maggio del 2015 gruppi islamisti hanno lanciato una dichiarazione, denominata "Nedaa Al Kenana", con cui hanno invitato i loro sostenitori a uccidere le autorità giudiziarie, militari e esponenti della polizia; nel maggio, in Sinai, tre giudici erano stati uccisi e altri due feriti, dopo che un tribunale aveva raccomandato la pena di morte nei confronti dell'ex Presidente Morsi).

Il secondo gravissimo episodio di terrorismo è avvenuto l'1luglio scorso (2015), quando i miliziani del gruppo terroristico Wilayat Sinai hanno attaccato a colpi di mortaio ben cinque check- point militari, uccidendo circa 30 militari egiziani e provocando numerosi feriti.

Il terzo e, per noi Italiani, il più grave e gravido di implicazioni per in generale la presenza italiana, è stato l'attacco terroristico compiuto l'11 Luglio scorso, con un’autobomba contro il Consolato Italiano a Il Cairo. L’autobomba (con circa 450 kg di esplosivo) sarebbe stata fatta

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esplodere a distanza con un telecomando nei pressi dell’entrata dell’edificio alle 6,30 del mattino. Il bilancio è di due morti e almeno dieci persone ferite, inclusi due agenti. Tre sono in gravi condizioni.

Dopo alcune ore è arrivata su un account considerato vicino all’Isis/Daesh, la rivendicazione dell’Isis: «Grazie alla benedizione di Allah, i soldati dello Stato Islamico hanno fatto esplodere 450 kg di esplosivo piazzati dentro una macchina parcheggiata davanti al Consolato italiano al Cairo».

Fonti della sicurezza egiziana hanno fatto sapere di ritenere che l'attentato sia stato compiuto da gruppi terroristi egiziani affiliati all'Isis, che sarebbero gli stessi autori dell'attentato di fine giugno in cui è stato ucciso al Cairo il Procuratore Capo Hisham Barakat. 

L'attentato al nostro Consolato è il primo attacco contro una sede diplomatica straniera e fa purtroppo temere che non si possano escludere altri attentati in Egitto.

Il Ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha chiamato il Ministro Paolo Gentiloni e ha «condannato l’attacco terroristico avvenuto davanti al Consolato italiano» a Il Cairo. «L’Egitto - ha dichiarato il Ministro Egiziano alla Mena - farà ogni sforzo con tutti i Paesi del mondo, inclusa l’Italia, per sradicare ed eliminare il terrorismo».

Immediata e stata la risposta del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni che, prima di recarsi personalmente a Il Cairo, in un tweet ha scritto:

«L’Italia non si farà intimidire».Il Premier Matteo Renzi in un’intervista a Al Jazeera ha dichiarato: «In questo momento l’Egitto sarà salvato solo con la leadership di Al Sisi. Questa è la mia

posizione personale, e sono fiero della mia amicizia con lui. Darò il mio sostegno per lui e la direzione della pace».

 

Aggiornamenti sugli ultimi sviluppi (Estate 2016).Sfortunatamente nell’ultimo anno la situazione per l’Egitto non è migliorata, ma anzi si

caratterizza per nuovi problemi e preoccupazioni. Sono aumentate azioni degli Jhiadisti ed atti di terrorismo; è aumentato il flusso migratorio clandestino verso l’Italia.

La situazione economica rimane negativamente condizionata dagli sviluppi della situazione politica. Il governo sta cercando di finalizzare un accordo con il Fondo Monetario Internazionale, ma alcune delle condizioni imposte dal Fondo (come abolizione di sussidi e prezzi di beni di prima necessità calmierati) potrebbero scatenare ulteriori tensioni sociali e ribellioni popolari.

Il 2016 è stato poi pesantemente condizionato dalla drammatica vicenda della morte del giovane ricercatore Italiano Giulio Regeni. L’avvenimento, lo scarso contributo dato dalle autorità Egiziane e, per contro, di forti sospetti di un coinvolgimento degli organi di sicurezza del Cairo, hanno pesantemente condizionato i rapporti dell’Egitto non solo con l’Italia, ma anche con l’Europa, e l’Occidente in generale.

In sostanza l’Egitto si trova sempre più in difficoltà nel cercare di contrastare il radicalismo e il terrorismo interno e, viceversa, nel rilanciare un rapporto di più stretta collaborazione con l’occidente.

Secondo alcuni analisti tale situazione starebbe spingendo l’Egitto a cercare una più stretta collaborazione con Paesi come Russia e Turchia.

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