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GIGLIOLA ALVISI MURO MURO NUVOLE NUVOLE Ole il di «NON C’È NIENTE DI PIÙ RIVOLUZIONARIO AL MONDO CHE ESSERE SE STESSI». R6N 135 € 14,50

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G I G L I OL A A LV I S I

MUROMURONUVOLENUVOLEOltr e il

di

«NON C’È NIENTE DI PIÙ RIVOLUZIONARIO AL MONDO

CHE ESSERE SE STESSI».

R6N

135

€ 14,50

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Mario ha dodici anni ed è parecchio arrabbiato. A causa del lavoro dei ge-nitori è costretto a trasferirsi all’estero, lasciando a Roma, dove ha sempre vissu-to, amici e abitudini. Sull’aereo diretto a Bruxelles, Mario riconosce nella sua vi-cina di posto l’anziana gattara che giorni prima è stata la testimone di un episodio spiacevole che lui vorrebbe dimenticare. E, siccome le sfortune non arrivano mai da sole, quando il pilota accende i moto-ri si rende conto che volare lo terrorizza. Inizia così il diffi cile viaggio di Mario, che potrà contare soltanto sulla distra-zione fornita dalle chiacchiere della biz-zarra donna seduta accanto a lui: il rac-conto dettagliato della vita di una cara amica di gioventù, Fiorenza de Bernar-di, la prima donna italiana a diventare comandante di un aereo di linea. Tra turbolenze reali e resoconti di atter-raggi di emergenza, tra vuoti d’aria che mandano lo stomaco in gola e le avven-ture di una pioniera del volo, Mario sarà costretto a confrontarsi con la propria rabbia e le proprie paure. NUVOLENUVOLE

di

Gigliola Alvisi abita in provincia di Padova ed è una scrittrice per ragazzi. Nei suoi romanzi racconta di personag-gi famosi come Fiorenza de Bernardi, Giacomo Matteotti, Ilaria Alpi e Jella Lepman, oppure inventati, ma sempre sfaccettati e autentici come reali compa-gni di scuola.Ama incontrare i suoi giovani lettori nel-le scuole o nelle biblioteche e discutere con loro di libri e di passioni, di desideri e di paure, di quello che ammirano e di quello che li fa arrabbiare del compor-tamento degli adulti attorno a loro.I suoi romanzi sono stati tradotti all’e-stero e per il suo lavoro ha vinto nume-rosi premi, fra i quali il Premio Battello a Vapore 2015 e il Gigante delle Lan-ghe 2018.

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Gigliola Alvisi

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Pubblicato in accordo con Grandi & Associati S.r.l.

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2019 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)

ISBN 978-88-922-1961-8

A Fiorenza, che ha condiviso con me tempo, racconti,

confidenze e un caffè al bar sotto casa.

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Una rabbia potente mi agita ancora i pensieri. Una rab-bia che pretende di uscire, che reclama un corpo e una voce. Dei gesti. Per questo, per la prima volta in vita mia, ieri sera ho urlato contro i nonni, per questo ho preso le forbici e ho tagliato i jeans sulle ginocchia, per questo stamattina ho bruciato scuola e ho deciso di uscire con Danni. E adesso sono qui a gironzolare con lui, in questo quartiere di Roma che non conosco, a fare cose che non so fare. Mi sono disegnato una faccia da cattivo, anche se an-cora non la indosso proprio bene. Neanche mi piace questo tizio con il chiodo di pelle, che seguo senza farmi troppe domande. Ha ripetuto tutte le classi delle medie e adesso, in terza, forse lo promuoveranno per liberarsi finalmente di lui. Si chiama Daniele, ma tutti lo chiamano Danni per-ché si dice che sia stato lui a tagliare la recinzione, a rom-pere la finestra del laboratorio per entrare di notte a scuola

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e allagare i bagni del piano terra. Non ci avevo neanche mai parlato insieme, prima di oggi, però… Quando ieri sera mamma mi ha telefonato da Bruxelles per dirmi che saremmo andati a vivere lì, ho dato di matto. Sì, è vero, lo sapevo che era questo il progetto finale, se lei fosse riuscita a strappare un ottimo contratto a quel laboratorio di ricer-ca in Belgio. Ma un conto è la teoria, come dice la prof di matematica, e un conto è la pratica.

«Ho firmato alle condizioni che volevo, sai Mario? Stia-mo brindando con papà davanti a un bicchiere di prosecco in uno sciccosissimo bar del centro, ma stasera ci sta an-che un po’ di sana follia. Allora, Mario, sei contento? Ci trasferiremo a giugno, appena finirai la scuola, vedrai che Bruxelles ti piacerà».

Be’, è stato soltanto dopo, a cena, mentre i nonni ri-petevano quanto erano orgogliosi di lei e mi guardavano aspettandosi che sparassi fuochi d’artificio anch’io, che ho realizzato davvero che la firma del contratto significava per me abbandonare Roma, la mia casa, la mia scuola, i miei amici, la mia squadra di basket. Tutta la mia vita. Non è giusto, non è proprio giusto! Ecco perché ora sto un passo dietro Danni, diretto non so dove a prendere non so cosa.

E sì, la rabbia c’è ancora tutta, scura e urlante, ma sta-notte mi è salita dentro anche una nebbia di tristezza che l’avvolge e un po’ la nasconde. La rabbia mi dice: va’ e

spacca tutto, fa’ qualcosa che non si aspettano da te, recla-ma attenzione e pretendi rispetto. La tristezza mi chiede sottovoce: a che serve? Pensi forse che cambieranno idea se per un giorno bruci scuola? La rabbia mi incita a muover-mi, la tristezza a restare fermo. La mia famiglia si aspetta che io sia entusiasta di questo trasferimento. Che magari me ne vanti con gli amici. Tutti si aspettano che io sia, come sempre, un bravo bambino. Ma io ho dodici anni, non sono più un bambino. E da oggi neanche bravo.

Ha cominciato a piovere. Una pioggia leggera e fastidio-sa. Una di quelle piogge che sembrano non cadere dall’al-to, ma galleggiare nell’aria apposta per infracidarti anche se per caso hai l’ombrello. Che io non ho. Danni borbotta una bestemmia, poi un’altra e un’altra ancora. Io incasso la testa nelle spalle per non sentirlo. Lui si tira il cappuccio della felpa sulla testa e continuiamo a camminare. Svol-tiamo in una strada ingombra di auto parcheggiate di tra-verso sul marciapiede: la gente con i sacchetti della spesa è costretta a rallentare, mentre vorrebbe soltanto affrettarsi verso casa e mettersi al riparo dalla pioggia. Mi accorgo di una signora anziana, chinata accanto a un’auto. Mi chiedo se stia male, ma poi mi accorgo che sta spingendo sotto la macchina dei contenitori d’alluminio pieni di crocchette. Dal miagolio capisco che lì sotto ci devono essere dei gatti. Avrei sempre voluto avere un gatto, l’ho chiesto a mam-

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«Ehi, tu, voltati un po’!» ci riprende una voce alle spalle.Noi ci voltiamo, perplessi. È quella signora anziana,

piantata lì in mezzo al marciapiede. Per fortuna non ce l’ha con me: guarda Danni come se volesse perforarlo.

«Abbella, che vòi da me?» chiede Danni nel suo roma-nesco strafottente.

«Niente, volevo solo vedere bene che faccia c’ha un im-becille. Vai, vai pure, vai a fare il bulletto da qualche altra parte, che un gatto vale più di te». Lo guarda, sfidandolo.

Mi sa che qui finisce male. «Danni, andiamocene, for-za!» lo incito tirandolo per un braccio.

Lui sputa per terra e finalmente ci sganciamo da quello sguardo.

ma per anni, ogni compleanno e ogni Natale. Ma la sua risposta è sempre stata: «Ci manca solo un micio in questa casa! Perché non ho già abbastanza da fare. Non se ne parla nemmeno».

Ecco, posso aggiungere il gatto negato alla lista di giu-stificazioni alla mia rabbia.

«Che schifo! Se c’è ’na categoria de persone che odio sò le gattare come questa. Siete malate in testa! Aò, dico a te. Sei malata, hai capito?» le urla Danni, poi mi guarda e scoppia a ridere.

La signora si alza faticosamente, appoggiandosi a un ba-stone. Indossa una tuta sportiva, con la felpa aperta su una maglietta leggera, e sembra non curarsi della pioggia. Ha i capelli grigi corti e milleduecento anni faticosi sulle spal-le. Ma quando ci pianta addosso uno sguardo scuro e fermo che non mi aspettavo, quando raddrizza la schiena nell’at-teggiamento di chi non ha paura di nessuno, gli anni scor-rono all’indietro. Per un attimo temo che possa alzare quel bastone sulle nostre teste. Temo anche che Danni la spinga a terra e lei possa farsi male. Ma nel tempo rallentato che ci serve per sorpassarla non succede nulla. Poi tutto sem-bra tornare lentamente alla realtà: la gente indifferente, la via ingombra di auto, la pioggia di fine primavera, Danni che mastica gomme e bestemmie, io che non so che ci sto a fare qui.

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Ho già passato i controlli di sicurezza e adesso sono in fila per il check-in. Volo Alitalia AZ160 Roma Fiumicino- Bruxelles in partenza alle 15.15. L’hostess addetta ai pas-seggeri minorenni non accompagnati mi ha aiutato a con-segnare il bagaglio: tutta la mia vita romana compressa in una valigia rigida blu la cui somma di base più altezza più profondità fa esattamente i 158 cm previsti dal regola-mento, del peso di 22 kg scarsi. Avrei avuto a disposizione un altro chilo, ma a un certo punto mi sono arreso. Ieri sera l’ho riempita, cambiato idea, svuotata, riempita di nuovo, cambiato idea, di nuovo svuotata una decina di volte. Fin-ché nonna, spazientita, ha infilato tutti i miei vestiti nei sacchetti sottovuoto, ha azionato l’aspirapolvere fino a che quegli involucri trasparenti e appiattiti hanno perso il loro significato originale (la felpa verde che mi hanno regalato per il compleanno, i jeans scoloriti con le cuciture gialle,

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assicurarmi che questa è la normale procedura per i minori che viaggiano senza i genitori. Consegnerà il mio docu-mento all’hostess di volo, che a sua volta lo consegnerà al comandante, che lo custodirà in cabina di pilotaggio per consegnarlo sul suolo belga all’hostess di terra che verrà a prelevarmi e mi scorterà al sicuro dai miei genitori. È una congiura: evidentemente lo sanno tutti che non voglio an-dare a Bruxelles. Mi marcano stretto, vogliono evitare che scappi via. Che fugga sulla pista fino a raggiungere il prato e poi la rete, che la scavalchi e faccia perdere le mie tracce nelle campagne di Fiumicino. Aspettiamo che il bus si riempia di passeggeri, poi l’autista chiude le porte e guida fino all’aereo.

«Vedi, Mario, è un A320, un bellissimo aeromobile che fa parte della flotta Alitalia da moltissimi anni. Anche se, a voler essere sincera, l’aereo che preferisco è l’A330» bla-tera la mia guardia del corpo in gonnella mentre saliamo la scaletta della porta anteriore.

Sai quanto me ne frega? vorrei urlarle addosso, ma è tal-mente gentile che mi limito a ignorarla. L’hostess di volo, una bionda con gli occhi scuri e un rossetto rosso fuoco, mi dà il benvenuto come se mi conoscesse da sempre, se-questra il mio documento e infine mi indica il mio posto: numero 1, in prima fila vicino al finestrino. Mi siedo, anzi mi stravacco sul sedile sperando che questo gesto espri-

la maglietta che è la mia seconda pelle). Allora ho potuto concentrarmi sul resto del mio bagaglio: i libri, i giochi, le foto… Quando l’hostess ha appoggiato la mia valigia sul nastro trasportatore e l’ho guardata scomparire nei miste-riosi anfratti di questo aeroporto, ho capito che avevo dav-vero perso tutto. La nonna mi ha abbracciato stretto e mi ha detto che non avrei mai potuto sentire la loro mancanza più di quanto loro avrebbero sentito la mia. Il nonno mi ha assicurato che sarebbe stata una bellissima avventura e mi ha scompigliato i capelli, ma si vedeva che era emozio-nato. La verità vera è che questo trasferimento ha rubato la mia vita, e questo è quanto.

Guardo le persone in coda per il volo di Bruxelles: han-no quasi tutte un piccolo trolley e lo zaino sulle spalle. Li aspetta un week-end nella capitale belga o un breve sog-giorno per affari. Non c’è nessuno della mia età. Credo di essere l’unico che debba trasferirsi davvero in quella città. Non è una bella sensazione.

Hanno aperto il gate e l’hostess mi fa passare per pri-mo: la collega al pc controlla il certificato d’identità e la carta d’imbarco e poi li consegna alla mia guardia del cor-po. Agli altri passeggeri, invece, il documento lo riconse-gnano. Oh, non sarò mica prigioniero di Alitalia? Men-tre scendiamo le scale per raggiungere il bus devo avere un’aria sconcertata perché l’hostess si sente in dovere di

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Sospiro, alzo la testa rassegnato e guardo la persona che occuperà il posto accanto al mio. Una donna. È ancora in piedi, e sta trafficando per legarsi una felpa azzurra attorno alla vita. Non posso crederci. È lei! Consegna il bastone alla hostess bionda, che lo ripone nel vano dei bagagli a mano e le fa un sorriso esagerato. È proprio lei! Quell’an-ziana signora, la gattara di quel giorno da pazzi passato con Danni. Ci mancava solo questa…

Mi giro verso il finestrino e mi fingo interessato alla fila di persone in coda sulla scaletta.

«Allora?»«Sì» rispondo evitando di girarmi. La sento sprofondare

con un sospiro affaticato sul sedile accanto.«E allora ci faremo compagnia. Anch’io viaggio da sola»

dice, e sento il sorriso nella sua voce. Un sorriso che resta sospeso e invita a una risposta.

Tengo duro per qualche istante. Poi sospiro, mi faccio coraggio e mi volto. Non mi posso muovere da qui. Sono prigioniero di questo aereo fino a Bruxelles. Sono seduto vicino all’unica persona che sa quello che ho fatto quel giorno. Tanto vale affrontare questo destino assurdo. Come dice nonno: è sempre meglio prendere il toro per le corna.

La guardo con attenzione: forse mi sono sbagliato, forse non è lei. Annoto le rughe, i capelli grigi più lunghi di come li ricordassi, i pantaloni blu e la camicetta a fiori così

ma tutto il mio disprezzo per l’aereo, le hostess, i piloti, i genitori dispotici e il Belgio. L’hostess di terra, prima di andarsene, mi fa un cenno con la mano e mi augura buon viaggio. Come vorrei scendere anch’io e tornarmene a casa! Farfuglio un ironico «Arrivederci e grazie» ed ecco che è sparita. Io aspetto. Non so neanche cosa. Che mi restitui-scano il certificato d’identità, forse, e insieme a quel pezzo di carta la mia vita. Oppure soltanto che l’aereo si riem-pia, decolli e si perda nel cielo di inizio estate. Il cuore mi batte più velocemente del solito al centro del petto, sento lo stomaco in gola e le budella annodate. Mi pare che ogni organo del mio corpo sia migrato in un posto sbagliato e inadatto alla sua funzione.

Due piedi entrano nel mio campo visivo. Calzano scarpe da running azzurro scuro sovrastate da un paio di panta-loni blu. Non capisco se appartengono a un uomo o una donna. Comunque sono due piedi esitanti, questo è sicuro: camminano accompagnati da un bastone. Forse sono due piedi anziani.

«Viaggi da solo?» chiede il titolare dei piedi esitanti.Cosa te ne frega? vorrei ruggire in risposta. Cosa ve ne

frega a tutti quanti di come viaggio se non c’è nessuno che possa evitarmi questo maledetto volo? Mi mordo il labbro per impedirmi di parlare.

«Ti ho chiesto se viaggi da solo» ripete la stessa voce.

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mantenerle allacciate per l’intera durata del viaggio quando siete seduti. A nome di tutto l’equipaggio auguro un piacevole volo.

Le due hostess chiudono i vani dei bagagli e controllano fila per fila che i tavolinetti siano chiusi. Si muovono me-todicamente, sono gentili ma severe. Inflessibili, soprat-tutto con i passeggeri che pretendono di tenersi gli zaini e le borse addosso. Io ho lasciato fuori soltanto l’iPad che i miei genitori, evidentemente storditi dai sensi di col-pa, mi hanno regalato per il viaggio. L’hostess bionda alla quale sono stato affidato mi regala un sorriso supplemen-tare e dice: «Non ti poteva capitare compagna di viaggio migliore, Mario!» Come no, sicuro! Una gattara stramba che per poco non si menava in un giorno di pioggia con un bullo di periferia.

Mi impongo un sorriso ipocrita, come se fossi perfetta-mente d’accordo. Ho scoperto che se eviti di discutere e puntualizzare, gli scocciatori si levano di torno prima. In-fatti lei se ne va. Per tornare nel giro di poco con un giub-botto salvagente addosso e una mascherina di plastica in mano. Si posiziona proprio all’inizio del corridoio, vicino a noi, mentre la sua collega prende posizione a metà aereo. Aereo che ha cominciato a muoversi come un autobus per le strade dell’aeroporto.

Signori e signore, desideriamo richiamare la vostra attenzione su alcune dotazioni di sicurezza di questo velivolo…

diversi dalla tuta sportiva di quel giorno. Invece è proprio lei: gli stessi occhi marroni, stavolta gentili, la stessa voce decisa mentre mi chiede come mi chiamo. Eppure non trovo traccia di riconoscimento nel suo sguardo. Dev’esse-re per via dell’età: si sarà già dimenticata di quell’episodio di due mesi fa.

«Mi chiamo Mario».«Piacere, io mi chiamo Rita» dice lei e mi sorride.Potrei rilassarmi, se la cosa che si dimena nella mia pan-

cia tornasse buona buona al suo posto. Perché ho appena capito che non è una parte del mio corpo finita nel posto sbagliato, ma un organismo estraneo che si è installato den-tro di me e comincerà a divorarmi lentamente dall’interno.

DLIN. Signori e signore, a nome di Alitalia vi diamo il ben-venuto a bordo. Vi preghiamo di prendere posto e di sistemare il vostro bagaglio a mano nelle apposite cappelliere o sotto il sedile davanti a voi. Se siete seduti accanto a un’uscita di sicurezza il bagaglio a mano deve essere posto nelle cappelliere per lasciare libera l’area di accesso alle uscite. Tutti i dispositivi elettronici devono essere spenti durante le fasi di rullaggio, decollo e at-terraggio. In fase di crociera sarà possibile usare i dispositivi elettronici precedentemente impostati sulla modalità aereo. Per qualsiasi necessità gli assistenti di volo saranno a vostra dispo-sizione durante tutto il volo. Tra qualche minuto decolleremo. Vi preghiamo quindi di allacciare le cinture di sicurezza e di

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possa restare sospeso in aria» dice lei ridacchiando. Cosa ci sia da ridere proprio non lo capisco.

«Eppure il principio è geniale quanto semplice. Ascolta qui, ragazzo…»

L’aereo si lancia in una corsa sconsiderata a velocità su-personica.

«Da questo finestrino non si vedono le ali. Ma ti posso assicurare che sono dritte nella parte inferiore e panciute su quella superiore. Non è per lo schiribizzo di un inge-gnere bizzarro, sono progettate così apposta. Quando l’ae-reo prende velocità sulla pista, infatti, le ali tagliano l’aria che si divide e scivola attorno a loro per riunirsi una volta superato l’ostacolo. Mi segui?»

L’aereo va sempre più veloce. Secondo me troppo veloce. Ci schianteremo, sono sicuro.

«L’aria che passa sopra la parte panciuta ha un percorso più lungo e quindi deve correre più in fretta di quella che passa sotto la parte dritta, se vuole riunirsi con lei alla pari una volta superata l’ala. Questo crea una differenza di pressione attorno alle due superfici dell’ala. La depressione dorsale, quella che si crea sulla parte superiore dell’ala, è una forza in grado di sollevare per due terzi l’aereo».

L’aereo inclina leggermente il muso verso l’alto e mi ac-corgo che ha già staccato le ruote dalla pista.

«L’ultimo terzo necessario lo fa la pressione inferiore,

La voce un po’ metallica inizia a elencare le procedure in caso di depressione… Chissà cosa cavolo è questa depres-sione, se fossi allegro ridacchierei all’idea di un depresso che si cura indossando la mascherina dell’ossigeno… In caso di turbolenza, ammaraggio, incendio e ogni altra sfi-ga possibile che possa capitare a questo aereo. La cosa den-tro le budella si dimena talmente tanto che faccio fatica a respirare. E l’aereo ora ha raggiunto la pista.

«Il tuo primo volo?» mi chiede Rita la Stramba mentre mette il suo smartphone in modalità aereo. Non mi aspet-tavo tanta tecnologia da una persona così anziana.

«No, cioè… sono andato in Portogallo quando ero pic-colo, ma non ricordo quasi nulla» rispondo a fatica, men-tre con le mani che tremano spengo l’iPad. Così nessuno può mandarmi messaggi indesiderati. Messaggi tipo: buon viaggio tesoro mio, o: ti aspettiamo con ansia. O qualche altra ipocrisia genitoriale dettata dal senso di colpa.

«Hai paura allora?»«No! Be’… non credo. Cioè, forse sì. Un pochino» am-

metto. Il pilota intanto sta dando gas ai motori. Il rumore è assordante. Non riesco quasi a respirare. Stringo forte i braccioli e premo la schiena contro il sedile. Mi sento come se da un momento all’altro mi dovessero lanciare verso l’infinito con un’enorme fionda.

«In effetti è strano pensare che un bestione così pesante

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Allo scatto del segnale luminoso, Rita la Stramba sgan-cia la cintura di sicurezza e si sistema meglio sul sedile. «Come mai viaggi da solo, se non sono troppo indiscreta?»

In effetti sei troppo indiscreta, quindi non ti rispondo. «Raggiungo i miei genitori a Bruxelles. Loro sono già lì a occuparsi della nuova casa, della mia iscrizione nella nuova scuola e tutto il resto. Mamma è neurologa e ha firmato un contratto di tre anni come ricercatrice capo di un progetto sperimentale sull’Alzheimer». Non so perché le ho rispo-sto, perché le sto dicendo tutti i cavoli miei, ma non riesco a stare zitto. Mi sembra che muovere le labbra formulando parole di senso compiuto forse potrà tenermi in vita. O per lo meno rallentare i sussulti della bestia nella pancia.

«Che meraviglia! Sono rassicurata all’idea che una per-sona è al lavoro per combattere il mio rimbambimento, quando arriverà. Per il momento mi pare che la capoccia

che si chiama sovrappressione ventrale. La forza combinata di pressione da sotto e depressione da sopra è sufficien-te per far volare questo ragazzaccio» conclude soddisfat-ta. Della sua spiegazione, che a lei evidentemente sembra chiarissima, ma anche del fatto di essere in volo. Stramba, è stramba, non c’è che dire.

L’aereo si inclina sempre di più e adesso ci dirigiamo verso il cielo. Inghiotto la saliva e le orecchie finalmente mi si stappano. Questa cosa nella pancia tenta di arram-picarsi verso la gola e poi si rituffa giù verso l’ombelico, come se fosse sulle montagne russe.

L’aereo vira a sinistra e io mi trovo inclinato verso il fi-nestrino. Finiremo schiantati a terra, sono sicuro. Cerco di respirare, almeno la quantità d’aria sufficiente a non mo-rire. Guardo la mia compagna di viaggio che mi sorride, completamente rilassata.

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modi di dire romani dei nonni, ma contemporaneamente mi ricorda l’accento toscano di papà e, non so spiegare perché, intuisco l’eco di risate e contemporaneamente di ordini perentori. E comunque fin che ascolto vuol dire che sono vivo.

«La mia amica si chiama Fiorenza. Fiorenza de Bernardi. È nata mille anni fa, nel 1928, quando i dinosauri si erano appena estinti. Lei sugli aerei c’era praticamente cresciu-ta, nel senso che suo padre, che si chiamava Mario come te… A proposito, com’è che tu ti chiami Mario? Mica è un nome comune tra i giovani».

Devo passare la lingua sulle labbra prima di rispondere, e anche così la mia voce esce tutta stropicciata: «Mio non-no paterno si chiamava Mario. Io non l’ho mai conosciuto, visto che è morto quando papà era piccolo». E per dirla tutta non mi piace chiamarmi come un morto, penso che porti con sé una certa dose di sfiga. E poi mi sembra di es-sere costretto ad assomigliargli: serio come lui, intelligen-te come lui, bravo in matematica come lui. Invece vorrei che mi lasciassero libero di essere me stesso. Il nome di un morto può essere un vestito davvero troppo stretto.

«Ah, ecco, ora ho capito. Comunque, ’sto Mario de Ber-nardi era uno forte davvero. Nel 1926 vinse la mitica Cop-pa Schneider in Virginia per il volo acrobatico guidando un piccolo aereo Macchi 72, che lui aveva potenziato a dovere.

funzioni ancora a dovere» ridacchia la Stramba. Sì, a parte il fatto che non ti ricordi di avermi già incontrato…

«E anche tuo padre è un medico?»«No, papà è un giornalista. Per questi tre anni farà l’in-

viato dal Belgio».«Aò, Mario, guarda che se continui a iperventilare così

svieni. Mi sa che tu c’hai proprio paura, bello mio!»«Forse sì, non mi sento per niente sicuro su questo

coso…»«Questo ragazzaccio è un affidabilissimo A320, t’assi-

curo che stai più sicuro qua sopra che in auto sul raccordo anulare».

«Ma come mai lei sa tante cose sugli aerei? Ha fatto l’hostess quando era giovane?» E subito penso di aver det-to una stupidaggine: forse quando lei era giovane non c’e-rano ancora gli aerei di linea e neppure le hostess. Quando cavolo li hanno inventati gli aerei di linea?

«E perché, bello mio… Perché… Perché la mia amica del cuore era una pilota. Se c’hai pazienza e voglia ti rac-conto la sua storia».

Mi limito ad annuire visto che ormai ho la gola com-pletamente secca e non riuscirei a spiccicare neanche un semplice sì. Non che me ne freghi qualcosa della sua amica pilota, ma devo ammettere che Rita la Stramba ha una voce che malgrado tutto mi piace: dentro ci stanno i

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di carta, intingeva la penna nel calamaio e cominciava a scrivere gli appunti che lui le dettava e che poi si sarebbero trasformati in un’altra importante novità per l’aviazione italiana».

Rita prende fiato e io mi accorgo che la bestia si è final-mente acquattata in fondo alla pancia.

«E la sua amica quando cominciò a volare?» chiedo. Non mi interessa davvero, ma voglio sfruttare le proprietà ipnotiche della sua voce.

«Oh, be’… la Fiorenza l’era cresciuta in una famiglia molto moderna per l’epoca. Pensa che in anni in cui le bambine andavano a scuola il minimo indispensabile e poi restavano a casa a ricamare il corredo per le future nozze, lei imparava a sciare sul Terminillo, quando lì c’era soltanto la chiesetta degli Alpini. Insieme alla sua banda di amici costruiva capanne sugli alberi, organizzava cacce al tesoro e super picnic a base di panini con la mortadella che mai più in vita sua ne ha poi mangiati di così buoni. La fame che si ha alla tua età, Mario, fa sembrare tutto più buono».

In effetti comincio ad avere una certa fame anch’io.DLIN. Signore e signori è il comandante Dominicis che vi par-

la. Anzitutto vorrei darvi un caloroso benvenuto a bordo del 320 della compagnia Alitalia. Stiamo effettuando la salita all’alti-tudine stabilita dal piano di volo. Al momento ci troviamo a cir-ca 4000 metri sul livello del mare e stiamo viaggiando a una ve-

Infatti era anche un collaudatore e un inventore impareg-giabile. Pensa, Mario, che il tuo omonimo ideò il cavo per frenare l’atterraggio dei velivoli sulle navi portaerei e nel 1931 s’inventò insieme all’ingegner Cerini i comandi riu-niti, un sistema che ha portato poi alla creazione del pilota automatico che è in dotazione pure su questo ragazzaccio. Gli aerei Macchi messi a punto da lui superarono per la prima volta i 500 km all’ora. Senza Mario de Bernardi non ci sarebbe l’aviazione moderna».

I Macchi, l’ingegnere Cerini, la Coppa in Virginia… Ma di cosa sta parlando questa donna?

«E pure sua moglie era una tipa tosta. Si chiamava Ma-ria Vittoria e pensa che negli anni Venti del secolo scorso guidava l’auto. Certo, a te ora sembra una cosa normale, ma guidare l’auto in quell’epoca era considerata un’attivi-tà eccentrica e pericolosa per gli uomini, quindi assoluta-mente scandalosa per le donne. I primi anni di matrimo-nio Mario e Maria Vittoria abitarono in una piccola casetta all’interno dell’aeroporto di Montecelio, qua a Roma. Lei si prese cura di tutti coloro che lavoravano all’aeroporto, fino a creare una vera e propria comunità: organizzò un orto che riforniva la mensa e si adoperò per l’apertura di un cinematografo.

Di notte Mario si svegliava con un’idea in testa, la scuo-teva e le diceva: Maruzza, scrivi! e lei prendeva un foglio

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gli schemi e mantenere la calma nelle situazioni di dif-ficoltà».

«Insomma, se ho capito bene, il play è il pilota coman-dante della squadra. Io sono sicura che in Belgio faranno a botte per garantirsi un play italiano. Guarda che noi ita-liani siamo ricercatissimi per la creatività e la capacità di risolvere problemi. E a scuola come va, Mario?»

Uffa, ma quante domande! «Mi tocca andare bene, per-ché l’allenatore pretende di controllare le pagelle e se ab-biamo qualche insufficienza sono cavoli! Zoppico solo un po’ in francese, ma non è colpa mia: è una cavolo di lingua da fighetti del centro. E dove vanno a trasferirsi i miei? Proprio in un Paese dove si parla francese».

«Per la verità in Belgio si parla anche tedesco e olande-se» mi corregge.

«Ottimo, peccato che io studi inglese e francese».Ride. «Lo sai che io… che la Fiorenza aveva frequentato

la scuola francese Chateaubriand di Roma? Frequentò lì le medie e le superiori! Gli insegnanti erano tutti di madre-lingua francese e ti posso assicurare che non erano proprio dei fighetti».

«Eravate compagne di classe allora!»«Sì, diciamo di sì. Ci perdemmo di vista soltanto duran-

te la guerra, quando la scuola francese per qualche tempo chiuse i battenti e lei si trasferì con la madre nella loro casa

locità di circa 440 chilometri orari. Se le nuvole lo permetteranno potremo goderci un bellissimo panorama mentre saliamo in quota. Atterreremo all’aeroporto di Bruxelles alle ore 17.15, dove sono previsti una leggera pioggia e venti moderati. Tra qualche minuto passeranno le assistenti di volo per servirvi snack e bevande. Nel frattempo mettetevi comodi, rilassatevi e godetevi il volo. Grazie per l’attenzione.

«Come dicevo prima, la Fiorenza era proprio una sporti-va: scalava, sciava e si tuffava in mare senza alcuna paura. Tu fai sport, Mario?»

«Faccio basket, sono… ero il play della squadra. Adesso mi sa che non giocherò più».

«Non sapevo che fosse proibito giocare a basket in Bel-gio» commenta ridendo.

Non c’è proprio niente da ridere! Non so come potrò vivere senza la sensazione ruvida del pallone arancione tra le mani, senza lo scalpiccio delle suole di gomma sul par-quet, senza il rumore di quattordici palloni che rimbal-zano contemporaneamente durante l’allenamento. Eppure so che non voglio giocare con altri compagni, con un altro allenatore, in un’altra palestra.

«E che vuol dire che sei play?»«Il play è il giocatore che porta avanti la palla nella

propria area, dispone i compagni e comanda il gioco. È un po’ il cervello della squadra: quello che deve chiamare

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«E suo padre, il pilota inventore, cosa diceva di questo progetto?»

«Oh, mio… il comandante de Bernardi la lasciava par-lare. A lui e alla moglie interessava che la figlia crescesse libera e all’aria aperta, che studiasse seriamente ma anche che facesse esperienza della vita. La loro era una famiglia di militari, Mario e la moglie erano molto cattolici e mo-narchici, eppure garantivano all’amica mia la massima li-bertà. Pensavano che il tempo delle decisioni importanti, il momento di scegliere, non fosse ancora arrivato. Anche se un giorno la Maruzza disse alla figlia: ragazza mia, non dico ricamare il corredo, ma almeno il valzer lo devi saper ballare per stare in società e un domani convolare a giuste nozze! E così la Fiorenza si iscrisse a un corso di ballo e la cosa la prese così tanto che poi vinse un sacco di gare. L’amica mia era fatta così: quando si buttava in un’impre-sa che le piaceva, otteneva sempre ottimi risultati. Poi la Fiorenza si mise a viaggiare. Ah, e considera che all’epoca gli smartphone non esistevano! Quando partivi non sapevi mai quando saresti riuscita a telefonare a casa per comuni-care che eri viva. Pensa che insieme a due compagne di li-ceo, la Gina e la Pilù, andarono in autostop da Londra alle punte estreme della Scozia. Hai idea di com’è la Scozia?»

Scuoto la testa.«Distese di piccole colline verdi fino all’orizzonte, mac-

in montagna sul Terminillo. Ma quando ci ritrovammo fu una festa! Pensa che avevamo compagni di classe russi, olandesi, francesi: era una delle prime esperienze scolasti-che internazionali in Italia».

«Anche io a Bruxelles andrò a una scuola internazio-nale». E pensare che stavo così bene nella mia scuola di quartiere e che dopo avrei frequentato il liceo scientifico lì vicino.

«E allora ti auguro di avere dei professori come i no-stri: erano severi e pretendevano la massima disciplina, però poi ci portavano in escursione in montagna. Partiva-mo con degli zaini pesantissimi in spalla pieni di viveri, tende e ramponi. La sera, dopo aver mangiato davanti al falò, ci godevamo il buio e il silenzio assoluto che solo in montagna puoi trovare. Certe stellate, Mario mio… Era bellissimo!» dice lei chiudendo un attimo gli occhi. Temo che si stia addormentando. Invece li riapre di scatto e si massaggia una gamba con la mano.

«Comunque, negli anni della scuola la Fiorenza si inna-morò a tal punto della montagna che decise che da grande si sarebbe trasferita in Val Gardena e avrebbe aperto una baita dove servire panini con la salsiccia e boccali di birra. Un progetto ambizioso, Mario, immagina l’insegna: Baita Fiorenza, la migliore salsiccia della Val Gardena!» accom-pagna le parole con la mano e scoppia a ridere.

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«Posso darvi qualcosa da bere: un caffè, un tè, un suc-co, della Coca? Gradite uno snack dolce o salato?» chiede l’hostess bionda spingendo un carrello carico di bottiglie che passa a malapena per lo stretto corridoio.

«Un bicchiere di succo d’arancia e uno snack dolce, gra-zie» risponde sicura la Stramba.

Io ho sete, ma non ho idea di quanto costi comprare da mangiare a bordo di questo aereo.

«Mario, è gratis» mi sussurra la mia compagna di viag-gio sottovoce, come se mi avesse letto nel pensiero.

«Allora una Coca e uno snack salato» dico. Cerco di dar-mi un tono, fingendo di essere un viaggiatore esperto.

L’hostess appoggia i bicchieri e gli snack sui tavolinetti e passa oltre. La collega che la segue appoggia una mano sulla spalla della Stramba e dice: «È un vero piacere averla a bordo, co…» Rita le riserva un’occhiataccia che non ca-pisco, piega la testa verso di me e poi dice: «Grazie mille, è un piacere anche per me».

Mi sfugge qualcosa. Mi caccio in bocca un tarallino e, mentre mastico, penso che forse in questo modo nutrirò anche la belva, che riprenderà vigore e ricomincerà a di-menarsi. Ma ho troppa fame. Con la bocca piena dico: «E poi com’è che ha imparato a volare la sua amica?»

«La Fiorenza l’era sempre decisa ad abbandonare la con-fusione della città e trasferirsi in Val Gardena, il volo non

chiate del bianco delle greggi di pecore e punteggiate da isolati ruderi di castelli in rovina. Strade serpeggianti che collegano un piccolo villaggio a un altro, percorse da rare automobili che viaggiano a sinistra, cosa da perderci la te-sta. E tre belle ragazze, a margine di queste stradine di cam-pagna, con il braccio teso e il pollice in su – così, vedi? – che chiedevano un passaggio. Gli scozzesi che si trovavano a passare da lì nun ce potevano credere e se fermavano subito! La Fiorenza, la Gina e la Pilù dormivano negli ostelli della gioventù… Be’, dormire è un verbo del tutto inadatto a quelle vacanze: diciamo che si fermavano per la notte in quegli ostelli e spesso la mattina erano costrette a pulire la cucina come punizione per il chiasso notturno». Gli occhi le brillano e sento un orgoglioso entusiasmo nella sua voce, come se avesse partecipato anche lei a quell’avventura.

«Se proponessi ai miei genitori un viaggio in autostop in Scozia, per precauzione mi chiuderebbero in un collegio svizzero!» commento.

«Oh, li capisco: il mondo ora è tutto diverso! Ma è un peccato, Mario mio: si imparano tante cose quando ti trovi in un posto lontano da casa, da solo, ad affrontare le dif-ficoltà e a ogni bivio devi decidere da che parte andare» sospira Rita la Stramba.

Già, se davvero avessi potuto decidere io, col cavolo che ora sarei su questo aereo!

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premendo un bottone, alzando una leva, manovrando la clo-che… cioè il volante, chiamiamolo così perché tu possa im-maginarlo. Tu eri il cervello pensante dell’aereo, capisci?»

«Come il play della squadra!» dico a bocca piena.«Esatto, ’na specie! Devi immaginare te, che sei il pilo-

ta, e l’aereo come un organismo unico, lui è il corpo e tu la mente in un’epoca diversa da questa, però, quando nun esisteva tutta la tecnologia attuale. Tu, che sei il pilota, dovevi sapere perfettamente cosa l’aereo era in grado di fare e come potevi ottenere i migliori risultati, quelli più adatti a una determinata situazione. Non solo: tu eri gli occhi che valutavano il cielo e la terra, l’orizzonte e le di-stanze, la qualità delle nuvole in cui entravi, il temporale da cui dovevi tenerti alla larga, i venti che scuotevano le ali. Tu eri le orecchie che registravano la minima variazio-ne nel rumore del motore, l’impatto dell’aria sulla carlin-ga, le comunicazioni della torre di controllo. Questo capì Fiorenza volando con il padre».

«Se prendessi lezioni dai miei genitori potrei imparare a sezionare un cervello oppure a scrivere un articolo di fon-do» dico scuotendo la testa. Un pilota è un’altra cosa!

«Sarebbe una bella gara capire cosa è più importante per l’umanità: migliorare la capacità dell’uomo di volare in modo sicuro, scoprire le cause dell’Alzheimer oppure rac-contare il mondo attraverso i giornali o la televisione? Lo

la interessava proprio, era solo il lavoro del padre. Tu sei interessato al giornalismo o alla medicina?»

Scuoto la testa.«Appunto, neppure a lei piaceva l’idea di seguire le

orme del genitore. Ma un giorno era all’aeroporto e un amico del padre, che si stava preparando al decollo su un piccolo aereo da turismo, la invitò ad accompagnarlo. La Fiorenza salì a bordo e si divertì talmente tanto che, ap-pena atterrata, corse dal padre e gli chiese quando avrebbe potuto prendere un brevetto. Era strano, sai? Per Mario de Bernardi il volo era la vita: il primo pensiero del mat-tino e l’ultimo della sera. Quando non volava immaginava strumentazioni di bordo, disegnava nella mente modifiche ai motori, calcolava come i venti e la pressione dell’aria avrebbero influito sulle capacità acrobatiche alle diverse velocità e alle diverse altezze. La Fiorenza, invece, i piedi ce li aveva ben piantati sulla roccia, altro che nuvole e cieli infiniti! Eppure, una volta assaporato il brivido del volo, ne restò soggiogata.

E cominciò a prendere lezioni dal migliore maestro in cir-colazione: il padre, il pilota acrobatico Mario de Bernardi. Volando con lui riuscì a capire cosa lo affascinasse così tanto dello stare sospeso nel cielo, eppure fu una faticaccia. Devi sapere che allora tutta la strumentazione di bordo era ma-nuale: qualsiasi cosa tu volessi dall’aereo, dovevi impostarla

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le. Può succedere anche accidentalmente in caso di ava-ria: la velocità diminuisce eccessivamente, l’aereo punta il muso verso terra e comincia a girare su se stesso. Se non vuoi schiantarti devi essere veramente bravo a recuperare l’aereo».

Improvvisamente l’aereo sobbalza e poi sembra precipi-tare nel vuoto. La Coca ribolle nel bicchiere. La bestia si sveglia, il cuore mi batte in gola e sono certo che precipi-teremo e moriremo tra qualche istante.

sai che hai usato un tono veramente acido per un regazzino della tua età? Ho l’impressione che tu sia molto arrabbiato con i tuoi».

Arrabbiato è dire poco: sono incavolato come una biscia, furioso come mai mi era successo in vita. Ma non ho alcu-na voglia di parlarne alla Stramba.

«E insomma, come andarono i primi voli di Fiorenza?» «Mmm, fai il misterioso… Ok, come vuoi tu. Durante

quei primi voli il Mario le nascondeva alcuni strumenti: certe volte le copriva l’altimetro, altre volte l’indicatore di velocità».

«Cavolo! Non stava mica bene il Mario, come lo chiama lei: avrebbero potuto schiantarsi!» dico masticando l’ulti-mo tarallino. La bestia nella pancia sembra gradire, pare essersi addormentata. Per il momento.

«Oh, no, invece stava benissimo! Spiegava alla figlia che doveva imparare a volare e ad atterrare in situazioni di dif-ficoltà, quando le strumentazioni erano in avaria. E poi le diceva che quei piccoli aerei da turismo erano come caval-li: doveva imparare a sentirli con il sedere, prima che con gli strumenti. Che fai se entri involontariamente in una vite? le chiedeva».

«Cos’è una vite?»«Succede quando diminuisci la velocità e viri stretto in

picchiata. Si tratta di una figura acrobatica molto diffici-

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«Oh, Mario, calmati! È solo un vuoto d’aria. Non hanno neanche acceso il segnale per allacciare la cintura di sicu-rezza. Tranquillo. Respira, dai».

«Non siamo entrati in una vite, vero?»Lei scoppia a ridere: «Ma dai! La vite se pò fà solo con gli

aerei piccoletti oppure con quelli grossi de linea, ma giu-sto nei film de Hollywood. Be’ certo, se proprio dovessero spegnersi tutti e quattro i motori contemporaneamente e la velocità fosse insufficiente… Ma non è questo il caso. Quindi stai tranquillo e respira».

«Continui a raccontarmi della Fiorenza, per piacere».«D’accordo. Tu però bevi un sorso di Coca, che sennò mi

svieni. Fatto? Va meglio? Allora, la Fiorenza imparò tante cose insieme al padre: imparò a rinunciare alle false sicu-rezze, come volare sul mare a poca distanza dalla costa. Il pilota dilettante vola rilassato, si gode il panorama e can-

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volo di Fiorenza era sempre rimandato a domani. Domani, domani, ancora domani. Finché l’amica mia un pomeriggio annunciò che sarebbe uscita in volo con l’istruttore Morici, un buon amico del padre, e invece salì a bordo dell’FS3, diede gas e partì per il suo primo volo da solista».

Chiude gli occhi e sorride: «Fu un’esperienza indimen-ticabile! Quando arrivò alla quota prevista, fece un bel re-spiro, poi si arrischiò a togliere per un attimo gli occhi dalla consolle e guardò giù verso l’aeroporto dell’Urbe dal quale era partita. Vide un falco: planava nel cielo romano eppure sembrava immobile, in attesa di lanciarsi su una preda. Le sembrò un segnale che la vita le mandava, pensò che quel falco sarebbe diventato il suo spirito guida, l’ani-male simbolo della sua voglia di libertà. In quel momento, con il rombo dell’FS3 nelle orecchie e gli occhi pieni d’az-zurro, capì che quella passione ormai era diventata parte di sé, più delle montagne e del sogno della baita in Val Gardena. Quella era la passione della sua vita!»

Abbasso le palpebre: cerco di visualizzare il falco e imma-gino il senso di pace che quella ragazza doveva aver provato. La bestia, però, mi disturba e mi gratta la pancia, rovinan-do la quiete di quel volo. Riapro gli occhi al pensiero che quella bellezza doveva essere, anche se forse solo in minima parte, inquinata dalla consapevolezza di aver disubbidito: «E come reagì suo padre? Il mio m’avrebbe fatto nero!»

ticchia felice pensando di essere sicuro perché, in fondo, la terra è lì vicino, la vede, gli sembra di poterla toccare con un dito. Il Mario invece le insegnò che era molto meglio tracciare il percorso tra due punti sulla costa che passasse comunque sulla terra, dove era più facile effettuare un at-terraggio d’emergenza».

Guardo dal finestrino per verificare se stiamo viaggian-do sul mare, ma sotto di noi c’è solo una distesa di nuvole candide e morbide come panna montata.

«Però sull’acqua si può sempre ammarare» suggerisco.«Certo, con tutte le difficoltà di atterrare su una super-

ficie in movimento come un mare agitato. E inoltre una volta ammarati, Mario mio, c’avresti il problema di rag-giungere a nuoto la riva, che ti pareva così vicina mentre volavi, ma che invece sta a parecchi chilometri di distanza! Comunque, dopo tanti voli, dopo molti atterraggi con la strumentazione nascosta, dopo aver imparato a sentire l’a-ereo con il sedere, la Fiorenza si disse pronta a pilotare da sola. E in quel momento Mario de Bernardi si dimenticò di essere l’asso dell’aviazione e si scoprì un semplice padre. Fiorenza era la sua unica figlia e aveva solo ventidue anni: se le fosse successo qualcosa in volo, lui non sarebbe riuscito a sopportare il dolore e il senso di colpa. Perciò nicchiava, tentennava, rimandava: per la prima volta nella sua vita il pilota acrobatico Mario de Bernardi aveva paura. Il primo

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«Un vuoto d’aria, vero?» chiedo. Mi accorgo che sto stritolando i braccioli con le dita.

Rita si allaccia la cintura di sicurezza e annuisce. Mi affretto ad agganciare la mia, ma le mani mi tremano tal-mente tanto che mi ritrovo la signora a sussurrarmi vicino alla spalla: «Mario, Mario, devi fà con calma. Su un aereo nessuno deve muoversi in modo sconsiderato. Tutti devo-no mantenere una calma assoluta».

Fa presto a parlare lei, evidentemente non le è mai suc-cesso di trovarsi in una situazione di pericolo. Neanche a me, a dire la verità, ma la bestia si è svegliata e mi ruggisce nella pancia che precipiteremo da un momento all’altro.

«Allora ti racconto questa. Era una mattina splendente del giugno 1953. La guerra era finita da otto anni ed erava-mo in piena campagna elettorale per le elezioni politiche. Allora, Mario, il mondo era diviso in due blocchi: il blocco

«Il comandante de Bernardi invece fu molto orgoglioso di lei. Certo, all’aeroporto non le disse nulla per salvare le apparenze davanti ai colleghi, visto che in fondo ave-va disubbidito a un suo ordine, ma poi a cena annunciò soddisfatto alla moglie: lo sai che oggi la nostra Fiorenza ha volato per la prima volta da solista? Probabilmente era molto sollevato dal fatto di non dover più esser costretto a decidere quando esporre la sua unica figlia a una situazione potenzialmente molto pericolosa».

L’aereo sobbalza e poi sembra precipitare di nuovo. Qual-cuno urla e si accendono i segnali per allacciare le cinture.

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poteva fare, Mario mio. Sicché i due stavano sorvolando Roma molto bassi – pure quella era una cosa che si pote-va ancora fare nel Giurassico – quando il motore andò in avaria».

La bestia ruggisce dentro la pancia: «Avaria? E quanti motori aveva quell’aereo?»

«Uno. Uno, ed era in avaria. Il Mario e la Fiorenza non persero la calma. Guardarono la città sotto di loro alla ri-cerca di un terreno grande abbastanza per tentare un atter-raggio d’emergenza, ma stavano sorvolando un quartiere denso di abitazioni e non c’era nemmeno un fazzoletto di verde. Il Mario, che era ai comandi, annunciò che avrebbe tentato un ammaraggio sul Tevere, ma poi la Fiorenza gli indicò un giardino circondato da alti alberi. Avevano ve-locità sufficiente per tenere in aria l’apparecchio soltanto per pochi metri ancora. Riuscirono a superare la fila di alberi perimetrali, poi il Mario diede un colpo di pedale deciso a sinistra, per mettere in stallo l’aereo ed evitare di schiantarsi sulla vegetazione della parte opposta del giar-dino. Fece toccare terra all’aereo a sinistra, in modo tale da proteggere dall’urto la figlia, che era seduta a destra. L’impatto fu così forte che il motore si staccò dall’aereo e i due furono sbalzati fuori e rotolarono sull’erba».

«Si fecero tanto male?»«Macché, è meglio rotolare liberi sull’erba che restare

atlantico, formato dagli Stati Uniti e da quasi tutti gli sta-ti europei, e il blocco sovietico, formato dalla Russia e da tutti i Paesi comunisti. I comunisti allora erano visti come il peggior pericolo al mondo, si diceva perfino che man-giassero i bambini. Già, e pensare che adesso non ci sono neanche più! Comunque, eravamo sopravvissuti al secon-do conflitto mondiale per entrare dritti dritti nella Guerra Fredda, una nuova guerra segreta che si combatteva a suon di spie e conquiste spaziali e minacce nucleari. In Italia i grandi partiti erano tre: a destra i conservatori dell’MSI, cioè il Movimento Sociale Italiano, al centro la DC, cioè la Democrazia Cristiana molto legata agli ambienti catto-lici, e a sinistra il PCI, cioè il Partito Comunista Italiano, che guardava con favore al blocco sovietico. La famiglia de Bernardi, come t’ho già detto, era militare e monarchica, quindi era schierata con l’MSI. Anzi, il capofamiglia si era perfino candidato alle elezioni per quel partito. Un giorno padre e figlia fecero un volo sopra Roma con un aereo leg-gero per distribuire i volantini elettorali dell’MSI».

«Mi sta dicendo che volavano sopra Roma e buttavano giù i volantini, così a caso, come se piovesse?» chiedo me-ravigliato. Non ci credo neanche morto. L’aereo intanto continua a sobbalzare, come se percorresse una strada dis-sestata da mille buche e cunette.

«Già, sembra incredibile adesso, vero? Eppure allora si

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capitarono proprio in quello comunista per definizione!» E la tizia scoppia a ridere come se vedesse con i suoi occhi quella scena. È l’unica persona che osa ridere in questo aereo che sobbalza.

Eppure, malgrado la bestia che gratta la pancia e i sussul-ti spaventosi di questo volo, non posso fare a meno di sorri-dere con lei immaginando la situazione: «Blocco atlantico batte blocco sovietico uno a zero, altro che spie e bombe atomiche!»

«Già, credo che il povero ambasciatore russo abbia fa-ticato parecchio a giustificare ai suoi superiori a Mosca il fatto che un piccolo aereo Macchi 308 fosse riuscito ad atterrare abilmente proprio nel suo giardino per ricoprirlo di pubblicità di un partito nemico».

L’aereo sobbalza ancora. Poi improvvisamente pare ritor-nare alla tranquillità e respiro sollevato. È solo un attimo, poi sembra precipitare di piatto verso terra. Una donna, dietro di noi, urla.

imprigionati in una bara di lamiere! I due si rialzarono, increduli di essere ancora tutti interi, in un prato che ave-va cambiato colore: era letteralmente tappezzato di volan-tini bianchi con il simbolo dell’MSI! Dovunque si poteva leggere: Votate Mario de Bernardi! La Fiorenza si spazzolò la gonna con le mani, poi il padre l’aiutò a scavalcare il muro di cinta per andare a chiedere aiuto. Lei raggiunse la sommità del muro, ci si sedette sopra, girò elegante-mente le gambe verso l’esterno, come se fosse in un salotto per bene, e infine saltò giù. Quando atterrò sulla strada si ritrovò davanti un giardiniere incredulo con rastrello e vanga sulla spalla: era stato appena sfiorato da un ae-reo che si era schiantato oltre quel muro. Quel poveretto si aspettava di sentire lo scoppio del velivolo e di vedere un’alta colonna di fumo alzarsi in cielo e, invece, si ritro-vava davanti una bella ragazza che saltava giù dal muro e controllava le calze che, accidenti, le si erano smagliate sul ginocchio. Prima che lui si riprendesse del tutto dalla sor-presa, si era già fermato un tipo in Lambretta che diede un passaggio alla Fiorenza fino al primo bar, dove lei telefonò a casa per avvisare la madre dell’accaduto. Fu solo parlan-do con il barista che la Fiorenza capì che il giardino che avevano tappezzato di volantini dell’MSI era quello della villa dell’ambasciatore sovietico! Capisci, Mario, fra tutti i giardini dove spargere volantini elettorali della destra,

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Le hostess si aggrappano agli schienali e percorrono il corridoio su e giù per tranquillizzare i passeggeri: racco-mandano di tenere le cinture allacciate fino a che non avre-mo passato questa zona di forte turbolenza. Accidenti agli aerei, alle turbolenze, a Bruxelles, a mamma e papà e ai loro progetti professionali del cavolo!

«Hai fratelli, Mario?»«No, sono figlio unico come la sua amica Fiorenza».«Ti sarebbe piaciuto avere un fratello o una sorella?»«Sì, almeno non avrei avuto i miei sempre addosso. Che

poi, con papà ci si può anche ragionare, è un tipo tranquil-lo. Quando non lo fanno arrabbiare in redazione, ovvio. La mattina facciamo colazione con calma, in silenzio, poi lui mi accompagna a scuola a piedi e, se ci va, chiacchieriamo un po’. Dopo va in redazione. La sera torna tardi e spes-so io sto già dormendo. Mamma invece è come un tifone

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lungo, quando eravamo alla primaria. E la domenica tutti i miei amici fanno qualcosa di bello insieme ai loro geni-tori. Da me i fine settimana non sappiamo neanche cosa sono: il sabato io ho la partita, e vabbè, e la domenica papà lavora e allora mamma ne approfitta e studia qualcosa, le altre ricerche internazionali, cose del genere. Perché il pro-blema non è soltanto l’orario di lavoro, ma il tempo totale dedicato al lavoro. Le madri dei miei amici quando escono dall’ufficio non ci pensano più, si dimenticano dei proble-mi e dei colleghi. Mamma e papà, invece, passano un sacco di tempo al computer. E se dobbiamo dircela proprio tut-ta, mamma cucina da schifo, tutta roba surgelata che scal-diamo in microonde. Io credo che le mamme dovrebbero fare le mamme, se vogliono avere dei figli». Ho parlato tutto d’un fiato e soltanto quando smetto mi accorgo che l’aereo non sobbalza più.

Rita la Stramba muove la testa di qua e di là, in un gesto che può voler dire indifferentemente che è d’accor-do, oppure che non lo è: «Anch’io penso che le mamme dovrebbero prendersi cura dei bambini, ma io sono del Giurassico e ai miei tempi era tutto diverso. Oggi tut-te le donne lavorano, e perché non dovrebbero in fondo? Studiano più in fretta e con voti migliori degli uomini, a leggere le statistiche. E poi chi l’ha detto che dei figli se ne debbano occupare soltanto le mamme? Quando ero

tropicale, sempre in movimento. Quando mi passa vicino va così veloce che mi scompiglia i capelli. Inizia a lavora-re prestissimo la mattina e sta via tante ore, così quando torna a casa pensa di dover recuperare il tempo perduto: pretende di sapere sempre cosa penso, cosa ho fatto, cosa sto facendo e pure cosa farò. Mi mitraglia di domande e non mi lascia respirare. Quando c’è lei in casa mi sembra di non avere neppure la libertà di pensare».

«Non è facile per una donna conciliare lavoro e famiglia».«Non è facile neppure per un figlio avere una madre

così. Che poi mamma se l’è scelto quel lavoro, io invece mica ho potuto scegliere che genitori avere!»

La Stramba sorride e mi passa il suo snack dolce: «Tieni, l’avevo preso per te. Magari ti addolcisci un po’. Il mon-do è cambiato, Mario mio, ormai tutte le donne lavorano. Pensa che a tua madre poteva capitare un mestiere addirit-tura più impegnativo».

«Più impegnativo di questo? Non è possibile! La mam-ma del mio amico Edo lavora in banca facendo un part time e il pomeriggio se ne sta tranquillamente a casa. Alle volte non vado dai nonni e pranzo a casa di Edo e lei è sempre allegra e poi ci accompagna a basket senza stare sempre lì a controllare l’orologio e urlare di sbrigarci. E la mamma di Matteo lavora in una scuola materna eppure è sempre riuscita a venirlo a prendere alla fine del tempo

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«Sì, ma…»«Ma se fosse stato tuo padre a trasferirsi a Bruxelles e tua

madre avesse dovuto lasciare il lavoro per seguirlo allora ti sarebbe andato bene?»

Mi mordo il labbro inferiore, perché in effetti la Stramba ha ragione: non sarebbe cambiato niente, mi sarei trovato comunque prigioniero su questo maledettissimo aereo.

«Il problema, Mario mio, non è il lavoro di tua madre, e neppure la sua ipotetica scarsa qualità come cuoca. È Bruxelles. Tu non vuoi andartene da Roma e, credimi, ti posso pure capire. E se proprio vuoi che te la dica tutta, secondo me tu non c’hai paura di volare, tu c’hai paura di questa nuova vita».

Al diavolo pure la Stramba e la sua psicologia del cavolo! Mi volto verso il finestrino e mi faccio accecare dal bagliore del sole. Non intendo più ascoltare nemmeno una parola.

«Non lottare contro il nuovo, Mario. È una battaglia persa. Il nuovo ce se presenta ogni giorno, persino alla mia età, che c’ho novant’anni suonati. Io mica lo sapevo stamattina che ti avrei conosciuto. Eppure, eccoci qua a chiacchierare come se fossimo compagnetti di scuola».

«Fa presto a parlare lei, mica si sta trasferendo a Bruxelles!» protesto dandole le spalle.

Un silenzio prolungato mi fa sospettare di aver detto una stupidaggine. Sono costretto a girarmi e affrontarla.

giovane gli uomini portavano a spasso i cani e le donne le carrozzine. Ora invece nel quartiere mio vedo un sacco di uomini spingere un passeggino, mi fanno tenerezza. Cam-biano il pannolino, danno il biberon, leggono le fiabe della buonanotte, tutte cose impensabili fino a poco tempo fa. E fanno bene, perché se ci pensi i figli sono della famiglia, non esclusivamente delle mamme. E infatti la tua famiglia si trasferisce al completo a Bruxelles, non ci va soltanto tua madre. E comunque, Mario mio, lasciatelo dire: tu stai facendo un discorso davvero misogino per essere un regaz-zetto di quanti anni? Tredici?»

«Dodici. E che vuol dire misogino?»Un dlin sommesso e il segnale di obbligo della cintura

si spegne. Forse siamo usciti dalla zona di turbolenza. In effetti è da qualche minuto che viaggiamo lisci.

«Vuol dire contrario alle donne. Non c’è un solo moti-vo al mondo per cui una donna non possa fare un lavoro tradizionalmente riservato a un uomo. Non credo che fino a qualche anno fa ci fossero tante donne ricercatrici in Ita-lia, eppure tua madre è riuscita a farsi spazio e ha svolto un lavoro talmente egregio che a Bruxelles hanno prefe-rito questa dottoressa italiana rispetto a tutti i ricercatori maschi, belgi, italiani o di chissà dove, che ambivano ad avere quel posto. Io trovo che tu dovresti essere fiero di lei, Mario mio, altroché!»

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guardarla. Si sta sgranchendo lentamente le gambe, ag-grappata a due sedili.

«Chi io? No. Non mi sarebbe proprio stato possibile. Stavo sempre in giro per il mondo, mica ero seduta tran-quilla in un laboratorio avanzato di neuroscienze come mamma tua!»

Adesso Rita la Stramba mi ha proprio stufato: secondo me racconta un sacco di fandonie. L’amica aviatrice, lei che è stata in giro per il mondo così a lungo da non potersi permettere di avere figli, il fatto che alla sua età vada a Bruxelles per un convegno. Ma dai! Accendo l’iPad, col-lego le cuffiette, avvio la mia playlist e chiudo gli occhi.

«Cioè… ecco, non pensavo che anche lei si trasferisse a Bruxelles».

«E che, mi trasferisco a novant’anni? Vabbè arzilla, ma non esageriamo… Vado in Belgio per un convegno. Il pro-blema, comunque, non è perché vado a Bruxelles, il pro-blema sono gli occhiali».

«Gli occhiali?» Devo aver perso un pezzo di discorso.Si china verso di me e abbassa il tono di voce: «Il segre-

to è cambiare occhiali, ascolta la pillola de saggezza che te regala ’sta vecchia signora che ne ha viste di cose nella vita. Rimetti nel tuo zainetto alla moda gli occhiali della paura e indossa quelli della curiosità, che sono pure più co-modi, te pesano meno sul naso e te fanno vedé tutto più a fuoco. La paura, Mario mio, è un sentimento che paralizza. Immagina se adesso avessimo un’avaria e il comandante, invece di decidere in fretta la cosa migliore da fare, stesse a badare alle paure sue. Sarebbe un bel guaio! E pure per te vale lo stesso discorso».

Non le rispondo nemmeno e mi giro di nuovo verso il sole. Sento che la tizia si sta faticosamente alzando. Forse dovrei aiutarla, ma sono davvero troppo arrabbiato. Sono sicuro che, come mia nonna e come tutte le donne della loro età, anche lei è rimasta tranquillamente a casa a cre-scere i suoi figli. Allora è facile parlare così.

«Lei ha figli?» mi scappa di bocca. E sono costretto a

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Sono a metà della prima canzone dei Ministri che una nuova serie di sussulti fa tremare l’aereo. Mi giro per indi-viduare con gli occhi la Stramba, strappandomi le cuffiet-te dalle orecchie. Il segnale sonoro ci avverte di allacciare di nuovo le cinture, ma io mi alzo per cercarla. Eccola lì, a metà corridoio, aggrappata ai sedili. Prima che io rie-sca a muovermi l’hostess bionda l’ha raggiunta e adesso la sta guidando lentamente verso il suo sedile. Quando Rita si siede con un sospiro, l’hostess mi guarda e dice: «Mario, fammi il piacere: fai buona compagnia al nostro ospite VIP fino a che non superiamo questa nuova zona di turbolenza, ok?»

Mi sorride, eppure è stranamente seria. Credo che il vero messaggio sia un ordine: non fare più alzare la Stramba.

«Mario mio, mo te tocca pure farmi da balia!» ridacchia Rita.

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«Ecche ce voi fà… Me parlava tanto di aerei, pressione, voli acrobatici che certe volte mi pareva de essere ’na su-perpilota pure io. Ma chiacchieravamo pure di giovanotti, di feste da ballo, di viaggi da fà in posti esotici, che ti cre-di, eravamo due ragazze normali».

Poi è costretta a tacere, perché i sobbalzi sono così forti che dobbiamo aggrapparci ai sedili.

«Ma la Fiorenza l’ha mai fatto un incidente? Oltre a quello nel giardino dell’ambasciatore russo, voglio dire».

«Mario, ma non è che ti spaventi se ti racconto ’ste cose mentre balliamo così?»

«Magari mi spavento un pochino, ma sarà come raccon-tarsi le storie di zombie la notte di Halloween» dico cer-cando di mantenere un tono di voce fermo.

«E allora ti racconto. Era già una pilota esperta, la Fio-renza, aveva già preso i brevetti di primo, secondo e terzo grado e pure quello di volo a vela. Ma pensava che non si finisce mai d’imparare e quindi si iscrisse al corso per ottenere il brevetto di volo in montagna. Collezionò cen-totrenta atterraggi sulla neve e ottenne l’abilitazione per atterrare su piste in pendenza e innevate. Con il suo aereo volteggiava come un falco tra le cime più alte delle Do-lomiti, quelle che da ragazza aveva scalato tante volte, e poi atterrava nelle situazioni più difficili: con il vento in coda che sembrava volesse scaraventare l’aereo giù nei bur-

«Cosa intendeva con ospite VIP? Lei è una VIP?» chie-do perplesso.

«Come no? Secondo te sono una Very Important Per-son? Ma va, che la hostess oggi c’ha voglia de scherzà! Tut-talpiù potrei essere ’na Very Instability Person, quando mi muovo senza bastone su un aereo in piena turbolenza». Si allaccia la cintura con un sospiro.

«Ma perché c’è una turbolenza se fuori è sereno? Io pen-savo che le turbolenze arrivassero con i temporali».

«Eh no, Mario mio, invece è proprio il contrario. Più il tempo è bello e maggiore è la possibilità di incontrare tur-bolenze in alta quota. Devi immaginare la turbolenza come uno spostamento d’aria non previsto, un cambio improvviso di direzione del vento. Il sole scalda il terreno, che rilascia aria calda, la quale è più leggera di quella fredda e quindi sale verso l’alto. Mi segui? Questo succede soprattutto dopo le quattordici, ora solare. Tieni inoltre presente che la rotta Roma-Bruxelles passa tutta sopra la terra, quindi proprio sopra un vasto territorio che cede aria calda. Che ore sono?»

Controllo l’iPad: «Le quindici e quaranta».«Ma siamo in giugno, quindi in realtà sono le quattor-

dici e quaranta ora solare». Sorride e inclina la testa, come dire: «Che ti avevo detto?»

«Ma lei sa tutte queste cose sugli aerei perché gliele rac-contava la Fiorenza?»

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sull’Adamello e nel pomeriggio si alzò improvvisa una tempesta di neve così intensa da rendere impossibile anche solo il pensiero di accendere di nuovo i motori».

«E quindi?» chiedo con la gola secca. Mi rendo conto solo ora che non le ho mai chiesto se la sua amica è ancora viva. E se quella che mi sta raccontando è stata l’ultima av-ventura di una giovane pilota rimasta sepolta tra i ghiacci dell’Adamello fino al disgelo della primavera successiva?

«E quindi, Mario caro, si organizzarono. La temperatura precipitò presto a venti gradi sotto zero, una condizione asso-lutamente inconcepibile per passare la notte all’interno del-l’aereo. A bordo, però, c’era il kit per l’eventuale sosta forzata: sacchi a pelo e un grande telo impermeabile, pala, fornellet-to da campeggio, viveri d’emergenza, apriscatole, posate e cassetta del pronto soccorso. Con la pala tagliarono la neve ghiacciata in blocchi simili a mattoni che posizionarono sul terreno, li misero uno sull’altro in cerchi sempre più stretti fino ad avere un vero igloo come gli eschimesi…»

Questa poi! «Ma dove aveva imparato la sua amica a costruire gli igloo?»

Mi guarda scandalizzata, come se avessi detto una sce-menza: «Era con Erich! Ma davvero il nome Erich Abram non ti dice niente?»

Scuoto la testa, sentendomi un idiota. O più probabil-mente è lei a raccontare fandonie.

roni, con gli occhiali da sole a proteggersi dai raggi che si riflettevano accecanti sulle superfici innevate, nei costoni in ombra completamente ghiacciati, in mezzo a branchi di camosci in fuga. Fu un addestramento durissimo: spesso la Fiorenza fu costretta, affondata nella neve fino alle ginoc-chia, a battere le piste per poter decollare, oppure a rincor-rere l’aereo parcheggiato che rischiava di scivolare a valle sospinto dal vento implacabile. Per atterrare in montagna devi dimenticare tutto quello che hai imparato prima, per-ché le procedure d’atterraggio sono esattamente opposte a quelle normali: siccome atterri in salita devi dare gas invece di toglierlo e, subito dopo aver toccato la neve, devi mette-re l’aereo di traverso altrimenti slitta giù come un bob fino in pianura. Vado avanti o ti stai a impressionà troppo?»

La turbolenza non ci dà tregua e la bestia mi rosicchia un po’ lo stomaco, ma ce la posso fare. «Tutto ok, vada avanti» riesco a farfugliare.

«Insomma, con il brevetto di volo in montagna la mia amica unì la sua passione per le cime con quella per il volo. Quando sfiorava con le ali quelle rocce che aveva sca-lato da ragazza pensava che non avrebbe potuto desidera-re nulla di più dalla vita. Comunque, quel giorno di cui ti voglio raccontare erano in tre: la Fiorenza e l’istruttore Erich Abram con un aereo, ed Ermanno Monaldo, un altro pazzoide peggio dell’amica mia, con l’altro. Atterrarono

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pure fatti un giretto per le varie cime se avessero avuto più carburante, ma era sufficiente solo per arrivare all’Aeroclub di Trento, dove dall’alba tutti i colleghi scrutavano l’oriz-zonte con il cannocchiale sperando di scorgere i due piccoli aerei con le ali bianche e rosse».

«Per fortuna!» mi scappa detto.«Per fortuna, c’hai ragione, Mario mio» si ferma a guar-

darmi e il sorriso le muore sulle labbra. «Ma che ti parlo a fare, a regazzì! Tu di montagna non ne capisci davvero nulla, vero?»

«In effetti sono sempre andato in vacanza al mare» am-metto.

«Ma un’esperienza de montagna prima o poi la devi fà, se vuoi diventare un uomo. Si capiscono tante cose quando stai sudando aggrappato a una roccia chiedendoti chi te l’ha fatto fare a prendere quella via invece di quell’altra più facile, e sai che devi superare quel pensiero e andare avanti, altrimenti resterai lì immobile fino al tramonto. Si capiscono tante cose quando raggiungi la cima, ti siedi e guardi l’orizzonte che sembra essere lì solo per te e ti godi il silenzio e la soddisfazione di essere arrivato, di aver con-quistato un nuovo obiettivo. Solo in montagna puoi capire chi sei e quanto vali».

«Il mio amico Edo mi aveva invitato ad andare con lui alle gite del CAI quest’estate».

«Oltre a essere istruttore di volo di montagna, Erich era un incredibile alpinista. Pensa che nel 1954 fece parte del-la prima spedizione che conquistò il mitico K2, quando ancora si andava in montagna senza troppe attrezzature tecniche. Scarponi, corde, chiodi, ramponi e soprattutto muscoli e cuore. Per uno che era salito a ottomila metri e aveva visto la morte in faccia tante volte, una notte sull’A-damello era come un giro alle giostre. Quindi quei tre co-struirono l’igloo, si scaldarono i piedi facendo un piccolo falò con i rami che erano riusciti a strappare al vento e un po’ di benzina del velivolo, mangiarono il cibo in scatola e poi si infilarono nei sacchi a pelo. Dentro l’igloo riuscirono ad avere una temperatura di zero gradi. Ogni due ore grat-tavano un po’ di neve nel piccolo bricco in dotazione, poi la scaldavano sul fuoco e ci scioglievano dentro del caffè o del cioccolato solubile. Il soffitto di neve compatta dell’igloo era illuminato all’interno da una candela e all’esterno dal-la luce candida della luna. L’effetto combinato era quello di una strana costruzione azzurro chiaro, nella solitudine della montagna battuta da venti impetuosi. Il silenzio che c’è di notte in montagna, Mario mio, nun lo poi trova’ da nessun’altra parte!» sospira chiudendo un attimo gli occhi.

«E la mattina dopo riuscirono a ripartire?» chiedo, cer-cando di dissimulare l’ansia che mi fa tremolare la voce.

«Eccerto, e chi li fermava quei tre impuniti! Si sarebbero

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A un certo punto sento la mano della mia vicina sul braccio. Mi levo le cuffiette dalle orecchie.

Ho capito che oggi non riesco ad andare oltre il secondo brano.

«Dicevo che secondo me te stai a preoccupà troppo. Se-condo me i belgi sono simpatici. Una volta la Fiorenza mi ha presentato il suo amico Robert Goemans, un pilo-ta belga sposato con una simpaticissima donna russa. Ho sempre pensato che se tutti i belgi fossero stati simpatici come lui mi sarei trasferita volentieri».

«Lo dice solo per consolarmi» protesto.«Questa è proprio una qualità che mi manca: mentire

per consolare qualcuno. Me ne mancano pure molte altre, tipo annacquare le risposte e diluire gli scontri. Mi hanno sempre rimproverata perché ero troppo diretta. Sarei stata una pessima diplomatica».

«Ottimo, e quindi?»«E quindi niente, è arrivata la storia del Belgio». Tutti

i discorsi arrivano sempre lì, alla stramaledetta Bruxelles.«Ma le montagne mica si spostano, stanno lì da millen-

ni e ti aspetteranno. Se ti interessa provare la montagna intavola una trattativa sindacale con i tuoi, pretendi di tornare ogni estate in Italia e di provare una gita del CAI insieme al tuo amico Edo».

«Lei è troppo ottimista, glielo hanno mai detto?»Si mette a ridere: «No, ma mi hanno sempre detto che

ero volitiva, coraggiosa e soprattutto cocciuta come un mulo. Non per niente sono nata a Firenze. Non so se sia vero, ma di sicuro ho sempre lottato molto per conquistare quello che mi interessava».

«Si vede che i suoi genitori non si sono mai trasferiti contro la sua volontà».

«Già, su questo hai ragione. Anche se, in effetti, l’ulti-mo viaggio mio padre lo intraprese contro la volontà mia e di mia madre.» E il sorriso le si spegne sulle labbra.

Per un po’ restiamo in silenzio e io guardo fuori il mare di nuvole sotto di noi, illuminato da un sole abbacinante. Non balliamo più così tanto, ma il segnale della cintura resta attivato.

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sai che c’è? Intanto studio quello che mi piace davvero e poi vediamo la vita cosa mi riserva. Pensava che se non avesse sfondato con l’aviazione, avrebbe potuto lavorare in ambito cinematografico o teatrale. Cinecittà allora era la capitale europea del cinema. Dov’ero arrivata? Ah, sì, che la Fiorenza volava con Robert: vincevano molte gare e lei, facendogli da copilota, imparava tantissime cose. Le assi-milava respirando la stessa aria dell’abitacolo, nutrendosi dei suoi gesti così precisi, assorbendo la velocità delle deci-sioni di quel pilota tanto esperto. L’amica mia aveva avuto i migliori istruttori di volo d’Europa, questo è sicuro. Poi iniziò a volare insieme a Graziella Sartori, un’altra sciroc-cata come lei che aveva il volo nel sangue, e costituirono un improbabile equipaggio femminile. Nel ristretto mondo del volo acrobatico tutti le guardavano con un sorrisetto di scherno: due donne alla guida di aereo acrobatico, pfui, che ci tocca vedere! Eppure cominciarono a vincere una gara dopo l’altra. Decisero di investire in carburante la somma guadagnata con i premi e partirono con un Macchino 308 che la Graziella possedeva in comproprietà con un amico».

Questa Fiorenza ha davvero una storia infinita: «E dove andarono?»

«Il Macchino era un triposto, ma loro tolsero il terzo sedile, in modo tale da avere più spazio per i bagagli e per un serbatoio supplementare da quaranta litri. In quel

In effetti quella volta che ha affrontato Danni non sem-brava una che si sottrae allo scontro.

Sospiro, rassegnato a un nuovo racconto: «E cosa ci face-va la sua amica con quel belga?»

«Partecipavano alle gare estive. D’inverno la Fiorenza, che intanto aveva finito l’Accademia di Belle Arti…»

«Cos’è l’Accademia di Belle Arti?»«C’hai ragione, parlo come se tu avessi vent’anni! È l’u-

niversità dove studi i vari aspetti dell’arte. L’amica mia aveva scelto la specializzazione di scenografia, dove ave-va imparato come preparare l’ambientazione per le opere teatrali e per i film. Comunque, te dicevo, lei d’inverno accettava degli incarichi temporanei alla FAO che, prima che me lo chiedi, te spiego subito che è l’organismo inter-nazionale che si occupa della fame nel mondo. Lavorava per pagarsi le ore di volo e poi d’estate gareggiava insieme a Robert…»

«Certe volte penso che lei mi prenda in giro. Perché una che ama volare studia all’Accademia di Belle Arti e poi va a lavorare in questa FAO?»

Lei scoppia a ridere: «Era la stessa cosa che le diceva-no tutti. Lei in realtà voleva soltanto volare, e questo le era chiarissimo, ma non era così facile per una donna ne-gli anni Cinquanta inserirsi in quel mondo. Così, quando aveva dovuto scegliere l’università, aveva detto tra sé e sé:

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per l’occasione. Erano delle pilote un po’ pazzerelle, ma sapevano perfettamente come bisognava comportarsi nelle situazioni ufficiali. Così tirarono fuori dal bagaglio l’unico vestitino caruccio che si erano portate, cercarono di liscia-re il tessuto tutto ciancicato, improvvisarono una messa in piega ai capelli e si presentarono a Villa Italia. Il re e la moglie, che se chiamava Maria José ed era straordina-riamente bella, le ricevettero con grande cortesia. D’altra parte la Fiorenza era pur sempre la figlia del grande Mario de Bernardi… Ma t’ho già detto che una volta il Mario quasi litigò con Mussolini?»

«Mussolini?» Che c’entra ora Mussolini con il re in esi-lio in Portogallo? Mi gira la testa.

«Questa la devi proprio raccontare a papà tuo, che è giornalista e ’ste cose le conosce meglio de te. Prima dell’i-nizio della guerra, il maggiore de Bernardi fu convocato da Mussolini per avere un parere sulla flotta di aerei in dotazione all’Aeronautica Italiana. Il Mario valutò la si-tuazione, il numero e le condizioni generali degli aerei, la potenza di fuoco delle armi installate e altri elementi che mo non te so dì. Ricontrollò i dati e poi disse al Duce: con questa flotta una guerra nun se pò fà! Mussolini incassò a malincuore, non era abituato alle critiche. Batté sulla spalla del Mario e gli disse con il suo vocione basso e in-confondibile: siamo un po’ pessimisti, de Bernardi!

modo potevano volare sei ore di seguito a una velocità di 150 km orari».

«Capirai, mio padre in autostrada guida più veloce!»«A regazzì, anche loro potevano volare più veloce, ma

solo a quella velocità di crociera si garantivano un consu-mo ottimale. Quindi partirono libere come l’aria e dopo una sosta in Francia e una in Spagna arrivarono in Porto-gallo, dove, per uno strano giro che mo non ti sto a spiegà, furono ricevute da re Umberto II».

«Dal re del Portogallo?»«Beata ignoranza! No, dall’ultimo re d’Italia: Umberto

II di casa Savoia. Cioè, a quel tempo era ormai un ex re. Era stato re per pochissimo, un mese più o meno, dopo la seconda guerra mondiale. Poi con il referendum del giu-gno 1945 gli italiani scelsero di avere una repubblica, cioè la metà risicata degli italiani scelse di avere la repubbli-ca… Insomma, questa è un’altra storia. Il re Umberto in seguito al referendum fu esiliato dall’Italia e…»

«Cosa intende per esiliato?»«Ma che ve fanno studià a scuola? Esiliato vuol dire che

non poteva più vivere in Italia, lui e in seguito tutti i di-scendenti maschi della famiglia reale Savoia. Così re Um-berto si trasferì con la famiglia a Cascais. Quando ricevet-tero l’invito, la Fiorenza e la Graziella non sapevano che fare. Volevano accettare, ma non c’avevano l’abito giusto

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«Insomma, ’sto Maner Lualdi era famoso perché univa le sue due passioni, il giornalismo e l’aviazione, per scrivere dei reportage seguitissimi dai lettori del Corriere della Sera. In quel momento, era il 1957 se non sbaglio, lui stava partendo per una speciale crociera verso il Sud America: una trasvolata atlantica con l’Angelo dei bimbi, un piccolo aeromobile Grifo 1001 Ambrosini, per raccogliere fondi per i bambini mutilati dalla guerra o colpiti dalla polio-mielite che erano ospiti dei collegi della Fondazione di Don Gnocchi».

Mi guarda e sospira: «Povero Mario, te sto a riempì la capoccia con tutti ’sti nomi di gente che è morta da tem-po… Comunque le due amiche, dopo una settimana di vacanza in Portogallo, che trascorsero tra bagni in mare, cavalcate con i principi Savoia e mille altre piacevolezze, ripartirono per la Spagna. Lì andarono a vedere una cor-rida a Siviglia… Mario mio, quanto rimasero inorridite! Immagina questa arena piena di gente eccitata, dove a un certo punto fanno entrare un giovane torello che annu-sa incuriosito quell’ambiente sconosciuto. Sembra tutto tranquillo, lui gironzola un po’ perplesso chiedendosi quando lo riporteranno alla fattoria, che je mancano tanto i fratelli, ma poi quei disgraziati dei bandilleros comin-ciano a colpirlo con le lance. Vigliacchi: in tanti contro un animale indifeso! È solo in quel momento che il torello

Quando arrivò a casa il Mario ricevette una telefonata da parte di un furente capo della polizia che gli urlò: de Bernardi, come ha osato contraddire il Duce? Lui non si scompose e replicò che aveva semplicemente detto la ve-rità: quella flotta non era adeguata per affrontare un con-flitto mondiale. Io la rovino, la mando al confino! gli ur-lava l’altro. Lo faccia pure, è tanti anni che non mi prendo una vacanza, replicò il Mario imperturbabile. Il Mario era fatto così, non avrebbe mai mentito né al Duce né al re riguardo alla situazione aeronautica italiana. Pensava che dare una valutazione tecnica obiettiva fosse il suo dovere di soldato».

Rita prende fiato, poi mi guarda perplessa: «Com’è che ti ho tirato fuori ’sto discorso di Mussolini?»

«Stava parlando del re in Portogallo».«Giusto! Allora, le due giovani pilote finirono per fare

amicizia con gli ex sovrani, e pure con le figlie, che avevano più o meno la loro età. Credo che l’esilio renda i re un po’ meno re del solito… Comunque, a Villa Italia conobbero anche un giornalista aviatore, che si chiamava… aspetta un po’, ah, ecco: Maner Lualdi. Chiedi un po’ a tuo padre quando lo vedi, lui l’avrà di sicuro sentito nominare».

Maner Lualdi, annoto mentalmente. Le possibilità sono due: o mio padre non l’ha mai sentito nominare, oppure sa chi è e io faccio un figurone.

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le: la nuvolosità era di media entità, solo quattro su otto, potevano proseguire tranquille. La loro impressione, però, era che le condizioni di visibilità stessero progressivamen-te peggiorando man mano che avanzavano verso Valencia. Viaggiavano praticamente alla cieca in un denso corridoio di nuvole».

Mi sporgo dal finestrino e controllo sotto di noi. Non si vede nulla oltre il bianco accecante dello strato compatto di nuvole. Mi chiedo se siano le stesse condizioni atmosfe-riche di quella volta, ma non oso chiedere.

«A un certo punto dalla torre di controllo le avvisarono che stavano volando proprio sopra l’aeroporto e che la den-sità delle nuvole era diventata otto su otto anche a quota terra. Non era più possibile atterrare a vista, dovevano usa-re la strumentazione antinebbia».

«E la usarono?» chiedo mentre la bestia nella pancia borbotta irritata.

«L’avrebbero usata volentieri, ma il Macchino era un tipo di aereo leggero che ne era sprovvisto».

«E allora cosa fecero?» La bestia si sveglia del tutto e si stiracchia.

«Eh, cosa fecero… Decisero di tornare indietro verso l’aero porto più vicino, che era quello militare di Albacete. Volarono con il cuore in gola fino a che sbucarono dal ban-co di nuvole e rividero finalmente il terreno, le montagne

capisce di essere in pericolo e cerca di saltare lo steccato per mettersi in salvo: improvvisamente è tutto uno sbatte-re di corna e di zoccoli, mentre la gente si infiamma, urla e incita. E allora entra in scena il toreador che, con mille mossette da finto superuomo, affronta il povero animale e lo sfianca fino ad ammazzarlo. Uno spettacolo indegno di una società civile! Le due ragazze ne uscirono disgustate e angosciate e giurarono di non mettere mai più piede in un’arena in vita loro!»

Lei mi guarda indignata. E, non so perché, finisco per giurarlo anch’io, in silenzio: non andrò mai a vedere una corrida. Sospira e poi riprende il racconto: «Poi andaro-no a Granada a visitare l’Alhambra. Che meraviglia! Se non l’hai ancora vista, Mario mio, devi proprio andarci. L’Alhambra è una fortezza meravigliosa, costruita verso il 1200, che ancora sta lì imperturbabile a guardia della città».

«Allora quelle due hanno fatto pace con gli spagnoli, alla fine».

«E mica tanto, l’Alhambra è stata costruita dagli arabi! Comunque, le due ragazze dopo Granada ripresero il volo per raggiungere Valencia: la giornata era stata bella fino a quel momento, eppure presto entrarono in uno strato di nubi molto denso. Piuttosto preoccupate, chiesero infor-mazioni a terra, e gli operatori si affrettarono a confortar-

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medico condotto con la borsa del primo soccorso, le guar-die, il padrone del campo e molte altre persone con le torce in mano, compresi i bambini con gli occhi pieni di spa-ventato stupore per qualcosa che non avevano mai visto prima. Puoi immaginare la loro sorpresa quando i fasci di luce illuminarono due donne giovani, carine e in perfetta forma che si davano da fare attorno al piccolo aereo! Quelle persone furono gentili e ospitalissime: pensa, Mario, che il titolare del piccolo cinematografo le invitò perfino alla proiezione serale di un vecchio film in bianco e nero con il mitico Amedeo Nazzari. Sì, vabbè, mica puoi saperlo che era un attore italiano famosissimo in quegli anni!

Il giorno successivo la Fiorenza e la Graziella tornarono al loro Macchino insieme all’ufficiale comandante dell’ae-roporto di Albacete, che le aveva raggiunte con un bravo meccanico per riparare i danni. Dietro di loro, il codazzo vociante e festoso degli abitanti di Alpera. Mai, prima di allora, nel loro piccolo paese era successo qualcosa di tanto eccitante! E quando le ragazze accesero i motori il burbe-ro comandante e il suo meccanico dovettero ricredersi: il fedele Macchino era ancora in ottima forma! Trascinan-dolo e tirandolo lo portarono su una strada asfaltata dove la Graziella, fra lo stupore generale, decollò senza alcu-no sforzo. La gente applaudì fino a che l’aereo diventò un puntino all’orizzonte. In castigliano dissero che era l’aereo

e i fiumi e le case. Raramente un panorama sembrò loro più bello!»

La bestia si quieta e mi permetto di rilassarmi un pochi-no: «Per fortuna!»

«Già, ma fu un sollievo che durò solo il tempo di rendersi conto che il sole stava già tramontando e che non avevano il tempo sufficiente per raggiungere il piccolo aeroporto di Albacete. Sarebbero arrivate con il buio e l’atterraggio in quelle condizioni era impossibile! Era questione di minu-ti: dovevano capire in fretta cosa fare».

Deglutisco e immagino un piccolo aereo che vola basso verso il tramonto.

«Sorvolarono un terreno pianeggiante e decisero che po-teva essere il posto giusto per tentare un atterraggio d’e-mergenza. Si guardarono negli occhi, si augurarono silen-ziosamente buona fortuna, rallentarono e persero quota il più in fretta possibile. Non era proprio una pista asfaltata, ma riuscirono a toccare terra e fermare il Macchino senza procurargli danni apparenti. Gran bell’aereo il Macchino, Mario mio, ha un carrello triciclo che gli permette di at-terrare in uno spazio ristretto a velocità ridotta! Comun-que: il tempo di scendere dall’abitacolo e furono raggiunte da tutti gli abitanti del vicino paesino di Alpera, accorsi per recuperare quelle che immaginavano le vittime dila-niate di un brutto incidente di volo. C’erano il sindaco, il

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e dei suoi ufficiali che le salutavano dalla terrazza della tor-re di controllo. Scommetto che anche quei militari ricor-darono a lungo l’episodio: due donne protagoniste di un atterraggio d’emergenza senza alcun danno al velivolo!» ridacchia soddisfatta.

più bello che avessero mai visto. La Fiorenza li ascoltava orgogliosa».

«La sua amica era rimasta a terra?» chiedo perplesso. Dopo tutto quello che mi ha raccontato finora, non riesco a credere che la Fiorenza avesse abbandonato l’aereo!

«Era indispensabile non appesantire troppo quel primo volo di prova e valutare meglio le condizioni del Macchino dopo l’atterraggio d’emergenza. La Fiorenza caricò i ba-gagli e il serbatoio supplementare di carburante sull’auto del comandante e poi fu tutto uno stringere mani, com-menti, saluti e promesse di rivedersi in una nuova lingua nata dall’italiano, dal castigliano e dall’amicizia. Quando riuscì a salire in auto, l’amica mia salutò con la mano fino a che gli abitanti di Alpera non sparirono alla vista dal cruscotto posteriore. All’aeroporto trovò la Graziella eufo-rica e pronta a ripartire. Dopo aver caricato i bagagli e il serbatoio, dopo aver ringraziato e salutato tutti un numero imprecisato di volte, decollarono. Ma prima di perdersi nel cielo spagnolo ripassarono in volo sull’aeroporto per battere le ali, cioè dondolare l’aereo leggermente a destra e a sinistra, per ringraziare tutti i militari che le avevano aiutate e che ora erano schierati davanti all’hangar sull’at-tenti, con la mano sulla tesa del cappello. L’ultima cosa che le due ragazze riuscirono a distinguere allontanandosi verso Barcellona furono le divise bianche del comandante

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Mi rimetto le cuffiette nelle orecchie e faccio ripartire le canzoni del mio gruppo preferito. Ma non le ascolto davvero, diventano il sottofondo dei miei pensieri. Guar-do fuori e mi godo il momento. Un momento tranquillo tutto mio. Certo che questa Fiorenza de Bernardi ha avuto davvero una vita straordinaria! Una di quelle vite che ti riservano una sorpresa ogni giorno. Anche a me da grande piacerebbe una vita così. Non a Bruxelles, ovvio. Mi giro verso Rita e la osservo di sottecchi. Se ne sta tranquilla, guardandosi le mani e rigirandosi un anello d’oro giallo tutto consumato. Mi sembra quasi di sentire il rumore sommesso dei ricordi che le tornano alla mente, delle im-magini di questa amica allegra e portatrice sana di avven-tura che la raggiungono da un passato antico. Mi sembra un rumore placido, come quello che ho sentito l’anno scor-so quando abbiamo fatto una gita in battello sul delta del

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«Perfetto! Se aspettiamo ancora, poi entriamo in fase di atterraggio. Va bene se porto con me anche il giovanotto?» chiede la Stramba.

Dove deve portarmi? Ma di cosa stanno parlando queste due?

«Per noi non c’è problema. Mario, vieni anche tu allora. Ti nomino ufficialmente cavaliere della nostra VIP. Le dai una mano tu, allora, mentre vi precedo» dice la bionda, e di nuovo il tono non è affatto di cortese richiesta. Risuona come un ordine. E quindi vorrei dirle che si arrangi, non so neanche cosa mi sta chiedendo! Sono stufo di tutta questa gente che decide per me. E poi vorrei proprio sapere perché continua a definire la mia compagna di viaggio una VIP. Vorrei dirle che non mi muovo di qui se non mi spiegano per bene chi, dove e soprattutto perché. E col cavolo che vado, se prima non mi chiedono se sono d’accordo. Si ripe-te, come un destino già deciso, la stessa situazione di Bru-xelles. Ma poi la Stramba mi fa l’occhiolino e io non resisto alla curiosità: appoggio l’iPad sul sedile e lo copro con la felpa, mentre lei si alza con tutta l’agilità consentita dai suoi novant’anni. Per fortuna l’aereo sta finalmente viag-giando senza più turbolenze. L’hostess ci fa strada, mentre io e la Stramba, che cammina con la mano appoggiata alla mia spalla, la seguiamo. L’aereo è un mondo iperabitato compresso in pochi metri quadrati. Sbircio questa parte

Po: l’acqua che si muove senza sforzo, l’erba che danza nel vento, gli uccelli che si scambiano pettegolezzi da un rifu-gio segreto all’altro. Chissà com’era questa signora da gio-vane! Mi parla tanto della Fiorenza, ma di sé neanche una parola. Eppure non mi dà l’impressione di essere timida e riservata. Che abbia qualcosa da nascondere? Che sia stata una spia durante la Guerra Fredda? Ma certo, avrebbe po-tuto approfittare dell’amica pilota per viaggiare nascosta in quei piccoli aerei! Ecco perché conosce così bene tutti i particolari di quel viaggio in Spagna. E ora che faccio? Glielo chiedo o faccio finta di niente?

Guardo fuori, per decidere che fare. Mi perdo nella luce e nella musica. L’ultimo momento di pace prima del prossimo atterraggio a Bruxelles, l’ultimo momento tut-to mio, prima di subire l’assalto dei miei genitori, il loro entusiasmo e le loro aspettative. So già che sarò costretto a mostrarmi felice. Sospiro. La buona notizia è che la bestia si è riaddormentata dentro la pancia, stordita da tutte le chiacchiere della mia compagna di volo. Che poi non so neanche chi sia questa Rita: che lavoro ha fatto, se è sposa-ta, che vita ha avuto. Ma quando mi giro per chiederglielo la hostess bionda è chinata su di lei e le sta parlando sor-ridendo.

Mi levo le cuffiette in tempo per sentire che le dice: «Per noi va bene anche adesso, se vuole!»

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le, poco più alta di me, eppure trasmette una sensazione di grande forza. Tende la mano alla Stramba: «Comandante de Bernardi, è un onore e una gioia averla a bordo con noi!»

De Bernardi? Quella de Bernardi?«Oh, quante storie per una vecchia signora acciaccata!»

La Stramba scuote la testa, ma si capisce perfettamente che le fa molto piacere questa accoglienza.

«Non sono mai abbastanza, invece. Se lo lasci dire, co-mandante. È solo grazie a lei se noi donne siamo arrivate a guidare un aereo di linea! Ogni volta che la incontro ai convegni, o vedo una sua intervista in televisione, mi incanto a sentirla raccontare. La sua è una storia meravi-gliosa».

Convegni? Televisione?«Una volta si diceva: donne al volante, pericolo vagan-

te. Adesso con la parola cloche ci manca la rima. Ci avete levato anche questo: la possibilità di fare battute maschi-liste» commenta sorridendo l’altro pilota. Le due donne ridono. Io sono troppo stordito per farlo.

«E questo bel giovanotto è suo nipote?» chiede la pilota.«No, purtroppo no. È un caro ragazzo che mi siede ac-

canto e che sto a riempì de chiacchiere» risponde la Stram-ba, cioè la de Bernardi, e mi rifila un pizzicotto sulla spal-la. Un pizzicotto di avvertimento. Come se lei si aspettasse qualcosa da me.

anteriore per capirne la destinazione: a sinistra c’è la por-ta della toilette, a destra uno spazio tipo ripostiglio dove l’hostess bruna sta mettendo in ordine il carrello delle be-vande. Provo un brivido di eccitazione al pensiero di esse-re dove tutti gli altri passeggeri non possono stare, nella zona segreta dell’aereo. Mi sembra di essere entrato in un nuovo film, diverso da quello che stanno guardando tutti gli altri viaggiatori. Poi l’hostess bussa all’unica porta che abbiamo davanti e la apre. Quando si sposta per lasciarci passare rimango senza fiato. È la cabina di pilotaggio! Un unico finestrino arrotondato si apre sull’immensità acce-cante dell’orizzonte, i due posti di guida sono divisi da una sezione che ospita una grande leva, quattro piccoli mo-nitor e tutta una serie infinita di quadranti grandi come una sveglia, con degli indicatori simili alle lancette di un orologio. Ci sono due piloti in divisa blu: un uomo ai co-mandi di sinistra, e una donna a quelli di destra, entrambi girati verso di noi con un’espressione incuriosita.

«Ma buongiorno!» dice la Stramba con un’espressione divertita nella voce.

Si conoscono?«Buongiorno, comandante!» rispondono in coro i piloti.Comandante?La donna dice sottovoce al collega: «Ti lascio i comandi».

Poi si alza, sollevando gli occhiali da sole sulla testa. È esi-

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mondo, io scendo. La mia collega non fece una piega e gli rispose: per piacere, non scenda. Scendo io, non si preoc-cupi. Le mando un mio collega maschio: c’ha duemila ore di volo meno di me, ma indossa i pantaloni».

I tre ridono di gusto. Quando si riprende, la comandan-te chiede: «E quello cosa fece?»

«E che doveva fà? Restò sull’aereo. Pensò che in caso di pericolo le duemila ore di volo erano più importanti della gonna del comandante» risponde l’ex Rita.

«Mario, lascia perdere le donne, che non hai ancora l’età giusta, e vieni qui a parlare tra uomini. È la prima volta che entri in una cabina?» mi chiede il pilota Guardi.

Faccio un passo verso di lui: «È la prima volta che volo, praticamente. È tutto così… strano. Non mi aspettavo di entrare qui. Non ero preparato… Non sapevo neanche che la signora fosse Fiorenza de Bernardi… Non so cosa dire».

Ha le mani sul volante, che l’ex Stramba ora de Bernardi mi ha detto essere la cloche, e davanti a sé ha un’altra serie infinita di piccoli monitor, quadranti e levette.

«Ti piacerebbe diventare pilota?»«Io? No, cioè credo di no. Non ci ho mai pensato».«Invece io lo pensavo fin da quando ero piccolissimo.

Sai quando ti chiedono cosa vorrai fare da grande e tu ri-spondi a caso il pompiere, soltanto perché giochi con il camion dei pompieri, oppure l’astronauta, giusto perché

Sono costretto a riprendermi dallo sbigottimento. «Sono Mario Vanni, piacere» dico tendendo la mano, come mi hanno insegnato i miei genitori.

«Ah, ecco, adesso ho capito: sei il nostro minore non accompagnato. Piacere Mario, sono il comandante Laura Dominicis e lui è il mio copilota Marco Guardi». Mi strin-ge la mano così forte che rimpiango di avergliela tesa.

«Dalla voce dell’annuncio non avevo capito che lei era una donna» mi scappa detto.

«Non ti preoccupare, non lo capisce nessuno. Il nostro cervello non è ancora programmato per accettare donne in posizioni tradizionalmente maschili. Diamo per scontato che certi lavori, come il comandante di un aereo di linea, possano svolgerli soltanto gli uomini e questo è sufficiente per credere che siano maschi anche di fronte all’evidenza di una voce femminile. Ho pensato spesso a quello che lei, comandante, racconta ai convegni: di quando ha preteso di indossare l’uniforme con la gonna per far capire a tutti fin dalla prima occhiata che era una donna. Credo sia stata molto coraggiosa e molto intraprendente: altre donne, al suo posto, avrebbero cercato di mimetizzarsi».

«E perché mai? Nessuno dei miei passeggeri si è mai lamentato di avere un comandante donna. A una mia col-lega francese, invece, un giorno capitò un passeggero che vedendola disse: ’na donna a guidà l’aereo? Non esiste al

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l’infinito che ho il privilegio di guardare da qui. È incre-dibile: penso che dev’essere davvero bellissimo guardare la terra avvicinarsi durante l’atterraggio, vedere macchie di colore indistinte trasformarsi in palazzi, strade, giardini, persino automobili, forse. Quando lo racconterò ai miei genitori resteranno senza parole. La bestia intanto non si muove, anche se ho pensato all’atterraggio. Lo prendo come un buon segno.

«Che atterraggio ci aspetta?» chiede Rita. Anzi, la co-mandante de Bernardi, anzi la Fiorenza, accidenti a lei, che nomina l’atterraggio proprio mentre io ci sto pensando.

La Dominicis fa una smorfia con la bocca, che non riesco a decifrare, e allora la Fiorenza dice: «Ho capito: pioggia e venti moderati». Scandisce moderati, lo dice proprio così: mo-de-ra-ti. Chissà perché, penso che, pronunciata così, quella parola non significhi più moderati uguale medi uguale non pericolosi, ma qualcosa di completamente di-verso. Il problema è che non so cosa. La bestia si muove, senza svegliarsi del tutto.

«E allora vi lasciamo iniziare le procedure d’atterraggio. Noi torniamo a sederci, vero Mario? Buon lavoro» dice Rita, anzi la Fiorenza.

«Va bene. Grazie… grazie mille e… buon lavoro. Cioè… arrivederci!» dico voltandomi per uscire. Ma perché arrive-derci? Non li vedrò mai più in vita mia! Che stupido: avrei

hai visto dieci volte di seguito lo stesso film di fantascien-za, o il veterinario, dato che ami alla follia i due cani di casa? Ecco, io invece rispondevo: voglio guidare l’aereo, così, senza motivo, senza esserci mai neppure salito su un aereo. Eppure mi incantavo a vederli passare, sopra la mia testa, alti nel cielo: mi chiedevo dove andavano, quante ore ci avrebbero messo ad arrivare, cosa stava provando il pilota mentre guidava. Strano, vero? E poi ce l’ho fatta, ed eccomi qui» dice con accento napoletano.

Mi chiedo come possa riconoscere i pulsanti giusti. Come possa evitare di sbagliarsi. In fondo sono tutti vici-ni, a un centimetro uno dall’altro.

Sbircia dietro di sé con lo sguardo nascosto dagli occhia-li da sole a specchio e legge la mia espressione: «Ti stai chiedendo come si fa a non sbagliare, vero? Nello stesso modo in cui un pianista ritrova a memoria i tasti giusti durante un’esecuzione velocissima. Sai dove sono e questo è sufficiente».

«Ma se il pianista sbaglia non succede niente di grave, si becca qualche fischio e stop. Se lei sbaglia, invece…»

«Io non sbaglio. Ma se sbagliassi ci sarebbe il coman-dante» ride lui e indica la sua collega. Mi giro verso le due donne, che stanno parlottando a bassa voce. Colgo solo dei riferimenti a un convegno al quale evidentemente parte-ciperanno entrambe e a un premio. Le lascio parlare e fisso

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DLIN. Signore e signori, è il comandante Dominicis che vi parla. Abbiamo iniziato la discesa verso l’aeroporto di Bruxelles, dove atterremo tra venti minuti. Come preannunciato il tempo a terra prevede pioggia, venti moderati e una temperatura di quin-dici gradi. Vi preghiamo di allacciare le cinture di sicurezza, di riporre lo schienale in posizione verticale e di chiudere il tavolino di fronte a voi. Da questo momento tutti i dispositivi elettronici devono essere spenti fino a quando l’aeromobile sarà fermo e par-cheggiato al gate. Grazie per la collaborazione.

Adesso sento chiaramente che è una voce femminile. Mi chiedo quanti passeggeri abbiano capito che la loro vita è nelle mani di una donna simpatica, con i capelli tagliati corti e gli orecchini di perle. Una che si chiama Laura e che pensa che la mia vicina di posto sia una superdonna.

«Perché mi ha detto di chiamarsi Rita?» chiedo appena siamo seduti.

dovuto dire qualcosa tipo… Avrei dovuto salutarli meglio, ma il problema è che non so con precisione qual era il modo in cui avrei desiderato salutarli, cioè come avrei desidera-to che in seguito loro si ricordassero di me. Sono troppo scosso per riflettere con lucidità. Uffa, penseranno che sono soltanto un bambino, che non sono nemmeno capace di mettere due parole una davanti all’altra. Amen. Sento la mano di Fiorenza sulla spalla e vorrei scrollarmela via.

La testa mi frulla di domande, ma non dico niente fino a che non raggiungiamo i nostri posti, e non aiuto la Stram-ba, cioè Fiorenza, a sedersi.

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«Non dimentico un viso neanche a distanza di anni. E poi eri irresistibile: quel giorno avevi l’espressione di un gattino bagnato che si chiede chi caspita gliel’ha fatto fare di uscire con il diluvio. Tu e quel tipo eravate proprio in-congruenti insieme, come il sole e la luna, il bianco e il nero, un monarchico e un comunista: questo ho pensato. Poi ti ho rivisto qui e mi sono detta che avevo la possibi-lità di scoprirlo».

Sento le orecchie bollenti e vorrei sotterrarmi sotto uno strato di ghiaia per nascondermi al mondo. Che figuraccia!

«Adesso non ti imbarazzare, Mario mio. Succede a tutti di fare una stupidaggine nella vita. Anche due. Be’… certe volte anche tre stupidaggini in fila. Basta accorgersene in tempo. È che raccontare la propria storia è una faccenda delicata: significa aprire le porte di casa a uno sconosciuto. Se poi quella non è la persona giusta, magari ti ritrovi la casa devastata».

«È che… quel giorno ero arrabbiatissimo: avevo appena saputo che ci saremmo trasferiti a Bruxelles. Nessuno mi aveva chiesto se ero d’accordo, se mi andava di abbando-nare la mia vita per andare in una città sconosciuta. Tutti davano per scontato che ne fossi felice. Tutti hanno sem-pre pensato che io fossi bravo e ubbidiente: uno che non dà problemi, che studia, che fa sport, che non bullizza i compagni. E che avrei ubbidito anche quella volta. Quel

«Io mi chiamo Rita, anche. Il mio nome completo è Fio-renza Anna Maria Rita de Bernardi. Rita perché sono nata il giorno di santa Rita, il 22 maggio» precisa.

«E allora? Perché mi ha raccontato di essere solo un’a-mica di Fiorenza? Si è divertita a prendermi in giro? An-che lei pensa che siccome ho solo dodici anni non merito rispetto, non merito di ascoltare la sua vera storia. Sono sicuro che se ci fosse stato un adulto seduto qui al posto mio non si sarebbe comportata nello stesso modo».

«Nient’affatto! La tua età non c’entra proprio niente».«Sì, come no! Io, però, le ho raccontato di me e del fatto

che sono arrabbiato con i miei».«Mario, calmati. Davvero vuoi sapere perché non ti ho

detto subito chi ero?»Mi squadra con freddezza e allora perdo un po’ di slan-

cio. Forse adesso non sono proprio sicuro-sicuro di volerlo sapere. La bestia risale lentamente verso la gola. Degluti-sco, mi faccio coraggio e rispondo con un «Certo che lo voglio sapere» che suona falso persino a me.

«Ok, la verità vera è che prima volevo accertarmi che quel tipino che avevo visto in compagnia di un delinquen-tello da quattro soldi fosse il bravo ragazzo che avevo im-maginato. Se valeva la pena di affidargli la mia storia».

Deglutisco a vuoto. La saliva sembra essere evaporata: «Mi aveva riconosciuto?»

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si è allontanata dalla finestra. Il suo sguardo mi ha fatto sentire sporco, come se avessi commesso qualcosa di vera-mente grave. In effetti avevo bruciato scuola e, prima della mattina successiva, avrei anche dovuto falsificare la firma arzigogolata di mamma sul libretto, altrimenti sarebbero stati guai grossi. Poi avevo rovinato i jeans nuovi e chissà quando me ne avrebbero comprato un altro paio. E pensai che forse Danni in quella cantina era andato a prendere della droga, che magari ci avrebbero fermato i poliziotti e mi avrebbero portato in commissariato come complice. Avrebbero telefonato ai miei, non riuscivo neanche a im-maginarlo: nessuno avrebbe creduto che era la prima volta che uscivo con Danni, che praticamente nemmeno cono-scevo. Un disastro! Mi prese una ansia tale che scappai via, corsi senza mai fermarmi, via via via, a caso, una strada dopo l’altra, un incrocio dopo l’altro senza chiedermi dove fossi, fino a che, non so come, arrivai dalle parti di scuola. Lì aspettai l’orario giusto e poi tornai a casa dei nonni, come se niente fosse».

«E poi?»«Dovevo avere un’espressione colpevole perché, appena

entrato in casa, nonna mi indirizzò uno dei suoi sguardi da poliziotto e mi chiese cosa era successo ai miei jeans. Io balbettai che ero inciampato nel cortile della scuola ma lei, che sa cucire benissimo, alzò un sopracciglio perplessa.

giorno ho pensato che a essere bravi non si guadagna nulla, che se volevo farmi ascoltare dovevo fare qualcosa di diver-so da me, qualcosa che loro non si aspettavano da un bravo ragazzo. E così ho tagliato i jeans sulle ginocchia, ho cerca-to Danni e ho bruciato scuola con lui». Improvvisamente parlare diventa indispensabile, come respirare.

«E cos’avete fatto dopo aver incontrato la gattara de Bernardi?»

Non ho il coraggio di guardarla, ma mi rincuora sentire il sorriso nella sua voce.

«Siamo entrati in un palazzo in fondo a quella strada, dal portoncino del cortile posteriore. Dovevamo scendere in cantina dove Danni aveva appuntamento con uno per prendere della roba… non sapevo esattamente cosa. C’era un cattivo odore, di muffa o di marcio o di qualcos’altro, non so. Io ho pensato all’odore di un cadavere, anche se non ho mai sentito l’odore di un corpo in decomposizione, e allora ho detto a Danni che l’avrei aspettato fuori, nel cortile. Mentre ero lì, a scavare la ghiaia con un piede, mi sono sentito osservato. Ho alzato gli occhi e ho visto una signora alla finestra del primo piano. Indossava un grem-biule da cucina e aveva in mano un mestolo sporco di sugo. Somigliava alla nonna quando prepara il ragù della dome-nica. Ha scosso la testa, con un misto di schifo, delusione e… qualcos’altro che non ho fatto in tempo a decifrare, poi

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sulla pagina del calendario che nonna ha girato due mesi fa: avrei voluto archiviarla anch’io, invece continua a per-seguitarmi». Ecco, adesso l’ho detto e mi viene quasi da piangere.

«Devi fare pace con quella storia, Mario mio. Non è suc-cesso niente di irreparabile. Poteva succedere, è vero, ma non è successo perché per fortuna tu sei davvero un bravo ragazzo e questa è una cosa di cui devi andare fiero, altro che sentirla come una condanna. Anche quando hai voluto trasgredire per protesta, hai sempre avuto chiaro cosa era giusto fare e cosa no. E hai scelto, non ti sei lasciato trasci-nare. Hai fatto una sciocchezza, ma ne sei venuto fuori. Ti manca solo l’ultimo pezzetto di strada: devi dirlo ai tuoi genitori».

«Ai miei? Mi faranno nero!»«Macchè nero… Sarai costretto a spiegare per bene i

motivi per cui hai bruciato scuola, come ti sentivi in quel momento. Be’, come ti senti ora, perché Mario mio, se-condo me questa storia non l’hai ancora digerita. A quel punto tu ti sentirai molto più leggero, mentre i tuoi ge-nitori dovranno farsi carico dei tuoi sentimenti e spiegarti meglio la situazione. Ma loro sono adulti e possono reg-gere un carico maggiore. Parlare è importante, sempre. Le parole guariscono. Qualsiasi questione può essere spiegata e risolta tra persone che si stimano e si vogliono bene».

Credo che si fosse accorta subito che erano stati tagliati con le forbici, ma preferì far finta di nulla. Si accontentò di sequestrarmi i jeans, che mi restituì dopo un paio di giorni dicendo che tutto si poteva sempre rammendare. Non so come, ma riuscì a fare una magia e infatti eccoli qui» dico indicandole i pantaloni.

Lei passa la mano sulle ginocchia che sembrano ancora tagliate, ma sotto c’è una toppa nascosta che non fa vedere la pelle.

«Bellissimi! Tua nonna ha fatto quello che si fa in Giap-pone quando un vaso si rompe. Lo si incolla e poi si evi-denzia la rottura con la vernice dorata, trasformando il se-gno in un elemento decorativo».

«Una specie. Adesso ho dei jeans stilosi che posso porta-re anche d’inverno senza gelarmi le ginocchia. Ogni volta che li indosso, però, mi ricordano quel giorno e anche la mattina successiva, quando ho presentato il libretto e ho aspettato in piedi accanto alla cattedra che la prof di mate-matica mi firmasse la giustificazione dell’assenza. Un tem-po infinito in attesa che lei si accorgesse che la firma era falsa e mi portasse dal dirigente, dove sarei stato sospeso. E dei giorni ancora successivi, quando i miei genitori avreb-bero potuto controllare il registro elettronico e accorgersi della mia assenza. Non so per quale incrocio magico non è successo niente di tutto questo. Quel giorno di aprile è

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se vorrei sentirmi così coccolato, seguito e… soffocato, e la risposta è: col cavolo! Preferisco rischiare di restare in panchina perché ho dimenticato le scarpe, piuttosto che avere mamma sempre addosso a risolvermi i problemi. Ci sono giorni in cui mi bastano le poche ore che passiamo insieme per sentirmi oppresso! Qual è il punto di equili-brio perfetto tra voler diventare grandi e desiderare ancora le attenzioni di quando eravamo piccoli?

Non lo so. Ma quello che so è che adesso, per la prima volta in due mesi, mi sembra di essere un po’ più leggero. Meno arrabbiato. Su questo volo, mentre ci tuffiamo nel-le nuvole bianche, mi sento vagamente fiducioso sul mio futuro. Credo.

«Proprio questo è il problema!»«Quale, che tu non li stimi abbastanza? Che non vuoi

loro bene?»«No, certo che no. Io penso che loro siano… a posto,

anche se adesso sono arrabbiato».«E allora? Guarda che da quello che mi hai raccontato è

chiaro come il sole che loro ti stimano un sacco e si fidano di te. La prova che ti considerano maturo è che si sono sen-titi sicuri abbastanza da lasciarti con i nonni, da farti pre-parare i bagagli in autonomia e viaggiare da solo. Secondo loro sei grande abbastanza da poter affrontare un capitolo nuovo della tua vita. E secondo te?»

Non avevo mai considerato le cose da questo punto di vista. In effetti il mio compagno Edo, che ha la mamma modello che lavora part time e si dedica alla famiglia, non fa mai nulla da solo. Lei gli prepara la borsa del basket, dopo l’allenamento la svuota e mette la divisa nella cesta dei panni sporchi, gli controlla il diario e se qualcosa non è chiaro chiama le altre mamme per avere conferma, veri-fica tutti i compiti per casa, lo obbliga a ripetere storia e geografia prima delle interrogazioni. Mi rendo conto solo adesso che, in fondo, quella che io ho sempre considera-to un’attenzione materna da invidiare forse è anche una mancanza di fiducia e di considerazione per il figlio. Mi chiedo per la prima volta se davvero vorrei una madre così,

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«Allora alla fine ce l’ha fatta a diventare pilota».«Sì, ma non pensare che sia stata una passeggiata. Nel

1965 io e Graziella fummo le prime donne ammesse a fre-quentare da civili il corso militare per ottenere il brevetto di terzo grado ad Alghero. A quel punto potevamo volare su qualsiasi aereo. Lei fu assunta in Ignis, io alla com-pagnia Aeralpi. Quando arrivai a Milano alla sede della compagnia, trovai un muro compatto di ostruzionismo: i miei colleghi maschi mi ignoravano per obbligarmi a mollare. Non ce la volevano proprio una donna pilota. Io non mi feci intimorire: sapete che c’è, dissi loro un giorno, ve dovete rassegnà, io qui ce sò e qui ce resto. E adesso vengo pure a pranzo con voi. Perché, Mario mio, nella pausa pranzo quelli se n’annavano a mangiare da soli senza fare neppure il gesto di invitarmi. Non me rivolge-vano proprio la parola. Ma, da quel primo pranzo insie-

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al volo strumentale. E così decollammo. Aò, Mario, nun se vedeva niente! Era come volare in mezzo a una sostanza solida, grigia e umida».

Guardo fuori: quella volta c’era una situazione come questa? Magari pioveva nello stesso modo? Non oso do-mandarlo. La bestia si agita.

«Dopo un po’ che volavamo in quell’umidità spessa e scura, facendo virate e controvirate, decidemmo di torna-re, anche perché ormai eravamo a corto di carburante. Ci allineammo alla pista, cioè dove supponevamo ci fosse la pista, dato che, te ripeto, nun se vedeva a un metro de di-stanza, e iniziammo le procedure d’atterraggio. Il coman-dante intravide una piccola luce, che prese come il segna-le a sinistra della pista. Invece, Mario mio, era quello di destra! Altro che pista… atterrammo in un prato viscido dove era impossibile frenare, così non riuscimmo a tenere l’aereo in traiettoria. Scivolammo fino al muro paraonde, che è una specie di piccola scogliera artificiale, la saltam-mo con una capriola e, oplà, ci ritrovammo a testa in giù nell’acqua gelida. Non ci facemmo niente, per fortuna, e riguadagnammo il paraonde fradici ma illesi. Forse si spa-ventarono di più i colleghi che persero il nostro segnale radar e cominciarono a cercarci sulla pista, chiamandoci in mezzo a quella nebbia infernale. Ma che ce voi fà, sò cose che in addestramento possono pure succedere…»

me, tutto andò meglio. Capirono che dovevano pensare a me semplicemente come a un collega, indipendentemente dal fatto che io indossassi una divisa con la gonna invece di quella con i pantaloni. Volavo soprattutto sulle rotte Venezia-Cortina e Milano-Cortina, così potevo continuare a vedere le mie adorate montagne. Ho fatto anche voli per l’Alitalia, che usava i nostri aerei e i nostri equipaggi per alcune tratte. Mi ricordo ancora la prima volta che, arri-vando all’aeroporto di Tessera a Venezia e comunicando i miei dati alla torre di controllo, mi presentai dicendo con grande emozione: qui AZ088, buonasera. Siccome il codice AZ è il codice Alitalia, posso dire di essere stata la prima donna a pilotare un volo Alitalia. Oh, piove» dice guardando fuori.

Il finestrino è picchiettato di gocce d’acqua e le nuvole pannose hanno lasciato il posto ad altre più scure e dense. La bestia si sveglia e inizia ad agitarsi di nuovo. Devo far parlare Fiorenza: solo la sua voce la tranquillizza.

«E da quel momento tutto andò bene, quindi».«E mica tanto, Mario mio. Intanto una notte finimmo

a bagno… Eravamo all’aeroporto di Tessera: la laguna di Venezia era avvolta in una nebbia pesante. Tutti i voli era-no bloccati a terra, ma il capo pilota dell’Aeralpi ordinò a un giovane comandante: porta Fiorenza e Carlo, che era un altro collega appena assunto, a fare un giretto per allenarli

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Ogni giorno una rotta diversa, e spessissimo c’erano cam-biamenti all’ultimo minuto. Bisognava vivere sempre pronti! Come comandante portai anche molti ammalati gravi in pellegrinaggio a Lourdes e per me, che sono tan-to devota a Dio e a santa Rita, quelli diventavano viaggi davvero speciali. L’aereo si riempiva di un’aria particolaris-sima, carica di fede, aspettative, fiducia. È difficile da spie-gare, è qualcosa che senti con il cuore e non con la testa. Comunque, un giorno mi arrivò dalla compagnia una pro-posta interessante: andare a Mosca per l’addestramento su un nuovo aereo trireattore, lo YAK 40. Potevo dì de no?»

Mi guarda, in attesa di una risposta: «Immagino di no».Sorride, soddisfatta: «Infatti. Dissi di sì, e volai a Mo-

sca con l’altro collega della compagnia che era stato scel-to per l’addestramento. Lo YAK 40 era un aereo robusto che aveva dei grossi pneumatici che gli permettevano di atterrare in sicurezza sia sulla sabbia arroventata sia sulla neve siberiana. L’addestramento serviva per metterci nelle condizioni di presentare l’aereo per la prima volta fuori dall’Unione Sovietica attraverso dei voli promozionali. In quell’occasione capii che, quando qualcuno vuole assolu-tamente convincerti ad accettare un nuovo incarico, non ti spiega mai nei dettagli tutte le problematiche che dovrai affrontare. Così, arrivati pieni di entusiasmo e di orgoglio italico a Mosca, ci rendemmo conto che il nostro istrutto-

Prende fiato un attimo e io ne approfitto per guardare fuori. Niente, solo un muro di nuvole grigie.

«Comunque, sembrava che filasse tutto tranquillo quan-do ci arrivò la terribile notizia dell’uccisione del titola-re dell’Aeralpi. Il pover’uomo fu ucciso dalla suocera con cinque colpi di pistola, ufficialmente sparati per sbaglio. Ma tu ce credi, Mario mio, che uno possa davvero sparare per sbaglio cinque colpi addosso a una persona disarmata? E questa purtroppo fu la fine della nostra Aeralpi perché, senza più un titolare, la compagnia chiuse. Tutti i piloti furono assunti da Alitalia. Intendo tutti tranne me, visto che ero una donna. Strepitai, scrissi lettere appassionate di protesta, chiesi la solidarietà dei colleghi, ma non ci fu nulla da fare: mi ritrovai disoccupata».

«Scusi, ma nella compagnia di quel tipo ucciso, la Ae-ralpi, qualcuno dei passeggeri si era lamentato di avere avuto una comandante donna?»

«Macché! Anzi, quando tornavano a volare con noi chie-devano sempre se c’era la de Bernardi alla guida, tanto se fidavano della pilota in gonnella».

Fiorenza scuote la testa e immagino che il ricordo la faccia arrabbiare ancora oggi: «Insomma, gira e rigira mi ritrovai senza lavoro. Per fortuna mi assunse la titolare, guarda caso una donna, della compagnia Aertirrena, che faceva servizio di aerotaxi. Come mi piaceva, Mario mio!

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re parlava solo russo, e io e il mio collega ce la cavavamo egregiamente in molte lingue tranne il russo. Eppure im-parammo a conoscere e amare quell’aereo. Amare è proprio il verbo giusto: sullo YAK mi sentivo a casa. Quando l’i-struttore russo fu sicuro che conoscessimo l’aereo alla per-fezione, ci diede il permesso di tornare a casa. La fase due della missione poteva iniziare».

Prende la rivista dell’Alitalia e la apre su una pagina doppia dove appaiono i due emisferi. Batte il dito sull’Ita-lia e poi lo sposta sulla Turchia.

«Nel giugno del 1971 decollai come primo ufficiale per il viaggio di presentazione dello YAK in tutto il mondo. Prima tappa la Turchia e primo battesimo del fuoco: ci ritrovammo sopra l’aeroporto di Ankara con un vento di cinquanta nodi».

«È un vento forte?»«Molto forte! Pensa che il manuale d’istruzioni dello

YAK vietava l’atterraggio con venti oltre i venti nodi. Un nodo è più o meno 1,8 chilometri all’ora, quindi fa’ un po’ te i conti. Ma il comandante Davià, che quel giorno era alla guida, decise che era inopportuno farci spaventare dalle condizioni atmosferiche proprio alla prima tappa di quel tour, quindi iniziò le manovre d’atterraggio. Fece una magia e riuscì ad atterrare dolcemente sulla pista come se fossimo stati in perfetta assenza di vento. Il DC9 Alitalia

che era in coda dietro di noi per l’atterraggio decise di ri-nunciare: riprese quota e si diresse verso un altro aeroporto meno ventilato. Dopo la Turchia, raggiungemmo l’Iran, l’India e poi la Birmania. Ovunque eravamo accolti con molto entusiasmo e ovunque la presenza di un pilota uffi-ciale donna suscitava scalpore e faceva guadagnare alla no-stra impresa le prime pagine dei giornali nazionali. Credo di non essere mai stata fotografata tanto come in quel pe-riodo. Abbiamo visto aeroporti modernissimi e altri fati-scenti, con le pale sul soffitto degli uffici che smuovevano pigramente l’aria umida e calda, mentre i gechi riposava-no immobili sulle pareti e nuvole di mosche e moscerini ti riempivano la bocca quando eri costretta a intavolare estenuanti trattative per ottenere le firme necessarie per le formalità burocratiche. È stato in quei Paesi lontani così diversi dal nostro che ho vissuto per la prima volta l’emo-zione di riconoscere un collega italiano nella folla vario-pinta di un aeroporto, vuoi per il desiderio di ascoltare di nuovo il suono della mia lingua, o per la necessità di affidare a un connazionale un messaggio per mia madre. Perché allora, Mario mio, mica c’erano ’sti telefonini che puoi usare anche all’estero, mica c’erano internet e Skype. Quando partivi, partivi per l’ignoto e ogni volta era come se lasciassi il tuo mondo per sempre».

Be’, a me sembra di aver lasciato il mio mondo per sem-

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pre anche se ho internet e Skype. Ma lei richiama la mia attenzione spostando il suo dito sulla carta verso est.

«Dopo la Birmania, arrivammo in Thailandia, poi pro-seguimmo per Singapore, per Bali e infine raggiungemmo la Malesia. Prima di lasciare quell’arcipelago avevamo in programma un’ultima tappa tecnica, necessaria per rifor-nirci di carburante, all’isola di Timor. È un’isola bellissi-ma, Mario: immagina alte montagne che scendono a picco verso un mare talmente verde da sembrare finto. Atter-rammo in un piccolo aeroporto militare, e appena toccam-mo la pista le nostre orecchie allenate captarono un rumo-re diverso dal solito che ci allarmò. Appena parcheggiamo lo YAK, ci affrettammo a scendere e ci accorgemmo che in effetti la pista era stata creata con un ghiaino di coralli frantumati, taglientissimi. Stavamo controllando con una certa apprensione lo stato degli pneumatici quando il no-stro aereo fu circondato da un nugolo di ragazzini vocianti che tentavano di arrampicarsi sulle ali, che pretendevano di salire a bordo e toccare la cloche e i comandi. Avevamo il nostro daffare a tenerli lontani dalla cabina di pilotag-gio quando ci accorgemmo che lo YAK era presidiato da militari armati che ci guardavano con espressione truce. Sfoderammo i nostri migliori sorrisi e spiegammo che quella era una semplice sosta per rifornire l’aereo di car-burante. Il loro comandante ribatté che nessuno li aveva

avvisati del nostro arrivo e che avremmo dovuto ripartire immediatamente per non incorrere in guai con la giustizia locale. Ma il carburante non era sufficiente per arrivare ad un altro aeroporto. Che guaio! Ci profondemmo in scuse, ripetemmo che eravamo dispiaciuti quanto loro che nessu-no li avesse avvisati, che saremmo ripartiti da lì a cinque minuti, il tempo di effettuare il rifornimento. La delicata trattativa avveniva mentre i bambini malesi continuavano ad arrampicarsi sullo YAK come un branco di bertucce allegre e curiose.

Possiamo fare rifornimento? chiedemmo esasperati.L’omino del rifornimento non è qui, ci risposero i mili-

tari.E dov’è? Possiamo chiamarlo? chiese il comandante Davià.È andato a pescare, fu l’incredibile risposta dei militari.Dove? Una domanda senza risposta: l’omino del carbu-

rante se ne stava da qualche parte, al largo di quel mare cristallino, a pescare sonnecchiando a bordo della sua bar-chetta. E quando sarebbe tornato? Mah. Le ore passavano, Mario mio, e la situazione si faceva sempre più pericolosa. Non potevamo muoverci dall’aereo perché eravamo su un suolo militare, non potevamo telefonare né chiedere aiuto. Alla fine di quel lungo pomeriggio l’omino tornò lemme lemme, senza un pensiero al mondo, con la canna da pe-sca appoggiata sulla spalla, giusto un attimo prima che i

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militari decidessero di farci passare la notte in prigione. Ci affrettammo a fare rifornimento e poi via… verso l’Au-stralia, l’ultimo continente del nostro lunghissimo tour. Dopo un decollo affrettato, ancora scossi per gli eventi di quella giornata, cercavamo di ritrovare la serenità del volo nella pace notturna e nel silenzio. Nessuno di noi disse una parola, fino a che la traccia sul radar e una voce in cuffia ci diedero il benvenuto in Australia: finalmente! Atterram-mo all’aeroporto di Darwin dopo dodici giorni di volo e mille esperienze. L’ultima cosa che vidi prima di addor-mentarmi, dal piccolo terrazzo della mia camera d’hotel, fu il cielo australiano, dove nuove stelle brillavano limpide e mi parlavano di un mondo più grande di quello che co-noscevo. Da lì, con cinque tappe serrate, raggiungemmo Melbourne e cominciammo i voli dimostrativi. Il nostro arrivo era molto atteso dagli addetti ai lavori in quanto lo YAK era considerato l’aereo ideale per le tratte interne australiane: poteva portare fino a trenta passeggeri a bor-do, ma si comportava come un piccolo aereo da diporto in grado di atterrare anche sulle piste non asfaltate e molto corte. Non ricordo di aver mai volato tanto come in quei giorni: molti piloti erano stati inviati dalle compagnie per le quali lavoravano per provare personalmente lo YAK, al-tri invece si accontentavano di volare come passeggeri. Il mio collega, il comandante Sette, si esibiva in virate paz-

zesche a novanta gradi, in picchiate, in atterraggi su piste cortissime e decolli altrettanto spericolati. Pensavamo en-trambi che fosse necessario dimostrare al Nuovo Mondo quanto lo YAK forse versatile e affidabile. In quei giorni, Mario mio, era tutto un decollare e atterrare, rifornirsi, e di nuovo decollare e atterrare. Quando non volavo rilascia-vo interviste, così la mattina leggevo del nostro aereo sui quotidiani e poi la sera capitava che vedessi la mia divisa e la mia faccia in televisione. Si parlò così di tanto dello YAK e di quella donna pilota che durante un volo, mentre davo le mie specifiche alla torre di controllo, mi sentii apo-strofare da un “Hallo Florence!” urlato entusiasticamente da un pilota sconosciuto della compagnia TAA che ave-va intercettato la mia voce. Rimanemmo in Australia due settimane, durante le quali ci concessero un solo giorno di riposo a Sydney. E poi a Brisbane riuscimmo a concen-trare tre voli dimostrativi nella stessa mattina e rubammo un pomeriggio di libertà. E sai dove andammo, Mario? L’Australia è un paese moderno, le cose più antiche hanno appena cento anni. Per me e per te, che siamo romani, dire cento anni è come dire l’altro ieri, abituati come siamo a una città antichissima e densa di monumenti che il mondo ci invidia. Così quel pomeriggio, non potendo ammirare chiese o castelli millenari, entrammo al Lone Pine Park, una specie di zoo in cui però gli animali sono liberi. Ho

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tenuto in braccio i koala, che sono così teneri che vorresti portarteli a casa, e ho dato da mangiare il granturco ai canguri. Pensa che quegli strani mammiferi afferrano con le zampette anteriori il cibo direttamente dalle tue mani. Sono incredibili: molti di loro avevano i cuccioli nel mar-supio che spuntavano fuori solo con le orecchie e gli occhi curiosi. Quel giorno mi divertii come una bambina, giuro! Be’, un po’ meno con gli emù, che sono come degli struzzi, ma più piccoli. Puoi dare da mangiare il granturco anche a loro: il problema è che sono tipini dispettosi e se il bec-chime finisce prima che siano sazi quelli se possono arrab-bià e c’hanno ’sto becco appuntito giusto all’altezza degli occhi tuoi. Comunque, te la faccio breve che sarai stufo de stare a sentì ’sta vecchia signora. Il 2 agosto atterrammo di nuovo a Firenze: ero stata all’estero per quarantacinque giorni e avevo accumulato centosedici ore di volo. Io e i miei colleghi avevamo voglia di tornare a casa, di rivedere le nostre famiglie, di riposare finalmente nel nostro let-to, eppure… Eppure restavamo lì, ai comandi del nostro YAK parcheggiato nell’area designata, in silenzio. Aveva-mo vissuto un’esperienza talmente coinvolgente e lunga che non riuscivamo a interromperla. Poi il comandante propose un brindisi a noi, all’equipaggio dello YAK 40. Brindammo in silenzio con un vino bianco australiano che ci sembrò buonissimo, anche se era caldo come un brodo

di pollo. Solo dopo aver bevuto, lui trovò la forza di azio-nare il portello d’uscita. Solo allora mi decisi a prendere il mio koala di peluche che ci aveva fatto compagnia in cabi-na per tutto il viaggio di ritorno, e a scendere dall’aereo».

Non riesco a immaginare la comandante de Bernardi con un peluche in mano. Forse neanche lei, però, immagina che io abbia nascosto in valigia, tra le felpe, il mio orsetto bianco. Chissà se ritornerà in forma, quando lo tirerò fuori dal sacchetto sottovuoto. Ognuno di noi, probabilmente, si porta dietro un peluche per le occasioni speciali.

Guardo Fiorenza. Se ne sta seduta a testa bassa, assorta nei suoi ricordi, rigirando l’anello che porta al dito.

Improvvisamente l’aereo sobbalza e noi con lui. Di nuo-vo una turbolenza? Guardo fuori, perplesso: sta piovendo a dirotto. Ma non è strana una turbolenza con il brutto tempo? Dalla spiegazione di Fiorenza avevo capito che le turbolenze c’erano solo ad alta quota con il calore che spo-stava l’aria verso l’alto, e ora invece stiamo atterrando con il brutto tempo. Non capisco. La bestia si dimena e mi graffia la pancia: devo fare assolutamente qualcosa per cal-marla, prima che si arrampichi a stringermi la gola e mi impedisca di respirare. Devo far parlare Fiorenza, solo lei riesce a ipnotizzare la bestia. Ma quando mi giro verso di lei, mi accorgo che ha chiuso gli occhi, come se dormisse. E adesso?

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Devo inventarmi qualcosa, in fretta, mentre l’aereo ca-valca un cavolo di tempo irrequieto da rodeo. Devo trovare un argomento irresistibile per Fiorenza, un tema che la strappi al riposo. Ma proprio adesso deve addormentarsi? Ecco, forse ci sono, forse se le chiedo di…

«E il comandante de Bernardi fu contento di vederla quando tornò dall’Australia?»

Apre gli occhi e mi guarda sorpresa. Poi sospira e scuote la testa, un gesto che vuol dire forse sì, oppure forse no, non riesco a decifrare.

«Lo sarebbe stato, immagino, se fosse stato ancora vivo. Ma era morto da molti anni».

Che figuraccia! Sento le orecchie bruciarmi. «Mi dispiace».«Anche a me. Ogni giorno. Pure mo che sò vecchia i

miei genitori mi mancano. Mio padre morì giovane, aveva sessantacinque anni, ma ebbe in dono una morte degna di

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lui. Mi ricordo ancora quel giorno d’aprile, era il 1959, eravamo tutti all’aeroporto dell’Urbe, a Roma, per la pre-sentazione di un nuovo aereo tedesco. Il pilota era appena atterrato dopo aver dimostrato le doti di quel velivolo e tutti commentavano entusiasti l’esibizione. Mio padre mi cercò con uno sguardo birichino, mi fece l’occhiolino e poi si diresse verso l’hangar. Non avevo bisogno di spiegazioni per capire cosa voleva fare. Quel pubblico era una tenta-zione troppo grande per lui: voleva approfittarne per mo-strare a tutti il suo zanzarino».

«Il suo zanzarino?»Fiorenza sorride: «Mica era un insetto! Ti ho già detto

che mio padre era un inventore, vero? Negli ultimi anni aveva dedicato creatività, tempo e risorse economiche per progettare e costruire un piccolissimo aereo monoposto adatto al volo di addestramento. La sua idea era di mettere in commercio un aereo rivoluzionario, adatto a voli molto economici, in modo tale da avvicinare all’aviazione tutte quelle persone che sognavano di volare, ma non ne aveva-no la possibilità. La sua idea avrebbe rivoluzionato l’avia-zione, trasformandola da attività esclusivamente d’élite a esperienza popolare aperta a tutti gli appassionati. Dopo la guerra, però, quasi tutte le ditte italiane di costruzione di aerei avevano chiuso l’attività o l’avevano convertita nel-la produzione di frigoriferi, biciclette, automobili. Tutti i

nuovi beni di consumo che trasformavano le famiglie e la società italiana. Le grandi aziende che costruivano aerei di linea, ormai, erano tutte all’estero. Allora lui costruì arti-gianalmente il suo zanzarino, insieme ai vecchi operai che lo avevano aiutato in passato: batterono e sagomarono ogni pezzo di lamiera, saldarono le varie parti, inchiodarono bat-tendo con i martelli. Su ogni parte di quella creatura c’era l’impronta delle gocce di sudore degli uomini che l’aveva-no costruita. Mio padre battezzò il suo ultimo capolavoro “aeroscooter” perché, in effetti, la sua creazione stava a un aereo, per quanto leggero, come uno scooter sta a una moto di grossa cilindrata, capisci Mario?»

Mica tanto, ma annuisco, perché l’importante è che Fio-renza continui a parlare.

«Allora, te dicevo, inventò questo aeroscooter monopo-sto e, preso dall’entusiasmo, ne costruì pure una seconda versione biposto. All’estero erano molto interessati ai due prototipi, perché ne avevano compreso le incredibili po-tenzialità. Ma la ditta italiana con la quale aveva firmato la cessione del progetto continuava a dare risposte evasive e rimandava la produzione per un motivo o per un altro.

Quel giorno di aprile mio padre pensò che poteva ap-profittare dell’occasione per presentare la sua ultima crea-zione a tutti gli appassionati che affollavano l’aeroporto dell’Urbe. Andò nell’hangar, salì sul suo zanzarino e de-

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collò. Davanti a tante persone estasiate, che seguivano le sue evoluzioni a bocca aperta, dimostrò ciò che un pilota acrobatico del suo calibro poteva fare con quell’ultraleg-gero. Salì fino a toccare il sole, per poi sfrecciare giù in picchiata mentre gli spettatori trattenevano il fiato per la paura, impennarsi all’ultimo momento, risalire sicuro per poi lanciarsi di nuovo verso di noi. Alla fine atter-rò, rullando sul prato, tra gli applausi entusiasti di tutti gli appassionati ai quali aveva perfino fatto dimenticare il motivo per il quale erano all’Urbe, cioè il volo dimostrati-vo dell’aereo tedesco. L’aeroscooter era fermo. La portiera ancora chiusa. Immaginai che mio padre stesse mettendo a posto qualcosa in cabina prima di scendere. Gli piace-va lasciare il posto di guida in perfetto ordine. Aspettai, aspettammo. Ma lui non scendeva. Aspettammo ancora, guardando da lontano lo zanzarino, in un’attesa sorpresa, poi perplessa e infine angosciata. Quello che non pote-vamo sapere era che il grande cuore di mio padre aveva ceduto, mentre stava ancora volteggiando nel cielo. Con le sue ultime forze aveva voluto atterrare nel migliore dei modi, affinché successivamente nessuno potesse affermare: hai visto che guaio quell’invenzione del de Bernardi, l’ha piantato in asso durante il volo e l’ha ammazzato! No, non poteva permetterselo, doveva salvare la reputazione dell’aeroscooter e di tutti gli operai che lo avevano aiutato

nell’impresa. Doveva uscire a testa alta da quella situa-zione. Parcheggiò l’aeroscooter, con il suo ultimo respiro, prima di accasciarsi ai comandi, dove lo trovammo quan-do andammo ad aprire la portiera».

«Incredibile!» riesco a dire, e la voce un po’ mi trema.«Già, è morto come è vissuto: da uomo dell’aria, davanti

a un pubblico entusiasta, davanti a me, che l’amavo tanto. Per questo prima ti dicevo che mio padre aveva intrapre-so un viaggio contro la volontà delle due donne della sua vita. Eppure non avrei saputo immaginare un ultimo viag-gio migliore di quello. Organizzammo i funerali proprio lì, nella piccola cappella dell’aeroporto dell’Urbe: tutti gli aerei stavano a terra, a lato della pista, con i motori rom-banti per dare l’ultimo saluto all’uomo del volo italiano, mentre la banda dell’Aeronautica suonava a mezza voce La leggenda del Piave. Fu un funerale all’uomo, all’asso dei cieli, all’inventore e collaudatore, eppure fu anche l’ultimo saluto a un’aviazione d’altri tempi, a un modo di concepi-re il volo che ormai non esisteva più. Per quello, secondo me, fu un funerale tanto sentito e partecipato. Vedi questo anello? È il suo, lo indosso da quando è morto. Ha un’a-quila incisa, ma ormai è talmente consumato che non si vede più. Gli fu donato dai suoi colleghi di corso, in occa-sione del primo volo da solista. Peccato che, come me, de-collò prima di essere autorizzato dall’istruttore: ebbe così

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contemporaneamente la festa dei compagni e la punizione del suo superiore. Era una bella testa dura, mio padre, che io ho ereditato: mamma diceva che erano le nostre origini toscane».

«È stato un buon padre, vero?»«È stato un ottimo padre, Mario mio. Lui e mamma

furono genitori del tutto rivoluzionari per la loro epoca, e forse lo sarebbero anche per questa: mi lasciarono libera di fare ciò che volevo, di seguire le mie passioni anche se mi portavano a fare cose che erano considerate da maschio: le escursioni in montagna, i viaggi, il volo. Ma non vorrei che tu capissi male: seguire i propri sogni andava bene, ma all’interno di una famiglia con regole ben precise. Mio pa-dre era un militare e lo fu per tutta la vita. La cosa davvero straordinaria è che mi hanno educato alla libertà con estre-ma naturalezza, senza mai sottolineare o farmi pesare il fatto che ero diversa dalle altre ragazze e in qualche modo una privilegiata. Per questo non mi sono mai considerata una rivoluzionaria o una paladina dei diritti delle donne: mi sentivo una ragazza normalmente cattolica e per un certo periodo sono stata anche monarchica, quindi stavo esattamente agli antipodi di qualsiasi posizione vagamen-te eversiva. Eppure, Mario mio, non c’è niente di più rivo-luzionario al mondo che essere se stessi».

E io sono me stesso? Sono libero?

Ma lei mi strappa alle mie riflessioni: «Tante volte mi chiedo: a Fiorè, e se non avessi fatto la pilota?»

«Avrebbe aperto la baita in Val Gardena!»Ride di gusto: «Esatto, forse avrei venduto salsicce e

birra agli escursionisti della domenica, indossando un ve-stito tirolese con il grembiulino bianco: me ce vedi? E, in fondo, non sarebbe stato rivoluzionario anche quello per una brava ragazza italiana del dopoguerra? Alla fine cre-do davvero che qualsiasi lavoro avessi scelto, sarei stata un’eccentrica. E allora, meglio la pilota d’aereo, che dici Mario?»

«E non si è sposata?»«Certo che me sò sposata, con un altro pilota, dato che

il mio mondo era l’aviazione. Mica potevo pensare de incontrà un insegnante oppure, che ne so, lo chef de un ristorante stellato, che poi allora gli chef se chiamavano semplicemente cuochi… Poi, però, me sò pure separata perché era troppo complicata la vita matrimoniale di due persone con la valigia in mano, che partivano e tornavano senza mai incontrarsi».

«Per questo non ha avuto figli?»«Proprio così, che per fare i figli mica si può essere sem-

pre in giro per il mondo! Lo sai Mario che stai a fà trop-pe domande? Mica io ti ho chiesto se c’hai la fidanzata… Anzi, guarda un po’, mo te lo chiedo: c’hai la fidanzata?»

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Scuoto la testa, imbarazzato.«Vabbè, mica devi arrossire, non volevo metterti in dif-

ficoltà. C’hai tempo per le faccende di cuore. Comunque, non avevi fatto una domanda inutile. Perché quella dei figli per le donne in aviazione è stata una grande battaglia. Devi sapè che a un certo punto insieme ad altre colleghe ho fondato l’Associazione Pilote Italiane, che mo invece se chiama Associazione Donne dell’Aria visto che dentro ci stanno pure le hostess, le operatrici del traffico aereo e delle torri di controllo e tutte le altre figure professiona-li di quegli ambiti esclusivamente maschili in cui siamo riuscite a intrufolarci. L’associazione ha il compito di di-scutere gli aspetti particolari del nostro lavoro e combat-tere per affermare i nostri diritti. Dico combattere mica a caso, perché, Mario mio, abbiamo dovuto battagliare per ogni singola richiesta. E uno dei dibattiti più accesi è stato quello relativo ai tempi della maternità: per quanti mesi una donna pilota incinta poteva guidare un aereo? Nes-suna compagnia di volo si era mai posta il quesito, fino a che la prima pilota è rimasta in-cre-di-bil-men-te incinta. Solo allora i grandi capi se sò chiesti: e mo che famo?»

Un vuoto d’aria ci risucchia fino a mandarmi il cuore in mezzo alla gola.

Tredici

Fuori continua a piovere e le nuvole sono sempre fitte. L’aereo è inclinato verso il basso. Guardo Fiorenza in cerca di sostegno.

«Abbiamo iniziato le normali procedure d’atterraggio, non stiamo precipitando. Non aver paura. Non devi avere paura».

L’ha già detto: la paura paralizza, la paura non fa pensa-re. Ma la bestia ha ripreso a uncinarmi le budella.

DLIN. Signori e Signore abbiamo appena iniziato la discesa verso l’aeroporto di Bruxelles. Vi preghiamo di allacciare le cin-ture di sicurezza, di riporre lo schienale in posizione verticale e di chiudere il tavolino di fronte a voi. Da questo momento tutti i dispositivi elettronici devono essere spenti fino a quando l’aeromo-bile non sarà fermo e parcheggiato al gate. Grazie per la vostra collaborazione. Assistenti di volo prepararsi all’atterraggio.

«In che senso prepararsi? Suona come una minaccia!»

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TREDICI

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«Mario, che stai a dì? È un semplice richiamo: le as-sistenti di volo, cioè le hostess, devono controllare che i passeggeri abbiano fatto quello che il comandante ha ri-chiesto, che tutto sia in ordine e poi devono sedersi al loro posto».

Un lampo all’orizzonte attira la mia attenzione. Spero di aver visto male, ma poi nel muro di pioggia scrosciante distinguo un’altra saetta.

«C’è il temporale!»«Parla a bassa voce, Mario, altrimenti la gente si spaven-

ta» mi rimprovera.«Io parlo piano, ma il temporale c’è lo stesso. Che si fa?

Si atterra comunque?» sussurro sporgendomi verso di lei.«E certo, mica possiamo volare fino a quando il tempo-

rale passa, con il rischio di finire il carburante!» bisbiglia sorridendo.

«Ma c’è qualche pericolo?» «Vuoi la verità o una pietosa bugia da propinare a un

regazzino fifone?»«La verità». O forse no, dipende dalla verità, in effetti.

Non sono affatto sicuro che preferirei essere consapevole di stare precipitando e vivere così i miei ultimi trenta se-condi nel terrore assoluto, o se invece preferirei precipitare ascoltando del tutto ignaro l’ultimo minuto di chiacchiere di Fiorenza.

«Ok, allora ascolta. Sarà un atterraggio impegnativo, perché a terra sono previsti venti piuttosto forti, ma la co-mandante Dominicis ha una vera passione per queste con-dizioni meteorologiche, quindi ce la faremo. Senti, hanno fatto uscire il carrello» dice lei alzando un dito.

Io non ho sentito nulla, e poi non è questo il problema. «Ma prima la comandante ci ha detto che avremmo avu-to venti moderati. Moderati non vuol dire forti, vuol dire deboli o forse medi, cioè a metà strada tra il minimo e il massimo, ma di certo non il massimo!» protesto.

«Ti ho detto di parlare piano! Adesso ti confido un se-greto: quando il comandante dà l’annuncio di venti mo-derati usando un tono suadente e accarezzando l’aggettivo moderati, puoi star certo che troveremo venti forti».

«Non è giusto! Perché lo fa?»«Per non spaventare i passeggeri. È consapevole che

l’atterraggio sarà impegnativo, ha bisogno di concentrarsi esclusivamente sulla guida e deve essere sicuro che il resto dell’equipaggio stia svolgendo al massimo delle proprie possibilità i compiti assegnati. Non può permettersi il lusso di essere distratto dalle urla dei passeggeri isterici e di sapere le hostess impegnate a tranquillizzare le persone impanicate! Senti, ha già diminuito la velocità».

«Io non sento niente!» ribatto. Sento solo la bestia che si dimena nella pancia.

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TREDICI

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«Ascolta con il corpo, Mario, non con le orecchie. Fai attenzione alle vibrazioni dell’aereo e ti accorgerai che continua a perdere velocità. Prova a immaginare l’A320 come se lo vedessi da fuori. Sotto di noi c’è l’aeroporto. Gli uomini della torre di controllo hanno già comunicato alla comandante quale pista dovrà utilizzare. Le luci sulla pista sono accese. L’aereo perde gradualmente quota, il carrello è già fuori. Tra un attimo l’aereo sarà colpito su un fianco dai venti che soffiano a terra, sei pronto?» Aspetta, con un dito alzato. Un dito che dice: eccolo, fai attenzione, ascolta.

Poi lo sento: uno strappo violento a sinistra, e poi un al-tro e un altro ancora. Non è un vento continuo, ma raffiche rabbiose, una distinta dall’altra. Intanto oltre la pioggia vedo la terra che si avvicina. Mi sporgo verso il finestrino e capisco con orrore che non siamo dritti rispetto alla pista, ma ruotati a sinistra. E continuiamo a sobbalzare. Qualcu-no grida, qualcuno chiede che succede. I passeggeri adesso sono in allarme.

«Stiamo andando fuori pista!» dico aggrappandomi al sedile. Finiremo in acqua come quella volta in laguna. Sono sicuro.

«Calma, signori, calma, è tutto sotto controllo» dice la hostess bionda ad alta voce. Poi lo ripete in inglese.

Non so neppure se c’è l’acqua a Bruxelles. Non la lagu-na, intendo, ma magari un lago o un fiume…

«Fiorenza, stiamo atterrando storti!» grido. Adesso sono davvero spaventato. Cosa succederà se andiamo fuori pista? Forse l’aereo perderà il carrello delle ruote e si ca-povolgerà, oppure si schianterà sulla torre di controllo e prenderà fuoco. Quanto carburante ci sarà ancora dentro il serbatoio?

«Macché, la Dominicis, da quella grande pilota che è, ha messo l’aereo di traverso per farlo soffrire meno, ma lo raddrizzerà un attimo prima di toccare terra, cioè tra cin-que, quattro, tre, due, uno…»

Con un sussulto gli pneumatici posteriori dell’aereo toc-cano l’asfalto e un attimo dopo lo fanno anche quelli an-teriori. Adesso corriamo a velocità eccessiva, secondo me, ma perfettamente dritti rispetto alle linee bianche e alle luci della pista.

Scoppia un grande applauso di sollievo. Deglutisco.«Hai visto? Brava Dominicis, come sempre! L’hai sen-

tito il cambio di rumore, come se avesse inserito il freno a mano? Vuol dire che ha alzato gli alettoni delle ali, che fungono proprio da freni, e alla fine della pista girerà a si-nistra verso il gate». Gli occhi le brillano vivaci sul viso e improvvisamente riesco a vederla, giovane, alla guida del suo YAK 40, durante un atterraggio impegnativo.

DLIN. Signori e signore, benvenuti a Bruxelles. Per la vostra sicurezza e il vostro comfort vi chiediamo di restare seduti con

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le cinture di sicurezza allacciate fino a che il comandante non spegnerà l’apposito segnale luminoso. Vi invitiamo a controllare e recuperare i vostri oggetti personali e porre particolare attenzio-ne nell’aprire le cappelliere. Se avete bisogno di assistenza nello sbarco restate seduti e attendete che tutti gli altri passeggeri siano sbarcati. Dopo di che un’assistente di volo avrà il piacere di aiu-tarvi. Vi ricordiamo gentilmente di usare i vostri cellulari solo una volta entrati nel terminal. A nome di tutto l’equipaggio vi auguriamo un ottimo soggiorno e ci auguriamo di avervi di nuovo a bordo. Grazie di aver scelto la nostra compagnia aerea.

«Siamo arrivati, Mario mio. Tu alla tua nuova vita, io al mio premio alla carriera. Ti devo proprio ringrazià, per avermi fatto da cavaliere e pure per esserti rivelato il bravo ragazzo che m’ero immaginata che fossi».

«Grazie a lei per avermi raccontato tante cose e anche per avermi insegnato come si fa un atterraggio con forti venti a terra. Ho capito che si prova molta più paura quan-do non si conoscono le cose. Più lei mi spiegava il motivo di ogni variazione del volo, e meno mi sentivo spaventato. Grazie davvero».

«Hai detto una grande verità: è l’ignoto che ci spaventa. Potrei usarla per il discorso di domani sera, sò sicura che me applaudiranno tutti e io sarò costretta a confessare: nun è mica mia ’sta frase, è di Mario Vanni. Su, forza, tocca a noi, sennò blocchiamo la fila. Bimbi e vecchi scendono

sempre per primi». L’hostess bionda le porge il bastone, il trolley e, dopo un attimo di incertezza, la saluta con due baci sulle guance. Blocca la fila, fa uscire nel corridoio Fio-renza e poi me, ci affida a una nuova hostess di terra salita a prendermi e, finalmente, usciamo dall’aereo per entrare nel tunnel che ci collega all’aeroporto.

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Quattordici

Cammino lentamente per adattarmi al passo di Fioren-za. Fa freddo e mi tiro su la cerniera della felpa. Anche la mia compagna di volo si ferma per indossare la felpa che per tutto il viaggio aveva tenuto legata in vita. È azzurra, con un logo ricamato da una parte. Mentre gli altri pas-seggeri ci superano sbuffando, come se tutta la loro vita dipendesse dall’attimo di ritardo necessario a superare uno strano terzetto formato da un dodicenne, un’hostess di ter-ra destinata a scortarlo e un’anziana signora che loro nem-meno immaginano chi sia, io mi avvicino a Fiorenza per leggere il logo della felpa: Associazione Donne dell’Aria. Sorrido, chissà cosa mi aspettavo! Approfitto del fatto che ha le mani occupate per prenderle il trolley. Prima mi ero offerto di aiutarla, ma lei aveva rifiutato.

«Adesso quanti giorni resta a Bruxelles?» chiedo, per-ché non so cosa si dice quando si deve lasciare una persona.

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«No, è proprio una toccata e fuga. Stasera c’è una cena dell’Associazione durante la quale mi consegneranno un riconoscimento. Loro dicono che è un premio alla carrie-ra, ma io credo invece che sia un premio alla vecchiaia, Mario mio. Farò il mio bel discorso di ringraziamento, racconterò delle imprese di mio padre, del mio primo volo, dei colleghi che all’inizio non volevano una donna in equipaggio, del mio viaggio con lo YAK 40 fino in Australia… le solite cose, insomma. Chiuderò con una bella frase a effetto sull’ignoto che ce spaventa, loro ap-plaudiranno, io farò finta di essere costretta a confessare che l’ho rubata a un ignaro saggio regazzino durante un atterraggio impegnativo, me consegneranno un enorme mazzo di fiori che sarò costretta a regalare alla camerie-ra dell’albergo prima di tornare in aeroporto, che mica posso salì in aereo con i fiori in mano!, e poi domani prenderò il volo per Roma. Se stanotte ti rendi conto che Bruxelles proprio non ti piace, vedi di prendere lo stesso volo mio, quello delle 11.40. Ma sò sicura che il Belgio ti affascinerà».

Siamo entrati in aeroporto. Immagino che dovrei dirle qualcosa di intelligente, qualcosa che possa ricordare con piacere per un po’, ma non mi viene in mente niente.

Poi, a metà di un passo, mi accorgo che mi manca un ultimo pezzo della sua storia: «Signora Fiorenza, non mi

ha detto com’è stato andare in pensione dopo aver volato per tanti anni».

«Uno schifo, Mario mio. Te pare che una come me po-tesse andare in pensione normalmente, con un piccolo rinfresco nella saletta della compagnia aerea, in mezzo ai colleghi più giovani che brindano alla tua vecchiaia con i bicchieri di plastica e si abboffano di pasticcini mignon? Magari! Invece si è chiusa con la finale dei campionati di volo a vela a Rieti. Nel mio turno di riposo ero andata ad assistere a questa manifestazione e poi la sera stavo tornan-do a casa con la mia macchinetta e pensavo ai fatti miei quando…»

Sospira, poi si ferma e guarda davanti a sé, pensierosa. Scuote la testa.

«Quando…?» la sollecito.«Quando mi sono addormentata e mi sono infilata den-

tro a un muro».«Ha fatto un incidente?»«Ricordati sempre la prima regola dell’automobilista:

nun se deve mai dormì alla guida! Mi raccomando, Mario mio, perché basta un attimo, come successe a me quella sera. Che poi io mica me lo ricordo l’incidente, neanche adesso che sono passati tanti anni. Mi svegliai tre giorni dopo: ero distesa in un letto sconosciuto, immobilizzata come una mummia dell’Antico Egitto, e avevo la sensa-

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zione che una muta di cani affamati mi stesse divorando le gambe. Nessuno mi dava notizie precise, non capivo cosa mi stava succedendo, come mai avevo così tanto male. Poi venne a trovarmi un professorone, era il miglior ortopedi-co in circolazione. Mi disse con tono sconsolato: signora de Bernardi, nell’impatto violento della sua auto contro un muro lei ha riportato ben trentaquattro fratture alle gambe. Se devo essere sincero, per la prima volta nella mia carriera non so da che parte cominciare. Mario mio, mi sentii morire! Invece il professore studiò a fondo il mio caso, mi ricoverò nell’ospedale di Latina dove era primario e ricostruì con pazienza le mie ossa, un pezzetto alla volta. Una vite qui, un bullone là, una placca di titanio dove l’osso si era sbriciolato. Fece con le mie gambe quello che mio padre aveva fatto con l’aeroscooter. Dopo nove mesi di ricovero e molti interventi mi rimise in piedi. Purtroppo, però, la mia carriera di pilota era finita. I brevetti di volo scadono dopo sei mesi di inattività e mi ritrovai a due anni dalla pensione con i miei preziosi brevetti scaduti. Era im-pensabile riuscire a recuperarli in queste condizioni» dice agitando il bastone.

«Ha avuto paura?»«Certo, quando ero in ospedale avevo una fifa blu di non

poter più camminare. Quando mi rimisi in piedi capii che il peggio era passato, che dovevo semplicemente riorganiz-

zarmi la vita. Non avrei più volato? Pazienza, avrei fatto qualcos’altro per l’aviazione. Visto che avevo più tempo di quando ero pilota, mi impegnai maggiormente per l’As-sociazione Donne dell’Aria e poi per riportare l’aeroporto dell’Urbe agli antichi splendori, e poi per i diritti degli animali. Si trova sempre qualche battaglia da combattere, Mario mio. Tu c’hai ancora paura di volare?»

«No» rispondo convinto.«Mi fa piacere. E della tua nuova vita a Bruxelles hai

ancora paura?»Mi prendo il mio tempo, prima di rispondere. Non ho

una risposta chiara. Non ancora. «Non lo so. Ma forse sono meno arrabbiato di prima».«Ottimo. Perché la paura ci tiene inutilmente fermi.

Io, per esempio, alle volte penso che c’ho tanta paura del-le malattie, che forse m’è rimasta da quei lunghi ricoveri in ospedale. Non c’ho paura di morire: ho avuto una vita lunga, una bella vita. Ho fatto tutto quello che desideravo davvero fare, e quando me ne andrò, lo farò senza rimpian-ti. Ma vorrei chiudere come mio padre, in fretta, soltanto il tempo di un battito di ciglia, di pensare: quanto è stato bello vivere e volare!»

Restiamo a guardarci un attimo, poi il suo sguardo è richiamato da qualcosa alle mie spalle: «Ecco Mario, arri-vano i bagagli! Vai a recuperare il tuo».

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«Sì, ma… lei resta qui?»«No, io vado, ho un’auto che mi aspetta fuori. Allora

arrivederci, ti auguro ogni bene. E goditi Bruxelles, sono sicura che sarà una bellissima esperienza e poi, l’hai visto, in un’ora e mezza puoi essere di nuovo a Roma a trovare gli amici».

Mi porge la mano e, dopo un attimo di incertezza, glie-la stringo anch’io. Lei si gira e si incammina lentamente verso l’uscita. Una signora anziana, con le scarpe da run-ning, un bastone in una mano e il trolley nell’altra. Proba-bilmente i miei, che stanno aspettando fuori, la vedranno passare senza sapere chi è. Chi è lei e chi è stata per me in questo viaggio importante. Resto un attimo fermo, sospe-so, a chiedermi se avrei dovuto dirle qualcosa in più, o di diverso. Qualcosa di straordinariamente saggio e memo-rabile.

«Mario, forza, andiamo a recuperare il bagaglio» mi esorta la hostess. E capisco che, in effetti, non c’è nient’al-tro da dire.

Quindici

E poi eccoli. Fra tante altre persone, tanti volti che tradi-scono attesa, paura, felicità, desiderio. Li riconosco. Il mio sguardo li ritrova, come attirato nel porto dal fascio di luce di un faro. Non sono neanche i loro visi, in fondo non così diversi da quelli delle altre persone che aspettano, neppure i loro capelli o le giacche che riconosco. È l’espressione, che è solo la loro, è quel guizzo di gioia che colgo appe-na esco dalle porte automatiche, quel finalmente sussurrato che sento senza poterlo davvero ascoltare. È un’energia che funziona come un elastico, che ti permette di allontanarti, di arrabbiarti e immaginare di poterli odiare, e poi ti riav-vicina inesorabilmente.

È l’odore specifico dell’abbraccio di mamma, la morbi-dezza delle sue labbra sulla mia fronte, il peso delle mani di papà sulle spalle, il grattare familiare della barba sulla mia guancia. Sono le mille domande inutili – com’è an-

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QUINDICI

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dato il viaggio, hai fame, sei stanco – che non aspettano neanche risposta perché sono solo un apostrofo per la do-manda successiva, che si pronunciano solo per il piacere di gustarle in bocca.

È la loro presenza ritrovata che annulla la distanza e la paura precedente di essere qui. È come il reset del pc, pos-siamo cancellare e ricominciare. Un nuovo foglio bianco.

«Abbiamo tante cose da raccontarti» dice papà.Una ragazza esce dalle porte automatiche, fa due passi

esitanti e poi il viso le si trasfigura in un enorme sorriso, abbandona la valigia e corre verso un ragazzo, fregandosene del nastro distanziatore. Gli salta addosso, circondandogli i fianchi con le gambe. Lui affonda il naso nei suoi capelli.

«Vedrai che bello l’appartamento» dice mamma. Un giovane con lunghi rasta e un enorme zaino sulle

spalle raggiunge con calma quelli che devono essere i suoi elegantissimi genitori. Sembrano così diversi! La mamma piange e ride contemporaneamente e lo stringe come se non lo vedesse da un secolo, il padre li circonda in un ab-braccio silenzioso.

«Il laboratorio di scienze della tua scuola ti farà perdere la testa» dice papà.

Un uomo in giacca e cravatta avanza spedito, un trolley con quattro ruote sembra camminargli accanto autonoma-mente, come un cane al guinzaglio. Nessuno lo aspetta e

lui si affretta all’uscita senza guardarsi attorno. Il popo-lo colorato e misterioso dell’aeroporto non gli interessa, è proiettato verso il suo personale obiettivo.

«Ho già parlato con una società di basket nel nostro quartiere» dice mamma.

Un gruppo di anziani con la stessa bandana gialla al col-lo attornia una ragazza con una divisa rossa. Lei spunta con la penna l’elenco che ha in mano e sorride a ognuno di loro. Un appello, come a scuola. Probabilmente stanno partendo per un tour. Ridono e si scambiano battute in una lingua che non conosco.

«Mario, lo sai che…»«Possiamo discuterne dopo? Anch’io devo raccontarvi un

sacco di cose, ma ho bisogno di stare in silenzio per un po’».Mi guardano perplessi, inghiottendo a fatica le tante do-

mande che immagino stiano ancora spingendo prepotenti dietro le loro labbra chiuse.

«Certo, come vuoi. Ma va tutto bene, vero?»«Sì, tutto bene. È solo che ho chiacchierato tanto in ae-

reo con la signora seduta vicino a me e adesso ho bisogno di far riposare tutte quelle parole».

«Certo, se è quello che desideri… Staremo muti come pesci fino a casa, ok?» assicura mamma.

Ma non è solo questione di farle riposare, tutte quelle parole. Ho bisogno di coccolare la storia di Fiorenza, di

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farla mia, di conservarla ordinatamente in un cassetto spe-ciale che riaprirò tutte le volte che ne avrò bisogno. Perché il suo racconto è fatto di parole che mi interessano, che desidero diventino le mie: libertà, autonomia, passione, privilegio di essere diversi, espressione naturale di se stes-si. E poi paura, immobilità, impossibilità di pensare ad altro che non sia la paura stessa. E infine volare, che suona come vivere, come scegliere, come crescere…

Non posso ancora parlare di questo, le parole mi turbi-nano dentro scompigliate da un vento mo-de-ra-to. Sorri-do al suono della parola moderato. Per rendere l’idea del vento che strapazza i miei pensieri dovrei usare un tono suadente, accarezzando quell’aggettivo subdolo: moderati. No, devo usare un tono più carezzevole affinché nessuno capisca che sono così forti: moderati. Posso fare di meglio, essere maggiormente persuasivo: moderati.

«Moderati?» chiede mio padre perplesso.«Come?» domando a mia volta.«Hai detto “moderati” un paio di volte. Una volta così

piano che pensavo di aver capito male, la seconda volta più forte. Cosa sono moderati?»

«No, niente. È una cosa che ha detto Fiorenza».«Fiorenza? È una tua amica?» chiede mia madre, im-

provvisamente vivace. Si avvicina e mi mette una mano sulla spalla. Capisco dal tono che sta pensando a un certo

tipo di amica, e che è già pronta a giustificare il mio ma-lumore degli ultimi tempi con l’addio a una coetanea ro-mana. Ha già in testa il suo film romantico, deve soltanto aggiungere i titoli di coda.

«No, è la signora che mi sedeva accanto sull’aereo, quel-la che ha chiacchierato tanto».

Lei mi riserva un’espressione offesa. Non mi crede, non è disposta a rinunciare così facilmente alla prima cotta del figlio adolescente.

«Si chiama Fiorenza de Bernardi» specifico sbuffando. «Quella Fiorenza de Bernardi?» chiede papà sorpreso.«Penso di sì: la pilota comandante Fiorenza de Bernardi,

figlia dell’asso dell’aviazione Mario de Bernardi. Ma non eravamo d’accordo che saremmo rimasti in silenzio fino a casa?»

«Sì, ma questo era prima di sapere che avevi viaggiato accanto alla prima donna comandante italiana. Adesso tut-ti gli accordi sono saltati» afferma trionfante papà.

Alcuni autisti in divisa scura sostano nella hall mostrando dei cartelli. Riesco a leggere un Mister Greenland, una Ma-dame Leroi e un Monsieur Geneve. Immagino che un quar-to d’ora fa ci fosse un altro autista con un cartello con scritto de Bernardi. Chissà se c’era scritto signora o madame.

Le porte esterne dell’aeroporto si aprono automatica-mente davanti a noi. Rabbrividisco: eccomi a Bruxelles,

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sono arrivato. Mentre ci dirigiamo verso il parcheggio, immagino cosa penserei, se fossi un estraneo, di questa fa-miglia. Un uomo con la barba che trascina la valigia blu, una donna bionda che non smette di guardare un ragazzi-no con la felpa azzurra che fa ostinatamente finta di igno-rarla. Chissà se, come estraneo, potrei capire che quella famiglia sta iniziando una nuova vita, che quel figlio fino a un paio d’ore fa era arrabbiato mentre ora è… Non lo so neanch’io come mi sento in questo momento, ma proba-bilmente la definizione migliore è: scosso all’interno da venti moderati. Mi tiro sulla testa il cappuccio della felpa, non per il freddo, ma per poter proteggere i miei pensieri, per pensarli e farli diventare davvero miei. La mia visione si restringe, il mondo si riduce ai piedi di mio padre e alle rotelle della valigia. Ancora un attimo di quiete, per pia-cere, prima di iniziare la mia nuova vita.

Ringraziamenti

Un abbraccio a mio figlio Elia Maran, per i preziosi di-segni esplicativi della forza combinata di depressione dor-sale e sovrappressione ventrale che permette ai velivoli la magia di alzarsi in volo e di restarci. Un ringraziamen-to di cuore al pilota di linea Alessandro Volpe che mi ha spiegato cos’è una “vite”, in che circostanze è più facile incontrare turbolenze e come si affronta un atterraggio con venti “moderati”. Qualsiasi errore non è da attribuire a loro, ma alla mia limitata capacità di comprendere que-stioni prettamente tecniche. Grazie alle loro spiegazioni, recentemente ho perfino millantato una lunga esperienza da viaggiatrice intercontinentale per tranquillizzare un passeggero terrorizzato dal suo battesimo del volo!