338 · pensato che si trattasse ... Mercoledì 4 luglio a Bottega Strozzi, ... zione che ho sempre...
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Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
Numero
271 338
14 luglio 2018
Maschietto Editore
Il petrolieredel cambiamento
Il turismo è il petrolio dell’ItaliaGian Marco Centinaio,
ministro delle Politiche agricole
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagine
Vinci, 1995
La prima
Ingresso di un
appartamento a Sesto
Fiorentino. Ho suonato
il primo campanello
con targhetta scritta
in cinese ed è uscita
questa bella ragazza
che ha iniziato a
parlare con me e con
una vicina di casa che
era sul pianerottolo.
Ho scattato questa
immagine mentre le
due giovani stavano
conversando. L’altra
ragazza era italiana e
tra le due sembrava
esserci una grande
intesa e una bella
e lunga amicizia,
La ragazza cinese
parlava un italiano
senza un accento
particolare e con una
proprietà di linguaggio
davvero incredibile.
Probabilmente la
sua era una famiglia
arrivata in Toscana
molti anni prima e lei
doveva aver seguito un
percorso scolastico serio
e proficuo. Ricordo di
essere rimasto molto
stupito per il suo
italiano e le ho fatto
anche dei complimenti.
Se l’avesssi sentita
parlare senza vederla
in faccia non avrei mai
pensato che si trattasse
di una giovane cinese.
Direttore
Simone SilianiRedazione
Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
www.culturacommestibile.com
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Editore
Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142
Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Numero
271 338
14 luglio 2018
In questo numeroL’impresa di fare museo
di Michele Morrocchi
Musei popolari o populisti?
di Francesca Merz
Galassia Dino Campana, una nuova guida
di Dino Castrovilli
Fra S.Giorgio e S.Felicita
di M.Cristina François
Walter Chappell Fra corpo e natura
di Danilo Cecchi
Le trasformazioni del paesaggio
di Biagio Guccione
Un arcipelago di suoni
di Alessandro Michelucci
La cultura della politica dell’impegno e del fare
di Elena Gonnelli
Architetti spontanei
di Valentino Moradei Gabbrielli
BAU OUT Vie d’uscita possibili
di Laura Monaldi
Donne in barca
di Luisa Moradei
Alla ricerca del Quarto Paesaggio
di Simone Siliani
e Capino, Paolo Marini... Illustrazioni di Lido Contemori e Massimo Cavezzali
Diplomazia
Le Sorelle MarxRenzi Angela
I Cugini Engels
Silvio turco
Lo Zio di TrotzkyRinasce l’asse Roma-Berlino
Il fratello di Molotov
Riunione di famiglia
414 LUGLIO 2018
Mercoledì 4 luglio a Bottega Strozzi, nell’o-
monimo palazzo fiorentino, si è presentato
il volume “Il museo diventa impresa” Ce-
lid editore, di Maurizio Vanni, museologo
e docente di marketing cultural e, direttore
del Lucca Center for Contemporary Arts
(Lu.C.C.A.) insieme a Domenico Piraina di-
rettore di Palazzo Reale a Milano, moderati
dal nostro redattore Michele Morrocchi.
Il libro di Maurizio Vanni è un testo agile ma
è davvero un unicum in un contesto di tante
pubblicazioni dedicate ai musei, è un libro
che ha la caratteristica di essere utile sia agli
addetti ai lavori ma anche per il grande pub-
blico, un libro che affronta il ruolo “nuovo” di
un museo anche nel suo rapporto col territorio
e con le imprese. Ed è proprio questo punto
una delle forze di questo libro, che andrebbe
fatto leggere obbligatoriamente agli addetti
marketing delle imprese. Quello di cui parla
questo libro è qualcosa di reale, il luogo in cui
lo presentiamo, Bottega Strozzi ne è una di-
mostrazione plastica; seppure qui da noi ci si-
ano una serie di resistenze, storiche, culturali,
ma anche di linguaggio che Maurizio nel testo
affronta benissimo. Il punto è che per avere le
imprese a fianco dei musei bisogna parlare la
loro stessa lingua. Il che vuol dire avere i conti
in ordine da un lato, ma molto più profonda-
mente significa usare un linguaggio che sia
spendibile e che faccia capire i benefici non
solo e non tanto economici ma del poter inve-
stire in cultura: mettere a profitto dei soldi spe-
si, le esperienze e il tempo e le risorse dedicate.
Ma perché dovrebbe investire in cultura una
impresa? È sufficiente il tema della defiscaliz-
zazione, dell’art bonus? No a mio avviso. È
certo un passo avanti, come primo elemento
di un percorso che però deve essere più forte e
più importante. Dico questo partendo anche
dal contesto delle imprese italiane, in primis
dal loro dimensionamento. Il libro e l’espe-
rienza di Maurizio ci parlano di un museo
non come veicolo di costruzione pubblicita-
ria, ma di edificazione identitaria. Viviamo
in un’epoca in cui comunichiamo qualunque
cosa, vendiamo prodotti attraverso esperienze,
e non soltanto messaggi pubblicitari: il museo,
i sistemi culturali sono o possono diventare un
elemento centrale e fondamentale di un nuo-
vo marketing. Ma per investire in un museo,
le imprese lo devono trovare vivo, funzionan-
te, accattivante e che quindi abbia fatto su di
sé le operazioni che va a proporre alle imprese.
Maurizio Vanni Questo libro non sono
istruzioni per l’uso, sarebbe presuntuoso pen-
sarlo, ma una forte sollecitazione a cambiare
di Michele Morrocchi L’impresadi faremuseoparadigma, a cambiare l’ottica delle cose, alla
fine basta poco per scoprire qualcosa che già
c’è. Il mio percorso è partito dall’andare a cer-
care i punti forti che già abbiamo: il nostro
museo rappresenta il nostro DNA, di chi vive
in modo anche profondo, spirituale le nostre
città. Un bel giorno qualcuno però qualcuno
dice: “la cultura è anche valore economico”. Io
sono partito proprio dall’analizzare la cultura
come valore economico; partendo dal museo.
Il museo diventa impresa non per stravolgere
le sue funzioni tradizionali ma per allinearsi
ad avere proposte contemporanee, network
internazionali, avere quell’indipendenza eco-
nomica che ti permette di raggiungere davve-
ro gli obiettivi anche dal punto di vista socio
economico e scientifico.
Non c’è l’invenzione non c’è la genialità.
Non c’è niente di straordinario in quello che
c’è scritto nel libro. Ci si pone solo il deside-
rio di portare molte persone al museo, ma con
coscienza e consapevolezza. Per fare questo,
per parlare con i segmenti di pubblico di
un museo bisogna intanto imparare a par-
lare lingue diverse. C’è spesso nei musei un
riflesso aristocratico anti divulgativo, io ho
fatto l’opposto: ho puntato tutto sulla divul-
gazione, sulla comprensività e sulla linearità
dei passaggi. Perché alla fine un museo che
non è frequentato forse non si può nemmeno
chiamare museo. Provoco certo, ma un mu-
seo frequentato può permettersi di avere un
rapporto con l’esterno, con il territorio, con
le imprese. Al LU.C.C.A. abbiamo ottenuto
quasi il 60% dei finanziamenti grazie a impre-
se private, che non hanno mai sponsorizzato
ma che hanno avuto un ruolo fondamentale
di partnership: loro ci hanno aiutato a soprav-
vivere e noi abbiamo lavorato insieme a loro
per connetterli con i loro mercati. La cultu-
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ra come straordinario e prezioso strumento
di marketing per le imprese dimostrando al
contempo che creare valore economico non
significa trasformare il museo in un super-
mercato.
Abbiamo però spesso uno stereotipo del priva-
to nei musei, in questa città in modo particola-
re, in cui qualunque intervento privato viene
visto come tradimento della missione musea-
le. Naturalmente c’è anche un fondo di verità:
i privati nel sistema museale italiano hanno
anche spesso spolpato risorse. L’inserimento
dei privati, però afferma Maurizio nel suo li-
bro, garantisce invece equità sociale. Quindi
ribalta completamente il concetto e ci dice il
museo fa meglio il museo se il privato investe
al suo interno. Non se ci mette dei soldi ma se
diventa partner. È un cambiamento possibile?
È qualcosa che a Milano, per esempio, avvie-
ne? E le politiche pubbliche di questi anni
sono andate in questa direzione?
Domenico Piraina Su questo tema ho lavo-
rato molto sia nella pratica che nella teoria. A
quelle persone che sostengono che il museo,
la cultura in generale, non devono aprire la
porta ai privati, io dico: “certo se il pubblico
fosse in grado di fare tutto non ci sarebbe ne-
cessità di avere i privati”. Quando dico fare
tutto vuol dire avere le risorse in termini di
soldi, banalmente, in termini di personale, in
termini di procedure per fare tutto. Quando
invece noi direttori di musei siamo obbligati
a lavorare in una situazione in cui le risorse
pubbliche sono ormai quelle che sono o sem-
plicemente le assunzioni non si possono fare.
Bisogna cominciare anche a dire la verità.
Nelle declaratorie delle professioni non esi-
ste la figura dell’esperto di marketing muse-
ale, non esiste la figura dell’esperto di comu-
nicazione culturale. Esistono amministrativi,
architetti, ingegneri, geometri. Mentre i mu-
sei hanno bisogno di quelle figure lì, ma tu
non le puoi prendere, perché non c’è proprio
la casella prevista e non puoi fare concorsi
per assumere quella tipologia di persone.
Le procedure: per fare una gara di allestimen-
to ci metti circa un anno. Prima devi fare la
gara per selezionare l’architetto a cui affidare
la progettazione dell’allestimento. Passano 5,
6 mesi. Poi lui fa il progetto in base alle indi-
cazioni dei curatori e dopo devi fare un’altra
gara per scegliere il soggetto a cui affidare la
realizzazione dell’allestimento. Poi nel frat-
tempo il secondo arrivato probabilmente ha
fatto ricorso al TAR.
Queste sono le realtà. Non c’è più oggi del
problema di scelta se lavorare in collaborazio-
ne con il privato o non lavorarci. Noi non ci
troviamo più in questa condizione di scelta.
Noi ci troviamo di fronte ad una strada obbli-
gata, piaccia o non piaccia. È così. Se non si
vuole questa cosa , la collaborazione con un
soggetto privato, lì ci vogliono risorse econo-
miche, personale, cambiare le procedure.
Ma sono scelte costose e bisogna vedere se il
pubblico se lo può permettere. Devi mettere
i soldi in bilancio altrimenti sono chiacchere.
C’è anche però una valutazione più generale.
Perché abbiamo vissuto, almeno per 50 anni,
creando dei totem. Delle cose che non esisto-
no. A me è sempre stato detto che la Costi-
tuzione italiana nel promuovere lo sviluppo
della cultura sostanzialmente si risolveva
nella tutela e nella conservazione. Ponendo
quindi la valorizzazione come un aspetto
secondario. Quando invece la Costituzione
dice un’altra cosa, dice che il fine della cul-
tura è la promozione dello sviluppo umano.
Non bisogna confondere i mezzi con i fini.
La tutela è fondamentale, la conservazione è
aspetto centrale, ma la tutela è un mezzo non
è un fine. Il fine è lo sviluppo della persona
umana. Alla quale contribuisce un altro mez-
zo che è la valorizzazione.
La convenzione di Faro ha messo le cose ab-
bastanza a posto per fortuna. Del 2005, seb-
bene sia stata sottoscritta dall’Italia nel 2016,
dice esattamente le stesse che sto dicendo io.
Cioè che il bene culturale deve essere messo
al servizio della collettività, la quale può de-
sumere dal bene culturale tanti tipi di valori,
ivi compreso il valore economico. Non è più
un’opinione è un fatto. C’è un documento uf-
ficiale recepito anche dalla Repubblica italia-
na, che dice queste cose.
Questo libro quindi va proprio nella dire-
zione che ho sempre sostenuto e cioè che la
gestione di un museo non si può fare a pre-
scindere da considerazioni di carattere eco-
nomico. Come nelle nostre famiglie. In una
famiglia in cui hai difficoltà a mettere insieme
il pranzo con la cena difficilmente ci sarà tem-
po per parlare della critica della ragion pura
di Kant.
Il bilancio del comune di Milano che destina
alla cultura (musei, spettacolo, biblioteche),
compresi gli stipendi non arriva a 60 mi-
lioni di Euro, mentre la sola Tate riceve dal
governo di Londra 250 milioni di sterline; la
“povera” Scala di Milano, riceve dal comune
6 milioni di Euro all’anno. Gli ottimi ammi-
nistratori della Scala hanno trovato risorse
dal privato. Vivono sulla bigliettazione e sui
contributi dei privati.
Ma questo non significa che se il privato ci
mette i soldi quello diventa un museo priva-
to. Negli Stati Uniti c’è certo il Metropolitan
che non riceve soldi diretti dallo Stato ma con
la defiscalizzazione è come se le ricevesse.
Perché cosa sono le defiscalizzazioni? Sono
soldi che lo Stato dovrebbe introiettare ma
vi rinuncia per scopi sociali. Quindi sono fi-
nanziati in maniera indiretta. Non esiste oggi
un museo, se non piccolissimo, che non sia
finanziato direttamente o indirettamente dal
pubblico.
Il problema vero quindi è come tu fai le cose.
Che rapporto hai con il privato. A Milano ho
adottato il seguente metodo, non solo io ma
tutta l’amministrazione: le strategie le decide
il pubblico. Punto. Come devono essere fatte
le cose lo decide il pubblico; poi la gestione
operativa, concreta, finalizzata a centrare
quegli obiettivi che sono stati dati dal pub-
blico compete al privato. Perché il privato lo
sa fare meglio, intanto perché è più veloce.
Non deve chiedere il permesso per usare i
suoi soldi. A noi interessa che le aziende che
utilizzano, le persone che scelgono, rispettino
certi criteri di capacità economica, finanzia-
ria e etica che siano adeguati a una pubblica
amministrazione.
La collaborazione del privato è positiva però
sempre laddove c’è una parte pubblica for-
te. Il pubblico deve essere più forte, i privati
quando lavorano con noi ci chiedono di ave-
re un interlocutore forte. La mia esperienza
dice che il privato non ha interesse ad avere
un pubblico debole perché pensa così di fare
meglio i propri interessi, Non è così, è il pri-
vato stesso che chiede di avere a che fare con
un interlocutore pubblico forte, autorevole.
Perché sa benissimo che soprattutto in mate-
ria culturale senza il sostegno, materiale e im-
materiale, del pubblico non sarebbe in grado
sostanzialmente di fare alcun che. Perché il
grado di affidabilità e credibilità che serve nel
campo della cultura lo possono dare solo le
grandi istituzioni pubbliche, i grandi musei.
Mentre è giusto che il privato laddove gli rie-
sce, nelle regole, tragga un profitto. L’impor-
tante è farlo nelle regole.
Però attenzione se tutto si risolve sulla ge-
stione de il Colosseo o degli Uffizi o di Pom-
pei, non andiamo da nessuna parte: ci sono
migliaia di musei italiani in cui i privati non
vanno perché andarci significherebbe perde-
re soldi a prescindere.
Ritornando al tema del marketing, spiegando
cosa può essere il marketing per un museo e
per una impresa Vanni non arriva a spingersi
a dire che il marketing è cultura ma traccian-
do le parole chiave di questa disciplina, si par-
la di “creatività, coraggio, fantasia, curiosità,
scambio”. Se ci si riflette un secondo sono le
parole che, forse attraverso uno stereotipo,
associamo dall’ottocento all’artista. Il marke-
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ting, l’impresa, si è appropriato di queste pa-
role, un po’ come il capitale si è appropriato
dell’analisi marxista, la cultura sembra aver-
ne invece un po’ timore. Ha perso il coraggio?
cosa deve fare per riappropriarsene? Può an-
cora farlo?
Maurizio Vanni Parto dal mio percorso per-
sonale: ho fatto studi umanistici, sono muse-
ologo, critico d’arte poi mi sono approcciato
all’economia, al marketing; perché dobbiamo
partire dal presupposto fondamentale: se
una industria culturale non ha un brand, si
dimentichi di avvicinarsi non solo al privato
ma anche al pubblico. È fuori gioco, non par-
tecipa, non è interessante. Non viene visitato,
perde credibilità, Se abbiamo un luogo che ha
storia, reputazione, che in passato ha arricchi-
to e difeso la propria collezione, conservan-
dola, si può aprire uno spiraglio legato alla
cultura del marketing. Ti ribalto il concetto:
sono 6 anni che insegno marketing museale a
Buenos Aires solo negli ultimi due mi fanno
usare la parola marketing per la cultura. Per-
ché non sopportavano un termine così troppo
economico per un concetto pubblico di siste-
ma museale. Poi hanno capito che i linguaggi
si possono incrociare: il convincimento, la
pubblicità mono codice, non funziona più.
Occorre adattarsi al cambiamento sociale vi-
viamo una crisi che a me appare antropologi-
ca: non abbiamo accettato il cambiamento e
ci siamo scoloriti.
Dobbiamo cambiare la strategia, imprese e
musei: abbiamo però un interesse comune,
dobbiamo avvicinare queste “nuove” persone.
Cosa dice l’impresa? Ho magari un prodotto
funzionale, un brand che funziona, ma non
trova più quali sono i suoi mercati. La cultura
potrebbe aiutarli con un codice comunicativo
diverso, con nuove strategie. Allora il museo,
disciplinando il rapporto con regole ferree,
può diventare un luogo meravigliosamente
aperto, attivo e interattivo, dove realmente gli
interessi di pubblici diversi possono diventare
interessanti a patto che ci sia ancora un desi-
derio di intraprendenza di non convenziona-
lità. La cultura può preparare emotivamente
un pubblico per l’azienda, raccontando una
storia di un prodotto e connettere una per-
sona “diversa” a quel prodotto. La intercon-
nessione diventa partnership, nessuno regala
denaro. Il mecenatismo è occasionale. C’è in-
vece l’azienda che ha bisogno di aprirsi a nuo-
ve opportunità e queste opportunità mettono
in condizione la intraprendenza della cultura
come veicolo esperienziale.
In questo seno, per esempio Samsung ha
scelto l’industria culturale, ha scelto modelli
sociali, perché ha scelto una comunicazio-
ne che connota lo stile di vita di chi sceglie
i loro prodotti. Un museo diventa la piat-
taforma perfetta per questo, la piattaforma
esperienziale ideale a prescindere. Atten-
zione però non deve decidere l’impresa: ci
sono coordinate, regole e distinzioni. A noi
chiedono “vorrei incontrare queste persone”
e entrambi parliamo un codice economico. I
nuovi mercati vanno intercettati, conosciuti,
segmentati, coinvolti e vanno fidelizzate.
Sto in modo ardito considerando i pubblici di
un museo come clienti del museo e non mi
pento. Perché alla fine quello a cui un museo
deve aspirare non sono le persone che occa-
sionalmente passano una volta nella vita da
lì. Non ci interessano i visitatori che passano,
in media 20/30 minuti per visitare un grande
museo, che non vanno lì a meditare o a nu-
trirsi, vanno a farsi il selfie. Non è che non
vogliamo questo pubblico, ma non può essere
questo pubblico a cui aspirare. Se invece con-
notiamo il museo di servizi con una grandissi-
ma a cosa vogliono le persone, questa filosofia
funziona e il cliente felice del museo può es-
sere anche il cliente felice del brand.
Al LU.C.C.A. non chiediamo al visitatore
se è piaciuta la mostra ma se si è divertito, se
ha avuto un momento bello e interessante
e gli proponiamo una cialda olfattiva, un
prodotto per trasmettere lo stesso profumo
che senza saperlo ha odorato sul quadro su
cui ha passato più tempo. Per rivivere in
modo differito quell’esperienza emozionale
odorando la stessa fragranza. Ovvio che c’è
scienza e fantascienza: io questo lo chiamo
giocosamente, inganno leale. Io vedo il mu-
seo come il nuovo luogo dove le persone pos-
sono rincontrarsi fisicamente e giocare con i
sensi.
Insomma, col marketing olfattivo Maurizio
ha creato il museo Madeleine, un sogno per
un amante di Proust come me. Però lancio
una provocazione, “facile fare investire in
cultura Samsung”, difficile arrivarci a Sam-
sung magari, ma poi per tipologia di prodot-
to e disponibilità economica diventa facile.
Con imprese che non vengono dal mondo
della moda, del design, della tecnologia si
può fare lo stesso?
Domenico Piraina È abbastanza semplice
questa risposta: il coinvolgimento di ogni
soggetto privato è possibile se apri un rappor-
to con lui, se si ragiona sui valori che vuole
esprimere il museo ma anche l’azienda. Un
museo può essere letto in mille modi, perché
le opere d’arte per loro natura sono polise-
miche. Già quando nasce ha una miriade di
significati che poi si trasformano e cambiano
nel tempo. Quindi se ogni opera può esse-
re guardata in N modi diversi, moltiplicate
questo per le cinquecento, mille, opere di
un museo e pensate a quante opportunità
possono esserci. Non può esistere che non
ci sia la possibilità di identificare un aspetto
di un museo, un aspetto valoriale, che non
vada bene a qualunque tipo di azienda. An-
che perché le aziende rappresentano esse
stesse dei valori: una cultura organizzativa,
rapporti con i propri mercati. Vanno fatti
incontrare e si trova sicuramente il punto di
sintesi che va a vantaggio di entrambi.
Maurizio Vanni Il lavoro del curatore è or-
mai cambiato nel mondo. Un tempo si por-
tava in valigetta un progetto, un programma
e si andava a conoscere altri direttori. Oggi
non funziona più così: nei paesi più progre-
diti non domandano più cosa gli abbiamo
portato nella borsa, ma ti pongono un proble-
ma: per esempio che nel suo museo non ven-
gono adolescenti, le famiglie fanno fatica, gli
specialisti si lamentano degli orari. Chiedono
una strategia, magari legata anche a esposi-
zioni temporanee, che possa risolvergli questi
problemi, questi bisogni. Si parte da ciò che
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In questi ultimi tempi sembra che la parola
“populismo” sia riapparsa prepotentemente sui
nostri schermi, nuovamente alla ribalta su ogni
fronte, prima di tutto quello politico, ma il popu-
lismo è molto altro, una vera e propria filosofia.
Non è questa la sede per parlare della filosofia
del populismo, ma per chi fosse interessato all’ar-
gomento mi permetto di consigliarvi l’interes-
sante lettura di Nicolao Merker “Filosofie del
populismo”, edito da Laterza, che spiega nel det-
taglio le ragioni storiche, filosofiche e, direi quasi,
antropologiche, della nascita dei populismi. Ciò
che mi preme invece indagare in questo breve ar-
ticolo è la contrapposizione culturale tra coloro
che ritengono che i musei e i luoghi di cultura
debbano essere preservati, quasi nascosti al po-
polo, e coloro che hanno invece perorato un’idea
di cultura popolare, ma che subito ha finito col
divenire populista.
La prima è un’idea che pare antica, ora, ma che
fino a qualche anno fa era in auge, secondo cui
bastava e avanzava il ristretto circolo culturale
di utenti affezionati, conoscitori, esperti, con i
quali colloquiare di argomenti alti, che fossero
l’archeologia, la storia dell’arte, o del merletto; ed
ogni ingerenza del popolo, delle masse, della gen-
te, era vista con una certa preoccupazione. Chi
si doveva occupare della gestione della cultura
amava tenerla per sé, e ci si preoccupava che essa
fosse conservata, assai più di quanto non fosse
la preoccupazione di renderla diffusa, il popolo
doveva avvicinarsi alla cultura “già sapendo”.
Ovviamente, come in ogni altro ambito sociale,
a questa spinta elitaria, ne è succeduta per con-
trapposizione, subito dopo, una smaccatamente
populista, populista e non popolare, per le ra-
gioni che vi enuncerò: la cultura doveva essere
accessibile, diffusa, condivisa, e questo è ottimo,
questa è la base di ogni democrazia che si rispetti,
creare cultura nei propri cittadini permette loro
di scegliere con consapevolezza, cognizione, sen-
so civico, visione globale. Ma non è facile, è più
facile, ed è stata questa la strada, definire dall’alto
le “pillole” di cultura che si vogliono propinare
al proprio pubblico, standardizzarle, renderle
appetibili utilizzando mezzi di diffusione e me-
dium ad esso congeniali, come farebbe una mul-
tinazionale di gelati o di pop corn: il museo do-
veva diventare un’esperienza, così ci siamo detti
per anni, il marketing del tempo libero ci impo-
neva di considerare che il luogo di cultura, il mu-
seo per dirne una, era in stretta competizione con
il centro commerciale, il parco divertimenti o il
grande mall con sconti pazzi.
Era vero, non c’era dubbio, erano questi i com-
petitors per spendere il proprio tempo libero e i
propri soldi, la strategia è stata quella di portare
dunque una grande quantità di medium, ovvero
metodologie comunicative, multimediali e espe-
rienziali, che erano proprie di questi competi-
tors, all’interno dei luoghi di cultura: la strategia
poteva funzionare, spesso per avvicinare ambiti
differenti si crea una relazione in cui i reciproci
elementi si compenetrano, se fosse stata applica-
ta con uno studio lungo, specifico, dettagliato (in
molti casi lo è stato, portando a straordinarie no-
vità ed esempi di grande rilievo) questa compe-
netrazione avrebbe sicuramente non solo portato
più persone all’interno dei luoghi culturali, pri-
ma percepiti come chiusi e polverosi (non erano
né chiusi né polverosi in molti casi, va detto an-
che questo) , ma avrebbe anche dato loro, grazie
ai nuovi strumenti, maggiore consapevolezza e
facilità nel dialogare con le opere d’arte.
Ma la strada era in salita, e le salite non sono sem-
pre piacevoli, dunque, da un improvviso exploit
Musei popolari o populisti? di Francesca Merz
manca non da ciò che c’è. Dunque non è det-
to che una mostra bellissima possa andare
bene a tutti i musei del mondo. Questo è il
primo cambiamento. Il curatore deve cono-
scere delle strategie per essere efficace ed effi-
ciente oltre che scientificamente rigoroso. Le
aziende, i partner, devono essere approcciati
allo stesso modo. Non si va a chiedere quanti
soldi possono dare per una mostra ma a spie-
gare come possono fare più soldi tramite una
nuova strategia. Noi come cultura, come mu-
seo, come piattaforma artistica siamo in gra-
do di rispondere a qualche bisogno. Dunque
qualunque azienda può essere interessata,
può essere coinvolta. La cultura crea identità,
identità che si può “appiccicare” all’impresa,
suscitare un bell’effetto sul territorio, sui mer-
cati.
All’azienda non dobbiamo raccontare che
portiamo con una mostra 150.000 persone
che vedranno il loro logo. Del logo apposto
nel catalogo o nella cartellonista non inte-
ressa più a nessuno. Dobbiamo dire loro che
durante l’evento mostra alcune opere diver-
ranno portatrici di messaggi, di metafore o
semiofore che vanno nella direzione ricercata
dall’azienda, verso il pubblico di riferimento
di quell’azienda. Ecco allora che la prospet-
tiva cambia.
A Lucca lo abbiamo fatto con aziende metal-
meccaniche che producono tissue paper, car-
ta igienica e tovagliolini. Non è facile trovare
bellezza attraverso una meravigliosa carta
bianca le cui finalità sono note. Però abbiamo
chiesto loro: “chi volete?” “il mondo. Però ab-
biamo una ottima mailing list” è stata la loro
rispota. Nel libro c’è tutta la storia che è an-
che molto divertente. Si trattava di aziende
in crisi di fronte alla concorrenza cinese; 12
aziende che si sono messe assieme anche gra-
zie alla cultura. Abbiamo creato per loro un
meraviglioso inganno reale, abbiamo fatto in-
ternazionalizzazione inbound facendo venire
il mondo a Lucca, in tre strutture spettacolari,
li abbiamo invitati a vivere la cultura, la città,
il museo. Abbiamo trasformato la cultura in
opportunità per queste aziende. Non sappia-
mo i contratti firmati, noi abbiamo raccontato
la rete di queste imprese attraverso la piatta-
forma museale e attraverso il territorio ma la
rete è tuttora in vita e sono diventate quindi
competitive rispetto ai cinesi e si portano
dietro una cultura che non è una mostra ma
una filosofia di comunicazione. Tutto questo
senza intaccare minimamente il valore e la
funzione storica del museo. Abbiamo abusato
dolcemente dei servizi e degli spazi neutrali.
Abbiamo fatto del museo un’impresa e conti-
nuiamo a farlo.
814 LUGLIO 2018
di coscienza culturale collettiva, ci siamo in mol-
ti casi, e molto presto, ritrovati a dover sorbirci
tanta cultura populista: mostre esperienziali,
blockbuster sempre uguali che giravano in lun-
go e in largo senza alcun riferimento al territorio,
le cosiddette “mostre temporanee” hanno dato
il meglio di sé, il mercato richiedeva questa for-
mula: il contenuto doveva evidentemente essere
semplificato per una comprensione più generale,
ma da una semplificazione si è presto passati a
ridicole esibizioni prive di contenuti, “the show
must go on”, ma è servito anche questo, è stata
una fase, a mio avviso non del tutto sprecata,
perché ha permesso a chi come me fa questo da
una vita, di prendere consapevolezza di un cam-
biamento necessario: da una parte non si poteva
più ritenere che i musei fossero o potessero es-
sere enclave di studiosi, che rifuggono le masse,
quasi schifandole o avendone paura, dall’altra
non si poteva pensare che un museo potesse es-
sere apprezzato in modo congruo con milioni di
persone che si spintonano senza coscienza di ciò
che stanno vedendo.
E il dibattito, lì, anzi direi, qui, si è arenato, in
cerca di risposte. In molti casi le due correnti
mantengono ancora abbastanza intatte le proprie
posizioni: quelli che “gli fanno schifo tutte le mo-
stre, le tecnologie etc perché sono un dispendio
di denaro, investiamolo in altro”, e quelli che “sia-
mo 4.0, diciamo tre cose e per il resto li stordiamo
con un po’ di effetti speciali”.
Nel mezzo, come avrete capito, c’è l’idea di cul-
tura della sottoscritta, o di cultura popolare, se
vogliamo chiamarla così, non populista, c’è l’abis-
so culturale (e fatemi dire politico) di un Paese di-
viso in due, che non trova il modo di raccontarsi
che quelle relazioni tra arte, tecnologia, esperien-
za, gioco, come si potrebbe dire “tra il culturale
e il ricreativo” devono essere costanti, nascere
insieme. E’ da sempre che mi domando come
questo possa essere fatto, e ogni volta è una nuo-
va sfida, a volte vinta, a volte persa miseramente,
perché non sempre budget, team, circostanze,
permettono di sperimentare al massimo una vera
e propria cultura popolare, ma, nel corso delle
mie peregrinazioni tra meeting internaziona-
li, molto mi è servito confrontarmi con i musei
africani, in particolare con quelli marocchini, e
con alcune esperienze di nascita di un museo dal
basso. L’occasione dei fortunati incontri è stata la
conferenza “we are museum” che quest’anno si
è tenuta per l’appunto a Marrakech, e alla quale
hanno partecipato musei da tutto il mondo. L’ar-
gomento generale della conferenza era quanto
mai interessante: il patrimonio immateriale,
come conservarlo, come tramandarlo.
Per patrimonio immateriale si intende tutto ciò
che riguarda la storia sociale, antropologica e arti-
stica di una comunità, tale patrimonio, come po-
tete ben immaginare, riguarda ogni aspetto della
vita sociale: cibo, musica, arte, sport, racconti
tramandati oralmente. L’idea, assolutamente ne-
cessaria per le comunità non ancora totalmente
inghiottite dal consumismo e dalla globalizzazio-
ne capitalistica, è quella che sia imprescindibile
riconoscersi in un’identità e in una storia comu-
nitaria, proprio per essere poi in grado, tramite
il riconoscimento di noi stessi, di riconoscere gli
altri, le differenze, di accettarle e comprenderle
in maniera profonda e costruttiva. La nascita
di veri e propri musei di cultura immateriale ha
però una peculiarità, ovvero comporta comporta
la necessità di coinvolgere il “popolo”, ovvero le
persone comuni, depositarie di quelle conoscen-
ze, fin da subito nell’ideazione scientifica e nella
costruzione dei contenuti all’interno dei percorsi
espositivi. Queste esperienze mi hanno illumi-
nato, devo dirlo sinceramente, poiché se, come
io ritengo, il vero dramma della società moderna
è questa totale incapacità comunicativa tra la
fascia di cosiddetti intellettuali, e la base della
società, solo una nascita della cultura dal basso,
ma sempre accompagnata da professionisti, può
colmare questo gap, ed evitare che nascano pro-
getti culturali “calati dall’alto” da intellettuali
troppo autoreferenziali, o, d’altro canto, progetti
culturali smaccatamente populisti, senza alcun
riguardo o rispetto per i contenuti scientifici da
tramandare. Questa strategia, per ora utilizzata
giocoforza, per la nascita di musei di cultura im-
materiale, potrebbe forse essere la chiave per la
nascita di nuovi luoghi della cultura anche ma-
teriale? Ovviamente il discorso sarebbe assai am-
pio, ma credo di essere stata già sufficientemente
prolissa, mi auguro che questa mia breve rifles-
sione possa far riflettere tutti noi sulla necessità
di un incontro reale tra correnti troppo spesso
manichee, ora più urgente che mai.
Concludo questa mia brevissima disamina di-
chiarando in essa una mancanza, che spero possa
essere oggetto di un successivo articolo, ovvero
quella relativa ai conti economici dell’istituzione
museale, e a come questa idea di nascita del per-
corso espositivo “dal basso” possa integrarsi con il
bilancio dell’istituzione e con gli investimenti da
parte del pubblico e del privato.
Finisco, e stavolta davvero, prendendo lo spunto
da un’osservazione fatta da un amico, che, leg-
gendo questa mia riflessione, giustamente mi ha
segnalato che esistono già vie di mezzo, incontri
virtuosi. Ne esistono eccome, conosco esempi di
straordinaria portata e lungimiranza, e non vo-
glio assolutamente negarli, tutt’altro, proprio la
loro esistenza, e il loro esempio, testimonia che
non debbano essere solo esperimenti occasio-
nali, ma che questa strada debba e possa essere
un modello culturale di sviluppo, a cui dare una
teorizzazione specifica, delle linee guida, un pro-
tocollo di intenti, e un piano economico specifico
di fattibilità.
914 LUGLIO 2018
Nel suo sedicesimo anno d’età la rivista d’au-
tore BAU Contenitore di Cultura Contem-
poranea torna con la quindicesima edizione
del periodico artistico più innovativo di sem-
pre, approdato in numerosi musei, bibliote-
che e importanti collezioni: dal MART di
Rovereto alla Tate Modern di Londra, BAU
è riuscita a coinvolgere dalla sua nascita
«oltre 800 autori provenienti da ogni ango-
lo del pianeta» e quest’anno propone una
rassegna imperdibile incentrata sul concet-
to di «out», declinato nelle sue più svariate
accezioni. Le opere inserite nel cofanetto a
forma cubica, ideato e progettato da Gum-
design, riflettono e sperimentano l’idea del
“fuori”, intesa come uscita, protesta e inno-
vazione. Dall’immagine dell’esserci alla no-
zione dell’assenza, BAU ha voluto stimolare
l’Arte Contemporanea spingendola “fuori”
dai canoni, «lontano dall’ufficialità e dalla
omologazione culturale», invitando artisti e
intellettuali di varia estrazione e portandoli
a un’introspezione inedita e originale, che
contraddistingue da sempre la vena creativa
e poetica della rivista. Da sabato 14 luglio
al 31 agosto sarà possibile visitare la mostra
BAU OUT - vie d’uscita possibili, con espo-
sizione dei lavori originali realizzati per la
rivista da oltre 80 autori internazionali, che
hanno interpretato l’ «out» nella consapevo-
lezza che oggi come non mai l’artista debba
porsi operativamente in un “fuori gioco” di-
namico e propositivo, degno di un progresso
positivo capace di far sopravvivere la Cultu-
ra nel vasto degrado intellettuale della no-
stra attualità. All’inaugurazione di sabato 14
luglio alcuni autori di BAU 15 proporranno
installazioni, proiezioni, azioni sonore e per-
formance, tra cui: Francesco Bernabei (espe-
rimento), Antonino Bove / Luca Brocchini /
Gabriele Menconi (Dialogo con Psiche, per-
formance), Luciano Federighi (piano blues),
Aldo Frangioni (Fuoriditesta, video), Ignazio
Lago (In(+)Out of the Lake, azione sonora),
Valentina Lapolla / Rachel Morellet / Eva
Sauer / Tatiana Villani (Manifesto, instal-
lazione), Vieri Parenti (Get Out, installazio-
ne), Rossano Brazzi Band (Auting, canzone
interattiva), Walter Rovere (Today’s News
1968-2018, performance), Samora (video-a-
zione sonora).
autori di bau out: Vincenzo Agnetti, Sil-
via Ancillotti, Anonimo, Roberto Baccelli,
Simon Balestrazzi, Luigi Ballerini, Eli Ben-
veniste, Francesco Bernabei, Carla Bertola,
Emanuela Biancuzzi, Maicol Borghetti, Ma-
ria Luisa Borra, Jean-Francoise Bory, Luca
di Laura MonaldiBrocchini, Giuseppe Calandriello, Felipe
Cardeña, Mauro Chiarotto, Filippo Ciavo-
li Cortelli, Claudio Costa, Corrado Costa,
Graziano Dovichi, Liliana Ebalginelli, Lu-
ciano Federighi, Fernanda Fedi, Giovanni
Fontana, Gionata Francesconi, Claudio
Francia, Aldo Frangioni, Carlo Galli, Mar-
co Galli, Delio Gennai, Stefano Gentile,
Gino Gini, Chiara Giorgetti, Antonio Go-
mez, Ezio Gribaudo, Riccardo Gusmaroli,
Jørgen Haugen Sørensen, Maria Assunta
Karini - Francesco Paladino, Margherita
Labbe, Ignazio Lago, Valentina Lapolla - Ra-
chel Morellet - Eva Sauer - Tatiana Villani,
Massimiliano Luchetti, Luciano Maciotta,
Giorgio Marconi, Gabriele Menconi, Giulia
Niccolai, Now! (Roberto Cagnoli - Marco
Cencetti), Angela Palese, Lorenzo Paoli,
Vieri Parenti, Antonio Peruz, Guido Peruz,
Luigi Petracchi, Lamberto Pignotti, Marghe-
rita Levo Rosenberg, Rossano Brazzi, Ma-
nitù Rossi, Ornella Rovera, Walter Rovere,
Kristina Rubine, Stefano Ruggia, Massimo
Salvoni, Samora (Enrico Marani), Antonella
Sassanelli, Renato Sclaunich, Alvise Simo-
nazzi, Morten Søndergaard, Giulia Span-
ghero, Adriano Spatola, Alessandro Squil-
loni, HR-Stamenov, Teho Teardo, Nicoletta
Testi, Stefano Turrini, Tommaso Vassalle,
Giangrazio Verna, Daniele Virgilio, Alberto
Vitacchio, William Xerra, Aida M. Zoppetti,
Emiliano Zucchini.
Vie d’uscita possibili
BAUOUT
1014 LUGLIO 2018
Che onore, cari lettori: siamo state chiamate
a fare da interpreti al colloquio riservato fra
Angela Merkel e Donald Trump, qualche
giorno fa, al vertice della NATO a Bruxelles.
E possiamo svelare (parzialmente tradotto) ai
nostri affezionatissimi lettori il vero conte-
nuto di quel dialogo a porte chiuse.
Ha iniziato Trump, cercando di fare il
simpatico galante: “Good morning, my dear
Angela. How are you today? Sei pronta per
discutere con me di merci e comerci?”
La Merkel, un po’ innervosita – giustamente
– dai tweet e dalle dichiarazioni del presi-
dente USA, ha subito ricambiato le gentili
parole di Trump: “Merci un Kaiser, Donald!
Du bist ein alter Idiot [trad. Sei un vecchio
idiota]. Io con te non parlo di niente, se non
ritiri offese a mia Grande Germania!”
“But, please, Angela, non arrabbiare: io
scherzavo. Non volevo offendere te e Germa-
nia”
“Zum Teufel, Donald! Non mi interessa
offese a me: prima di te c’è stato quel vecchio
Schwein [porco] di Berlusconi che mi ha
chiamato Kulona inchiafabile, ma come
vedi io sono ancora qui e lui è verpiss dich
[andato a pisciare]. Quindi cosa mi freca di
tua offesa a me. Ma tu non toccare mia Ger-
mania! Noi non siamo dipendenti da Russia!
Noi non torneremo mai più in Russia dopo
grande ritirata di Seconda Guerra Mondiale.
Con il loro gas noi ci cuociamo i wurstel mit
Sauerkraut, kapito vecchio posaune [trom-
bone]?”
“Oh, comm’on Angela, I was only kidding!
Stavo scherzando. Io amo Tedeschia: mio an-
tenato Friedrich veniva da Kallstadt, in tuo
paese. Poi ho sposato donna di Mittleuropa!
Dai, peace & love”
“Peace & Love, diese Fick [‘sta ceppa]. Tu
ora chiedi skusa formalmente a Germania,
non Tedeschia, Schwachkopf [scemo]. E poi
lascia stare quella santa donna di Melania,
che è troppo brava a sopportare le tue piffle
[scemenze]”
“Ma Angela, che caratterino che tu hai! E’
proprio vero che vieni da Germania Komu-
nista. Ma noi fuck the Commies!”
“Ma allora vuoi proprio la guerra, Amerika-
no Scheiße! Io ritiro tutte le Wolkswagen dal
mercato amerikano e ti do un calcio nelle
Bällen!”
“No, ti prego, le balls, no, please. Guarda,
risolvo io con uno dei miei tweet: “Stiamo
facendo un grande meeting, discutiamo di
spese militari e abbiamo colloqui sul com-
mercio. Abbiamo un ottimo rapporto con la
cancelliera, abbiamo buoni rapporti con la
Germania”.
“Ja, allora io scrivo questo: #Merkel, Usa
buon partner,vorrei continuare a cooperare.
‘Colloquio con #Trump positivo, spero ce ne
siano altri’
Le SorelleMarx Diplomazia
Silvio turco
Certamente inconsapevoli degli atti che
stavano compiendo i tre ministri degli
Interni di Italia, Austria e Germania
hanno riproposto sulla scena della storia
“le potenze dell’Asse”. Al grido di “indietro
i migranti pezzenti” i tre hanno sancito
una storica riedizione dell’Asse fra Roma e
Berlino. Con l’Austria nel ruolo di usciere
per tenere aperto il Brennero. Le prossime
mosse del terzetto, guidate dal Ministro
dell’Interno Italiano, saranno rivolte verso
l’occupazione della Libia con l’obbiettivo
di eliminare all’origine la fonte da dove
sgorgano i migranti e interventi anche in
Eritrea e Etiopia altri paesi che non sanno
tenere a bada i migranti e se li lasciano
scappare. Il ministro dell’Interno italiano
sta già pensando a rinominare il ministero
in “Ministero dell’Interno e delle terre
d’oltremare”. Qualcuno informi il Ministro
italiano come è finita una storia analoga
qualche tempo fa.
Silvio Berlusconi è annoiato: non è più in Parla-
mento, non decide più le sorti del centrodestra,
non ha più neppure il Milan e Dell’Utri è stato
scarcerato. Il vecchio leone non ha più battaglie
da combattere e anche quelle nel talamo assomi-
gliano sempre di più a piccole scaramucce che a
veri e propri combattimenti. Per questo ha scelto
il ruolo di vecchio saggio, in grado di dispensare
consigli (non richiesti) a vari personaggi sul
proscenio internazionale, convinto di essere una
sorta di Napoleone in pensione, senza però la
sua Sant’Elena. Così ha preso ad interessarsi a
cose turche... nel senso del paese sul Bosforo. E’
stato visto spassarsela alla cerimonia di inse-
diamento di Erdogan e alla cena per le autorità
nel sontuoso palazzo presidenziale Ak Saray di
Ankara. Ma già che si trovava da quelle parti,
ha pensato bene di chiamare Adnan Oktay, il
telepredicatore turco recentemente arrestato
accusato di molti reati. Oktay, scrittore e filosofo,
che amava circondarsi di belle donne discinte e
siliconate (le sue “gattine”, così le chiamava) e
organizzava sontuosi banchetti, è autore di oltre
300 libri, fra i quali “L’Atlante della Creazione”,
nel quale affermava che le teorie evoluzioniste di
Darwin sarebbero state alla radice del terrori-
smo mondiale: è uno dei massimi esponenti del
“creazionismo islamico”. Saputo del suo ingiusto
arresto, Berlusconi non ha esitato a telefonargli
per dargli qualche buon consiglio:
“Pronto Adnan, vecchio pirata, come te la passi?
Non bene? Eh lo so: questi porci di magistrati.
Sono toghe rosse, lo so. Ma tu non demoraliz-
zarti, che c’è qui il tuo Silvietto a darti buoni
consigli (gratis eh, tranquillo). Senti, prima di
tutto nega, sempre: questo Darwin digli subito
che non lo conosci o al massimo ti è stato pre-
sentato a qualche cocktail e che ci hai scambiato
solo qualche parola. Capito? Poi, niente giochetti
erotici en travesti: son cene eleganti. Al tuo ma-
gistrato – come si chiama? Ah Edmundus Bruti
Kurtarılmış, cioè Liberato... uhm, il nome mi è
famigliare – comunque a lui non rispondere. Ah,
e quella giovane modella Itir Esen: prima di tut-
to ha 28 anni, non 17; e poi tu digli che è figlia di
Bashar al-Assad e che volevi solo aiutarla: vedrai,
andrà tutto a posto. Ciao, pirlone!”
Il fratellodiMolotov
Rinasce l’asse Roma-Berlino
Lo Zio diTrotzky
1114 LUGLIO 2018
rei perdere: a parte il fatto che ce l’ho messo
io, ma ti risulta che abbia mai fatto qualcosa
senza che io lo volessi? No, e allora, niente
Nardella”
“Allora, Matteo, ho un’altra grandissima
idea: Eugenio Giani. Lui sa tutto di Firenze.
Gli facciamo fare il consulente scientifico”
“Ecco un’altra bella stronzata: marco, guarda
che ti licenzio e tu torni a fare il portavoce
di Manciulli, eh! Giani non ce lo voglio: con
tutte le su’ bischerate su Firenze, mi rovina
la piazza. E poi dopo torna a rompermi le
scatole con quella sua pretesa assurda di
voler fare il sindaco di Firenze. No, no, no:
Eugenio stia alla Regione, che è tutto grasso
che cola!”
“Allora chiamiamo qualche storico dell’arte
della Soprintendenza ai monumenti: loro se
ne intendono, no?”
“Sì, di scartoffie burocratiche s’intendo, quel-
li! Li ho già rottamati una volta: non li voglio
più vedere, loro con tutti que’ sassi vecchi
che tutelano. Guarda lascia perdere: non
pensare che ti si fonde il cervello. C’ho io la
soluzione. Si prende la Maria Elena e gli si fa
fare la Granduchessa Eleonora e Francesco
Bonifazi lo vestiamo da Cosimo de’ Medici
e loro passeggiano per la città a braccetto a
spiegare le bellezze di Firenze. Poi, arrivo io,
il Magnifico naturalmente e spiego come ho
fatto a fare grande Firenze. A Marco Carrai
gli facciamo interpretare Giovanni dalla
Bande Nere, che tanto era piccino e cattivo
come lui e gli facciamo spiegare l’arte della
guerra, mentre passeggia per la nuova pista
dell’aeroporto. A Luca Lotti gli faccio fare
Luca Pitti che fece ammazzare i partigiani
della Repubblica per ingraziarsi Cosimo, che
mi sembra un ruolo che ben gli si addice. Poi
si prende don Alessandro Santoro e gli si fa
fare il Savonarola, così si brucia in piazza
della Signoria (solo nel film eh, s’intende).
Alla Rosa Maria De Giorgi le facciamo
fare Caterina de’ Medici che era esperta di
guerre di religione, così si sbizzarrisce nella
sua passione. Per fare Lucrezia Tornabuo-
ni, madre di Lorenzo, potrei chiedere alla
Stefania Saccardi... oddio, non è proprio che
gli si addica tanto la parte della madre di un
uomo così bello e perfetto, ma si fa con quel
che c’è. Al mio amico Sardelli gli faccio fare
la colonna sonora, però deve promettermi di
suonare con il flauto l’Alluvione di Marasco,
sennò calci in culo e via. Per la fotografia si
chiama il Maurizio Seracini così la smette
di rompermi le scatole con quel suo laser per
cercare la Battaglia di Anghiari. Il regista lo
faccio io, ovviamente. Il successo è assicu-
rato. D’altra parte Silvio me lo aveva detto
che mi avrebbe assunto a fare il conduttore
televisivo...”
I CuginiEngels Renzi Angela
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo FrangioniNel miglioredei Lidipossibili
Le uniche imbarcazioni autorizzate ad attraccare nei porti italiani saranno quelle di carta purché prive di presenza di vita, compreso qualsiasi tipo di insetti provenienti dal centro Africa
Renzi sta lavorando al suo rilancio in grande
stile; una sorta di musiliana Grande Azione
Parallela, con la quale riportarlo in vetta
allo star system politico: la conduzione di
una trasmissione televisiva su un canale
Mediaset per raccontare al grande pubblico
la cultura, la storia e le bellezze di Firenze
dall’antichità fino ad oggi. E’ già al lavoro
con il suo staff, il pistillo del giglio magico.
“Marchino, bisogna fare una trasmissione
fenomenale. Senti che titolo che ho trovato:
“Firenze, la ganza bellezza!” Eh, che dici?
Forte, vero? Bisogna trovare una grande co-
lonna sonora. Come quella che fa “Garrisce
al vento il labaro viola...”. E poi ospiti d’ono-
re, personaggi di indiscussa fiorentinità”
“Ma, scusa Matteo, chiamiamo Nardella,
così ci fa la colonna sonora con il suo violino
suonando “Primavera fiorentina”. Il sindaco
è sempre il sindaco”.
“Oh Marco, ma sei scemo? Ho detto indi-
scussa fiorentinità! E dove è nato Nardella?
A Torre del Greco, grullo! Poi con qui’
violino stridulo mi fa venire i ranocchi allo
stomaco. Quanto al suo essere sindaco, lasce-
1214 LUGLIO 2018
Gianfranco Bartolini, classe 1927, nasce a
Fiesole il 17 gennaio e proprio questa terra,
dove abiterà fino alla sua scomparsa nell’ot-
tobre del 1992 segna in modo indelebile la
sua attività, politica e istituzionale. Autodi-
datta (ha la quinta elementare), figlio della
sua generazione, dove il mestiere si impa-
rava “a bottega”, all’età di otto anni inizia a
lavorare come fabbro presso il negozio del
padre Domenico in via Matteotti a Fiesole.
A quattordici era già operaio allo stabili-
mento delle Officine Galileo dove l’impe-
gno politico e antifascista comincia a farsi
largo nell’indole di un ragazzo che mostrava
ferme convinzioni culturali. Più volte ricor-
dato come uomo ‘del fare’, Bartolini sussu-
me pienamente quel clima di militanza col-
lettiva che caratterizza gli anni successivi al
dopoguerra, avendo già partecipato come
partigiano alla lotta di liberazione nel 1944.
Dopo aver rivestito il ruolo di Segretario nel-
la Commissione interna della grande fabbri-
ca fiorentina è chiamato alla segreteria della
Camera Confederale del Lavoro di Firenze,
diventandone segretario nel 1965. Solo 6
anni più tardi, nel 1971, ebbe l’incarico di
segretario regionale della CGIL, entrando
nel Direttivo nazionale della CGIL e della
Federazione nazionale CGIL-CISL-UIL.
Ma il legame con le radici rimase sempre
inalterato e l’impegno politico lo vide entra-
re nell’amministrazione comunale di Fieso-
le giovanissimo. Già nel 1951, all’età di 24
anni, capolista del Partito comunista, ripor-
tò 215 voti di preferenza a fronte dei 644
voti ottenuti da Luigi Casini, rappresentan-
te del Partito socialista e figura emblemati-
ca dell’antifascismo fiesolano. Alle elezioni
amministrative successive viene rieletto e
riconfermato Assessore al Bilancio, ruolo
che manterrà fino al 1964. D’altro canto
l’economia era la sua “fissazione”, non solo
per retaggio sindacale, ma anche per la con-
vinzione che il modello toscano dei distretti
fosse un successo e che quindi intrecciare
impresa, infrastrutture, attrezzature del ter-
ritorio, mondo dell’università e della ricerca
fosse il perno sul quale progettare il futuro.
Sarà il 1975 a segnare la sua piena maturità
politica, quando già Consigliere provinciale
a Firenze, è eletto con la seconda legislatu-
ra al Consiglio della Regione Toscana. Con
9.488 preferenze e diventa Vicepresidente
della Giunta Regionale (Vicepresidente
di Lelio Lagorio e, dal settembre 1978, di
Mario Leone) con la responsabilità diretta
della programmazione economica e del bi-
di Elena Gonnelli lancio. Dal 31 maggio 1983 diventa Presi-
dente della Giunta, carica che assume, pur
modesto e schivo di carattere, con il fermo
impegno di tentare la ricerca di soluzioni di
governo e la collaborazione con realtà inter-
nazionali facevano perno sull’idea e sulla
pratica della programmazione. Bartolini
non perse occasione per intrecciare rappor-
ti di varia natura: il dialogo e il confronto
si sviluppava verso ogni espressione della
società toscana partendo dalla cittadinan-
za, passando per il mondo dell’industria e
dell’imprenditoria, rivolgendosi all’associa-
zionismo e alle cariche vescovili, fino alle
più alte sfere istituzionali. Questa fitta rete
di relazioni rispecchiava la sua naturale ten-
denza alla concretezza nell’agire locale, le-
gandosi, d’altra parte, a un’interpretazione
dei fatti globale e internazionale. Non solo
sull’economia tout-court si basava però la
sua azione di governo: la difesa del suolo, il
regionalismo, l’autonomia statuaria, le “aree
vaste” come risposta alla crisi della società
toscana.
Venerdì 13 luglio nel Palazzo del Pegaso
(via Cavour 4, Firenze) è stata inaugurata
la mostra su Gianfranco Bartolini, curata
dalla dott.sa Elena Gonnelli, organizzata
dall’Istituto storico toscano della Resistenza
e dell’età contemporanea (ISRT) e dal Con-
siglio regionale della Toscana. Attraverso
un percorso espositivo che si articola nelle
sale superiori del Consiglio Regionale, si
“farà parlare i documenti” per mostrare le
tappe più significativa della variegata espe-
rienza di Bartolini, lavoratore, sindacalista,
amministratore, pagine significative della
storia toscana e del governo regionale. L’i-
niziativa nasce dalla volontà di promuove-
re la conoscenza di una figura significativa
della storia sociale e politica della Regione a
partire dalla valorizzazione del patrimonio
documentario recentemente acquisito dall’I-
SRT mediante una donazione degli eredi.
La mostra e l’archivio ci offrono lo spunto
per riflettere sull’esperienza e, come amava
ripetere Bartolini, approfondirla per meglio
comprendere il presente e tentare di stare al
passo con le trasformazioni, per evitare che
siano esse a metterci da parte.
La cultura della politica dell’impegno e del fare
Gianfranco Bartolini
Foto di Paolo della Bella
1314 LUGLIO 2018
Il primo contatto con Leonardo Pavkovic av-
viene a New York nello stesso periodo. Il fon-
datore dell’etichetta Moonjune, già interessato
da tempo al panorama musicale indonesiano,
propone a Dharmawan di entrare nella sua scu-
deria. Diversi anni dopo vede la luce il primo
frutto della loro collaborazione, So Far So Clo-
se (2015). Nel disco compaiono alcuni artisti
indonesiani già legati all’etichetta americana,
come i chitarristi Dewa Budjana e Tohpati. La
presenza del celebre violinista americano Jerry
Goodman (The Flock, Mahavishnu Orchestra)
conferma un tratto distintivo dell’etichetta, che
promuove la collaborazione fra musicisti poco
noti e colleghi di fama mondiale, fra i quali
Tony Levin (King Crimson) e Soft Machine.
Nel successivo Pasar Klewer (2017) il pianista
riafferma il proprio stile inconfondibile, dove
il jazz si fonde con gli stimoli provenienti dal-
la terra natia. Lo stesso titolo fa riferimento al
più grande mercato di tessuti che si trova in In-
donesia. La rivista inglese JazzWise, una delle
principali pubblicazioni specializzate, lo inseri-
sce fra i dischi dell’anno.
Il nuovo lavoro del pianista, Rumah Batu
(“Casa di petra” in lingua bahasa) conferma il
suo tocco elegante, spesso percussivo, e la sua
vena compositiva felice, esuberante ma sempre
lontana dall’effettismo. Quasi tutti i musicisti
che lo affiancano sono asiatici: gli israeliani
Asaf Sirkis (batteria) e Yaron Stavi (basso), vari
indonesiani e il celebre chitarrista franco-vie-
tnamita Nguyên Lê, già collaboratore di Fresu,
Rava e altri jazzisti prestigiosi.
Per lungo tempo il jazz era stato praticamen-
te monopolio dei musicisti americani. Poi si
sono imposti gli europei, grazie anche al forte
contributo dei paesi germanici e nordici. Oggi
anche questo duopolio euro-americano sta co-
minciando a vacillare: i jazzisti asiatici - giap-
ponesi, indonesiani, turchi – rappresentano
una squadra sempre più numerosa e sempre
più interessante.
L’arcipelago indonesiano comprende oltre
13000 isole e forma lo stato insulare più grande
del pianeta. Abitato da 230 milioni di musul-
mani, è il più popoloso paese a maggioranza
islamica. In termini musicali ha molto da of-
frire: dalle tipiche orchestre di metallofoni (ga-
melan) al pop di Anggun, dal pianista prodigio
Joey Alexander al chitarrista Dewa Budjana,
del quale abbiamo parlato nel numero 232. Bu-
djana è soltanto uno dei musicisti indonesiani
che negli ultimi anni stanno guadagnando un
certo seguito grazie a Moonjune, l’etichetta
indipendente americana guidata da Leonardo
Pavkovic.
Degno della massima attenzione è anche Dwiki
Dharmawan, pianista jazz nato nel 1966 a Ban-
dung, la città nota per aver ospitato la riunione
mondiale che segnò la nascita del Movimento
dei Non Allineati (18-24 aprile 1955).
Attivo nella scena indonesiana dai primi anni
Ottanta, il pianista fonda poi Krakatau, un
gruppo che fonde jazz e gamelan. Il nome
(in italiano Krakatoa) fa riferimento all’isola
vulcanica situata fra Giava e Sumatra. Il grup-
po realizza vari dischi guadagnando un note-
vole successo in patria e in altri paesi asiatici.
Dharmawan opta poi per la carriera solista, che
inaugura con Nuansa (2002).
Compositore eclettico e originale, l’artista in-
donesiano è fortemente legato al retaggio mul-
ticulturale della sua terra: da Giava a Bali, da
Sumatra alle Molucche, l’arcipelago offre una
grande varietà di lingue, culture e tradizioni
musicali.
In un certo senso Dharmawan è la proiezione
musicale di questa ricchezza: i titoli dei brani e
gli strumenti tradizionali che affiancano quel-
li moderni lo attestano chiaramente. Ma non
basta. Col passrae del tempo la sua sensibilità
lo porta a collaborare anche con musicisti isra-
eliani e polacchi, americani e catalani, svizzeri
e vietnamiti.
World Peace Orchestra (2008) è il frutto di
quello che una volta si chiamava supergruppo:
insieme a Dwiki troviamo Gilad Atzmon, sas-
sofonista israeliano, e il kuwaitiano Kamal Mu-
sallam, affermato suonatore di oud (cordofono
analogo al liuto).
di Alessandro Michelucci
MusicaMaestro Un arcipelago
di suoni
di Massimo CavezzaliIl sensodella vita
1414 LUGLIO 2018
delle più potenti e musicali poesie dei Canti
Orfici, “Barche amorrate”) la forte valenza
lirica e la sua novità, capace di smuovere le
acque sin troppo tranquille della letteratura
italiana dei primi decenni del Novecento e
vengono fornite, con una capacità di sintesi
ammirevole, molte “chiavi di accesso” alla
comprensione del testo.
Aperto da una presentazione di Fiorenza
Ceragioli, massima (insieme al Maura del
Serra) studiosa campaniana vivente, alla
quale dobbiamo una fondamentale edizio-
ne critica dei Canti Orfici, il libro di Co-
stanza Geddes da Filicaia si articola in tre
capitoli, dedicati il primo ai Canti Orfici, il
libro unico (intanto perché, per quanto non
esente da errori di stampa e tirato dal tipo-
grafo-editore Ravagli in lotti dai tipi di carta
più diversi, è il solo pubblicato in vita da
Dino Campana, e sotto la sua diretta super-
visione, poi perché si pone davvero come un
oggetto alieno, al pari del suo autore, rispet-
to alle mode letterarie e all’establishment
intellettuale del suo tempo), di Dino Cam-
pana, il secondo al “Più lungo giorno”, il ma-
noscritto che Campana consegnò a Giovan-
ni Papini e Ardengo Soffici nel dicembre
del 1913 e da quest’ultimo “smarrito” (fu
ritrovato nel 1971 dalla figlia di Soffici nella
casa di Poggio a Caiano) e il terzo al restante
materiale campaniano conosciuto sino ad
oggi: l’epistolario (soprattutto con la scrit-
trice Sibilla Aleramo), i “Taccuinetti” (fa-
entino e marradese), il “Quaderno”, spesso
pubblicati senza il confronto con l’originale,
(perché “smarrito”, come i “Canti”) oppure
male interpretato e/o arbitrariamente ri-
composto.
A proposito del secondo capitolo, dove si
analizza perché tre poesie contenute nel
manoscritto smarrito non siano state ricom-
prese da Campana nei Canti Orfici (ormai è
abbastanza provato che il poeta non riscrisse
tutto a memoria, come egli invece sosteneva,
ma che abbia attinto ad altri appunti che ave-
va, fortunatamente per lui, e per noi, conser-
vato) fa piacere riscontrare qualche piccola
accattivante prova della modernità e della
cultura multimediale dell’autrice (che sa-
rebbero piaciute a Campana): parafrasando
Ivory intitola il capitolo “Quel che resta del
Più lungo giorno” e, parlando della poesia
“Traguardo” (una specie di versione ridotta
di “Giro d’Italia in bicicletta (1° arrivato al
traguardo di Marradi”) e in generale dell’in-
teresse di Campana per la bicicletta, cita ben
tre canzoni d’autore: “Bartali” di Paolo Con-
te, “Coppi” di Gino Paoli e “Il bandito e il
campione”, portata al successo da Francesco
De Gregori ma scritta - rendiamogli l’onore
che si merita - da suo fratello maggiore, Luigi
Grechi.
di Dino Castrovilli
La poesia di Dino Campana continua a in-
cantare, non solo i comuni lettori (che per
il fatto di esserlo di Campana non sono più
“comuni” ma speciali!)”: spesso vediamo
coinvolti emotivamente anche gli studiosi.
Attratti, lettori e studiosi, anche dal mistero
che attraversa non solo la vita di Dino Cam-
pana, fitta di leggende, a volte create quasi ad
arte dal protagonista, a volte da suoi contem-
poranei o da quelli che a vario titolo si sono
occupati di lui, ma soprattutto la sua opera,
edito o inedita -, che si presenta sempre di
più come scrittura - non importa se poesia o
prosa - mirabilmente stratificata, come le sue
“rocce” (Meschiari), ricchissima di riferimen-
ti (“link”, diremmo oggi), citazioni e rimandi,
non sempre facili da scoprire.
La tentazione Campana non ha risparmiato
Costanza Geddes da Filicaia, docente di let-
teratura italiana contemporanea all’universi-
tà di Macerata, che da Franco Cesati ha da
qualche mese pubblicato “Dino Campana.
L’’universo mondo’ dei ‘Canti Orfici’ e altri
studi”: e non poteva essere diversamente, se
si ha avuto la fortuna di seguire un seminario
(l’ultimo!) di studi dedicati a Dino Campana
da Giorgio Luti (anno accademico 1994-95)
e di aver lavorato con Marcello Verdenelli, al
quale si devono alcune pietre miliari della bi-
bliografia campaniana, compresi due volumi
sulla... bibliografia campaniana, dal 1912 ai
tempi nostri.
In un centinaio di pagine - complice il corpo
piccolo dei caratteri il libro sembra un libret-
to, in realtà è lungo e soprattutto “denso” - la
studiosa e docente fiorentina ci consegna, in
una veste organica e forse “definitiva”, i frutti
di quindici anni di lavoro su Dino Campa-
na: ricerche, intuizioni, interpretazioni, non
necessariamente tutte condivisibili ma certa-
mente molto leggibili, pregio questo davvero
notevole, soprattutto se si tratta dell’incontro
con Dino Campana.
Ma perché parlare di una nuova “guida a
Campana”? Perché pur essendo un libro
anche accademico, con il dovuto apparato
critico e bibliografico, “L’universo mondo...”
sorprende per la non comune facilità di let-
tura e per l’approccio totale a Campana:
vita - una vicenda biografica che tanto peso
ha avuto nella produzione letteraria dell’au-
tore, che seguendo quasi alla lettera l’ama-
to Nietzsche, è riuscito a carissimo prezzo
a fondere arte e vita - e opera, della quale
viene colta, e analizzata fin nei minimi det-
tagli (stride l’esiguo spazio dedicato ad una
Galassia Dino Campana, una nuova guida
1514 LUGLIO 2018
Vigneto Vermentino (Foto A.Meli)
si deve salvaguardare, che cosa si può trasfor-
mare? Domanda difficile, alla quale nessuno
ha il coraggio di rispondere con onestà intel-
lettuale e morale o spregiudicatezza, anche
se poi certi esiti emergono nella pratica quo-
tidiana. Anche la convenzione apre ad ogni
tipo di soluzione e così conclude nell’ultimo
comma dell’art. 1:
“Pianificazione dei paesaggi” indica le azioni
fortemente lungimiranti, volte alla valorizza-
zione, al ripristino o alla creazione di paesag-
gi.
“Ripristino e/o creazione”. Questa è la vera
questione. A tale proposito scrive Guido
Ferrara, nella scia coerente dell’approccio
paesaggistico a questa tematica: “...il proble-
ma base, da porre sotto controllo, è il cambia-
mento, la trasformazione: ovvero o imparia-
mo a trasformare, tenendo opportunamente
conto delle ‘armoniose relazioni’ possibili, o
siamo perduti. Credo proprio che sia arriva-
to il momento di pensare che un problema
di questo genere non può trovare alcuna ri-
sposta nei «nulla osta» ex post distribuiti da
una commissione o da un funzionario onni-
sciente, anche perché costui, in verità, poco
o nulla conosce di quel complesso ‘sistema
paesistico’ da mettere alla base di ogni deci-
sione, almeno fin quando permane l’assenza
di un piano del paesaggio.”
Se esaminiamo gli ultimi decenni la trasfor-
mazione del paesaggio rispetto a quella dei
secoli passati è più veloce, i cambiamenti ci
appaiono incontrollabili. Tutto questo acca-
de sotto i nostri occhi in una rapida evoluzio-
ne che distrattamente talvolta non cogliamo.
Una collina a vigneto che abbiamo ammirato
per anni è tale dieci anni prima e continua
ad esserlo dieci anni dopo. Ma è tanto cam-
biata. Forse l’orditura si è conservata, forse
anche il vitigno, ma spesso i sostegni sono
cambiati e con il sostegno tutto quello che ad
esso è interconnesso.
Questi tipi di trasformazione spesso si tenta
di normarli , al fine di alterare il meno pos-
sibile l’assetto attuale e nel contempo venire
incontro all’esigenza più ovvia e scontata
che è quella di rendere l’attività umana nel
paesaggio remunerativa. Pena l’abbandono,
pena il degrado. Non a caso la Convenzione
Europea del paesaggio, consapevole del fatto
che non si fa paesaggio contro la volontà de-
gli abitanti e dei proprietari, al primo articolo
pone un enunciato che già qualcuno afferma
essere molto rischioso.
a. “Paesaggio” designa una determinata par-
te di territorio, così come è percepita dalle
popolazioni, il cui carattere deriva dall’azio-
ne di fattori naturali e/o umani e dalle loro
interrelazioni;
[...]
c. “Obiettivo di qualità paesaggistica” desi-
gna la formulazione da parte delle autorità
pubbliche competenti, per un determinato
paesaggio, delle aspirazioni delle popolazio-
ni per quanto riguarda le caratteristiche pae-
saggistiche del loro ambiente di vita.
Appare evidente la centralità dei bisogni
della popolazione, al di fuori dei quali non ci
può essere salvaguardia. La politica del pa-
esaggio ha come primo compito di mediare
nei conflitti tra coloro che vogliono la salva-
guardia dei valori storici del paesaggio , quel-
le permanenze ereditate da passato che – per
dirla con Sereni - la “legge d’inerzia” ha fatto
arrivare sino ai giorni nostri e che costituisce
in molti casi il valore aggiunto di molti edifici
sparsi nella campagna. E’ innegabile infatti
che, al di là del valore in sé, il pregio di certe
case coloniche, cascine, ville, casali, ecc. sta
nel suo rapporto equilibrato con le tessiture
agrarie tradizionale, e infatti basta la sola tra-
sformazione produttiva a mettere a rischio il
pregio di quella che volgarmente chiamiamo
“ cornice paesaggistica”.
Sorge spontaneo l’interrogativo che da anni
si pongono i cultori del paesaggio: che cosa
di Biagio Guccione
Paesaggio tra ripristino e creazione
[2]
1614 LUGLIO 2018
Lo sguardo dei fotografi sulla natura può decli-
narsi in molti modi, da quello puramente scien-
tifico e freddamente catalogatore, fino a quello
curioso ed indagatore, attento a cogliere nel
mondo naturale dei significati nascosti e delle
simbologie spirituali, con tutte le sfumature in-
termedie fra questi due estremi. Lo sguardo del
fotografo americano Walter Landon Chappell
(1925-2000) tende ad evidenziare la vitalità
della natura in parallelo con la vitalità del corpo
umano, ricercando dei sottili legami psicologici
ancora prima che delle analogie formali fra i
due mondi, quello individuale e quello dell’in-
tero creato. Walter nasce a Portland e vive i
primi anni della sua vita in una riserva indiana,
a diciassette anni conosce Minor White, che in-
contra di nuovo dopo il servizio militare, e con
il quale collabora nei primi anni Cinquanta,
come assistente nei corsi di fotografia, e con la
realizzazione di foto e testi, come redattore della
rivista “Aperture”, fondata da White nel 1952.
Vive a New York fra il 1957 ed il 1961, si trasfe-
risce nel 1962 in California a Big Sur, poi a San
Francisco nel 1970, nelle Hawaii nel 1984 ed
infine nel New Mexico, nel villaggio di El Rito.
Nel corso della sua vita movimentata pratica la
fotografia, la filosofia e la poesia, costruisce tre
case e venticinque camere oscure, dopo la mor-
te nel 1959 della prima moglie si risposa, fino al
1984, e da diverse relazioni ha sette figli, oltre ad
una figlia adottiva. Convinto assertore della fo-
tografia come arte autonoma, rifiuta ogni tipo di
compromesso di tipo commerciale, affascinato
dal rapporto vitalista fra l’uomo e la natura, sce-
glie un modello di vita che lo isola e lo allontana
dalle abitudini del gruppo sociale dominante.
Le sue immagini risentono dell’insegnamento
di Edward Weston e di Minor White e della
frequentazione con Paul Caponigro, e soprat-
tutto riflettono le sue scelte ideologiche e di vita,
esaltano il flusso di energia che scorre fra i corpi
e gli elementi naturali, i legami di carattere ses-
suale e mistico, la celebrazione dell’amore come
l’energia che regola il cosmo e l’esaltazione della
vita come il flusso ciclico che ripropone l’eterno
inizio e l’eterna rinascita. Il suo modello di vita
si avvicina alla controcultura dei giovani ame-
ricani che all’epoca sono in cerca della verità e
di realtà alternative, ma fatalmente, lo rendono
inviso alla così detta “maggioranza silenziosa”,
quella che detiene il potere politico ed econo-
mico. Nonostante le numerose esposizioni ed i
numerosi riconoscimenti ottenuti, e nonostante
sia considerato, ancora in vita, come uno dei più
importanti fotografi americani del secondo No-
vecento, le sue immagini vengono ritenute ec-
cessivamente esplicite e scabrose, fino al rifiuto
di Danilo Cecchi
Walter Chappell Fra corpo e natura
degli editori della pubblicazione del libro “Wor-
ld of Flesh”, che rimane inedito. Le sue ricerche
visive si estendono dalla raffigurazione dei corpi
nudi, carichi di vitalità e sensualità, alle corri-
spondenti forme della natura, rocce, erosioni,
vegetazione e corsi d’acqua, con immagini che
mettono insieme i due mondi, ambientando
spesso i corpi nudi nella natura incontaminata.
Dalla cultura dei nativi americani e dallo stu-
dio delle filosofie orientali Chappell assorbe la
concezione della unità del mondo vivente, in
cui ogni cosa trova una corrispondenza in tut-
te le altre cose, sia al livello fisico che al livello
più profondo dell’animo umano. Nelle sue im-
magini, estremamente rigorose e nette, tratta il
mondo come una creatura pulsante di vita e di
energia, in continuo movimento ed in continua
trasformazione, in continua connessione con il
livello interiore e psichico. Le sue ultime imma-
gini riflettono le sue ricerche sull’aura vitale che
circonda e pulsa attorno alle piante, sotto for-
ma di movimento di elettroni registrati ad alta
frequenza. A tredici anni dalla morte gli viene
dedicato il libro“Walter Chappell - Eterna Im-
permanenza”.
1714 LUGLIO 2018
di Paolo Marini
“Parlo per esperienza personale. Nella mia vita ho incontra-
to centinaia di persone che mi hanno chiesto: “Allora, scemo,
quando pensi di smettere con i film e di trovare un lavoro?”.
E se è vero per me, deve essere vero per dozzine di altri in-
competenti, il cui talento è spesso inferiore al mio. Questo
sistema potrebbe essere applicato anche in altri campi. Sono
sicuro che molti candidati politici vengono sconfitti perché il
pubblico ha avuto la possibilità di vederli in faccia. La prossi-
ma grande vittoria politica andrà al partito così astuto da non
presentare un capolista”
Groucho Marx
The New York Post”, luglio 1947
Marxismi
Dis
eg
no
di
Pa
olo
Ma
rin
i
Nessuno è perfetto, e tanto meno “puro”
Più di venti anni fa, nel
Salone dei Duecento
in Palazzo Vecchio, un
mio amico (Ugo Caffaz,
allora Capo gruppo del
partito di maggioranza) si rivolse a chi, dai
banchi dell’opposizione, affermava di vo-
ler assicurare diritti “prima di tutto ai fio-
rentini”, con tono forte, chiedendogli: “La
mia famiglia è qui dal 1400; basta perché
possiamo considerarci fiorentini?”.
E’ bastato cambiare millennio (anche se
non ancora la maggioranza consiliare) per
sentir affermare perfino dal Sindaco di
quella stessa città la legittimazione a riser-
vare maggior attenzione nella attribuzione
di qualche beneficio derivante dall’attività
amministrativa a coloro che sono fiorenti-
ni.
Mi sono fermato a pensare e, scoraggiato
dalle mutevolezze della politica, mi sono
affidato alla matematica e ho calcolato
quante sono state le persone che 22 ge-
nerazioni prima della nostra (più o meno
all’epoca in cui arrivarono a Firenze gli an-
tenati di Caffaz) potrebbero risultare negli
alberi genealogici mio o del mio amico.
Sono più di 4 milioni (2 alla ventiduesi-
ma)!
Così tanti furono coloro che, all’epoca,
iniziarono a generare figli che, a loro volta,
all’interno di un immenso gruppo, compo-
sto oltre che da loro stessi anche dai loro
fratelli e sorelle (giunti all’età dell’amore)
trovarono il / la partner (anche molti seco-
li prima che questo termine fosse in voga)
con cui hanno concepito essi stessi un Fi-
glio, o una Figlia.
E così, di secolo in secolo, in un ideale
zoom fino a quegli 8 Uomini ed altrettan-
te Donne che sarebbero stati i Trisnonni,
miei ed all’altro gruppo che, di amplesso in
amplesso, avrebbe posto le basi per la na-
scita di Ugo Caffaz.
Noi due siamo quasi coetanei e chi sa che,
in questo enorme rimescolio di geni che ha
occupato quasi metà millennio, non sareb-
be possibile trovare punti di più o meno
lontani “apparentamenti”.
Quanto a me, non so di quali possano esse-
re stati i movimenti migratori (se non quel-
li che portarono coloro che sarebbero stati
i miei Genitori a lasciare le campagne di
Verona ed a stabilirsi a Firenze) di quei 4
milioni di lontano miei antenati.
Potrebbe perfino risultare che qualche avo
sia transitato da Pontida od anche da Ri-
gnano sull’Arno.
Nessuno è perfetto, e tanto meno “puro”.
Anche se il concetto pare non essere alla
portata di tutti.
I pensieri di Capino
1814 LUGLIO 2018
di Luisa MoradeiLa città di Firenze, prima in Europa, ha accol-
to nei giorni scorsi l’edizione 2018 del Festival
mondiale IBCPC di Dragon Boat (donne ope-
rate di tumore al seno). Le 120 squadre che
hanno preso parte a questo importante evento,
prima di approdare in Arno per le prove spor-
tive, si sono presentate alla città sfilando per
le vie con i loro abiti festosi e variopinti; quasi
4.000 donne provenienti da tutte le parti del
mondo riunite per comunicare un messaggio
di speranza. Il loro sorriso e la fantasmagoria di
colori che le avvolgeva (rosa dominante) costi-
tuivano un vero e proprio inno alla vita che è
esploso in piazza della Signoria davanti alle au-
torità cittadine che le ha calorosamente accolte.
Le gare si sono svolte in Arno nel tratto com-
preso tra il ponte della tramvia e la passerella
dell’Isolotto. E’ bene ribadire che si è trattato
di una competizione sportiva non agonistica
sebbene fosse evidente l’estremo impegno di
ciascuna squadra nel raggiungere il traguardo.
Le abbiamo seguite ai pontili d’imbarco per co-
gliere l’emozione prima di salire su quella lun-
ga barca con testa e coda di drago, le abbiamo
viste pagaiare con vigore fra spruzzi d’acqua
e ritmo di tamburo, le abbiamo viste scendere
dall’imbarcazione stremate, con le lacrime di
gioia mescolate al sudore, dopo aver percorso
500 lunghi e faticosi metri a colpi di pagaia sot-
to il sole cocente. Abbiamo visto squadre che
si avvicendavano una dietro l’altra per gareg-
giare e rendere manifesta la loro forza contro
la malattia, per comunicare che la vita dopo il
cancro si è arricchita di una linfa nuova, quella
della condivisione con altre donne, le abbiamo
viste felici e consapevoli della loro forza che
si irradiava a tutti i presenti. Ognuna di loro
aveva vinto la propria gara, aveva raggiunto il
proprio traguardo; se competizione c’è stata era
nei confronti della malattia. Con i loro animi
forti e decisi hanno vinto per la vita. Percorren-
do il lungarno delle Cascine, dove era allestito
il campo gara, si potevano incontrare donne di
tutto il mondo dalla Nuova Zelanda al Brasile,
al Sud Africa, Singapore, Canada, Australia,
U.S.A. ed Europa, fra cui spiccavano numero-
sissime italiane. Quello che stupiva era vedere
queste donne che non si conoscevano, non par-
lavano la stessa lingua, non avevano la stessa età
ma avevano comunque la voglia di comunicare
e condividere , nell’attimo dell’abbraccio, la
loro esperienza drammatica e al tempo stesso la
loro incontenibile gioia di vivere. Alla verifica
dei risultati finali, la squadra fiorentina Floren-
ce Dragon Lady LILT ha avuto la sorpresa e la
soddisfazione di vedersi aggiudicato il 4° posto
su 120 squadre partecipanti; tutto l’equipaggio
si è stretto con entusiasmo attorno agli allenato-
ri Alessandro Piccardi e Andrea Giommi, alla
capitana “Joly” alle timoniere e alle tamburine.
Non c’è che dire…le Florence sono una grande
squadra!
La manifestazione ha raggiunto il climax con
la cerimonia dei fiori durante la quale 18 bar-
che, in rappresentanza dei paesi partecipanti,
si sono schierate in mezzo all’Arno per rendere
omaggio con un minuto di silenzio alle donne
che non sono sopravvissute alla malattia. Rotto
il silenzio, in un tripudio catartico, sono state
lanciate in acqua 3.000 gerbere rosa in ricordo
di queste donne. Le rive del fiume erano gre-
mite di persone, da un lato la macchia rosa di
tutte le atlete e dall’altro le migliaia di parteci-
panti convenuti a sostenere la manifestazione.
L’evento si è concluso in un clima vibrante di
grande partecipazione. Le numerose autorità
cittadine e internazionali che si sono avvicen-
date sul palco hanno sottolineato l’importanza
della prevenzione del tumore al seno e Lucia
De Ranieri, presidente del festival, ha dichiara-
to con coraggio “La sfida è dentro di noi, insie-
me possiamo vincere la malattia”.
Donne in barca
1914 LUGLIO 2018
Come la Chiesa di S.Jacopo sopr’Arno, la
Chiesa di S.Giorgio alla Costa (o allo Spirito
Santo) ha condiviso con la vicina S.Felicita
parte della sua storia e del suo Patrimonio. Se
pur causati da ragioni diverse, i danni subiti da
S.Jacopo per l’alluvione del 1966 e i danni di
usura metereologica di S.Giorgio hanno fatto
sì che per salvaguardarne il Patrimonio esso sia
stato parzialmente trasferito in entrambi i casi
in S.Felicita. Dopo aver affrontato la questione
relativamente a S.Jacopo [“Cu.Co.” nn.266-
267-268], tratterò ora di S.Giorgio. Le prime
notizie documentarie che hanno collegato fra
loro per ragioni storiche le due Chiese di S.Fe-
licita e S.Giorgio risalgono a un doc. dell’A-
SPSF che segnala come alla Restaurazione
Lorenese avvenuta nel 1814 sotto Ferdinando
III, il Parroco filo-napoleonico Don Luigi Ga-
leotti già incaricato in S.Felicita “dall’intruso
Pastore il Barone Eustachio D’Osmond, […]
venne destituito da tale ufficio dalla legittima
Autorità Ecclesiastica” e fu mandato a vivere
“nella casa segnata dal numero comunale 64
in Via De’ Bardi” mentre “fu eletto Economo
Spirituale di questa Chiesa [S.Felicita] il Par-
roco di S.Giorgio sulla Costa cioè il Sacerdote
Giuseppe Balocchi”. Questo Parroco entrò in
servizio il 26 Marzo 1814 [Ms.730, a.1814,
pp. 414-415]. Col passar degli anni, soltanto
alcuni sacerdoti ricevettero il doppio incarico
di S.Felicita e di S.Giorgio, fra questi pure gli
ultimi tre Parroci di S.Felicita. Per S.Giorgio
la soluzione di risanamento, sia rivolta all’ap-
parato murario che alle opere, non è stata
altrettanto felice e di rapida realizzazione
come fu quella di S.Jacopo che, colpito da
un evento tanto traumatico, ricevette soccor-
si e sponsorizzazioni immediati. S.Giorgio,
invece, si spegneva pian piano, dimenticato
dai più anche perché sostituito agevolmente
nelle sue attività liturgiche e parrocchiali da
S.Felicita. Restò molto a lungo puntellato
al suo interno e, più tardi, anche all’esterno.
Durante i miei anni di presenza in S.Felicita
anche come Archivista ebbi modo di consta-
tare che le problematiche riguardanti l’edifi-
cio di S.Giorgio erano dovute a fattori atmo-
sferici che gradatamente l’avevano portato a
necessitare di restauri urgentissimi: le prin-
cipali riparazioni a una trave pericolante e al
tetto rimandavano solo temporaneamente una
situazione sempre più a rischio, soprattutto
per la presenza in situ di tele, tavole, affreschi
e stucchi di notevole interesse artistico. Per la
salvaguardia dell’edificio e delle sue opere d’ar-
te, nel gennaio 2017 fu sollecitato dal Sindaca-
to “CONF.SAL-UNSA Beni Culturali” il Se-
questro cautelativo finalizzato ad evitare danni
irreparabili. A seguito di questa premurosa
sollecitazione su lavori in programma, furono
ripresi i restauri all’esterno dell’edificio eccle-
siale e, soprattutto, furono effettuate riparazio-
ni, questa volta definitive, al tetto. Umidità da
discesa e da risalita, degrado dell’impermeabi-
lizzazione della copertura, tegole mancanti e
conseguente dilavamento, furono le principali
cause del degrado che aveva colpito S.Giorgio.
I Parroci di S.Felicita avevano nel tempo fatto
portare al riparo, nella loro Chiesa e in ambien-
ti adiacenti, arredi e strumenti liturgici utiliz-
zabili in quel contesto, tra cui lo straordinario
Organo cinquecentesco di Onofrio Zeffirini.
Procedo ora qui di seguito a redigere una lista
di oggetti appartenenti a S.Giorgio pur essendo
depositati in S.Felicita: A. 2 grandi candelabri
barocchi in legno riccamente scolpito, intarsia-
to e dorato, alti circa cm 230, riconducibili al
1705; di artista ignoto, ma di rimarchevole bel-
lezza per l’esecuzione dell’ornato. Una Colom-
ba dello Spirito Santo è scolpita alla base dei
due manufatti, quale segno di appartenenza a
S.Giorgio. Furono portati in S.Felicita intorno
al 1990. La fig.1 mostra che nella loro sede i
due candelabri conservavano ciascuno le pro-
prie ‘piogge’ per l’inserimento delle candele. B.
14 panche con inginocchiatoio, in legno chia-
ro, manufatto del XX sec. C. 2 inginocchiatoi
lignei, ciascuno con 4 colonnine, legno di ci-
liegio (?). Inventariati dalla Curia col n.05034
come appartenenti a S.Felicita. D. 1 colonna
lignea tortile, intagliata a racemi, dipinta oro,
bianco e verde pallido, sormontata da leggio,
per uso di ambone. E. 1 colonna gemella della
precedente, ma sormontata da un piedistal-
lo circolare, per uso di sostegno. Entrambe le
colonnine sono inventariate dalla Curia coi
nn.0409 e 0552 come appartenenti a S.Felici-
ta. F. 4 Colonnine lignee tortili, color mogano
superiormente sormontate da una base per
uso sostegno (forse per piante). La Curia ne
ha inventariate 3 coi nn.0999a-1000a-1001a,
come appartenenti a S.Felicita. G. 1 cornice
lignea, dorata e intagliata (XIX-XX sec.) per
un dipinto a olio di S.Rita da Cascia; l’opera
è recente e puramente devozionale mentre la
cornice è manufatto di qualche interesse. H. 1
Organo a canne, mesotonico, costruito ante
1572 dal celeberrimo organaro O.Zefferini.
Fu restaurato e trasferito nel 1996 in S. Fe-
licita. Fino al 2009/2010 risultavano ancora
in S.Giorgio: parati liturgici antichi e bellissi-
mi dentro il Diakonikon, stanzetta nel fianco
NORD della Chiesa e posta di faccia alla Sa-
grestia; alcuni faldoni e fascicoli manoscritti
e Messali a stampa, dentro e sopra il bancone
di Sagrestia; dipinti e arredi in appoggio, in
Sagrestia e nel Coro delle Monache. Nell’at-
tuale rilancio di S.Giorgio - sia religioso che
artistico - questi ultimi arredi citati, opportu-
namente restaurati potrebbero ritrovarsi in
S.Giorgio di nuovo affiancati agli altri ma-
nufatti che dall’alto della Costa sono scesi in
S.Felicita. Mancherebbe all’appello la “Ma-
donna in trono” di Giotto davanti alla quale,
in visita al Monastero di S.Giorgio, Savona-
rola restò verosimilmente in meditazione.
di M.Cristina François
Fra S.Giorgioe S.Felicita
2014 LUGLIO 2018
Virgilio Sieni è oggi, a Firenze, uno dei po-
chissimi (potrei contarli sulle dita di una
sola mano) che ha le capacità intellettuali,
la credibilità culturale e la sensibilità socia-
le per fare un discorso sulla bellezza senza
cadere nella trita retorica di cui si sono ri-
empiti la bocca le ultime amministrazioni
(locali e nazionali) e di cui sono state pa-
sturate schiere di intellettuali, operatori
culturali e imprenditori. Così, il “Quarto
Paesaggio. Un’esperienza urbana della bel-
lezza”, programma di azioni, riflessioni, per-
formance e luoghi di Sieni (giugno-settem-
bre 2018), è esattamente l’antiretorica della
bellezza, perché ricerca e la trova laddove
è ancora viva la interconnessione dialettica
e dinamica fra il costruito, la natura, l’uo-
mo in tutte le sue rappresentazioni, e non
la fissità statuaria del centro storico gettato
in pasto al turismo di massa e finalizzato ad
ingrassare la rendita di posizione. In que-
sta esperienza dell’(anti)bellezza, che va
dalla Palazzina dell’Indiano delle Casci-
ne, all’Isolotto, fino alle Piagge, Sieni non
teme di affrontare le difficoltà di accesso ai
luoghi né la loro complessa e controversa
fruibilità (penso alla parte finale del Parco
delle Cascine, di ben più difficile valoriz-
zazione della parte monumentale inizia-
le). Anzi questa sfida è ciò che fa sgorgare
il vero lavoro artistico e culturale. Troppo
facile (e impossibile, allo stesso tempo ma
in senso opposto) mettere un’opera d’arte
contemporanea in piazza della Signoria o
in S.Croce e attendere che l’orda turistica
e i flash dei media globale ne illuminino
grandezza o mediocrità. Ben più difficile e
diverso prendere una palazzina dimentica-
ta da tempo in fondo al parco, stretta fra il
fiume, il ponte e Novoli e farne un centro
d’arte e di vita, attivo, di cui si approprino
i cittadini increduli della sua stessa esisten-
za. Ma perché meravigliarsi di questa am-
nesia collettiva su questi luoghi di frangia
da parte dei nativi? Sono stati, anche loro,
nutriti di retorica sulla “città più bella del
mondo”, su “la bellezza che salverà il mon-
do”, sul “nuovo Rinascimento fiorentino”,
intendendo con ciò il centro storico come
entità avulsa dal resto della città, dove pure
si svolge la vita con tutte le sue difficoltà,
contraddizioni e contrasti che, però, sono la
vera bellezza. In fondo che colpa avevano
loro se gli veniva continuamente ricordato
di essere privilegiati a vivere in questa me-
ravigliosa città (che, per inciso non era per
loro – che infatti non la conoscono – ma per
di Simone Siliani Alla ricercadel QuartoPaesaggio
2114 LUGLIO 2018
le masse di turisti e per chi da quel turismo
cerca di trarre il massimo profitto nel minor
tempo possibile), ma per il loro tempo libero
gli venivano propinati “i Gigli” e altri simili
parchi giochi del consumo?
Invece Virglio Sieni, fin dai tempi di Can-
tieri Goldonetta, cerca di entrare in sinto-
nia con il cuore pulsante di quell’ordito di
vite straordinariamente ordinarie che abi-
tano ai margini, lontano dai riflettori del-
lo star system turistico; ed è tutt’uno con
l’ambiente, naturale e artificiale, costruito
e decostruito, storico anch’esso o in conti-
nua trasformazione creativa. Un percorso
che dalla Palazzina dell’Indiano (Progetto
PIA – Palazzina Indiano Arte) si addentra
fino alle viscere di quel mondo a sé, senza
veri confini fisici, ma che costituisce l’ulti-
mo pezzo di architettura e storia sociale e
democratica della città (fino almeno al re-
cupero delle Murate, s’intende) che è l’I-
solotto; per poi sfondare alle Piagge con la
Scuola di Musica di Fiesole che da qualche
anno ha spostato in questa lontana periferia
il campo di battaglia della sfida culturale e
di civiltà che intraprese Piero Farulli quan-
do intese con la “sua” scuola portare la mu-
sica a tutti (e non ai soli addetti ai lavori), di
ogni gruppo sociale o etnico.
Li vedevo e ascoltavi, increduli, i miei
concittadini che arrivavano, come fossero
giunti in una terra straniera e ignota, alla
Palazzina dell’Indiano e si aggiravano spa-
esati fra l’Arno, la Palazzina e il ponte: che
potesse esistere un luogo come quello resta-
va fuori dal loro orizzonte cognitivo. Quel-
li della mia età forse conservano qualche
lontano ricordo delle gite della domenica
mattina, uno dei rari momenti con i babbi,
dallo zoo all’inizio fino al monumento del
Maharaja (il maragià, alla fiorentina) alla
fine del parco delle Cascine. Ma tutte le
generazioni successive hanno perso ogni
cognizione di quel (non)luogo. Che ora tor-
na vivo, o meglio si apre anche ad un’altra
vita, quella creativa dell’arte. La danza sul
greto dell’Arno, la musica sull’erba, le “pas-
seggiate racconto per giardinieri planetari”,
le lezioni sul gesto, gli incontri sull’archi-
tettura, l’orto, lo spazio espositivo, la scuola
ippica: tutto è lì per narrare un’altra idea di
bellezza. Viva, come quella che inizierà il
19 luglio in piazza dei Tigli all’Isolotto con
la scultura pubblica e il “Ballo 1960” ispi-
rati alla foto in bianco e nero del 1960 del
bambino che pianta un alberello all’Isolot-
to: da questo gesto (appunto), semplice, vi-
tale, umano, sgorga la memoria e, attraverso
l’arte, ci rivela un paesaggio vivo, ancora,
davanti a noi e in cui siamo invitati a en-
trare come soggetti attivi, protagonisti, non
consumatori feticisti di totem cristallizzati
di algida bellezza.
Il titolo della rassegna rimanda, come è ov-
vio, al Manifesto del Terzo Paesaggio, di
Gilles Clément di cui, mi pare, il Quarto
Paesaggio di Virgilio Sieni rappresenta una
variante innovativa. Per Clément, il Terzo
Paesaggio era un “frammento indeciso del
giardino planetario”, un insieme di luoghi
abbandonati dall’uomo, luoghi di frangia,
di margini che tuttavia raccolgono “una
diversità biologica che non è a tutt’oggi ru-
bricata come ricchezza”. Uno spazio che
“non esprime né potere, né sottomissione
al potere”. Questo “rifugio di diversità”
che è il Quarto Paesaggio di Sieni è la sede
“indecisa” - nel senso che non vi opera la
decisione umana di creare amministrati-
vamente una riserva naturale o una previ-
sione urbanistica, ma tutto è lasciato alla
libera interazione fra gli esseri biologici che
compongono il territorio – della biodiversi-
tà culturale. Il “programma” che si svolge
alla Palazzina Indiano Arte sfugge alla ca-
talogazione della bellezza così artificiosa-
mente definita nel centro storico proprio
per essere destinata ad un’unica forma di
fruizione e di sfruttamento economico. La
partecipazione spontanea degli esseri bio-
logici, la collaborazione di tanti e diversi
operatori culturali. La distanza dai flussi
massificatori del turismo garantiscono la
biodiversità culturale. Che è poi anche la
proposta di “un nuovo modello democrati-
co di città, che riscopra l’aperto e il vuoto
come elementi equilibratori e positivi per il
libero pensiero e la circolazione delle idee”.
Ma, del resto, cosa è la democrazia se non
un ambiente sociale e istituzionale dove è
garantita la biodiversità delle idee, un par-
co senza confini dove la diversità culturale
è valore e la omologazione il peggiore dei
pericoli. Come quelli del Terzo Paesaggio
di Clément, anche gli spazi frequentati da
Virgilio Sieni sono indecisi, “privi di fun-
zione sui quali è difficile posare un nome”.
Terreni sfuggiti alla pianificazione ordina-
trice, oppure abbandonati in seguito ad una
dismissione recente, residuali perché abita-
ti da funzioni non programmate e scontate.
Ma nel Quarto Paesaggio di Sieni intervie-
ne un elemento ordinatore, quasi demiurgi-
co direi, svolto dalla complessa relazione fra
l’artista e l’ambiente, “per tracciare mappe
poetiche sulla rigenerazione del territorio e
sulla riscrittura di una geografia di dettagli
attraverso comunità del gesto”.
2214 LUGLIO 2018
E’ passato davvero tanto tempo da quando
alla fine degli anni settanta, le spiagge di Cala
Violina e del Parco dell’Uccellina ora Parco
della Maremma, rappresentavano l’“alterna-
tiva” a chi rifuggiva la balneazione dei Lidi e
dei campeggi sul mare, per una sana balnea-
zione sulla spiaggia libera.
Eravamo io, Monica, Caterina e Michele, lei
una lussemburghese ribelle e con un bel la-
boratorio di oreficeria in Via Dei Federighi.
Michele, il suo ragazzo, un neolaureato archi-
tetto di Vasto.
Ricordo che oltre a godersi quel bel posto, che
è il Golfo di Cala Violina, seguivamo con cu-
riosità le manovre di Michele, che trottando
sulla lunga spiaggia libera, raccoglieva canne
frasche e tronchi oltre a pezzi di spago e cor-
dame gettato dal mare sulla spiaggia, tentan-
do di imbrigliare asciugamani e vestiti in un
patchwork di colori e materiali compositi su-
scitando la nostra ironia.
Rincorreva un progetto di edificazione che
avrebbe dovuto coniugare una precoce bioar-
chitettura e l’esigenza che avevamo di riparo
dal sole e dal vento.
Erano toccanti l’impegno e la serietà accom-
pagnata da grande passione con la quale ten-
tava di realizzare un riparo che forse sentiva
e viveva come il suo primo “impegno proget-
tuale” che non riuscivamo a contrastare né
tantomeno a disarmare con le nostre battute
ironiche.
“Il Riparo”, qualcosa che definiamo con
difficoltà. Un concetto più che una forma.
Chiarissimo però nel suo significato di luogo
protettivo di luogo di primo soccorso, che ri-
sponde certamente a paure di antichissima
memoria.
Negli anni ’90 e oltre, abbiamo frequentato
regolarmente la costa a sud di Livorno e le pi-
nete di Marina di Bibbona.
La spiaggia libera era al tramonto una palestra
per quella popolazione più selvatica di aman-
ti della natura, che con il calare del sole s’im-
possessavano di ogni ramo e tronco, pezzi di
legno e cannicci e ogni altro materiale levigato
dal continuo strascico sulla sabbia, che il mare
sbatteva ogni giorno sulla costa per costruire
capanne di memoria antica, cucendoli insie-
me usando cordami e pezzi di spago sintetico
raccolti durante lunghe passeggiate.
Era un continuo fiorire di nuove strutture,
dalle semplici alle più complesse. Talvolta
ambiziose e addirittura civettuole da tradire
ambizioni architettoniche.
Non mancavano esempi fondati su piante ar-
ticolate.
di Valentino Moradei Gabbrielli
Architetti spontanei
Durante la giornata, venivano “abitate” dai
bagnanti di passaggio, arricchite ogni sera da
infaticabili manovali e “architetti”.
Una presenza piacevole quella dei capanni
sulla spiaggia che ci ha accompagnati per ol-
tre un decennio.
Visitando oggi il Parco della Maremma e cam-
minando lungo l’ampia e lunga spiaggia libera
che costeggia i Monti dell’Uccellina, abbiamo
incontrato con piacevole sorpresa un numero
notevole di esempi costruttivi primordiali co-
stituiti da legname e similari portati dal mare
sulla spiaggia. Quasi un catalogo dell’architet-
tura primordiale.
Rifletto su quanto sia profondo e indelebil-
mente legato all’animale uomo lo spirito di so-
pravvivenza e il suo bisogno di avere un rico-
vero anche quando non ne esiste la necessità.
La costruzione di questi capanni, è forse da
interpretare come un’esercitazione di prote-
zione civile in previsione di una calamità na-
turale, oppure come un rito tribale?
2314 LUGLIO 2018
Oltre 15 metri di pannelli di cartone
corrono lungo un muro della galleria.
Un affastellamento di disegni dal 1965
al 2009 che portano all’immaginazione
un grande tavolo da lavoro sul quale l’ar-
tista ha voluto esporre i suoi disegni. La
semplicità del materiale di supporto – o
di appoggio – diminuisce la distanza tra
arte – troppe volte considerata elitaria
e di palazzo – e fruitore. Cornici, vetri,
passpartout ed altri orpelli scansano le
depravazioni del pur necessario merca-
to dell’arte cosicché lo spettatore possa
godere del dialogo, a faccia a faccia, con
l’artista che gli si pone intimo e privo di
ogni difesa oggettiva.
Comincio a camminare lungo questi di-
segni e noto che la matita, il carboncino
o il pastello marcano segni contradditto-
ri: è come se cercassero un altrove posto
tra naturalismo, anti-naturalismo e tra
astratto e figurativo. I volti, così come le
anatomie, non sono mimetici ma allusivi
a quel mondo umano; metaforici: mi ras-
sicura Stengel quando dice “Sono uno di
voi, sempre!”. Il segno nervoso della mati-
ta disegna un volto che si mischia a dolci
di Achille Falco Karl Stengeluno di noi ombre di natiche e interni coscia femmi-
nili; i colori dei disegni astratti vegliano
sui volti umani e, in certi altri, quando
astratto e figurativo non si uniscono in
uno stesso disegno, sembrano suggerire
qualcosa l’uno dell’altro.
Mi viene da pensare che nell’ormai
decretata distanza tra i due poli, dove
nell’uno si agitano le armi di Mondrian e
nell’altro quelle di Michelangelo, la con-
tesa tra puro spirito e carne sembra avere
Stengel come pacificatore: astrattismo e
figurativo collaborano alla stessa causa in
una virtuosa contaminazione.
Del resto, cos’ è l’astratto se non la tra-
scendenza alla quale tutti noi inclinia-
mo? Cosa se non quel guazzo di sensazio-
ni troppo difficili da dire e catalogare? E
ancora: chi meglio di un astrattista può
consapevolmente disegnare volti?
In questa passeggiata con Stengel lungo
il pannello in cartone, mi fermo ad un
certo punto davanti ad un disegno in cui
il pastello, calcato con forza, vergherebbe
anche lo spirito degli animi più dimessi.
Mi sembra di essere nel pieno di una sin-
fonia: quando essa incalza verso il punto
apicale, e il direttore d’orchestra scarica
sanguigno tutto quel che ha raccolto, li-
berando l’estasi degli ascoltatori. In quei
cromatismi, l’anima si riscatta e dice
‘questo sono io’.
Gli astratti volti umani, disegnati febbril-
mente da Stengel, non accettano i bene-
fici illusori della mistificazione e del puro
estetismo ma calcano, semmai, la via del-
la ricerca con – come Stengel cita Goethe
– “l’occhio che sente, la mano che vede”.
La galleria d’arte Zetaeffe in via Maggio
47/r – che spesso ha la stessa funzione
demiurgica del critico, interpretando
l’artista con l’allestimento della mostra –
terrà aperta l’esposizione (a libera entra-
ta) fino al 31 luglio.