§ 7 Il metodo fenomenologico della ricerca · fenomenologia verrebbe a significare scienza dei...
Transcript of § 7 Il metodo fenomenologico della ricerca · fenomenologia verrebbe a significare scienza dei...
-
1
§ 7 Il metodo fenomenologico della ricerca
[1] Con la caratterizzazione provvisoria dell’oggetto tematico della
ricerca (essere dell’ente o senso dell’essere in generale) sembra anche
già esser predelineato il suo metodo. Il distacco (Abhebung) dell’essere
dall’ente e l’esplicazione dell’essere stesso è compito dell’ontologia. Il
metodo dell’ontologia resta altamente problematico finché si prende
consiglio dalle ontologie storicamente tramandate o da tentativi
analoghi. Poiché nel corso di questa indagine il termine ontologia è
usato in senso formalmente ampio, viene a chiudersi da se stessa la via
di un chiarimento del metodo mediante l’esame della sua storia.
[2] Usando il termine ontologia non si vuole proporre una disciplina
filosofica determinata, connessa alle altre. Non si tratta affatto di
assolvere i compiti di una disciplina precostituita; al contrario, si tratta
semmai di sviluppare una disciplina a partire dalle necessità oggettive
di determinate domande e dal modo di trattazione richiesto dalle «cose
stesse».
[3] Con la domanda direttiva circa il senso dell’essere, l’indagine si
trova di fronte al problema fondamentale della filosofia come tale. Il
modo di trattazione di questa domanda è quello fenomenologico. Ma
con ciò il nostro lavoro non si subordina né a un «punto di vista» né a
una «corrente»; perché la fenomenologia non è né l’una né l’altra cosa,
né può mai divenire tale, almeno finché comprenda se stessa.
L’espressione «fenomenologia» significa primariamente un concetto
di metodo [Methodenbegriff, lett.: “concetto-metodo”]. Essa non
caratterizza il che-cosa reale [sachhaltige Was] degli oggetti della
ricerca filosofica, ma il come [Wie] di quest’ultima. Quanto più
genuinamente un concetto di metodo incide realmente, e quanto più
ampiamente esso determina l’andamento fondamentale di una scienza,
tanto più originariamente esso si radica nel confronto con le cose
stesse, e tanto più si allontana da ciò che chiamiamo appigli tecnici, di
cui ce ne sono molti anche nelle discipline teoriche.
[4] Il termine «fenomenologia» esprime una massima che può esser
formulata così: «Alle cose stesse!» e ciò in contrapposizione ad astratte
costruzioni, a casuali ritrovati, all’assunzione di concetti solo
apparentemente giustificati, a false domande che sovente si
trasmettono da una generazione all’altra come «problemi». Si potrebbe
tuttavia obiettare che si tratta di una massima affatto ovvia e che
esprime soltanto il principio di ogni conoscenza scientifica: non si vede
perché un’ovvietà come questa dovrebbe comparire espressamente
nella qualificazione di una particolare ricerca. In realtà si tratta di
un’«ovvietà» a cui vogliamo avvicinarci, nella misura in cui ciò è
rilevante per il chiarimento del procedere di questo trattato. Esporremo
soltanto il concetto provvisorio [Vorbegriff, lett.: „pre-concetto“] di
fenomenologia.
[5] L’espressione è composta di due parti: fenomeno e logos. L’uno
e l’altro derivano da termini greci: φαινόμενον e λόγοϛ. Preso
superficialmente, il termine fenomenologia è composto in modo
-
2
analogo a teologia, biologia, sociologia, che noi rendiamo
solitamente con scienza di Dio, della vita, della società. In tal caso,
fenomenologia verrebbe a significare scienza dei fenomeni. Il
concetto provvisorio [Vorbegriff] di fenomenologia deve essere
costruito attraverso la caratterizzazione di ciò che si intende coi due
termini che lo compongono: «fenomeno» e «logos», e attraverso la
fissazione del senso del nome da essi composto. La storia della
parola stessa, che nasce presumibilmente nella scuola di Wolff, non
ha qui importanza.
A - Il concetto di fenomeno
[6] L’espressione greca φαινόμενον, a cui risale il termine
«fenomeno», deriva dal verbo φαίνεσθαι che significa manifestarsi
[sich zeigen]; φαινόμενον significa quindi ciò che si manifesta, il
manifestantesi [das Sichzeigende], il manifesto [das Offenbare];
φαίνεσθαι stesso è una forma verbale medio-passiva di φαίνω,
illuminare, porre in chiaro; φαίνω deriva dalla radice φα come φῶϛ, la
luce, il chiaro, ossia ciò in cui qualcosa può manifestarsi, può rendersi
visibile in se stesso. Quale significato dell’espressione «fenomeno», è
da tener fermo: ciò-che-si-manifesta-in-se-stesso- [das Sich-an-ihm-
selbst-zeigende] il manifesto [das Offenbare]. I φαινόμενα, i
«fenomeni», sono dunque la totalità [Gesamtheit] di ciò che sta alla
luce del giorno oppure che può essere portato alla luce, ciò che i greci
a volte identificarono [identifizierten, lett.: “resero identico”]
semplicemente con τὰ ὄντα (l’ente). L’ente può dunque manifestarsi
da se stesso in maniere diverse, a seconda del rispettivo modo di
accesso a esso. Si dà persino la possibilità che l’ente si manifesti come
ciò che esso in se stesso non è. In questo manifestarsi l’ente «pare così
come…». Tale manifestarsi noi lo chiamiamo sembrare [Scheinen,
“parere"]. Così anche in greco l’espressione φαινόμενον, fenomeno, ha
il significato di ciò che sembra in un determinato modo, «il parvente»
[das »Scheinbare«], la «parvenza» [der »Schein«]; φαινόμενον ἀγαθόν
vuol dire un bene che pare essere tale ma che, in «realtà», non è ciò per
cui si spaccia. Per una più ampia comprensione del concetto di
fenomeno tutto sta nel vedere come ciò che è nominato nei due
significati di fenomeno («fenomeno» come ciò che si manifesta e
«fenomeno» come parvenza) si connetta strutturalmente. Soltanto
perché qualcosa, in base al suo senso, pretende di manifestarsi, cioè di
esser fenomeno, esso può manifestarsi come qualcosa che esso non è,
cioè può «solo sembrare così come…». In questo significato di
φαινόμενον («parvenza») è già incluso il significato originario
(fenomeno: il manifesto) come fondante il secondo. All’espressione
«fenomeno» assegniamo terminologicamente il significato positivo e
originario di φαινόμενον e distinguiamo fenomeno da parvenza,
considerando la seconda come modificazione privativa del primo.
Entrambi i termini esprimono però qualcosa [was] che, innanzi tutto,
-
3
non ha nulla a che fare con ciò che si usa chiamare «apparizione»
[Erscheinung] o addirittura «mera apparizione».
[7] In questo senso si parla dei «sintomi patologici»
[»Krankheitserscheinungen«]. Si intendono eventi del corpo che si
manifestano [sich zeigen] e che, nel manifestarsi come questi
manifestantisi, fanno da «indizi» di qualcosa che a sua volta non si
manifesta. L’insorgere di tali eventi, il loro manifestarsi, è associata
alla semplice presenza di disturbi che non si manifestano. Apparizione
come apparizione «di qualcosa» non significa dunque affatto:
manifestare se stesso, ma: annunciarsi di qualcosa che non si manifesta,
mediante qualcosa che si manifesta. L’apparire [Erscheinen] è16n un
non-manifestarsi. Ma questo «non» non deve assolutamente venir
confuso col «non» privativo che come tale caratterizza la struttura della
parvenza. Ciò che non si manifesta in quel modo, in cui l’apparente
[das Erscheinende] non si manifesta, non può mai neppure sembrare
[scheinen]. Indicazioni, presentazioni (Darstellungen), sintomi,
simboli, per quanto molto diversi fra di loro, hanno tutti questa struttura
formale fondamentale dell’apparire (Erscheinen).
[8] Benché l’«apparire» (»Erscheinen«) non sia mai un manifestarsi
nel senso del fenomeno, esso è tuttavia possibile soltanto sul
fondamento di un manifestarsi di qualcosa. Ma questo manifestarsi che
assieme rende possibile l’apparire, non è l’apparire stesso. Apparire è:
annunciarsi mediante qualcosa che si manifesta. Quando allora si dice:
con la parola «apparizione» (Erscheinung) rinviamo a qualcosa in cui
qualcosa appare senza essere esso stesso apparizione, con ciò non
abbiamo delimitato (umgrenzt, “circoscritto”) il concetto di fenomeno,
lo abbiamo bensì presupposto; e tale presupposizione rimane però
occultata [verdeckt], perché in questa determinazione di «apparizione»
[»Erscheinung«] l’espressione «apparire» (»erscheinen«) è usata in
duplice senso. Ciò in cui qualcosa «appare», significa ciò in cui
qualcosa si annuncia, ovvero non si manifesta; mentre nel discorso
[Rede]: «senza essere esso stesso ‘apparizione’», la parola
«apparizione» significa il manifestarsi. Ma questo manifestarsi
appartiene in modo essenziale a quell’«in cui» (Worin) entro il quale
qualcosa si annuncia. Dunque, i fenomeni non sono mai apparizioni,
anche se ogni apparizione è dipendente da fenomeni. Se si definisce il
fenomeno con l’ausilio di un concetto ancora oscuro di «apparizione»,
tutto è messo sottosopra e una «critica» della fenomenologia su queste
basi diviene una impresa ben stramba.
[9] La stessa espressione «apparizione» può, di nuovo, avere un
significato duplice: da un lato, [può significare] l’apparire nel senso
dell’annunciarsi come non manifestarsi, e dall’altro l’annunciante
stesso che, nel suo manifestarsi, indica [anzeigt] qualcosa di non
manifestantesi. E, infine, il termine apparire può essere usato per
significare il senso genuino di fenomeno come manifestarsi. Se si
designano questi tre diversi stati di cose con il termine «apparizione»,
la confusione diventa allora inevitabile.
-
4
[10] Ma la confusione è in più aggravata in modo essenziale dal fatto
che «apparizione» può assumere un altro significato ancora. Se
l’annunciante che nel suo manifestarsi indica [anzeigt] il non-
manifesto è inteso come qualcosa che sorge dal non-manifesto stesso,
da questo si irradia, in modo tale che il non-manifesto sia concepito
come non mai manifestabile per essenza, in questo caso apparizione
significa produzione o prodotto, tale però da non esprimere l’essere
autentico del produttore: apparizione nel senso di «semplice
apparizione». L’annunciante così prodotto manifesta certamente se
stesso, ma in modo tale che, in quanto irradiazione di ciò che annuncia,
lo vela costantemente in se stesso. Ma questo velante non manifestare
non è, di nuovo, parvenza. Kant usa il termine Erscheinung in questa
combinazione di significati. Erscheinungen sono per lui, da un lato, gli
«oggetti dell’intuizione empirica», ciò che in questa si manifesta.
Questo manifestantesi (fenomeno nel senso genuino e originario) è, nel
contempo, «apparizione» come annunciante irradiazione di qualcosa
che nell’apparizione si nasconde.
[11] Poiché per l’«apparizione», nel significato dell’annunciarsi
mediante un manifestantesi, è costitutivo un fenomeno, ma questo può
però modificarsi in parvenza (Schein), anche l’apparizione può
diventare una semplice parvenza. In una particolare illuminazione un
individuo può parere tale da avere le guance rosse: questo rossore
manifestantesi può esser preso per l’annuncio della presenza di febbre,
la quale, a sua volta, indicherebbe, di nuovo, un’indisposizione
dell’organismo.
[12] Fenomeno, il manifestarsi-in-se-stesso, significa un modo di
incontro eminente (ausgezeichnet) di qualcosa. Apparizione
[Erscheinung], invece, significa un essente rapporto di rimando
nell’ente stesso, tale per cui il rimandante (l’annunciante) è in grado di
assolvere la sua funzione possibile solo se si manifesta in se stesso, se
è «fenomeno». Apparizione (Erscheinung) e parvenza (Schein) sono
essi stessi, in modo diverso, fondati nel fenomeno. La disorientante
molteplicità di «fenomeni» che vanno sotto il nome di fenomeno,
parvenza, apparizione, semplice apparizione, può essere riordinata solo
se è fin dall’inizio compreso il concetto di fenomeno: il manifestantesi-
in-se-stesso.
[13] Se, in questa accezione del concetto di fenomeno, resta
indeterminato quale ente venga chiamato in causa come fenomeno, e
se resta in generale indeciso se il manifestantesi è ogni volta un ente o
un carattere d’essere dell’ente, allora non si è raggiunto che il concetto
formale di fenomeno. Quando, però, si comprende il manifestantesi,
come ad esempio in Kant, nel senso dell’ente a cui si accede mediante
l’intuizione empirica, allora in questo caso il concetto formale di
fenomeno giunge ad una applicazione legittima [rechtmäßigen
Anwendung]. Fenomeno in questo uso soddisfa [erfüllt] il concetto
ordinario di fenomeno. Tale concetto ordinario non è però il concetto
fenomenologico di fenomeno. Nell’orizzonte della problematica
kantiana, quel che si intende fenomenologicamente per fenomeno può
-
5
essere illustrato (facendo riserva per altre differenze) dicendo: ciò che
nelle apparizioni (Erscheinungen), nel fenomeno in senso ordinario,
ogni volta si manifesta preliminarmente e contemporaneamente,
benché non tematicamente, può essere portato tematicamente al
manifestarsi: e questo così-manifestantesi-in-se-stesso (le «forme
dell’intuizione») sono i fenomeni della fenomenologia. Giacché è
evidente che spazio e tempo debbono potersi manifestare a questo
modo, ossia debbono poter divenire fenomeni, se Kant, affermando che
lo spazio è l’in-cui [Worinnen] apriori di un ordine, pretende di
formulare una asserzione trascendentale fondata nella cosa stessa
[sachbegruendete Aussage].
[14] Ma se, ora, il concetto fenomenologico di fenomeno va compreso
in quanto tale, prescindendo dal modo cui il manifestantesi possa più
da vicino venir determinato, allora, indispensabile presupposto è il
coglimento evidente [Einsicht] del senso del concetto formale di
fenomeno e della sua applicazione legittima in un significato ordinario.
Prima di poter fissare il concetto preliminare [Vorbegriff] di
fenomenologia, occorre delimitare il significato di λόγοϛ, affinché sia
chiaro in quale senso la fenomenologia possa in generale essere una
«scienza di» fenomeni.
B - Il concetto di logos
[15] In Platone e Aristotele il concetto di λόγοϛ è plurivoco, e
precisamente in modo tale che i diversi significati vanno uno da una
parte, uno dall’altra, senza essere guidati positivamente da un
significato fondamentale [Grundbedeutung]. Questa è di fatto soltanto
apparenza [Schein], che si mantiene finché l’interpretazione
[Interpretation] è in grado di afferrare non adeguatamente il significato
fondamentale nel suo contenuto primario. Se noi diciamo: il significato
fondamentale [Grundbedeutung] di λόγοϛ è discorso [Rede], allora
questa traduzione letterale diventerà pienamente valida soltanto
muovendo dalla determinazione di ciò che discorso stesso significa. La
più tarda storia semantica [Bedeutungsgeschichte] della parola λόγοϛ
e, soprattutto, le diverse e arbitrarie interpretazioni della filosofia
successiva occultano [verdecken] costantemente il significato
autentico [eigentliche Bedeutung] di discorso, che è manifesto in modo
abbastanza aperto. Λόγοϛ è «tradotto», cioè sempre interpretato, come
ragione, giudizio, concetto, definizione, fondamento, relazione. Ma
come può «discorso» modificarsi così che λόγοϛ significhi tutto ciò che
è stato enumerato, e per di più nell’ambito di un uso linguistico di
carattere scientifico? Anche quando si intende λόγοϛ nel senso di
asserzione, l’asserzione, però, nel senso di «giudizio», con questa
traduzione apparentemente legittima, il significato fondamentale
[Grundbedeutung] può venir mancato [verfehlt], specialmente se
giudizio è concepito nel senso di qualcuna delle attuali «teorie del
giudizio». Λόγοϛ non significa e comunque non significa
-
6
primariamente giudizio, se si comprende con ciò un «collegare» o un
«prender posizione» (riconoscere o respingere).
[16] Λόγοϛ, in quanto discorso, significa piuttosto qualcosa come
δηλοῦν, render manifesto ciò di cui, nel discorso, «il discorso» è.
Aristotele ha esplicato più precisamente questa funzione del discorso
come ἀποφαίνεσθαι (cfr. de interpretatione cap. 1-6. Inoltre Met. Z. 4
e Eth. Nic. Z.) Il λόγοϛ fa vedere (φαίνεσθαι) qualcosa, ovvero ciò su
cui il discorso verte; e precisamente lo fa vedere per i discorrenti
(forma verbale mediopassiva) ossia per coloro che discorrono fra di
loro. Il discorso «lascia vedere» ἀπὸ…, a partire da ciò stesso di cui si
discorre. Nel discorso (ἀπόφανσιϛ), nella misura in cui esso è genuino,
ciò che [was] è detto deve esser attinto muovendo da ciò intorno a cui
si discorre, in modo che la comunicazione discorsiva, in ciò che è detto,
renda manifesto e come tale accessibile agli altri ciò intorno a cui
discorre. Questa è la struttura del λόγοϛ in quanto ἀπόφανσιϛ. Questo
modo del render manifesto nel senso del far vedere esibendo. La
preghiera (εὐχή), ad esempio, è anch’essa un render manifesto, ma in
un altro modo.
[17] Nel compimento [Vollzug] concreto il discorrere (far vedere) ha il
carattere del parlare, della verbalizzazione vocale in parole. Il λόγοϛ è
φωνή, e precisamente φωνή μετὰ φαντασίαϛ, verbalizzazione vocale in
cui qualcosa è ogni volta visto.
[18] Ed è soltanto perché la funzione del λόγοϛ come ἀπόφανσιϛ
consiste nel far vedere qualcosa mostrando, che il λόγοϛ può avere la
forma strutturale della σύνθεσιϛ. Sintesi non significa qui collegamento
e connessione di rappresentazioni, manipolazione di eventi psichici,
nei cui riguardi nasca poi il «problema» della concordanza di essi, in
quanto interni, coi fatti fisici esterni. Qui il συν ha un significato
prettamente apofantico e significa: lasciar vedere qualcosa nel suo
essere insieme a qualcosa, lasciar vedere qualcosa in quanto qualcosa.
[19] E di nuovo, poiché il λόγοϛ è un lasciar vedere, per questo esso
può essere vero o falso. Anche qui tutto sta nel liberarsi da un concetto
artificioso di verità nel senso di una «concordanza». Questa idea non è
per nulla l’elemento primario del concetto di ἀλήθεια. L’«esser vero»
del λόγοϛ, in quanto ἀληθεύειν, significa: nel λέγειν, in quanto
ἀποφαίνεσθαι, trarre fuori l’ente, di cui è il discorso, dal suo esser
nascosto (Verborgenheit) e lasciarlo vedere come non nascosto
[Unverborgenes] (ἀληθέϛ), scoprirlo [entdecken, lett.:
“disoccultarlo”]. Corrispondentemente l’«esser falso», ψεύδεσθαι,
vuol dire ingannare nel senso di occultare [verdecken]: porre (nel modo
del lasciar vedere) qualcosa dinanzi a qualcosa e spacciarla in quanto
qualcosa che essa non è.
[20] Poiché però «verità» ha questo senso e il λόγοϛ è un modo
determinato del lasciar vedere, il λόγοϛ non può affatto esser
considerato il «luogo» primario della verità. Quando, come oggi ormai
tutti fanno, la verità è definita come ciò che appartiene «propriamente»
al giudizio, facendo per di più risalire questa tesi ad Aristotele, si cade
in un duplice errore: perché il richiamo ad Aristotele è infondato e
-
7
perché, soprattutto, il concetto greco di verità è frainteso. «Vero» in
senso greco, certo più originariamente del λόγοϛ suddetto, è la
αἴσθησιϛ, la diretta apprensione sensibile di qualcosa. Poiché una
αἴσθησιϛ mira ogni volta ai propri ἴδια, cioè all’ente genuinamente
accessibile solo mediante essa e per essa (ad esempio, il vedere ai
colori), l’apprensione è sempre vera. Il che significa: il vedere scopre
sempre colori, l’udire scopre sempre suoni. «Vero», nel senso più puro
e originario, cioè esclusivamente scoprente, cosicché non possa mai
occultare, è il puro νοεῖν, l’apprendere, direttamente osservante, delle
più semplici determinazioni d’essere dell’ente come tale. Questo νοεῖν
non può mai occultare, non può mai esser falso; potrà, tutt’al più,
restare un non apprendere, un ἀγνοεῖν, non essere sufficiente
all’accesso diretto, adeguato.
[21] Ciò che non ha più la forma di attuazione [Vollzugsform] del puro
lasciar vedere, ma che, nel mostrare, ricorre di volta in volta a
qualcos’altro e fa così vedere qualcosa in quanto qualcosa, assume, con
questa struttura sintetica, la possibilità dell’occultare [Verdecken]. La
«verità del giudizio», comunque, non è che il contrario di questo
occultare [Verdecken], cioè un fenomeno di verità fondato per più
aspetti. Realismo e idealismo, con pari fondamentalità, mancano il
senso del concetto greco di verità, in base al quale soltanto è possibile
comprendere la possibilità di qualcosa come una «dottrina delle idee»
quale conoscenza filosofica.
[22] Proprio perché la funzione del λόγοϛ sta nel diretto lasciar vedere
qualcosa, nel lasciar apprendere l’ente, il λόγοϛ può significare
ragione. E proprio perché, di nuovo, λόγοϛ viene usato non soltanto
nel significato di λέγειν ma ugualmente in quello di λεγόμενον (il
mostrato [das Aufgezeigte] come tale), e poiché questo è null’altro che
l’ὑποκεί- μενον (ciò che in ogni interpellare e discutere sta già ogni
volta, come semplicemente presente, a fondamento), il λόγοϛ, in quanto
λεγόμενον, significa fondamento [Grund], ratio. E infine, poiché
λόγοϛ in quanto λεγόμενον può anche significare ciò che è chiamato in
questione in quanto qualcosa che diviene visibile mediante la sua
relazione a qualcosa, mediante la sua «relazionalità», λόγοϛ assume il
significato di relazione e rapporto.
[23] Questa interpretazione del «discorso apofantico» può bastare per
il chiarimento della funzione primaria del λόγοϛ.
C - Il concetto preliminare [Vorbegriff] di fenomenologia
[24] Tenendo concretamente presente il prodotto dell’interpretazione
di «fenomeno» e di «logos», salta subito agli occhi l’intima
connessione tra ciò che è inteso con questi due termini. L’espressione
fenomenologia può essere formulata grecamente: λέγειν τὰ φαινόμενα;
λέγειν però significa ἀποφαίνεσθαι. Fenomenologia significa allora
-
8
ἀποφαίνεσθαι τὰ φαινόμενα: lasciar vedere da se stesso ciò che si
manifesta, così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso
formale dell’indagine che si dà il nome di fenomenologia. Ma in tal
modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: «Alle
cose stesse!»
[25] Quanto al suo senso, perciò, il termine fenomenologia è diverso
da designazioni come teologia e simili. Queste denotano gli oggetti
della relativa scienza nel loro rispettivo contenuto reale
[Sachhaltigkeit]. «Fenomenologia» non denota l’oggetto delle sue
ricerche, né il termine caratterizza il contenuto reale di tali ricerche. La
parola informa esclusivamente sul come [Wie] della esibizione e della
trattazione del che cosa [Was] deve venir trattato in questa scienza.
Scienza «dei» fenomeni significa: un afferramento dei propri oggetti
tale che tutto ciò che di essi è in discussione sia trattato in esibizione
[Aufweisung] diretta ed in giustificazione [Ausweisung] diretta. Il
medesimo significato ha l’espressione, sostanzialmente tautologica,
«fenomenologia descrittiva». Qui descrizione non ha affatto il
significato di un procedimento del genere di quello impiegato, ad
esempio, dalla morfologia botanica. L’espressione ha di nuovo un
senso proibitivo: tener lontano ogni determinare non giustificante
[nicht ausweisendes Bestimmen]. Il carattere della descrizione stessa,
il senso specifico del λόγοϛ, potrà esser fissato prima di tutto soltanto
muovendo dalla «realtà» [Sachheit, lett.: “cosità”] di ciò che deve
essere «descritto», che deve cioè essere condotto a determinatezza
scientifica nel modo di incontro di fenomeni. Formalmente, il
significato del concetto formale e ordinario di fenomeno autorizza a
chiamare fenomenologia ogni esibizione dell’ente così com’esso si
manifesta in se stesso.
[26] In riferimento a che cosa il concetto formale di fenomeno deve ora
essere deformalizzato in concetto fenomenologico, e come questo si
distingue dal concetto ordinario? Che cos’è [Was] ciò che la
fenomenologia deve «lasciar vedere»? Che cos’è [Was] ciò che, in un
senso eminente [in einem ausgezeichneten Sinne], deve venir chiamato
«fenomeno»? Che cosa [Was], per sua essenza, è necessariamente
tema di una esibizione esplicita [ausdrueckliche Aufweisung]?
Manifestamente, ciò che innanzi tutto e per lo più non si manifesta, ciò
che, rispetto a ciò che innanzi tutto e per lo più si manifesta, è nascosto
[verborgen], ma è al contempo ciò che appartiene essenzialmente a ciò
che innanzitutto e per lo più si manifesta, in modo tale da costituirne il
senso o fondamento. 17n.
[27] Ma ciò che [Was], in un senso eccellente [in einem ausnehmenden
Sinne], resta nascosto [verborgen] o ricade di nuovo nell’occultamento
[Verdeckung] o si manifesta solo in modo «distorto» [»verstellt«], non
è questo o quell’ente, ma, come le considerazione precedenti hanno
mostrato, l’essere dell’ente. Esso può essere occultato così
ampiamente che esso cade nell’oblio e la domanda su di lui e sul suo
senso viene a mancare. Pertanto, ciò che [Was], in un senso eminente
[in einem ausgezeichneten Sinne] esige per il suo più proprio
-
9
contenuto reale [Sachgehalt] di diventare fenomeno, la fenomenologia
lo ha tematicamente «afferrato» quale oggetto.
[28] Fenomenologia è modo di accesso a, modo di determinazione
giustificante di, ciò che [Was] deve costituire il tema dell’ontologia.
Ontologia è possibile soltanto come fenomenologia. Il concetto
fenomenologico di fenomeno intende, come manifestantesi, l’essere
dell’ente, il suo senso, le sue modificazioni e i suoi derivati. E il
manifestarsi [das Sichzeigen] non è un casuale manifestarsi, e
nient’affatto qualcosa come apparire [Erscheinen]. L’essere dell’ente
non può assolutamente essere qualcosa «dietro» cui stia ancora
qualcosa «che non appare».
[29] «Dietro» i fenomeni della fenomenologia non c’è essenzialmente
nient’altro, ma ciò che deve divenire fenomeno può ben essere
nascosto. È proprio perché i fenomeni, innanzi tutto e per lo più, non
sono dati, che occorre la fenomenologia. Esser-occultato
[Verdecktheit] è il controconcetto [Gegenbegriff] di «fenomeno».
[30] I modi del possibile esser-occultato dei fenomeni sono diversi. In
primo luogo il fenomeno può esser occultato nel senso che esso è come
tale ancora non scoperto. Della sua sussistenza non si ha né conoscenza
né ignoranza.13 Ma un fenomeno può essere anche ricoperto
[verschüttet]. Sta in ciò: esso era un tempo scoperto, ma ricadde
successivamente nell’occultamento. Quest’ultimo può diventare totale;
di regola però accade che quel che era prima scoperto risulta ancora
visibile, benché solo come parvenza [Schein]. Senonché, quanta
parvenza, altrettanto «essere» [Wieviel Schein jedoch, soviel »Sein«].
Questo occultamento nel senso di «distorsione» è il più frequente e il
più pericoloso, perché qui le possibilità dell’inganno e dello sviamento
sono particolarmente ostinate. Strutture d’essere (e relativi concetti)
disponibili, ma velate quanto al loro suolo d’origine
[Bodenständigkeit], possono rivendicare il proprio diritto forse
all’interno di un «sistema». Grazie alla loro esser costruttivamente
agganciate ad un sistema, esse possono spacciarsi per qualcosa di
«chiaro», che non ha bisogno di ulteriore giustificazione, e può perciò
servire come punto di avvio di un processo deduttivo progrediente.
[31] Comunque inteso — nel senso di nascondimento [Verborgenheit],
ricoprimento [Verschüttung] o distorsione [Verstellung] —
l’occultamento [Verdeckung] ha di nuovo una duplice possibilità. Ci
sono occultamenti casuali e occultamenti necessari, cioè tali da
radicarsi nel modo di sussistere di ciò che è scoperto. Ogni concetto e
principio fenomenologico attinto originariamente è esposto, in quanto
asserzione comunicata, alla possibilità della degenerazione
[Entartung]. Viene trasmesso in una comprensione vuota, perde il
proprio suolo d’origine [Bodenständigkeit] e diventa una tesi astratta
[freischwebend, lett.: «sospesa per aria»]. La possibilità dello
sclerotizzarsi e del perdere di «presa» di ciò che originariamente
l’aveva è insita anche nel lavoro concreto della fenomenologia. E la
difficoltà di questa ricerca sta proprio nel renderla critica verso se
stessa in un senso positivo.
-
10
[32] Agli oggetti della fenomenologia, il modo di incontro dell’essere
e delle strutture d’essere nel modus del fenomeno deve in primo luogo
essere strappato. Perciò, il punto di partenza [Ausgang] dell’analisi,
così come l’accesso [Zugang] al fenomeno, e il passaggio
[Durchgang] attraverso gli occultamenti predominanti richiedono una
peculiare assicurazione metodologica. Nell’idea dell’afferramento e
della esplicazione «originari» ed «intuitivi» dei fenomeni c’è proprio
il contrario dell’ingenuità di un casuale, «immediato» e pacifico «star
a guardare».
[33] Sulla base del concetto preliminare [Vorbegriff] di fenomenologia
che abbiamo delimitato, possono ora esser fissati nel loro significato
anche i termini «fenomenico» e «fenomenologico». «Fenomenico» è
detto ciò che [was] nel modo di incontro del fenomeno è dato ed
esplicabile; perciò si parla di strutture fenomeniche. Per
«fenomenologico» si intende invece tutto ciò che appartiene al modo
di esibizione [Aufweisung] e di esplicazione, e ciò che costituisce la
concettualità richiesta da questa ricerca.
[34] Poiché fenomeno, in senso fenomenologico, è sempre e soltanto
ciò che [was] costituisce essere, ma essere è ogni volta essere dell’ente,
per giungere a mettere lo scoperto l’essere, c’è prima bisogno di una
corretta presentazione dell’ente. Questo si deve parimenti manifestare
nella modalità di accesso che è genuinamente propria di esso. In tal
modo, diviene fenomenologicamente rilevante il concetto ordinario di
fenomeno. Il compito preliminare [Voraufgabe] di un’assicurazione
«fenomenologica» dell’ente esemplare come punto di partenza per
l’analitica autentica è già sempre predelineato muovendo dal fine di
questa analitica stessa.
[35] Considerata materialmente [sachhaltig genommen], la
fenomenologia è la scienza dell’essere dell’ente: ontologia. Nel corso
dei chiarimenti che abbiamo dati circa i compiti dell’ontologia, risultò
la necessità di una ontologia fondamentale [Fundamentalontologie],
che ha a tema l’ente privilegiato ontologico-onticamente, l’Esserci, in
modo da portarsi di fronte al problema cardinale, la domanda sul senso
dell’essere in generale.18n Dall’indagine stessa risulterà: il senso
metodico della descrizione fenomenologica è l’interpretazione
[Auslegung]. Il λόγοϛ della fenomenologia dell’Esserci ha il carattere
dell’ἑρμηνεύειν, per il tramite del quale l’autentico senso d’essere e le
strutture fondamentali del suo proprio essere vengono resi noti alla
comprensione d’essere propria dell’Esserci. La fenomenologia
dell’Esserci è ermeneutica nel significato originario della parola,
secondo il quale essa designa il lavoro di interpretazione. Poiché però,
attraverso lo scoprimento del senso dell’essere e delle strutture
fondamentali dell’Esserci in generale, viene prodotto l’orizzonte di
ogni indagine ontologica ulteriore concernente l’ente difforme
dall’Esserci, questa ermeneutica è «ermeneutica» anche nel senso della
elaborazione delle condizioni di possibilità di qualsiasi ricerca
ontologica. E infine, poiché l’Esserci vanta il primato ontologico
rispetto ad ogni essente (in quanto ente avente la possibilità
-
11
dell’esistenza), l’ermeneutica, nella sua qualità di interpretazione
dell’essere dell’Esserci, acquista un terzo senso specifico (che,
filosoficamente parlando, è primario), quello di analitica
dell’esistenzialità dell’esistenza. Pertanto in questa ermeneutica, che
elabora ontologicamente la storicità dell’Esserci quale condizione
ontica della possibilità della storiografia, getta le sue radici ciò che può
esser detto «ermeneutica» solo in senso derivato: la metodologia delle
scienze storiche dello spirito.
[36] L’essere, in quanto tema fondamentale della filosofia, non è un
genere dell’ente, e tuttavia riguarda ogni ente. La sua «universalità» è
da ricercarsi più in alto. L’essere e la struttura dell’essere si trovano al
di sopra di ogni ente e di ogni determinazione possibile di un ente.
L’essere è il transcendens puro e semplice.19n La trascendenza
dell’essere dell’Esserci è eminente perché in essa hanno luogo la
possibilità e la necessità dell’individuazione più radicale. Ogni
aprimento dell’essere in quanto transcendens è conoscenza
trascendentale. La verità fenomenologica (l’apertura dell’essere) è
veritas transcendentalis.
[37] L’ontologia e la fenomenologia non sono due diverse discipline
che fanno parte della filosofia assieme ad altre. I due termini denotano
entrambi la filosofia stessa nel suo oggetto e nel suo procedimento. La
filosofia è ontologia universale fenomenologica, muovente
dall’ermeneutica dell’Esserci, la quale, in quanto analitica
dell’esistenza, 20n ha fissato il capo del filo conduttore di ogni
domandare filosofico nel punto da cui tale domandare salta fuori ed in
cui è risospinto.
[38] Le ricerche che seguono sono state possibili solo sulla base posta
da Edmund Husserl, con le cui Ricerche logiche la fenomenologia fece
irruzione. Le discussioni del concetto preliminare [Vorbegriff] di
fenomenologia indicano che l’essenziale per essa non sta nell’esser
realmente effettiva come «corrente» filosofica.21n Più in alto della
realtà effettiva sta la possibilità. La comprensione della fenomenologia
consiste esclusivamente nell’afferrarla come possibilità.14
[39] Per quanto concerne la goffaggine e la «ineleganza» di espressione
delle analisi che seguono, si può aggiungere che un conto è informare
sull’ente raccontando, e un altro è cogliere l’ente nel suo essere. Per
questa seconda impresa mancano non solo la maggior parte delle
parole, ma, prima di tutto, la «grammatica». Se ci è lecito richiamare
precedenti analisi sull’essere, impareggiabili quanto al loro livello, si
paragonino le sezioni ontologiche del Parmenide di Platone o il quarto
capitolo del settimo libro della Metafisica di Aristotele con qualche
passo narrativo di Tucidide, e si vedrà quale sforzo inaudito fu richiesto
ai greci dai loro filosofi in fatto di formulazioni linguistiche. Quando
le forze siano essenzialmente inferiori e, per di più, l’ambito ontologico
da esplorare assai più arduo di quello che fu pre-dato ai greci, è
inevitabile che crescano anche la prolissità della elaborazione
concettuale e la durezza dell’espressione.
-
12
§ 54 Il problema dell’attestazione di una possibilità esistentiva autentica
[1] Cercato è un poter-essere autentico dell’Esserci che sia da questo
stesso attestato nella sua possibilità esistentiva. Anzitutto occorre che
sia questa attestazione stessa a lasciarsi trovare. Se tale attestazione
deve «dar ad intendere» all’Esserci esso stesso nella sua esistenza
autentica possibile, avrà le proprie radici nell’essere dell’Esserci.
L’esibizione fenomenologica di una attestazione di questo genere
racchiude perciò in sé la dimostrazione della sua origine dalla
costituzione d’essere dell’Esserci.
[2] L’attestazione deve dar ad intendere un poter-esser-se-Stesso
[Selbstseinkoennen] autentico. Con l’espressione «se-Stesso»
[»Selbst«] abbiamo risposto alla domanda intorno al Chi è [Wer]
dell’Esserci. L’ipseità [Selbstheit] dell’Esserci fu determinata
formalmente come una maniera di esistere e cioè non come un ente
semplicemente-presente. Non io stesso [ich selbst], ma il Si-stesso
[Man-Selbst] è per lo più il chi è [Wer] dell’esserci. L’esser se-Stesso
autentico si determina come una modificazione esistentiva del Si, che
è da delimitare esistenzialmente. In che cosa consiste questa
modificazione esistentiva e quali sono le condizioni ontologiche della
sua possibilità?
[3] Con la perdizione dell’Esserci nel Si, tutto è già ogni volta deciso
circa il più immediato poter-essere fattizio dell’Esserci, cioè circa i
compiti, le regole, le misure, l’urgenza e la portata dell’essere-nel-
mondo prendente e avente cura. Il cogliere [Ergreifen] queste
possibilità d’essere il Si l’ha già da sempre sottratto all’esserci. Il Si ha
già sempre esonerato l’Esserci dal cogliere [Ergreifen] queste
possibilità di essere. Il Si nasconde perfino il tacito sgravamento che
esso compie dalla esplicita scelta di queste possibilità. Resta
indeterminato chi «propriamente» [»eigentlich«] scelga. Questo privo
di scelta esser presi da nessuno, per il quale l’Esserci è irretito
nell’inautenticità, può essere revocato soltanto se l’Esserci, dalla
perdizione nel Si, va a appositamente a riprendersi per riportarsi a sé
stesso. Senonché, questo andare a riprendere deve avere quel modo di
essere per la cui omissione [Versaeumnis, “inosservanza”,
“inadempimento”, “mancanza”] l’Esserci si è perduto
nell’inautenticità. L’andare a riprendersi [das Sichzurueckholen] dal
Si, cioè la modificazione esistentiva del Si-stesso [Man-Selbst] in
autentico esser-se-Stesso [Selbstsein], deve compiersi (sich vollziehen)
come recuperare [Nachholen] una scelta. Ma recuperare la scelta
significa scegliere questa scelta stessa, decidersi per un poter-essere a
partire dal proprio se-Stesso. È anzitutto scegliendo la scelta che
l’Esserci rende possibile a se stesso il suo autentico poter-essere.
[4] Poiché però è perduto nel Si, si deve prima trovare. Per trovarsi in
generale, deve venir «mostrato» a lui stesso nella sua possibile
autenticità. L’Esserci ha bisogno dell’attestazione di un poter-essere-
se-stesso, che esso ogni volta già è secondo la possibilità.
-
13
[5] Nella seguente interpretazione [Interpretation] si pretende che una
siffatta attestazione sia quel che all’autointerpretazione quotidiana
[alltaegliche Selbstauslegung] dell’esserci è noto come voce della
coscienza morale [Stimme des Gewissens]. Che il «fatto» [Tatsache]
della coscienza morale sia contestato, che la sua funzione di istanza per
l’esistenza dell’Esserci sia diversamente valutata, che ciò che
«la coscienza morale dice» sia interpretato in vari modi, dovrebbe
indurci a rigettare questo fenomeno se non fosse che proprio la
«dubbiosità» [»Zweifelhaftigkeit«] di questo fatto [Faktum], ossia
dell’interpretazione di esso, non stesse proprio a dimostrare che ci
troviamo innanzi a un fenomeno originario dell’Esserci. L’analisi che
segue pone la coscienza morale nella progettazione [Vorhabe] tematica
di una indagine puramente esistenziale con intento ontologico-
fondamentale.
[6] Innanzi tutto bisogna ripercorrere la coscienza morale quanto ai
suoi fondamenti e alle sue strutture esistenziali e renderla visibile come
fenomeno dell’Esserci, tenendo ben ferma la costituzione d’essere di
questo ente finora chiarita. L’analisi ontologica della coscienza morale
così impostata precede ogni descrizione psicologica delle «esperienze
vissute» della coscienza morale e la loro classificazione, ed è estranea
a ogni «spiegazione» biologica, cioè a ogni dissolvimento del
fenomeno. Ma non minore è la sua distanza da ogni spiegazione della
coscienza morale di natura teologica e anche da ogni assunzione di
questo fenomeno come base per la dimostrazione dell’esistenza di Dio
o di una coscienza «immediata» di Dio [Gottesbewusstsein].
[7] Tuttavia, anche in questa indagine limitata della coscienza morale,
il suo risultato non dovrà né esser sopravvalutato, né fatto oggetto di
rivendicazioni distorte e così sminuito. La coscienza morale, in quanto
fenomeno dell’Esserci, non è un fatto (Tatsache) accidentale e
semplicemente-presente. Questo fenomeno «è» soltanto nel modo di
essere dell’Esserci e si dà a conoscere come fatto (Faktum) sempre e
solo con e nell’esistenza fattizia [faktischen Existenz]. L’esigenza di
una «prova empirico-induttiva» della «fattualità» (»Tatsaechlichkeit«)
della coscienza morale e della legittimità della sua «voce» riposa su un
stravolgimento ontologico del fenomeno. Cade in questo
stravolgimento anche ogni critica «altezzosa» della coscienza morale
che veda in essa un evento occasionale e non un «fatto (Tatsache)
universalmente noto e constatabile». Il fatto (Faktum) della coscienza
morale in quanto tale non si lascia sottoporre a prove e controprove di
questo genere. Il che non attesta affatto una sua manchevolezza, ma è
semplicemente l’indice della sua difformità ontologica dalla semplice-
presenza nel mondo-ambiente.
[8] La coscienza morale dà ad intendere «qualcosa», essa dischiude
(erschliesst, “rende accessibile”). Da questa caratterizzazione formale
scaturisce la prescrizione di riprendere il fenomeno nella schiusura
(Erschlossenheit, “accessibilità”) dell’Esserci. Questa costituzione
fondamentale dell’ente che noi stessi di volta in volta siamo, è
costituita dalla situazione emotiva, dalla comprensione, dalla deiezione
-
14
e dal discorso. L’analisi più approfondita della coscienza morale la
rivela come chiamata [Ruf]. Il chiamare [Rufen] è un modo del
discorso [Rede]. La chiamata della coscienza morale [Gewissensruf]
ha il carattere del richiamo [Anruf] dell’Esserci al suo più proprio
poter-essere-se-stesso e ciò nel modo dell’incitamento [Aufruf] al suo
più proprio essere-colpevole.
[9] Questa interpretazione [Interpretation] esistenziale è
necessariamente lontana dalla comprensibilità ontica quotidiana,
benché ponga davanti [herausstellt, lett.: “produca”] i fondamenti
ontologici di ciò che l’interpretazione ordinaria della coscienza morale,
entro certi limiti, ha sempre compreso e concettualizzato sotto forma di
«teoria» della coscienza morale. L’interpretazione esistenziale ha
bisogno perciò di essere messa alla prova [Bewährung], mediante una
critica dell’interpretazione ordinaria della coscienza morale.
Muovendo dal fenomeno posto davanti [lett.: “prodotto”], si potrà
stabilire in che misura esso attesta un poter-essere autentico
dell’Esserci. Alla chiamata della coscienza morale corrisponde un
possibile sentire (Hören). La comprensione del richiamo
[Anrufverstehen] si rivela come un voler-aver-coscienza-morale. Ma in
questo fenomeno sta quel cercato scegliere esistentivo della di scelta di
se-Stesso che noi, corrispondentemente alla sua struttura esistenziale,
chiamiamo decisione (Entschlossenheit “risolutezza”]. Con ciò è data
l’articolazione dell’analisi di questo capitolo: i fondamenti ontologico-
esistenziali della coscienza morale (§ 55); il carattere di chiamata della
coscienza morale (§ 56); la coscienza morale come chiamata della Cura
(§ 57); comprensione del richiamo e colpa (§ 58); l’interpretazione
esistenziale e l’interpretazione ordinaria della coscienza morale (§ 59);
la struttura esistenziale del poter-essere autentico attestato dalla
coscienza morale (§ 60).
§ 55 I fondamenti ontologico-esistenziali della coscienza morale
[1] L’analisi della coscienza morale prende avvio da un reperto
indifferente di questo fenomeno: che essa, in qualche modo, dà ad
intendere qualcosa. La coscienza morale dischiude [erschließt, “apre”,
“rende accessibile”] e appartiene perciò alla cerchia dei fenomeni
esistenziali che costituiscono l’essere del Ci in quanto apertura
(Erschlossenheit, “accessibilità”).142 Le sue strutture più universali,
cioè la situazione emotiva, la comprensione, il discorso e la deiezione,
sono già state dispiegate. La collocazione della coscienza morale in
questo complesso fenomenico non è un’applicazione schematica delle
strutture a suo tempo rintracciate a un «caso» particolare di apertura
dell’Esserci. Al contrario, l’interpretazione della coscienza morale non
solo vuol essere un ampliamento della precedente analisi dell’apertura
del Ci, ma anche un suo più originario afferramento in relazione
-
15
all’essere autentico dell’Esserci.
[2] Per il tramite dell’apertura (Erschlossenheit, “essere accessibile”),
l’ente che noi chiamiamo Esserci è nella possibilità di essere il suo Ci.
Col suo mondo, l’esserci c’è (ist…da) per esso stesso, e ciò innanzi
tutto e per lo più in modo da essersi reso accessibile (erschlossen) il
suo poter-essere a partire dal «mondo» di cui si prende cura. Il poter-
essere in cui l’Esserci esiste si è già ogni volta affidato a possibilità
determinate. E ciò perché l’Esserci è un ente gettato, il cui esser-gettato
è reso accessibile (erschlossen, “dischiuso”, “aperto”), in modo più o
meno chiaro e profondo, da un esser emotivamente intonato. Della
situazione emotiva (tonalità affettiva [Stimmung]) fa
cooriginariamente parte la comprensione. Così l’Esserci «sa» l’affar
suo nei propri riguardi, e ciò in quanto si è progettato in possibilità di
se stesso, cioè in possibilità che esso, immedesimato col Si, si è lasciato
prescrivere [vorgeben] dallo stato interpretativo pubblico del Si-stesso.
Ma questa prescrizione [Vorgabe] è resa esistenzialmente possibile dal
fatto che l’Esserci, in quanto comprendente con- essere, può star a
sentire (hören) gli altri. Perdendosi nella pubblicità del Si e nelle sue
chiacchiere, l’Esserci non ascolta [überhört] il proprio se-Stesso. Se
l’Esserci deve poter-essere sottratto alla perdizione del non- ascoltarsi
(Sichüberhören) - e se lo deve proprio attraverso se stesso - è
necessario che esso possa anzitutto trovarsi, che possa trovare quel se-
Stesso che esso ha trascurato di sentire prestando ascolto (Hinhören)
al Si. Questo dare ascolto dev’essere interrotto, cioè dev’essere data
all’Esserci, dall’Esserci stesso, la possibilità di un sentire che
interrompa il prestare ascolto. La possibilità di una interruzione di
questo genere è data da un venir improvvisamente chiamati
(unvermittelt Angerufenwerden). La chiamata (Ruf) interrompe il non
ascoltantesi prestar ascolto (das sich überhörende Hinhören) al Si
dell’Esserci soltanto se essa, in corrispondenza col suo carattere di
chiamata, suscita un sentire in tutto opposto al sentire perduto. Laddove
quest’ultimo sentire è stordito dal «chiasso» e dalla rumorosa
equivocità della chiacchiera ogni giorno
«nuova», la chiamata deve chiamare senza rumore, inequivocamente
(unzweideutig), senza offrire appiglio per la curiosità. Ciò che dà ad
intendere chiamando in questo modo è la coscienza morale.
[3] Noi concepiamo la coscienza morale come un modo del discorso.
Questa articola la comprensibilità. Definendo la coscienza morale
come chiamata, non intendiamo affatto far ricorso a una «immagine»,
quale ad esempio la rappresentazione kantiana della coscienza morale
come un tribunale. Soprattutto non dobbiamo dimenticare che il
discorso, e quindi anche la chiamata, non implicano necessariamente
la verbalizzazione sonora. Ogni espressione e ogni «esclamazione»
presuppongono già il discorso. Quando l’interpretazione quotidiana
parla di una «voce» della coscienza morale, non intende alludere a una
comunicazione verbale che non ha effettivamente [faktisch] luogo;
«voce», qui, significa dar-a-intendere. Nella tendenza ad aprire, propria
della chiamata, c’è un momento di urto, di brusco scuotimento. Viene
-
16
chiamato dalla lontananza nella lontananza. È colpito dalla chiamata
chi vuole venir ripreso [zurueckgeholt].
[4] Con questa caratterizzazione della coscienza morale è soltanto
delineato l’orizzonte fenomenico per l’analisi della sua struttura
esistenziale. Il fenomeno non è paragonato a una chiamata, ma, in
quanto discorso, è compreso muovendo dalla schiusura
(Entschlossenheit) costitutiva dell’Esserci. La considerazione evita sin
dal principio la via che si offre per prima all’interpretazione della
coscienza morale, e che la riconduce a una facoltà dell’anima
(intelletto, volontà o sentimento) o la spiega come un suo prodotto. Di
fronte a un fenomeno come la coscienza morale salta subito agli occhi
l’inadeguatezza ontologico-antropologica di ogni astratta
classificazione di facoltà dell’anima o di atti personali.
§ 56 Il carattere di chiamata della coscienza morale
[1] Del discorso (Rede, “parlare”, logos-leghein) fa parte ciò-su-cui il
discorso [das beredete Worueber, kata ti] discorre. Il discorso da
chiarimenti su qualcosa e ciò sotto un determinato riguardo. Da ciò su
cui il discorso discorre [Aus dem so Beredeten], il discorso attinge ciò
che di volta in volta esso, in quanto questo discorso, dice, il detto come
tale [das Geredete als solches, “il parlato come tale”, legomenon]. Nel
discorso, in quanto comunicazione [Mitteilung], ciò che è detto è reso
accessibile al con-esserci di altri e, per lo più, nella forma della
pronuncia verbale nel linguaggio (Sprache, “lingua”, fr. “parole”).
[2] Nella chiamata della coscienza morale, che cos’è [Was ist] ciò di cui
si discorre [das Beredete], ovvero il chiamato [das Angerufene,
“appellato”]? Manifestamente l’Esserci stesso. Questa risposta è tanto
incontestabile quanto indeterminata. Se la chiamata avesse uno
bersaglio (Ziel, “scopo”, “obiettivo”) così vago, non sarebbe per
l’Esserci che un’occasione per far attenzione a sé. Ma l’Esserci è tale
nella sua essenza che esso, con l’apertura del suo mondo, è dischiuso
(erschlossen) a se stesso, cosicché già da sempre si comprende. La
chiamata colpisce (trifft) l’Esserci in questa suo quotidiano-medio già-
sempre-comprendersi prendente cura. Dalla chiamata viene colpito il
Si-stesso del con-essere con gli altri prendente cura. [3] A che
(woraufhin) l’Esserci è chiamato? Al proprio sé. Non [è chiamato] a
ciò a cui l’Esserci, nell’essere-assieme pubblico, conferisce valore, a
ciò che esso può, di cui si prende cura, che ha afferrato [ergriffen], per
cui si è impegnato, da cui si è lasciato coinvolgere. L’Esserci, quale
risulta mondanamente compreso per se stesso e per gli altri, è in questo
richiamo ignorato (übergangen, , “tralasciato”, “eluso”,
“disdegnato”). Di ciò la chiamata rivolta al se-Stesso non prende
minimamente atto (nimmt … das mindeste Kenntnis, “non ha la
menoma conoscenza”). Poiché soltanto il Sé-stesso del Si- Stesso [das
Selbst des Man-selbst] è chiamato e indotto a sentire, il Si si ritira in sé.
-
17
Tuttavia, il fatto che la chiamata ignori [“eluda”, “disdegni”] il Si e lo
stato interpretativo pubblico dell’Esserci, non significa affatto che essa
non colpisca insieme (mittrifft) anche il Si. Proprio nell’ignorare (im
Uebergehen, “nell’eludere”, “nel disdegnare”) essa respinge nella
insignificanza (Bedeutungslosigkeit) il Si avido di pubblica
reputazione. Il Sé, però, deprivato (beraubt) nel richiamo [im Anruf] di
questo rifugio e di questo nascondiglio, è condotto a se stesso per il
tramite della chiamata [durch den Ruf].
[4] Il Si-stesso è richiamato il Sé. Non si tratta però del Sé quale
possibile «oggetto» di apprezzamenti o del Sé della inconsistente,
eccitata e curiosa anatomia della propria «vita interiore», e neppure del
Sé della del semplice stare a guardare «analitico» gli stati d’animo e i
loro retroscena. Il richiamo del Sé-stesso nel Si-stesso non lo relega in
sé nel senso di un’interiorità che lo separerebbe dal «mondo esterno».
Tutto ciò, la chiamato lo salta [ueberspringt] e lo disperde, per
richiamare unicamente il Se-stesso, il quale, nondimeno, non è mai
altrimenti che nel modo dell’essere-nel-mondo.
[5] Ma come dobbiamo determinare il ciò-che-viene-detto di questo
discorso [das Geredete dieser Rede]? Che cosa ( Was) la coscienza
morale grida (zurufen) al chiamato? A rigore, nulla. La chiamata non
asserisce nulla, non dà alcuna informazione su eventi mondani, non ha
nulla da raccontare. Meno che meno aspira ad inaugurare un
«soliloquio» (»Selbstgespraech«, “colloquio tra sé e sé”) nel se-Stesso
richiamato. Al se-Stesso richiamato non è gridato (zu-gerufen)
«nulla»; esso è incitato [aufgerufen] a se-Stesso, cioè al suo più proprio
poter-essere. La chiamata, secondo la sua tendenza di chiamata, non
coinvolge il se-Stesso richiamato in una «negoziazione» (Verhandlung,
“trattativa”), ma, quale incitamento al suo poter-essere più proprio, è un
chiamar-dinanzi [Vor-rufen], un chiamare al «proscenio» l’Esserci
nelle sue possibilità più proprie.
[6] La chiamata non ha bisogno di pronuncia sonora (Verlautbarung).
Essa nemmeno proferisce parola, ma non resta per questo oscura e
indeterminata. La coscienza morale parla unicamente e costantemente
nel modo del tacere. Con ciò essa non solo non perde nulla in fatto di
percepibilità, ma costringe l’Esserci, chiamato e incitato, alla
silenziosità di se stesso. La mancanza di una formulazione verbale di
ciò che nella chiamata viene invocato (gerufen) non condanna il
fenomeno alla nebulosità di una voce misteriosa, ma sta
semplicemente a indicare che la comprensione dell’«invocato» (des
»Gerufenen«) non può aggrapparsi all’attesa di una comunicazione o
di qualcosa di simile.
[7] Ciò nonostante, quel che la chiamata dischiude (erschliesst) è
univoco, anche se essa, nel singolo esserci a seconda delle sue
possibilità di comprensione, può andar incontro ad una diversa
interpretazione. Al di là dell’apparente indeterminatezza del contenuto
della chiamata, non può non esser colta la sicura traiettoria
[Einschlagsrichtung, “direzione d’impatto”] della chiamata. La
chiamata non ha bisogno di un primo ricercare a tastoni di colui che
-
18
deve esser richiamato, non abbisogna di alcun segno di riconoscimento
che permetta di stabilire se è o no proprio lui ad essere inteso. Nella
coscienza morale, le «illusioni» non sorgono per uno stravedere (stra-
chiamare [Sichver-rufen]) da parte della chiamata, ma solo per il modo
in cui la chiamata è udita, cioè per il fatto che essa, anziché essere
compresa autenticamente, è stornata dal Si in un negoziante
(verhandelnden) dialogo tra sé e sé e così pervertita nella sua tendenza
di schiudimento (Erschliessungstendenz).
[8] Occorre tener fermo: la chiamata con cui caratterizziamo la
coscienza morale è richiamo del Si-stesso nel suo Sé; in quanto tale è
incitamento del Sé al suo poter-esser-sé, e perciò una chiamata
dell’Esserci di fronte alle proprie possibilità. [9] Ma potremo ottenere
un’interpretazione ontologica adeguata della coscienza morale solo
quando avremo posto in chiaro non soltanto chi sia il chiamato nella
chiamata della coscienza morale, ma chi sia che chiama, in quale
rapporto il chiamato stia col chiamante e come debba essere
ontologicamente inteso questo «rapporto» come connessione d’essere.
§ 57 La coscienza morale come chiamata della Cura
[1] La coscienza morale incita il se-Stesso dell’Esserci dalla sua
dispersione nel Si. Il se-Stesso richiamato resta indeterminato e vuoto
nel suo che-cosa (Was). L’in quanto che cosa l’Esserci, innanzi tutto e
per lo più, comprende se stesso nell’interpretazione a partire dall’ente
di cui si prende cura, è ignorato (uebergangen) dalla chiamata. E
tuttavia il se-Stesso è univocamente (eindeutig) e inequivocabilmente
(unverwechselbar) colpito. Non solo il richiamato è investito dalla
chiamata «senza riguardo alla persona», ma il chiamante resta a sua
volta in una vistosa indeterminatezza. Non solo esso [scil.: il
chiamante, der Rufer] si rifiuta di rispondere alle domande concernenti
il suo nome, il suo stato, la sua origine e il suo rango, ma il chiamante,
benché nella chiamata non finga affatto, non concede la minima
possibilità di rendersi familiare a una comprensione dell’Esserci
orientata «mondanamente». Il chiamante della chiamata – ciò
appartiene al suo carattere fenomenico – tiene assolutamente lontano
da sé ogni «notorietà». Sottoporsi a osservazione o a discorso va contro
il suo modo di essere. L’indeterminatezza e l’indeterminabilità che
caratterizzano il chiamante non sono un nulla, ma un suo positivo
contrassegno distintivo (Auszeichnung). Esse attestano che esso si
risolve [aufgehen] unicamente nel puro e semplice «incitare a…», e
che solo in quanto tale esso vuol essere ascoltato, e che non vuole
chiacchiere su di sé. Non è allora il fenomeno stesso a richiedere che
la domanda sul Chi del chiamante non abbia luogo? Certamente sì, per
lo stare a sentire esistentivo (existentiellen Hoeren) della chiamata
effettiva della coscienza morale (faktischen Gewissenruf); non, però,
per l’analisi esistenziale dell’effettività (Faktizitaet) del chiamare e
dell’esistenzialità (Existentialitaet) dello stare a sentire.
-
19
[2] Ma c’è in generale necessità di porre ancora espressamente la
questione del Chi chiami? L’Esserci non porta forse con sé la risposta
a questa domanda in modo altrettanto univoco (eindeutig) che in quella
circa il richiamato nella chiamata? Nella coscienza morale, l’Esserci
chiama se stesso. Questa comprensione del chiamante può essere più o
meno viva nell’ascolto effettivo della chiamata. Ontologicamente,
però, non è affatto sufficiente rispondere che l’Esserci è ad un tempo il
chiamato e il chiamante. Ma allora, l’Esserci «ci» è [ist «da»], in
quanto chiamato, non diversamente che in quanto chiamante? Funge
forse da chiamante il più proprio poter-essere-se-Stesso?
[3] La chiamata non è mai né progettata né preparata né volutamente
effettuata (vollzogen) da noi stessi. «Esso» chiama, contro la nostra
attesa e persino contro la nostra volontà. D’altra parte la chiamata
indubbiamente (zweifellos) non viene da un altro che sia nel-mondo-
insieme a me. La chiamata viene da (aus) me e tuttavia su (ueber) di
me.
[4] Questo reperto fenomenico non va destituito di senso (ist nicht
wegzudeuten). Da esso ha infatti preso le mosse anche l’interpretazione
della voce della coscienza morale come un potere (Macht) estraneo
pervasivo nell’Esserci. Seguendo tale direzione interpretativa, si pone
alla base di questo potere un possessore, o si assume esso stesso come
persona annunciantesi (Dio). All’inverso, si tenta di respingere questa
interpretazione del chiamante come espressione di un potere estraneo,
e al contempo di spiegare riduzionisticamente (wegerklaeren, lett.:
“cancellare, destituire di senso qualcosa spiegandolo”) la coscienza
morale in generale in modo «biologico». Entrambe queste
interpretazioni sorvolano (ueberspringen, “passano oltre”)
precipitosamente il reperto fenomenico. Il procedere viene facilitato da
una tacita tesi-guida, ontologicamente dogmatica: ciò che è, ossia ciò
che, come la chiamata, è di fatto (tatsaechlich), deve essere
semplicemente presente; ciò che non può essere oggettivamente
dimostrato in quanto semplicemente-presente, non è affatto.
[5] Contro questa precipitosità metodica occorre tenere ben fermo, non
solo il reperto fenomenico come tale – cioè che la chiamata è diretta a
me provenendo da me sopra di me –, ma anche la predelineazione
ontologica, in ciò contenuta, del fenomeno in quanto fenomeno
dell’Esserci. Solo la costituzione esistenziale di questo ente può offrire
il filo conduttore per l’interpretazione del modo di essere dello «esso»
[»Es«] che chiama.
[6] L’analisi si qui svolta della costituzione dell’essere dell’Esserci
mostra forse una via per rendere comprensibile ontologicamente il
modo di essere del chiamante e quindi del chiamare? Il fatto che la
chiamata non sia effettuata (vollzogen) esplicitamente da me, ma che
sia «esso» a chiamare, non autorizza ancora a cercare il chiamante in
un ente non conforme dall’Esserci. Certo, ogni volta l’Esserci esiste
sempre effettivamente [faktisch]. Esso non è un auto-progettarsi
sospeso per aria; bensì — determinato, grazie (durch) all’esser-gettato
[Geworfenheit], come fatto [Faktum] dell’ente che esso è — esso
-
20
venne ogni volta già, e rimane costantemente, rimesso
(ueberantwortet, “affidato”, “consegnato”) all’esistenza. Ma
l’effettività [Faktizitaet, “fatticità”] dell’Esserci si distingue
essenzialmente dalla fattualità [Tatsaechlichkeit] di un semplicemente-
presente. L’Esserci esistente non va incontro (begegnet) ad esso stesso
come ad un qualcosa di semplicemente presente nel mondo. Né, però,
l’esser-gettato (Geworfenheit) inerisce all’Esserci come carattere
inaccessibile e irrilevante per la sua esistenza. In quanto gettato, esso è
gettato nell’esistenza. Esso esiste come ente che ha da essere così come
è, e come può essere.
[7] Che (Dass) l’Esserci effettivamente sia, può anche esser nascosto
(verborgen) quanto al suo perché; il «che» stesso (das »Dass« selbst),
però, è dischiuso (erschlossen) all’Esserci. L’esser-gettato dell’ente
appartiene alla schiusura del «Ci» [Erschlossenheit des »Da«] e si
rivela (enthuellt sich) costantemente nel rispettivo esser-
emotivamente-situato (Befindlichkeit). Questo [scil: l’esser-
emotivamente-situato] porta l’Esserci, in modo più o meno esplicito e
autentico, davanti al suo «che è [dass es ist] e che, in quanto è l’ente
che è, ha da essere potendo essere». Ma per lo più la tonalità emotiva
(Stimmung) chiude [verschliesst] l’esser-gettato. Davanti a questo
esser-gettato, l’Esserci si rifugia nell’alleggerimento della presunta
libertà del Si-stesso. Abbiamo definito tale fuga come fuga dinanzi allo
spaesamento (Unheimlichkeit) che determina fondamentalmente
l’essere-nel-mondo singolarizzato. Lo spaesamento si rivela (enthuellt
sich) autenticamente nella situazione emotiva fondamentale
dell’angoscia e, in quanto schiusura più elementare dell’Esserci
gettato, pone il suo essere-nel-mondo davanti al nulla del mondo; di
fronte a questo nulla l’Esserci si angoscia nell’angoscia per il più
proprio poter-essere. E se il chiamante della chiamata della coscienza
morale fosse l’Esserci nel profondo del suo sentirsi emotivamente
spaesato?
[8] Contro di ciò non parla nulla; in suo favore parlano invece tutti i
fenomeni che sono stati fin qui posti in rilievo per la caratterizzazione
del chiamante e del suo chiamare.
[9] Il chiamante, nel suo Chi (Wer), non è «mondanamente»
determinabile mediante nulla. Esso è l’Esserci nel suo spaesamento,
l’originario gettato essere-nel-mondo in quanto non-essere-a-casa-
propria, il nudo «che» (»Dass«) nel nulla del mondo. Al Si-stesso
quotidiano, il chiamante non è familiare — qualcosa come una voce
estranea. Che mai vi può essere di più estraneo al Si, perduto nel
variegato «mondo» di cui si prende cura, del se-Stesso isolato nel suo
spaesamento e gettato nel nulla? «Esso» chiama, e tuttavia non dice
nulla di udibile da un orecchio immerso nelle cure e curioso, nulla che
possa passare indifferentemente da orecchio a orecchio ed essere
pubblicamente chiacchierato. Che può mai avere da raccontare
l’Esserci dallo spaesamento del suo essere-gettato? Che cosa (Was) gli
rimane d’altro, infatti, all’infuori di quel poter-essere di se stesso
-
21
svelato nell’angoscia? Come potrebbe chiamare altrimenti se non
incitando a questo poter-essere di cui ad esso unicamente importa?
[10] La chiamata non racconta storie e chiama anche senza
verbalizzazione sonora. La chiamata parla nel modo spaesante del
tacere. E ciò perché la chiamata non chiama il richiamato alle
chiacchiere pubbliche del Si, ma lo chiama indietro da queste al
silenzio del poter-essere esistente. Ed in che cosa si fonda la spaesante,
«disabituale» e fredda sicurezza con cui il chiamante colpisce il
chiamato, se non nel fatto che l’Esserci singolarizzato su di sé nel suo
spaesamento è per esso stesso assolutamente inconfondibile? Che cosa
sottrae all’Esserci in modo tanto radicale la possibilità di rifugiarsi
nell’equivoco, fraintendendosi e disconoscendosi, se non lo stato di
abbandono nell’esser affidato (die Verlassenheit in der
Ueberlassenheit) ad esso stesso?
[11] Lo spaesamento è il modo fondamentale, anche se
quotidianamente coperto, dell’essere-nel-mondo. L’Esserci stesso,
come coscienza morale, chiama dal fondo di questo suo essere. «Mi
chiama» è una discorso eminente dell’Esserci. La chiamata,
emotivamente pervasa di angoscia, fa sì che l’Esserci possa progettarsi
nel suo poter-essere più proprio. La chiamata della coscienza morale,
compresa esistenzialmente, annuncia ciò che prima abbiamo
semplicemente asseverato: lo spaesamento incalza l’Esserci e minaccia
il suo oblio nella perdizione.
[12] L’affermazione che l’Esserci è ad un tempo il chiamante e il
chiamato ha perso ora la sua formale vuotezza ed ovvietà. La coscienza
morale si rivela come chiamata della Cura: il chiamante è l’Esserci
che, nell’esser-gettato (esser-già-in…), si angoscia per il suo poter-
essere. Il richiamato è questo Esserci stesso, incitato al suo più proprio
poter-essere (esser-avanti-a-sé). E incitato è l’Esserci mediante il
richiamo dalla deiezione nel Si (esser-già-presso-il mondo di cui ci si
prende cura). La chiamata della coscienza morale, cioè la coscienza
morale stessa, trova la sua possibilità ontologica nel fatto che l’Esserci,
nel fondamento del suo essere, è Cura.
[13] Non c’è quindi bisogno di prender rifugio in potenze non conformi
all’esserci, tanto più che il regresso verso di esse illumina tanto poco
lo spaesamento della chiamata, che esso piuttosto lo annienta. La
ragione di fuorvianti «spiegazioni» della coscienza morale non starà in
fondo nel fatto che, già nella fissazione del reperto fenomenico della
chiamata, lo sguardo è stato troppo limitato e l’Esserci è stato
tacitamente presupposto in una casuale determinazione o
indeterminazione ontologica? Perché cercare una via d’uscita in
potenze estranee prima di assicurarsi che, nell’impostazione
dell’analisi, l’essere dell’Esserci non sia stato sottovalutato,
concependolo come innocuo soggetto (Subjekt), in qualche modo
presente, dotato di coscienza (Bewusstsein) personale?
[14] Eppure sembra che l’interpretazione del chiamante – che dal punto
di vista mondano è «nessuno» – come una potenza riposi sul
riconoscimento non prevenuto della sussistenza di qualcosa di
-
22
«oggettivamente rinvenibile». Ma, a ben guardare, questa
interpretazione è null’altro che una fuga davanti alla coscienza morale,
una scappatoia dell’esserci, con la quale esso se la svigna passando per
la sottile parete che, per così dire, separa il Si dallo spaesamento del
proprio essere. Tale interpretazione della coscienza morale suole anche
spacciarsi come riconoscimento della chiamata nel senso di una voce
obbligante in modo generale e non «semplicemente soggettivo».
Ancor di più: questa coscienza morale «generale» è elevata a
«coscienza morale universale» (Weltgewissen) , la quale, per il suo
carattere fenomenico, è un «esso», un «nessuno», che dunque parla,
come questo indeterminato, nel singolo «soggetto».
[15] Ma questa «coscienza morale pubblica» che altro è se non la voce
del Si? Alla dubbia invenzione di una «coscienza morale universale»
l’esserci può arrivarci solo perché la coscienza morale, nel suo
fondamento e nella sua essenza, è ogni volta mia. E ciò non solo nel
senso che è ogni volta il poter-essere più proprio a essere richiamato,
ma anche perché la chiamata proviene dall’ente che io stesso di volta
in volta sono.
[16] Nella nostra interpretazione del chiamante, fondata
esclusivamente sul carattere fenomenico del chiamare, la «potenza»
della coscienza morale non è né sminuita né resa «semplicemente
soggettiva». All’opposto, solo in essa hanno via libera l’inesorabilità e
l’inequivocabilità della chiamata. L’«oggettività» del richiamo trae la
sua legittimità soltanto nella misura in cui l’interpretazione lasci ad
esso la sua «soggettività», la quale però rifiuta il predominio del Si-
stesso.
[17] Contro questa interpretazione della coscienza morale come
chiamata della Cura si potrebbero tuttavia sollevare le seguenti
obiezioni: che fondamento può avere un’interpretazione della
coscienza morale così lontana dall’«esperienza naturale»? In qual
modo la coscienza morale potrà fungere da incitamento al più proprio
poter-essere quando essa, innanzi tutto e per lo più, non fa che
rimproverare e ammonire? La coscienza morale parla in modo così
indeterminato e vuoto di un poter-essere più proprio dell’Esserci, o
piuttosto parla in modo ben determinato e concreto degli errori e delle
omissioni che hanno già avuto luogo o che si intendevano commettere?
Il richiamo che abbiamo stabilito proviene dalla «cattiva» coscienza
morale o dalla «buona»? La coscienza morale fornisce qualcosa di
positivo o svolge una funzione esclusivamente critica?
[18] La legittimità di queste perplessità è incontestabile. Da
un’interpretazione della coscienza morale si può esigere che «si»
riconosca in essa il fenomeno così com’esso è esperito
quotidianamente. Ma soddisfare tale esigenza non significa
riconoscere la comprensione ontica ordinaria della coscienza morale
quale istanza prima dell’interpretazione ontologica. D’altra parte le
obiezioni suddette risultano premature nella misura in cui l’analisi
della coscienza morale da esse presa di mira non è stata ancora portata
a termine. Finora abbiamo semplicemente tentato di ricondurre la
-
23
coscienza morale, in quanto fenomeno dell’Esserci, alla costituzione
ontologica di questo ente. E ciò in vista del compito di render
comprensibile la coscienza morale come un’attestazione nell’Esserci
stesso del suo poter-essere più proprio.
[19] Ciò che la coscienza morale attesta giunge a piena determinazione
soltanto se è stato delimitato con sufficiente chiarezza quale carattere
debba avere l’ascoltare che corrisponde in modo genuino al chiamare.
La comprensione autentica, «conseguente» alla chiamata, non è una
semplice appendice del fenomeno della coscienza morale, un evento
che accade e potrebbe anche mancare. L’esperienza vissuta della
coscienza morale si può cogliere nella sua pienezza soltanto a partire
dalla comprensione del richiamo e assieme ad essa. Se il chiamante e
il richiamato sono ogni volta il medesimo Esserci proprio, ne consegue
che in ogni non-sentire-ascoltando (Ueberhoeren) la chiamata, in ogni
fraintendersi, è insito un determinato modo di essere dell’Esserci. Una
chiamata a vuoto a cui «non segue nulla» è una finzione inconcepibile
da un punto di vista esistenziale. «Che non segue nulla» significa
qualcosa di conformemente all’esserci positivo.
[20] Così, allora, soltanto l’analisi della comprensione del richiamo è
in grado di condurre all’esplicito chiarimento di ciò che la chiamata dà
ad intendere. Ma solo muovendo dalla precedente caratterizzazione
ontologico-universale della coscienza morale, è possibile capire
esistenzialmente quel «colpevole!» evocato nella coscienza morale.
Tutte le esperienze e le interpretazioni della coscienza morale sono
concordi nel riconoscere che la «voce» della coscienza morale parla in
qualche modo di «colpa».
§ 58 Comprensione del richiamo (Anrufverstehen) e colpa
[1] Per cogliere fenomenicamente ciò che è udito (das Gehoerte) nella
comprensione del richiamo (Anrufverstehen), bisogna tornare di nuovo
al richiamo (Anruf). Richiamare il Si-stesso significa incitare il se-
Stesso più proprio al suo poter-essere, e precisamente in quanto
Esserci, cioè in quanto essere-nel-mondo prendente cura e con-essere
con gli altri. L’interpretazione esistenziale di ciò a cui la chiamata
incita, se si comprende rettamente nelle sue possibilità metodiche e nei
suoi compiti, non può quindi pretendere di delimitare alcuna singola e
concreta possibilità dell’esistenza. Ciò che può e vuole essere fissato,
non è il di volta in volta esistentivamente evocato (Gerufene) nel
rispettivo Esserci, ma ciò che appartiene alla condizione esistenziale
di possibilità del poter-essere di volta in volta effettivo-esistentivo.
[2] La comprensione esistentivamente-udente della chiamata è tanto
più autentica quanto più incondizionatamente l’Esserci ode e
comprende il suo esser-richiamato e quanto meno il senso della
chiamata è pervertito da ciò che si dice, si sente dire e si ritiene valido.
Ma qual è l’elemento costitutivo essenziale dell’autenticità della
-
24
comprensione del richiamo? Che cos’è ciò che è dato essenzialmente
ad intendere di volta in volta nella chiamata, anche se non sempre è
effettivamente compreso?
[3] Abbiamo già risposto a questa domanda con la tesi: la chiamata non
«dice» nulla di cui si possa discorrere; non dà notizia di eventi
mondani. La chiamata pone l’Esserci innanzi al suo poter-essere, e ciò
in quanto chiamata che viene dallo spaesamento. Il chiamante è
certamente indeterminato, ma il da-dove esso chiama non è
indifferente per il chiamare. Questo da-dove – lo spaesamento
dell’esser-gettato nell’isolamento – è «evocato» assieme al chiamare,
cioè è dischiuso insieme ad esso. Il da-dove viene la chiamata
chiamando-innanzi-a (Vorrufen auf…) coincide con il verso-dove del
richiamo che chiama indietro (des Zurueckrufens). La chiamata non dà
ad intendere un poter-essere ideale e universale: essa dischiude il poter-
essere come il poter-essere ogni volta individuato d’un rispettivo
Esserci. Il carattere di apertura della chiamata è determinato
pienamente solo se è inteso come richiamo-indietro chiamante-innanzi
(vorrufenden Rueckruf) . È a partire dalla chiamata così intesa che
diviene possibile chiedersi che-cosa (Was) essa dia ad intendere.
[4] Ma la risposta alla domanda circa che-cosa la chiamata dice non
potrà forse essere data più facilmente e sicuramente col «semplice»
rinvio a ciò che è in genere udito (gehoert) o non-udito-ascoltando
(ueberhoert) in tutte le esperienze comuni della coscienza morale? E
cioè che la chiamata appella l’Esserci come «colpevole!», oppure,
come accade nella coscienza morale ammonente, rinvia ad un possibile
esser-«colpevole», o ancora, come accade nella «buona» coscienza
morale, che essa conferma una «consapevolezza di mancanza di
colpa»? Se almeno quel «colpevole!» che è «concordemente»
(uebereinstimmend) riscontrato nelle esperienze e nelle interpretazioni
della coscienza morale non fosse determinato in modi così nettamente
contrastanti! Ma anche se il senso di questo «colpevole!» si potesse
determinare univocamente (einstimmig), il concetto esistenziale di
questo esser-colpevole continuerebbe a restare oscuro. Se tuttavia
l’Esserci appella se stesso come «colpevole!», da dove potremo
ricavare l’idea di colpa se non dall’interpretazione dell’essere
dell’Esserci? Ma allora rinasce il problema: chi dice come (wie) noi
siamo colpevoli e che cosa (was) significa colpa? L’idea di colpa non
può certo essere escogitata arbitrariamente e poi appiccicata
all’Esserci. Se è mai possibile una comprensione dell’essenza della
colpa, tale possibilità dovrà essere prefigurata nell’Esserci. Dove
troveremo la traccia che possa guidare allo svelamento del fenomeno?
Ogni ricerca ontologica concernente fenomeni come la colpa, la
coscienza morale, la morte deve prender le mosse da ciò che di essi
«dice» l’interpretazione quotidiana dell’Esserci. Nel modo d’essere
dell’Esserci deiettivo è implicito al tempo stesso che la sua
autointerpretazione è per lo più «orientata» inautenticamente e non
coglie l’«essenza» del fenomeno; e ciò perché le è estranea
l’impostazione ontologica del problema originaria e adeguata.
Tuttavia, in ogni visione manchevole è insieme svelato un rinvio
-
25
all’«idea» originaria del fenomeno. Ma da dove prendiamo il criterio
per determinare il senso esistenziale originario di «colpevole!»? Dal
fatto che questo «colpevole!» funge da predicato dell’«io sono». E se
ciò che l’interpretazione inautentica intende come «colpa» fosse insito
nell’essere dell’Esserci in quanto tale, e precisamente in modo che
l’Esserci fosse colpevole in quanto esiste di volta in volta
effettivamente?
[5] L’evocazione (Berufung) del «colpevole!» concordemente udito
non è perciò ancora la risposta al problema del senso esistenziale
dell’invocato nella chiamata (im Ruf Gerufenen). Questo deve prima
esser concettualizzato, affinché sia possibile rendere comprensibile che
cosa significa l’evocato «colpevole!», come e perché l’interpretazione
quotidiana ne travisa il significato.
[6] La comprensibilità quotidiana assume l’«esser-colpevole»
(»Schuldigsein«) innanzi tutto nel senso di «esser in debito»
(»Schulden haben«), «avere un conto aperto con qualcuno». Si deve
restituire un qualcosa a qualcuno che lo rivendica. Questo «esser
colpevole» nel senso di «indebitarsi» (»schulden«) è una maniera di
con-essere con gli altri nel quadro del prendersi cura procurando,
producendo eccetera. Modi di tale prendersi cura sono anche il privare,
il prendere a prestito, il defraudare, il sottrarre, il rubare, cioè il non dar
soddisfazione in qualche modo a rivendicazioni di possesso avanzate
da qualcuno. L’essere colpevole di questo tipo è sempre riferito a ciò
che è oggetto possibile del prendersi cura.
[7] Esser colpevole ha allora l’ulteriore significato di «esser colpa di»
[»schuld sein an«, “essere responsabile di”] cioè di esser motivo, esser
autore di qualcosa o anche «esser occasione» di qualcosa. Nel senso di
questo «aver colpa» di qualcosa si può «esser colpevole» senza «essere
in debito» con qualcuno o essergli debitore. Viceversa, si può esser in
debito di qualcosa presso qualcuno senza tuttavia averne colpa [esserne
responsabile]. Un altro può «fare debiti» presso un terzo «per me».
[8] Questi significati ordinari dell’esser-colpevole, come l’«aver debiti
presso» o l’«aver colpa di» [“esser responsabile di”], possono confluire
e determinare un comportamento che chiamiamo «rendersi colpevole»
[»sich schuldig machen«, “rendersi debitore”] cioè: essendo colpevole
di aver-debiti, ledere un diritto e rendersi così punibile. L’esigenza che
non viene soddisfatta, però, non è necessariamente riferita a un
possesso, può regolare in generale l’essere-assieme pubblico. Il
«rendersi colpevole» nella violazione in senso giuridico
(Rechtsverletzung), quale abbiamo ora chiarito, può però assumere
anche la forma di un «rendersi-colpevole verso altri». Ciò non accade
in virtù della violazione come tale, ma per il fatto che è colpa mia [“è
mia responsabilità”] se l’altro, nella sua esistenza, è messo a
repentaglio, è indotto in errore, è rovinato. Questo rendersi-colpevole
verso altri è possibile senza violazione della legge «pubblica». Il
concetto formale dell’esser-colpevole nel senso dell’essersi-reso-
colpevole verso l’altro può essere determinato così: esser-causa
[Grundsein, “esser fondamento”, “esser ragione”, “esser motivo”] di
-
26
una deficienza nell’Esserci dell’altro in modo tale che questo esser-
causa stesso si determini, muovendo dal suo per-che, come «difettivo».
Questa difettività consiste nel non soddisfare una esigenza che
concerne l’esistere come con-essere con gli altri.
[9] Resterebbe da vedere come nascano queste esigenze e in qual modo
siano da concepirsi in base a tale origine i rispettivi caratteri di esigenza
e di legge. Comunque, l’esser-colpevole, nell’ultimo significato di
violazione di un’«esigenza morale», è un modo di essere dell’Esserci.
Ciò vale certamente anche per l’esser-colpevole come «rendersi
punibile», «indebitarsi» e «aver colpa di» [“esser responsabile di”].
Anche questi sono comportamenti dell’Esserci. Quando si concepisce
l’«esser gravati di colpa morale» come una «qualità» dell’Esserci, si
dice in realtà ben poco. Questa interpretazione rivela soltanto che una
siffatta caratterizzazione non basta a definire ontologicamente questo
genere di «determinazione d’essere» dell’Esserci rispetto ai
comportamen