§ 7 Il metodo fenomenologico della ricerca · fenomenologia verrebbe a significare scienza dei...

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1 § 7 Il metodo fenomenologico della ricerca [1] Con la caratterizzazione provvisoria dell’oggetto tematico della ricerca (essere dell’ente o senso dell’essere in generale) sembra anche già esser predelineato il suo metodo. Il distacco (Abhebung) dell’essere dall’ente e l’esplicazione dell’essere stesso è compito dell’ontologia. Il metodo dell’ontologia resta altamente problematico finché si prende consiglio dalle ontologie storicamente tramandate o da tentativi analoghi. Poiché nel corso di questa indagine il termine ontologia è usato in senso formalmente ampio, viene a chiudersi da se stessa la via di un chiarimento del metodo mediante l’esame della sua storia. [2] Usando il termine ontologia non si vuole proporre una disciplina filosofica determinata, connessa alle altre. Non si tratta affatto di assolvere i compiti di una disciplina precostituita; al contrario, si tratta semmai di sviluppare una disciplina a partire dalle necessità oggettive di determinate domande e dal modo di trattazione richiesto dalle «cose stesse». [3] Con la domanda direttiva circa il senso dell’essere, l’indagine si trova di fronte al problema fondamentale della filosofia come tale. Il modo di trattazione di questa domanda è quello fenomenologico. Ma con ciò il nostro lavoro non si subordina né a un «punto di vista» né a una «corrente»; perché la fenomenologia non è né l’una né l’altra cosa, né può mai divenire tale, almeno finché comprenda se stessa. L’espressione «fenomenologia» significa primariamente un concetto di metodo [Methodenbegriff, lett.: “concetto-metodo”]. Essa non caratterizza il che-cosa reale [sachhaltige Was] degli oggetti della ricerca filosofica, ma il come [Wie] di quest’ultima. Quanto più genuinamente un concetto di metodo incide realmente, e quanto più ampiamente esso determina l’andamento fondamentale di una scienza, tanto più originariamente esso si radica nel confronto con le cose stesse, e tanto più si allontana da ciò che chiamiamo appigli tecnici, di cui ce ne sono molti anche nelle discipline teoriche. [4] Il termine «fenomenologia» esprime una massima che può esser formulata così: «Alle cose stesse!» e ciò in contrapposizione ad astratte costruzioni, a casuali ritrovati, all’assunzione di concetti solo apparentemente giustificati, a false domande che sovente si trasmettono da una generazione all’altra come «problemi». Si potrebbe tuttavia obiettare che si tratta di una massima affatto ovvia e che esprime soltanto il principio di ogni conoscenza scientifica: non si vede perché un’ovvietà come questa dovrebbe comparire espressamente nella qualificazione di una particolare ricerca. In realtà si tratta di un’«ovvietà» a cui vogliamo avvicinarci, nella misura in cui ciò è rilevante per il chiarimento del procedere di questo trattato. Esporremo soltanto il concetto provvisorio [Vorbegriff, lett.: „pre-concetto“] di fenomenologia. [5] L’espressione è composta di due parti: fenomeno e logos. L’uno e l’altro derivano da termini greci: φαινόμενον e λόγοϛ. Preso superficialmente, il termine fenomenologia è composto in modo

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    § 7 Il metodo fenomenologico della ricerca

    [1] Con la caratterizzazione provvisoria dell’oggetto tematico della

    ricerca (essere dell’ente o senso dell’essere in generale) sembra anche

    già esser predelineato il suo metodo. Il distacco (Abhebung) dell’essere

    dall’ente e l’esplicazione dell’essere stesso è compito dell’ontologia. Il

    metodo dell’ontologia resta altamente problematico finché si prende

    consiglio dalle ontologie storicamente tramandate o da tentativi

    analoghi. Poiché nel corso di questa indagine il termine ontologia è

    usato in senso formalmente ampio, viene a chiudersi da se stessa la via

    di un chiarimento del metodo mediante l’esame della sua storia.

    [2] Usando il termine ontologia non si vuole proporre una disciplina

    filosofica determinata, connessa alle altre. Non si tratta affatto di

    assolvere i compiti di una disciplina precostituita; al contrario, si tratta

    semmai di sviluppare una disciplina a partire dalle necessità oggettive

    di determinate domande e dal modo di trattazione richiesto dalle «cose

    stesse».

    [3] Con la domanda direttiva circa il senso dell’essere, l’indagine si

    trova di fronte al problema fondamentale della filosofia come tale. Il

    modo di trattazione di questa domanda è quello fenomenologico. Ma

    con ciò il nostro lavoro non si subordina né a un «punto di vista» né a

    una «corrente»; perché la fenomenologia non è né l’una né l’altra cosa,

    né può mai divenire tale, almeno finché comprenda se stessa.

    L’espressione «fenomenologia» significa primariamente un concetto

    di metodo [Methodenbegriff, lett.: “concetto-metodo”]. Essa non

    caratterizza il che-cosa reale [sachhaltige Was] degli oggetti della

    ricerca filosofica, ma il come [Wie] di quest’ultima. Quanto più

    genuinamente un concetto di metodo incide realmente, e quanto più

    ampiamente esso determina l’andamento fondamentale di una scienza,

    tanto più originariamente esso si radica nel confronto con le cose

    stesse, e tanto più si allontana da ciò che chiamiamo appigli tecnici, di

    cui ce ne sono molti anche nelle discipline teoriche.

    [4] Il termine «fenomenologia» esprime una massima che può esser

    formulata così: «Alle cose stesse!» e ciò in contrapposizione ad astratte

    costruzioni, a casuali ritrovati, all’assunzione di concetti solo

    apparentemente giustificati, a false domande che sovente si

    trasmettono da una generazione all’altra come «problemi». Si potrebbe

    tuttavia obiettare che si tratta di una massima affatto ovvia e che

    esprime soltanto il principio di ogni conoscenza scientifica: non si vede

    perché un’ovvietà come questa dovrebbe comparire espressamente

    nella qualificazione di una particolare ricerca. In realtà si tratta di

    un’«ovvietà» a cui vogliamo avvicinarci, nella misura in cui ciò è

    rilevante per il chiarimento del procedere di questo trattato. Esporremo

    soltanto il concetto provvisorio [Vorbegriff, lett.: „pre-concetto“] di

    fenomenologia.

    [5] L’espressione è composta di due parti: fenomeno e logos. L’uno

    e l’altro derivano da termini greci: φαινόμενον e λόγοϛ. Preso

    superficialmente, il termine fenomenologia è composto in modo

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    analogo a teologia, biologia, sociologia, che noi rendiamo

    solitamente con scienza di Dio, della vita, della società. In tal caso,

    fenomenologia verrebbe a significare scienza dei fenomeni. Il

    concetto provvisorio [Vorbegriff] di fenomenologia deve essere

    costruito attraverso la caratterizzazione di ciò che si intende coi due

    termini che lo compongono: «fenomeno» e «logos», e attraverso la

    fissazione del senso del nome da essi composto. La storia della

    parola stessa, che nasce presumibilmente nella scuola di Wolff, non

    ha qui importanza.

    A - Il concetto di fenomeno

    [6] L’espressione greca φαινόμενον, a cui risale il termine

    «fenomeno», deriva dal verbo φαίνεσθαι che significa manifestarsi

    [sich zeigen]; φαινόμενον significa quindi ciò che si manifesta, il

    manifestantesi [das Sichzeigende], il manifesto [das Offenbare];

    φαίνεσθαι stesso è una forma verbale medio-passiva di φαίνω,

    illuminare, porre in chiaro; φαίνω deriva dalla radice φα come φῶϛ, la

    luce, il chiaro, ossia ciò in cui qualcosa può manifestarsi, può rendersi

    visibile in se stesso. Quale significato dell’espressione «fenomeno», è

    da tener fermo: ciò-che-si-manifesta-in-se-stesso- [das Sich-an-ihm-

    selbst-zeigende] il manifesto [das Offenbare]. I φαινόμενα, i

    «fenomeni», sono dunque la totalità [Gesamtheit] di ciò che sta alla

    luce del giorno oppure che può essere portato alla luce, ciò che i greci

    a volte identificarono [identifizierten, lett.: “resero identico”]

    semplicemente con τὰ ὄντα (l’ente). L’ente può dunque manifestarsi

    da se stesso in maniere diverse, a seconda del rispettivo modo di

    accesso a esso. Si dà persino la possibilità che l’ente si manifesti come

    ciò che esso in se stesso non è. In questo manifestarsi l’ente «pare così

    come…». Tale manifestarsi noi lo chiamiamo sembrare [Scheinen,

    “parere"]. Così anche in greco l’espressione φαινόμενον, fenomeno, ha

    il significato di ciò che sembra in un determinato modo, «il parvente»

    [das »Scheinbare«], la «parvenza» [der »Schein«]; φαινόμενον ἀγαθόν

    vuol dire un bene che pare essere tale ma che, in «realtà», non è ciò per

    cui si spaccia. Per una più ampia comprensione del concetto di

    fenomeno tutto sta nel vedere come ciò che è nominato nei due

    significati di fenomeno («fenomeno» come ciò che si manifesta e

    «fenomeno» come parvenza) si connetta strutturalmente. Soltanto

    perché qualcosa, in base al suo senso, pretende di manifestarsi, cioè di

    esser fenomeno, esso può manifestarsi come qualcosa che esso non è,

    cioè può «solo sembrare così come…». In questo significato di

    φαινόμενον («parvenza») è già incluso il significato originario

    (fenomeno: il manifesto) come fondante il secondo. All’espressione

    «fenomeno» assegniamo terminologicamente il significato positivo e

    originario di φαινόμενον e distinguiamo fenomeno da parvenza,

    considerando la seconda come modificazione privativa del primo.

    Entrambi i termini esprimono però qualcosa [was] che, innanzi tutto,

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    non ha nulla a che fare con ciò che si usa chiamare «apparizione»

    [Erscheinung] o addirittura «mera apparizione».

    [7] In questo senso si parla dei «sintomi patologici»

    [»Krankheitserscheinungen«]. Si intendono eventi del corpo che si

    manifestano [sich zeigen] e che, nel manifestarsi come questi

    manifestantisi, fanno da «indizi» di qualcosa che a sua volta non si

    manifesta. L’insorgere di tali eventi, il loro manifestarsi, è associata

    alla semplice presenza di disturbi che non si manifestano. Apparizione

    come apparizione «di qualcosa» non significa dunque affatto:

    manifestare se stesso, ma: annunciarsi di qualcosa che non si manifesta,

    mediante qualcosa che si manifesta. L’apparire [Erscheinen] è16n un

    non-manifestarsi. Ma questo «non» non deve assolutamente venir

    confuso col «non» privativo che come tale caratterizza la struttura della

    parvenza. Ciò che non si manifesta in quel modo, in cui l’apparente

    [das Erscheinende] non si manifesta, non può mai neppure sembrare

    [scheinen]. Indicazioni, presentazioni (Darstellungen), sintomi,

    simboli, per quanto molto diversi fra di loro, hanno tutti questa struttura

    formale fondamentale dell’apparire (Erscheinen).

    [8] Benché l’«apparire» (»Erscheinen«) non sia mai un manifestarsi

    nel senso del fenomeno, esso è tuttavia possibile soltanto sul

    fondamento di un manifestarsi di qualcosa. Ma questo manifestarsi che

    assieme rende possibile l’apparire, non è l’apparire stesso. Apparire è:

    annunciarsi mediante qualcosa che si manifesta. Quando allora si dice:

    con la parola «apparizione» (Erscheinung) rinviamo a qualcosa in cui

    qualcosa appare senza essere esso stesso apparizione, con ciò non

    abbiamo delimitato (umgrenzt, “circoscritto”) il concetto di fenomeno,

    lo abbiamo bensì presupposto; e tale presupposizione rimane però

    occultata [verdeckt], perché in questa determinazione di «apparizione»

    [»Erscheinung«] l’espressione «apparire» (»erscheinen«) è usata in

    duplice senso. Ciò in cui qualcosa «appare», significa ciò in cui

    qualcosa si annuncia, ovvero non si manifesta; mentre nel discorso

    [Rede]: «senza essere esso stesso ‘apparizione’», la parola

    «apparizione» significa il manifestarsi. Ma questo manifestarsi

    appartiene in modo essenziale a quell’«in cui» (Worin) entro il quale

    qualcosa si annuncia. Dunque, i fenomeni non sono mai apparizioni,

    anche se ogni apparizione è dipendente da fenomeni. Se si definisce il

    fenomeno con l’ausilio di un concetto ancora oscuro di «apparizione»,

    tutto è messo sottosopra e una «critica» della fenomenologia su queste

    basi diviene una impresa ben stramba.

    [9] La stessa espressione «apparizione» può, di nuovo, avere un

    significato duplice: da un lato, [può significare] l’apparire nel senso

    dell’annunciarsi come non manifestarsi, e dall’altro l’annunciante

    stesso che, nel suo manifestarsi, indica [anzeigt] qualcosa di non

    manifestantesi. E, infine, il termine apparire può essere usato per

    significare il senso genuino di fenomeno come manifestarsi. Se si

    designano questi tre diversi stati di cose con il termine «apparizione»,

    la confusione diventa allora inevitabile.

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    [10] Ma la confusione è in più aggravata in modo essenziale dal fatto

    che «apparizione» può assumere un altro significato ancora. Se

    l’annunciante che nel suo manifestarsi indica [anzeigt] il non-

    manifesto è inteso come qualcosa che sorge dal non-manifesto stesso,

    da questo si irradia, in modo tale che il non-manifesto sia concepito

    come non mai manifestabile per essenza, in questo caso apparizione

    significa produzione o prodotto, tale però da non esprimere l’essere

    autentico del produttore: apparizione nel senso di «semplice

    apparizione». L’annunciante così prodotto manifesta certamente se

    stesso, ma in modo tale che, in quanto irradiazione di ciò che annuncia,

    lo vela costantemente in se stesso. Ma questo velante non manifestare

    non è, di nuovo, parvenza. Kant usa il termine Erscheinung in questa

    combinazione di significati. Erscheinungen sono per lui, da un lato, gli

    «oggetti dell’intuizione empirica», ciò che in questa si manifesta.

    Questo manifestantesi (fenomeno nel senso genuino e originario) è, nel

    contempo, «apparizione» come annunciante irradiazione di qualcosa

    che nell’apparizione si nasconde.

    [11] Poiché per l’«apparizione», nel significato dell’annunciarsi

    mediante un manifestantesi, è costitutivo un fenomeno, ma questo può

    però modificarsi in parvenza (Schein), anche l’apparizione può

    diventare una semplice parvenza. In una particolare illuminazione un

    individuo può parere tale da avere le guance rosse: questo rossore

    manifestantesi può esser preso per l’annuncio della presenza di febbre,

    la quale, a sua volta, indicherebbe, di nuovo, un’indisposizione

    dell’organismo.

    [12] Fenomeno, il manifestarsi-in-se-stesso, significa un modo di

    incontro eminente (ausgezeichnet) di qualcosa. Apparizione

    [Erscheinung], invece, significa un essente rapporto di rimando

    nell’ente stesso, tale per cui il rimandante (l’annunciante) è in grado di

    assolvere la sua funzione possibile solo se si manifesta in se stesso, se

    è «fenomeno». Apparizione (Erscheinung) e parvenza (Schein) sono

    essi stessi, in modo diverso, fondati nel fenomeno. La disorientante

    molteplicità di «fenomeni» che vanno sotto il nome di fenomeno,

    parvenza, apparizione, semplice apparizione, può essere riordinata solo

    se è fin dall’inizio compreso il concetto di fenomeno: il manifestantesi-

    in-se-stesso.

    [13] Se, in questa accezione del concetto di fenomeno, resta

    indeterminato quale ente venga chiamato in causa come fenomeno, e

    se resta in generale indeciso se il manifestantesi è ogni volta un ente o

    un carattere d’essere dell’ente, allora non si è raggiunto che il concetto

    formale di fenomeno. Quando, però, si comprende il manifestantesi,

    come ad esempio in Kant, nel senso dell’ente a cui si accede mediante

    l’intuizione empirica, allora in questo caso il concetto formale di

    fenomeno giunge ad una applicazione legittima [rechtmäßigen

    Anwendung]. Fenomeno in questo uso soddisfa [erfüllt] il concetto

    ordinario di fenomeno. Tale concetto ordinario non è però il concetto

    fenomenologico di fenomeno. Nell’orizzonte della problematica

    kantiana, quel che si intende fenomenologicamente per fenomeno può

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    essere illustrato (facendo riserva per altre differenze) dicendo: ciò che

    nelle apparizioni (Erscheinungen), nel fenomeno in senso ordinario,

    ogni volta si manifesta preliminarmente e contemporaneamente,

    benché non tematicamente, può essere portato tematicamente al

    manifestarsi: e questo così-manifestantesi-in-se-stesso (le «forme

    dell’intuizione») sono i fenomeni della fenomenologia. Giacché è

    evidente che spazio e tempo debbono potersi manifestare a questo

    modo, ossia debbono poter divenire fenomeni, se Kant, affermando che

    lo spazio è l’in-cui [Worinnen] apriori di un ordine, pretende di

    formulare una asserzione trascendentale fondata nella cosa stessa

    [sachbegruendete Aussage].

    [14] Ma se, ora, il concetto fenomenologico di fenomeno va compreso

    in quanto tale, prescindendo dal modo cui il manifestantesi possa più

    da vicino venir determinato, allora, indispensabile presupposto è il

    coglimento evidente [Einsicht] del senso del concetto formale di

    fenomeno e della sua applicazione legittima in un significato ordinario.

    Prima di poter fissare il concetto preliminare [Vorbegriff] di

    fenomenologia, occorre delimitare il significato di λόγοϛ, affinché sia

    chiaro in quale senso la fenomenologia possa in generale essere una

    «scienza di» fenomeni.

    B - Il concetto di logos

    [15] In Platone e Aristotele il concetto di λόγοϛ è plurivoco, e

    precisamente in modo tale che i diversi significati vanno uno da una

    parte, uno dall’altra, senza essere guidati positivamente da un

    significato fondamentale [Grundbedeutung]. Questa è di fatto soltanto

    apparenza [Schein], che si mantiene finché l’interpretazione

    [Interpretation] è in grado di afferrare non adeguatamente il significato

    fondamentale nel suo contenuto primario. Se noi diciamo: il significato

    fondamentale [Grundbedeutung] di λόγοϛ è discorso [Rede], allora

    questa traduzione letterale diventerà pienamente valida soltanto

    muovendo dalla determinazione di ciò che discorso stesso significa. La

    più tarda storia semantica [Bedeutungsgeschichte] della parola λόγοϛ

    e, soprattutto, le diverse e arbitrarie interpretazioni della filosofia

    successiva occultano [verdecken] costantemente il significato

    autentico [eigentliche Bedeutung] di discorso, che è manifesto in modo

    abbastanza aperto. Λόγοϛ è «tradotto», cioè sempre interpretato, come

    ragione, giudizio, concetto, definizione, fondamento, relazione. Ma

    come può «discorso» modificarsi così che λόγοϛ significhi tutto ciò che

    è stato enumerato, e per di più nell’ambito di un uso linguistico di

    carattere scientifico? Anche quando si intende λόγοϛ nel senso di

    asserzione, l’asserzione, però, nel senso di «giudizio», con questa

    traduzione apparentemente legittima, il significato fondamentale

    [Grundbedeutung] può venir mancato [verfehlt], specialmente se

    giudizio è concepito nel senso di qualcuna delle attuali «teorie del

    giudizio». Λόγοϛ non significa e comunque non significa

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    primariamente giudizio, se si comprende con ciò un «collegare» o un

    «prender posizione» (riconoscere o respingere).

    [16] Λόγοϛ, in quanto discorso, significa piuttosto qualcosa come

    δηλοῦν, render manifesto ciò di cui, nel discorso, «il discorso» è.

    Aristotele ha esplicato più precisamente questa funzione del discorso

    come ἀποφαίνεσθαι (cfr. de interpretatione cap. 1-6. Inoltre Met. Z. 4

    e Eth. Nic. Z.) Il λόγοϛ fa vedere (φαίνεσθαι) qualcosa, ovvero ciò su

    cui il discorso verte; e precisamente lo fa vedere per i discorrenti

    (forma verbale mediopassiva) ossia per coloro che discorrono fra di

    loro. Il discorso «lascia vedere» ἀπὸ…, a partire da ciò stesso di cui si

    discorre. Nel discorso (ἀπόφανσιϛ), nella misura in cui esso è genuino,

    ciò che [was] è detto deve esser attinto muovendo da ciò intorno a cui

    si discorre, in modo che la comunicazione discorsiva, in ciò che è detto,

    renda manifesto e come tale accessibile agli altri ciò intorno a cui

    discorre. Questa è la struttura del λόγοϛ in quanto ἀπόφανσιϛ. Questo

    modo del render manifesto nel senso del far vedere esibendo. La

    preghiera (εὐχή), ad esempio, è anch’essa un render manifesto, ma in

    un altro modo.

    [17] Nel compimento [Vollzug] concreto il discorrere (far vedere) ha il

    carattere del parlare, della verbalizzazione vocale in parole. Il λόγοϛ è

    φωνή, e precisamente φωνή μετὰ φαντασίαϛ, verbalizzazione vocale in

    cui qualcosa è ogni volta visto.

    [18] Ed è soltanto perché la funzione del λόγοϛ come ἀπόφανσιϛ

    consiste nel far vedere qualcosa mostrando, che il λόγοϛ può avere la

    forma strutturale della σύνθεσιϛ. Sintesi non significa qui collegamento

    e connessione di rappresentazioni, manipolazione di eventi psichici,

    nei cui riguardi nasca poi il «problema» della concordanza di essi, in

    quanto interni, coi fatti fisici esterni. Qui il συν ha un significato

    prettamente apofantico e significa: lasciar vedere qualcosa nel suo

    essere insieme a qualcosa, lasciar vedere qualcosa in quanto qualcosa.

    [19] E di nuovo, poiché il λόγοϛ è un lasciar vedere, per questo esso

    può essere vero o falso. Anche qui tutto sta nel liberarsi da un concetto

    artificioso di verità nel senso di una «concordanza». Questa idea non è

    per nulla l’elemento primario del concetto di ἀλήθεια. L’«esser vero»

    del λόγοϛ, in quanto ἀληθεύειν, significa: nel λέγειν, in quanto

    ἀποφαίνεσθαι, trarre fuori l’ente, di cui è il discorso, dal suo esser

    nascosto (Verborgenheit) e lasciarlo vedere come non nascosto

    [Unverborgenes] (ἀληθέϛ), scoprirlo [entdecken, lett.:

    “disoccultarlo”]. Corrispondentemente l’«esser falso», ψεύδεσθαι,

    vuol dire ingannare nel senso di occultare [verdecken]: porre (nel modo

    del lasciar vedere) qualcosa dinanzi a qualcosa e spacciarla in quanto

    qualcosa che essa non è.

    [20] Poiché però «verità» ha questo senso e il λόγοϛ è un modo

    determinato del lasciar vedere, il λόγοϛ non può affatto esser

    considerato il «luogo» primario della verità. Quando, come oggi ormai

    tutti fanno, la verità è definita come ciò che appartiene «propriamente»

    al giudizio, facendo per di più risalire questa tesi ad Aristotele, si cade

    in un duplice errore: perché il richiamo ad Aristotele è infondato e

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    perché, soprattutto, il concetto greco di verità è frainteso. «Vero» in

    senso greco, certo più originariamente del λόγοϛ suddetto, è la

    αἴσθησιϛ, la diretta apprensione sensibile di qualcosa. Poiché una

    αἴσθησιϛ mira ogni volta ai propri ἴδια, cioè all’ente genuinamente

    accessibile solo mediante essa e per essa (ad esempio, il vedere ai

    colori), l’apprensione è sempre vera. Il che significa: il vedere scopre

    sempre colori, l’udire scopre sempre suoni. «Vero», nel senso più puro

    e originario, cioè esclusivamente scoprente, cosicché non possa mai

    occultare, è il puro νοεῖν, l’apprendere, direttamente osservante, delle

    più semplici determinazioni d’essere dell’ente come tale. Questo νοεῖν

    non può mai occultare, non può mai esser falso; potrà, tutt’al più,

    restare un non apprendere, un ἀγνοεῖν, non essere sufficiente

    all’accesso diretto, adeguato.

    [21] Ciò che non ha più la forma di attuazione [Vollzugsform] del puro

    lasciar vedere, ma che, nel mostrare, ricorre di volta in volta a

    qualcos’altro e fa così vedere qualcosa in quanto qualcosa, assume, con

    questa struttura sintetica, la possibilità dell’occultare [Verdecken]. La

    «verità del giudizio», comunque, non è che il contrario di questo

    occultare [Verdecken], cioè un fenomeno di verità fondato per più

    aspetti. Realismo e idealismo, con pari fondamentalità, mancano il

    senso del concetto greco di verità, in base al quale soltanto è possibile

    comprendere la possibilità di qualcosa come una «dottrina delle idee»

    quale conoscenza filosofica.

    [22] Proprio perché la funzione del λόγοϛ sta nel diretto lasciar vedere

    qualcosa, nel lasciar apprendere l’ente, il λόγοϛ può significare

    ragione. E proprio perché, di nuovo, λόγοϛ viene usato non soltanto

    nel significato di λέγειν ma ugualmente in quello di λεγόμενον (il

    mostrato [das Aufgezeigte] come tale), e poiché questo è null’altro che

    l’ὑποκεί- μενον (ciò che in ogni interpellare e discutere sta già ogni

    volta, come semplicemente presente, a fondamento), il λόγοϛ, in quanto

    λεγόμενον, significa fondamento [Grund], ratio. E infine, poiché

    λόγοϛ in quanto λεγόμενον può anche significare ciò che è chiamato in

    questione in quanto qualcosa che diviene visibile mediante la sua

    relazione a qualcosa, mediante la sua «relazionalità», λόγοϛ assume il

    significato di relazione e rapporto.

    [23] Questa interpretazione del «discorso apofantico» può bastare per

    il chiarimento della funzione primaria del λόγοϛ.

    C - Il concetto preliminare [Vorbegriff] di fenomenologia

    [24] Tenendo concretamente presente il prodotto dell’interpretazione

    di «fenomeno» e di «logos», salta subito agli occhi l’intima

    connessione tra ciò che è inteso con questi due termini. L’espressione

    fenomenologia può essere formulata grecamente: λέγειν τὰ φαινόμενα;

    λέγειν però significa ἀποφαίνεσθαι. Fenomenologia significa allora

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    ἀποφαίνεσθαι τὰ φαινόμενα: lasciar vedere da se stesso ciò che si

    manifesta, così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso

    formale dell’indagine che si dà il nome di fenomenologia. Ma in tal

    modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: «Alle

    cose stesse!»

    [25] Quanto al suo senso, perciò, il termine fenomenologia è diverso

    da designazioni come teologia e simili. Queste denotano gli oggetti

    della relativa scienza nel loro rispettivo contenuto reale

    [Sachhaltigkeit]. «Fenomenologia» non denota l’oggetto delle sue

    ricerche, né il termine caratterizza il contenuto reale di tali ricerche. La

    parola informa esclusivamente sul come [Wie] della esibizione e della

    trattazione del che cosa [Was] deve venir trattato in questa scienza.

    Scienza «dei» fenomeni significa: un afferramento dei propri oggetti

    tale che tutto ciò che di essi è in discussione sia trattato in esibizione

    [Aufweisung] diretta ed in giustificazione [Ausweisung] diretta. Il

    medesimo significato ha l’espressione, sostanzialmente tautologica,

    «fenomenologia descrittiva». Qui descrizione non ha affatto il

    significato di un procedimento del genere di quello impiegato, ad

    esempio, dalla morfologia botanica. L’espressione ha di nuovo un

    senso proibitivo: tener lontano ogni determinare non giustificante

    [nicht ausweisendes Bestimmen]. Il carattere della descrizione stessa,

    il senso specifico del λόγοϛ, potrà esser fissato prima di tutto soltanto

    muovendo dalla «realtà» [Sachheit, lett.: “cosità”] di ciò che deve

    essere «descritto», che deve cioè essere condotto a determinatezza

    scientifica nel modo di incontro di fenomeni. Formalmente, il

    significato del concetto formale e ordinario di fenomeno autorizza a

    chiamare fenomenologia ogni esibizione dell’ente così com’esso si

    manifesta in se stesso.

    [26] In riferimento a che cosa il concetto formale di fenomeno deve ora

    essere deformalizzato in concetto fenomenologico, e come questo si

    distingue dal concetto ordinario? Che cos’è [Was] ciò che la

    fenomenologia deve «lasciar vedere»? Che cos’è [Was] ciò che, in un

    senso eminente [in einem ausgezeichneten Sinne], deve venir chiamato

    «fenomeno»? Che cosa [Was], per sua essenza, è necessariamente

    tema di una esibizione esplicita [ausdrueckliche Aufweisung]?

    Manifestamente, ciò che innanzi tutto e per lo più non si manifesta, ciò

    che, rispetto a ciò che innanzi tutto e per lo più si manifesta, è nascosto

    [verborgen], ma è al contempo ciò che appartiene essenzialmente a ciò

    che innanzitutto e per lo più si manifesta, in modo tale da costituirne il

    senso o fondamento. 17n.

    [27] Ma ciò che [Was], in un senso eccellente [in einem ausnehmenden

    Sinne], resta nascosto [verborgen] o ricade di nuovo nell’occultamento

    [Verdeckung] o si manifesta solo in modo «distorto» [»verstellt«], non

    è questo o quell’ente, ma, come le considerazione precedenti hanno

    mostrato, l’essere dell’ente. Esso può essere occultato così

    ampiamente che esso cade nell’oblio e la domanda su di lui e sul suo

    senso viene a mancare. Pertanto, ciò che [Was], in un senso eminente

    [in einem ausgezeichneten Sinne] esige per il suo più proprio

  • 9

    contenuto reale [Sachgehalt] di diventare fenomeno, la fenomenologia

    lo ha tematicamente «afferrato» quale oggetto.

    [28] Fenomenologia è modo di accesso a, modo di determinazione

    giustificante di, ciò che [Was] deve costituire il tema dell’ontologia.

    Ontologia è possibile soltanto come fenomenologia. Il concetto

    fenomenologico di fenomeno intende, come manifestantesi, l’essere

    dell’ente, il suo senso, le sue modificazioni e i suoi derivati. E il

    manifestarsi [das Sichzeigen] non è un casuale manifestarsi, e

    nient’affatto qualcosa come apparire [Erscheinen]. L’essere dell’ente

    non può assolutamente essere qualcosa «dietro» cui stia ancora

    qualcosa «che non appare».

    [29] «Dietro» i fenomeni della fenomenologia non c’è essenzialmente

    nient’altro, ma ciò che deve divenire fenomeno può ben essere

    nascosto. È proprio perché i fenomeni, innanzi tutto e per lo più, non

    sono dati, che occorre la fenomenologia. Esser-occultato

    [Verdecktheit] è il controconcetto [Gegenbegriff] di «fenomeno».

    [30] I modi del possibile esser-occultato dei fenomeni sono diversi. In

    primo luogo il fenomeno può esser occultato nel senso che esso è come

    tale ancora non scoperto. Della sua sussistenza non si ha né conoscenza

    né ignoranza.13 Ma un fenomeno può essere anche ricoperto

    [verschüttet]. Sta in ciò: esso era un tempo scoperto, ma ricadde

    successivamente nell’occultamento. Quest’ultimo può diventare totale;

    di regola però accade che quel che era prima scoperto risulta ancora

    visibile, benché solo come parvenza [Schein]. Senonché, quanta

    parvenza, altrettanto «essere» [Wieviel Schein jedoch, soviel »Sein«].

    Questo occultamento nel senso di «distorsione» è il più frequente e il

    più pericoloso, perché qui le possibilità dell’inganno e dello sviamento

    sono particolarmente ostinate. Strutture d’essere (e relativi concetti)

    disponibili, ma velate quanto al loro suolo d’origine

    [Bodenständigkeit], possono rivendicare il proprio diritto forse

    all’interno di un «sistema». Grazie alla loro esser costruttivamente

    agganciate ad un sistema, esse possono spacciarsi per qualcosa di

    «chiaro», che non ha bisogno di ulteriore giustificazione, e può perciò

    servire come punto di avvio di un processo deduttivo progrediente.

    [31] Comunque inteso — nel senso di nascondimento [Verborgenheit],

    ricoprimento [Verschüttung] o distorsione [Verstellung] —

    l’occultamento [Verdeckung] ha di nuovo una duplice possibilità. Ci

    sono occultamenti casuali e occultamenti necessari, cioè tali da

    radicarsi nel modo di sussistere di ciò che è scoperto. Ogni concetto e

    principio fenomenologico attinto originariamente è esposto, in quanto

    asserzione comunicata, alla possibilità della degenerazione

    [Entartung]. Viene trasmesso in una comprensione vuota, perde il

    proprio suolo d’origine [Bodenständigkeit] e diventa una tesi astratta

    [freischwebend, lett.: «sospesa per aria»]. La possibilità dello

    sclerotizzarsi e del perdere di «presa» di ciò che originariamente

    l’aveva è insita anche nel lavoro concreto della fenomenologia. E la

    difficoltà di questa ricerca sta proprio nel renderla critica verso se

    stessa in un senso positivo.

  • 10

    [32] Agli oggetti della fenomenologia, il modo di incontro dell’essere

    e delle strutture d’essere nel modus del fenomeno deve in primo luogo

    essere strappato. Perciò, il punto di partenza [Ausgang] dell’analisi,

    così come l’accesso [Zugang] al fenomeno, e il passaggio

    [Durchgang] attraverso gli occultamenti predominanti richiedono una

    peculiare assicurazione metodologica. Nell’idea dell’afferramento e

    della esplicazione «originari» ed «intuitivi» dei fenomeni c’è proprio

    il contrario dell’ingenuità di un casuale, «immediato» e pacifico «star

    a guardare».

    [33] Sulla base del concetto preliminare [Vorbegriff] di fenomenologia

    che abbiamo delimitato, possono ora esser fissati nel loro significato

    anche i termini «fenomenico» e «fenomenologico». «Fenomenico» è

    detto ciò che [was] nel modo di incontro del fenomeno è dato ed

    esplicabile; perciò si parla di strutture fenomeniche. Per

    «fenomenologico» si intende invece tutto ciò che appartiene al modo

    di esibizione [Aufweisung] e di esplicazione, e ciò che costituisce la

    concettualità richiesta da questa ricerca.

    [34] Poiché fenomeno, in senso fenomenologico, è sempre e soltanto

    ciò che [was] costituisce essere, ma essere è ogni volta essere dell’ente,

    per giungere a mettere lo scoperto l’essere, c’è prima bisogno di una

    corretta presentazione dell’ente. Questo si deve parimenti manifestare

    nella modalità di accesso che è genuinamente propria di esso. In tal

    modo, diviene fenomenologicamente rilevante il concetto ordinario di

    fenomeno. Il compito preliminare [Voraufgabe] di un’assicurazione

    «fenomenologica» dell’ente esemplare come punto di partenza per

    l’analitica autentica è già sempre predelineato muovendo dal fine di

    questa analitica stessa.

    [35] Considerata materialmente [sachhaltig genommen], la

    fenomenologia è la scienza dell’essere dell’ente: ontologia. Nel corso

    dei chiarimenti che abbiamo dati circa i compiti dell’ontologia, risultò

    la necessità di una ontologia fondamentale [Fundamentalontologie],

    che ha a tema l’ente privilegiato ontologico-onticamente, l’Esserci, in

    modo da portarsi di fronte al problema cardinale, la domanda sul senso

    dell’essere in generale.18n Dall’indagine stessa risulterà: il senso

    metodico della descrizione fenomenologica è l’interpretazione

    [Auslegung]. Il λόγοϛ della fenomenologia dell’Esserci ha il carattere

    dell’ἑρμηνεύειν, per il tramite del quale l’autentico senso d’essere e le

    strutture fondamentali del suo proprio essere vengono resi noti alla

    comprensione d’essere propria dell’Esserci. La fenomenologia

    dell’Esserci è ermeneutica nel significato originario della parola,

    secondo il quale essa designa il lavoro di interpretazione. Poiché però,

    attraverso lo scoprimento del senso dell’essere e delle strutture

    fondamentali dell’Esserci in generale, viene prodotto l’orizzonte di

    ogni indagine ontologica ulteriore concernente l’ente difforme

    dall’Esserci, questa ermeneutica è «ermeneutica» anche nel senso della

    elaborazione delle condizioni di possibilità di qualsiasi ricerca

    ontologica. E infine, poiché l’Esserci vanta il primato ontologico

    rispetto ad ogni essente (in quanto ente avente la possibilità

  • 11

    dell’esistenza), l’ermeneutica, nella sua qualità di interpretazione

    dell’essere dell’Esserci, acquista un terzo senso specifico (che,

    filosoficamente parlando, è primario), quello di analitica

    dell’esistenzialità dell’esistenza. Pertanto in questa ermeneutica, che

    elabora ontologicamente la storicità dell’Esserci quale condizione

    ontica della possibilità della storiografia, getta le sue radici ciò che può

    esser detto «ermeneutica» solo in senso derivato: la metodologia delle

    scienze storiche dello spirito.

    [36] L’essere, in quanto tema fondamentale della filosofia, non è un

    genere dell’ente, e tuttavia riguarda ogni ente. La sua «universalità» è

    da ricercarsi più in alto. L’essere e la struttura dell’essere si trovano al

    di sopra di ogni ente e di ogni determinazione possibile di un ente.

    L’essere è il transcendens puro e semplice.19n La trascendenza

    dell’essere dell’Esserci è eminente perché in essa hanno luogo la

    possibilità e la necessità dell’individuazione più radicale. Ogni

    aprimento dell’essere in quanto transcendens è conoscenza

    trascendentale. La verità fenomenologica (l’apertura dell’essere) è

    veritas transcendentalis.

    [37] L’ontologia e la fenomenologia non sono due diverse discipline

    che fanno parte della filosofia assieme ad altre. I due termini denotano

    entrambi la filosofia stessa nel suo oggetto e nel suo procedimento. La

    filosofia è ontologia universale fenomenologica, muovente

    dall’ermeneutica dell’Esserci, la quale, in quanto analitica

    dell’esistenza, 20n ha fissato il capo del filo conduttore di ogni

    domandare filosofico nel punto da cui tale domandare salta fuori ed in

    cui è risospinto.

    [38] Le ricerche che seguono sono state possibili solo sulla base posta

    da Edmund Husserl, con le cui Ricerche logiche la fenomenologia fece

    irruzione. Le discussioni del concetto preliminare [Vorbegriff] di

    fenomenologia indicano che l’essenziale per essa non sta nell’esser

    realmente effettiva come «corrente» filosofica.21n Più in alto della

    realtà effettiva sta la possibilità. La comprensione della fenomenologia

    consiste esclusivamente nell’afferrarla come possibilità.14

    [39] Per quanto concerne la goffaggine e la «ineleganza» di espressione

    delle analisi che seguono, si può aggiungere che un conto è informare

    sull’ente raccontando, e un altro è cogliere l’ente nel suo essere. Per

    questa seconda impresa mancano non solo la maggior parte delle

    parole, ma, prima di tutto, la «grammatica». Se ci è lecito richiamare

    precedenti analisi sull’essere, impareggiabili quanto al loro livello, si

    paragonino le sezioni ontologiche del Parmenide di Platone o il quarto

    capitolo del settimo libro della Metafisica di Aristotele con qualche

    passo narrativo di Tucidide, e si vedrà quale sforzo inaudito fu richiesto

    ai greci dai loro filosofi in fatto di formulazioni linguistiche. Quando

    le forze siano essenzialmente inferiori e, per di più, l’ambito ontologico

    da esplorare assai più arduo di quello che fu pre-dato ai greci, è

    inevitabile che crescano anche la prolissità della elaborazione

    concettuale e la durezza dell’espressione.

  • 12

    § 54 Il problema dell’attestazione di una possibilità esistentiva autentica

    [1] Cercato è un poter-essere autentico dell’Esserci che sia da questo

    stesso attestato nella sua possibilità esistentiva. Anzitutto occorre che

    sia questa attestazione stessa a lasciarsi trovare. Se tale attestazione

    deve «dar ad intendere» all’Esserci esso stesso nella sua esistenza

    autentica possibile, avrà le proprie radici nell’essere dell’Esserci.

    L’esibizione fenomenologica di una attestazione di questo genere

    racchiude perciò in sé la dimostrazione della sua origine dalla

    costituzione d’essere dell’Esserci.

    [2] L’attestazione deve dar ad intendere un poter-esser-se-Stesso

    [Selbstseinkoennen] autentico. Con l’espressione «se-Stesso»

    [»Selbst«] abbiamo risposto alla domanda intorno al Chi è [Wer]

    dell’Esserci. L’ipseità [Selbstheit] dell’Esserci fu determinata

    formalmente come una maniera di esistere e cioè non come un ente

    semplicemente-presente. Non io stesso [ich selbst], ma il Si-stesso

    [Man-Selbst] è per lo più il chi è [Wer] dell’esserci. L’esser se-Stesso

    autentico si determina come una modificazione esistentiva del Si, che

    è da delimitare esistenzialmente. In che cosa consiste questa

    modificazione esistentiva e quali sono le condizioni ontologiche della

    sua possibilità?

    [3] Con la perdizione dell’Esserci nel Si, tutto è già ogni volta deciso

    circa il più immediato poter-essere fattizio dell’Esserci, cioè circa i

    compiti, le regole, le misure, l’urgenza e la portata dell’essere-nel-

    mondo prendente e avente cura. Il cogliere [Ergreifen] queste

    possibilità d’essere il Si l’ha già da sempre sottratto all’esserci. Il Si ha

    già sempre esonerato l’Esserci dal cogliere [Ergreifen] queste

    possibilità di essere. Il Si nasconde perfino il tacito sgravamento che

    esso compie dalla esplicita scelta di queste possibilità. Resta

    indeterminato chi «propriamente» [»eigentlich«] scelga. Questo privo

    di scelta esser presi da nessuno, per il quale l’Esserci è irretito

    nell’inautenticità, può essere revocato soltanto se l’Esserci, dalla

    perdizione nel Si, va a appositamente a riprendersi per riportarsi a sé

    stesso. Senonché, questo andare a riprendere deve avere quel modo di

    essere per la cui omissione [Versaeumnis, “inosservanza”,

    “inadempimento”, “mancanza”] l’Esserci si è perduto

    nell’inautenticità. L’andare a riprendersi [das Sichzurueckholen] dal

    Si, cioè la modificazione esistentiva del Si-stesso [Man-Selbst] in

    autentico esser-se-Stesso [Selbstsein], deve compiersi (sich vollziehen)

    come recuperare [Nachholen] una scelta. Ma recuperare la scelta

    significa scegliere questa scelta stessa, decidersi per un poter-essere a

    partire dal proprio se-Stesso. È anzitutto scegliendo la scelta che

    l’Esserci rende possibile a se stesso il suo autentico poter-essere.

    [4] Poiché però è perduto nel Si, si deve prima trovare. Per trovarsi in

    generale, deve venir «mostrato» a lui stesso nella sua possibile

    autenticità. L’Esserci ha bisogno dell’attestazione di un poter-essere-

    se-stesso, che esso ogni volta già è secondo la possibilità.

  • 13

    [5] Nella seguente interpretazione [Interpretation] si pretende che una

    siffatta attestazione sia quel che all’autointerpretazione quotidiana

    [alltaegliche Selbstauslegung] dell’esserci è noto come voce della

    coscienza morale [Stimme des Gewissens]. Che il «fatto» [Tatsache]

    della coscienza morale sia contestato, che la sua funzione di istanza per

    l’esistenza dell’Esserci sia diversamente valutata, che ciò che

    «la coscienza morale dice» sia interpretato in vari modi, dovrebbe

    indurci a rigettare questo fenomeno se non fosse che proprio la

    «dubbiosità» [»Zweifelhaftigkeit«] di questo fatto [Faktum], ossia

    dell’interpretazione di esso, non stesse proprio a dimostrare che ci

    troviamo innanzi a un fenomeno originario dell’Esserci. L’analisi che

    segue pone la coscienza morale nella progettazione [Vorhabe] tematica

    di una indagine puramente esistenziale con intento ontologico-

    fondamentale.

    [6] Innanzi tutto bisogna ripercorrere la coscienza morale quanto ai

    suoi fondamenti e alle sue strutture esistenziali e renderla visibile come

    fenomeno dell’Esserci, tenendo ben ferma la costituzione d’essere di

    questo ente finora chiarita. L’analisi ontologica della coscienza morale

    così impostata precede ogni descrizione psicologica delle «esperienze

    vissute» della coscienza morale e la loro classificazione, ed è estranea

    a ogni «spiegazione» biologica, cioè a ogni dissolvimento del

    fenomeno. Ma non minore è la sua distanza da ogni spiegazione della

    coscienza morale di natura teologica e anche da ogni assunzione di

    questo fenomeno come base per la dimostrazione dell’esistenza di Dio

    o di una coscienza «immediata» di Dio [Gottesbewusstsein].

    [7] Tuttavia, anche in questa indagine limitata della coscienza morale,

    il suo risultato non dovrà né esser sopravvalutato, né fatto oggetto di

    rivendicazioni distorte e così sminuito. La coscienza morale, in quanto

    fenomeno dell’Esserci, non è un fatto (Tatsache) accidentale e

    semplicemente-presente. Questo fenomeno «è» soltanto nel modo di

    essere dell’Esserci e si dà a conoscere come fatto (Faktum) sempre e

    solo con e nell’esistenza fattizia [faktischen Existenz]. L’esigenza di

    una «prova empirico-induttiva» della «fattualità» (»Tatsaechlichkeit«)

    della coscienza morale e della legittimità della sua «voce» riposa su un

    stravolgimento ontologico del fenomeno. Cade in questo

    stravolgimento anche ogni critica «altezzosa» della coscienza morale

    che veda in essa un evento occasionale e non un «fatto (Tatsache)

    universalmente noto e constatabile». Il fatto (Faktum) della coscienza

    morale in quanto tale non si lascia sottoporre a prove e controprove di

    questo genere. Il che non attesta affatto una sua manchevolezza, ma è

    semplicemente l’indice della sua difformità ontologica dalla semplice-

    presenza nel mondo-ambiente.

    [8] La coscienza morale dà ad intendere «qualcosa», essa dischiude

    (erschliesst, “rende accessibile”). Da questa caratterizzazione formale

    scaturisce la prescrizione di riprendere il fenomeno nella schiusura

    (Erschlossenheit, “accessibilità”) dell’Esserci. Questa costituzione

    fondamentale dell’ente che noi stessi di volta in volta siamo, è

    costituita dalla situazione emotiva, dalla comprensione, dalla deiezione

  • 14

    e dal discorso. L’analisi più approfondita della coscienza morale la

    rivela come chiamata [Ruf]. Il chiamare [Rufen] è un modo del

    discorso [Rede]. La chiamata della coscienza morale [Gewissensruf]

    ha il carattere del richiamo [Anruf] dell’Esserci al suo più proprio

    poter-essere-se-stesso e ciò nel modo dell’incitamento [Aufruf] al suo

    più proprio essere-colpevole.

    [9] Questa interpretazione [Interpretation] esistenziale è

    necessariamente lontana dalla comprensibilità ontica quotidiana,

    benché ponga davanti [herausstellt, lett.: “produca”] i fondamenti

    ontologici di ciò che l’interpretazione ordinaria della coscienza morale,

    entro certi limiti, ha sempre compreso e concettualizzato sotto forma di

    «teoria» della coscienza morale. L’interpretazione esistenziale ha

    bisogno perciò di essere messa alla prova [Bewährung], mediante una

    critica dell’interpretazione ordinaria della coscienza morale.

    Muovendo dal fenomeno posto davanti [lett.: “prodotto”], si potrà

    stabilire in che misura esso attesta un poter-essere autentico

    dell’Esserci. Alla chiamata della coscienza morale corrisponde un

    possibile sentire (Hören). La comprensione del richiamo

    [Anrufverstehen] si rivela come un voler-aver-coscienza-morale. Ma in

    questo fenomeno sta quel cercato scegliere esistentivo della di scelta di

    se-Stesso che noi, corrispondentemente alla sua struttura esistenziale,

    chiamiamo decisione (Entschlossenheit “risolutezza”]. Con ciò è data

    l’articolazione dell’analisi di questo capitolo: i fondamenti ontologico-

    esistenziali della coscienza morale (§ 55); il carattere di chiamata della

    coscienza morale (§ 56); la coscienza morale come chiamata della Cura

    (§ 57); comprensione del richiamo e colpa (§ 58); l’interpretazione

    esistenziale e l’interpretazione ordinaria della coscienza morale (§ 59);

    la struttura esistenziale del poter-essere autentico attestato dalla

    coscienza morale (§ 60).

    § 55 I fondamenti ontologico-esistenziali della coscienza morale

    [1] L’analisi della coscienza morale prende avvio da un reperto

    indifferente di questo fenomeno: che essa, in qualche modo, dà ad

    intendere qualcosa. La coscienza morale dischiude [erschließt, “apre”,

    “rende accessibile”] e appartiene perciò alla cerchia dei fenomeni

    esistenziali che costituiscono l’essere del Ci in quanto apertura

    (Erschlossenheit, “accessibilità”).142 Le sue strutture più universali,

    cioè la situazione emotiva, la comprensione, il discorso e la deiezione,

    sono già state dispiegate. La collocazione della coscienza morale in

    questo complesso fenomenico non è un’applicazione schematica delle

    strutture a suo tempo rintracciate a un «caso» particolare di apertura

    dell’Esserci. Al contrario, l’interpretazione della coscienza morale non

    solo vuol essere un ampliamento della precedente analisi dell’apertura

    del Ci, ma anche un suo più originario afferramento in relazione

  • 15

    all’essere autentico dell’Esserci.

    [2] Per il tramite dell’apertura (Erschlossenheit, “essere accessibile”),

    l’ente che noi chiamiamo Esserci è nella possibilità di essere il suo Ci.

    Col suo mondo, l’esserci c’è (ist…da) per esso stesso, e ciò innanzi

    tutto e per lo più in modo da essersi reso accessibile (erschlossen) il

    suo poter-essere a partire dal «mondo» di cui si prende cura. Il poter-

    essere in cui l’Esserci esiste si è già ogni volta affidato a possibilità

    determinate. E ciò perché l’Esserci è un ente gettato, il cui esser-gettato

    è reso accessibile (erschlossen, “dischiuso”, “aperto”), in modo più o

    meno chiaro e profondo, da un esser emotivamente intonato. Della

    situazione emotiva (tonalità affettiva [Stimmung]) fa

    cooriginariamente parte la comprensione. Così l’Esserci «sa» l’affar

    suo nei propri riguardi, e ciò in quanto si è progettato in possibilità di

    se stesso, cioè in possibilità che esso, immedesimato col Si, si è lasciato

    prescrivere [vorgeben] dallo stato interpretativo pubblico del Si-stesso.

    Ma questa prescrizione [Vorgabe] è resa esistenzialmente possibile dal

    fatto che l’Esserci, in quanto comprendente con- essere, può star a

    sentire (hören) gli altri. Perdendosi nella pubblicità del Si e nelle sue

    chiacchiere, l’Esserci non ascolta [überhört] il proprio se-Stesso. Se

    l’Esserci deve poter-essere sottratto alla perdizione del non- ascoltarsi

    (Sichüberhören) - e se lo deve proprio attraverso se stesso - è

    necessario che esso possa anzitutto trovarsi, che possa trovare quel se-

    Stesso che esso ha trascurato di sentire prestando ascolto (Hinhören)

    al Si. Questo dare ascolto dev’essere interrotto, cioè dev’essere data

    all’Esserci, dall’Esserci stesso, la possibilità di un sentire che

    interrompa il prestare ascolto. La possibilità di una interruzione di

    questo genere è data da un venir improvvisamente chiamati

    (unvermittelt Angerufenwerden). La chiamata (Ruf) interrompe il non

    ascoltantesi prestar ascolto (das sich überhörende Hinhören) al Si

    dell’Esserci soltanto se essa, in corrispondenza col suo carattere di

    chiamata, suscita un sentire in tutto opposto al sentire perduto. Laddove

    quest’ultimo sentire è stordito dal «chiasso» e dalla rumorosa

    equivocità della chiacchiera ogni giorno

    «nuova», la chiamata deve chiamare senza rumore, inequivocamente

    (unzweideutig), senza offrire appiglio per la curiosità. Ciò che dà ad

    intendere chiamando in questo modo è la coscienza morale.

    [3] Noi concepiamo la coscienza morale come un modo del discorso.

    Questa articola la comprensibilità. Definendo la coscienza morale

    come chiamata, non intendiamo affatto far ricorso a una «immagine»,

    quale ad esempio la rappresentazione kantiana della coscienza morale

    come un tribunale. Soprattutto non dobbiamo dimenticare che il

    discorso, e quindi anche la chiamata, non implicano necessariamente

    la verbalizzazione sonora. Ogni espressione e ogni «esclamazione»

    presuppongono già il discorso. Quando l’interpretazione quotidiana

    parla di una «voce» della coscienza morale, non intende alludere a una

    comunicazione verbale che non ha effettivamente [faktisch] luogo;

    «voce», qui, significa dar-a-intendere. Nella tendenza ad aprire, propria

    della chiamata, c’è un momento di urto, di brusco scuotimento. Viene

  • 16

    chiamato dalla lontananza nella lontananza. È colpito dalla chiamata

    chi vuole venir ripreso [zurueckgeholt].

    [4] Con questa caratterizzazione della coscienza morale è soltanto

    delineato l’orizzonte fenomenico per l’analisi della sua struttura

    esistenziale. Il fenomeno non è paragonato a una chiamata, ma, in

    quanto discorso, è compreso muovendo dalla schiusura

    (Entschlossenheit) costitutiva dell’Esserci. La considerazione evita sin

    dal principio la via che si offre per prima all’interpretazione della

    coscienza morale, e che la riconduce a una facoltà dell’anima

    (intelletto, volontà o sentimento) o la spiega come un suo prodotto. Di

    fronte a un fenomeno come la coscienza morale salta subito agli occhi

    l’inadeguatezza ontologico-antropologica di ogni astratta

    classificazione di facoltà dell’anima o di atti personali.

    § 56 Il carattere di chiamata della coscienza morale

    [1] Del discorso (Rede, “parlare”, logos-leghein) fa parte ciò-su-cui il

    discorso [das beredete Worueber, kata ti] discorre. Il discorso da

    chiarimenti su qualcosa e ciò sotto un determinato riguardo. Da ciò su

    cui il discorso discorre [Aus dem so Beredeten], il discorso attinge ciò

    che di volta in volta esso, in quanto questo discorso, dice, il detto come

    tale [das Geredete als solches, “il parlato come tale”, legomenon]. Nel

    discorso, in quanto comunicazione [Mitteilung], ciò che è detto è reso

    accessibile al con-esserci di altri e, per lo più, nella forma della

    pronuncia verbale nel linguaggio (Sprache, “lingua”, fr. “parole”).

    [2] Nella chiamata della coscienza morale, che cos’è [Was ist] ciò di cui

    si discorre [das Beredete], ovvero il chiamato [das Angerufene,

    “appellato”]? Manifestamente l’Esserci stesso. Questa risposta è tanto

    incontestabile quanto indeterminata. Se la chiamata avesse uno

    bersaglio (Ziel, “scopo”, “obiettivo”) così vago, non sarebbe per

    l’Esserci che un’occasione per far attenzione a sé. Ma l’Esserci è tale

    nella sua essenza che esso, con l’apertura del suo mondo, è dischiuso

    (erschlossen) a se stesso, cosicché già da sempre si comprende. La

    chiamata colpisce (trifft) l’Esserci in questa suo quotidiano-medio già-

    sempre-comprendersi prendente cura. Dalla chiamata viene colpito il

    Si-stesso del con-essere con gli altri prendente cura. [3] A che

    (woraufhin) l’Esserci è chiamato? Al proprio sé. Non [è chiamato] a

    ciò a cui l’Esserci, nell’essere-assieme pubblico, conferisce valore, a

    ciò che esso può, di cui si prende cura, che ha afferrato [ergriffen], per

    cui si è impegnato, da cui si è lasciato coinvolgere. L’Esserci, quale

    risulta mondanamente compreso per se stesso e per gli altri, è in questo

    richiamo ignorato (übergangen, , “tralasciato”, “eluso”,

    “disdegnato”). Di ciò la chiamata rivolta al se-Stesso non prende

    minimamente atto (nimmt … das mindeste Kenntnis, “non ha la

    menoma conoscenza”). Poiché soltanto il Sé-stesso del Si- Stesso [das

    Selbst des Man-selbst] è chiamato e indotto a sentire, il Si si ritira in sé.

  • 17

    Tuttavia, il fatto che la chiamata ignori [“eluda”, “disdegni”] il Si e lo

    stato interpretativo pubblico dell’Esserci, non significa affatto che essa

    non colpisca insieme (mittrifft) anche il Si. Proprio nell’ignorare (im

    Uebergehen, “nell’eludere”, “nel disdegnare”) essa respinge nella

    insignificanza (Bedeutungslosigkeit) il Si avido di pubblica

    reputazione. Il Sé, però, deprivato (beraubt) nel richiamo [im Anruf] di

    questo rifugio e di questo nascondiglio, è condotto a se stesso per il

    tramite della chiamata [durch den Ruf].

    [4] Il Si-stesso è richiamato il Sé. Non si tratta però del Sé quale

    possibile «oggetto» di apprezzamenti o del Sé della inconsistente,

    eccitata e curiosa anatomia della propria «vita interiore», e neppure del

    Sé della del semplice stare a guardare «analitico» gli stati d’animo e i

    loro retroscena. Il richiamo del Sé-stesso nel Si-stesso non lo relega in

    sé nel senso di un’interiorità che lo separerebbe dal «mondo esterno».

    Tutto ciò, la chiamato lo salta [ueberspringt] e lo disperde, per

    richiamare unicamente il Se-stesso, il quale, nondimeno, non è mai

    altrimenti che nel modo dell’essere-nel-mondo.

    [5] Ma come dobbiamo determinare il ciò-che-viene-detto di questo

    discorso [das Geredete dieser Rede]? Che cosa ( Was) la coscienza

    morale grida (zurufen) al chiamato? A rigore, nulla. La chiamata non

    asserisce nulla, non dà alcuna informazione su eventi mondani, non ha

    nulla da raccontare. Meno che meno aspira ad inaugurare un

    «soliloquio» (»Selbstgespraech«, “colloquio tra sé e sé”) nel se-Stesso

    richiamato. Al se-Stesso richiamato non è gridato (zu-gerufen)

    «nulla»; esso è incitato [aufgerufen] a se-Stesso, cioè al suo più proprio

    poter-essere. La chiamata, secondo la sua tendenza di chiamata, non

    coinvolge il se-Stesso richiamato in una «negoziazione» (Verhandlung,

    “trattativa”), ma, quale incitamento al suo poter-essere più proprio, è un

    chiamar-dinanzi [Vor-rufen], un chiamare al «proscenio» l’Esserci

    nelle sue possibilità più proprie.

    [6] La chiamata non ha bisogno di pronuncia sonora (Verlautbarung).

    Essa nemmeno proferisce parola, ma non resta per questo oscura e

    indeterminata. La coscienza morale parla unicamente e costantemente

    nel modo del tacere. Con ciò essa non solo non perde nulla in fatto di

    percepibilità, ma costringe l’Esserci, chiamato e incitato, alla

    silenziosità di se stesso. La mancanza di una formulazione verbale di

    ciò che nella chiamata viene invocato (gerufen) non condanna il

    fenomeno alla nebulosità di una voce misteriosa, ma sta

    semplicemente a indicare che la comprensione dell’«invocato» (des

    »Gerufenen«) non può aggrapparsi all’attesa di una comunicazione o

    di qualcosa di simile.

    [7] Ciò nonostante, quel che la chiamata dischiude (erschliesst) è

    univoco, anche se essa, nel singolo esserci a seconda delle sue

    possibilità di comprensione, può andar incontro ad una diversa

    interpretazione. Al di là dell’apparente indeterminatezza del contenuto

    della chiamata, non può non esser colta la sicura traiettoria

    [Einschlagsrichtung, “direzione d’impatto”] della chiamata. La

    chiamata non ha bisogno di un primo ricercare a tastoni di colui che

  • 18

    deve esser richiamato, non abbisogna di alcun segno di riconoscimento

    che permetta di stabilire se è o no proprio lui ad essere inteso. Nella

    coscienza morale, le «illusioni» non sorgono per uno stravedere (stra-

    chiamare [Sichver-rufen]) da parte della chiamata, ma solo per il modo

    in cui la chiamata è udita, cioè per il fatto che essa, anziché essere

    compresa autenticamente, è stornata dal Si in un negoziante

    (verhandelnden) dialogo tra sé e sé e così pervertita nella sua tendenza

    di schiudimento (Erschliessungstendenz).

    [8] Occorre tener fermo: la chiamata con cui caratterizziamo la

    coscienza morale è richiamo del Si-stesso nel suo Sé; in quanto tale è

    incitamento del Sé al suo poter-esser-sé, e perciò una chiamata

    dell’Esserci di fronte alle proprie possibilità. [9] Ma potremo ottenere

    un’interpretazione ontologica adeguata della coscienza morale solo

    quando avremo posto in chiaro non soltanto chi sia il chiamato nella

    chiamata della coscienza morale, ma chi sia che chiama, in quale

    rapporto il chiamato stia col chiamante e come debba essere

    ontologicamente inteso questo «rapporto» come connessione d’essere.

    § 57 La coscienza morale come chiamata della Cura

    [1] La coscienza morale incita il se-Stesso dell’Esserci dalla sua

    dispersione nel Si. Il se-Stesso richiamato resta indeterminato e vuoto

    nel suo che-cosa (Was). L’in quanto che cosa l’Esserci, innanzi tutto e

    per lo più, comprende se stesso nell’interpretazione a partire dall’ente

    di cui si prende cura, è ignorato (uebergangen) dalla chiamata. E

    tuttavia il se-Stesso è univocamente (eindeutig) e inequivocabilmente

    (unverwechselbar) colpito. Non solo il richiamato è investito dalla

    chiamata «senza riguardo alla persona», ma il chiamante resta a sua

    volta in una vistosa indeterminatezza. Non solo esso [scil.: il

    chiamante, der Rufer] si rifiuta di rispondere alle domande concernenti

    il suo nome, il suo stato, la sua origine e il suo rango, ma il chiamante,

    benché nella chiamata non finga affatto, non concede la minima

    possibilità di rendersi familiare a una comprensione dell’Esserci

    orientata «mondanamente». Il chiamante della chiamata – ciò

    appartiene al suo carattere fenomenico – tiene assolutamente lontano

    da sé ogni «notorietà». Sottoporsi a osservazione o a discorso va contro

    il suo modo di essere. L’indeterminatezza e l’indeterminabilità che

    caratterizzano il chiamante non sono un nulla, ma un suo positivo

    contrassegno distintivo (Auszeichnung). Esse attestano che esso si

    risolve [aufgehen] unicamente nel puro e semplice «incitare a…», e

    che solo in quanto tale esso vuol essere ascoltato, e che non vuole

    chiacchiere su di sé. Non è allora il fenomeno stesso a richiedere che

    la domanda sul Chi del chiamante non abbia luogo? Certamente sì, per

    lo stare a sentire esistentivo (existentiellen Hoeren) della chiamata

    effettiva della coscienza morale (faktischen Gewissenruf); non, però,

    per l’analisi esistenziale dell’effettività (Faktizitaet) del chiamare e

    dell’esistenzialità (Existentialitaet) dello stare a sentire.

  • 19

    [2] Ma c’è in generale necessità di porre ancora espressamente la

    questione del Chi chiami? L’Esserci non porta forse con sé la risposta

    a questa domanda in modo altrettanto univoco (eindeutig) che in quella

    circa il richiamato nella chiamata? Nella coscienza morale, l’Esserci

    chiama se stesso. Questa comprensione del chiamante può essere più o

    meno viva nell’ascolto effettivo della chiamata. Ontologicamente,

    però, non è affatto sufficiente rispondere che l’Esserci è ad un tempo il

    chiamato e il chiamante. Ma allora, l’Esserci «ci» è [ist «da»], in

    quanto chiamato, non diversamente che in quanto chiamante? Funge

    forse da chiamante il più proprio poter-essere-se-Stesso?

    [3] La chiamata non è mai né progettata né preparata né volutamente

    effettuata (vollzogen) da noi stessi. «Esso» chiama, contro la nostra

    attesa e persino contro la nostra volontà. D’altra parte la chiamata

    indubbiamente (zweifellos) non viene da un altro che sia nel-mondo-

    insieme a me. La chiamata viene da (aus) me e tuttavia su (ueber) di

    me.

    [4] Questo reperto fenomenico non va destituito di senso (ist nicht

    wegzudeuten). Da esso ha infatti preso le mosse anche l’interpretazione

    della voce della coscienza morale come un potere (Macht) estraneo

    pervasivo nell’Esserci. Seguendo tale direzione interpretativa, si pone

    alla base di questo potere un possessore, o si assume esso stesso come

    persona annunciantesi (Dio). All’inverso, si tenta di respingere questa

    interpretazione del chiamante come espressione di un potere estraneo,

    e al contempo di spiegare riduzionisticamente (wegerklaeren, lett.:

    “cancellare, destituire di senso qualcosa spiegandolo”) la coscienza

    morale in generale in modo «biologico». Entrambe queste

    interpretazioni sorvolano (ueberspringen, “passano oltre”)

    precipitosamente il reperto fenomenico. Il procedere viene facilitato da

    una tacita tesi-guida, ontologicamente dogmatica: ciò che è, ossia ciò

    che, come la chiamata, è di fatto (tatsaechlich), deve essere

    semplicemente presente; ciò che non può essere oggettivamente

    dimostrato in quanto semplicemente-presente, non è affatto.

    [5] Contro questa precipitosità metodica occorre tenere ben fermo, non

    solo il reperto fenomenico come tale – cioè che la chiamata è diretta a

    me provenendo da me sopra di me –, ma anche la predelineazione

    ontologica, in ciò contenuta, del fenomeno in quanto fenomeno

    dell’Esserci. Solo la costituzione esistenziale di questo ente può offrire

    il filo conduttore per l’interpretazione del modo di essere dello «esso»

    [»Es«] che chiama.

    [6] L’analisi si qui svolta della costituzione dell’essere dell’Esserci

    mostra forse una via per rendere comprensibile ontologicamente il

    modo di essere del chiamante e quindi del chiamare? Il fatto che la

    chiamata non sia effettuata (vollzogen) esplicitamente da me, ma che

    sia «esso» a chiamare, non autorizza ancora a cercare il chiamante in

    un ente non conforme dall’Esserci. Certo, ogni volta l’Esserci esiste

    sempre effettivamente [faktisch]. Esso non è un auto-progettarsi

    sospeso per aria; bensì — determinato, grazie (durch) all’esser-gettato

    [Geworfenheit], come fatto [Faktum] dell’ente che esso è — esso

  • 20

    venne ogni volta già, e rimane costantemente, rimesso

    (ueberantwortet, “affidato”, “consegnato”) all’esistenza. Ma

    l’effettività [Faktizitaet, “fatticità”] dell’Esserci si distingue

    essenzialmente dalla fattualità [Tatsaechlichkeit] di un semplicemente-

    presente. L’Esserci esistente non va incontro (begegnet) ad esso stesso

    come ad un qualcosa di semplicemente presente nel mondo. Né, però,

    l’esser-gettato (Geworfenheit) inerisce all’Esserci come carattere

    inaccessibile e irrilevante per la sua esistenza. In quanto gettato, esso è

    gettato nell’esistenza. Esso esiste come ente che ha da essere così come

    è, e come può essere.

    [7] Che (Dass) l’Esserci effettivamente sia, può anche esser nascosto

    (verborgen) quanto al suo perché; il «che» stesso (das »Dass« selbst),

    però, è dischiuso (erschlossen) all’Esserci. L’esser-gettato dell’ente

    appartiene alla schiusura del «Ci» [Erschlossenheit des »Da«] e si

    rivela (enthuellt sich) costantemente nel rispettivo esser-

    emotivamente-situato (Befindlichkeit). Questo [scil: l’esser-

    emotivamente-situato] porta l’Esserci, in modo più o meno esplicito e

    autentico, davanti al suo «che è [dass es ist] e che, in quanto è l’ente

    che è, ha da essere potendo essere». Ma per lo più la tonalità emotiva

    (Stimmung) chiude [verschliesst] l’esser-gettato. Davanti a questo

    esser-gettato, l’Esserci si rifugia nell’alleggerimento della presunta

    libertà del Si-stesso. Abbiamo definito tale fuga come fuga dinanzi allo

    spaesamento (Unheimlichkeit) che determina fondamentalmente

    l’essere-nel-mondo singolarizzato. Lo spaesamento si rivela (enthuellt

    sich) autenticamente nella situazione emotiva fondamentale

    dell’angoscia e, in quanto schiusura più elementare dell’Esserci

    gettato, pone il suo essere-nel-mondo davanti al nulla del mondo; di

    fronte a questo nulla l’Esserci si angoscia nell’angoscia per il più

    proprio poter-essere. E se il chiamante della chiamata della coscienza

    morale fosse l’Esserci nel profondo del suo sentirsi emotivamente

    spaesato?

    [8] Contro di ciò non parla nulla; in suo favore parlano invece tutti i

    fenomeni che sono stati fin qui posti in rilievo per la caratterizzazione

    del chiamante e del suo chiamare.

    [9] Il chiamante, nel suo Chi (Wer), non è «mondanamente»

    determinabile mediante nulla. Esso è l’Esserci nel suo spaesamento,

    l’originario gettato essere-nel-mondo in quanto non-essere-a-casa-

    propria, il nudo «che» (»Dass«) nel nulla del mondo. Al Si-stesso

    quotidiano, il chiamante non è familiare — qualcosa come una voce

    estranea. Che mai vi può essere di più estraneo al Si, perduto nel

    variegato «mondo» di cui si prende cura, del se-Stesso isolato nel suo

    spaesamento e gettato nel nulla? «Esso» chiama, e tuttavia non dice

    nulla di udibile da un orecchio immerso nelle cure e curioso, nulla che

    possa passare indifferentemente da orecchio a orecchio ed essere

    pubblicamente chiacchierato. Che può mai avere da raccontare

    l’Esserci dallo spaesamento del suo essere-gettato? Che cosa (Was) gli

    rimane d’altro, infatti, all’infuori di quel poter-essere di se stesso

  • 21

    svelato nell’angoscia? Come potrebbe chiamare altrimenti se non

    incitando a questo poter-essere di cui ad esso unicamente importa?

    [10] La chiamata non racconta storie e chiama anche senza

    verbalizzazione sonora. La chiamata parla nel modo spaesante del

    tacere. E ciò perché la chiamata non chiama il richiamato alle

    chiacchiere pubbliche del Si, ma lo chiama indietro da queste al

    silenzio del poter-essere esistente. Ed in che cosa si fonda la spaesante,

    «disabituale» e fredda sicurezza con cui il chiamante colpisce il

    chiamato, se non nel fatto che l’Esserci singolarizzato su di sé nel suo

    spaesamento è per esso stesso assolutamente inconfondibile? Che cosa

    sottrae all’Esserci in modo tanto radicale la possibilità di rifugiarsi

    nell’equivoco, fraintendendosi e disconoscendosi, se non lo stato di

    abbandono nell’esser affidato (die Verlassenheit in der

    Ueberlassenheit) ad esso stesso?

    [11] Lo spaesamento è il modo fondamentale, anche se

    quotidianamente coperto, dell’essere-nel-mondo. L’Esserci stesso,

    come coscienza morale, chiama dal fondo di questo suo essere. «Mi

    chiama» è una discorso eminente dell’Esserci. La chiamata,

    emotivamente pervasa di angoscia, fa sì che l’Esserci possa progettarsi

    nel suo poter-essere più proprio. La chiamata della coscienza morale,

    compresa esistenzialmente, annuncia ciò che prima abbiamo

    semplicemente asseverato: lo spaesamento incalza l’Esserci e minaccia

    il suo oblio nella perdizione.

    [12] L’affermazione che l’Esserci è ad un tempo il chiamante e il

    chiamato ha perso ora la sua formale vuotezza ed ovvietà. La coscienza

    morale si rivela come chiamata della Cura: il chiamante è l’Esserci

    che, nell’esser-gettato (esser-già-in…), si angoscia per il suo poter-

    essere. Il richiamato è questo Esserci stesso, incitato al suo più proprio

    poter-essere (esser-avanti-a-sé). E incitato è l’Esserci mediante il

    richiamo dalla deiezione nel Si (esser-già-presso-il mondo di cui ci si

    prende cura). La chiamata della coscienza morale, cioè la coscienza

    morale stessa, trova la sua possibilità ontologica nel fatto che l’Esserci,

    nel fondamento del suo essere, è Cura.

    [13] Non c’è quindi bisogno di prender rifugio in potenze non conformi

    all’esserci, tanto più che il regresso verso di esse illumina tanto poco

    lo spaesamento della chiamata, che esso piuttosto lo annienta. La

    ragione di fuorvianti «spiegazioni» della coscienza morale non starà in

    fondo nel fatto che, già nella fissazione del reperto fenomenico della

    chiamata, lo sguardo è stato troppo limitato e l’Esserci è stato

    tacitamente presupposto in una casuale determinazione o

    indeterminazione ontologica? Perché cercare una via d’uscita in

    potenze estranee prima di assicurarsi che, nell’impostazione

    dell’analisi, l’essere dell’Esserci non sia stato sottovalutato,

    concependolo come innocuo soggetto (Subjekt), in qualche modo

    presente, dotato di coscienza (Bewusstsein) personale?

    [14] Eppure sembra che l’interpretazione del chiamante – che dal punto

    di vista mondano è «nessuno» – come una potenza riposi sul

    riconoscimento non prevenuto della sussistenza di qualcosa di

  • 22

    «oggettivamente rinvenibile». Ma, a ben guardare, questa

    interpretazione è null’altro che una fuga davanti alla coscienza morale,

    una scappatoia dell’esserci, con la quale esso se la svigna passando per

    la sottile parete che, per così dire, separa il Si dallo spaesamento del

    proprio essere. Tale interpretazione della coscienza morale suole anche

    spacciarsi come riconoscimento della chiamata nel senso di una voce

    obbligante in modo generale e non «semplicemente soggettivo».

    Ancor di più: questa coscienza morale «generale» è elevata a

    «coscienza morale universale» (Weltgewissen) , la quale, per il suo

    carattere fenomenico, è un «esso», un «nessuno», che dunque parla,

    come questo indeterminato, nel singolo «soggetto».

    [15] Ma questa «coscienza morale pubblica» che altro è se non la voce

    del Si? Alla dubbia invenzione di una «coscienza morale universale»

    l’esserci può arrivarci solo perché la coscienza morale, nel suo

    fondamento e nella sua essenza, è ogni volta mia. E ciò non solo nel

    senso che è ogni volta il poter-essere più proprio a essere richiamato,

    ma anche perché la chiamata proviene dall’ente che io stesso di volta

    in volta sono.

    [16] Nella nostra interpretazione del chiamante, fondata

    esclusivamente sul carattere fenomenico del chiamare, la «potenza»

    della coscienza morale non è né sminuita né resa «semplicemente

    soggettiva». All’opposto, solo in essa hanno via libera l’inesorabilità e

    l’inequivocabilità della chiamata. L’«oggettività» del richiamo trae la

    sua legittimità soltanto nella misura in cui l’interpretazione lasci ad

    esso la sua «soggettività», la quale però rifiuta il predominio del Si-

    stesso.

    [17] Contro questa interpretazione della coscienza morale come

    chiamata della Cura si potrebbero tuttavia sollevare le seguenti

    obiezioni: che fondamento può avere un’interpretazione della

    coscienza morale così lontana dall’«esperienza naturale»? In qual

    modo la coscienza morale potrà fungere da incitamento al più proprio

    poter-essere quando essa, innanzi tutto e per lo più, non fa che

    rimproverare e ammonire? La coscienza morale parla in modo così

    indeterminato e vuoto di un poter-essere più proprio dell’Esserci, o

    piuttosto parla in modo ben determinato e concreto degli errori e delle

    omissioni che hanno già avuto luogo o che si intendevano commettere?

    Il richiamo che abbiamo stabilito proviene dalla «cattiva» coscienza

    morale o dalla «buona»? La coscienza morale fornisce qualcosa di

    positivo o svolge una funzione esclusivamente critica?

    [18] La legittimità di queste perplessità è incontestabile. Da

    un’interpretazione della coscienza morale si può esigere che «si»

    riconosca in essa il fenomeno così com’esso è esperito

    quotidianamente. Ma soddisfare tale esigenza non significa

    riconoscere la comprensione ontica ordinaria della coscienza morale

    quale istanza prima dell’interpretazione ontologica. D’altra parte le

    obiezioni suddette risultano premature nella misura in cui l’analisi

    della coscienza morale da esse presa di mira non è stata ancora portata

    a termine. Finora abbiamo semplicemente tentato di ricondurre la

  • 23

    coscienza morale, in quanto fenomeno dell’Esserci, alla costituzione

    ontologica di questo ente. E ciò in vista del compito di render

    comprensibile la coscienza morale come un’attestazione nell’Esserci

    stesso del suo poter-essere più proprio.

    [19] Ciò che la coscienza morale attesta giunge a piena determinazione

    soltanto se è stato delimitato con sufficiente chiarezza quale carattere

    debba avere l’ascoltare che corrisponde in modo genuino al chiamare.

    La comprensione autentica, «conseguente» alla chiamata, non è una

    semplice appendice del fenomeno della coscienza morale, un evento

    che accade e potrebbe anche mancare. L’esperienza vissuta della

    coscienza morale si può cogliere nella sua pienezza soltanto a partire

    dalla comprensione del richiamo e assieme ad essa. Se il chiamante e

    il richiamato sono ogni volta il medesimo Esserci proprio, ne consegue

    che in ogni non-sentire-ascoltando (Ueberhoeren) la chiamata, in ogni

    fraintendersi, è insito un determinato modo di essere dell’Esserci. Una

    chiamata a vuoto a cui «non segue nulla» è una finzione inconcepibile

    da un punto di vista esistenziale. «Che non segue nulla» significa

    qualcosa di conformemente all’esserci positivo.

    [20] Così, allora, soltanto l’analisi della comprensione del richiamo è

    in grado di condurre all’esplicito chiarimento di ciò che la chiamata dà

    ad intendere. Ma solo muovendo dalla precedente caratterizzazione

    ontologico-universale della coscienza morale, è possibile capire

    esistenzialmente quel «colpevole!» evocato nella coscienza morale.

    Tutte le esperienze e le interpretazioni della coscienza morale sono

    concordi nel riconoscere che la «voce» della coscienza morale parla in

    qualche modo di «colpa».

    § 58 Comprensione del richiamo (Anrufverstehen) e colpa

    [1] Per cogliere fenomenicamente ciò che è udito (das Gehoerte) nella

    comprensione del richiamo (Anrufverstehen), bisogna tornare di nuovo

    al richiamo (Anruf). Richiamare il Si-stesso significa incitare il se-

    Stesso più proprio al suo poter-essere, e precisamente in quanto

    Esserci, cioè in quanto essere-nel-mondo prendente cura e con-essere

    con gli altri. L’interpretazione esistenziale di ciò a cui la chiamata

    incita, se si comprende rettamente nelle sue possibilità metodiche e nei

    suoi compiti, non può quindi pretendere di delimitare alcuna singola e

    concreta possibilità dell’esistenza. Ciò che può e vuole essere fissato,

    non è il di volta in volta esistentivamente evocato (Gerufene) nel

    rispettivo Esserci, ma ciò che appartiene alla condizione esistenziale

    di possibilità del poter-essere di volta in volta effettivo-esistentivo.

    [2] La comprensione esistentivamente-udente della chiamata è tanto

    più autentica quanto più incondizionatamente l’Esserci ode e

    comprende il suo esser-richiamato e quanto meno il senso della

    chiamata è pervertito da ciò che si dice, si sente dire e si ritiene valido.

    Ma qual è l’elemento costitutivo essenziale dell’autenticità della

  • 24

    comprensione del richiamo? Che cos’è ciò che è dato essenzialmente

    ad intendere di volta in volta nella chiamata, anche se non sempre è

    effettivamente compreso?

    [3] Abbiamo già risposto a questa domanda con la tesi: la chiamata non

    «dice» nulla di cui si possa discorrere; non dà notizia di eventi

    mondani. La chiamata pone l’Esserci innanzi al suo poter-essere, e ciò

    in quanto chiamata che viene dallo spaesamento. Il chiamante è

    certamente indeterminato, ma il da-dove esso chiama non è

    indifferente per il chiamare. Questo da-dove – lo spaesamento

    dell’esser-gettato nell’isolamento – è «evocato» assieme al chiamare,

    cioè è dischiuso insieme ad esso. Il da-dove viene la chiamata

    chiamando-innanzi-a (Vorrufen auf…) coincide con il verso-dove del

    richiamo che chiama indietro (des Zurueckrufens). La chiamata non dà

    ad intendere un poter-essere ideale e universale: essa dischiude il poter-

    essere come il poter-essere ogni volta individuato d’un rispettivo

    Esserci. Il carattere di apertura della chiamata è determinato

    pienamente solo se è inteso come richiamo-indietro chiamante-innanzi

    (vorrufenden Rueckruf) . È a partire dalla chiamata così intesa che

    diviene possibile chiedersi che-cosa (Was) essa dia ad intendere.

    [4] Ma la risposta alla domanda circa che-cosa la chiamata dice non

    potrà forse essere data più facilmente e sicuramente col «semplice»

    rinvio a ciò che è in genere udito (gehoert) o non-udito-ascoltando

    (ueberhoert) in tutte le esperienze comuni della coscienza morale? E

    cioè che la chiamata appella l’Esserci come «colpevole!», oppure,

    come accade nella coscienza morale ammonente, rinvia ad un possibile

    esser-«colpevole», o ancora, come accade nella «buona» coscienza

    morale, che essa conferma una «consapevolezza di mancanza di

    colpa»? Se almeno quel «colpevole!» che è «concordemente»

    (uebereinstimmend) riscontrato nelle esperienze e nelle interpretazioni

    della coscienza morale non fosse determinato in modi così nettamente

    contrastanti! Ma anche se il senso di questo «colpevole!» si potesse

    determinare univocamente (einstimmig), il concetto esistenziale di

    questo esser-colpevole continuerebbe a restare oscuro. Se tuttavia

    l’Esserci appella se stesso come «colpevole!», da dove potremo

    ricavare l’idea di colpa se non dall’interpretazione dell’essere

    dell’Esserci? Ma allora rinasce il problema: chi dice come (wie) noi

    siamo colpevoli e che cosa (was) significa colpa? L’idea di colpa non

    può certo essere escogitata arbitrariamente e poi appiccicata

    all’Esserci. Se è mai possibile una comprensione dell’essenza della

    colpa, tale possibilità dovrà essere prefigurata nell’Esserci. Dove

    troveremo la traccia che possa guidare allo svelamento del fenomeno?

    Ogni ricerca ontologica concernente fenomeni come la colpa, la

    coscienza morale, la morte deve prender le mosse da ciò che di essi

    «dice» l’interpretazione quotidiana dell’Esserci. Nel modo d’essere

    dell’Esserci deiettivo è implicito al tempo stesso che la sua

    autointerpretazione è per lo più «orientata» inautenticamente e non

    coglie l’«essenza» del fenomeno; e ciò perché le è estranea

    l’impostazione ontologica del problema originaria e adeguata.

    Tuttavia, in ogni visione manchevole è insieme svelato un rinvio

  • 25

    all’«idea» originaria del fenomeno. Ma da dove prendiamo il criterio

    per determinare il senso esistenziale originario di «colpevole!»? Dal

    fatto che questo «colpevole!» funge da predicato dell’«io sono». E se

    ciò che l’interpretazione inautentica intende come «colpa» fosse insito

    nell’essere dell’Esserci in quanto tale, e precisamente in modo che

    l’Esserci fosse colpevole in quanto esiste di volta in volta

    effettivamente?

    [5] L’evocazione (Berufung) del «colpevole!» concordemente udito

    non è perciò ancora la risposta al problema del senso esistenziale

    dell’invocato nella chiamata (im Ruf Gerufenen). Questo deve prima

    esser concettualizzato, affinché sia possibile rendere comprensibile che

    cosa significa l’evocato «colpevole!», come e perché l’interpretazione

    quotidiana ne travisa il significato.

    [6] La comprensibilità quotidiana assume l’«esser-colpevole»

    (»Schuldigsein«) innanzi tutto nel senso di «esser in debito»

    (»Schulden haben«), «avere un conto aperto con qualcuno». Si deve

    restituire un qualcosa a qualcuno che lo rivendica. Questo «esser

    colpevole» nel senso di «indebitarsi» (»schulden«) è una maniera di

    con-essere con gli altri nel quadro del prendersi cura procurando,

    producendo eccetera. Modi di tale prendersi cura sono anche il privare,

    il prendere a prestito, il defraudare, il sottrarre, il rubare, cioè il non dar

    soddisfazione in qualche modo a rivendicazioni di possesso avanzate

    da qualcuno. L’essere colpevole di questo tipo è sempre riferito a ciò

    che è oggetto possibile del prendersi cura.

    [7] Esser colpevole ha allora l’ulteriore significato di «esser colpa di»

    [»schuld sein an«, “essere responsabile di”] cioè di esser motivo, esser

    autore di qualcosa o anche «esser occasione» di qualcosa. Nel senso di

    questo «aver colpa» di qualcosa si può «esser colpevole» senza «essere

    in debito» con qualcuno o essergli debitore. Viceversa, si può esser in

    debito di qualcosa presso qualcuno senza tuttavia averne colpa [esserne

    responsabile]. Un altro può «fare debiti» presso un terzo «per me».

    [8] Questi significati ordinari dell’esser-colpevole, come l’«aver debiti

    presso» o l’«aver colpa di» [“esser responsabile di”], possono confluire

    e determinare un comportamento che chiamiamo «rendersi colpevole»

    [»sich schuldig machen«, “rendersi debitore”] cioè: essendo colpevole

    di aver-debiti, ledere un diritto e rendersi così punibile. L’esigenza che

    non viene soddisfatta, però, non è necessariamente riferita a un

    possesso, può regolare in generale l’essere-assieme pubblico. Il

    «rendersi colpevole» nella violazione in senso giuridico

    (Rechtsverletzung), quale abbiamo ora chiarito, può però assumere

    anche la forma di un «rendersi-colpevole verso altri». Ciò non accade

    in virtù della violazione come tale, ma per il fatto che è colpa mia [“è

    mia responsabilità”] se l’altro, nella sua esistenza, è messo a

    repentaglio, è indotto in errore, è rovinato. Questo rendersi-colpevole

    verso altri è possibile senza violazione della legge «pubblica». Il

    concetto formale dell’esser-colpevole nel senso dell’essersi-reso-

    colpevole verso l’altro può essere determinato così: esser-causa

    [Grundsein, “esser fondamento”, “esser ragione”, “esser motivo”] di

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    una deficienza nell’Esserci dell’altro in modo tale che questo esser-

    causa stesso si determini, muovendo dal suo per-che, come «difettivo».

    Questa difettività consiste nel non soddisfare una esigenza che

    concerne l’esistere come con-essere con gli altri.

    [9] Resterebbe da vedere come nascano queste esigenze e in qual modo

    siano da concepirsi in base a tale origine i rispettivi caratteri di esigenza

    e di legge. Comunque, l’esser-colpevole, nell’ultimo significato di

    violazione di un’«esigenza morale», è un modo di essere dell’Esserci.

    Ciò vale certamente anche per l’esser-colpevole come «rendersi

    punibile», «indebitarsi» e «aver colpa di» [“esser responsabile di”].

    Anche questi sono comportamenti dell’Esserci. Quando si concepisce

    l’«esser gravati di colpa morale» come una «qualità» dell’Esserci, si

    dice in realtà ben poco. Questa interpretazione rivela soltanto che una

    siffatta caratterizzazione non basta a definire ontologicamente questo

    genere di «determinazione d’essere» dell’Esserci rispetto ai

    comportamen