Il feedback fenomenologico: principi e pratiche di disidentificazione

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO “CARLO BO” Dipartimento di Scienze dell’Uomo Master in Counseling and coaching skills _________________________________________ IL FEEDBACK FENOMENOLOGICO PRINCIPI E PRATICHE DELLA DISIDENTIFICAZIONE NEL COUNSELING AD ORIENTAMENTO UMANISTICO-INTEGRATO Relatore: Candidato: Chiar.mo Prof. FRANCO NANETTI Dott. MATTEO ALUIGI _________________________________________ Anno Accademico 2014-2015

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO “CARLO BO”

Dipartimento di Scienze dell’Uomo Master in Counseling and coaching skills

_________________________________________

IL FEEDBACK FENOMENOLOGICO PRINCIPI E PRATICHE DELLA DISIDENTIFICAZIONE NEL

COUNSELING AD ORIENTAMENTO UMANISTICO-INTEGRATO

Relatore: Candidato: Chiar.mo Prof. FRANCO NANETTI Dott. MATTEO ALUIGI

_________________________________________

Anno Accademico 2014-2015

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Sommario

INTRODUZIONE

Il «bisogno d’identità» ............................................................................................................. 4

La necessità della disidentificazione .................................................................................... 4

Il counseling e il cambiamento come «esercizio di disidentità» .................................... 5

Il fulcro della pratica di disidentificazione: «feedback fenomenologico» ................................. 6

CAP. 1 - PRINCIPI DI DISIDENTIFICAZIONE

1.1 – Il concetto di feedback (o «retroazione»): le origini ................................................. 8

1.2 – Il feedback nella storia della psicologia ...................................................................... 9

1.3 – Il feedback nella psicologia applicata: una teoria ibrida ...................................... 10

1.4 – L’utilità del feedback in psicologia: la finestra di Johari ...................................... 12

CAP. 2 - PRATICHE DI DISIDENTIFICAZIONE

NEL COUNSELING UMANISTICO-INTEGRATO

2.1 – Il feedback come riformulazione in Carl Rogers ................................................... 14

2.2 – Il feedback come risposta e personalizzazione in Robert Carkhuff ....................... 16

2.3 – Il feedback in altre prospettive di counseling umanistico-integrato ........................... 18

CAP. 3 - IL FEEDBACK FENOMENOLOGICO

3.1 – Che cos’è il feedback fenomenologico ..................................................................... 20

3.2 – Le fasi del feedback fenomenologico ....................................................................... 22

CONCLUSIONE RIEPILOGATIVA ...................................................................................... 24

BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................................... 26

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Introduzione

IL «BISOGNO D’IDENTITÀ»

In un universo estremamente cangiante, essere nel mondo, sapere di esserci e chi si è non è affatto scontato. Come narra Italo Calvino ne Il cavaliere inesistente, nel migliore dei casi l’uomo contemporaneo è confuso circa la propria identità, al pari dello scudiero pazzo Gurdulù che «c’è ma non sa d’esserci» in quanto nella sua ingenua follia pensa di essere ciò che vede: se vede la zuppa è zuppa, se vede una rana inizia a comportarsi come tale (CALVINO, 2000). Molto più frequentemente, invece, l’uomo è portato ad avvinghiarsi ad un’identità che crede essere la propria, ma che in realtà è inconsistente perché è un prodotto prefissato – frutto di dinamiche inconsce, condizionamenti esterni o ruoli preformati –, proprio come simboleggiato dall’armatura del paladino Agilulfo che «sa d’esserci e invece non c’è» in quanto ci sono il suo devoto ossequio ai principi, la sua inflessibile volontà e la sua ferrea razionalità ma non si scorge la sua persona al di sotto e al di là delle sue corazze (ibidem).

Solitamente l’uomo si percepisce e si considera in un certo modo (che coincide o riflette in parte il modo in cui gli altri lo percepiscono e lo considerano), non perché è tale ma perché è convinto di essere tale. Sin dall’età infantile egli s’identifica con le persone (genitori, compagni, modelli, ecc…) e altri aspetti nell’ambiente che lo circondano, ereditando e sviluppando degli schemi di pensiero e di comportamento che, seguendo gli studi dello psicoanalista Erik Erikson, attorno ai vent’anni confluiscono definitivamente nel conseguimento di una determinata identità (ATKINSON & HILGARD, 2011, p. 101). Per ogni settore della sua vita l’uomo s’identifica in un’identità – magro/peso forma/grasso, amato/non amato da sé, amato/non amato dagli altri, creativo/razionale, schivo/socievole, ecc… –. D’altronde «tutti abbiamo bisogno di un’identità» o, meglio, di «una casa dove stare» quale fonte di calorosa sicurezza (NANETTI, 2009, p. 23). Costruirsi un proprio io è infatti fondamentale (persino vitale) per l’essere umano: la psicologia dinamica ci mostra che l’Io è l’istanza psichica il cui «compito è l’autoconservazione» dell’uomo attraverso una particolare organizzazione che media fra Es e mondo esterno, esercitando da un canto «il controllo sulle richieste pulsionali» interne dell’individuo e dall’altro apprendendo «a modificare (con l’attività) in modo adeguato e in vista di un proprio vantaggio il mondo esterno» (FREUD, 2009, p. 15).

Eppure nessuno ha un’identità assoluta poiché questa non esiste in realtà, ma viene costruita attraverso l’ipostatizzazione delle proprie ed altrui credenze su di sé, che soddisfano il bisogno di un radicamento. Credenze che poi guidano e definiscono le proprie esperienze in modo che queste ultime riconfermino tali credenze sulla propria identità, la quale diventa così una finzione funzionale al benessere dell’uomo – mutuando l’espressione da James Hillman, uno dei maggiori esponenti dell’interpretazione archetipica della psicologia analitica (NANETTI, 2015b, p. 15)–. Tuttavia cosa fare se tale finzione ad un certo punto non è più funzionale al proprio benessere? Cosa fare se in un dato momento l’uomo nella propria identità inizia a sentirsi (co)stretto e ad interrogarsi più in profondità circa il suo essere?

LA NECESSITÀ DELLA DISIDENTIFICAZIONE

In un universo estremamente cangiante, essere nel mondo, sapere di esserci e chi si è richiede inevitabilmente lo sforzo di cambiare e quindi di cambiarsi, andando al di là delle identità parziali, imparando a riconoscere la molteplicità e la mobilità delle maschere personali che s’indossano e dei ruoli sociali che s’interpretano. Occorre perdersi per ritrovarsi, mettere in gioco l’identità presupposta alla ricerca della propria essenza più autentica, che è il risultato di un lungo cammino dell’uomo: «anche ad essere s’impara» gradualmente (CALVINO, 2000), dato che «tutto ciò che uno possiede è, per lui che lo possiede, ben nascosto: e di tutte le miniere preziose la propria è l’ultima ad essere scavata» (NIETZSCHE, 1976). Pertanto occorre disidentificarsi per scoprire chi si è, per comprendere che l’uomo ha tante identità ma il suo

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essere non si riduce a queste, poiché «l’uomo è qualcosa che va superato» (ibidem) in quanto nella sua essenza trascende l’identificazione in un’identità.

Quando viene messo in atto il processo di disidentificazione ci si accorge che i pensieri che si hanno su di sé in realtà non ci appartengono o, meglio, ci appartengono ma non esauriscono il nostro essere.1 Si realizza che le cose che avevamo pensato di noi per anni ed anni non erano noi, ma erano solo convinzioni ricevute dall’esterno molto tempo prima. Ci s’inizia a sentire più liberi in quanto si acquista la forza di scegliere e di scegliersi: ci si spinge oltre «l’assunzione stereotipata di un ruolo o di un’immagine (‘Se mi comporto in questo modo gli altri penseranno che sono buono, bravo…’, ecc…)» e si conquista la libertà come «volontà di essere ciò che si vuole in relazione ai propri valori e ai propri obiettivi, anche quando ciò comporta timori, ansie, difficoltà e un ‘prezzo da pagare’» (NANETTI, 2008, p. 32). Ci s’inizia a sentire più autentici in quanto si smaschera il «falso io», che esige il controllo delle cose (ed induce ad identificarci col nostro fare, col nostro sentire e col nostro pensare) e si entra in «un profondo stato di riappropriazione di sé stessi», guadagnando «la consapevolezza della propria presenza», che accetta responsabilmente e lascia accadere le nostre intenzioni, le nostre emozioni e i nostri pensieri per quello che sono (NANETTI, 2010, pp. 18-9).

Dal momento in cui c’identifichiamo in una persona che pensiamo di essere e coi suoi limiti imposti ed autoimposti, la sensazione è quella di non avere scelta, se non agire e reagire nel modo in cui crediamo di essere. “È cosi! Sono fatto cosi! Sono fatto male ma devi accettarmi come sono! Non posso cambiare”. Questo è quanto siamo condizionati a pensare e questo è il grande ostacolo per la realizzazione – la realizzazione di sé – e la crescita – il divenire sé stessi –. Per contro la pedagogia moderna insegna la necessità di superare l’identificazione in un sé prefissato ed astratto, che in un universo estremamente cangiante è portato a «disintegrarsi» e a costituire una «minaccia», al fine di cogliere la propria persona come un sé funzionale e pratico volto costantemente ad un’azione di «autorealizzazione»: questo è il libero e autentico «sé aperto ad imparare» (DEWEY, 1969-1972, pp. 51-3).

Nel momento in cui ci s’inizia a disidentificare, si può essere semplicemente presenti e consapevoli quando emerge la reazione condizionata dell’identità prefissata. Attraverso la consapevolezza è possibile essere testimoni disincantati di questo processo senza esserne condizionati e quindi senza sentirsi vittime. Attraverso la disentificazione allora ci si rende conto di quanto a lungo si è rimasti intrappolati in una credenza circa il proprio modo di agire, di sentire e di pensare. Una credenza circa il proprio modo di essere, una credenza che magari portava alla frustrazione o alla sofferenza. Così per mezzo della consapevolezza non si esprime un giudizio (la consapevolezza non giudica mai) ma ci si viene a trovare in una condizione di libertà, autenticità e responsabilità a partire dalla quale comprendere che si può essere diversi dall’identità che si sta osservando e della quale in precedenza si era prigionieri. E allora, una volta che ci si rende conto che non siamo come pensavamo di essere ma molto di più, con la disidentificazione si aprono nuovi spazi all’essere, nuove e concrete possibilità per essere come si desidererebbe essere e nuove e concrete e vitali prospettive di cambiamento.

IL COUNSELING E IL CAMBIAMENTO COME «ESERCIZIO DI DISIDENTITÀ»

Secondo il modello umanistico-integrato, il counseling consiste in un «processo dialogico attivo» tra un counselor ed un cliente «che si trova in difficoltà e porta implicitamente o esplicitamente una domanda di cambiamento» e che per mezzo di questo rapporto è facilitato nel «raggiungimento di un grado di comprensione di sé sufficiente per iniziare un percorso esistenziale positivo» (TARONI, 2006, pp. 171-2; NANETTI, 2009, p. 75). In breve il counseling è la pratica del cambiamento, ossia un atto autentico di formazione e di trasformazione, di creazione di nuove forme che sono nuovi e spazi e possibilità e modi di agire, di sentire e di pensare. Nuovi modi di essere, di essere e diventare sé stessi.

1 Non si tratta di «abdicare alla maschera, ma semplicemente agirla consapevolmente anziché ipostatizzarla» e

quindi «flessibilizzarla, perché sia possibile il ritorno al proprio vero Sé» (Nanetti, 2015a, p. 31).

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Non è casuale che normalmente una persona decida di rivolgersi ad un counselor nel momento in cui si trova in una situazione di crisi (legata a specifici eventi traumatici o di perdita, all’elaborazione di conflitti o all’implementazione di risorse funzionali al proprio benessere o al rapporto con gli altri) e, quindi, in un momento della propria vita in cui è chiamata ad abbandonare dei modi di essere obsoleti e ad optare per nuove forme del proprio essere. In questa fase iniziale è importante prendere atto del disagio che il cliente sta provando, evitando di assecondarlo nel suo tentativo di trovare capri espiatori esterni e accompagnandolo nel riconoscimento che il turbamento riguarda e parla del proprio essere persona. Così si guadagna la consapevolezza che ad entrare in crisi è una maschera con la quale ci si era identificati (un proprio modo di essere) ma non la propria persona più profonda (il proprio essere). A questo punto, svelato il falso sé, è possibile iniziare una seconda fase nel processo di counseling in cui «senza imporre nulla» il counselor porta i clienti a «ri-appropriarsi di sé stessi», a fissare lo sguardo nella propria «nudità» (ora che non ci sono più maschere a camuffarla) e cogliere a partire da questa dimensione nuovi aspetti del proprio essere (bisogni, risorse, valori, ecc…) attraverso un confronto attivo costante – incentrato su un grande lavoro su di sé da parte dello stesso cliente dietro la spinta della negoziazione di obiettivi, di domande e feedback oculati da parte del counselor e di esercizi sui propri comportamenti, sulle proprie emozioni e sui propri pensieri – (NANETTI, 2015a, p. 11 e 25).2

In breve, dunque, il counseling ha sempre a che fare con la disidentificazione poiché «ogni processo di cambiamento […] si collega necessariamente a un esercizio di disidentità»: non si dà cambiamento «senza turbamento e disvelamento di sé» (NANETTI, 2009, p. 23; NANETTI, 2015a, p. 15). Nel processo comunicativo al centro dell’attività di counseling è importante cogliere le discrasie tra il linguaggio verbale e il non-verbale, le quali rivelano elementi di un’identità ulteriore al di sotto di quanto dichiarato esplicitamente con le parole. Parimenti il ricorso a pratiche quali quella del decentramento egoico è centrale per calarsi realmente nella prospettiva dell’altro e cogliere attraverso l’ascolto attivo gli impliciti comunicativi, cioè cosa egli comunica della sua persona al di là del contenuto esplicito dei suoi messaggi. Tale pratica è peraltro fondamentale anche per il superamento dei conflitti intrapsichici, ossia quegli scontri tra più pensieri e/o più sentimenti che spingono la propria persona a prendere in considerazione aspetti ancora inascoltati di un sé più ampio. Per rifuggire atteggiamenti anassertivi o aggressivi è necessario diventare consapevoli dei sistemi di convinzioni (interpretazioni e valutazioni) sottostanti il proprio modo di reagire in termini di comportamenti ed emozioni ad eventi attivanti. La strada verso l’assertività è un lavoro su questi sistemi di convinzioni, che costituiscono una sorta di filtro tra il proprio sé più profondo ed il mondo esterno e che talvolta possono essere distorti da convinzioni irrazionali e disfunzionali in determinate situazioni. E, ancora, tecniche di PNL – quali il modellamento dell’eccellenza per fare propri, mediante contaminazione, aspetti di identità altre rispetto alla propria – e strategie di Analisi Transazionale – quali l’energizzazione dell’Io Adulto del cliente mediante la sua decontaminazione dalle ingiunzioni copioniche – sono altri esempi emblematici di esercizi di disidentità, che costituiscono quindi la vera e propria pietra angolare del counseling.

IL FULCRO DELLA PRATICA DI DISIDENTIFICAZIONE: «FEEDBACK FENOMENOLOGICO»

Anche se la pratica della disidentificazione permea il processo di counseling ad ogni livello, in realtà la sua dimensione più propria si colloca nella seconda fase dell’intervento,

2 L’intero processo di counseling si potrebbe ridurre alle due fasi appena descritte, se si è disposti ad accettare

una semplificazione e una riduzione del counseling alla pratica relazionale che lo caratterizza e che si articola nella forma di una relazione a «doppio coinema» (Nanetti, 2015a, pp. 17-25). Per coinema, con riferimento allo psicoanalista Franco Fornari, s’intende «un’unità minimale di significato affettivo» e nel counseling «abbiamo da un canto l’esperienza del coinema materno, rappresentato dall’accoglienza, dall’accettazione incondizionata e dalla ricettività, dall’altro quella del coinema paterno, rappresentato dal confronto attivo, dallo svelamento, dalla riprogrammazione e dall’avvio all’azione» (ibidem).

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quella che coincide con il secondo coinema in cui il counselor è attivo nella relazione in particolar modo su tre versanti operativi: l’evidenziazione del falso io che crea disagio al cliente, il supporto nell’individuazione delle vulnerabilità che costringono il cliente a rimanere ancorato al falso io e l’accompagnamento del cliente nell’assunzione di comportamenti «alternativi», che consentano il passaggio dall’essere inautentico alla condizione dell’essere autentico (NANETTI, 2015a, p. 23).

In modo particolare, dare feedback al cliente è l’azione appositamente preposta all’esercizio della disidentità tra i vari atti posti in essere in questa fase (formulare obiettivi negoziati, lavorare sul e col cliente a partire da domande di specificazione e di laddering, fornire dei feedback, operare una ristrutturazione cognitiva ed emozionale e, infine, agire il cambiamento). Dopo che un messaggio è stato interpretato e compreso, il feedback è la risposta che il counselor dà al cliente per informarlo su qualcosa, aiutarlo a risolvere un problema o «ampliare la comprensione di sé stesso» affinché possa «togliere la maschera, infrangere modi abituali di esserci ed essere» (ivi, pp. 211-213). Pertanto, in generale, dare feedback significa dire agli altri in che modo li viviamo. L’effetto importante di quest’operazione riguarda la possibilità di comprendere, da parte di chi ha emesso un certo messaggio, se e come questo messaggio sia stato recepito dal ricevente (WEGELA, 2011, pp. 157-8).3 Tramite questa risposta il cliente può osservarsi e raggiungere un ampliamento di coscienza su di sé, sulla propria maschera e sul proprio mondo interiore ed iniziare gradualmente a svelarsi, aprendosi a nuovi aspetti del proprio essere più autentico.

In vista di tale fine, esiste un numero variegato di tipologie di feedback alle quali ricorrere in ossequio al tipo di cliente con cui si lavora. Eppure nel counseling ad orientamento umanistico-integrato il minimo comune denominatore tra le varie modalità di risposta efficace è la forma espressiva ed euristica con cui il counselor riflette l’immagine del cliente a lui stesso: il «feedback fenomenologico o di autentica rivelazione» (NANETTI, 2010, pp. 43-6). Questo è il vero e proprio fulcro della pratica della disidentificazione e consiste in una modalità di risposta «centrata sull’autorivelazione nell’autenticità e nella verità di sé stessi, allo scopo di aiutarsi e aiutare l’interlocutore a diventare più consapevole delle proprie emozioni, dei propri bisogni e del proprio modo di relazionarsi» e di essere (NANETTI, 2015a, p. 76). In questo caso la restituzione si basa su riferimenti osservativi-percettivo-comportamentali relativi all’espressione verbale e non verbale del cliente, senza alcuna valutazione di giudizio. La restituzione viene impreziosita dall’esperienza soggettiva sensoriale e immaginativa del counselor: in questo modo è anche il sé del counselor nella sua essenza che si svela all’altro, «al fine di aiutare l’altro a svelarsi a sé stesso» (ivi, p. 24). Sollecitato da questo tipo di feedback, il cliente è portato a guardarsi da fuori senza giudizio e senza sentirsi inadeguato o sbagliato e questa possibilità fa sì che aumenti la consapevolezza di sé e la propria auto-accettazione, che ci si percepisca più chiaramente così come si è e quindi, in ultima istanza, che si scelga di cambiare e di agire un cambiamento.

3 Si tratta di un compito difficilissimo. Spesso i nostri feedback tradiscono il desiderio di far cambiare l’altra

persona per sentirci più tranquilli. Così facendo, anziché essere uno specchio del comportamento altrui, pianifichiamo segretamente di adattare l’altra persona all’immagine che abbiamo creato. Seppur inconsapevolmente, quindi, lo stesso feedback è spesso un modo per sostenere e difendere i propri pensieri, il proprio ego, il proprio essere (Wegela, 2011, pp. 157-8).

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Cap. 1 – Principi di disidentificazione

1.1 – IL CONCETTO DI FEEDBACK (O «RETROAZIONE»): LE ORIGINI

Il concetto di feedback ha origine nei campi dell’ingegneria elettronica e della cibernetica (CLAIBORN & GOODYEAR, 2005). Nella fattispecie, in cibernetica,4 il feedback denota il processo per cui l’effetto risultante dall’azione di un sistema (un meccanismo, un circuito, un organismo, ecc…) si riflette sul sistema stesso per variarne o correggerne opportunamente il funzionamento. L’output di un sistema “P” non si limita ad influenzare l’ambiente “R” (P → R) ma rientra nel sistema “P” (P ↔ R); nell’istante successivo, insieme agli altri input, muove il sistema ad operare un confronto interno tra l’output ed il proprio scopo, così che possa correggere la sua azione (ASHBY, 1957, p. 53).

A partire da questa definizione, analizzando il meccanismo di feedback o retroazione, già i primi studi hanno evidenziato l’esistenza di un feedback negativo e di un feedback positivo. Il feedback negativo aiuta a mantenere la stabilità di un sistema contrastando i cambiamenti dell’ambiente esterno (o, meglio, diminuendo la deviazione all’uscita), mentre il feedback positivo amplifica le possibilità di divergenza (o, meglio, aumenta la deviazione all’uscita) per raggiungere nuovi livelli di equilibrio (ivi, pp. 80-81). Watzlawick ha sottolineato che, attraverso il concetto di feedback e la sua declinazione in positivo e negativo, la cibernetica ha così individuato il vero e proprio segreto dell’attività naturale:

Finché la scienza si è interessata allo studio dei rapporti lineari, unidirezionali e progressivi di causa-effetto, molti fenomeni di estrema importanza sono stati esclusi dall’immenso territorio che la scienza ha conquistato negli ultimi quattro secoli. Semplificando molto, si può asserire che tali fenomeni hanno il loro comune denominatore nei concetti affini di crescita e cambiamento […]. L’avvento della cibernetica ha cambiato tutti questi schemi […]. La scoperta della retroazione ha reso possibile questo nuovo modo di vedere le cose. Una catena in cui l’evento a produce l’evento b, e poi b produce c, e c a sua volta causa d, ecc…, può sembrare che abbia le proprietà di un sistema lineare deterministico. Ma se d riconduce ad a, il sistema è circolare e funziona in un modo completamente diverso [e permette di rendere conto di fenomeni non esplicabili secondo un rigoroso determinismo lineare]. La retroazione può essere positiva o negativa; [la] retroazione negativa caratterizza l’omeostasi (stato stazionario) e gioca quindi un ruolo importante nel far raggiungere e mantenere la stabilità delle relazioni. La retroazione positiva provoca invece un cambiamento, cioè la perdita di stabilità o equilibrio. In entrambi i casi, parte dei dati di uscita sono reintrodotti nel sistema come informazione circa l’uscita stessa [e si apre così la strada ad un nuovo paradigma concettuale incentrato su organismi che si autoregolano ed hanno la possibilità concreta di crescere e cambiare]. È senz’altro corretto essersi riferiti alla retroazione come al segreto dell’attività naturale [e ritenere che] i sistemi con autoregolazione – i sistemi a retroazione – impongono una loro filosofia in cui i concetti di modello e di informazione sono fondamentali come lo erano quelli di materia e di energia all’inizio del secolo (WATZLAWICK, 1977, pp. 23-25).

Ricapitolando, fin dalle sue origini il concetto di feedback indica il ritorno verso l’emittente di un pacchetto d’informazione relativo allo stato del ricevente, dopo che ha ascoltato il messaggio dell’emittente, in modo da influenzare lo stato o l’azione seguente di quest’ultimo.

4 La cibernetica nasce attorno al 1944 dall’incontro tra John von Neumann (che studiava i rapporti tra

matematica, logica, sistema nervoso e computer) e Norbert Wiener (che stava elaborando una teoria sui problemi del controllo e della comunicazione in grado di studiare i sistemi auto-regolatori). La cibernetica (dal greco kybernetiké, ossia «arte di pilotare», «governare una nave» e quindi «l’arte del timoniere») studia «gli organismi, sia macchine sia animali, che operano sulla base di retroazione (feedback), mirano al raggiungimento di obiettivi e autoregolano le proprie prestazioni sulla base degli effetti che le azione compiute hanno sull’ambiente» (Taroni, 2006, p. 212).

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Figura 1: il modello SMCR di Berlo (1960). Spiega i processi comunicativi analizzando i principali elementi che li caratterizzano: emittente (codifica del

messaggio), messaggio/canale, ricevente (decodifica del messaggio e feedback). Esempi di feedback più frequenti nella comunicazione quotidiana sono il ritiro, il giudizio, l'interpretazione, la domanda, la rassicurazione e la parafrasi.

Il feedback è quindi un segnale comunicativo all’interno di un sistema ciclico con autoregolazione, il quale proprio in virtù della retroazione è tale ed è caratterizzato da elementi (Figura 1) passibili di cambiamento, di crescita e di trasformazione.

Se correttamente trasmessa indietro, l’informazione garantisce la stabilità dell’emittente o l’adattamento ad un cambiamento. Pertanto la retroazione è il segreto dell’attività naturale perché permette di rendere conto di fenomeni quali la crescita e il cambiamento inserendo semplicemente gli organismi in uno stretto rapporto comunicativo (ossia relativo ad un continuo scambio d’informazioni) col proprio ambiente, senza ricorrere necessariamente ai concetti di energia, di processi intrapsichici o a forme di vitalismo che guidano in modo più o meno deterministico i sistemi in generale e gli individui in particolare verso un risultato finale.

1.2 – IL FEEDBACK NELLA STORIA DELLA PSICOLOGIA

In ambito psicologico, un concetto simile a quello di feedback venne formulato già nei primi decenni del Novecento da Edward L. Thorndike attraverso l’elaborazione della legge dell’effetto (KLUGER & DENISI, 1996). Lo psicologo statunitense sviluppò una serie di ricerche sperimentali per sostenere una teoria associazionistica dell’apprendimento, inteso come processo di formazione di regolarità comportamentali mediante l’associazione di stimoli e reazioni. In questo contesto ritenne che l’apprendimento, rispondendo «allo schema per ‘prove ed errori’ (trial and error learning)», sia imperniata su alcune leggi fondamentali quali la legge dell’effetto, «in base alla quale gli esseri viventi selezionano e consolidano le azioni che provano soddisfazione», e la legge dell’esercizio, «secondo cui l’apprendimento migliora con la ripetizione delle prove» (TARONI, 2006, p. 57). Così veniva messa a punto per la prima volta in ambito psicologico una nozione simile a quella di feedback, la legge dell’effetto per cui lo stabilizzarsi e il rafforzarsi di legami associativi tra stimolo e risposta e, quindi, il comportamento dell’uomo che apprende si basa sugli effetti della risposta.5

Eppure solo in tempi piuttosto recenti ciò che viene più propriamente definito feedback entra nel mondo della psicologia, mutuato dai campi dell’ingegneria elettronica e della cibernetica da parte di psicologi quali Kurt Lewin e Gregory Bateson per spiegare il comportamento umano nelle interazioni (CLAIBORN & GOODYEAR, 2005). Inizialmente fu Lewin ad utilizzare tale nozione in un programma di formazione alle relazioni umane in

5 Essendo incentrate sul meccanismo stimolo-risposta, le leggi dell’apprendimento di Thorndike furono riprese

dal comportamentismo, per il quale la modificazione del comportamento – definito come «l’insieme delle risposte […] che l’individuo dà agli stimoli ricevuti dall’ambiente» – avviene tramite un’associazione continua di stimoli e risposte promosse da sistemi di feedback quali il rinforzo (Taroni, 2006, p. 80).

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piccoli gruppi, i cosiddetti T-group.6 Lo psicologo gestaltista sostenne che il comportamento è funzione della persona e della situazione prese insieme e che nei gruppi la situazione è costituita anzitutto dal comportamento degli altri membri. Di conseguenza «concepì l’impatto del comportamento degli altri [sull’individuo] come il feedback» ed il significato che diede al lemma è stato generalmente accettato nell’ambito dei lavori di gruppo ed in molte altre aree della psicologia applicata (CLAIBORN ET AL., 2001).

Ancora oggi il concetto di feedback è centrale e denso d’implicazioni sempre nuove in seno a molte correnti psicologiche. A titolo emblematico si pensi al cognitivismo che, sulla base dei risultati dell’informatica e «soprattutto attraverso un’originale interpretazione del concetto di ‘retro-azione’ (feed-back) applicato al comportamento umano», spiegano quest’ultimo (in opposizione rispetto al modello dei comportamentisti) come «il risultato di un processo di continua verifica retroattiva (a feedback) del ‘piano’ di comportamento, secondo l’unità TOTE (test-operate-test-exit): l’atto finale (exit) non è semplicemente la risposta a uno stimolo, bensì il risultato di precedenti operazioni di verifica (test) delle condizioni ambientali, di esecuzioni (operate) intermedie e di nuove verifiche (test)» (TARONI, 2006, p. 222). In questo contesto si evidenzia che il feedback è l’unità fondamentale anche delle azioni più semplici: se voglio appendere un quadro, devo verificare la solidità del muro in cui intendo piantare il chiodo (test), sulla base del feedback ricevuto posso proseguire o meno a piantare il chiodo (operate), per poi eseguire un’altra verifica (test) per vedere se il chiodo è piantato bene ed infine, di nuovo a partire dal feedback ricevuto, posso terminare o meno l’operazione appendendo il quadro (exit). In breve, il feedback è il cuore dell’unità TOTE in quanto costituisce la risposta attiva alle continue verifiche (test) tra i risultati ottenuti con le operazioni svolte: se il risultato ottenuto è valido, allora si ha l’apprendimento ed un suo consolidamento (feedback positivo) mentre, diversamente, il risultato non viene appreso (feedback negativo).7

Ricapitolando, la legge dell’effetto di Thorndike, il concetto di feedback nei T-group di Lewin e quello alla base dell’unità TOTE del cognitivismo esprimono in ambito psicologico le prime teorizzazioni del concetto di retroazione e ne sondano le implicazioni per quanto concerne la teoria dell’apprendimento, della crescita personale. Sono tutti esempi rappresentativi di come i comportamenti e/o le capacità cognitive possano essere sviluppati e/o appresi attraverso «un ciclo di feedback tra a) gli obiettivi, b) la scelta dei mezzi utilizzati per raggiungere questi obiettivi e c) i criteri di valutazione dei progressi compiuti in direzione degli obiettivi» (DILTS, 2004, p. 115). In ultima istanza evidenziano dunque che la crescita e il cambiamento dell’uomo passano inevitabilmente per un processo di apprendimento in cui il feedback è necessario per maturare nuove strategie d’azione e di pensiero, forme inusitate di fare e di pensare, nonché di essere al di là delle proprie identificazioni in forme identitarie precedenti.

1.3 – IL FEEDBACK NELLA PSICOLOGIA APPLICATA: UNA TEORIA IBRIDA

Il concetto di feedback è onnipresente nel campo della psicologia applicata e, nonostante non sia attualmente ricompreso entro un quadro concettuale unico ed unitario, è comunque possibile sottolineare degli elementi che costituiscono una sorta di teoria ibrida (di stampo

6 Training Group (o T-Group) è un’espressione che indica genericamente un gruppo di addestramento e venne

introdotta nel 1946 da Lewin per definire un programma di formazione alle relazioni umane. I T group normalmente sono composti da sei o dodici persone con uno o più trainer. Attraverso una riflessione e discussione sistematica sulle interazioni molteplici che si formano tra i partecipanti, ci si prefigge lo scopo di giungere a una migliore comprensione dei rapporti interpersonali nel senso di una maggiore conoscenza di sé, una maggiore sensibilità ai problemi degli altri, una migliore capacità di apprendere dalla propria esperienza e di acquisire un comportamento più adeguato nel gruppo.

7 Va sottolineata che il feedback in gioco nell’unità TOTE differisce dal feedback come rinforzo del comportamentismo in maniera sostanziale: «(1) un feedback di rinforzo può consolidare qualcosa, mentre nel TOTE ha fini di confronto e verifica; (2) il feedback di rinforzo viene considerato uno stimolo (per esempio, un pezzo di cibo), mentre nel TOTE può essere uno stimolo, informazione (per esempio, conoscenza dei risultati) o controllo (per esempio, istruzioni) e (3) il feedback di rinforzo viene di solito considerato utile, o ‘riduttore di pulsione’, per l’organismo, mentre nel TOTE non ha tale valore» (Miller et al., 1978, p. 46).

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cognitivista) relativamente ai possibili interventi di feedback. Kluger e DeNisi (1996) hanno realizzato una meta-analisi di un numero elevatissimo di studi in cui sono analizzati interventi di feedback sulle performance comparati con altri tipi di intervento o casi in cui non vi è alcun intervento. Sulla base di quest’indagine hanno individuato una teoria di feedback intervention (FI) incentrata su cinque assunti fondamentali per costruire un feedback efficace:

(a) Il comportamento è regolato mediante raffronti di feedback rispetto a degli obiettivi o a degli standard, (b) gli obiettivi e gli standard sono organizzati gerarchicamente, (c) l’attenzione umana è limitata e pertanto influiscono attivamente nel comportamento solo quelle lacune tra il feedback e l’obiettivo o lo standard sulle quali ricade l’attenzione, (d) l’attenzione è normalmente diretta verso un livello medio nella gerarchia degli obiettivi e degli standard e (e) gli interventi di feedback trasformano il locus in cui è focalizzata l’attenzione e perciò influenzano il comportamento (ibidem).

Sulla base di queste assunzioni, affinché una persona possa cambiare e agire il cambiamento mediante un nuovo comportamento, è necessario che vi sia un impegno a raggiungere determinati obiettivi/standard e allo stesso tempo la consapevolezza della discrepanza tra uno stato desiderato e lo stato attuale in cui ci si trova (a). Per creare impegno e consapevolezza circa un obiettivo/standard è necessario che questo sia desiderabile (aspetto legato alla motivazione) e potenzialmente raggiungibile (aspetto legato alla volizione); per capire quanto si è distanti dalla sua realizzazione, invece, è consigliabile sfruttare degli interventi di feedback, coi quali il terapeuta o il cliente stesso regolano il grado di attenzione o consapevolezza circa la discrepanza tra lo stato attuale e quello desiderato (c). Tale discrepanza può essere minima o molto ampia e dare luce rispettivamente a feedback positivi o negativi.8 In quest’ultimo caso le persone tendono a reagire diversamente per ridurre la discrepanza: rifuggendo mentalmente o fisicamente dalla situazione, cambiando i propri obiettivi/standard così che collimino con il

8 Qui si parla di feedback negativi o positivi in quanto negativo o positivo può essere il giudizio di una

performance rispetto al raggiungimento di un obiettivo. Non ci si riferisce dunque al concetto di feedback negativo o positivo in relazione alla minore o maggiore deviazione all’uscita di cui supra.

Figura 2: schema generale della teoria sugli interventi di feedback (FI). Un cambiamento del proprio comportamento (performance) è una risposta in un determinato ambiente a dei segnali di feedback (FI cues), che inducono a focalizzare la propria attenzione su diversi livelli della propria persona. Se tali

livelli vengono disposti in un ordine gerarchico, per quanto tale operazione possa essere arbitraria, il livello dell’identità (self) è nel gradino più alto: un cambiamento profondo ed autentico inevitabilmente chiama in causa questa sfera direttamente (per es. mettendo alla prova la propria autostima) o indirettamente (per es. intaccando il

proprio sistema cognitivo o la propria affettività).

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feedback attuale o, infine, cambiando il proprio comportamento per modificare il feedback futuro. In tal caso la persona che vuole modificare il proprio comportamento per via del feedback negativo è chiamata ad individuare quale piano del suo essere è intaccato dalla risposta e quindi quale livello gerarchico riguardano gli obiettivi/standard che si è prefissata (b e d). Le attività necessarie per realizzare obiettivi/standard attraverso una performance – intesa come risposta comportamentale in un particolare ambiente – possono essere disposte lungo tre livelli gerarchici interdipendenti: prestazioni d’attività che hanno ripercussioni meta-processuali (incidendo sulla percezione di sé, del proprio ruolo e della propria mission) investono il livello dell’identità (self), il chi siamo; prestazioni d’attività che coinvolgono processi motivazionali (incidendo sui propri valori e sulle proprie convinzioni) implicano cambiamenti a livello dei compiti fondamentali (focal task), il perché facciamo quel che facciamo e, da ultimo, prestazioni d’attività legate a processi d’apprendimento (incidendo sulle proprie conoscenze, capacità e competenze) inerenti le operazioni di dettaglio (task details) dei compiti fondamentali, il come facciamo quel che facciamo (Figura 2).

I segnali veicolati tramite gli interventi di feedback (FI cues) possono quindi intaccare diversi livelli della persona e, in base a questi, orientarla verso nuovi comportamenti realizzabili attraverso un ampliamento della propria consapevolezza, spostando e di conseguenza trasformando il locus in cui è focalizzata l’attenzione (e), imparando mansioni di dettaglio alternative, essendo motivati a cimentarsi in nuovi compiti fondamentali o comunque trovando nuove risorse cognitive, spinte emozionali o strategie d’azione che permettano di cambiare, di trasformare il proprio sé.

1.4 – L’UTILITÀ DEL FEEDBACK IN PSICOLOGIA: LA FINESTRA DI JOHARI

Nel campo della cibernetica e in quello della psicologia applicata, riassumendo in breve quanto visto fin qui, il termine feedback denota un ritorno d’informazione ad un centro emittente. Pur non esistendo un modello unico ed unitario sugli interventi di feedback si possono individuare delle teorie ibride generali per la costruzione di feedback efficaci. Questi hanno come finalità ultima l’ampliamento della consapevolezza su di sé e rappresentano la via maestra per agevolare l’apprendimento e la crescita personale. È importante comprendere come è possibile che il feedback permette di perseguire queste finalità, al fine di afferrare meglio anche cosa accade e qual è l’utilità nel dare e ricevere feedback. A questo scopo si può esaminare un modello elaborato dagli psicologi Joseph Luft e Harry Ingham per capire meglio sé stessi e le proprie relazioni con gli altri: la finestra di Johari (LUFT & INGHAM, 1955).

Figura 3: la finestra o matrice di Johari.

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Nella finestra di Johari la conoscenza da parte di una persona del suo essere viene suddivisa in quattro aree o zone incrociando le funzioni dell’autoconsapevolezza (quello che io so di me) e della percezione di sé da parte degli altri. La zona conosciuta è la sfera pubblica della personalità, l’insieme di atteggiamenti e comportamenti che il soggetto assume consapevolmente e di cui anche gli altri sono al corrente. Nella zona cieca si trovano tutte quelle parti di noi che non conosciamo o non vogliamo ammettere e che sono evidenti agli altri (emozioni come la rabbia, credersi gentili ma avere modi bruschi di fare, ecc…). Nella zona privata è custodito quel che conosco di me ma e non rivelo pubblicamente (le paure, le speranze, comportamenti sessuali, ecc…). Nella zona inconscia riposano tutti quei contenuti, quei processi, quegli impulsi e quel potenziale che è sconosciuto sia a sé stessi che agli altri. Secondo questo modello, tanto più una persona è disponibile ad allargare la propria zona conosciuta, tanto più ha la possibilità di acquisire consapevolezza delle proprie potenzialità e di conoscere sé stesso, quindi di cambiare disidentificandosi da comportamenti ed atteggiamenti disfunzionali di cui in precedenza non era consapevole. Per ampliare la zona conosciuta esistono due processi: la rivelazione (la persona sceglie di rivelare agli altri qualcosa di sé stesso riducendo la zona privata) ed il feedback (la persona accoglie le informazioni e le percezioni da parte degli altri su parti di sé che non sono note o non vogliono essere accettate e, di conseguenza, cerca di ridimensionarsi riducendo la zona cieca).

Il feedback è dunque uno strumento importantissimo di conoscenza di sé, di sviluppo e di

miglioramento personale. Infatti la sua utilità risiede nel far divenire oggetto di consapevolezza aspetti del proprio io prima collocati nella zona cieca. Potenzialità di cui non siamo pienamente consapevoli, capacità e competenze che gli altri riconoscono in noi ma che non siamo in grado di vedere; aree di miglioramento, modalità poco efficaci di rapportarci agli altri o alle attività che il nostro ruolo personale, sociale o professionale prevede.

Figura 4: il feedback e la rivelazione nella finestra o matrice di Johari.

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Cap. 2 – Pratiche di disidentificazione nel counseling umanistico-integrato

2.1 – IL FEEDBACK COME RIFORMULAZIONE IN CARL ROGERS

Nella pratica del counseling il concetto di feedback fu introdotto già da Carl Rogers,9 il quale riteneva che «il terapeuta facilita i progressi del cliente verso la comprensione di sé stesso tramite la ripetizione di quello che il cliente dice dei propri bisogni e delle proprie emozioni» (ATKINSON

& HILGARD, 2011, p. 592). Nel pensiero del padre del counseling ad orientamento umanistico il feedback è quindi una riformulazione di quanto il cliente ha condiviso col counselor a livello verbale e non verbale: è un mettere il cliente davanti ad uno specchio nel quale può scorgere sé stesso e magari vedersi da nuove prospettive. Tale riformulazione non è una mera ripetizione di ciò che viene detto dal cliente. Per esempio, se il cliente afferma “voglio parlare di mia figlia” ed il counselor riformula “quindi lei vuole parlare di sua figlia, ma non di lei”, è evidente che non si sta ricalcando meramente quanto detto dal cliente ma si sta rispecchiando al soggetto quanto detto, consentendogli di vedere aspetti di cui magari non è sempre immediatamente consapevole. Pertanto secondo Rogers la riformulazione verbale è una risposta non direttiva o semi-direttiva al messaggio del cliente, che va offerta rispettando la triade delle disposizioni fondamentali del counselor e che è indispensabile per una relazione d’aiuto efficace.

Nel pensiero rogersiano il counseling si fonda su un rapporto con il cliente orientato su tre dimensioni fondamentali, che costituiscono le disposizioni fondamentali del counselor: l’empatia (capacità del counselor di sentire il mondo personale del cliente come se fosse il proprio), l’accettazione incondizionata (riconoscimento a colui che parla della libertà di esprimere, come meglio sa e vuole, ciò che sente) e la genuinità/autenticità/congruenza (coscienza delle proprie reazioni e dei propri sentimenti per comunicare all’altro ciò che realmente si prova, manifestando il vero sé). Sulla base di questi principi, in un primo momento nella relazione d’aiuto «il cliente utilizza il counselor come uno ‘specchio’ neutro» ma successivamente, in ossequio alla dimensione della genuinità/autenticità/congruenza, il counselor può offrire dei feedback e «trasmettere qualcosa di sé al cliente con lo scopo di fare transitare il cambiamento nella dimensione della pratica dell’intersoggettività» (NANETTI, 2009, p. 138). La riformulazione o feedback presenta allora alcune caratteristiche fondamentali:

si basa sull’empatia, l’accettazione e l’autenticità nel rapporto counselor-cliente;

per via della risonanza empatica permette al counselor di entrare in sintonia con la mappa cognitiva ed emozionale del cliente e di lasciar emergere il suo vero sé e quindi di ritrovarne degli aspetti riflessi nelle riformulazioni del counselor che funge da specchio;

per via dell’autenticità fa sì che eventuali disvelamenti del proprio vero sé (self-disclosure) da parte del counselor incentivino potenzialmente il cliente stesso ad ampliare la propria consapevolezza di sé e a collegarsi con congruenza al proprio vero sé.

Attraverso un messaggio che presenta queste caratteristiche, se da parte del cliente c’è apertura verso tale feedback, secondo Rogers si può realizzare una modificazione del comportamento e una maggior soddisfazione del proprio bisogno di auto-attualizzazione.10 Per

9 Carl Rogers è un esponente della psicologia umanistica che enfatizza la naturale tendenza dell’essere umano

alla crescita e all’auto-realizzazione. Negli anni ’40 sviluppa la terapia centrata sul cliente i cui capisaldi sono contenuti nell’opera Client-Centered Therapy del 1951. Secondo questa prospettiva, ponendo l’accento su quello che la persona vive nel qui ed ora piuttosto che nel passato, il terapeuta umanistico facilita l’esplorazione da parte del cliente dei propri pensieri, sentimenti e azioni, aiutandolo a raggiungere la propria soluzione personale in quanto si è convinti che la persona sia il migliore esperto di sé stesso.

10 Per Rogers nell’uomo è insita un’innata tendenza «a muoversi in direzione della crescita, della maturità e del cambiamento positivo», una tendenza «verso il compimento o la realizzazione di tutte le capacità dell’organismo», una tendenza che egli definisce «tendenza attualizzante» (Atkinson & Hilgard, 2011, p. 484).

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raggiungere tale fine, nel counseling ad orientamento umanistico si hanno più tipi di riformulazioni, alle quali il counselor può ricorrere già a partire da una prima fase di accoglienza del cliente (NANETTI, 2015a, pp. 112-137) e che sostanzialmente possono essere suddivise in parafrasi e verbalizzazioni di vario genere:

Parafrasi: una riformulazione sintetica e chiarificatrice dei contenuti essenziali della comunicazione di chi sta parlando al fine di verificare che il messaggio sia stato compreso da parte del counselor e di aiutare il cliente ad ampliare la propria mappa di costruzione di senso (per esempio il cliente afferma “a casa, da quando lui è andato via, mi faccio carico di tutto” ed il counselor riformula “vuole dire che/quindi lei ha la responsabilità di tutto ciò che accade in casa e non puoi mai riposarsi?” oppure “lei pensa realmente di avere la responsabilità di tutto a casa?”, “per quanto riguarda la casa, lei si sente lasciata sola da lui nel farsi carico di tutto?”). Una parafrasi si compone generalmente di tre fasi: (1) inizio di frase incentrata su un’ipotesi di comprensione (se ho capito bene/mi corregga se sbaglio/a mio avviso/immagino che lei stia dicendo/lei si domanda in poche parole/ecc…), (2) andare all’essenza di ciò che ha detto il cliente in forma succinta e significativa, (3) una verifica conclusiva con una breve domanda della corretta comprensione (ho capito bene?/ho inteso correttamente?/che cosa pensa in merito a ciò?).

Riformulazione Descrizione Scopo

P. di riepilogo - Sintetizzare ciò che è stato detto - Riportare il cliente sul focus del discorso - Individuare le connessioni con altre sedute

- Comprendere accuratamente quanto detto - Fornire chiarezza nei racconti lunghi - Iniziare o finire un colloquio

P. critica - Mettere in discussione quanto è stato detto dal cliente

- Riesaminare in modo riflessivo la validità delle affermazioni del cliente

P. delucidante - Portare ordine ed accordanza nelle asserzioni del cliente che sembrano discordanti o confusi

- Presentare in modo più chiaro ed ampio le problematiche

P. di sottolineatura - Parafrasare per arrivare a porre una domanda di chiarificazione

- Mettere a fuoco una richiesta

Ecc… Ecc… Ecc…

Verbalizzazione: una riformulazione (o rispecchiamento) degli stati d’animo contenuti nel messaggio che insiste sulle parole emotive utilizzate dal cliente al fine di aiutarlo a mettersi in contatto con gli aspetti emozionali del suo discorso e acquisire così consapevolezza emotiva, esprimendo i propri sentimenti, comprendendone l’origine, dando loro un nome ed iniziando a gestirli (per esempio il cliente afferma “ero arrabbiatissima con mio marito” ed il counselor riformula “era furiosa con lui”).

Riformulazione Descrizione Scopo

Rispecchiamento diretto

- Ripetizione di quanto il cliente ha affermato in termini emotivi

- Identificare parole emotive chiave per riferirsi al mondo emozionale del cliente

Domanda aperta - “Può descrivere come si sente adesso?”, “Che sentimenti prova quando…?”

- Richiamare il cliente a cogliere i propri stati d’animo

Domanda chiusa - Domanda che veicola una parola mancante per descrivere uno stato d’animo

- Mettere in luce un’emozione tenuta nascosta o non ancora riconosciuta

Sinonimo, antinomia, optativo

- Utilizzo di un s. per esprimere lo stesso significato emotivo della comunicazione (depresso – giù di tono), di un’a. per uno stato emozionale opposto (infelice – non contento), di un’o. per un’emozionalità desiderata (infelice – più felice)

- Mettere in contatto il cliente con gli aspetti emozionali del suo discorso

Accennare ad un indicatore corporeo

- Richiamo dell’attenzione del cliente sul corpo o su un indicatore corporeo

- Svelare al cliente qualcosa d’importante su di sé

Ecc… Ecc… Ecc…

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2.2 – IL FEEDBACK COME RISPOSTA E PERSONALIZZAZIONE IN ROBERT CARKHUFF

Rogers è riuscito ad enfatizzare la dimensione non direttiva, la fase dell’accoglienza e quindi la caratteristica femminile (coinema materno) della pratica d’aiuto, riuscendo a far luce su un punto difficile da capire (perché anti-empirico): l’aiuto si può realizzare anche senza darlo, attraverso la semplice passività affettuosa verso le difficoltà e gli sforzi della persona con difficoltà, contrastando la naturale e inconsapevole tendenza all’invadenza e alla manipolazione. Per Carkhuff, però, non basta che l’helper sia femminile verso l’helpee in una relazione d’aiuto, bensì ritiene necessaria anche la componente maschile (coinema paterno). Per l’allievo di Rogers, infatti, l’helper deve «accogliere come la madre e, quando è necessario, dirigere come il padre» (CARKHUFF, 1987, p. 25), aggiungendo così accanto alla fondamentale dimensione del «rispondere» da parte dell’helper (che consente all’helpee di «esplorare» la propria esperienza) quella dell’«iniziare» ad elaborare programmi d’azione (che consente al cliente di «agire» il cambiamento per raggiungere lo stato in cui vorrebbe essere), passando per una fase in cui il feedback gioca un ruolo cruciale: l’helper attraverso dinamiche di «personalizzazione»/interiorizzazione del significato dell’esperienza, dei problemi e degli obiettivi dell’helpee facilita la «comprensione» di quest’ultimo e lo porta da una dimensione esplorativa a una messa in pratica del cambiamento. Schematizzando:

Figura 5: le fasi della relazione d'aiuto secondo Carkhuff (1987, p. 44)

Come si evince dallo schema il feedback, secondo Carkhuff, caratterizza il counseling a livello di sistema in quanto informazione retroattiva che scaturisce dall’azione dell’helpee e mette in moto un processo in cui le fasi dell’aiuto si riattivano nuovamente, stimolando una più ampia esplorazione, una più esatta comprensione ed un’azione più efficace. Questo il contributo generico e fondamentale del feedback per i processi che portano alla crescita e allo sviluppo delle dimensioni umane dell’helpee. Eppure il feedback non è presente solo a livello di sistema, ma acquisisce anche una declinazione più concreta nel pensiero di Carkhuff, soprattutto nel momento in cui l’helper è chiamato a rispondere e personalizzare.

Per Carkhuff rispondere significa fornire feedback allo schema di riferimento dell’helpee per facilitarlo nell’esplorazione delle proprie esperienze. Mutuando molti aspetti delle riformulazioni di Rogers, egli ritiene che le risposte possano articolarsi su tre livelli:

Risposte al contenuto (del messaggio del cliente): estrapolare il contenuto essenziale di un messaggio attraverso la tecnica delle sei domande chiave (chi, che cosa, quando, dove, come, perché) e riformularlo attraverso la parafrasi;

Risposte al sentimento (che vive il cliente): porsi la domanda dell’empatia (“se fossi al posto dell’helpee e dicessi e facessi queste cose, come mi sentirei?”) e darle una risposta mediante la verbalizzazione così che il cliente inizi a categorizzare il sentimento e percepire il suo grado d’intensità;

Risposte al significato (dell’esperienza del cliente): unendo contenuti e sentimenti in rapporti intercambiabili s’iniziano a cogliere le ragioni dei sentimenti determinati dai contenuti.

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A questo punto, esplorate le proprie esperienze e intravisto un potenziale significato, è opportuno personalizzare, introiettare, fare proprio tale significato per iniziare a comprendere l’esperienza e i sentimenti, le difficoltà e gli obiettivi da porsi per superarle. Secondo Carkhuff personalizzare significa fornire feedback che aiutino il cliente a farsi carico di un processo responsabile di attivazione del proprio cambiamento in funzione di dove desidera (o dovrebbe) essere (CARKHUFF, 1987, p. 115; NANETTI, 2015a, p. 229). Il feedback di personalizzazione può essere effettuato a diversi livelli e segue uno schema definito:

- Personalizzare il significato dell’esperienza: se l’helper è riuscito ad istituire una base intercambiabile di comunicazione penetrando lo schema cognitivo ed emozionale dell’helpee con l’accoglienza e le riformulazioni fino a fargli intravedere un significato (contenuto e sentimento) della sua esperienza, allora si può procedere a sondare le conseguenze di tale significato per la propria persona affinché comprenda dov’è in rapporto a dove desidera o dovrebbe essere. Questo feedback ha tre fasi:

- Individuare i temi ricorrenti (legati a quello che gli helpee stanno dicendo di sé stessi) e riproporli con riformulazioni (“ti senti… perché…”)

- Interiorizzare le esperienze spostando il focus sull’helpee e non sugli altri, iniziando ad includere il tu nelle riformulazioni (“ti senti… perché tu…”)

- Interiorizzare le implicazioni personali che le conseguenze che le esperienze hanno sull’helpee (“ti senti… perché tu… – implicazione personale –”)

- Personalizzare il problema: con la personalizzazione del significato dell’esperienza l’helpee ha ormai interiorizzato delle difficoltà nella sua esperienza. Ora si dovrebbe compiere il passo più critico: individuare ed introiettare ciò che non si riesce a fare, non solo in termini d’impatto, ma chiamando l’helpee ad assumersene la responsabilità guardando al ruolo di sé stessi (delle proprie maschere) come causa dei propri problemi. Dai problemi, individuati in tre fasi, si ricaveranno poi gli obiettivi.

- Concettualizzare i deficit: porsi la domanda “quale mancanza è alla basa del tuo problema?” e arrivare ad una risposta del tipo “ti senti… perché ti è mancata…”

- Interiorizzare i deficit: porsi la domanda “cosa c’è in me che ha contribuito al problema?” e arrivare ad una risposta del tipo “ti senti… perché tu non riesci a…”

- Concretizzare i deficit: porsi la domanda “come possiamo osservare o misurare il deficit?” e cercare di affermare il deficit in termini di comportamenti concreti nella risposta “ti senti… perché non riesci a…”, facendo attenzione nuovamente ai sentimenti che accompagnano la messa a fuoco del problema personalizzato

- Personalizzare gli obiettivi: con la personalizzazione del problema l’helpee ha ormai consapevolezza di dove si trova attualmente e, per capire come lavorare in rapporto a dove desidera arrivare, è sufficiente individuare i comportamenti che sono all’opposto del problema attraverso un processo che si articola di nuovo in tre fasi:

- Concettualizzare le risorse: porsi la domanda “cosa può contribuire a risolvere il problema?” e trovare un comportamento che sia il rovescio del comportamento-problema usando la formula “ti senti… perché vorresti… ma non ci riesci…”

- Interiorizzare le risorse: dal punto di vista razionale, spesso gli helpee sanno ciò che andrebbe fatto ma non riescono ad essere in sintonia con queste risorse. Per aiutarli è opportuno invitare l’helpee a tornare sull’esplorazione delle esperienze, mentre l’helper modifica gli obiettivi personalizzati. Quando si ritiene opportuno iniziare ad interiorizzare le risorse allora si può di nuovo intervenire con la formula “ti senti… perché vorresti veramente… ma non ci riesci”

- Concretizzare le risorse: individuare quali risorse specifiche dell’helpee sono necessarie per raggiungere i suoi obiettivi e declinarle il più concretamente possibile (per es. la risorsa “iniziativa” può essere concretizzata come “capacità di fare dei passi programmati in tempi opportuni”) facendo attenzione ai sentimenti che maturano

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2.3 – IL FEEDBACK IN ALTRE PROSPETTIVE DI COUNSELING UMANISTICO-INTEGRATO

Intorno agli anni ‘50 il feedback e la sua capacità di muovere il cliente al cambiamento passando per la pratica dell’intersoggettività diventano centrali nel counseling secondo l’approccio gestaltico o counseling ad orientamento fenomenologico-esistenziale elaborato da Frederick Perls.11 Anche per quest’ultimo col counseling si cerca di contrastare la tendenza a «restare aggrappati all’identità [perché] questo fatto com’è ovvio impedisce qualsiasi possibilità di crescita o di spontaneità» (PERLS, 1980, p. 55). Lungo questo cammino di cambiamento gli interventi di feedback sono centrali e soprattutto devono tenere conto e riproporre al cliente l’interezza del suo essere così come si esprime nel qui ed ora davanti agli occhi del counselor, se si vuole smascherare la persona artificiale e lasciar entrare in scena il sé reale:

Non ascoltate le parole, ma soltanto quello che vi dice la voce, quel che vi dicono i movimenti, quel che vi dice l’atteggiamento, quel che vi dice l’immagine. Se avete le orecchie, dell’altro sapete già tutto. Non avete bisogno di ascoltare quello che la persona vi dice: ascoltatene il suono. Per sona, cioè ‘mediante il suono’. Il suono vi dice tutto […]. Nella pratica psichiatrica in genere non si prende in considerazione il suono della voce, ma ci si limita a estrarre il contatto verbale dalla personalità totale. Movimenti come – vedete quanto riesca a esprimere questo giovanotto chinandosi in avanti – la personalità totale, così come si esprime nei movimenti, nell’atteggiamento, nel suono, nelle immagini… c’è tanto di quel prezioso materiale che non dobbiamo far altro che raccogliere l’ovvio, la superficie esterna e riproporla al paziente, così da portarla nell’ambito della sua consapevolezza. La riproposta, il feedback, fu per la prima volta introdotta nella pratica psichiatrica da Carl Rogers. Anche Rogers, però, si limitava a riproporre le frasi, ma ci sono anche tante altre cose da riproporre… qualcosa di cui si potrebbe non essere consapevoli, ed ecco che qui possono dimostrarsi utili l’attenzione e la consapevolezza del terapeuta […]. Di fronte a noi vediamo l’intero essere di una persona e questo perché la terapia gestaltica sa usare gli occhi e le orecchie e il terapeuta rimane sempre e comunque nel presente. Il terapeuta evita le interpretazioni, le produzioni puramente verbali o ogni altro tipo di masturbazione mentale […]. Terapia gestaltica significa essere a contatto con l’ovvio (ivi, pp. 62-63).

Si potrebbe ritenere che, a partire da questo momento, nelle pratiche di counseling ad orientamento umanistico-integrato siano introdotte sempre più tecniche o prassi di feedback, le quali diventano una vera e propria pietra miliare di qualsiasi relazione di aiuto (nel counseling così come nel coaching) finalizzata al raggiungimento di un cambiamento (nell’helpee così come nel coachee). Infatti ogni feedback è un’intuizione di risonanza del ricevente/counselor/coach che in prima facie ed in quanto tale (feedback) non può che riferirsi al passato. Tuttavia, nel momento in cui viene riferito al cliente/helpee/coachee, induce a sviluppare in lui la piena consapevolezza del e nel presente e, in ultima istanza, acquista il suo significato ultimo ed autentico quando permette al cliente di orientarsi verso un risultato positivo nel futuro attraverso la consapevolezza del presente, che sfocia nell’«anticipazione della domanda», nella scoperta di un’«informazione d’anticipo» (feedforward) e quindi nella pianificazione di un cambiamento (WITHMORE, 2009, p. 126). È quindi l’essenza stessa della relazione dell’aiuto integrata con il coinema paterno, poiché «è utile come ripropone Rogers, riformulare perché possano emergere trame e risorse sepolte [ma] lasciare che il cliente parli indiscriminatamente di tutto limitandoci pedissequamente a rispecchiare tutto quello che dice, eludendo l’esperienza dialogica del confronto attivo, spesso non serve. Non serve riformulare se non si procede verso l’essenziale» (NANETTI, 2015a, p. 239). Per questo motivo, rifacendoci ad un approccio

11 Frederick Perls segue un indirizzo fenomenologico di pensiero per il quale la realtà è soggettiva: il

fenomeno (ciò che appare) è reale. Tuttavia allo stesso tempo ritiene che ogni organismo, seguendo la sua tendenza naturale a raggiungere un equilibrio, è portato a soddisfare i propri bisogni entrando in contatto con l’ambiente esterno. Se il contatto coi bisogni è interrotto, compare il disagio psicologico e, al fine di riattivare il normale ciclo di contatto, il counseling non può tornare ai contenuti del passato ma deve piuttosto far emergere l’esperienza emotiva nel qui ed ora attraverso la dialettica Io e Tu (mutuata da Martin Buber) tra counselor e cliente, per poter infine trasformare efficacemente l’esperienza stessa e realizzare un cambiamento ed una crescita.

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umanistico-integrato, nel counseling ci si può avvalere di numerose pratiche di feedback, tra le quali a titolo emblematico possono essere ricomprese per esempio (ivi, pp. 216-237):

Feedback Descrizione Scopo Esempio

F. di decontaminazione

Mutuato dall’ambito dell’Analisi

Transazionale.12 Portare consapevolezza nel fatto che spesso i confini degli

stati dell’Io non sono nitidi ed in particolare l’Io Adulto può essere

contaminato e quindi ricevere influenze negative dal Genitore normativo (“Il

mondo è un posto cattivo”), del Bambino

adattato (“Mi ridono alle spalle”) o da entrambi.

Affrancarsi dalle contaminazioni del

proprio Io Adulto per esaminare più

adeguatamente la realtà e fare nuove scelte.

Diagnosi comportamentale

(annotarsi pensieri, emozioni e

comportamenti pensando a situazione in cui ci si

trova nell’Io Bambino o nell’Io Genitore) e

compararla con diagnosi storica (“come eri da piccolo?” e “chi sto

imitando, mia madre, mio padre, ecc…?”)

F. di problem solving

Portare consapevolezza nell’Io Adulto attraverso

domande di confrontazione, per

esempio (a) tra il significato di qualcosa ed il

significato che gli si potrebbe dare a partire dal

qui ed ora o (b) tra una situazione desiderabile solo

dichiarata e quella immaginata o (c) attraverso

il come se

Facilitare il cliente a identificare

autonomamente una soluzione ai problemi che

sta affrontando

(a) Counselor: “Ha detto di non sopportare la sua

franchezza. Questa però le ha anche permesso di ottenere molte cose. Ora cosa potrebbe ottenere con la sua franchezza?” (b) Counselor: “Prova ad immaginare che domani ti

sveglierai senza il problema che ti

affligge…” (c) Counselor: “Come

sarebbe la situazione se decidessi di parlare con il

tuo amico dal quale ti percepisci preso in giro?”

F. strategico

Mostrare che un evento che sta alla base di una situazione di sofferenza potrebbe avere anche un

significato inesplorato, per esempio (a) togliere le

etichette diagnostiche che sono state attribuite dal cliente all’evento o (b)

riformulare come un modo implicito di pensare o reagire del cliente può essere modificato, (c)

focalizzarsi su uno scopo superiore

Provocare un subitaneo mutamento di

prospettiva

(a) Se il cliente afferma “soffro d’insonnia”,

invitarlo a descrivere cosa succede quando va a letto

(b) Se il cliente afferma “non faccio altro che

distruggere ogni reazione”, invitarlo a

ridimensionare l’asserzione esaminando qual è concretamente la

sua parte di responsabilità (c) Se il cliente soffre per

un evento, pensare a superiori prospettive di

senso

Ecc… Ecc… Ecc… Ecc…

12 «L’Analisi Transazionale è una teoria della personalità e una psicoterapia sistematica ai fine della crescita e del

cambiamento della persona […] In quanto teoria della personalità l’A.T. fornisce un quadro di come siamo strutturati dal punto di vista psicologico. A questo fine utilizza un modello in tre parti, noto come modello degli dell’Io» (Stewart & Joines, 1990, p. 15). Ogni stato dell’Io è un insieme coerente di pensieri ed emozioni espressi in un determinato comportamento e, attraverso un modello strutturale d’analisi dei processi e dei contenuti intrapsichici, si possono distinguere tre stati dell’Io: Io Genitore (pensieri, emozioni e comportamenti copiati dai genitori o figure genitoriali), Io Adulto (pensieri, emozioni e comportamenti originali del soggetto steso in interazione con la realtà del momento) ed Io Bambino (pensieri, emozioni e comportamenti emergenti dall’infanzia).

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Cap. 3 – Il feedback fenomenologico

3.1 – CHE COS’È IL FEEDBACK FENOMENOLOGICO

«Nella pratica del counseling il compito più significativo si traduce nel transitare dalla maschera al vero Sé per diventare sempre più veri ed autentici» (NANETTI, 2015a, p. 76). Lo strumento principe con cui transitare dalla maschera al vero sé è il feedback, utilizzato soprattutto nella fase attiva del processo, quando counselor e cliente stabiliscono gli obiettivi, sviluppano strategie, operano su un determinato problema e, dunque, si muovono concretamente verso forme di cambiamento che implicano la necessità della disidentificazione da schemi cognitivi, emozionali e comportamentali inadeguati. Esistono numerose tipologie di feedback alle quali ricorrere nel counseling ad orientamento umanistico-integrato, ma c’è una forma sostanziale con cui vengono formulate ed indirizzate le risposte del counselor verso il cliente, che costituisce una sorta di minimo comun denominatore per la costruzione di un feedback efficace: il «feedback fenomenologico o la risposta rappresentativa o Io-messaggio, ossia una modalità di risposta centrata sull’autorivelazione e sull’autenticità» (NANETTI, 2010, p. 43). Il feedback fenomenologico è un’informazione che diamo al nostro interlocutore per comunicargli in che modo lo viviamo nel modo più rivelatorio ed autentico possibile, rinunciando alla manipolazione dell’altro esprimendo valutazioni o interpretazioni, rifuggendo da un atteggiamento eccessivamente investigativo o di sostegno e rinunciando alla volontà di offrire soluzioni a tutti i costi. In questo modo il cliente (e potenzialmente il counselor stesso) si trova nella condizione ideale per scoprire qualcosa di significativo su di sé, al di là delle proprie identificazioni in identità convenzionali.

Questo tipo di feedback prende spunto dalla fenomenologia almeno in un triplice senso: (1) si basa sul prendere in considerazione ciò che è manifesto, ciò che appare e quindi i fenomeni come dati di realtà, (2) richiede una sospensione del giudizio e l’eliminazione dei pregiudizi affinché il fenomeno possa rivelarsi nella sua purezza e (3) parte sempre dall’Io e non dal Tu per esprimere l’intuizione sui comportamenti dell’interlocutore attraverso l’analisi di ciò che ha detto e di come lo ha detto. In breve, si può sostenere che il feedback fenomenologico consiste quindi nel restituire all’altro ciò che si è vissuto nella relazione sulla base fenomenica, rendendosi conto di quello che si è ascoltato, visto, pensato ed elaborato per donarlo all’altro nel modo più oggettivo e nutriente possibile, per fargli compiere quel balzo in un nuovo stato di comprensione di sé e di auto-svelamento. Alcuni esempi possono aiutare a comprendere meglio in cosa consista questa pratica:

- In ambito professionale un manager commenta l’intervento in una simulazione di un collaboratore dicendo: “Eri imbarazzato quando ti ho chiesto di venire qui a parlare della situazione nel tuo gruppo di lavoro, vero? Stai tranquillo, non è facile per nessuno parlare davanti a tanta gente, soprattutto se uno è timido…”. Il commento potrebbe sembrare comprensivo ed accogliente ed invece viene vissuto dal collaboratore come: “Ma chi te lo dice che ero imbarazzato? Come fai a saperlo? Io non sono mai stato timido, ho il torcicollo”. Sarebbe allora più accorto un manager che, con attenzione e consapevolezza, ricorra al feedback fenomenologico: “Quando (Io) ti ho chiesto di venire qui, (Io) ho pensato che ti saresti potuto sentire in imbarazzo a parlare davanti al gruppo. Poi (Io) ti ho visto abbastanza rilassato e ho ascoltato la tua voce sufficientemente tranquilla e ho ritenuto che potevi farcela anche senza bisogno del mio intervento. Ho fatto male?” (MASCI, 2012).

- In ambito familiare una madre di fronte ad un figlio disordinato, anziché accusare il figlio con modalità aggressive od offensive, potrebbe inviare un feedback fenomenologico del tipo: “Quando lasci la camera in disordine (descrizione dell’azione), io mi arrabbio (dichiarazione in prima persona del sentimento provato), in quanto penso di non farcela da sola (motivazione in termini cognitivi). Ho bisogno di più ordine negli spazi che

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condividiamo (espressione del proprio bisogno). Potresti prendere le tue cose e portarle nella tua camera (formulazione di una richiesta precisa, limitata e concreta)?” (NANETTI, 2010).

- In ambito terapeutico il counselor dà un feedback al cliente che ha appena finito di esporre una sua difficoltà nel comunicare col partner utilizzando espressioni di autorivelazione quali: “Mentre tu parlavi, ho visto le tue mani chiuse (mimica, corpo). Ti ho ascoltato con attenzione mentre dicevi con un tono di voce acceso (tono, volume) di essere disposto ad ascoltare il tuo partner e non ti capacitassi di come lei possa accusarti del contrario. Ho immaginato che disporsi all’ascolto non è sempre scontato e ho sentito che nel vostro rapporto ci sono il desiderio e lo sforzo di trovare questa disposizione. Ora ti vedo/ti immagino/ti penso/ti sento desideroso di discutere di questa disposizione…”.

Come si evince dagli esempi, il feedback fenomenologico può essere visto come la risposta che un interlocutore dà all’altro, riferendo ciò che prova o sente in termini emozionali in riferimento ad una vicenda descritta affinché l’altro possa raggiungere una maggior consapevolezza di ciò che fa e di come lo fa.13 Questo tipo di risposta presenta varie caratteristiche che lo rendono tale e fondamentale nella pratica di counseling (NANETTI, 2015a, pp. 213-214):

È orientato alla tutela dell’altro. Non si tratta di scaricare sull’altro delle parole poiché, così facendo, in realtà aiutiamo noi stessi dicendo di aiutare l’altro;

È focalizzato sul comportamento concreto e non sulla persona. È uno specchio limpido dell’altro fatto di osservazioni e descrizioni e non di inferenze e giudizi. Non costringe le persone dentro etichette che potrebbero sentire non proprie;

È diretto, intrepido e generoso. Non va edulcorato con aggettivi o avverbi che stemperano e ammorbidiscono inutilmente quella verità intravista accogliendo l’altro, quella verità che in modo coraggioso si desidera offrire all’altro;

È motivato. Viene spiegato perché è stata data un’informazione o è stata fatta una critica;

È dato in prima persona. In tal modo ci si attiene alla propria esperienza fenomenica ed empatica dell’altro, così che non si tiri ad indovinare circa i suoi sentimenti;

È un metodo di radicamento nell’esperienza vissuta. È centrato sia sul corpo che sulla mente, sia sulle azioni/intenzioni che sulle emozioni e sui pensieri;

Evita d’imporre il cambiamento. È essenziale che chi riceve il feedback possa decidere in base alle informazioni ricevute se cambiare o meno. La risposta è un atto di generosità, pertanto va data e lasciata andare affinché l’altro sia libero di scegliere cosa condividere di quanto detto. Spesso i cambiamenti intenzionali richiedono tempo;

Offre alternative di comportamento. Non si limita a chiedere ciò che non si vuole, ma propone e sollecita comportamenti potenziali, sottolineando ciò che di positivo l’altro può fare attraverso le sue capacità;

È orientato verso un obiettivo perseguibile. L’eventuale cambiamento proposto è incentrato verso obiettivi smart (specific, measurable, attainable, relevant, time based): specifici (senza ambiguità di sorta), misurabili (verificabili in fase di valutazione), raggiungibili (dato che solo così si è motivati all’azione), rilevanti (significativi per la persona) e con una tempistica definita (per capitalizzare l’azione e creare responsabilità);

13 C’è una premessa che riguarda il rapporto tra i due interlocutori e che funge da condizione necessaria

affinché il feedback fenomenologico possa rivelarsi efficace. Chi dà il feedback è opportuno che (a) sia in buona fede e capisca quando è il caso d’esprimersi, (b) creda che ogni persona abbia le potenzialità per raggiungere dei buoni livelli di performance e che il feedback aiuti in questo senso e (c) nutra una stima incondizionata nelle persone e abbia la capacità di distinguere una persona dal suo comportamento. Chi riceve il feedback è invece opportuno che sia nella condizione giusta per prenderlo e andare avanti e quindi che abbia (a) il desiderio di cambiare e la volontà di vedere il feedback come parte del processo di cambiamento, (b) la consapevolezza che il cambiamento e lo sviluppo possono essere difficili e mettere in situazioni di disagio e (c) la capacità di scegliere se accettare, filtrare o rifiutare il feedback offerto.

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Va offerto nel momento giusto e nel luogo opportuno. Deve essere rispettoso dell’altro, così che possa trasmettere presenza e partecipazione fin da subito;

Viene dato solo su assenso dell’altro. Prima di offrire un feedback all’altro è opportuno chiedergli “desideri sentire come io vivo ciò che tu hai detto?”;

È un messaggio di pace. È destituzione consapevole di ogni conflitto interpersonale attraverso l’apertura al dialogo autentico come superamento di ogni lotta di potere. Questa è già condizione necessaria per chi dà il feedback, ma anche chi lo riceve è indotto a mettersi in contatto con le proprie emozioni e a prendersi le responsabilità del proprio comportamento.

Permette di evitare risposte disfunzionali che creano barriere comunicative. Le risposte disfunzionali più frequenti sono quelle volte a moralizzare (ossia ad attribuire giudizi morali sulla base del proprio sistema di valori usando per es. il “devi…”), a dogmatizzare (ossia ad esprimere considerazioni estranee all’esperienza della persona, che diventano pensieri irrazionali per lei come “non fidarti di nessuno”), a diagnosticare (ossia ad esprimere un giudizio sull’altro con distacco e freddezza), etichettare, giudicare, criticare, interpretare, identificare (“è successo anche a me”).

3.2 – LE FASI DEL FEEDBACK FENOMENOLOGICO

Secondo Nanetti (2015a, pp. 76-84) la formulazione del feedback fenomenologico si basa su cinque livelli (o fasi) più uno ulteriore, dei quali i primi due sono indispensabili e gli ultimi tre sono comunque importanti.

1) Fase descrittiva (o constatativa o fenomenologica). - Inizialmente si procede nella descrizione dell’azione dell’altro, senza che i fenomeni descritti vengano in alcun modo interpretati o valutati. Se interpretare o giudicare significa esercitare una pretesa di sapere su qualcuno, descrivere equivale invece a rispecchiare ciò che si percepisce dentro e fuori di sé. In questa fase è opportuno descrivere ciò che percepiamo fuori di noi, così da individuare fatti e non interpretazioni e da cogliere i fenomeni nei loro aspetti processuali. - Esempi: (a) “Sei troppo preoccupato per questa situazione” diventa “vedo nel tuo viso molte contrazioni e nel tuo corpo delle tensioni”, (b) “Sei sempre in ritardo” diventa “durante questo mese sei arrivato in ritardo sei volte”, (c) “Carla non fa mai le cose per tempo” diventa “Carla prepara gli esami solo negli ultimi giorni che lo precedono”. - Un consiglio pratico utile per formulare il feedback a questo livello è quello di cercare di evitare la confusione tra ciò che si osserva con l’opinione che si ha su ciò che si vede (“sei sempre occupato”, “sei troppo generoso”, “non ti fai mai vedere”, ecc…).

2) Fase emotiva (o espressiva o di autorivelazione). - In un secondo momento il soggetto esprime ciò che prova in termini emozionali. In questa fase è opportuno descrivere ciò che percepiamo dentro di noi. Attraverso l’Io-messaggio centrato sull’emozione o sul sentimento, si va verso una formulazione in prima persona di ciò che il soggetto sente o prova a livello di stati d’animo (“quando/mentre tu…azione, io mi sento…sentimento”). Così il soggetto si assume la responsabilità in prima persona di ciò che sente, afferma ciò che sperimenta senza avere la pretesa di parlare in nome di altri e quindi senza giudicare/colpevolizzare.14 - Esempi: (a) “Sei sempre in ritardo, non posso proprio perdonarti” diventa “sei arrivato in ritardo. Mi sento arrabbiato, ma sono anche contento che non ti sia successo nulla”, (b) “Sei troppo esuberante con le ragazze, mentre io mi sento un vero

14 Va ricordato che i comportamenti comunicativi altrui possono provocare la comparsa di nostri sentimenti,

ma non ne sono mai la causa.

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fallimento” diventa “quando ti vedo fare il piacione con le ragazze, io spontaneamente mi confronto con te e provo invidia e paura che non ci sia spazio per me”. - Il feedback fenomenologico è un processo di alfabetizzazione emotiva: ci aiuta ad acquisire consapevolezza e competenza di discernimento in termini emotivi dei propri stati d’animo. Un consiglio pratico per formulare feedback a questo livello sfruttando l’alfabetizzazione emotiva consiste nel cercare di distinguere i sentimenti dai pensieri, distinguere sia ciò che sentiamo da ciò che pensiamo di essere (“mi sento incapace di comunicare davanti ad un vasto pubblico” in realtà è “penso di essere incapace di comunicare davanti ad un vasto pubblico”) che ciò che sentiamo da come pensiamo che gli altri si comportino con noi (“mi sento ignorato/sottovalutato/ferito…” diventa “penso di essere stato ignorato/sottovalutato/ferito…”).

3) Fase cognitiva (o riflessiva o immaginativa). - Nella terza fase il soggetto riferisce il proprio punto di vista in merito agli stati d’animo percepiti senza entrare nella dinamica accusatoria (“quando/mentre tu…azione, io mi sento… sentimento, in quanto immagino/credo/ritengo che… riflessione su di sé”).15 Questa forma di comunicazione serve a motivare in termini cognitivi la propria risposta emotiva rigorosamente in riferimento a sé stessi (solo eccezionalmente ed in termini fortemente dubitativi in riferimento all’altro, se e solo se è utile per riflettere sul proprio sistema di credenze). - Esempi: (a) “Vedo che i tuoi occhi sono rivolti verso il basso, io mi sento triste e solo e penso/ricordo tutte le volte che mi sono sentito imbarazzato”, (b) “Ascolto le tue parole, mi sento confuso e questa confusione mi fa pensare di trovarmi in un momento generale di poca chiarezza nella mia vita per quanto riguarda il futuro”.

4) Fase di reperimento del bisogno (o intenzionale o teleologica). - Nella quarta fase il soggetto riconosce e definisce l’effettivo bisogno insoddisfatto che lo porta a vivere uno stato di personale disagio. È opportuno che il soggetto diventi profondamente consapevole dei propri bisogni, delle proprie necessità e delle proprie preferenze (“quando/mentre tu…azione, io mi sento… sentimento, in quanto immagino/credo/ritengo che… riflessione su di sé. Riconosco che il mio bisogno è…”). - Esempio: (a) “Mentre lei esponeva nel dettaglio il progetto in cui vorrebbe coinvolgermi, io mi sono sentito entusiasta dell’obiettivo, onorato di essere stato tenuto in considerazione ma allo stesso tempo intimorito da un possibile ‘no’ che potrei dirle, dal momento in cui non ho provato molto interesse per i singoli passi operativi. Penso che questo forse è dovuto al fatto che in questo momento sono molto impegnato e, di fronte alla parte più concreta di una nuova progettualità, c’è la sensazione di non essere nella condizione di farmi carico di ulteriore lavoro. Riconosco che il mio bisogno è quello di portare a termine quanto già iniziato e, concluso ciò, di proiettarmi verso altri progetti”.

5) Fase di appello diretto (o della richiesta o assertiva). - Il soggetto si rivolge all’interlocutore con una richiesta chiara, concisa, concreta, descrittiva ed espressa in positivo in riferimento al bisogno che desidera venga soddisfatto (“quando/mentre tu… azione, io mi sento… sentimento, in quanto penso… riflessione su di sé. Riconosco che il mio bisogno è… Desidero che… richiesta”). La chiarezza denota la volontà di non lasciare tutto nell’ambiguità (soprattutto se formulato sotto forma di accusa, rimprovero, lamentazione, colpevolizzazione o bisogno da soddisfare necessariamente) ed una congruenza con le proprie intenzioni più autentiche. La richiesta che si formula lascia l’altro nella libertà di scegliere una risposta affermativa o negativa.

15 Ogni riflessione può essere offerta solo su richiesta dell’interlocutore, che può accettare o rifiutare. Nel

secondo caso, non va espresso alcun giudizio e ci si deve fermare a livello della comunicazione espressiva.

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- Esempio: (a) “Quando tu ieri hai chiuso in fretta la nostra conversazione telefonica, mi sono sentito prima arrabbiato e poi molto triste, in quanto immagino che tu mi possa abbandonare. Riconosco di avere molto bisogno della tua attenzione. Quando devi interrompere la telefonata, gradirei sapere quando il giorno dopo mi richiamerai”.

6) Fase di comunicazione spirituale.

- Nell’ultima fase il soggetto nel silenzio del cuore ristruttura in positivo il proprio copione di vita attraverso il perdonare ed il per-donarsi. A questo livello si ricercano le origini del proprio comportamento, ossia si provano a comprendere le ragioni profonde che ci spingono a reiterare gli stessi comportamenti, rivivere gli stessi copioni, recitare gli stessi errori al fine di perdonare l’altro e, allo stesso tempo, sé stessi dato che il perdono è comprensione che l’altro è come noi (“accolgo il perdono dal momento che comprendo le ragioni profonde che hanno determinato il comportamento dell’altro”).

Conclusione riepilogativa

Il presente elaborato scritto nasce a partire dalla convinzione che l’uomo da un canto ha bisogno di un’identità per stare nel mondo ma, dall’altro, vive anche la necessità di non identificarsi in concetti rigidi e prefissati di sé, affinché possa rimanere aperto al polline edificante dell’esperienza che consente d’imparare, di cambiare e quindi di crescere. In questo senso la disidentificazione da schemi comportamentali, emotivi e/o cognitivi ipostatizzati è una pratica fondamentale per la persona che, portando dentro di sé una domanda di cambiamento, si rivolge ad un counselor. Alla luce di tale prospettiva, seppure l’intero processo di counseling possa essere inquadrato come un potente esercizio di disidentità, la fase in cui il counselor utilizza il feedback è quella nella quale il cliente inizia maggiormente a maturare consapevolezza su di sé e a cogliere bisogni, risorse ed obiettivi che lo interpellano affinché ridimensioni la propria persona.

Inizialmente il concetto di feedback nasce nell’ambito della cibernetica e fin da subito viene riconosciuto nel campo della pragmatica della comunicazione come un elemento fondamentale non solo per uno scambio d’informazioni efficace all’interno di un sistema, ma per il cambiamento e la crescita dello stesso. Parimenti il termine comincia ad essere utilizzato in psicologia, inizialmente da Lewin che ne riscontrava l’influenza all’interno dei T-group e poi da altri studiosi sino ad approdare ai cognitivisti, che lo concepiscono quale elemento che dà unità e circolarità al meccanismo TOTE attraverso il quale si spiega il comportamento. Pur non essendo racchiuso entro un unico quadro concettuale, nell’ambito della psicologia applicata gli interventi di feedback sono un passaggio fondamentale per regolare il comportamento in funzione a obiettivi o standard che si vogliono raggiungere, agendo sui meccanismi dell’attenzione e della consapevolezza di sé a più livelli gerarchici (del sé, dei propri valori/convinzioni, delle proprie capacità, ecc…). Il modello di Johari permette di visualizzare in modo limpido l’utilità ed il funzionamento di tali interventi di feedback.

A questo punto è possibile analizzare con più cognizione di causa il concetto di feedback nella pratica del counseling. Introdotto già da Carl Rogers qui venne concepito in un primo momento come riformulazione verbale delle parole del cliente mediante parafrasi (rispecchiamento del contenuto essenziale del messaggio) o verbalizzazione (rispecchiamento del contenuto emotivo del messaggio) da parte del counselor che, attraverso la triade empatia, accettazione ed autenticità, funge da specchio per il cliente. Robert Carkhuff non si limitò a concepire il feedback come risposta (o riformulazione) che permette al cliente un’esplorazione delle sue esperienze, una loro elaborazione ed una loro significazione. Egli ritenne che il

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processo di counseling implicasse anche una dimensione marcatamente paterna, di confronto attivo col cliente, e non solo quella più tradizionalmente materna, di accoglienza del cliente. Così ideò anche il feedback di personalizzazione, attraverso il quale s’introietta il significato dell’esperienze vissute e quindi s’inizia a comprendere profondamente l’esperienza e i sentimenti, le difficoltà e gli obiettivi da porsi per superarle. Nel counseling ad orientamento umanistico-integrato il feedback diventa allora una prassi fondamentale in qualsiasi fase del processo e, di conseguenza, si sviluppano inevitabilmente diverse tecniche di risposta (feedback di decontaminazione, feedback di problem solving, feedback strategico, ecc…) a seconda dei diversi orientamenti di counseling.

Eppure, come si evince dall’ultimo capitolo, nonostante l’ampia gamma di queste tecniche di risposta, secondo l’orientamento umanistico-integrato l’essenza della pratica di disidentificazione risiede nella forma con cui tali risposte vengono offerte, che costituisce una sorta di minimo comun denominatore di tutti i feedback: il feedback fenomenologico, ossia l’accettazione pura ed incondizionata di quel che è così com’è.

Questa capacità di essere quel che si è, viene espressa dalla parola ‘io’. Molti sono d’accordo con Federn, un amico di Freud, nel ritenere che l’ego sia una sostanza, mentre io ritengo che l’ego, l’io, sia semplicemente un simbolo di identificazione. Se ora dico che io ho fame, e poi trascorsa un’ora dico che io non ho fame, non si tratta affatto di una contraddizione. Non è una bugia, perché nel frattempo ho pranzato. Mi identifico con lo stato in cui mi trovo in questo preciso momento, e poi mi identifico con lo stato in cui mi trovo in seguito. Responsabilità significa semplicemente essere disposti a dire: “Io sono io”, e “Io sono quello che sono – sono Braccio di Ferro il marinaio”. Non è facile abbandonare la fantasia o l’idea di essere un bambino bisognoso di cure, il bambino che vuole essere amato […], ma d’altra parte tutte queste situazioni sono precisamente quelle di cui non ci stiamo assumendo la responsabilità. Proprio come dicevo riguardo all’imbarazzo, non siamo disposti ad assumerci le responsabilità di criticare gli altri e di conseguenza proiettiamo le nostre critiche sugli altri. Non vogliamo assumerci la responsabilità di discriminare, e di conseguenza la proiettiamo all’esterno, per poi vivere esigendo continuamente di essere accettati, o temendo di essere respinti. E una delle responsabilità maggiori […] consiste nell’assumerci la responsabilità delle nostre proiezioni, reidentificarci con le nostre proiezioni, e diventare quel che proiettiamo (PERLS, 1980, pp. 74-75).

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