SULLA S CENA Leregie - Corriere della SeraLa prima è storica e deriva dal fatto che «Aida»,...

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Le regie

D I E N R I C O G I R A R D I

Aida è stata sempre l’opera dello sfarzo e dei grandiosi movimenti di massa:una tradizione nata all’Arena di Verona. Ma c’è chi va controcorrente

N onostante manchi alla Scala da oltre vent’anni, «Aida»,con le sue oltre trenta edizioni tra nuovi allestimenti e ri-

prese, è il titolo verdiano più rappresentato sulla scena milane-se dal 1901, data della morte del musicista, a oggi. Ciò confer-ma la vocazione scaligera per l’ultimo Verdi, probabilmenteper due ragioni. La prima è storica e deriva dal fatto che «Aida»,«Otello» e «Falstaff» alla Scala hanno avuto il loro battesimo ita-liano; la seconda è interpretativa, perché se si osserva il catalo-go dei direttori d’orchestra che si sono cimentati in tali capola-vori a capo dell’orchestra milanese, si può notare che vi sonobuona parte di quanti hanno determinato la storia interpretati-va dell’ultimo Verdi. Si trovano infatti, in questo «catalogo», inomi di Toscanini, Serafin, De Sabata, Marinuzzi, Votto, Paniz-za, Gavazzeni, Abbado, Schippers, Maazel. A ben vedere, traquanti abbiano lasciato un segno nella storia interpretativa di«Aida», ne mancano solo quattro: Karajan, Solti, Levine e Muti(nel 1974, con un cast stellare: Caballé, Domingo, Cappuccilli,Cossotto, Ghiaurov), che stranamente ha inciso in disco un’ec-cellente edizione ma non ha mai riproposto questo titolo nelventennio della sua direzione stabile a Milano.

La stessa cosa vale per la messinscena, poiché gli scenografie i registi che si sono avvicendati sul palcoscenico del Piermari-

ni hanno indicato di volta in volta un modello, secondo quantodettassero il gusto e la sensibilità dell’epoca, che ha sempre fat-to scuola presso gli altri teatri d’opera.

Al tempo del debutto italiano di «Aida», la figura del registanon era ancora autonoma, definita; dal punto di vista visivo glispettacoli erano curati per lo più dagli scenografi. E così avven-ne nella storica produzione del 1872, affidata per volere di Ver-di al parmigiano Gerolamo Magnani. Ne sortì uno spettacolostudiatissimo anche dai musicologi, perché mai prima Verdiaveva seguito con tanta solerzia le fasi di creazione di una mes-sinscena. Quel che più gli stava a cuore era il contrasto tral’oscurità del sotterraneo dove si consuma l’amore di Aida e Ra-dames e la luminosità della scena sovrastante affollata di sacer-doti, ballerini, suonatori. Pare tuttavia che l’idea pensata da Ma-gnani per tradurre in pratica tale concetto non funzionò comeavrebbe dovuto, probabilmente a causa della scelta di servirsidella moderna luce elettrica anziché di quella a gas. A parte taledettaglio, fu spettacolo sorprendente, sfarzoso, colorato, contutti gli elementi di un esotismo pletorico ma non stucchevole,come dimostrano i bozzetti e figurini che lo documentano. Enon per caso resistette alla Scala per 50 anni, fino al 1931, quan-do debuttò l’allestimento di Mario Frigerio che rimase in scena

fino al 1960, a parte un «ripensamento» nel 1956. Mentre la co-siddetta «Aida blu» di Frigerio si proponeva semplicemente diaggiornare la messinscena originaria mantenendone però il gu-sto «grand-opéra», quella del sempre originale Franco Enri-quez del ’56 costituì il primo tentativo di «pulire» la scena diogni orpello oleog rafico onde riscoprire un Egitto stilizzato, tut-to statue e colonne in pietra. Le immagini rimaste fanno pensa-re che fosse una bellissima «Aida» — la prima, peraltro, con stu-diati movimenti delle masse — ma al pubblico non piacque.

Quel pubblico, d’altra parte, identificava ormai l’opera con ilgusto «pompier» esportato da Verona in tutto il mondo. Spetta-coli pletorici, ridondanti, elefantiaci e discutibili, quelli verone-si, che però hanno avuto il merito di diffondere «Aida» comenessun altro titolo del repertorio operistico. Una tradizione ko-lossal che ha origine nel 1913 (nel 1˚ centenario della nascita diVerdi), quando l’architetto veronese Ettore Fagiuoli collocòdue maestose sfingi ai lati dell’immenso palcoscenico dell’Are-na e, al centro, un ingegnoso colonnato mobile che serviva adelimitare di volta in volta, insieme con le palme fatte proveni-re da Nizza, i diversi spazi dell’azione. Fu spettacolo trionfale, etrionfale l’accoglienza del pubblico, che era venuto a Veronada ogni dove per assistere alla sfida, allora impensabile, di alle-stire un’opera sotto un cielo stellato.

Ed è appunto a Verona, nel solco di quella tradizione, e allaScala che vanno in scena negli anni Sessanta le prime due «Ai-da» di Franco Zeffirelli: anche qui sfarzo, elefanti, maestose sce-ne di massa, tempi e palazzi magniloquenti, seppure sotto il se-gno grafico di un raffinato gusto «liberty». Ma per la prima voltail pubblico vede anche una regia, un modo di dettare agli inter-preti i perché e i per come di ogni gesto e di ogni espressione,nel rispetto della drammaturgia verdiana. Anche l’«Aida» di Zef-firelli ha lunga vita. Viene sostituita solo una volta nel 1972 —salvo essere riallestita pochi anni dopo — quando in occasionedel centenario della «prima» italiana Claudio Abbado chiese aGiorgio De Lullo e allo scenografo Pier Luigi Pizzi (recentemen-te autore peraltro dell’unica «Aida» stilizzata che si sia mai ten-tata a Verona) di disegnare una messinscena che si accordassecon la propria rilettura: meno «spettacolo», più geometria e inti-mismo lirico. Di nuovo, però, la moneta dell’essenzialità nonpagò in termini di gradimento di pubblico e nel ’76 venne ri-chiamato Zeffirelli. Si anticipava, tuttavia, un gusto più vicinoalla sensibilità di oggi. Un gusto che trova piena consacrazionenell’«Aida» «minimalista» che il regista americano Bob Wilsonha messo in scena nel 2003 a Londra, con Antonio Pappano sulpodio: una «Aida» fatta quasi solo di luci pastello e ieratica ge-stualità, che rende giustizia a tutti gli aspetti drammatici di quel-la partitura, e non a uno solo.

Una riuscita sintesi tra magniloquenza e stilizzazione è ciòche caratterizza l’ultima «Aida» prodotta a Milano prima di og-gi. La realizzò Luca Ronconi (scene di Mauro Pagano) nel 1985,disegnando un Egitto «archeologico» dove non mancano pira-midi e sfingi ma dove si trovano anche spazi deserti e pietrosi euna labirintica città morta nel finale.

C’è curiosità, ora, per questo nuovo spettacolo di Zeffirelli,che torna ad «Aida» cinque anni dopo averne realizzata una«mignon» a Busseto, nella quale riusciva a dare idea del gran-dioso sfruttando da maestro i pochi metri cubi di quel teatrino.Ben altra sfida, tuttavia, è quella di oggi.

UN DESTINODA KOLOSSAL

Prove di Aidadel 1963 (dallibro «Zeffirellialla Scala», editodagli Amicidella Scala)

Un momentodell’Aidadi Bob Wilsonandata in scenaa Londranel 2003

Giovane Essenziale

«L ’Aida ? Per me è un’opera da came-ra, che si apre senza tensioni sceni-

che e si conclude allo stesso modo»: provo-catorio fino a rasentare il paradosso, BobWilson, classe 1943, racconta la «sua» Aida ,profondamente diversa da quelle di LucaRonconi e di Franco Zeffirelli. Lo spettaco-lo che diresse alla Royal Opera House diLondra nel novembre 2003 esprime tutta lafilosofia di questo regista-scenografo, consi-derato uno dei maestri del teatro contem-poraneo: «Sfarzo, immagini grandiose? Niente di tuttociò — spiega —. La natura del mio lavoro è molto sem-plice: nessuna distrazione scenica, solo luci e coloriper esaltare al massimo la musica. Non parliamo peròdi minimalismo, è una parola che non mi piace perchéè stata usata troppo e ha perso il suo significato».

Non a caso tre anni fa il Corriere scrisse che Wilson«scolpisce Aida ». La sua regia ha liberato l’opera da

ogni retorica, l’ha ripulita dagli ornamentiinutili restituendola allo spazio e al tempoattraverso le luci e il gioco dei colori in con-trasto con gli abiti neutri, «poveri» (ossiaprivi di fronzoli), dei personaggi.

«È lavorando, dirigendo, che ho avutol’ispirazione — dice Wilson —. Ho cercatodi trovare uno spazio alla musica, uno spa-zio che permettesse la concentrazione e lacontemplazione nello stesso tempo dellamusica e del testo. E di questo i cantanti mi

sono stati grati». Si avverte, nella formalità cerimonio-sa dei gesti esaltata dalla staticità delle figure, l’influen-za della tradizione teatrale giapponese. In questo mo-do emergono ancora più forti le emozioni trasmessedalla voce.

Un’Aida che si traduce in un lavoro psicologico sug-gestivo e proprio per la sua natura ridotta all’essenzia-le riesce ad esprimere efficacemente tutta la caricadrammatica dell’opera, la sua dimensione intima, sa-crale. Tuttavia, fa sempre un certo effetto sentire il pa-rere lapidario di Wilson sulla rappresentazione verdia-na: «È una vicenda ambientata in un mondo di ghiac-cio, raggelante».

«La vicenda in un mondo raggelanteSolo luci e colori per esaltare la musica»

Roberto Bolle nella «Marcia trionfale»dell’Aida di Zeffirelli (foto Marco Brescia)

«G razie a Dio lo stesso Verdi non ciha lasciato un’opera-documento

sull’Egitto, ma un’opera che appartiene al-la cultura dell’Ottocento. Abbiamo cerca-to d’intervenire con fantasia, tenendo con-to che le sue didascalie sono diventate lo-gore. Ho voluto sottrarre l’Aida al peso de-gli orpelli per restituirle nobiltà. Mi dispia-ce che questo sia stato visto come un’offe-sa». Così dichiarò nel dicembre 1985 LucaRonconi in un’intervista al Corriere rispon-dendo alle critiche rivolte alla sua Aidarappresentata alla Scala. Un’opera «inventata sul pal-coscenico», si scrisse all’epoca: il regista, infatti, ritie-ne che la storia raccontata dal libretto sia illusoriaperché la musica crea una nuova situazione che nar-ra un’altra vicenda.

Monumentale, nel segno di un Egitto misterioso,pieno di ruderi antichi, dove lo sfarzo del potere si

confronta quotidianamente con le fatichedella plebe e il sudore degli schiavi: fu que-sta l’Aida di Ronconi. A creare lo scanda-lo, appunto l’interpretazione stessa del la-voro verdiano offerta dal grande direttore(dal 1999 alla guida del Piccolo Teatro)con la bacchetta di Lorin Maazel, LucianoPavarotti nel ruolo di Radames e MariaChiara in quello di Aida.

Ronconi spiegò di essersi ispirato, per leimmagini, ai «pittori orientalisti tardo-ot-tocenteschi, ma anche alla pittura visiona-

ria». Da qui la creazione di un Egitto fantastico, lonta-no dalle solite interpretazioni di Aida , popolate disfingi, obelischi e piramidi. Un Egitto che nel primoatto affiora, per esempio, con la spianata di Der ElBahari senza il tempio di Hatchepsut immersa in unasoffusa luce dorata.

«Noi — disse Ronconi — abbiamo voluto rifarci aquello che ci rimane ancora oggi di una grande civil-tà, guardando alla concretezza del relitto e all’archeo-logia, anziché all’arbitrio della ricostruzione. La miaversione è profondamente realistica. Come accadenella nostra storia, ogni cosa è carica di sedimenti, dimemorie, di eredità, di passato».

«Il mio Egitto archeologico e visionarioMi ispirarono i pittori dell’Ottocento»

Diverse suggestioni

Nel 1872 l’elettricità usata al posto del gas guastò

l’effetto luce-buio voluto da Verdi. Fu Zeffirelli

il primo a rendere i cantanti dei veri interpreti

BOB WILSON

Uno spettacolo minimalista«Aida? Un’opera da camera. Ho permessoagli interpreti di concentrarsi sul canto»

S U L L A S C E N A

Monumentale

La reazione alle critiche«Le mie invenzioni volevano restituire nobiltàall’opera. Ma ciò è stato visto come un’offesa»

LUCA RONCONI

Spettacolare in ogni epoca14 Eventi Scala Giovedì 7 Dicembre 2006 Corriere della Sera