SULLA S CENA Leregie - Corriere della SeraLa prima è storica e deriva dal fatto che «Aida»,...

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Le regie DI ENRICO GIRARDI Aida è stata sempre l’opera dello sfarzo e dei grandiosi movimenti di massa: una tradizione nata all’Arena di Verona. Ma c’è chi va controcorrente N onostante manchi alla Scala da oltre vent’anni, «Aida», con le sue oltre trenta edizioni tra nuovi allestimenti e ri- prese, è il titolo verdiano più rappresentato sulla scena milane- se dal 1901, data della morte del musicista, a oggi. Ciò confer- ma la vocazione scaligera per l’ultimo Verdi, probabilmente per due ragioni. La prima è storica e deriva dal fatto che «Aida», «Otello» e «Falstaff» alla Scala hanno avuto il loro battesimo ita- liano; la seconda è interpretativa, perché se si osserva il catalo- go dei direttori d’orchestra che si sono cimentati in tali capola- vori a capo dell’orchestra milanese, si può notare che vi sono buona parte di quanti hanno determinato la storia interpretati- va dell’ultimo Verdi. Si trovano infatti, in questo «catalogo», i nomi di Toscanini, Serafin, De Sabata, Marinuzzi, Votto, Paniz- za, Gavazzeni, Abbado, Schippers, Maazel. A ben vedere, tra quanti abbiano lasciato un segno nella storia interpretativa di «Aida», ne mancano solo quattro: Karajan, Solti, Levine e Muti (nel 1974, con un cast stellare: Caballé, Domingo, Cappuccilli, Cossotto, Ghiaurov), che stranamente ha inciso in disco un’ec- cellente edizione ma non ha mai riproposto questo titolo nel ventennio della sua direzione stabile a Milano. La stessa cosa vale per la messinscena, poiché gli scenografi e i registi che si sono avvicendati sul palcoscenico del Piermari- ni hanno indicato di volta in volta un modello, secondo quanto dettassero il gusto e la sensibilità dell’epoca, che ha sempre fat- to scuola presso gli altri teatri d’opera. Al tempo del debutto italiano di «Aida», la figura del regista non era ancora autonoma, definita; dal punto di vista visivo gli spettacoli erano curati per lo più dagli scenografi. E così avven- ne nella storica produzione del 1872, affidata per volere di Ver- di al parmigiano Gerolamo Magnani. Ne sortì uno spettacolo studiatissimo anche dai musicologi, perché mai prima Verdi aveva seguito con tanta solerzia le fasi di creazione di una mes- sinscena. Quel che più gli stava a cuore era il contrasto tra l’oscurità del sotterraneo dove si consuma l’amore di Aida e Ra- dames e la luminosità della scena sovrastante affollata di sacer- doti, ballerini, suonatori. Pare tuttavia che l’idea pensata da Ma- gnani per tradurre in pratica tale concetto non funzionò come avrebbe dovuto, probabilmente a causa della scelta di servirsi della moderna luce elettrica anziché di quella a gas. A parte tale dettaglio, fu spettacolo sorprendente, sfarzoso, colorato, con tutti gli elementi di un esotismo pletorico ma non stucchevole, come dimostrano i bozzetti e figurini che lo documentano. E non per caso resistette alla Scala per 50 anni, fino al 1931, quan- do debuttò l’allestimento di Mario Frigerio che rimase in scena fino al 1960, a parte un «ripensamento» nel 1956. Mentre la co- siddetta «Aida blu» di Frigerio si proponeva semplicemente di aggiornare la messinscena originaria mantenendone però il gu- sto «grand-opéra», quella del sempre originale Franco Enri- quez del ’56 costituì il primo tentativo di «pulire» la scena di ogni orpello oleog rafico onde riscoprire un Egitto stilizzato, tut- to statue e colonne in pietra. Le immagini rimaste fanno pensa- re che fosse una bellissima «Aida» — la prima, peraltro, con stu- diati movimenti delle masse — ma al pubblico non piacque. Quel pubblico, d’altra parte, identificava ormai l’opera con il gusto «pompier» esportato da Verona in tutto il mondo. Spetta- coli pletorici, ridondanti, elefantiaci e discutibili, quelli verone- si, che però hanno avuto il merito di diffondere «Aida» come nessun altro titolo del repertorio operistico. Una tradizione ko- lossal che ha origine nel 1913 (nel 1˚ centenario della nascita di Verdi), quando l’architetto veronese Ettore Fagiuoli collocò due maestose sfingi ai lati dell’immenso palcoscenico dell’Are- na e, al centro, un ingegnoso colonnato mobile che serviva a delimitare di volta in volta, insieme con le palme fatte proveni- re da Nizza, i diversi spazi dell’azione. Fu spettacolo trionfale, e trionfale l’accoglienza del pubblico, che era venuto a Verona da ogni dove per assistere alla sfida, allora impensabile, di alle- stire un’opera sotto un cielo stellato. Ed è appunto a Verona, nel solco di quella tradizione, e alla Scala che vanno in scena negli anni Sessanta le prime due «Ai- da» di Franco Zeffirelli: anche qui sfarzo, elefanti, maestose sce- ne di massa, tempi e palazzi magniloquenti, seppure sotto il se- gno grafico di un raffinato gusto «liberty». Ma per la prima volta il pubblico vede anche una regia, un modo di dettare agli inter- preti i perché e i per come di ogni gesto e di ogni espressione, nel rispetto della drammaturgia verdiana. Anche l’«Aida» di Zef- firelli ha lunga vita. Viene sostituita solo una volta nel 1972 — salvo essere riallestita pochi anni dopo — quando in occasione del centenario della «prima» italiana Claudio Abbado chiese a Giorgio De Lullo e allo scenografo Pier Luigi Pizzi (recentemen- te autore peraltro dell’unica «Aida» stilizzata che si sia mai ten- tata a Verona) di disegnare una messinscena che si accordasse con la propria rilettura: meno «spettacolo», più geometria e inti- mismo lirico. Di nuovo, però, la moneta dell’essenzialità non pagò in termini di gradimento di pubblico e nel ’76 venne ri- chiamato Zeffirelli. Si anticipava, tuttavia, un gusto più vicino alla sensibilità di oggi. Un gusto che trova piena consacrazione nell’«Aida» «minimalista» che il regista americano Bob Wilson ha messo in scena nel 2003 a Londra, con Antonio Pappano sul podio: una «Aida» fatta quasi solo di luci pastello e ieratica ge- stualità, che rende giustizia a tutti gli aspetti drammatici di quel- la partitura, e non a uno solo. Una riuscita sintesi tra magniloquenza e stilizzazione è ciò che caratterizza l’ultima «Aida» prodotta a Milano prima di og- gi. La realizzò Luca Ronconi (scene di Mauro Pagano) nel 1985, disegnando un Egitto «archeologico» dove non mancano pira- midi e sfingi ma dove si trovano anche spazi deserti e pietrosi e una labirintica città morta nel finale. C’è curiosità, ora, per questo nuovo spettacolo di Zeffirelli, che torna ad «Aida» cinque anni dopo averne realizzata una «mignon» a Busseto, nella quale riusciva a dare idea del gran- dioso sfruttando da maestro i pochi metri cubi di quel teatrino. Ben altra sfida, tuttavia, è quella di oggi. UN D ESTINO DA K OLOSSAL Prove di Aida del 1963 (dal libro «Zeffirelli alla Scala», edito dagli Amici della Scala) Un momento dell’Aida di Bob Wilson andata in scena a Londra nel 2003 Giovane Essenziale «L Aida ? Per me è un’opera da came- ra, che si apre senza tensioni sceni- che e si conclude allo stesso modo»: provo- catorio fino a rasentare il paradosso, Bob Wilson, classe 1943, racconta la «sua» Aida , profondamente diversa da quelle di Luca Ronconi e di Franco Zeffirelli. Lo spettaco- lo che diresse alla Royal Opera House di Londra nel novembre 2003 esprime tutta la filosofia di questo regista-scenografo, consi- derato uno dei maestri del teatro contem- poraneo: «Sfarzo, immagini grandiose? Niente di tutto ciò — spiega —. La natura del mio lavoro è molto sem- plice: nessuna distrazione scenica, solo luci e colori per esaltare al massimo la musica. Non parliamo però di minimalismo, è una parola che non mi piace perché è stata usata troppo e ha perso il suo significato». Non a caso tre anni fa il Corriere scrisse che Wilson «scolpisce Aida ». La sua regia ha liberato l’opera da ogni retorica, l’ha ripulita dagli ornamenti inutili restituendola allo spazio e al tempo attraverso le luci e il gioco dei colori in con- trasto con gli abiti neutri, «poveri» (ossia privi di fronzoli), dei personaggi. «È lavorando, dirigendo, che ho avuto l’ispirazione — dice Wilson —. Ho cercato di trovare uno spazio alla musica, uno spa- zio che permettesse la concentrazione e la contemplazione nello stesso tempo della musica e del testo. E di questo i cantanti mi sono stati grati». Si avverte, nella formalità cerimonio- sa dei gesti esaltata dalla staticità delle figure, l’influen- za della tradizione teatrale giapponese. In questo mo- do emergono ancora più forti le emozioni trasmesse dalla voce. Un’ Aida che si traduce in un lavoro psicologico sug- gestivo e proprio per la sua natura ridotta all’essenzia- le riesce ad esprimere efficacemente tutta la carica drammatica dell’opera, la sua dimensione intima, sa- crale. Tuttavia, fa sempre un certo effetto sentire il pa- rere lapidario di Wilson sulla rappresentazione verdia- na: «È una vicenda ambientata in un mondo di ghiac- cio, raggelante». «La vicenda in un mondo raggelante Solo luci e colori per esaltare la musica» Roberto Bolle nella «Marcia trionfale» dell’Aida di Zeffirelli (foto Marco Brescia) «G razie a Dio lo stesso Verdi non ci ha lasciato un’opera-documento sull’Egitto, ma un’opera che appartiene al- la cultura dell’Ottocento. Abbiamo cerca- to d’intervenire con fantasia, tenendo con- to che le sue didascalie sono diventate lo- gore. Ho voluto sottrarre l’Aida al peso de- gli orpelli per restituirle nobiltà. Mi dispia- ce che questo sia stato visto come un’offe- sa». Così dichiarò nel dicembre 1985 Luca Ronconi in un’intervista al Corriere rispon- dendo alle critiche rivolte alla sua Aida rappresentata alla Scala. Un’opera «inventata sul pal- coscenico», si scrisse all’epoca: il regista, infatti, ritie- ne che la storia raccontata dal libretto sia illusoria perché la musica crea una nuova situazione che nar- ra un’altra vicenda. Monumentale, nel segno di un Egitto misterioso, pieno di ruderi antichi, dove lo sfarzo del potere si confronta quotidianamente con le fatiche della plebe e il sudore degli schiavi: fu que- sta l’Aida di Ronconi. A creare lo scanda- lo, appunto l’interpretazione stessa del la- voro verdiano offerta dal grande direttore (dal 1999 alla guida del Piccolo Teatro) con la bacchetta di Lorin Maazel, Luciano Pavarotti nel ruolo di Radames e Maria Chiara in quello di Aida. Ronconi spiegò di essersi ispirato, per le immagini, ai «pittori orientalisti tardo-ot- tocenteschi, ma anche alla pittura visiona- ria». Da qui la creazione di un Egitto fantastico, lonta- no dalle solite interpretazioni di Aida , popolate di sfingi, obelischi e piramidi. Un Egitto che nel primo atto affiora, per esempio, con la spianata di Der El Bahari senza il tempio di Hatchepsut immersa in una soffusa luce dorata. «Noi — disse Ronconi — abbiamo voluto rifarci a quello che ci rimane ancora oggi di una grande civil- tà, guardando alla concretezza del relitto e all’archeo- logia, anziché all’arbitrio della ricostruzione. La mia versione è profondamente realistica. Come accade nella nostra storia, ogni cosa è carica di sedimenti, di memorie, di eredità, di passato». «Il mio Egitto archeologico e visionario Mi ispirarono i pittori dell’Ottocento» Diverse suggestioni Nel 1872 l’elettricità usata al posto del gas guastò l’effetto luce-buio voluto da Verdi. Fu Zeffirelli il primo a rendere i cantanti dei veri interpreti BOB WILSON Uno spettacolo minimalista «Aida? Un’opera da camera. Ho permesso agli interpreti di concentrarsi sul canto» SULLA S CENA Monumentale La reazione alle critiche «Le mie invenzioni volevano restituire nobiltà all’opera. Ma ciò è stato visto come un’offesa» LUCA RONCONI Spettacolare in ogni epoca 14 Eventi Scala Giovedì 7 Dicembre 2006 Corriere della Sera

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Le regie

D I E N R I C O G I R A R D I

Aida è stata sempre l’opera dello sfarzo e dei grandiosi movimenti di massa:una tradizione nata all’Arena di Verona. Ma c’è chi va controcorrente

N onostante manchi alla Scala da oltre vent’anni, «Aida»,con le sue oltre trenta edizioni tra nuovi allestimenti e ri-

prese, è il titolo verdiano più rappresentato sulla scena milane-se dal 1901, data della morte del musicista, a oggi. Ciò confer-ma la vocazione scaligera per l’ultimo Verdi, probabilmenteper due ragioni. La prima è storica e deriva dal fatto che «Aida»,«Otello» e «Falstaff» alla Scala hanno avuto il loro battesimo ita-liano; la seconda è interpretativa, perché se si osserva il catalo-go dei direttori d’orchestra che si sono cimentati in tali capola-vori a capo dell’orchestra milanese, si può notare che vi sonobuona parte di quanti hanno determinato la storia interpretati-va dell’ultimo Verdi. Si trovano infatti, in questo «catalogo», inomi di Toscanini, Serafin, De Sabata, Marinuzzi, Votto, Paniz-za, Gavazzeni, Abbado, Schippers, Maazel. A ben vedere, traquanti abbiano lasciato un segno nella storia interpretativa di«Aida», ne mancano solo quattro: Karajan, Solti, Levine e Muti(nel 1974, con un cast stellare: Caballé, Domingo, Cappuccilli,Cossotto, Ghiaurov), che stranamente ha inciso in disco un’ec-cellente edizione ma non ha mai riproposto questo titolo nelventennio della sua direzione stabile a Milano.

La stessa cosa vale per la messinscena, poiché gli scenografie i registi che si sono avvicendati sul palcoscenico del Piermari-

ni hanno indicato di volta in volta un modello, secondo quantodettassero il gusto e la sensibilità dell’epoca, che ha sempre fat-to scuola presso gli altri teatri d’opera.

Al tempo del debutto italiano di «Aida», la figura del registanon era ancora autonoma, definita; dal punto di vista visivo glispettacoli erano curati per lo più dagli scenografi. E così avven-ne nella storica produzione del 1872, affidata per volere di Ver-di al parmigiano Gerolamo Magnani. Ne sortì uno spettacolostudiatissimo anche dai musicologi, perché mai prima Verdiaveva seguito con tanta solerzia le fasi di creazione di una mes-sinscena. Quel che più gli stava a cuore era il contrasto tral’oscurità del sotterraneo dove si consuma l’amore di Aida e Ra-dames e la luminosità della scena sovrastante affollata di sacer-doti, ballerini, suonatori. Pare tuttavia che l’idea pensata da Ma-gnani per tradurre in pratica tale concetto non funzionò comeavrebbe dovuto, probabilmente a causa della scelta di servirsidella moderna luce elettrica anziché di quella a gas. A parte taledettaglio, fu spettacolo sorprendente, sfarzoso, colorato, contutti gli elementi di un esotismo pletorico ma non stucchevole,come dimostrano i bozzetti e figurini che lo documentano. Enon per caso resistette alla Scala per 50 anni, fino al 1931, quan-do debuttò l’allestimento di Mario Frigerio che rimase in scena

fino al 1960, a parte un «ripensamento» nel 1956. Mentre la co-siddetta «Aida blu» di Frigerio si proponeva semplicemente diaggiornare la messinscena originaria mantenendone però il gu-sto «grand-opéra», quella del sempre originale Franco Enri-quez del ’56 costituì il primo tentativo di «pulire» la scena diogni orpello oleog rafico onde riscoprire un Egitto stilizzato, tut-to statue e colonne in pietra. Le immagini rimaste fanno pensa-re che fosse una bellissima «Aida» — la prima, peraltro, con stu-diati movimenti delle masse — ma al pubblico non piacque.

Quel pubblico, d’altra parte, identificava ormai l’opera con ilgusto «pompier» esportato da Verona in tutto il mondo. Spetta-coli pletorici, ridondanti, elefantiaci e discutibili, quelli verone-si, che però hanno avuto il merito di diffondere «Aida» comenessun altro titolo del repertorio operistico. Una tradizione ko-lossal che ha origine nel 1913 (nel 1˚ centenario della nascita diVerdi), quando l’architetto veronese Ettore Fagiuoli collocòdue maestose sfingi ai lati dell’immenso palcoscenico dell’Are-na e, al centro, un ingegnoso colonnato mobile che serviva adelimitare di volta in volta, insieme con le palme fatte proveni-re da Nizza, i diversi spazi dell’azione. Fu spettacolo trionfale, etrionfale l’accoglienza del pubblico, che era venuto a Veronada ogni dove per assistere alla sfida, allora impensabile, di alle-stire un’opera sotto un cielo stellato.

Ed è appunto a Verona, nel solco di quella tradizione, e allaScala che vanno in scena negli anni Sessanta le prime due «Ai-da» di Franco Zeffirelli: anche qui sfarzo, elefanti, maestose sce-ne di massa, tempi e palazzi magniloquenti, seppure sotto il se-gno grafico di un raffinato gusto «liberty». Ma per la prima voltail pubblico vede anche una regia, un modo di dettare agli inter-preti i perché e i per come di ogni gesto e di ogni espressione,nel rispetto della drammaturgia verdiana. Anche l’«Aida» di Zef-firelli ha lunga vita. Viene sostituita solo una volta nel 1972 —salvo essere riallestita pochi anni dopo — quando in occasionedel centenario della «prima» italiana Claudio Abbado chiese aGiorgio De Lullo e allo scenografo Pier Luigi Pizzi (recentemen-te autore peraltro dell’unica «Aida» stilizzata che si sia mai ten-tata a Verona) di disegnare una messinscena che si accordassecon la propria rilettura: meno «spettacolo», più geometria e inti-mismo lirico. Di nuovo, però, la moneta dell’essenzialità nonpagò in termini di gradimento di pubblico e nel ’76 venne ri-chiamato Zeffirelli. Si anticipava, tuttavia, un gusto più vicinoalla sensibilità di oggi. Un gusto che trova piena consacrazionenell’«Aida» «minimalista» che il regista americano Bob Wilsonha messo in scena nel 2003 a Londra, con Antonio Pappano sulpodio: una «Aida» fatta quasi solo di luci pastello e ieratica ge-stualità, che rende giustizia a tutti gli aspetti drammatici di quel-la partitura, e non a uno solo.

Una riuscita sintesi tra magniloquenza e stilizzazione è ciòche caratterizza l’ultima «Aida» prodotta a Milano prima di og-gi. La realizzò Luca Ronconi (scene di Mauro Pagano) nel 1985,disegnando un Egitto «archeologico» dove non mancano pira-midi e sfingi ma dove si trovano anche spazi deserti e pietrosi euna labirintica città morta nel finale.

C’è curiosità, ora, per questo nuovo spettacolo di Zeffirelli,che torna ad «Aida» cinque anni dopo averne realizzata una«mignon» a Busseto, nella quale riusciva a dare idea del gran-dioso sfruttando da maestro i pochi metri cubi di quel teatrino.Ben altra sfida, tuttavia, è quella di oggi.

UN DESTINODA KOLOSSAL

Prove di Aidadel 1963 (dallibro «Zeffirellialla Scala», editodagli Amicidella Scala)

Un momentodell’Aidadi Bob Wilsonandata in scenaa Londranel 2003

Giovane Essenziale

«L ’Aida ? Per me è un’opera da came-ra, che si apre senza tensioni sceni-

che e si conclude allo stesso modo»: provo-catorio fino a rasentare il paradosso, BobWilson, classe 1943, racconta la «sua» Aida ,profondamente diversa da quelle di LucaRonconi e di Franco Zeffirelli. Lo spettaco-lo che diresse alla Royal Opera House diLondra nel novembre 2003 esprime tutta lafilosofia di questo regista-scenografo, consi-derato uno dei maestri del teatro contem-poraneo: «Sfarzo, immagini grandiose? Niente di tuttociò — spiega —. La natura del mio lavoro è molto sem-plice: nessuna distrazione scenica, solo luci e coloriper esaltare al massimo la musica. Non parliamo peròdi minimalismo, è una parola che non mi piace perchéè stata usata troppo e ha perso il suo significato».

Non a caso tre anni fa il Corriere scrisse che Wilson«scolpisce Aida ». La sua regia ha liberato l’opera da

ogni retorica, l’ha ripulita dagli ornamentiinutili restituendola allo spazio e al tempoattraverso le luci e il gioco dei colori in con-trasto con gli abiti neutri, «poveri» (ossiaprivi di fronzoli), dei personaggi.

«È lavorando, dirigendo, che ho avutol’ispirazione — dice Wilson —. Ho cercatodi trovare uno spazio alla musica, uno spa-zio che permettesse la concentrazione e lacontemplazione nello stesso tempo dellamusica e del testo. E di questo i cantanti mi

sono stati grati». Si avverte, nella formalità cerimonio-sa dei gesti esaltata dalla staticità delle figure, l’influen-za della tradizione teatrale giapponese. In questo mo-do emergono ancora più forti le emozioni trasmessedalla voce.

Un’Aida che si traduce in un lavoro psicologico sug-gestivo e proprio per la sua natura ridotta all’essenzia-le riesce ad esprimere efficacemente tutta la caricadrammatica dell’opera, la sua dimensione intima, sa-crale. Tuttavia, fa sempre un certo effetto sentire il pa-rere lapidario di Wilson sulla rappresentazione verdia-na: «È una vicenda ambientata in un mondo di ghiac-cio, raggelante».

«La vicenda in un mondo raggelanteSolo luci e colori per esaltare la musica»

Roberto Bolle nella «Marcia trionfale»dell’Aida di Zeffirelli (foto Marco Brescia)

«G razie a Dio lo stesso Verdi non ciha lasciato un’opera-documento

sull’Egitto, ma un’opera che appartiene al-la cultura dell’Ottocento. Abbiamo cerca-to d’intervenire con fantasia, tenendo con-to che le sue didascalie sono diventate lo-gore. Ho voluto sottrarre l’Aida al peso de-gli orpelli per restituirle nobiltà. Mi dispia-ce che questo sia stato visto come un’offe-sa». Così dichiarò nel dicembre 1985 LucaRonconi in un’intervista al Corriere rispon-dendo alle critiche rivolte alla sua Aidarappresentata alla Scala. Un’opera «inventata sul pal-coscenico», si scrisse all’epoca: il regista, infatti, ritie-ne che la storia raccontata dal libretto sia illusoriaperché la musica crea una nuova situazione che nar-ra un’altra vicenda.

Monumentale, nel segno di un Egitto misterioso,pieno di ruderi antichi, dove lo sfarzo del potere si

confronta quotidianamente con le fatichedella plebe e il sudore degli schiavi: fu que-sta l’Aida di Ronconi. A creare lo scanda-lo, appunto l’interpretazione stessa del la-voro verdiano offerta dal grande direttore(dal 1999 alla guida del Piccolo Teatro)con la bacchetta di Lorin Maazel, LucianoPavarotti nel ruolo di Radames e MariaChiara in quello di Aida.

Ronconi spiegò di essersi ispirato, per leimmagini, ai «pittori orientalisti tardo-ot-tocenteschi, ma anche alla pittura visiona-

ria». Da qui la creazione di un Egitto fantastico, lonta-no dalle solite interpretazioni di Aida , popolate disfingi, obelischi e piramidi. Un Egitto che nel primoatto affiora, per esempio, con la spianata di Der ElBahari senza il tempio di Hatchepsut immersa in unasoffusa luce dorata.

«Noi — disse Ronconi — abbiamo voluto rifarci aquello che ci rimane ancora oggi di una grande civil-tà, guardando alla concretezza del relitto e all’archeo-logia, anziché all’arbitrio della ricostruzione. La miaversione è profondamente realistica. Come accadenella nostra storia, ogni cosa è carica di sedimenti, dimemorie, di eredità, di passato».

«Il mio Egitto archeologico e visionarioMi ispirarono i pittori dell’Ottocento»

Diverse suggestioni

Nel 1872 l’elettricità usata al posto del gas guastò

l’effetto luce-buio voluto da Verdi. Fu Zeffirelli

il primo a rendere i cantanti dei veri interpreti

BOB WILSON

Uno spettacolo minimalista«Aida? Un’opera da camera. Ho permessoagli interpreti di concentrarsi sul canto»

S U L L A S C E N A

Monumentale

La reazione alle critiche«Le mie invenzioni volevano restituire nobiltàall’opera. Ma ciò è stato visto come un’offesa»

LUCA RONCONI

Spettacolare in ogni epoca14 Eventi Scala Giovedì 7 Dicembre 2006 Corriere della Sera