Post on 17-Feb-2019
RASSEG NA BIBLIOGRAFICA
Colonialismo
G eorge W. Baer, La guerra italo-etiopicae la crisi dell’equilibrio europeo, Bari,Laterza, 1970, pp. 536, L. 5.000.
Il titolo italiano è esatto solo nella sua seconda parte, che pure ha scarso rilievo tipografico sulla copertina del libro, perchè la narrazione del Baer si arresta proprio quando la guerra italo-etiopica inizia: il centro di interesse del volume è infatti l’incapacità dimostrata dalla Società delle Nazioni di opporsi validamente all’aggressione italiana, nel periodo che va dall’incidente di Ual-Ual, che aprì ufficialmente la crisi, allo scoppio delle ostilità il 3 ottobre 1935. Il titolo originale, The Corning of the Italian-Ethiopian War, è indubbiamente più aderente al contenuto.
La ricostruzione che il Baer traccia della politica europea nel 1935 è precisa e interessante, sorretta da una notevole conoscenza della bibliografia e da una buona capacità di sintesi espositiva. Sono chiaramente indicate le responsabilità dei governi francesi ed inglesi, entrambi decisi a non opporsi alla iniziativa imperialistica di Mussolini se non nella misura necessaria a salvarsi la faccia dinanzi all’opinione pubblica internazionale; ne derivò la completa crisi della Società delle Nazioni, incapace di una reazione autonoma che sovvenisse all’inerzia della Francia e della Gran Bretagna.
Ci sembra tuttavia che il volume del Baer non costituisca un sostanziale progresso rispetto agli studi di Salvemini, sintetizzati in quel Preludio alla seconda guerra mondiale (Milano, Feltrinelli, 1967) che apparve in edizione inglese nel 1953. La disponibilità di una più ricca bibliografia (per es. del diario Aloisi e dei documenti diplomatici americani) ha talora permesso al Baer di fornire maggiori dettagli, che però riconfermano l’interpretazione salveminiana. Da notare inoltre che il quadro di Salvemini è assai più ampio e convincente: si veda l’importanza assai maggiore (rispetto al Baer) data all’avvento di Hitler che, rompendo l’equilibrio europeo, lasciò all’iniziativa dell’Italia fascista lo spazio per un’espansione
imperialistica, alzando il prezzo dell’alleanza italiana per inglesi e francesi.
Nel volume del Baer apprezziamo 1* chiarezza con cui viene indicata la preminenza delle preoccupazioni per l’ordine interno nella decisione fascista. Come scrive l’autore, « per evitare le conseguenze del suo fallimento nel risolvere i problemi della politica interna, Mussolini cercò di coinvolgere la nazione nella conquista dell’Etiopia» (p. 43). Tuttavia il Baer giunge a questa conclusione sulla base di un’analisi della natura della dittatura fascista del tutto insufficiente, prescindendo dai suoi legami di classe fino a prendere sul serio le declamazioni musso- liniane in materia di corporazioni e di giustizia sociale. Secondo l’autore, Mussolini si sarebbe deciso a puntare il prestigio del regime nell’avventura etiopica solo dopo aver visto l’impossibilità « di attuare per l’Italia un programma globale di riforma sociale ed economica » (p. 43). In questo ed in analoghi giudizi per gli altri stati sono evidenti i limiti dell’impostazione personalistica della ricerca del Baer, che sembra ridurre la storia al gioco di pochi personaggi. Non è ad un’opera di politica diplomatica che si deve chiedere lo studio delle forze sociali ed economiche che stanno dietro le decisioni dei diversi governi, ovviamente; si può però chiedere la consapevolezza che i singoli uomini di stato sono condizionati da un insieme di fattori, che invece non hanno alcuna menzione nel Baer.
E’ indicativa, a questo proposito, la genericità dei suoi accenni a problemi che esulano dalla storia diplomatica, come il comportamento dell’opinione pubblica. Ad esempio, il Baer parla brevemente del successo popolare che l’impresa etiopica ebbe in Italia, ma lo addebita soprattutto al comportamento inglese; e scrive che « l’opposizione britannica fu l’elemento che trasformò gli italiani, avversi o indifferenti alla avventura personale di Mussolini, in vigorosi, patriottici sostenitori dell’imperialismo italiano e del diritto dell’Italia ad agire in maniera indipendente » (p. 210; il concetto è ribadito a p. 476). Tesi interessante, ma priva di qualsiasi sostegno documentario! E così l’autore fornisce molte interessanti informazioni sulla concorde decisione dei dirigenti britannici (civili e militari) di non
102 Rassegna bibliografica
inimicarsi Mussolini, ma non tenta alcuna spiegazione dell’orientamento anti-italiano e filo-societario dell’opinione pubblica inglese; le contraddizioni della politica britannica sono così registrate ma non analizzate, con un impoverimento di tutta la narrazione.
In definitiva il volume del Baer si raccomanda per chiarezza espositiva e ricchezza di informazioni, anche se non per originalità di interpretazione e risultati; si muove inoltre nel campo di una vicenda diplomatica limitata -a pochi protagonisti, i cui legami con le rispettive realtà nazionali non sono neppure accennati.
Il volume è corredato da una ricca bibliografia, in cui lo studioso italiano può trovare utili indicazioni sulla produzione anglo-americana; sono invece ignorate opere italiane del valore de La guerra d’Abis- sinia del Dei Boca (Milano, Feltrinelli, 1965) e le pubblicazioni dell’Ufficio storico dell’esercito sulla preparazione della campagna. Correggiamo infine due piccoli errori della narrazione: Badoglio non fu in Eritrea nel 1934 (p. 50), e non è possibile parlare di integrazione tra milizia ed esercito, sulla scorta di una frase di Mussolini del 1° febbraio 1935 (p. 141).
Giorgio Rochat
J. L. M iè g e , L'impérialisme colonial italien de 1870 à nos jours, Paris, SEDES, 1968, pp. 418.
Segnaliamo con qualche ritardo questo studio sull’imperialismo coloniale italiano che, per quanto destinato esplicitamente agli studenti delle università francesi, viene ad acquistare un certo rilievo anche in Italia per la scarsezza di opere generali sulla nostra politica coloniale. E infatti il volumetto, malgrado la sua rapidità ed i vari limiti che indicheremo, ha un’ampiezza di analisi ed uno spirito critico sconosciuti alla nostra produzione fascista e post-fascista. Non che il Miège abbia condotto studi rinnovatori in materia: egli dipende sostanzialmente dalla produzione esistente (né coglie tutte le aperture del volume del Battaglia su La prima guerra d’Africa), ma, non essendo chiuso da un’ottica nazionalista, non passa sotto silenzio i limiti più evidenti della politica italiana. Le pagine dedicate alla Libia tra le due guerre, ad esempio, sono estre
mamente generiche sulle cause della prolungata resistenza araba, ma danno utili notizie sulla condotta e sul costo della repressione e ridimensionano opportunamente i dati ufficiali sui successi della colonizzazione, richiamandone il prezzo e la modestia dei risultati in confronto alle reali esigenze dell’Italia come della Libia.
Il volumetto, in sostanza, costituisce un utile approccio allo studio della politica coloniale italiana, anche se deve i suoi pregi più alle lacune della produzione italiana che alla profondità della sua analisi. Già il titolo del volume è una concessione ai tempi più che la conclusione di una ricerca scientifica: il concetto di imperialismo, a nostro avviso, presuppone un’analisi generale delle strutture economiche e sociali nazionali, nel quadro di un giudizio di classe; e invece il Miège si limita a trattare della politica coloniale italiana nei termini tradizionali, in cui rientrano le sue rapide considerazioni sulle vicende parlamentari, sugli orientamenti dell’opinione pubblica e sugli interessi immediati coinvolti nell’espansione africana. Gli è così possibile illustrare la politica coloniale fascista senza dedicare un rigo ai legami tra il regime e gli ambienti finanziari ed industriali, concedendo al personaggio Mussolini (come prima a Crispi) un rilievo spropositato. D’altra parte il Miège dedica alcune pagine assai interessanti alle ripercussioni internazionali della vittoria italiana in Etiopia, ma dimentica completamente la lunga resistenza abissina che protrasse la lotta negli anni successivi.
Pregi e limiti del volumetto sono una conseguenza dell’evidente predilezione dell’autore per un certo tipo di fonte francese coeva degli eventi narrati, particolarmente per i documenti diplomatici francesi e per il Bulletin du Comité de l’Afrique française. Si tratta di fonti che sono immuni dal provincialismo e dallo sciovinismo della produzione italiana ed incoraggiano il Miège ad una visione ampia dei fatti, ma nel medesimo tempo lo rinchiudono in una problematica diplomatico-parlamentare molto datata e limitata. Si veda l’appendice documentaria del volumetto, in cui predominano i testi diplomatici, specie di origine francese, senza che sia possibile identificare un coerente criterio di selezione. Certo l’autore utilizza anche molte opere italiane (né gli si può fare addebito della loro povertà!), ma anche in questo la sua scelta ci sembra talora occasionale: si
Rassegna bibliografica 103
-veda la ricca ma disorganica bibliografia, che non costituisce né una guida ad un approfondimento degli argomenti, né una rassegna motivata delle opere principali, né un catalogo completo della produzione esistente.
L’aspetto più deficitario del volumetto è però l’inqualificabile frequenza degli errori di stampa che colpiscono i nomi ed i titoli italiani contenuti nel testo e nelle note. Siamo purtroppo abituati alla disinvolta ignoranza con cui gli editori francesi trattano l’ortografia italiana, ma non possiamo non protestare contro il record di errori che troviamo proprio in un testo dedicato alla storia italiana. A questo livello, la frequenza degli errori di stampa non può essere addebitata solo al tipografo, ma rientra purtroppo nel giudizio di superficialità che il volumetto merita. Che malgrado queste riserve si sia ancora indotti a consigliarne la lettura, la dice lunga sulle carenze della storiografia italiana di argomento coloniale.
Giorgio Rochat
P aolo Maltese, La terra promessa. La guerra italo-turca e la conquista della Libia 1911-12, Milano, Sugar, 1968, pp. 377, L. 3.000. Il
Il Maltese non proviene dalla storiografia accademica, ma dall’attività di pubblicista nel cinema e nel teatro; e questo è un vantaggio, dato l’argomento di cui si occupa. La storiografia ufficiale ha infatti concesso alla guerra di Libia una attenzione limitata ma sicuramente patriottica, in cui non c’è spazio per ripensamenti o autocritiche. Il Maltese invece affronta la materia con l’aggressività che viene da un impegno politico dichiarato, che lo porta a sottoporre a revisione i miti consolidati sulla conquista della Libia. Sulla base di ricerche ampie anche se un po’ disordinate nasce così una « cronaca storico-politica », come la definisce l’autore, cioè una ricostruzione delle origini e delle fasi della guerra che non è stretta in schemi preordinati, non pretende di tutto spiegare, ma si allarga sulla spinta della narrazione e della polemica.
Il maggior pregio del volume è la ripresa della battaglia salveminiana, cioè l’utilizzazione della pubblicistica anti-colo
niale della sinistra democratica e socialista dell’epoca in una prospettiva politica analoga. L’autore si sofferma particolarmente sullo sviluppo della campagna di stampa scatenata dalle destre a favore della conquista della Libia, analizzandone le spudorate falsificazioni e la costruzione strumentale di miti senza fondamento. Concede invece assai minor rilievo alla preparazione diplomatica del governo Giolito, mentre poi dedica molta cura alla ricostruzione senza retorica delle operazioni italiane in terra libica, dagli sbarchi alle battaglie dei primi mesi. L’autore è assai parco di note e citazioni, tuttavia le sue pagine sono sufficientemente documentate ed equilibrate, per quanto dichiaratamente polemiche verso le esagerazioni e le menzogne della tradizione patriottica.
I limiti dell’opera stanno nella rinuncia ad una ricerca autonoma, che vada oltre la pubblicistica e la stampa dell’epoca. Il Maltese infatti si muove nell’ambito degli interessi dell’opinione pubblica di allora: nulla quindi può dire sul sottofondo economico della guerra, di cui pure intuisce l’importanza, e ben poco sulle condizioni di vita e le aspirazioni delle popolazioni libiche. È soprattutto indicativo che il volume si chiuda con la pace italo-turca, proprio quando si apre l’effettiva conquista italiana della Libia; e invece l’autore liquida in poche pagine la guerriglia ventennale sostenuta dagli arabi e la dura repressione condotta dagli italiani: argomento su cui esiste pochissimo materiale e tutto di parte coloniale, ma che pure è fondamentale per qualsiasi storia che voglia rovesciare la prospettiva tradizionale.
Anche nei limiti di una riscoperta della posizione salveminiana, il volume è utile e vivo, e può essere di stimolo ad una revisione della consueta visione patriottica della presenza italiana in Africa.
Giorgio Rochat
Francesco Malgeri, La guerra libica (1911-1912), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1970, pp. 429, L. 7.000.
È questo il primo studio sulla guerra italo-turca del 1911-12 condotto con ricerche sistematiche negli archivi dello stato, del ministero degli esteri e di quello dell’Africa italiana, oltre che attraverso la
104 Rassegna bibliografica
consultazione della memorialistica, della pubblicistica di battaglia e delle fonti diplomatiche edite. Esiste però, a nostro avviso, un’evidente sproporzione tra l’ampiezza di queste ricerche ed i risultati dell’opera del Malgeri, che rettifica in diversi punti l’interpretazione tradizionale della guerra, ma non la sottopone mai ad un esame critico serrato. Il limite di fondo dell’opera è proprio l’ampiezza di una ri- costruzione che vuole abbracciare tutti i problemi connessi alla guerra italo-turca e non può quindi approfondirne alcuno; ecco i titoli degli otti capitoli in cui è diviso il volume, che danno un’idea della vastità degli argomenti trattati in 380 pagine di testo: 1) La penetrazione pacifica e il Banco di Roma; 2) La campagna di stampa a favore dell’impresa. Consensi, critiche, opposizioni; 3) Dalla preparazione diplomatica alla dichiarazione di guerra; 4) I problemi militari e la resistenza araba; 5) I movimenti politici italiani e l’impresa libica; 6) La guerra « futurista ». Miti e realtà; 7) L’Europa di fronte alla guerra libica; 8) Le operazioni nell’Egeo e la pace. Come si può vedere, l’autore spazia dalla politica estera alla stampa, dalle operazioni militari alla letteratura, dalla resistenza araba al malcontento dei soldati, dicendo quasi sempre cose interessanti, ma interrompendo ogni volta la sua analisi prima di giungere a conclusioni proprie, che costituiscano un reale progresso degli studi storici. Gli avvenimenti diplomatico-militari del 1911-12, infatti, non costituiscono un centro unificante sufficiente per un’analisi che finisce col disperdersi in troppe direzioni.
Esemplifichiamo le nostre riserve con le pagine che il Malgeri dedica all’esame dell’atteggiamento dei soldati e dei loro familiari verso la guerra (pp. 276-299), che sono tra le più interessanti ed insieme tra le più deludenti. L’autore registra che « la tesi dell’unanime consenso [dei soldati] all’impresa sembra accettata con maggiore o minore convinzione da gran parte della storiografia intorno alla guerra italo-turca » (p. 280); ne dà anzi chiari esempi e nota la continuità tra la propaganda 1911-12 e quella 1915-18. Conclude che indubbiamente « la ventata nazionalistica e patriottica contagiò [...] gran parte dell’opinione pubblica del paese », soffocando le resistenze all’impresa, che risultano « limitate, isolate, inoffensive » (p. 280). A questo punto però il Malgeri si distacca dall’interpretazione ufficiale e
avanza l’ipotesi che i non molti gesti di protesta anarchici indichino un più vasto malumore di base. Studi in materia non ne esistono, però l’autore. ha meritoriamente cercato e trovato negli archivi di polizia materiale di un certo interesse, ossia lettere anonime di minaccia indirizzate a Giolitti dal fronte e dal paese e notizie su tutta una serie di manifestazioni di malcontento nelle caserme. « Questi episodi, egli commenta, dimostrano chiaramente come tra una parte dei soldati la guerra non fosse affatto sentita, come su di essi la propaganda nazionalista e l’adesione di una gran parte dell’opinione pubblica all’impresa non riuscì a incidere » (p. 292); i più avveduti tra i testimoni « col passare dei mesi si ricredettero sul giudizio emesso nei primi giorni di guerra, nel clima eroico e patriottico creato intorno all’impresa tripolina », quando « tutti avevano salutato il comportamento dei soldati italiani con accenti lusinghieri ed espressioni di grande ammirazione » (p. 296). Il discorso così impostato è assai interessante e sembra aprire una verifica critica di tutta un’impostazione politica e storiografica; e qui invece si ferma il Malgeri, che passa ad altro argomento lasciando deluso il lettore allettato, dopo aver concluso bruscamente che in Libia « il soldato fu visto anche come uomo, con le sue esigenze e i suoi limiti » (p. 299), grazie specialmente alle preoccupazioni di Giolitti per gli umori del paese. Una conclusione veramente sorprendente, senza alcun appoggio documentario, che tronca il promettente discorso già avviato riportandolo nell’alveo del patriottismo moderato ufficiale.
Lo stesso atteggiamento si ritrova, ad esempio, nelle pagine dedicate alla resistenza araba (pp. 176-201). Il Malgeri descrive l’assoluta incomprensione dimostrata dalle autorità a tutti i livelli per la situazione libica reale (anche se, ci sembra, non ne trae le dovute conseguenze sul piano più generale); ma quando poi si occupa, sia pur brevemente, delle cause della resistenza araba, non fa che riprendere le posizioni più scontate. Già le sue prime righe sono caratteristiche: quella araba, egli scrive, « fu una ostilità decisa, sotto certi aspetti veramente e difficilmente comprensibile, se non con la mentalità e con il metro del mondo arabo »- (p. 176): come se dovesse essere possibile comprendere gli arabi con la mentalità dei nazionalisti italiani! Tutte le vicende del
Rassegna bibliografica 105
la repressione e della resistenza sono seguite con l’animo benigno di chi si sente superiore; è così possibile al Malgeri riprendere senza riserve le conclusioni di Luigi Barzini: « L’errore di fondo fu quello di non aver compreso la mentalità araba, di averla giudicata attraverso la mentalità europea, di non aver studiato l’organizzazione sociale di quei popoli, di ignorare i nomi, la potenza, l’autorità dei singoli capi, di andare loro incontro col sorriso e col gesto amichevole, senza nulla sapere del loro carattere sospettoso, incredulo e diffidente, di averli considerati come popolazione, senza sapere che in paesi arabi gli abitanti sono un materiale di guerra» (p. 185; il corsivo è nostro). Che in fondo gli arabi avessero il diritto di difendere la loro terra da una invasione, è un pensiero che non sfiora nè il Barzini nè il Malgeri, che liquida un accenno agli orrori della repressione con un « imparziale » distacco: « Questi fatti erano poi una prova evidente dell’asprezza e della difficoltà che la guerra comportava per entrambe le parti » (p. 198). Nessuno pensa che nell’economia del volume dovesse rientrare una compiuta analisi delle cause della resistenza araba; l’autore avrebbe però dovuto evitare del tutto l’argomento oppure trattarlo seriamente (la resistenza non durò un anno, ma un ventennio!), anziché limitarsi a recepire i giudizi paternalistici del Barzini, riprendendo anche le critiche all’atteggiamento della stampa straniera.
Uguali riserve abbiamo per gli altri capitoli, ognuno dei quali apporta qualcosa di nuovo e di stimolante che non è mai adeguatamente valorizzato. Si veda la chiusa delle pagine dedicate ai nazionalisti: « Dietro il nazionalismo c’erano, invece, forze politiche ed economiche che miravano ad impostare su nuove basi i rapporti all’interno della vita politica italiana [...] su una piattaforma di più accentuato autoritarismo conservatore » (p. 259).Quali fossero queste forze politiche ed economiche, il Malgeri non dice; la sua analisi della situazione italiana si riduce così ad una rivalutazione di Giolitti assai più che della politica giolittiana, di cui si indica la crisi senza una ricerca delle cause.
Un appunto minore, infine, è la scarsa utilizzazione della produzione storiografica contemporanea. Ci sembra che il lavoro del De Leone sulla Colonizzazione dell’Africa del Nord avrebbe potuto essere
consultato e citato con utilità, mentre maggior rilievo avrebbe forse meritato il Maltese che nel suo volume La terra promessa ha anticipato buona parte dell’esame della campagna di stampa nazionalista del 1911 condotto dal Malgeri e trattato assai più ampiamente i problemi della repressione.
Il nostro giudizio conclusivo sul volume del Malgeri è quindi solo parzialmente positivo. Gli riconosciamo l’ampiezza e l’interesse delle ricerche compiute, specie in archivi poco accessibili, ma riteniamo che il suo lavoro avrebbe tratto giovamento da un maggior approfondimento di un minor numero di temi.
Giorgio Rochat
Antifascismo e resistenza
Agostino Conti (« Augusto ») - Franco F iorensoli, Le « Matteotti » nel CVL. Storia della divisione « Renzo Cattaneo », Torino, Associazione partigiani Matteotti del Piemonte, 1970, pp. 333.
Il tema della partecipazione socialista alla Resistenza è stato finora, com’è noto, studiato poco e in modo non approfondito: e ciò sia per responsabilità dei socialisti stessi, che non hanno dato agli studi sulla lotta di liberazione un contributo pari all’importanza della parte avuta dal loro partito, sia per ragioni di ordine storico e oggettivo. Non si può negare infatti che al contributo di rilievo dato dal PSIUP sul piano dell’elaborazione politica negli organismi nazionali e regionali della Resistenza non abbia corrisposto un ruolo altrettanto significativo nella lotta armata, nell’organizzazione e direzione delle formazioni partigiane. Anche se molte lacune devono essere colmate, anche se dallo studio di situazioni locali particolari potrà emergere in futuro una rivalutazione della stessa attività militare socialista, non c’è dubbio che essa si avvicina per importanza ed incisività più a quella relativamente modesta delle formazioni autonome che a quella delle forze garibaldine e gielliste.
Questo volume di Conti e Fiorensoli, frutto della collaborazione di un valoroso comandante partigiano con uno studioso che alle vicende del PSIUP nella Resi
106 Rassegna bibliografica
stenza ha già dedicato altre preziose ricerche, deriva il suo interesse proprio dal modo in cui, da un lato, contribuisce a mettere in piena luce il ruolo politico e militare svolto da una brigata Matteotti nell’Astigiano, secondo la migliore tradizione di una storiografia « locale » che continua ad essere ricca di frutti; e, dall’altro, fa toccare con mano, sulla base di una fitta documentazione tratta dall’archivio della brigata stessa, i limiti che caratterizzarono in generale l’attività delle « Matteotti ».
La storia della divisione « Renzo Cattaneo » (già brigata « Tre Confini ») è sotto questo riguardo esemplare. Le sue origini e la sua iniziale caratterizzazione sostanzialmente apolitica si inquadrano nella visione della Resistenza, che prevalse inizialmente in seno al gruppo dirigente del PSIUP: quella, come ha scritto Arfé, di un movimento spontaneo, più o meno caratterizzato da una carica classista, animato da una forte spinta unitaria, da incoraggiare, da favorire, entro il quale seminare idee, al quale partecipare con tutte le proprie forze, ma senza proporsi fini egemonici di guida. Sulla base di questa concezione il PSIUP, come mettono bene in rilievo anche gli autori, non si preoccupò di dare vita a formazioni parti- giane caratterizzate in senso di partito, e indirizzò i propri iscritti ad aderire alle formazioni partigiane già operanti. Si può dire che questo iniziale ritardo non venga più ricuperato: anche quando viene presa la decisione di costituire e di rafforzare le « Matteotti », il legame fra il partito e le formazioni resta piuttosto labile, quando non è puramente organizzativo. Ci sembra che anche la divisione « Renzo Cattaneo » confermi, almeno in parte, questa impressione: non si può dire una formazione con una forte e precisa caratterizzazione in senso socialista. Socialisti sono, certo, molti dei suoi quadri migliori: e la storia personale del comandante Gino Cattaneo e della sua famiglia sembra esemplificare molto bene l’importanza della gelosa conservazione, durante il fascismo, di un patrimonio di tradizioni socialiste (i Cattaneo sono proprio quelli che Nenni, in un suo famoso scritto del 1932, aveva definito i « segnali di riconoscimento » socialisti); ma la brigata nel suo complesso, a giudicare dagli stralci riportati dal suo giornale, La Voce di Renzo, dal tipo di provvedimenti che adotta nella propria zona operativa nei rapporti con i contadini, e ancor più dal
la sua stessa struttura (in cui è significativa la mancanza di commissari politici di battaglione e di distaccamento, e il ruolo marginale svolto da quelli di brigata), non pare avere un chiaro e definito colore politico, o nutrire propositi che vadano al di là di quelli generosi di un generico rinnovamento sociale che animarono si può dire tutte le formazioni partigiane. È chiaro che con questo nulla si toglie al valore della sua esperienza (che, fra l’altro, appare particolarmente importante come esemplare applicazione di una tattica di guerriglia radicata in zone collinari): oltretutto è da notare, da un lato, come una maggiore sensibilità politica prenda gradatamente forma negli ultimi mesi della lotta, e, dall’altro, come proprio l’assenza di un’accentuata caratterizzazione politica abbia il suo risvolto positivo nell’atteggiamento aperto e unitario verso le altre formazioni, specie le autonome e le « GL » che operavano nella zona: atteggiamento che trova il suo coronamento nella battaglia di Cisterna d’Asti (marzo 1945), sicuramente una delle più importanti della Resistenza piemontese, a cui parteciparono, con una dimostrazione di efficienza militare e di coordinamento politico di tutto rilievo, formazioni « Matteotti », « GL », garibaldine e autonome, infliggendo una severa sconfitta alle forze fasciste.
Aldo Agosti
I giorni della Liberazione, redazione di O. Zappi, ricerca fotografica di F. Mon- tevecchi, Imola, Amministrazione comunale, 1970, 32 pp., sip (allegato al bilancio di previsione 1970).
Questo innanzitutto (prima ancora di scendere su giudizi di merito o meno dal punto di vista scientifico) ci sembra da sottolineare: a quanto ci consta è la prima volta che un’amministrazione comunale presenta come allegato al proprio bilancio, quindi come documento fonda- mentale della vita politico-amministrativa locale, una breve « storia » della propria lotta di liberazione. Se poi passiamo ad esaminare direttamente il contenuto dell’opuscolo, siamo immediatamente colpiti dalla ricchezza del repertorio fotografico in gran parte inedito e proveniente oltre che da raccolte private locali, da importanti archivi esteri quali quelli di Londra
Rassegna bibliografica 107
« Stoccarda. Forse un po’ scarso e « tradizionale » il testo che accompagna il ricco materiale iconografico ma certamente più che valida e da ricordare l’iniziativa.
Luciano Casali
G iorgio Braccialarghe, Nelle spire diUrlavento. Il confino di Ventatene negli anni dell'agonia del fascismo, Firenze, L’autore libri, 1970, pp. 105, L. 1.800.
In forma narrativa memorie e considerazioni di un confinato di Ventotene, catturato dopo complesse vicende — accennate solo indirettamente nel testo — che lo portarono in Spagna, a fianco dei repubblicani, e in esilio in Francia; da dove tentò all’inizio del conflitto mondiale di organizzare una spedizione in Italia, la quale fu stroncata ancor prima di nascere dalla polizia francese, che consegnò il promotore ai fascisti.
Il largo spazio lasciato alle meditazioni personali o alle notazioni, anche un po’ maligne, sul conto dei confinati non lascia molto respiro per notizie più precise sull’orientamento politico personale dell’autore e sulla sua attività quale collaboratore all’elaborazione del programma federalista. Poche le notizie su questo argomento nella corrente memorialistica (soprattutto nelle lettere di Ernesto Rossi a Salvemini): non sarebbe stato male conoscere più da vicino e più precisamente il panorama ideologico da cui il federalismo italiano nasceva, alla vigilia della caduta del fascismo. Dal libro non rimane altro che tentar di spremere qualche indicazione di nomi e di vicende da tener da parte nel caso che altri contributi me- morialistici venissero a integrare le conoscenze per ora sparse e lacunose che possediamo su questo particolare settore.
Luigi Ganapini
J ack O lsen, Silenzio su Monte Sole. La prima cronaca completa della strage di Marzabotto, Milano, Garzanti, 1970, pp. 361, L. 3.200.
Fino al 1949 non si volle credere alla -effettiva realtà della strage di Marzabotto
e non sappiamo fino a qual punto abbia influito su questa voluta « incredibilità » l’enorme numero delle vittime (mai esattamente accertato, ma valutato sommariamente per difetto in 1.830); o il fatto che (come scrive l’Olsen) essendo avvenuto il massacro in provincia di Bologna, in una zona cioè « rossa », i comunisti furono accusati di « strumentalizzare » anche in questo la lotta di liberazione. Cosi, continua Olsen, « i politici cattolici respinsero l’intera storia assumendo una posizione che fu appoggiata da certi circoli tedeschi, coincidendo con la comprensibile riluttanza della Germania ad ammettere simili atrocità ».
Con queste parole conclude la sua Prima cronaca completa della strage di Marzabotto il giornalista statunitense Jack Olsen e molto opportunamente giunge la voce di questo ex ufficiale dell’OSS ad affiancare quella di Renato Giorgi le cui pubblicazioni (Marzabotto parla, Milano- Roma, Avanti!, 1955, pp. 149 e La strage di Marzabotto, Bologna, ANPI, 1954, pp. 163) restavano le uniche ricostruzioni obiettive di quei giorni del settembre 1944 durante i quali si tentò di cancd- lare l’esistenza di tutti gli abitanti del Monte Sole, in comune di Marzabotto. Molto opportunamente, dicevamo, perchè le opere dell’inglese F. J. P. Veale e, soprattutto, la nota La menzogna di Marzabotto (Monaco, Schild-Verlag, 1961) del tedesco occidentale Lothar Greil (oltre che la campagna di stampa internazionale scatenata nel 1967, quando i sopravvissuti rifiutarono la grazia al maggiore SS Raeder, responsabile della strage) tendevano ancora recentissimamente ad avvalorare la tesi diffusa da II Resto del Carlino nell’ottobre 1944: « non è affatto vero che il rastrellamento abbia prodotto la decimazione ed il sacrificio nientemeno che di 150 elementi civili ».
La cronaca ricostruita dall’Olsen si avvale ora della testimonianza di 65 sopravvissuti e — grazie ad una capacità giornalistica veramente inconsueta — attraverso esse e documenti non citati viene rivissuta nei minimi particolari l’intera vicenda umana degli abitanti del Monte Sole negli anni della seconda guerra mondiale. Ed è l’ambiente contadino del Monte Sole che fa da sfondo alla vicenda, un ambiente che viene perfettamente ricostruito nei suoi aspetti sociali ed economici almeno esteriori e più appariscenti: la vita quotidiana su un terreno estrema
108 Rassegna bibliografica
mente avaro, che tuttavia da generazioni dava possibilità di « vivere » a centinaia di mezzadri. Quello che manca in Jack Olsen è la comprensione del fenomeno partigiano, del perchè i contadini poveri del Monte Sole si ribellarono ai bandi repubblichini, del perchè nacque in quella montagna una delle più leggendarie brigate garibaldine, la Stella rossa del Lupo. Ne risulta quindi che la ricostruzione del sorgere e dei primi tempi della formazione partigiana sono troppo spesso fedeli alla « leggenda » piuttosto che alla realtà effettiva, esattamente al contrario di quanto riguarda i giorni della strage.
Su un fatto, tuttavia, vorremmo soffermarci. Secondo quanto scrive l’Olsen, la Stella rossa si ristabilì sul Monte Sole alla fine dell’agosto 1944 in seguito ad ordini « portati da un agente dell’OSS »; compito della brigata era « tenere in pugno la zona » per favorire l’avanzata alleata in corso. A tale scopo furono anche effettuati tre aviolanci alla formazione. Tali ordini costrinsero il Lupo per oltre un mese in una zona facilmente individuabile (come costrinsero i partigiani bolognesi a confluire in città fino alla battaglia di Porta Lame ed i partigiani modenesi a predisporre l’insurrezione e la marcia di avvicinamento alla pianura). Ma di tali « ordini » non si è più trovato traccia al termine del conflitto, per cui spesso si è scritto di una volontà anglo- americana di gettare allo sbaraglio le formazioni garibaldine emiliane come sembrò confermare qualche mese dopo il « proclama Alexander ». Il ritrovarli in questo volume ci fa porre immediatamente un interrogativo: sono essi frutto delle testimonianze raccolte dall’Olsen fra i protagonisti della vicenda di Marzabotto, oppure sono attinti direttamente dalle fonti dell’OSS americano, di cui l’A., ripetiamo, fu membro e delle quali quindi può essere a diretta conoscenza?
Niente di preciso è possibile desumere dal testo, ma resta il fatto che questa è ancora una conferma della « strana » situazione dell’autunno 1944 in Italia, quando gli alleati sembrarono volere valicare l’Appennino e ritardarono invece di sette mesi la liberazione della pianura padana.
Luciano Casali
E. Apih , M. Fabbro, G. Fogar, E. Ma- serati, T. Sala, C. Silvestri, S. Spa- daro, Fascismo, guerra, resistenza. Lotte
polìtiche e sociali nel Friuli-Venezia Giulia 1918-1945, a cura dell’Istituto di Storia medioevale e moderna della facoltà di Lettere e Filosofia (gruppo di lavoro CNR) dell’Università di Trieste, Trieste, Edizione libreria internazionale « Italo Svevo », 1969, pp. 451, L. 5.000.
È evidente che la crisi di trasformazione del vecchio stato agricolo-industriale italiano dopo la prima guerra mondiale si presenta con connotati diversi nel Friuli,, invaso e riconquistato, estrema appendice delle campagne venete, e nel territorio triestino neo-annesso al Regno. Qui la funzione già europea del grosso centro commerciale e industriale è degradata — o meglio tende a una riconversione — nella specifica realtà postbellica contraddistinta dalla sistemazione degli interessi complessivi del capitale italiano nell’area adriatico-danubiana. I contadini smobilitati che riaffluiscono nelle campagne friulane creando fenomeni di disoccupazione di massa (mentre rimangono interrotti i tradizionali canali di sfogo dell’emigrazione) sono diversamente preparati, rispetto all’anteguerra, ad una politicizzazione che trova i suoi presupposti nel « solidarismo di trincea », nelle promesse di terra sciorinate dopo Caporetto dai servizi propaganda militari, negli echi rivoluzionari dell’ottobre rosso.
È il basso clero friulano, legato per estrazione e pratica di vita al mondo contadino — un clero già sospetto di pacifismo durante il conflitto — che contribuisce in modo determinante al definitivo superamento del vecchio clerico-modera- tismo e all’affermarsi anche in Friuli del popolarismo e del leghismo bianco. Ma l’organizzazione economica del movimento cattolico, vincolata alle numerose ramificazioni del sistema bancario veneto e nazionale, contraddice profondamente alla fame di terra propria degli strati contadini più poveri.
Lo scontro di classe violentissimo che investe la provincia friulana soprattutto nella primavera-estate del 1920 e che sembra voler colpire alle radici lo stesso assetto proprietario semifeudale delle campagne trova riscontro nel movimento preinsurrezionale in cui è coinvolto il proletariato urbano. Ma con irriducibile quasi manichea divisione di schieramento sociale e politico: cattolici nelle campagne e socialisti nelle città sembrano partecipare di due mondi inconciliabili.
Rassegna bibliografica 109
Isolato dalle campagne, il socialismo friulano oscilla tra vetero-riformismo e massimalismo velleitario e non sa dare uno sbocco alternativo alle lotte di massa; non riesce nemmeno a far coagulare forme interessanti di spontaneo cooperativismo che intraprende di propria iniziativa lavori di pubblica utilità le cui spese vendono addebitate alle amministrazioni locali e ai ceti abbienti appositamente taglieggiati.
La giovane pattuglia comunista riuscirà soltanto a impostare un’opera di chiarimento ideologico e di riorganizzazione difensiva dello schieramento di classe ormai messo alle corde.
Il blocco agrario solidissimo in Friuli per peso economico e politico adotta la propria risposta di classe tra remore e incertezze, compatibili tutte però con una linea di fondamentale coerenza. I gruppi intransigenti di tale blocco, disposti anche alla scissione, collegati più organica- mente ad una visione regionale e nazionale dei loro problemi, coglieranno meglio la possibilità di razionalizzare la risposta col ricorso flessibile alle squadre fasciste (risulteranno esse stesse trasformate in elemento d’ordine alla vigilia della presa del potere) e con una diversa utilizzazione degli strumenti offerti dall’apparato statale (questura, prefettura, forze armate). Il fascismo acquista tardi, alla fine del ’21, un proprio spazio politico in Friuli.
È interessante come a rinsanguarne le file con dirigenti e gregari — nelle spedizioni punitive -— giungessero in più occasioni forti gruppi di fascisti giuliani. Il fascismo triestino, in particolare, aveva già nell’estate del ’20 offerto un’alternativa di stabilizzazione antioperaia e antislava ai gruppi industriali (armatoriali e assicurativi soprattutto). Questa alternativa (momento di un più profondo processo di riconversione degli interessi locali nelle strutture economiche nazionali) verrà precisandosi nei due anni successivi pur tra battute d’arresto e crisi interne del fascio triestino (soltanto l’ipotesi di ordine consentirà, tra l’altro, di superare le contraddizioni derivanti dall’appoggio concesso all’impresa fiumana e dal successivo disimpegno nei confronti di D’Annunzio). Il fascismo triestino, elemento di m’ dazione tra vecchio e nuovo nazional- imperialismo, per la sua stessa strumentale disponibilità, consentirà ai gruppi della destra economica e politica dominante nella regione, di conservare una propria sostanziale individualità oltre la presa del
potere e nella costruzione stessa dello stato totalitario.
Va piuttosto notato come l’intervento nelle campagne friulane di nuclei fascisti giuliani sottolineasse il ruolo accentuata- mente territoriale che Trieste nel dopoguerra veniva ad assumere verso la regione veneta (dovrebbe essere esaminata la diversa gravitazione che sul centro adria- tico ebbe la penisola istriana). Erano spente le vestigia di « città-stato » che Trieste aveva sostanzialmente conservato nel quadro politico-amministrativo austriaco, ruolo esaltato dalle specifiche funzioni di ampia intermediazione economica e che rendevano secondarie quelle di centro pilota in una regione economicamente, etnicamente e storicamente differenziata. Ora, nel quadro di tendenziale trasformazione politico-istituzionale e di riassetto economico della società italiana, nella prospettiva della nuova politica di potenza europea, il « confine orientale » ipotizzava un blocco regionale omogeneo nella organizzazione amministrativa, nella ricomposi- schematico ai problemi sollevati nei primi difensivi-offensivi degli alti comandi militari. E la conseguente riduzione-eliminazione dei movimenti « sovversivi ».
C’è parso utile un richiamo pur così schematico ai problemi sollevati nei primi tre saggi della raccolta di contributi usciti dal gruppo di lavoro CNR facente capo all’Istituto di storia della facoltà di Lettere dell’Università di Trieste (e a cui ha collaborato anche l’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione): il volume ripropone, pur nei limiti del saggio monografico, le possibilità che si aprono ad una storiografia « locale » che voglia utilizzare correttamente nuove fonti documentarie, ma sappia soprattutto inserirsi nelle prospettive aperte da un più ampio dibattito storiografico.
Il saggio di Silvestri, Storia del fascio di Trieste dalle origini alla conquista del potere (1919-1922), dà un ulteriore contributo alla conoscenza dei complessi sviluppi del fascismo giuliano e dei suoi rapporti con i gruppi imprenditoriali locali. Il taglio stesso dato alla ricerca travalica le vicende triestine per ricollegarsi a quelle più generali della crisi di trasformazione dello stato italiano: notevole il ricorso ad uno spoglio minuzioso degli Atti parlamentari.
I saggi di Fabbro, Le origini del fascismo in Friuli (1920-1922) e di Spadaro, Leghe bianche e lotte contadine in Friuli (1919-1920) sono strettamente compie-
110 Rassegna bibliografica
mentari. Più legato alla ricostruzione del quadro politico-amministrativo locale (ma anche qui vengono colti i legami con la situazione nazionale) il lavoro di Fabbro individua i termini del ritardato sviluppo del movimento fascista in Friuli; si avvale dello spoglio di alcuni fondi dell’Archivio centrale dello Stato e di una lettura attenta della stampa periodica coeva. Singolare e particolarmente degno di nota il saggio di Spadaro (ma ci auguriamo il prossimo adempimento della promessa dell’autore di completare l’arco cronologico della ricerca che dovrebbe giungere fino al 1924). L’attenzione di Spadaro alla nascita di un moderno movimento cattolico nel Friuli del primo dopoguerra è molto opportunamente ricondotta ad un ambito regionale più vasto. Si veda a questo proposito il richiamo alle vicende del Trevigiano, centro importante di tutto il cattolicesimo sociale e politico veneto. Vengono individuate le sollecitazioni non solo culturali di un certo modernismo che aveva messo radici non trascurabili nel seminario di Udine e che spiegano, malgrado l’intervento repressivo della gerarchia e oltre l’accostamento al sociologismo del Tomolo, la formazione di un nuovo clero friulano, protagonista primario nell’opera di ricomposizione del movimento cattolico in Friuli. Corretta e ricca di dati (Spadaro utilizza proficuamente una documentazione di prima mano proveniente non solo dagli Archivi centrali dello Stato ma anche da quelli vescovili della diocesi di Concordia) l’analisi del movimento economico, degli sviluppi impetuosi del leghismo bianco (con alcune vivaci notazioni d’ambiente), delle prime inestricabili contraddizioni che si manifestano nel movimento.
La seconda parte della raccolta antologica, Guerra e resistenza, è dedicata ad una serie di saggi che giungono a ridosso della seconda guerra mondiale, alla crisi incipiente del fascismo o affrontano temi della lotta politico-militare della resistenza, dell’occupazione tedesca nel « Litorale Adriatico ». Ci sembra che il filo conduttore delle ricerche conservi una fonda- mentale coerenza nel metodo e nelle proposte di « fondazione » che ne derivano.
Si veda il saggio di Fogar, Le brigate Osoppo-Friuli: qui l’analisi dei problemi complessi della resistenza, del partigianato friulano, ha sostanzialmente superato ogni intento commemorativo. Al di là degli aspetti militari, studiando la nascita e gli sviluppi di quella importante componente
della resistenza nella regione che fu il fenomeno delle « Osoppo », Fogar coglie i termini organizzativi, i limiti della dialettica: spontaneismo-politicizzazione, propri della lotta in Friuli, le molteplici componenti ideologiche e sociali che confluirono nella formazione e nella vita del movimento osovano. E le interne contraddizioni del raggruppamento: pur nella diversa e specifica collocazione cronologica e tenendo conto dei mutamenti intervenuti in un ventennio con la presenza periferica del regime fascista (mutamenti tutti da studiare: è uno dei limiti più rimarchevoli della raccolta questa cesura di ricerca per gli anni del regime), come non riandare a quel cattolicesimo — presente massicciamente nel movimento osovano — alle vicende del primo dopoguerra, al rapporto clero-contadini, alle sue interne contraddizioni analizzate da Fabbro e Spadaro nella prima parte del volume?
Anche nel saggio di Fogar, come del resto in quelli di Sala e di Apih e in quello finale di Maserati, l’attenzione è ricondotta alle vicende nazionali e, specificamente per questa seconda parte del volume, a quelle internazionali che condizionarono strettamente sviluppi ed esiti della lotta politico-sociale e militare nel Friuli e nella Venezia Giulia. È evidente a questo riguardo, per l’utilizzazione ad esempio delle fonti documentarie, il vantaggio della collaborazione che il gruppo di ricerca ha mantenuto con l'Institut za zgodovino delavskega gibanja di Lubiana.
Proposta di verifica quella che viene dalle pagine di Sala dedicate alla specifica situazione locale (Opinione pubblica e lotta politica a Trieste dalla « non belligeranza » alla « guerra parallela » 1939- 1941). Esse ripropongono tra l’altro il tema rilevante della prima crisi pubblica del fascismo quando, col sostanziale fallimento della campagna di Grecia, tramontano per il fascismo italiano le velleità di un’autonoma « guerra parallela » rispetto ai piani bellici dell’alleato tedesco e si giunge alla crisi Badoglio del dicembre 1940.
Ad Apih va il merito di aver sviluppato e approfondito i termini nuovi di una storiografia della regione non più meramente « localistica » con la ricerca e la stimolante sintesi interpretativa offerte dal suo libro apparso nel 1966 (Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia 1918- 1943, nella prima serie di studi curata dall’Istituto nazionale). Qui (Documenti sulla politica economica tedesca nella Venezia
Rassegna bibliografica 111
Giulia) egli affronta minuziosamente alcuni aspetti specifici dell’occupazione nazista nel « Litorale Adriatico ». Ne risulta ben documentata l’ipotesi di una specifica linea « austro-nazista » fatta propria dal Gauleiter Rainer, rilevante anche per i tentativi di « paternalismo giustiziafista » —- come lo definisce Apih — che il Rainer volle sperimentare in campo sociale (e specificamente per la politica salariale).
Chiude il volume una bibliografia critica dei periodici clandestini della Venezia Giulia in lingua italiana o bilingui (1943-1945) curata da Maserati. Dal suo saggio, frutto di un paziente lavoro di reperimento e di classificazione, risulta sottolineato l’aspetto anche di metodo e di indicazione implicito in un’attività di gruppo attenta ad impostare un discorso storiografico che dia spazio alla elaborazione di alcuni strumenti di lavoro fondamentali per gli ulteriori sviluppi della ricerca.
Ruggero G iacomini, Urbino 1943- 1944.
Cronache e documenti, Urbino, Arga-lla, 1970, pp. 300, L. 2.700.
Al libro di Giacomini, che è corredato da una ricca e inedita appendice documentaria, nuoce un po’ quell’impressione limitativa che il titolo Urbino 1943-44 gli conferisce. In realtà si tratta di una seria e accurata ricerca, non tanto sulle vicende della città di Urbino, quanto sulla classe operaia, sui contadini e su altre forze sociali dell’urbinate durante il fascismo e la resistenza. Un libro quindi nuovo e originale, che tenta una nuova lettura della resistenza marchigiana a partire dall’analisi di una concreta situazione di classe. Ma vediamolo più da vicino. In una zona come quella urbinate, con una economia totalmente agricolo- mezzadrile, con una situazione sociale fortemente statica, il quadro politico che riemergeva, alla caduta del fascismo, era sostanzialmente quello prefascista: da una parte i gruppi politici espressione di forze borghesi e piccolo borghesi cittadine, dall’altra comunisti e, in parte, socialisti che ritrovavano intatto nelle campagne il loro seguito di mezzadri e operai, ma che, per il momento, subivano l’egemonia dei partiti moderati. In questa situazione, il disorientamento, il caos militare e civile che seguirono l’8 settembre
offrirono l’occasione a gruppi e maggiorenti locali (fascisti ed ex fascisti) di farsi portavoce della necessità di costituire, « in queste ore gravi e difficili », un comitato di solidarietà e di unità civica, che comprendesse i cittadini più autorevoli e rappresentativi di tutte le tendenze politiche. Questo in Urbino. In precedenza, già il 12 settembre, in Ancona, era comparso sul Corriere adriatico un appello, di ex squadristi, di eguale contenuto. Óra, la stessa manovra riusciva parzialmente in Ancona (questa « avance » fu, infatti, accolta), veniva ripetuta alcuni giorni dopo a Pesato, Fano, Urbino ed in altre città delle Marche. Ci sembra che Giaco- mini metta bene in luce le motivazioni immediate che spingevano gli ex fascisti o filofascisti a proporre un accordo di quel genere; quello che invece l’autore non coglie appieno, secondo noi, sono le ragioni di classe che portavano alcuni settori dell’antifascismo ad approvare e sostenere tali alleanze. Era insomma il tentativo di ricostituire un blocco borghese-urbano che voleva, sì, seppure solo fino a un certo punto, opporsi ai tedeschi, ma che in realtà mirava ad arginare e ad imbrigliare, per quello che era possibile (fino all’arrivo degli anglo-americani), la vivace presenza comunista nelle campagne e tra le file operaie. Ciò che diventa, invece, più difficile a spiegarsi è l’iniziale atteggiamento di alcuni nuclei comunisti che, in alcuni casi, non seppero, con sufficiente prontezza, far fallire queste operazioni. Ad ogni modo via via che il partito comunista si rafforzava e le sue parole d’ordine cominciavano ad essere più diffuse e conosciute, l’iniziativa passava decisamente nelle mani delle masse popolari ed il rapporto di subordinazione in cui finora era venuta a trovarsi la « campagna » rispetto alla « città » in gran parte si capovolgeva. La seconda parte del libro di Giacomini è dedicata ad alcuni momenti della resistenza nella provincia di Pesaro.
L’autore rileva subito che la guerriglia, nel pesarese, nasce un po’ tardi: nel gennaio ’44 si erano formati appena due gruppi partigiani, il « Picelli » con 50 uomini e il « Gramsci » con 20. È necessario, però, sottolineare che se le « bande », all’inizio del ’44, erano ancora de boli, tuttavia ben presto raggiunsero un livello qualitativo tale che superarono di gran lunga le altre formazioni della regione. Il Battaglia che, per primo, evi-
112 Rassegna bibliografica
denziò e cercò di spiegare questo dato scrisse: « La classe operaia costituisce la maggioranza dell’apparato direttivo... è questo — riteniamo — il segreto del successo ottenuto dalla « Pesaro », la ragione della sua maggiore forza rispetto alle molte unità dell’Italia centrale ». Ma aggiungeva: « [questa classe -operaia]...non ha ancora assolto in pieno alla sua funzione di classe dirigente suscitando attorno a sè e al suo fianco i suoi alleati, ed è sintomo di ciò la mancata formazione di quadri contadini ». Il Giacomini, che tenta una più puntuale analisi dei rapporto città-campagna nella resistenza marchigiana, precisa ulteriormente il giudizio del Battaglia, dimostrando, attraverso un dettagliato esame delle origini della resistenza urbinate-pesarese, che l’apporto delle masse contadine delle frazioni fu determinante per il sorgere del movimento partigiano, e che, poi, la stessa classe operaia locale, di cui scrive il Battaglia, « presenta caratteristiche peculiari che la distinguono, per esempio, dal proletariato industriale del Nord, si tratta infatti nella maggior parte di occupati in piccole imprese artigianali, lavoratori edili e manovali in genere, i quali spesso provengono da famiglie contadine e partecipano tuttora saltuariamente ai lavori dei campi ». In sostanza, però, lo studio di Giacomini non è una acritica rivalutazione del ruolo della « campagna » nella resistenza pesarese, bensì un utile contributo ad una sua più aggiornata valutazione.
Paolo Giannotti
A ristodemo Maniera, Nelle trincee dell’antifascismo, Urbino, Argalìa, 1970, pp. 225, L. 2.200.
È questo il primo volume di una nuova collana editoriale promossa dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, che si prefigge la pubblicazione di documenti, ricerche e memorie sulla storia dell’antifascismo e della resistenza marchigiana.
Nel libro l’A. narra in prima persona — come giovane studente socialista anconetano prima e come comunista sin dal 1921 —, le vicende da lui vissute in Italia e all’estero dall’immediato periodo prebellico della prima guerra mondiale
sino al crollo del nazifascismo. Tali vicende si presentano strettamente connesse alle lotte condotte dal movimento operaio europeo in quegli anni. Lo ritroviamo infatti nel 1925 impegnato nelle lotte della classe operaia di Torino da dove, esule, ripara clandestinamente nel 1929 nella vicina Francia. Combatte quindi nelle brigate internazionali in Spagna; ritorna in Francia ed è internato al Ver- net; evade .e si collega ai maquis e, finalmente, dopo una ennesima avventurosa fuga dal carcere, rientra in Italia nel 1944. Qui lo troviamo nuovamente nelle Marche, emissario del CLNAI, alla direzione del Comitato militare del CLN regionale.
Il libro è scritto con spontanea semplicità, la stessa — come annota nella presentazione Fausto Nitti — con la quale il Maniera ha vissuto e sofferto gli avvenimenti di cui è stato testimone ed autore. La narrazione è stringata, avvincente e molti sono i personaggi, gli antifascisti italiani e stranieri, noti e meno noti, con i quali egli viene a contatto e collabora.
Ci pare che questo volume possa essere diviso in tre parti principali: la resistenza in Italia alla penetrazione del fascismo; l’intervento attivo nei vari fronti europei di lotta; la resistenza armata in Italia. In appendice gli atti del procedimento penale per gli episodi del 1922 nei quali l’autore è coimputato assieme ad altri 53 antifascisti della sua città.
La prima parte del libro, sia nei limiti di una narrazione autobiografica, aggiunge particolari di notevole interesse alla ricostruzione della situazione locale, alla azione che i giovani socialisti anconetani di sinistra conducono tra il T8 ed il ’21 nonché al contributo da essi apportato alla nascita del partito comunista nella città e nei centri rurali ed artigiani limitrofi. E la narrazione, dal momento in cui investe fatti di risonanza nazionale, quali la rivolta dei bersaglieri del giugno 1920 e gli scontri avvenuti per contrastare l’occupazione terroristica della città da parte delle forze fasciste alla vigilia dell’ottobre 1922, assume un andamento corale ed illuminante.
Forse più personalistica —- cosa abbastanza ovvia trattandosi di un lavoro autobiografico — si presenta l’esposizione del periodo torinese e dell’arrivo in Francia. Poi il discorso riassume il tono e l’andamento consono alle grosse vicende politiche e belliche di quegli anni di vita comunitaria degli esuli italiani. Avvin-
Rassegna bibliografica 113
■centi e toccanti si presentano le pagine dedicate all’attività e alla lotta politica a Nizza e Tolosa; ai combattimenti e all’eroismo delle brigate internazionali in terra di Spagna (dove in uno scontro armato presso Argando, l’autore viene ferito); alla resistenza al Bosch.
Passando infine agli avvenimenti italiani (o più propriamente, marchigiani) del 1944 con la rievocazione di episodi spesso inediti o trascurati dalla storiografia locale corrente, i giudizi che l’A. esprime confermano quanto già autorevolmente espresso (dallo stesso Battaglia per esempio) sulle cause che ritardarono il formarsi di un comando ciellenista regionale unitario. Interessante sarebbe stato conoscere più dettagliatamente, a proposito dell’incontro che l’A. ebbe con Parti e Pajetta, l’opinione ed il giudizio di quest’ultimi sulla resistenza marchigiana. Emerge comunque da queste pagine un elemento oggettivamente importante, e cioè che se anche si giunse alla formazione di un comando unico regionale solo il 21 giugno 1944, non si deve ignorare che le Marche vengono liberate proprio fra il giugno e la fine d’agosto dello stesso anno e che quindi solo pochi mesi erano trascorsi dall’inizio vero e proprio della resistenza armata su scala offensiva.
Con la narrazione delle missioni effettuate a Roma, a liberazione della zona avvenuta, per contrastare il disarmo o quanto meno regolare l’utilizzazione delle forze armate partigiane nel loro incontro con gli alleati, chiaro esempio di ciò che più tardi sarebbe successo al Nord, si chiude questo volume autobiografico di 25 anni di vita e storia politico-militare di un rappresentante del proletariato italiano.
Gianfranco Bértolo
Domenico Tarizzo, Come scriveva la Resistenza, Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 279, L. 2.400.
Ottanta pagine di introduzione e quasi duecento di antologia costituiscono la duplice struttura di questo interessante lavoro curato da D. Tarizzo. L’antologia ripropone una serie di articoli e documenti usciti sui giornali della Resistenza, nell’ambito delle diverse correnti politiche antifasciste, formazioni militari e zone
geografiche. Trattandosi di testi spesso non facilmente rintracciabili il libro avrebbe già una sua utilità pratica come raccolta di testi; tuttavia esso vuole andare al di là della compilazione e vi riesce, pur prestando il fianco a riserve, ponendosi come un intervento che tiene conto sia del dibattito storiografico avviato sull’antifascismo e la resistenza, sia delle discussioni politiche attuali.
Mettendo a partito le sue doti originarie di scrittore e critico letterario, Tarizzo nell’introduzione accumula meriti particolari quando dà corpo a quella che deve essere stata la prima intuizione del lavoro; e — analizzando finemente come scriveva la Resistenza — riesce a trarre significativi dati storico-politici da un approccio ai testi che è insieme psicologico e sociologico. L’esempio migliore di questa filologia politicamente rivelatrice — che forse vien da rimpiangere l’a. non abbia deciso di applicare metodicamente, facendone fino in fondo l’asse portante del lavoro — è rappresentato dall’esame de La parola del Bonsenso (pp. 25-28): un dialogo socio-politico sulla guerra e sul dopoguerra tra un erudito e un umile — uscito su Patria e Fede, periodico ciclostilato dalla brigata « Giovane Italia », formazione autonoma di Bassano — che, abilmente interpretato e chiosato dal Tarizzo, mette bene in luce il timbro particolare di una certa resistenza veneta. Altri suggestivi spunti di lettura in filigrana dei testi antifascisti l’a. li offre esaminando il meccanismo dell’ubbidienza interiorizzata — « il patriota è nobile d’animo, accetta e impone la disciplina, non critica, ragiona e obbedisce » — proposta come Legge del patriota nei volantini cattolici del Bresciano (pp. 29-30); studiando il lessico moralistico e tradizionalista, tipico della stampa clandestina veneta (p. 38); e, ancora, l’immagine paterna di Stalin proposta dai fogli comunisti (pp. 39-40); il pessimismo cattolico di De Gasperi, circa i limiti della democrazia e delle riforme (p. 71); e infine il « perbenismo » del Combattente, organo dei distaccamenti e delle brigate di assalto Garibaldi, nell’enumerare i titoli di merito del governo Badoglio (maggio 1944) e la necessità di una assoluta disciplina nazionale (pp. 55-58). Nella stessa direzione si pone l’individuazione che il Tarizzo compie della « espressione tematica di fondo che ricorre [...] nella stampa comunista più qualificata ». L’a. osset-
.3
114 Rassegna bibliografica
va infatti che « l’inserzione nello Stato italiano delle masse socialiste è una costante che riflette bene il pensiero di Togliatti in merito alla funzione finalistica della Resistenza: non rivoluzione del quarto stato contro la dittatura borghese, ma inserzione del quarto stato nella società borghese ’ammodernata’ » (pp. 73-74).
È proprio per questa tesi di fondo riguardo la scelta moderata del PCI che il saggio di Tarizzo si espone a critiche. Non solo da parte di chi intenda negare pregiudizialmente la sola ipotesi di una messa in discussione dell’ortodossia e del fatto compiuto; ma anche di chi -— proprio perchè ritiene maturate le condizioni per un riesame storiografico e politico della resistenza e in essa, in particolare, della forza fondamentale del PCI — può ritenere indicativo dei tempi e stimolante, non però sufficiente, il serpeggiare ad ogni riga di una tesi siffatta, ma nel contesto di un lavoro pensato originariamente secondo un taglio particolare che non consente al lavoro stesso di affrontare mai esplicitamente l’argomentazione e la documentazione della tesi; e che quindi la lascia priva di quella struttura portante che sarebbe necessaria per porre con saldezza d’impianto un discorso critico di tal genere.
Così com’è, nel saggio di Tarizzo coesistono in modo irrisolto due tagli di discorso: quello filologico-politico, privilegiato nel titolo, e quello politico-polemico, prevaricante nelle conclusioni.
In particolare — per quanto si possa ammettere che il linguaggio si trasformi e si adegui più lentamente dei fatti — non riesce facile saldare la rilevazione iniziale effettuata dal Tarizzo dei moduli espressivi e ideologici d’impronta ancora ottocentesca, moralistica, perbenista, di molta stampa partigiana, specie di provincia, con il passaggio — a un certo punto del volume — all’ipotesi di una base più a sinistra del vertice, ma imbrigliata e deviata dal moderatismo cielleni- stico della linea di Togliatti. Certo, molte cose oggi fanno pensare — o desiderare — che una tale dialettica possa esservi stata effettivamente; documenti in questo senso escono p. es., di recente, da L’Italia dei quarantacinque giorni dell’Istituto per la storia del movimento di liberazione; o dal saggio del comandante partigiano Mario Bernardo, che — nei confronti del ruolo frenante dei partiti e dei
CLN — rivaluta il potenziale di lotta del movimento partigiano combattente (Il momento buono, Roma, Edizioni di « Ideologie », 1969). Ma dal momento che il linguaggio dei testi riportati nell’antologia in esame appare, proprio come linguaggio, piuttosto congruente alla impostazione patriottica del PCI che a quella d’una asserita alternativa di classe fermentante alla base del movimento, dal- l’a. ci si sarebbe potuto attendere un contributo specifico assai utile, in linea con le sue particolari competenze e con l’ideazione originaria del lavoro: che cioè avesse cercato di sciogliere il nodo costituito dal contrasto, appunto, tra l’arretratezza ideologica apparentemente denunciata dall’arretratezza dei moduli espressivi della resistenza e, per contro, l’asserito carattere avanzato del movimento sul piano delle istanze e dei programmi politici di base.
A questo proposito, mi sembra si debba pur constatare che il materiale documentario riprodotto in Come scriveva la Resistenza non pare, nel complesso, tale da suffragare per ora in modo probante l’ipotesi di una vasta e consistente contestazione di base al disegno strategico risultante dallo scontro-incontro dei partiti antifascisti al vertice. Una molteplicità di spunti eversivi — non tutti riconducibili alla dialettica unitaria della ricostruzione nazionale — pare semmai di veder riecheggiare da una parte del materiale propagandistico raccolto in L'Italia dei quarantacinque giorni. Il che consente, naturalmente, di mantenere aperta e suggestiva l’ipotesi di fondo dell’esistenza, all’interno del movimento partigiano, di rilevanti spinte centrifughe rispetto al disegno vincente. Senza peraltro misconoscere l’opportunità di alcuni dei rilievi che muove Quazza •— intervenendo appunto in tema di Antifascismo, Resistenza e Rivoluzione (Problemi, n. 22-23, luglio- ottobre 1970) — quando argomenta intorno all’assioma che « non può essere Rivoluzione mancata ciò che non è mai stato Rivoluzione » (pp. 942-943).
Ora — pur tenendo nel giusto conto il fatto che è Tarizzo il primo a dichiarare onestamente che i testi scelti sono lontani dall’esaurire l’argomento — arriverei quasi a dire che la lettera di questi testi, se una suggestione propone, piuttosto che quella di una frattura rivoluzionaria, è quella di una continuità. Voglio dire — anche se qui può essere solo un accenno — che una lettura della stampa del 1943-
Rassegna bibliografica 115
45 sui due fronti, cioè una lettura in parallelo della stampa antifascista e della stampa della Repubblica Sociale, potrebbe condurre a rilievi di indubbio interesse per il nostro discorso; e in particolare a rilevare la concordia discors con cui fascisti e antifascisti organizzano la battaglia ideologica e politica gli uni contro gli altri anche e proprio disputandosi l’eredità del patrimonio ideologico tradizionale della Patria e della Nazione. Un quadro di riferimento e un patrimonio di valori, criteri, miti, a proposito dei quali si potrà discutere chi potesse vantare più fondatamente il proprio buon diritto, o quanto fosse dovuto alle opportunità tattiche e alle necessità di alleanza del momento ecc.; ma che è già di per sè significativo vedere disputati da fascisti e antifascisti; e proposti da tutt’e due le forze in campo come proprio retroterra storico rispetto al quale si reclama la propria continuità; come sistema di legittimazioni nello scontro e nella differenziazione dall’avversario, del quale invece si cerca di dimostrare, rispetto alla tradizione nazionale, la discontinuità e la contraddizione; e, infine, come orizzonte generale della lotta politica del dopoguerra.
Mario Isnenghi
Luca Pallaj « Donato », Le Fiamme Verdi della « Italo », Edizioni a cura dell’ALPI di Reggio Emilia, pp. 296, L. 1.500.
Luca Pallaj, sacerdote di Reggio Emilia e combattente della Resistenza, ha pubblicato recentemente, a cura dell’Associazione liberi partigiani italiani di Reggio Emilia medesima, un interessante e nutrito volume di testimonianze e di ricordi sull’attività militare svolta nella provincia reggiana, durante la guerra di liberazione nazionale, dalla 284a Brigata Fiamme Verdi di estrazione cattolica. Tale brigata, che condusse varie azioni di combattimento con estrema decisione e con energia (tra l’altro il 1° aprile 1945 con un sicuro contrattacco, in unione a reparti del battaglione alleato e del reparto arditi del Gufo nero, ristabilì le linee partigiane sconvolte da una profonda puntata germanica oltre il Secchia), non aveva ancora una sua storia ufficiale — se si eccettuano le pagine a essa dedicate da Guerrino Franzini nella sua fondamentale
Storia della Resistenza reggiana — e particolareggiata, e si rischiava pertanto la dispersione di un vasto e prezioso materiale di ricordi e di documenti testimoniali. Molto opportunamente il Pallaj, dunque, ha raccolto con la collaborazione di altri combattenti della brigata (tra i quali la sorella Agata Luisa, don Domenico Orlan- dini, Luigi Ferrari, Romolo Fioroni, Salvatore Rotanti, Ivo Ghinoi, Bruno Montanari, Bruno Piacentini, Mescenzio Felici) testimonianze ex ore e documenti — molti dei quali assolutamente inediti, come diverse fotografie scattate in zona par- tigiana — per offrire agli ex combattenti della brigata e agli studiosi della Resistenza il suo saggio. Esso, condotto con discreto rigore storiografico, anche se non appesantito da soverchie note erudite, si presenta come un diario antologico di quelle difficili e impegnate giornate: si tratta, quindi, di un libro di notevole interesse che merita di essere letto e diffuso. Un unico appunto si potrebbe rivolgergli: qua e là tra le righe traluce un certo trionfalismo rievocativo che tuttavia si può giustificare nel ricordo dei sacrifici compiuti per la riconquista della libertà in un clima di operosa democrazia repubblicana.
Guido Laghi
Berto Perotti, Tra littòrio e svastica. Memorie delTaltro asse, Quaderni del « Ponte », Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 204, L. 2.000.
Il valore di questa raccolta di scritti, già editi per lo più in forma ridotta rispetto a quella attuale, risiede soprattutto nelle testimonianze dirette dell’autore e nei tentativi di ricostruzione in base alle testimonianze altrui. Sono notevoli i ri cordi relativi all’attività cospirativa attorno al 1930 (l’autore fece parte del gruppo milanese di giovani intellettuali scoperto nel 1937) non tanto e non solo perchè riescono a dare nuovi elementi attorno allo stile cospirativo di quegli anni, ma soprattutto per la ricostruzione dell’itinerario culturale dell’autore e per le vicende che lo portano all’acquisizione di una coscienza politica. È straordinario — ed è anche questo un elemento da capire e non, ovviamente, solo sul piano psicologico — come attraverso le testimonianze vengano posti in risalto, quali elementi determi-
116 Rassegna bibliografica
nanti ai fini della ribellione contro il regime, i dati di una sorta di vocazione interiore, di un’istintiva ripugnanza alla propaganda e alla massificazione del regime. In questo c’è, sicuramente, anche una carenza di prospettiva storica, che non permette al memoralista di dare una dimensione oggettiva e una qualificazione culturale a questo elemento. La parte dedicata a questa vicenda non costituisce, del resto, che una parte del libro; due altri saggi cercano di esplorare la dimensione di due fenomeni della Germania nazista: la persecuzione antisemita e l’opposizione antihitleriana da parte dei giovani. Anche qui il piano personale si impone, conformemente del resto all’intonazione letteraria di tutti questi scritti; e non è difficile scorgere, nella ricostruzione delle vicende della Rosa bianca, una trasposizione di esperienze personali, un’identificazione tra l’autore e i giovani del movimento, i quali provenivano « dalle organizzazioni del regime e studiavano all’università » (pp. 131- 132). Tra gli altri saggi si segnala quello dedicato all’Assalto agli Scalzi, una puntuale ricostruzione della liberazione di Roveda dalle carceri di Verona: la ricostruzione dell’episodio, anche se non esce dai limiti della fin troppo accentuata attenzione agli aspetti militari della Resistenza, è certo pregevole per l’attenta comparazione delle testimonianze.
Luigi Ganapini
Movimento operaio e socialista
Yves Collari, Le parti socialiste suisse et l’Internationale, 1914-1915, De l’Union nationale à Zimmerwald, Ginevra, Droz, 1969, pp. 373, frs. 60, « Publications de l’Institut universitaire de Hautes Etudes Internationales », n. 49.
Non solo in Italia l’attenzione degli studiosi del movimento operaio va riproponendo il dibattito su quel nodo che nella storia del socialismo è costituito dalla grande guerra. L’ultimo numero della Rivista storica del socialismo, interamente dedicato al PSI di fronte al conflitto europeo (ed in cui sono ripresi gli studi di Leo Valiani), è venuto ad arricchire un quadro in cui dominante per
maneva il volume di Luigi Ambrosoli, Né aderire né sabotare. Ma non v’è dubbio che, almeno dal momento dell’intervento, il socialismo italiano subisca una svolta, per la cui valutazione la partecipazione al conflitto costituisce il punto di riferimento obbligato.
Non cosi appare la grande guerra nell’opera del Collart.
Questi si domanda se il 1914 non rappresenti che una semplice pulsazione dell’evoluzione del socialismo, giacché, tenendo conto di tutto, ci si stupirebbe assai più se nel 1914 uno sciopero generale avesse risposto alle decisioni delle cancellerie. Da tempo infatti, « il socialismo era in ritirata » (p. 7). La tensione internazionale, i mezzi per prevenire un esito catastrofico dominavano a tal punto le riflessioni socialiste che la conservazione della pace sembrava condurle assai lontano nelle preoccupazioni comuni sull’obiettivo di edificare una società nuova (P- 13).
Ma si avrebbe torto, tuttavia, a non distinguere le masse socialiste (o, più ampiamente, « operaie ») ed i quadri organizzati. Questi ultimi, da tempo avevano provocato la concrescenza di un’ala moderata e riformista, in tutti i paesi europei. E soprattutto in Svizzera, ove il riformismo aveva due ragioni in più che negli altri paesi: il rapporto con gli operai immigrati e la necessità di conservare la posizione neutrale del paese, scelta, quest’ultima, che innestava il socialismo sugli interessi « nazionali ». Per gli stessi motivi il partito socialista svizzero trovò, sin dalle prime settimane del conflitto, il suo principale interlocutore nel partito socialista italiano, giacché il confine con il Regno era l’unica « bocca di aerazione » (p. 75) che ancora salvasse la repubblica elvetica dall’isolamento e dal soffocamento.
Perciò, proprio perchè la guerra aveva praticamente sospeso l’Internazionale, i dirigenti socialisti non corresponsabilizza- ti nella guerra danno vita ad un nuovo corso del socialismo, di cui la conferenza di Lugano e quella di Zimmerwald costituiscono le due prime, fondamentali tappe.
Collart documenta che, a differenza di quanto generalmente sostenuto, l’iniziativa della conferenza di Lugano — che viene quindi ad assumere un notevole ruolo non solo in vista della conservazione della pace in Svizzera ed in Italia, a ribadire
Rassegna bibliografica 117
gli obiettivi strettamente pacifisti del movimento (pp. 110-118), ma anche ad avviare verso la scelta di posizioni autenticamente rivoluzionarie — venne progettata in ambienti svizzeri, non senza un appello al « Herrn Mussolino» (p. 118) non ancora scivolato tra gli interventisti.
Ma a Lugano, rileva Collart, lo spirito prevalente è quello di un honnête courtier e del cavalier seul (pp. 139 e sgg.), più animato da generico pacifismo democratico che da vero e proprio socialismo, senza ipotesi di cogliere dalla guerra l’occasione per trarre deduzioni pratiche nella lotta di classe di cui il conflitto europeo veniva a ribadire drammaticamente l’attualità e la asprezza.
Ma verso la fine dell’anno, quando è ormai chiaro per tutti che le armi non verranno deposte e che altri paesi potranno essere trascinati nella mischia, il clima inizia a cambiare nel senso di una più aperta ostilità. Nel marzo 1915, « fatto assai inconsueto in Svizzera» (p. 201) si verificano manifestazioni di massa contro l’aumento dei prezzi, e tutto il movimento operaio di quel paese, senza margini, si ritrova su una piattaforma che induce Grimm ad attribuire al partito socialista svizzero il ruolo di prendere in mano le redini della lotta per un risveglio effettivo della lotta di classe (cfr. Wir miissen wagen, in Neues Leben, 3 marzo 1915, pp. 65-70): scelta su cui non dovette essere senza peso la paralisi del PS in Italia ormai incapace di frenare la corsa verso la guerra.
Di fatto, la pace ed il rovesciamento dell’ordine sociale venivano ad unirsi in un unico disegno, divenendo fine e strumento l’uno dell’altro (p. 215). Ma a questo punto riaffiora la frattura tra il movimento socialista e l’union sacrée nationale, sia pure quella « neutralistica » della Svizzera, più preoccupata a gestire e giovarsi della propria pace, che a raggiungere la pace europea con l’obiettivo di rinsaldarla e rafforzarla per mezzo di radicali rinnovamenti sociali.
È in questa situazione che s’inserisce il viaggio di Oddino Morgari in Svizzera (aprile 1915), che determina l’avvio verso la conferenza dei neutri (su cui cfr. il recente Renata Allio, Oddino Morgari socialista, in Bollettino storico-bibliografico subalpino, Torino, LXVIII, 1970, III-IV quadrimestre, pp. 367-392). Il 25 maggio — giorno dell’inizio delle operazioni di guerra tra l’Italia e l’Impero absburgico —, nel comitato centrale del
PSS, l’orientamento che condurrà a congiungere « gli sforzi di individui molteplici e fin là separati, in ordine sparso » (p. 236) appare maturo.
Il cammino verso lo « spirito di Zim- merwald » è tuttavia assai lungo, non solo perchè « la neutralità comportava privilegi che si avvertono spontaneamente portati a compensare con una vocazione mediatrice » (p. 275), ma anche perchè, mentre nuove manifestazioni di massa — ottobre 1915 — pongono in evidenza la lotta politica nella guerra, tranne Grimm, tra i dirigenti socialisti svizzeri, prevalgono le preoccupazioni di non indebolire la compagine, di non mettere in forse la organizzazione e il rapporto con le potenti strutture sindacali scegliendo l’estremismo leninista e rompendo con l’opposizione di destra (pp. 240-241).
Sarà solo nel giugno del 1917, al congresso straordinario del PSS, che viene definitivamente rifiutato il principio della difesa nazionale (p. 284). Ove si abbia presente che nello stesso momento i socialisti italiani si apprestavano a mettere la sordina al formalismo neutralisti- co, parrebbe che i soli socialisti svizzeri — come partito —- abbiano rotto con la tradizione riformistica e si siano proposti una nuova Internazionale. In realtà, scrive Collart, c’è in essi, dai quadri dirigenti alle masse, una « preoccupazione di continuità, una volontà di unire più che di rottura », e il « fine assolutamente prioritario di servire la pace » (p. 289), senza necessariamente passare attraverso la rivoluzione. Sicché pare lecito affermare che con l’allontanamento di Lenin dalla repubblica elvetica si smorza la stretta connessione tra rivoluzione e guerra europea, individuata a Zimmerwald, e proiettata inevitabilmente verso una nuova Internazionale.
Il reflusso dei socialisti svizzeri, conclude Collart, è all’origine dello scarso interesse prestato dagli studiosi anche al momento più intensamente creativo del PSS, al biennio 1914-1915, quando si formano al suo interno le condizioni favorevoli alla promozione di nuovi orientamenti, di cui, tuttavia, gli stessi dirigenti svizzeri non prevedono chiaramente gli sviluppi.
Anche nella ricerca condotta dal Collart —- che si conclude con un’appendice di lettere scambiate tra Grimm e Martov, con il rapporto di Grimm a Zimmerwald, il 6-IX-1915 ed una bibliografia di 30 pagine, una delle più ricche tra quante
118 Rassegna bibliografica
sia dato disporre sul socialismo italiano d’inizio secolo, anche per i riferimenti archivistici — l’indagine sul socialismo svizzero è condotta più per le opportunità da esso offerte a socialisti di altri paesi che per la sua stessa vitalità; e non è detto che tale disponibilità debba essere attribuita ad una sua particolare vocazione internazionalistica. Approfondendo lo studio sui sindacati si potrà forse rinvenire una risposta più analitica, in cui gli interessi prevalenti delle masse lavoratrici dal punto di vista economico e della difesa della condizione privilegiata offerta dalla confederazione elvetica costituiscono il correttivo e il freno costante nei confronti della politicizzazione del movimento operaio.
Infine, non potrà essere taciuta la larghezza dei mezzi che Y. Collart ha avuto a disposizione e di cui s’è giovato: da borse di studio alla costante assistenza di numerosi autorevoli collaboratori e maestri. E ciò non già per diminuire in qualche modo il merito di Collart, la cui opera piace soprattutto per la forza critica che la anima e per il gusto della discussione ideologica, ma al fine di ricordare una volta di più la estrema povertà in cui, viceversa, sono abbandonati gli studi e gli studiosi in questa penisola che non manca occasione di millantare il suo « senso storico ».
Aldo A. Mola
Lotta di classe e democrazia operaia. I metalmeccanici e i consigli di fabbrica, a cura di E. M ia ta , M. Ba ld a ssa rr i, A. P epe , Roma, 1970, 2 voli, di pp. 937, « Quaderni di Sindacato Moderno, n. 5 ».
È accaduto in questi ultimi due o tre anni che il movimento sindacale italiano, mentre ha visto crescere la sua influenza fra i lavoratori e si è indiscutibilmente affermato come forza dirigente e unificante delle loro lotte, ha preso altresì coscienza della sua storia e, in mancanza di apprezzabili contributi di studiosi di professione, ha cominciato se non altro a promuovere la pubblicazione di quelle fonti e di quel materiale documentario che sono la base indispensabile per qualsiasi seria indagine storiografica. Vanno considerate in questo quadro la pubblicazione degli atti dei Congressi della CGIL
dal 1944 al 1965, la biografia di G. Di Vittorio di cui si parla più avanti in questa stessa rassegna bibliografica, l’importante contributo alla storia recente della CGIL fornito da tre giovani sindacalisti cattolici (Cella-Manghi-Pasini, La concezione sindacale della CGIL, Adi, 1968) e vari altri lavori, di valore e impostazione differenti, apparsi dopo il 1966 L
A questi contributi si viene ora ad aggiungere, con una dimensione cronologica più ampia e impegnativa, il Quaderno n. 5 di Sindacato moderno, organo della FIOM, che, nonostante la modestia con cui lo presentano i curatori, risulta di notevole interesse per gli studiosi del movimento sindacale operaio in Italia. Si tratta, in sostanza, di un’antologia di scritti e documenti (per lo più non inediti) incentrata sul tema del rapporto fra sindacato metalmeccanico e organismi operai di base (Consigli di fabbrica, comitati di agitazione, delegati di squadra e di reparto): rapporto non sempre facile ed anzi caratterizzato, in alcune fasi, da una sostanziale incomprensione della FIOM per le nuove forme di lotta e di organizzazione create dalle avanguardie operaie.
I due volumi si articolano in quattro sezioni. La prima fa il punto sulla situazione organizzativa e sull’iniziativa politica e rivendicativa della FIOM all’indomani della sua nascita, riproducendo i due capitoli più importanti di un raro volumetto pubblicato nel 1907 dall’allora segretario dell’organizzazione, Ernesto Verzi: I metallurgici d’Italia nel loro sindacato, libro ancora oggi interessante dal punto di vista storico, perchè riesce a dare un quadro ampio non soltanto dello sviluppo dell’organizzazione in rapporto allo sviluppo industriale, ma di tutta la problematica sindacale e politica dell’epoca, fornendo in particolare una ricostruzione esauriente dei contenuti rivendicativi e della linea strategica della FIOM in quegli anni.
La seconda sezione comprende una scelta molto ampia (oltre 400 pagine) di scritti e documenti sui Consigli di fabbrica fra il 1919 e il 1921. In particolare è seguita attentamente in tutto il suo svolgimento la polemica sui Consigli che divise l’« Ordine Nuovo » e il « Soviet » di Bordiga, — polemica già nota nelle sue linee gene-
1 Per una rassegna completa di questi lavori, si veda l ’ultima parte (1945-1969) del volume II movimento sindacale in Italia. Rassegna di studi, Torino, Fondazione Einaudi, 1970.
Rassegna bibliografica 119
rali ma, per quanto ci risulta, mai raccolta e presentata organicamente in un unico volume — ad inquadrare la quale nel più generale contesto politico italiano ed europeo j iova la breve ma ottima introduzione di Adolfo Pepe. Emerge dalla lettura di queste pagine come — lo rileva proprio Pepe — « la ’necessità determinata’ del consiglio operaio fosse nella strategia ordinovista complementare e stretta- mente legata alla ’azione consapevole’ del partito, del sindacato » e come proprio su questo problema avvenisse la differenziazione polemica dal gruppo bordighista, il quale, mettendo Faccento principalmente sul partito rivoluzionario come agente motore del processo di conquista del potere, vedeva nell’esperimento ordinovista il rischio della trasformazione del Consiglio in « rinnovato strumento di una politica sindacalista e gradualistica, rivolta, al di là di tutte le intenzioni rivoluzionarie, alla collaborazione efficientista con le forze produttive del capitale sul luogo stesso in cui esse avevano più bisogno di collabo- razione, la fabbrica» (pp. 119-121). Insieme a questi documenti sono pubblicate, sempre nella seconda sezione, alcune prese di posizione ufficiali della FIOM sui Consigli, che rivelano appunto la sordità e l’incomprensione di cui si diceva, anche se, come rileva giustamente Pepe, contengono alcuni elementi di fondatezza quando mettono in guardia dal rischio di frazionamento aziendalistico delle lotte ,e della strategia rivendicativa. Purtroppo i documenti della FIOM pubblicati sono relativamente pochi, e rigorosamente ufficiali, mentre sarebbe interessante ampliare ii quadro delle posizioni sindacali includendo nella documentazione ordini del giorno locali e d’azienda (non sappiamo quanto facilmente reperibili).
Il secondo volume, che contiene la terza e la quarta sezione, presta il fianco ad alcuni rilievi critici. La terza sezione è dedicata alla Resistenza e riproduce integralmente i documenti pubblicati da R. Luraghi in appendice al suo II movimento operaio torinese durante la Resistenza-, documenti estremamente interessanti, ma la sezione sarebbe stata più ricca se si fosse tenuto conto anche di documentazione più generale, e riferita a una gamma più vasta di situazioni locali (pensiamo per esempio al materiale reperito da Antonio Gibelli per Genova, in particolare per quanto riguarda i rapporti fra Comitati d’agitazione e CLN di fabbrica, o all’inchiesta condotta nel 1944 a Milano da Lelio Basso in varie
fabbriche della città, pubblicata dalla rivista del PSIUP Politica di classe).
Dal periodo della Resistenza si passa con un salto un po’ brusco agli anni 1964- 1970, a cui è dedicata la IV sezione. Del tutto scoperto resta il periodo 1945-1964: eppure non sono certo mancate in questi anni esperienze che abbiano posto in termini nuovi il problema del rapporto fra sindacato e organismi di fabbrica: si pensi soltanto ai commissari di reparto e ai consigli di gestione, sui quali sono disponibili fonti e documenti di importanza non secondaria. La lacuna nuoce quindi abbastanza gravemente all’unità e alla completezza dei due volumi.
Per quanto riguarda la quarta ed ultima sezione, essa documenta con ampiezza la nuova sensibilità via via dimostrata dalla FIOM — a partire dal Congresso di Rimini del 1964 —• per le nuove forme organizzative a livello di fabbrica. Se un appunto si può muovere, è che la scelta è limitata anche in questo caso a documenti nazionali e ufficiali, mentre mancano quei documenti di organizzazioni locali e di fabbrica che spesso esprimono le posizioni nuove con un’efficacia e una chiarezza d’impostazione quali non sempre è dato di riscontrare nel clima un po’ unanimistico dei congressi e delle conferenze.
Aldo Agosti
P aolo Spriano , Storia del partito comunista italiano, voi. I l l : I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1970, pp. XII-362, L. 4.200.
Questo nuovo volume dello Spriano riapre la discussione che si è sviluppata negli ultimi anni attorno alla storia del partito comunista italiano e che investe questioni di metodo e valutazioni di merito. Le critiche che sono state rivolte all’impostazione seguita da S. nei volumi precedenti, e anche in quest’ultimo (cfr. la recensione di Amendola in Rinascita, a. XXVIII, n. 1, 1° gennaio 1971), si appuntano, sia pure con intenti diversi, sulla preminenza assegnata al quadro internazionale, ai legami del PCI con ITC, e sulla riduzione della storia del PCI a quella del suo gruppo dirigente. Questi elementi sono indubbiamente presenti nella storia di S. ma meritano, a nostro giudizio, un esame distinto e più approfondito, che del resto
120 Rassegna bibliografica
solo in parte sarà possibile condurre a termine nei limiti di questa recensione.
L’immagine tradizionale che i comunisti avevano dato della loro azione nel periodo tra il 1935 e il 1939 prima del volume di S. tendeva a sottovalutare il ruolo determinante svolto da Stalin e dal- l’IC nell’impostare la politica dei fronti popolari. E’ sufficiente rileggere le considerazioni in più occasioni svolte da Amendola o da Sereni per ritrovare, accanto ad un apprezzamento largamente positivo della « giusta » linea dei fronti popolari, l’invito a non considerare tale linea quale espressione dello stalinismo e a porre l’accento piuttosto sulla sua corrispondenza con le esigenze delle masse popolari. Nel volume di S., al contrario, l’analisi parte, correttamente, dalle parole d’ordine dell’IC, dall’analisi delle loro motivazioni, dal ruolo di Stalin, e solo successivamente si restringe a considerare le ripercussioni di tali scelte sulla sezione nazionale italiana, sul suo gruppo dirigente, sulla situazione italiana. Anzi, in questo terzo volume, lo spazio dedicato alle motivazioni « esterne », alla stretta autoritaria e repressiva delle « grandi purghe » staliniane, alle caratteristiche del quadro internazionale, prende un rilievo ancor maggiore che nei precedenti. In particolare, la subordinazione dell’IC alle scelte operate dal gruppo dirigente del partito comunista sovietico, e, ormai, del solo Stalin, l’identificazione, che, di conseguenza, la stessa IC opera, degli interessi del proletariato mondiale con le esigenze della politica estera sovietica, non solo non vengono sottaciute ma escono al contrario in primo piano con grande rilievo. Si vedano ad esempio le pagine assai equilibrate dedicate al patto germano-sovietico, laddove, se si riconoscono le ragioni che determinarono la scelta sovietica, si critica l’adeguamento meccanico dei partiti comunisti occidentali (quello francese in primo luogo) alle direttive dello stato sovietico.
Senonché, quello che costituisce, a nostro giudizio, un corretto punto di partenza non viene sostenuto da un adeguato approfondimento. S. avverte la necessità di spiegare l’intreccio, innegabile, tra la politica dei fronti popolari — che anche per lui costituisce l’approdo positivo di una pluriennale elaborazione — e le esigenze dello stato sovietico nel periodo del massimo potere di Stalin e dell’eliminazione violenta di ogni op
posizione. Su quest’ultimo problema, le- pagine di S. sono assai informate ed eloquenti: i dati sulla repressione, sul modo in cui vennero allestiti i- processi degli anni 1935-’38 costituiscono una documentazione schiacciante dei « crimini » di Stalin. Ma il discorso si arresta qui: salvo pochi e non risolutivi accenni iniziali, la falsariga lungo la quale S. si muove è quella del XX Congresso, della denuncia degli errori e dei crimini, appunto, del « dittatore ». Non che, naturalmente, non siano da tenere presenti le osservazioni dello stesso S. circa l’impossibilità, allo stadio attuale della documentazione, di produrre un contributo davvero soddisfacente all’analisi dello stalinismo nel periodo in questione. Tanto più che, a rigore, una tale analisi non costituiva l’oggetto specifico della sua ricerca. Tuttavia, proprio il punto di vista dal quale egli osserva e valuta la politica del PCI avrebbe richiesto un giudizio meno epidermico e capace di individuare gli elementi strutturali della società sovietica e del quadro internazionale (non esaminato perciò soltanto al livello diplomatico) che contribuiscono a spiegare la « stretta » degli anni 1935- ’38, secondo le indicazioni che anche recentemente sono venute da più parti e che consistono, per dirlo con una formula, nella necessità di applicare il marxismo all’analisi della società sovietica. E’ fin troppo ovvio che, sul piano storiografico, non può essere accettata una sorta di « culto della personalità » alla rovescia che attribuisca, come una volta tutti i meriti, così ora tutte le colpe alla persona, alla volontà tirannica di Stalin.
Nel volume di S. si tende a presentare la politica dei fronti popolari e l’egemonia staliniana in URSS e nellTC come due facce contrapposte: la politica dei fronti popolari è vista come il positivo ed i riflessi dell’egemonia staliniana sull’azione del PCI e degli altri partiti comunisti europei semplicemente come l’ostacolo che si oppone allo svolgimento della giusta politica unitaria. I due problemi vanno al contrario affrontati nel loro complesso e il giudizio non può non essere globale: né, pertanto, allasua determinazione concorre sufficiente- mente il criterio, da altri sostenuto con forza, dell’« analisi differenziata », che prevede una assunzione statica di tutti gli elementi costitutivi del quadro, non raggiunge mai, appunto, una conclusione
Rassegna bibliografica 121
soddisfacente e sintetica e, con un procedimento falsamente dialettico, sanziona il già avvenuto.
Ma torniamo all’oggetto specifico del volume di S., alla storia del PCI nei secondi anni trenta. Sono giustificate le critiche che rimproverano all’a. lo scarso spazio dedicato all’azione del PCI in Italia e la preminenza assegnata alle vicende del suo gruppo dirigente? In questi termini, il problema ci sembra posto male: a molte di queste critiche è sottesa una concezione populistica e giu- stificazionista dell’azione del PCI in I- talia. Cerchiamo al contrario di verificare attraverso uno dei problemi chiave del periodo, l’analisi della politica di fronte popolare, quelli che a noi sembrano i limiti della impostazione di S. Il suo discorso, anche a questo riguardo, parte correttamente dall’analisi delle esperienze internazionali, spagnola e francese, che indubbiamente influenzano la politica del PCI. Di esse, nel quadro di un giudizio sostanzialmente positivo, si pongono in luce anche alcuni elementi negativi: in primo luogo — il riferimento è esplicito per la Francia — lo svolgersi del processo unitario sempre più « dall’alto » e quindi, sembra di capire, il suo tendenziale contrasto con esigenze unitarie di segno opposto. Non è chiaro, tuttavia, se questo limite venga inteso come un limite obiettivo e non contestabile della situazione francese o come un limite almeno in parte soggettivo e imputabile alla stessa impostazione della strategia dei fronti popolari e coinvolgente pertanto una critica all’operato del PCF. Manca invero nel volume di S., che preferisce sciogliere i nodi teorici e politici generali nell’ambito di una narrazione distesa dei « fatti », un giudizio complessivo su tutta intera l’esperienza dei fron- d popolari. Si veda ad esempio l’analisi dell’applicazione, da parte del PCI, della nuova strategia. L’impianto del discorso non esce dal quadro tradizionale: S. illustra, utilizzando con ampiezza le fonti e la documentazione più recente, la presenza dell’antifascismo italiano (e del PCI in modo particolare) nella guerra di Spagna, le ripercussioni anche psicologiche che l’eco di quelle vicende ha nel paese, chiarisce i momenti e i termini del processo di aggregazione unitaria degli antifascisti in esilio in Francia, insiste nel rilevare le crepe che cominciano ad aprirsi nel blocco fascista di potere e di organizzazione del consenso ■— di
cui espressione più consistente appaiono i nuovi atteggiamenti della giovane generazione intellettuale. Ma tutto questo, invece di risolvere, pone una serie di interrogativi. Che rapporto esiste tra la politica di fronte popolare e di unità di azione con il partito socialista elaborata nell’emigrazione, e perciò con evidenti caratteristiche di vertice, e l’atteggiamento e la lotta delle masse popolari italiane? Non è significativo che 1’affermarsi della strategia « frontista » coincida con il crescere in Italia di una leva di intellettuali comunisti e non manifesti un’analoga forza di attrazione nei confronti della classe operaia e delle masse contadine? Anzi, è proprio in questo periodo che cominciano a manifestarsi le resistenze dei quadri e della base del partito alla nuova politica (si cfr. il rapporto di Grie- co del novembre 1937, p. 230). La stretta burocratica, il riferimento ossessivo alla « vigilanza rivoluzionaria » che porteranno alla crisi nella direzione del partito — processo che S. sottolinea criticamente — hanno, nell’interpretazione del gruppo dirigente italiano, come, del resto, più in generale e salvo irrigidimenti tattici, nella linea generale dell’IC, un contenuto esplicitamente antigauchiste: non è casuale che, nello stesso rapporto di Grieco, proprio le accuse di riformismo lanciate da alcuni settori della base alla politica del partito vengano poste alla origine della necessità di una maggiore vigilanza contro le insidie del « trocki- smo-bordighismo-massimalismo ». Del resto, sia pure entro un’ottica strumentale e mistificatoria, le critiche di Manuil’skij e dell’Internazionale (p. 253) colgono nel segno quando rimproverano al PCI di agitare in Italia parole d’ordine eccessivamente « nazionali » e opportunistiche.
Non si tratta perciò tanto di lamentare10 scarso spazio dedicato all’Italia o l’eccessiva attenzione per i dibattiti interni al gruppo dirigente del partito, che rivestono, in ogni caso, un notevole interesse. Le stesse considerazioni svolte sopra sulle « resistenze » della base del partito rischiano di non andare oltre11 livello di uno sterile ribaltamento « politico » e demagogico, se non vengono sostanziate da un’analisi che investa le strutture e la dinamica sociale della società italiana durante il fascismo. E’ il taglio generale della ricostruzione, pertanto, che si presta a rilievi critici. Rilievi che, d’altronde, più che investire i risultati della ricerca di S. denunciano il ri-
122 Rassegna bibliografica
tardo con cui la storiografia italiana ha affrontato il problema.
Nicola Gallerano
Varie
C h r is t ia n Z en t n er , La guerra del dopoguerra. Storia documentata dei conflitti militari dal 1945 ad oggi, Milano, Biet- ti, 1970, pp. 523, L. 7.500.
L’idea da cui parte questo volume (uscito in edizione tedesca nel 1969) è interessante e viva: dare una ricostruzione sintetica delle tante guerre che tormentano il nostro tempo, stabilendo alcuni collegamenti e punti di riferimento. Purtroppo lo spunto iniziale è sprecato per la fragilità dell’impianto dell’opera: l’autore si ferma sempre e solo agli aspetti più superficiali e drammatici dei conflitti evocati, con un taglio che non è neppure ideologico (malgrado il facile anticomunismo dominante) quanto qualunquistico e giornalistico nel senso peggiorativo del termine. L’opera vive quindi solo per l’apparato fotografico assai ricco, anche se non particolarmente nuovo, mentre anche i dati utili che fornisce vanno presi con beneficio d’inventario data la superficialità dell’insieme.
Giorgio Rochat
C esa re D e Sim o n e , Soldati e generali a Caporetto, Roma, Tindalo, 1970, pp. 322, L. 3.200.
Dopo tanti inutili e vuoti libri patriottici sulla grande guerra, ben venga questo di De Simone che, rovesciando la prospettiva solita, presenta la guerra che i soldati vissero realmente, una guerra atroce condotta da generali esperti soltanto nella repressione e nell’arrivismo. Il De Simone raccoglie testimonianze note, meno note e inedite (per es. lettere di soldati all Avanti!) della repressione sistematica e brutale, del malcontento delle truppe, dell’incompetenza e della limitatezza dei comandi. Si potrebbero avanzare riserve su singoli punti della ricostruzione, su alcune interpretazioni e su strani silenzi (per es. riguardo
alle opere dissacratrici dell’Isnenghi), come pure si potrebbero elencare diversi errori di informazione; tuttavia il libro non ha ambizioni scientifiche, si presenta come una violenta e appassionata requisitoria contro tutta una guerra ed una storiografia. Di requisitorie del genere sentiamo un estremo bisogno, dato il perdurare dei miti patriottico-fascisti che ancora avvolgono la grande guerra; auguriamo quindi il massimo successo a quest’opera appassionata, viva e stimolante.
Giorgio Rochat
Sil v io Ber to ld i, Vittorio Emanuele III,Torino, UTET, 1970, pp. 492, L. 6.200.
Vittorio Emanuele III: l’uomo sbagliato nel posto sbagliato, come spesso accade di incontrare nella storia delle monarchie rette a principio dinastico, un di coloro che, come dice il Machiavelli « non aveva parte alcuna di re, altro che il regno ».
Un pover’uomo, che ha esercitato il regno come un modesto borghese governa la sua famiglia; interessi limitati, molta prudenza, un po’ di furberia e piccole nascoste passioni. Unico desiderio: liberarsi, senza correr pericoli, del pesante fardello; in silenzio sparir dalla scena e rifugiarsi nel suo ristretto mondo; se questo non si può fare, sopporta in silenzio con quelle sue tenaci e segrete aspirazioni nel cuore.
I suoi carcerieri sono tutti per lui buoni ed intelligenti, ci tiene a dirlo forte, anche se il suo pensiero è ben diverso. Ignora o finge di ignorare tutto; governa solo pavidamente l’equilibrio del suo circoscritto ambiente personale. Farebbe pena se non fosse un transfuga di ben più alte responsabilità.
Ha un suo moralismo spicciolo, che gli fa pronunciare spesso retti apprezzamenti; ma odia tutto quello che dovrebbe invece essere affermazione di una personalità consapevole del suo alto grado; si scambierebbe subito con il più oscuro dei suoi servitori, pur di fare la tranquilla vita che gli piace: caccia, pesca, passeggiate in campagna, letture. Sente fortemente gli affetti famigliari, ma li avvolge in una rigida atmosfera di autoritarismo da piccolo borghese reazionario e chiuso.
Non gli sfugge un solo giudizio compromettente verso il regime e gli uomini del regime finché sono al potere, dai quali
Rassegna bibliografica 123
sopporta umiliazioni ed offese senza ribellarsi, limitandosi talvolta coi più fidi a qualche timido mugolio di protesta, che subito tace.
Si affretta allora a dichiarare che Mussolini è una gran testa, un uomo buono e generoso, e pieni di buone qualità sono un po’ tutti i suoi padroni; la paura lo fa mentire anche con se stesso.
È incapace nel modo più assoluto di valutare atteggiamenti nobili e coraggiosi; ignorante per ostinata volontà delle vere condizioni dell’Italia, si manifesta ostile agli uomini di cui pur conosceva il valore e che erano passati all’opposizione: a testimoniare questo suo animo arido e cattivo basterebbero questi suoi giudizi su Amendola e su Croce che leggiamo nel diario del suo aiutante di campo gen. Sca- roni, nel febbraio 1934: « Amendola si è è trovato dall’altra parte per una pura coincidenza di fatti; non per temperamento suo. Era un uomo di valore, lo riconosceva anche Mussolini al quale dispiaceva in fondo che gli si fosse messo contro.
Anche a Croce è toccata la stessa cosa; sono state le discordie locali del suo paese che lo hanno mandato con gli avversari del fascismo. Era in lotta politica con una famiglia dello stesso paese. Poi, sa, un po’ anche la tirannia di qualche piccolo gerarca del posto, di quelli un po’ esuberanti, giovani, che non sempre sanno interpretare le direttive dei capi. Sa, quello, però10 l’ho avuto due anni come ministro, non mi è mai piaciuto molto, non so, non voglio dire nulla, non mi piaceva troppo ». Per compiacere al regime si dilettava di essere dispregiatore di quegli uomini che pur avevano sostenuto il suo regno; dice11 Bertoldi: « Di Giolitti diceva soltanto: ’la sua forza era nella regolarità della sua vita’. Un giudizio miserabile, oltre che irriconoscente. Giolitti aveva messo su il regno, gli aveva concesso una etichetta di democratico non meritata, era stato il più grande uomo politico italiano dopo Cavour. Lui lo liquidava con una battuta. Vittorio Emanuele si conosce attraverso queste luci equivoche » (p. 329).
Il libro del Bertoldi analizza con piacevole stile la personalità di Vittorio Emanuele III, dall’infanzia fino alla morte nel- l’ignominioso esilio.
Il biografo segue le tappe del lungo regno orientando la ricerca su di un motivo fondamentale, quello che portò Vittorio Emanuele a prendere decisioni gravi per il paese senza tenere alcun conto dell’auto
rità del parlamento: la dichiarazione di guerra del maggio del 1915 e la chiamata di Mussolini al governo nell’ottobre 1922.
Cedeva per paura alla piazza dimenticando che il suo potere era condizionato dallo Statuto; si richiamava poi allo Statuto, già largamente violato, quando avrebbe dovuto assumere atteggiamenti chiari ed energici.
Il 4 novembre 1926, alla proclamazione delle leggi eccezionali, il gen. Caviglia scriveva nel suo diario: « La dinastia dei Savoia con Vittorio Emanuele III è scesa dal suo altare. Essa ha permesso la violazione della Costituzione, ha lasciato manomettere la libertà accordata ai cittadini dallo Statuto, ha proscritto molti cittadini per ragioni extra-statutarie che hanno carattere di persecuzione ».
Il re si rifiutò sempre di fare il minimo sforzo per capire le situazioni, perchè capire vuol dire trarre conseguenze ed assumersi responsabilità, cose dalle quali rifuggiva per istinto; non è stato, quindi, mai possibile ad alcuno informarlo della vera situazione: le sue orecchie erano perennemente chiuse a questi discorsi, si rifugiava allora nel suo impegno costituzionale, egli che aveva tollerato in silenzio la liquidazione dello Statuto fino alle prerogative del Gran Consiglio in materia di successione dinastica.
La vergognosa fuga di Pescara fu il sigillo naturale di una vita in cui la pavidità cieca ed un represso umiliante complesso di inferiorità furono i motivi dominanti.
Mal tollerato e odiato da Mussolini e dai fascisti, disprezzato e sospettato dai tedeschi, tutto fu sempre disposto a perdere, dignità, stima, onore, pur di conservare un posto ormai svuotato di ogni contenuto concreto ed ideale.
Le pagine del Bertoldi sono una testimonianza eloquente degli atti e dei comportamenti di questa triste figura di re, al quale toccò, per un fatale destino, chiudere nell’ignominia le vicende di una dinastia, cui la retorica ed una tradizione agiografica avevano attribuito meriti e virtù troppo grandi di fronte alla realtà della storia.
Bianca Ceva
M aria G razia M el c h io n n i, La politica estera di Carlo Sforza nel 1920-21, in Rivista di studi politici internazionali, ottobre-dicembre 1969, pp. 537-570.
124 Rassegna bibliografica
Il saggio raccoglie le conclusioni di una ricerca che l’A. ha condotto principalmente sul Diario prefascista di Sforza (apparso sulla Nuova Antologia, nel 1967- 1968, fase. 2004 e 2005) e sulle carte inedite dell’Archivio Sforza. Il discorso, infiorettato di cenni aneddotici sulle pose esibizionistiche del personaggio, si accentra nella rivendicazione degli orientamenti sforziani come unico vero tentativo, si vedano le pagine su Rapallo, di porre su basi solide e in lunghe prospettive V inorientamento della politica italiana. Dapprima come plenipotenziario a Corfu, poi come alto commissario a Costantinopoli, quindi alla Consulta, infine in qualità di ministro degli Esteri dell’ultimo governo Giolitti, Sforza avrebbe svolto con coerenza, muovendo dall’eredità degli ideali mazziniani, le fila di una nuova presenza italiana nei Balcani e in Mediterraneo, una presenza intesa ad assicurarci funzioni di guida e di garanti della situazione generata dalla dissoluzione dell’Austria-Un- gheria e dell’Impero ottomano. Su questo terreno si misuravano le divergenze rispetto a Sonnino e ai nazionalisti, alla loro sopravvalutazione dei problemi territoriali (Dalmazia).
Utile per la messa a punto di alcuni aspetti collaterali, lo studio presenta peraltro due motivi di grave insufficienza. Da un lato esso è prigioniero del personaggio Sforza e obbedisce all’assioma che vede nella genesi della politica estera un puro prodotto delle cancellerie; dall’altro, conseguenza della prima constatazione, recide ogni possibile collegamento tra politica interna e politica estera. Così, il problema di decifrare le accoglienze, in Parlamento e tra le forze politiche, del trattato di Rapallo viene sostanzialmente eluso. Affermare dapprima che « l’opinione pubblica, che attraversa apparentemente un periodo di stanchezza, parve accettarlo » e poi che, all’opposto, « sotto sotto, lo spirito d’avventura pervadeva il paese e reclamava una pace gloriosa, capace di impressionarlo, di sedurlo, di esaltarlo », significa annegare il problema in notazioni psicologiche che si commentano da sole. In realtà, a mezzo il ’21, quando cadono Giolitti e Sforza, la situazione italiana si muove su linee che pongono decisamente in secondo piano la politica estera, per cui fare di questa, come l’A. pure inclina, una protagonista del momento, comporta accogliere una prospettiva di indagine distorta e superficiale.
Massimo Legnani
Comuni e province nella storia dell’Emilia-Romagna. Cento anni di politica di sinistra, a cura di L. Arbizzani e A. D ’Alfonso, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 313, L. 5.000.
' «Uno dei temi più ricorrenti nel dibattito politico, ormai da molti anni, è la ragione per cui l’Emilia è rossa ». Con queste parole Luigi Arbizzani ed Aldo d’Alfonso aprono la loro vasta antologia che illustra l’operato delle amministrazioni « di sinistra » nella regione emiliano-romagnola fino al 1969. Pur se traspare, forse troppo chiaramente, il fatto politico che ha spinto all’edizione del volume (e cioè le elezioni regionali del giugno ’70), la fatica dei due curatori riesce, in gran parte, a trascendere quello che potrebbe essere uno stimolo politico contingente ed a presentare — specialmente nella prima parte del lavoro, che riporta documenti redatti fino al 1945 — una scelta di vivo interesse e spesso per opere di difficile reperimento.
Se, comunque, ci è permessa una osservazione, dobbiamo rilevare che, a parer nostro, se scopo degh AA. era lo « spiegare » il perchè la regione emilianoromagnola sia rossa-, ebbene tale obiettivo non è stato conseguito. Nel senso che i documenti che ci vengono presentati non servono al lettore a giustificare le scelte politiche dell’elettorato di tale regione. Questa carenza è dovuta necessariamente al « taglio » che è stato dato al volume. Esaminando ed illustrando l’operato delle amministrazioni social-comuniste dell’Emilia-Romagna non può essere possibile dare un quadro completo della partecipazione di gran parte dei cittadini alla « gestione del potere ». In tale regione, più vive e numerose che altrove sono state e sono le organizzazioni cosiddette « di massa » a portare avanti determinate scelte politiche, a sostenere la lotta per una democrazia più reale e più diretta. Ne appaiono esempi probanti nei momenti culminanti della storia emiliano-romagnola: la lotta contro il fascismo e la guerra di liberazione. A tale proposito, Arbizzani e d’Alfonso presentano alcuni documenti inediti sulle giunte popolari del Ravennate che hanno costituito il primo (ed unico) esempio di una applicazione integrale di alcuni assunti portati avanti nella lotta clandestina attraverso i Comitati di liberazione: la gestione diretta, popolare, « unitaria » e- decentrata del potere locale.
Il contributo emiliano-romagnolo alla Resistenza è del resto testimoniato più che ampiamente dal numero di decorazioni al valor militare e civile concesse ai gonfaloni dei suoi comuni, le cui motivazioni occupano ben sei pagine (115-120): 11 al VM, 3 al VC (ma ci si è dimenticati del comune di Cotignola, decorato nel 1964).
La parola d’ordine, lanciata da Andrea Costa e fatta propria dai socialisti romagnoli: « impadroniamoci dei comuni »,costituì una svolta storica per l’intero paese, in quanto rappresentò la prima presa di coscienza della classe operaia della necessità di passare ad una fase « attiva » nella opposizione al liberalismo (e la « conquista » di Imola risale al 1889, se non erriamo). Le amministrazioni che pian piano passavano ad una gestione socialista, costituivano una nuova realtà stimolante anche per gli avversari, ed in questo senso sono di particolare valore la Relazione sull’operato dell’amministrazione Zanardi di Bologna (1914-1920, pp. 86-93); il discorso di insediamento di Anseimo Marabini: « non in nome del re, ma in nome del popolo io dichiaro costituito ed insediato il Consiglio comunale socialista d’Imola » (ottobre 1920, pp. 93-94). Storicamente importanti ci sembrano pure le parole con le quali Ennio Gnudi salutò la propria nomina a sindaco di Bologna il 21 novembre 1920: alle sue parole i fascisti risposero dando il via a quelle azioni che portarono all’eccidio di 10 bolognesi: la prima azione squadrista in Emilia, l’inizio dell’azione dei fasci contro le amministrazioni democratiche della regione.
Un ultimo documento che vogliamo ricordare è quello che sancisce il 26 giugno 1944 la nascita della prima « repubblica » nel territorio nazionale, quella di Montefiorino, liberata dai partigiani di Armando e Barbolini unitamente ad altri sei comuni modenesi e reggiani il 18 giugno: la prima amministrazione « eletta dal popolo con libera votazione » chiudeva simbolicamente il periodo fascista; anche se altri dieci mesi dovevano passare per la sconfitta militare della RSI e del nazismo in Italia, la nascita della « repubblica » di Montefiorino ne segnava una assoluta ed irreversibile sconfitta morale.
Luciano Casali
Luciano G allino, L’evoluzione d e l l astruttura di classe in Italia, in Quaderni
di sociologia, a. XIX, 1970, fase. 2, pp. 115-156.
Scritto per un seminario sulle strutture di classe in Europa tenutosi in Gran Bretagna nel 1969 e pubblicato in italiano in una rivista specializzata ed a diffusione oggettivamente limitata, il saggio del Gallino presenta a nostro avviso alcuni spunti interessanti e tali da auspicarne un’ampia lettura. Alcuni dati contenuti risulteranno forse ovvi al lettore italiano, ma il modello di struttura di classi che viene delineato può risultare stimolante per chi sia interessato ad una analisi della società italiana odierna.
Centro dell’attenzione e del modello di società sviluppato è la « classe » intesa come attore storico, sia che agisca consapevolmente come classe, sia che agisca come classe « in sè ». Dopo aver criticato i modelli ricavabili dal Lensky (secondo il Gallino esiste un unico « sistema di classi » e non molti), dal Runcisman (viene ribadita l’importanza di distinguere tra « classe », « status » e « potere ») e dal Dahrendorf (le società europee sono società miste riguardo al modello di mutamento strutturale) il Gallino delinea i tratti fondamentali di un sistema di classi riscontrabile ed applicabile alla situazione italiana.
L’Italia, si legge, non presenta un sistema omogeneo derivato da un’unica formazione sociale, ma diverse formazioni tra regione e regione: all’interno della formazione generale genericamente « borghese » coesistono tre formazioni sociali distinte, storicamente determinabili, in lotta Luna contro l’altra per adattare la società totale a se stesse. Una formazione « tradizionale », basata sulla proprietà e sulla produzione agricola e localizzabile ora nelle regioni centro-meridionali; una formazione « moderna » di capitalismo concorrenziale sviluppatasi nelle regioni settentrionali ed una formazione « contemporanea » caratterizzata da un capitalismo dirigistico e localizzata nelle regioni nord-occidentali.
Riconoscere la realtà sociale italiana come composta da tre formazioni distinte e coesistenti permette così di eliminare gli ambigui termini di « settore arretrato » e di « residuo » e costringe il ricercatore a scontrarsi con la realtà, quale essa sia, senza correre l’errore di scartare dall’analisi settori comunque perduranti ed agenti. Inoltre proprio la coesistenza delle tre formazioni consente di capire come mai
Rassegna bibliografica 125
126 Rassegna bibliografica
una classe, pur mantenendo la sua omogeneità, può presentarsi contemporaneamente con diverse modalità sulla scena nazionale.
Le classi che il Gallino individua sono: proprietari terrieri, imprenditori indipendenti, classe di servizio (professionisti), alti dirigenti, politici di professione, funzionari dello stato, lavoratori industriali, lavoratori agricoli non proprietari, coltivatori diretti, artigiani e piccoli commercianti, intellettuali, tecnici.
Ogni classe è analizzata sommariamente all’interno delle tre formazioni e, utilizzando i criteri di « prestigio », « potere » e « reddito », il Gallino individua per ogni singola formazione la classe effettivamente dominante: i proprietari terrieri in quella tradizionale, gli imprenditori indi- pendenti in quella moderna e gli alti dirigenti nella contemporanea.
L’analisi che il Gallino conduce può rappresentare a parer nostro solo l’esemplificazione di un uso possibile del modello interpretativo più che avere valore in sè: il materiale usato è ancora scarso per presentare margini sopportabili di scientificità che permettano di ben definire le classi e la loro posizione all’interno delle tre formazioni. Nè altrimenti sapremmo spiegarci alcune evidenti lacune: gli alti dirigenti sarebbero tali « in base alla loro preparazione ed esperienza » ( ! ), i politici di professione (e qui sono comprese anche le alte sfere dei partiti di opposizione) ad un’analisi più approfondita potrebbero non presentare rispondenza ai criteri costitutivi della classe (formerebbero una classe nella misura in cui anteponessero i propri interessi personali, di potere, a quelli delle parti che tutelano), l’analisi degli intellettuali è un po’ sommaria e dal quadro totale mancano completamente gli impiegati, il clero e i militari di professione.
Ma sarebbe errato pretendere di trovare in poche pagine un’analisi completa della struttura di classe in Italia: pur con alcune carenze, l’esemplificazioae di un uso del modello che il Gallino dà permette di concludere che è applicabile alla situazione italiana e che da un suo uso corretto e serio è possibile ricavare un quadro soddisfacente della realtà delle classi oggi in Italia. A nostro parere tutto questo lavoro è ancora da svolgere e ci sembra prematuro parlare, come il Gallino, di conclusioni: due schieramenti di classe, da una parte lavoratori agricoli e industriali e dall’altra imprenditori, pro
prietari terrieri e alti dirigenti con tre classi in posizione di « testimoni » (tecnici, coltivatori diretti e politici di professione); conclusioni interessanti, ma premature e al limite nocive se volessimo impadronircene. Da troppo tempo « borghesia » e « proletariato » non servono più ad identificare due classi, ma due schieramenti di classi e strati diversi: crediamo valga la pena di astrarre momentaneamente dall’interesse diretto, politico, per studiare un sistema di classi organicamente, per tornare poi sul terreno pratico con idee leggermente più chiare. Prima o poi chi è interessato alla situazione politica italiana, alla struttura dello stato ed ai conflitti sociali potrà scontrarsi con la esigenza di un modello teorico razionalizzante elementi sparsi: ilsaggio del Gallino può rappresentare un punto di partenza, uno dei molti, forse.
Sergio Bova
M artino A ic h n er - G iorgio E v a n g e l ist i, Storia degli aerosiluranti italiani e del gruppo Buscaglia, Milano, Longanesi 1969, pp. 296, L. 2.000.
Non si tratta nè di una storia organica degli aerosiluranti italiani nè di una storia del gruppo Buscaglia. Siamo di fronte ad uno dei tanti libri di memorialistica a sfondo nostalgico che aggiunge ben poco a quanto già si sapeva intorno al coraggio ed allo spirito di sacrificio di molti aviatori italiani ed in particolare di quelli dei reparti aerosiluranti. Qualità queste che, anche se si potesse considerarle in modo avulso dal contesto politico-morale in cui si manifestarono, non ci sembrano trarre giovamento dal tono vagamente goliardico e stucchevole della rievocazione. Degne d’attenzione però le prime 47 pagine del libro dove si tratta delle origini e dello sviluppo della specialità e dei relativi mezzi in Italia e in altri paesi dal 1914 all’inizio del secondo conflitto mondiale. Vi si rinvengono notizie interessanti anch’esse purtroppo inorganiche e tutt’altro che complete. Se gli Autori avessero curato e sviluppato questa parte avrebbero reso un servizio agli storici contribuendo alla conoscenza della guerra aerea italiana fin qui più celebrata che studiata. Materiale fotografico ab-
Rassegna bibliografica 127
bondante con qualche « pezzo » inedito o poco noto, comunque interessante.
Lucio Ceva
G iovanni Busino, Vilfredo Pareto fra l’agiografia e la critica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1970, pp. 255- 336, « Ricerche storiche ed economiche in memoria di Corrado Barbagallo », voi. III.
Va segnalato questo studio, che costituisce un aggiornamento della nota anteposta da G. Busino al tomo XI delle Oeuvres complètes di Vilfredo Pareto, in pubblicazione, a cura dello stesso, dall’editore Droz, di Ginevra. Non è qui il caso di riprendere le note polemiche suscitate da quel lavoro, — i cui termini essenziali e più radicalmente opposti ci pare possano essere ripresi nelle pagine di G. De Rosa (Rassegna di politica e storia, 1967, dicembre, pp. 355-361) e dello stesso Busino (in Rivista storica italiana, LXXX, 1968).
Il saggio di Busino raccoglie critica- mente i contributi più recenti offerti da studiosi di economia, sociologia, dottrine politiche, tra cui vanno annoverati N. Bobbio, T. Giacalone-Monaco, L. Iraci, G. De Rosa, curatore della preziosa edizione delle lettere di Pareto al Pantaleo- ni, e G.-H. Bousquet, a tacere, ovviamente, di Busino che tanta parte ha avuto in Italia e soprattutto all’estero nel ridare impulso alla conoscenza diretta dei testi paretiani, premessa indispensabile per sottrarre la discussione su Pareto alla ripetizione di luoghi comuni.
La massa delle produzioni e la varietà degli spunti tematici relativi al P. inducono ormai ad un lavoro di disboscamento, al fine di recuperare una visione chiara del contributo della presenza pa- retiana alla cultura del secolo XX, senza identificarvelo sino a fargli perdere la sua identità specifica, rischio quanto mai incombente, ora per una postuma difesa dall’accusa di collusione col fascismo, ora per opera di chi miri a ribadirla facendo coincidere Pareto con l’irrazionalismo e l’antistoricismo reazionario emergenti in opposizione al socialismo nei primi anni del nuovo secolo (p. 329). Tuttavia, Busino non intende affatto sottrarre Pareto ad un confronto con il suo tempo. Egli
infatti scrive: « Che si voglia o non si voglia ammettere, la riflessione del P. nasce dalla constatazione di un conflitto di classe osservabile nella società europea dell’epoca, al quale i nascenti partiti socialisti tentano di dare un involucro soddisfacente ed una direzione non velleitaria. Quindi, che si voglia o non si voglia, l’opera paretiana deve essere interpretata anche alla luce di questa realtà» (p. 291).
Ma è appunto questo confronto che conduce L. Iraci — citato da Busino — a scrivere: « In sostanza Pareto non riuscirà mai a comprendere il pensiero marxista: le analisi della società capitalistica dei marxisti gli appariranno sempre argomenti polemici che nascondevano proposte di riforme, e queste riforme gli appariranno non tendenti ad uno sviluppo progressivo della società ma immediatamente incorporate in un ideale paradigma di società socialista »: senonché, appunto, dalla non coincidenza con posizioni marxiste al condividere (o addirittura a « fondare ») il fascismo, il cammino è assai lungo; né può essere liquidato con argomentazioni polemiche, ma, come invita Busino, con metodo critico.
Aldo A. Mola
Telford Taylor, Norimberga e Vietnam.Una tragedia americana, Milano, Garzanti, 1971, pp. 211, L. 2.200.
Lo scopo di partenza del volume è l’esame giuridico della guerra americana nel Vietnam, alla luce del diritto internazionale e di quell’insieme di norme eticopolitiche sulla limitazione degli orrori della guerra che fanno abitualmente riferimento ai processi di Norimberga ai criminali nazisti. Il Taylor, che fu capo del collegio di accusa a Norimberga ed è autorevole studioso di diritto, ricostruisce in primo luogo l’evoluzione attraverso i secoli dei limiti posti ai belligeranti dalla coscienza morale dell’epoca, per poi analizzare i processi ai criminali di guerra tedeschi e giapponesi e soprattutto lo spirito democratico che mosse gli americani a farsi promotori di questi procedimenti. Continuando la sua analisi giuridica, egli deve concludere che pratica- mente tutti i massacri commessi dalle truppe statunitensi nel Vietnam non rientrano tra i crimini di guerra perse
guiti a Norimberga, sostanzialmente perché commessi con l’approvazione del governo alleato del Sud-Vietnam che, a norma del diritto internazionale, non deve rispondere a nessuno di come tratta i suoi sudditi.
A questo punto però il volume esce dal livello strettamente giuridico e passa a quello politico: il Taylor lucidamente studia l’involuzione delle posizioni americane dal 1945 al 1965 (si vedano le amare citazioni di MacArthur che suonano condanna ai generali giapponesi di ieri e statunitensi di oggi), rilevando tuttavia che la maggioranza della popolazione americana o per lo meno del Congresso ha di fatto avallato la politica di
128 Rassegna bibliografica
aggressione nel Sud-Est asiatico.In definitiva il libro più che un’analisi
giuridica è una vigorosa testimonianza della frattura creata dalla guerra del Vietnam all’interno dell 'establishment statunitense, di cui il Taylor è autorevole esponente. I capitoli conclusivi sono infatti una vibrante protesta contro i crimini commessi dalle truppe e dai comandi americani, che vengono ad indebolire da tutti i punti di vista una politica di superpotenza in cui il Taylor crede, o per lo meno credeva prima di vederne le tragiche contraddizioni ed il disperato costo umano.
Giorgio Rochat
P E R I O D I C I I T A L I A N I 1 9 7 0 *
I. - STORIA GENERALE TRA LE DUE GUERRE
GENERALI
A ldo Agosti, Rosa Luxemburg e i problemi della democrazia operaia. Ballo sciopero generale «arbitrario» a quello « spontaneo » di massa, in Resistenza, a. XXIV, n. 10, pp. 10-11.
Celina Bobinska, Questione nazionale e contadina nella visione leninista del socialismo, in Critica marxista, a. 8, n. 4, pp. 74-85.
Salvatore Bono, Problemi di « storia contemporanea » dell’Africa. Periodizzazione e fonti, in Storia contemporanea, a. I, n. 3, pp. 595-610.
J ean Bouvier, Rapports entre systèmes bancaires et entreprises industrielles dans
la croissance européenne au XIXème siècle, in Studi storici, a. XI, n. 4, pp. 623- 660.
Alfredo Breccia, Le fonti per lo studio della storia delle relazioni internazionali dei paesi jugoslavi nel periodo 1870-1945 (I), in Storia e politica, a. IX, fase. IV, pp. 579-620.
Furio Jesi, Rosa Luxemburg e i problemi della democrazia operaia. Il giusto tempo della rivoluzione, in Resistenza, a. XXIV, n. 10, p. 11.
G aetano P erillo, L’America Latina al VI Congresso dell’Internazionale comunista. In appendice: Documenti, in Mo- vimento operaio e socialista, a. XVI, n. 2- 3, pp. 99-158.
* Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici: Belfagor (Firenze), La civiltà cattolica (Roma), Civitas (Roma), Classe (Bari), Critica marxista (Roma), Critica sociale (Milano), La Cultura (Roma), Humanitas (Brescia), Mondo operaio (Roma), Il movimento di liberazione in Italia (Milano), Movimento operaio e socialista (Genova), Nord e Sud (Napoli), Nuova antologia (Roma), Nuova rivista storica (Milano), L'osservatore politico letterario (Milano), Il Ponte (Firenze), Quaderni storici (Ancona), Rassegna degli archivi di stato (Roma), Rassegna di politica e storia (Roma), Rassegna storica del risorgimento (Roma), Resistenza (Torino), La resistenza in Toscana (Firenze), Ricerche storiche (Reggio Emilia), Rinascita (Roma), Rivista geografica italiana (Firenze), Rivista di storia della chiesa in Italia (Roma), Rivista di studi di politica internazionale (Firenze), Rivista storica italiana (Napoli), Rivista di studi crociani (Napoli), Storia e politica (Milano), Studi storici (Roma), Trieste (Trieste).
Lo spoglio è stato effettuato a cura di Luigi Ganapini e Massimo Legnani.