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147° anno accademico Cerimonia di inaugurazione
Prolusione di Costanzo Ranci Progettare nell’incertezza. I giovani nella società dell’accelerazione Milano, 22 marzo 2010
PROGETTARE NELL’INCERTEZZA.
I GIOVANI NELLA SOCIETÀ DELL’ACCELERAZIONE
Costanzo Ranci
In un’indagine recentemente condotta a Lecco dal Laboratorio di Politiche
Sociali del Dipartimento di Architettura e Pianificazione di questo ateneo sul
tema del futuro del distretto metalmeccanico locale, era emersa una difficoltà
generalizzata di trasmissione inter-generazionale di quella “cultura del ferro”
che per diverse epoche storiche aveva assicurato stabilità occupazionale,
benessere e ricchezza ad una quota considerevole della popolazione locale. La
ricerca si svolse appena prima della crisi finanziaria del 2009, e segnalò lo
stato di buona salute dell’economia distrettuale, che si dimostrava ancora
capace di creare occupazione e segnava un andamento positivo dei principali
indicatori economici. Il problema non riguardava quindi la mancanza di
opportunità lavorative per le giovani generazioni, quanto una loro crisi
vocazionale. I giovani si iscrivevano in numero non più adeguato ma ancora
consistente alle scuole tecniche di Lecco direttamente orientate alle mansioni
richieste dall’economia distrettuale, sulla base delle sollecitazioni familiari ad
acquisire un’istruzione utile a svolgere un lavoro già pronto nel contesto
locale, ma poi – lungo il percorso di studio – cambiavano orientamento, poco
attratti da un lavoro futuro che appariva ripetitivo, monotono, poco adatto alla
loro voglia di esprimersi e di diventare autonomi. Non ultima, la motivazione
a cambiare settore perché “nel metalmeccanico non ci sono ragazze”. Da
questa sensazione di noia nasceva l’idea, poi realizzata da tanti, di continuare
gli studi, di prolungare una fase di vita che non era più finalizzata a prepararsi
al lavoro per diventare invece uno spazio di espressione di sé, di
socializzazione in un mondo di coetanei a cui non si voleva rinunciare tanto
facilmente. Così, progressivamente, senza elevare proteste, quasi
sotterraneamente, i giovani lecchesi si accingevano a tradire le aspettative dei
loro genitori e a far mancare il loro auspicato apporto all’economia locale.
Che puntualmente registrava e lamentava il mismatch tra domanda e offerta,
l’assenza di tecnici qualificati reperibili in loco.
Generazione più perduta che ribelle, verrebbe da dire. Che rifiutava
un’opportunità reale in cambio di un’occupazione nel settore terziario
probabilmente di tipo precario, mal retribuita, senza prospettive serie di
carriera. Qualcosa si era interrotto nel gioco sottile della trasmissione inter-
generazionale, ma senza che emergesse un vincitore finale: il rischio che ne
derivava veniva infatti ripartito tra tutti i giocatori. La società lecchese, che
manca di tecnici e innovatori da inserire per rilanciare uno dei settori portanti
del contesto locale, ma anche i giovani, che perdono una prospettiva
occupazionale sicura per lanciarsi intrepidamente nelle paludi di
un’occupazione terziaria a media qualificazione, oppure alla ricerca di una
laurea qualificante. In mezzo, sta il sistema dell’istruzione secondaria e
terziaria, che non riesce a svolgere compiutamente quella funzione di
orientamento e di preparazione alla vita adulta che sarebbe il suo compito
istituzionale prioritario.
Il caso di Lecco racconta una vicenda che non è solo locale. Esso segnala che
oggi sono critiche da un lato la transizione alla vita adulta dei giovani e
dall’altro il rapporto tra le generazioni. Che cosa è accaduto? Come mai la
transizione alla vita adulta, così ben avviata nelle scuole tecniche e
professionali di Lecco, si perde poi per strada? Quale ruolo gioca la società
degli adulti in questo difficile percorso? Quali effetti si producono sulla
situazione delle giovani generazioni di oggi, e quindi sul futuro della nostra
società?
Parlerò dei giovani in termini di generazione. Tutti siamo stati giovani,
naturalmente. Ma ciascuno di noi entro una specifica generazione, o unità di
generazione per dirla con Karl Mannheim. Di questa generazione ha
condiviso esperienze, simbologie, linguaggi, avvenimenti storici. Ciascuno di
noi è stato giovane, dunque, in modo diverso, perché ha attraversato un
momento storico specifico, irripetibile. E la storia incide fortemente sulla
personalità dei ventenni, conferendo loro dei tratti in gran parte indelebili.
COME CAMBIANO I GIOVANI: LE GENERAZIONI
Partiamo dunque dalla storia delle diverse generazioni, per identificare le
peculiarità, i tratti distintivi, di quella attuale. I due punti decisivi sono i
seguenti. Innanzitutto, una ampia messe di studi ha segnalato che i primi
trenta anni del dopoguerra (i cosiddetti “trenta gloriosi”) hanno visto una
progressiva standardizzazione delle transizioni alla vita adulta, in un quadro
di forte stabilità sociale ed economica (stabilizzazione dei cicli economici e di
sviluppo), di espansione generalizzata dei livelli di istruzione, di elevato
matching tra domanda e offerta di lavoro, di aspettative crescenti a
raggiungere le condizioni di vita tipiche del ceto medio. Dalla fine degli anni
settanta il processo si inverte, e comincia una fase caratterizzata dalla de-
standardizzazione della transizione alla vita adulta. La sequenza in precedenza
tipica della transizione (scuola, lavoro, casa e matrimonio, figli; tutto
raggruppato in pochi anni) si scompone ed emergono traiettorie molto più
differenziate. Inoltre il calendario degli eventi, da ordinato e sequenziale
secondo una cadenza standard, diviene punteggiato da strappi, ritardi e
accelerazioni improvvise. Il mutamento culturale esperito negli anni ’60 e ’70
spiega parte del cambiamento, avendo notevoli effetti proprio
sull’organizzazione della vita privata delle nuove generazioni: si posticipano
il matrimonio e il concepimento dei figli, aumentano le convivenze more
uxorio, i divorzi e le famiglie ricostituite. Ma naturalmente un ruolo
importante è giocato anche dall’elevamento degli anni di istruzione e dalle
difficoltà di coniugare titolo di studio e carriera lavorativa.
Il secondo aspetto riguarda il rapporto tra le generazioni. Per tutto il XX
secolo, con l’eccezione parziale delle generazioni investite dai fenomeni
bellici, le nuove generazioni dei ventenni hanno goduto di condizioni migliori
di quelle sperimentate dalle generazioni precedenti. Si sono infatti succedute
generazioni via via più ampie, con condizioni economiche migliori, con un
livello di istruzione più elevato, con un maggior grado di salute. Ci si
aspettava dunque una società sempre più orientata a promuovere
l’autodeterminazione e l’autonomia dei giovani che, grazie ai miglioramenti
economici, avrebbero dovuto liberarsi più facilmente dei condizionamenti
familiari. La contestazione giovanile del sessantotto ha rappresentato, da
questo punto di vista, un elemento di discontinuità e di rottura tra le
generazioni in un quadro segnato da aspettative crescenti.
Dagli anni novanta in poi questa situazione, per la prima volta in modo
evidente e generalizzato, è cambiata. Rispetto al 1950, la generazione di fine
millennio poteva contare su un reddito superiore di cinque volte a quello dei
loro coetanei vissuti mezzo secolo prima: ha guadagnato 1,5 cm. di altezza
ogni 10 anni, gode di una speranza di vita che è aumentata mediamente di 2
anni ogni decennio; ha guadagnato un anno e un trimestre in più di istruzione
ogni 10 anni. Si tratta dunque di una generazione più alta, più sana, più
istruita. Con tutto a disposizione per poter avanzare nella società assumendo
un ruolo da pionieri, da sperimentatori del futuro. Invece questo accade molto
più raramente di quanto ci aspettiamo, perché?
Numero di giovani e loro genitori nel periodo 1950-2010 (dati in migliaia)
Fonte: Livi Bacci, 2008, 36
Dal 2000 i rapporti statistici tra generazioni subiscono un punto di svolta, che
in realtà è l’esito di un processo cominciato 10-15 anni prima. Per la prima
volta da più di un secolo (quindi la prima volta nella breve storia dell’Italia
moderna) la nuova generazione è inferiore per numerosità a quella precedente
(vedi grafico). Si potrebbe pensare che i giovani diventino dunque una risorsa
molto più scarsa e quindi potenzialmente più preziosa, tenendo conto che
sono più istruiti, più benestanti, più sani. Invece è evidente che perdono punti
nella società.
Una spiegazione spesso adottata è che a cambiare è il quadro macro entro cui
questi giovani sono collocati. Questa generazione vive, forse per la prima
volta, una fase di declino economico. Oggi vivono il declino, mentre le
generazioni precedenti hanno sperimentato una ricostruzione. Per la prima
volta il benessere non è più crescente ma appare in calo, o perlomeno ha una
forte battuta d’arresto. Il modello di transizione alla vita adulta fondato
sull’acquisizione di un impiego stabile, sulla progressione lineare nel reddito
e nella carriera, su un’elevata protezione sociale, su matrimoni duraturi,
appare appartenere ad una età d’oro del tutto scomparsa. Le nuove
generazioni vivono in un quadro caratterizzato da un’accresciuta vulnerabilità
sociale e un indebolimento generalizzato delle condizioni che avevano
consentito a lungo il maturare di aspettative crescenti.
Come avviene la transizione alla vita adulta in queste mutate condizioni?
Come si organizza il rapporto tra le generazioni, come avviene il passaggio di
testimone da una generazione all’altra? La generazione attuale sperimenta
qualcosa di nuovo e diverso che non riguarda tanto l’ammontare delle risorse
a disposizione, che restano molto alte e comparativamente superiori a quelle
delle generazioni precedenti. Il cambiamento e le mutate condizioni
sperimentate dalle nuove generazioni vanno invece letti su tre aspetti
fondamentali: a) cambia lo stile di vita; b) diminuiscono le loro aspettative e
la loro capacità di realizzarle - in una parola, la loro capacità di progettare; c)
va in crisi il patto tra generazioni su cui si regge lo sviluppo sociale.
LA SOCIETÀ DELL’ACCELERAZIONE
La generazione dei vent’anni di oggi sperimenta una trasformazione sociale,
economica e tecnologica che incide profondamente sulla loro socializzazione,
sullo sviluppo delle loro capacità cognitive e sulla loro capacità di fare
progetti e pensare l’avvenire. Il termine che meglio designa questo passaggio
è stato proposto da uno studioso americano – Hartmut Rosa – e ripreso
recentemente in Italia da C. Leccardi: accelerazione. I concetti proposti sono
simili: hyper-acceleration, turbo-capitalism, digital speed-revolution. Un
cambiamento sociale di tipo qualitativo determinato da un aumento
quantitativo della velocità. I principali driver di questo cambiamento sono tre:
Accelerazione tecnica
La più ovvia forma di accelerazione è l’accelerazione dei processi di
trasporto, comunicazione e produzione indotta intenzionalmente dal
cambiamento tecnologico. Gli effetti di questa accelerazione sono enormi
anche sul piano antropologico. Nell’età dell’accelerazione il tempo diviene
sempre più comprimibile e può annichilire lo spazio. Lo spazio si contrae e
perde di importanza: molti processi e molti sviluppi non sono più localizzati
e molti luoghi diventano “non luoghi”, senza storia e identità.
Accelerazione sociale
Molte istituzioni sociali perdono di stabilità. Un lavoro e una famiglia non
durano più il tempo di una intera generazione ma occupano uno spazio più
ristretto, mentre in passato occupavano addirittura più generazioni. Si
moltiplicano, dentro la stessa biografia, sia i lavori, sia le famiglie. Il mondo
sociale assume sempre meno la forma di una stabile aggregazione sociale e
assume sempre più la forma di fluido e flusso. Una società liquida, come
afferma Bauman.
Accelerazione del ritmo di vita
Le unità di azioni quotidiane (mangiare, dormire) si contraggono. Si afferma
il multitasking, la capacità di fare contemporaneamente cose molto diverse.
Aumenta parallelamente la sensazione di scarsità di tempo. Si diffonde un
linguaggio che evita predicati identitari e usa marker temporanei. Si parla di
working as a baker invece che being a baker, living with Mary piuttosto che
being Mary’s husband (or boyfriend), going to the Church piuttosto che being
a Catholic, voting Republican e non being a Republican. Questo uso del
linguaggio indica una maggiore consapevolezza della contingenza: le
situazioni possono essere diverse da come sono, e comunque possono sempre
cambiare sulla base delle decisioni degli individui. Una concezione della vita
buona come impegno a lungo termine, fondata sulla durata e sulla stabilità è
fortemente sfidata dal veloce ritmo dei cambiamenti.
Quali conseguenze sono determinate dall’accelerazione? Second Christopher
Lash, l’effetto più vistoso è che i flussi di informazione sostituiscono le
relazioni sociali; la vita si fa più tecnologica e meno legata ai circoli sociali,
ancora legati ai vincoli della prossimità fisica. Per Paul Virilio la logica del
just in time porta a scardinare i tempi situati, lo spazio-tempo del locale. La
velocità delle onde elettro-magnetiche conduce a sostituire il senso di realtà
con i flussi elettronici.
Credo che a queste interpretazioni pessimiste debba essere accostata una
visione più positiva. L’accelerazione consente di sviluppare nuove abilità
finalizzate a controllare il tempo, o ad avvantaggiarsi dal tempo che scorre
sempre più veloce. I giovani sono i massimi esperti in questo campo. La
contrazione spazio-temporale e la conseguente riduzione dei costi della
mobilità aprono loro, infatti, grandi opportunità.
Ad esempio, la possibilità di spostarsi più facilmente per motivi di studio o di
lavoro. I vincoli di spazio e di tempo sono oggi meno cogenti di un tempo. Il
programma Erasmus interessa oggi il 6% degli studenti italiani (uno studente
ogni diciotto). In Europa il programma Erasmus ha consentito sino ad oggi la
mobilità di 1,5 milioni di studenti. All’inizio del programma, nel 1987, solo
3.000 studenti parteciparono al programma; nel 2006-07 il numero è di
153.000 studenti. Al Politecnico gli studenti iscritti che partecipano a
programmi Erasmus oppure di doppia laurea con università straniere
assommano a 700 su una popolazione complessiva di 4500 iscritti: una
percentuale pari al 15%, più che doppia rispetto alla media nazionale. Ma la
mobilità va oltre i programmi istituzionali. Secondo una recente indagine
europea (Reflex) il 16% dei laureati italiani (uno ogni sei) ha un’esperienza
all’estero durante gli studi: ancora poco rispetto alla media europea che è già
del 26% (36% in Francia, 30% in Germania). Ben il 18% dei laureati italiani
(quasi uno su cinque) ha esperienze internazionali dopo la laurea, spesso per
continuare gli studi oltre la laurea (il 22% in Europa). I paesi più gettonati
sono Regno Unito, Germania e USA.
Mobilità significa anche individualizzazione, disancoramento dalle tradizioni
e dai luoghi dell’infanzia e del radicamento. I giovani sono chiamati oggi a
“fare la loro biografia”, ovvero ad impegnarsi in un’attività finalizzata a
raggiungere obiettivi autodeterminati, e plasmare la loro propria esistenza. La
biografia diventa un problema quotidiano di azione: “la si strappa
tenacemente, la si difende con le unghie e con i denti e la si protegge
astutamente dalle intrusioni degli adulti, che non sanno mai dove i giovani
vogliono andare a parare” (Beck). “L’individualismo.. ha soppiantato
l’autorità paterna e quella materna, ed è subentrato al posto dei governanti,
degli insegnanti, dei poliziotti e dei politici” (Beck, 103).
Emerge una generazione in cui l’incertezza e la fluidità sono considerati come
dati strutturali; di conseguenza vengono sviluppate attitudini e capacità
adeguate a questa situazione. Questa generazione ha infatti dovuto sviluppare
nuove competenze: interpretare il cambiamento, imparare ad affrontare
transizioni in situazioni a controllo limitato, capire come scegliere in
condizioni di scarsa prevedibilità del futuro, adattarsi ad una situazione
caratterizzata da appartenenze instabili. Per stare a galla diventano centrali il
presentismo, un certo relativismo valoriale, la reversibilità delle scelte. Se
l’incertezza persiste quando le scelte diventano pressanti, nasce
l’insoddisfazione e il disagio.
La società dell’accelerazione richiede anche che vengano rintracciati spazi e
tempi di rallentamento, in cui riappropriarsi della socialità in termini non di
flusso ma di prossimità, dove l’esserci riprende il sopravvento rispetto al
flusso e al divenire. Ecco perché oggi l’amicizia e il gruppo dei pari diventano
sempre più centrali, come luoghi di ripresa di contatto con la realtà, con se
stessi. Esempio chiaro è l’Alta Scuola Politecnica, rivolta a 90 tra i nostri
migliori studenti delle lauree magistrali insieme a 60 studenti del Politecnico
di Torino, dove il senso di community, lo stare insieme diventa l’elemento più
apprezzato oltre all’essere inseriti in un ambiente eterogeneo e internazionale.
Il mix di familiarità e senso della community da un lato, e cosmopolitismo e
apertura all’altro, diventa congeniale ad una ricerca di nuovi equilibri tra
relazioni intime e compiti a distanza, tra prossimità fisiche e vicinanze
virtuali.
LA MORATORIA PROLUNGATA
Aumento della mobilità, capacità di controllare la velocità del tempo che
scorre attraverso il multitasking, uno stile di vita reversibile che accetta
cambiamenti repentini e situazioni contingenti, una mentalità aperta alle
novità e senza forti barriere ideologiche, autonomia rispetto alla tradizione e
al controllo esercitato dal mondo adulto. Tutti elementi che farebbero ritenere
che i giovani di oggi abbiano adattato bene il loro stile di vita alle sfide
cognitive poste dalla società dell’accelerazione.
Qui si colloca, invece, il paradosso descritto nella ricerca sui giovani di
Lecco. I giovani, del tutto immersi nella società dell’accelerazione, allorché
devono affrontare non le sfide del quotidiano ma quella, più impegnativa,
della loro transizione al mondo adulto, invece di affrettarsi, anzi mentre si
affrettano e si muovono incessantemente allo scopo di cogliere tutte le
opportunità loro disponibili, arrivati qui rallentano, quasi si fermano. Tutte le
ricerche sociologiche, psicologiche, pedagogiche svolte negli ultimi cinque
anni, in Italia e in Europa, registrano inesorabilmente e stancamente lo stesso
fenomeno: il forte e progressivo rallentamento del corso di vita delle giovani
generazioni. La transizione alla vita adulta appare come bloccata, o almeno
fortemente rallentata, e in corso di continuo progressivo rallentamento. Si
tratta della cosiddetta “sindrome del ritardo”, intorno alla quale si sprecano gli
appellativi sbrigativi ma anche serie preoccupazioni di carattere economico e
pedagogico. Si tratta di una situazione che condividiamo con altri paesi e che
richiede un esame serio.
Il dato ampiamente più noto è il prolungamento del periodo dedicato allo
studio e il posponimento progressivo del momento di ingresso nella vita
adulta, simbolizzato dall’autonomia abitativa. A 25-29 anni il 35% dei
giovani non ha ancora finito gli studi (nel 1996 era solo il 24%, l’incremento
è del 30%); di questi il 40% non sa se e quando finirà gli studi. A 30-34 anni
non ha ancora finito il 20% (nel 2000 erano il 16%; incremento del 25%); di
questi il 12% (pari al 60%) dichiara di non sapere se e quando finirà gli studi.
Un aspetto parallelo della tendenza a restare in una fase di sospensione è la
propensione elevata a non completare l’università. Nel nostro paese il tasso di
completamento (laureati diviso per matricole) era del 45% nel 2005, mentre
era il 62% in Francia, 75% in Germania e Spagna, 80% nel Regno Unito.
Permane inoltre una cultura del ciclo lungo, che porta gran parte dei laureati a
continuare lo studio anche dopo la laurea triennale. L’età media in cui i
ragazzi italiani si laureano è oggi intorno ai 27 anni. Al Politecnico l’età
media dei laureati è 26 anni (un anno dunque in anticipo rispetto alla media
nazionale), con poche variazioni tra ingegneri (l’età media alla laurea è 25,7
nel 2009), architetti (26,5 anni) e designer (26 anni).
Il 60% degli studenti italiani finisce quando è fuori corso. Il 43% dei laureati,
non ancora soddisfatta, intende continuare gli studi anche dopo la laurea
specialistica.
Nel complesso un investimento prolungato negli studi potrebbe segnalare un
aspetto positivo: maggiore preparazione, tempo ampio da dedicare alla
sperimentazione, una prolungata fase di attesa allo scopo di cogliere le
opportunità che si presentano. In linea di massima una preparazione migliore
dovrebbe offrire più chance di carriera e stipendi più elevati. Tuttavia il
ritardo nel compimento degli studi ha un costo evidente: il posponimento
della laurea comporta che si ritarda anche il momento in cui il giovane troverà
un’occupazione stabile e guadagnerà quindi l’autonomia economica. Un
rapporto recente sulla condizione giovanile in Francia si chiede: come fare a
restare giovani così a lungo?
La risposta è semplice ed è sotto gli occhi di tutti. Questo è possibile grazie
alla solidarietà familiare. Il ritardo nel compimento degli studi è possibile
perché si resta a vivere nella casa dei genitori. Negli ultimi 20 anni si registra
in effetti un costante aumento nel numero di giovani che vivono nella casa dei
genitori. Che sono ormai la quasi totalità nella fascia 20-24 anni, più di due
terzi nella fascia 25-29 anni e ancora un terzo nella fascia dei giovani adulti,
ovvero quella 30-34 anni (vedi grafico).
Fonte: Buzzi, Cavalli e de Lillo, 2007
L’età media di abbandono della casa dei genitori è di 30 anni per maschi e 27
per femmine, mentre nei paesi del nord Europa ciò avviene in media intorno
ai 20-21 anni sia per i ragazzi che per le ragazze. Siccome l’età a cui ci si
sposa è simile, la differenza è data dalla presenza di una fase di vita di dieci
anni circa in cui i giovani del nord Europa vivono da soli. In Italia, invece,
regge il sistema dei legami familiari. I giovani escono da casa prima dei 30
anni solo se possono permettersi condizioni di vita mediamente migliori
rispetto ai loro coetanei del resto di Europa, che infatti sono molto più
vulnerabili dei nostri, più esposti alla crisi occupazionale, alla povertà e al
disagio abitativo.
Stare nella casa dei genitori appare dunque una soluzione tutto sommato
razionale e soddisfacente. Rafforzata dall’osservare che i giovani, quando si
rendono autonomi, sperimentano gravi difficoltà in tutti i paesi europei. La
soluzione familistica appare sensata anche dal punto di vista del rapporto tra
le generazioni. Che è oggi largamente caratterizzato non più dal conflitto o
dal compromesso, ma dall’intesa e dal negoziato, in cui tutto viene
giustificato e concordato. I grandi scontri tra genitori e figli sono rimpiazzati
oggi da una continua negoziazione sui confini, di cui sono i giovani a segnare
il tempo. Emerge una sorta di tolleranza indifferente, o se si preferisce una
intesa a distanza sugli stili di vita: ogni parte conduce la propria vita col
beneplacito dell’altra.
Tutto bene, dunque? Lungo il periodo della sospensione tutto procede bene
naturalmente. Solo che i problemi della transizione alla vita adulta non sono
risolti, ma solo rimandati. Cosa succede quando i giovani, ormai 30enni, si
affacciano sul mondo del lavoro? Come fanno a realizzare l’autonomia dalla
famiglia d’origine, un’opzione messa in sospeso per dieci anni ma che si
riaffaccia davanti a loro, prima o poi? Il ritardo nell’acquisizione
dell’autonomia produce vantaggi oppure provoca danni e difficoltà? La
risposta non dipende soltanto dai giovani e dalle loro famiglie, ma anche, e
prioritariamente, dall’organizzazione sociale. E l’organizzazione della nostra
società non è purtroppo funzionale a trovare risposte adeguate a questo
problema.
LA SOCIETÀ CONTRO I GIOVANI
Un fortunato libretto pubblicato due anni fa da due economisti sul problema
dei giovani era intitolato “Contro i giovani” per segnalare come
l’organizzazione sociale attuale crei forti ostacoli sulla strada dell’autonomia
e dell’autodeterminazione giovanile. In quello studio, così come in molti altri,
si punta l’indice contro il meccanismo del ritardo che ho descritto in
precedenza, mentre la tesi che sto sviluppando in questa sede è che il ritardo
funzionerebbe, se fosse accompagnato da qualche sostegno nel momento in
cui il dado va tratto, e bisogna varcare il Rubicone, ovvero bisogna entrare nel
mercato del lavoro ed ottenere dal lavoro l’autonomia necessaria per acquisire
l’autonomia completa.
Il mercato del lavoro italiano, infatti, è molto inospitale nei confronti dei
nostri giovani ormai trentenni. Essi sperimentano alti tassi di disoccupazione
giovanile. Secondo l’indagine Reflex, il tasso di disoccupazione dei laureati
italiani a 5 anni dalla laurea è del 7,5%, inferiore solo a quello spagnolo.
Secondo i dati di Alma Laurea, il tasso di disoccupazione dopo 5 anni sarebbe
del 5.5%. In ogni caso superiore a quello europeo, che in media si attesta
intorno al 4%. Nei primi 5-6 anni dopo la laurea il 64% dei nostri studenti
svolge lavori temporanei (la media EU è del 47%). Solo il 39% dei laureati
dichiara di fare dei lavori ad elevato contenuto di innovazione (sono il 48% in
Europa).
Consideriamo i salari di avvio. Secondo l’indagine Reflex, il salario medio 5
anni dopo la laurea sarebbe di 1.600 euro, contro i 2.200 in Francia, 3.700 in
Germania, 2.700 nel Regno Unito, e 1.500 in Spagna. Pari a 10 euro orarie (lo
stesso in Spagna, mentre diventano 14 euro in Francia, 15 euro nel Regno
Unito e 18 euro in Germania). Solo il 58% è soddisfatto dopo 5 anni (il 63%
in Spagna, 68% in Francia, 69% in Germania, 65% nel Regno Unito).
Secondo Bankitalia, il reddito della fascia 19-30 anni era inferiore a quello
della fascia 31-60 del 20% negli anni ottanta, mentre ora il gap è del 35%. Il
salario di ingresso si è ridotto del 11% negli ultimi 10 anni, nonostante chi
entri oggi nel mercato del lavoro sia più istruito di ieri. Nel 2004 gli ingegneri
italiani under 30 erano retribuiti il 36% in meno dei loro colleghi europei; gli
ingegneri tra 31 e40 anni sono pagati un quarto meno, mentre oltre 40 anni le
retribuzioni si equalizzano, a riprova che lo svantaggio si concentra tutto nelle
generazioni più giovani. Il tasso di rendimento dell’istruzione universitaria è
dunque molto basso in Italia. Non c’è da stupirsi che il brain drain sia molto
elevato nel nostro paese: il 2,3% dei laureati in Italia lavora all’estero, contro
lo 0.6% della Germania, lo 0.8% della Spagna, l’1.1% della Francia. L’Italia
si trova dunque in una posizione particolare: è ultima in Europa per quota di
laureati (12%) e offre al tempo stesso un rendimento molto basso
dell’istruzione.
Potremmo proseguire nell’analisi delle difficoltà odierne delle giovani
generazioni a completare la transizione verso l’età adulta e l’autonomia. Basti
pensare alla questione abitativa, stretta tra la difficoltà di ottenere un mutuo
per l’acquisto e il modesto volume del mercato dell’affitto. Si stima che a
Milano nel 1975 fosse necessario in media un reddito pari a sei annualità di
lavoro per acquistare una casa di dimensioni medie; nel 2008 le annualità
sono raddoppiate. Ma ancora più pericolosa, nella prospettiva del rapporto tra
generazioni, è la posizione previdenziale dei giovani di oggi: oggi chi lavora
versa circa il 45% della retribuzione lorda tra contributi e tasse sui redditi a
chi è in pensione: mentre la generazione precedente aveva un prelievo circa
del 30%. Chi ha cominciato a lavorare oggi avrà una pensione inferiore circa
del 20-30% rispetto all’ammontare delle pensioni attuali. I giovani dunque
pagano di più e prenderanno molto di meno, col rischio supplementare di non
maturare i requisiti per una pensione superiore al livello di sussistenza.
Fronteggiano un sistema di welfare che premia la solidarietà verso la
generazione anziana di oggi e non certo un equilibrio tra le generazioni.
Ecco quindi qual è l’esito della moratoria. I costi relativi dell’uscita da casa
aumentano (più costi abitativi, salari di ingresso minori); peggiorano anche le
aspettative di miglioramento complessivo. Il tutto regge soltanto perché si è
stabilito un patto adattivo tra generazioni che consente ai giovani di oggi di
fruire del benessere raggiunto dai genitori senza particolari vincoli. Da un lato
questa situazione offre un maggiore margine di scelta per i giovani, ma
dall’altro li condanna alla dipendenza, segnalando “una società poco dinamica
che lascia poco spazio ai giovani” come afferma il demografo più noto in
Italia, Livi Bacci. Inoltre, aspetto non irrilevante, questa tendenza riproduce
nel tempo le disuguaglianze sociali e di classe, perché il futuro dei giovani, le
loro chance di riuscita, dipendono in modo cruciale dalle risorse rese
disponibili dalle loro famiglie di origine: se queste hanno ingenti risorse da
trasmettere, tutto riesce bene; altrimenti si creano situazioni di rischio e di
disagio. La transizione verso l’età adulta avviene attraverso meccanismi
ereditari molto più che attraverso l’acquisizione di competenza o la capacità
di intraprendere. Infine, in questo modo i giovani non si allenano
all’autonomia, a fare progetti e a realizzarli. Su questo ultimo aspetto vorrei
sviluppare le mie considerazioni conclusive.
PROGETTARE NELL’INCERTEZZA: MISSION IMPOSSIBILE?
Per i giovani di Lecco il silente passaggio da una carriera standardizzata e
auspicata dai genitori ad un percorso rallentato, molto più incerto ma
sicuramente più affascinante (almeno per alcuni anni, sino alla resa dei conti),
coincide con un cambio nel tipo di progettualità biografica.
La fase giovanile è stata concepita a lungo come una fase di preparazione alla
vita adulta, imperniata su un meccanismo psicologico e relazionale che dava
un senso all’esistenza del giovane, ai suoi rapporti con gli adulti, e anche
all’esperienza dello studio universitario. Il meccanismo è stato denominato, in
una importante ricerca sociologica realizzata negli anni ’80 da Alessandro
Cavalli, “differimento delle gratificazioni”. Esso indica la capacità di vivere il
presente in funzione del futuro. La gioventù è l’attesa attiva del futuro. E il
futuro è la chiave del senso dell’agire, lo spazio in cui si costruisce un
progetto di vita. Quella ricerca segnalava che, a cominciare dagli anni
settanta, si stava diffondendo una sindrome, definita “incertezza biografica”,
che impediva di far scattare il meccanismo del differimento delle
gratificazioni. Di fronte all’esplosione della disoccupazione giovanile,
investire a lungo termine sul futuro, così come procrastinare la soddisfazione
dei propri desideri, diventava irrazionale e insensato. Conveniva addestrarsi a
cogliere l’attimo. Dalla stabilità del differimento si passò all’instabilità
dell’occasionalismo. Il meccanismo dunque si era inceppato, non funzionava
più. Troppe le incertezze sul futuro per fare investimenti a lungo termine, e
troppe le tentazioni del presente, una volta che il giovane ha affermato la sua
autonomia dalle generazioni precedenti e la sua voglia di autodeterminazione.
Allora si disse: essere giovani è una condizione sociale e non uno stato di
transizione. I giovani sono diventati a pieno titolo attori sociali, del consumo e
della cultura. La gioventù non è più un tempo di investimento allo scopo di
ottenere un ruolo sociale pieno, ma è una forma inedita del vivere
contemporaneo, una fase di vita con caratteri permanenti e una propria
identità, riconoscibile quanto esiste l’età adulta e quella anziana. Ma è una
condizione segnata dalla crisi, dall’incertezza, dall’assenza di progettualità.
Oggi cosa accade? All’incertezza che impediva una progettualità a lungo
termine, oggi si aggiunge l’accelerazione tecnologica e sociale. Il futuro si
contrae, lo spazio si accorcia e quasi si annulla. La società dell’accelerazione
crea quasi una de-temporalizzazione biografica (H. Rosa): “l’esistenza non è
più progettata lungo una linea che va dal passato al futuro; piuttosto, le
decisioni sono prese di tanto in tanto sulla base di esigenze e desideri legati
alla situazione e al contesto”. Si enfatizzano le capacità di far fronte a
cambiamenti di rotta imposti da nuove circostanze. Alcuni parlano di una
strategia dell’indeterminazione. Emergono elaborazioni iperattiviste della
vita, impostate su continue esplorazioni del presente. Oppure strategie
imperniate su obiettivi minimi e linee guida, una progettualità imperniata
sulle aree limitrofe al presente. La biografia non è più un unico e coerente
progetto solo, ma non è neanche l’assenza tout court di progettualità. È
piuttosto la composizione di tanti progetti, un’azione multitasking in cui
convivono diversi piani d’azione. La contrazione del presente diventa una
strategia pragmatica che consente di costruire la propria biografia venendo a
patti con la rapidità dei mutamenti e l’incertezza che l’accompagna. Il
termine “progettare” proviene dalla parola latina "pro-jectare", che significa
gettare oltre, gettare avanti; non credo che il giovane contemporaneo non
“getti oltre”, ma lo fa in una prospettiva temporale non troppo lunga e
“gettando avanti” diverse possibilità, non ancorandosi più ad una sola.
I segnali di questo passaggio sono diversi. La de-sincronizzazione delle tappe
del corso di vita che segnano la transizione alla vita adulta; l’allungamento
della transizione, con periodi di sospensione e attese tra una tappa e l’altra ; la
de-standardizzazione biografica, ovvero l’esistenza di modelli biografici
distanti da un modello lineare di vita.
Se tuttavia cresce l’esigenza di elaborare piani d’azione a breve termine,
cresce anche il disagio di non riuscire a reggere lo scarto tra reale e possibile.
Si costruiscono biografie povere, e non ricche, di progetti. In Italia questo è
un rischio molto diffuso, perché i sostegni all’autonomia dei giovani sono
pochi. La moratoria senza differimento delle gratificazioni rischia di
trasformarsi, per molti giovani, nella perdita di aspettative e progetti. Le
difficoltà di ingresso nella vita adulta sono aumentate, e la moratoria, invece
che aiutare, rischia di peggiorare le condizioni della transizione.
Basta considerare che cosa conta, secondo i giovani, per fare carriera. Essere
competenti conta per il 38% dei giovani; ma essere aiutati da persone influenti
conta per il 32%. Oltre i 25 anni i due aspetti contano eguali, mentre per i
giovanissimi conta molto di più la competenza. Per i livelli alti di istruzione
conta più la competenza (48% vs. 23%), mentre ai livelli bassi contano anche
le conoscenze (36% vs. 33%). Chi nutre aspettative più alte sa dunque che
deve investire sulla propria competenza. Ma è indicativo che la moratoria,
l’avvicinamento ai 30 anni, comporta una minore fiducia nella competenza, la
scoperta che la realtà richiede altre risorse che non quelle acquisibili
attraverso la formazione. Ci si rende conto che il rendimento dell’istruzione è
basso, e ciò può far percepire come insensata una moratoria prolungata.
La fiducia nel futuro. I giovani adulti hanno aspettative sul futuro, anche se
non molto chiare, ma soprattutto prediligono le scelte reversibili. Tra i 30-
34enni, il 75% afferma che nella vita bisogna avere degli obiettivi, ma il 79%
afferma che nella vita è importante tenersi sempre aperte molte possibilità e
molte strade, e il 62% dice che nella vita le scelte non sono mai per sempre e
possono essere sempre riviste. Infine, Il 48% non esprime preferenze riguardo
il tipo di lavoro cercato dopo la laurea: un segno di grande incertezza sul
futuro e sul senso della propria moratoria. A questo processo si accompagna
una riduzione costante del tasso di attività dei giovani, ovvero una ridotta
propensione ad alternare lavoro e studio.
Infine, sempre riguardo il lavoro, colpisce che la forma preferita di
occupazione per i giovani italiani è quella del lavoro autonomo: lo vuole il
55%. Indica più libertà, più spazio all’espressione di sé, più disponibilità a
prendere iniziativa. Tuttavia questa enfasi sui valori dell’imprenditorialità e
dell’autonomia, tanto coerente con gli imperativi della società
dell’accelerazione, convive con una minore disponibilità ad accettarne le
implicazioni , a cominciare proprio dalla mobilità. Decresce infatti nel tempo
la quota di giovani che è disposta a spostarsi per trovare lavoro: la
propensione alla mobilità geografica cala (dal 68% nel 1987 al 52% nel
2004).
Cosa accadrà dunque a Lecco? Dubito che si riesca a convincere gli allievi
degli istituti tecnici a scegliere la carriera del perito e ad interrompere la loro
moratoria, semmai qualcuno intendesse provarci. Sarebbe come riportare
indietro le lancette dell’orologio agli anni sessanta. Ma l’alternativa è opaca.
Affascinati dalle sirene della società dell’accelerazione, gli studenti di Lecco
guardano oltre il locale, prolungano all’infinito lo stato di benessere in cui
vivono (procurato peraltro dai loro genitori), sognando una carriera luminosa
da imprenditori o professionisti che appare difficile da realizzare. Intanto
esplorano le possibilità della situazione presente e si rendono pronti e
disponibili per qualunque opportunità venga presentata loro. Ma mentre
esercitano questo iperattivismo, o questa progettualità debole nelle versioni
più raffinate ed elaborate, affiorano inquietudini e paure che chiedono di
essere controllate. L’obbligo crescente ad elaborare da sé l’insicurezza fa
sorgere nuove domande che investono anche le istituzioni sociali.
ANDARE OLTRE LO SPECIALISMO
Quale indicazione finale possiamo trarre da questa analisi? Novanta anni fa,
all’indomani della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale, in un
momento in cui era vivo il senso della crisi generale della Germania e del
fallimento della sua classe dirigente, in una conferenza tenuta alla Lega
studentesca sulla “scienza come professione”, Max Weber esaltò la
specializzazione non solo come fondamento per il progresso scientifico e
tecnico, ma anche come base per poter sentire quella che lui chiamò
l’esperienza vissuta della scienza. Ovvero quel sentimento, quella passione,
quella devozione a sé stessi, quella vocazione professionale in base alla quale
“dovevano passare millenni prima che tu venissi al mondo, e altri millenni
attendono in silenzio”. Un’idea di vocazione vicina a quella fondata sul
differimento della gratificazioni, in vista di un successo futuro. Oggi, quando
la specializzazione ha raggiunto un livello neanche immaginabile all’epoca di
Weber, la carriera e il futuro professionale degli uomini di scienza, ma anche
dei lavoratori normali, non sono più assicurati soltanto dallo specialismo, ma
anche dalla capacità di far fronte all’incertezza e all’accelerazione. Ciò
richiede un’istruzione più raffinata, che accosti alla preparazione specialistica
anche un movimento di de-specializzazione dell’istruzione universitaria. Si
tratta infatti di sostenere l’autonomia dei giovani, di aiutarli a non smarrirsi di
fronte alla complessità delle sfide odierne.
Un’istituzione che è nata per i giovani dovrebbe innanzitutto mostrare, nel suo
stesso modo di organizzarsi e di agire, quale è la via migliore per vincere la
sfida, evitando la tentazione di limitarsi ad assecondare i comportamenti
posticipativi dei giovani di oggi. Regole valide per tutti ed obiettivi chiari
dovrebbero costituire dei riferimenti precisi per tutti, finalizzati a mostrare ai
giovani che, pur nell’incertezza e nella velocità dei cambiamenti, alcune
regole fondamentali del gioco restano costanti. Maggiore universalismo nelle
procedure concorsuali a tutti i livelli, predisposizione di obiettivi formativi
chiari e raggiungibili sui quali è prevista una valutazione dei risultati che non
fa sconti a nessuno, maggiore rigore nella presenza e nell’attività didattica dei
docenti, non servirebbero solo a orientare meglio l’università verso il merito,
ma soprattutto sarebbero delle forme di sostegno all’autonomia dei ragazzi e
delle ragazze di oggi.
Ma questo non è tutto. Perché lo studio non sia soltanto uno spazio di
sospensione, esso deve comunicare la passione, rendersi occasione per quel
genere di esperienze vissute di cui parlò Weber nel lontano 1918. Come
ricreare uno spazio per le passioni in una università di massa? Non esistono
ricette facili, ma credo che si dovrebbe partire dal dare la possibilità ai
giovani di realizzare in modo produttivo quello che già sanno fare:
attraversare mondi diversi, sperimentarsi in problemi complessi, muoversi tra
attività e competenze diversificate. Nella società iperspecializzata in cui
viviamo, l’innovazione passa paradossalmente attraverso attività di
combinazione e ri-combinazione, la commistione di saperi e tecniche diverse,
traslazioni di modelli e soluzioni già esistenti in campi in cui non sono ancora
noti. In questa attività multitasking i giovani di oggi hanno una competenza
molto superiore a quella delle generazioni precedenti. Le attività formative
che organizziamo nell’Alta Scuola Politecnica puntano proprio
sull’innovazione. Per fare questo forniamo agli studenti competenze
trasversali, esponendo gli ingegneri alle culture progettuali dell’architettura e
del design e viceversa, e proponiamo loro di realizzare progetti
multidisciplinari, in cui la soluzione di problemi complessi richiede, come
avviene nella realtà, di combinare insieme competenze diverse, intrecciando
sensibilità, linguaggi e modi di procedere diversi. Una semplice esperienza,
che ha trovato sinora un buon riscontro nelle reazioni dei ragazzi.
Per concludere, se il rapporto con l’insicurezza è oggi la sfida chiave, allora
la formazione delle attitudini necessarie a gestire tale rapporto diventa un
compito essenziale di cui deve farsi carico la stessa università. È questa la
sfida all’autodeterminazione. In questa sfida la differenziazione tra chi
possiede le capacità e le competenze culturali adeguate per sviluppare la
propria biografia e chi non le possiede aumenterà notevolmente. Una buona
transizione alla vita adulta, dunque, non dipenderà solo dalla preparazione
tecnica, ma anche dalla capacità di fare progetti in condizioni di incertezza,
dalla possibilità di raggiungere risultati, magari parziali e limitati, ma
realisticamente perseguibili. L’università potrebbe essere non solo il luogo
dell’apprendimento specialistico, ma la palestra in cui sperimentare e affinare
queste nuove capacità.
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