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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 16SETTEMBRE 2012
NUMERO 394
CULT
La copertina
CACCIARI E CASSANO
Se nella societàdel rumoretutti cercanol’ora del silenzio
La recensione
FRANCO MARCOALDI
Grazia e ironiale ultime carteche Meneghelloci ha lasciato
All’interno
L’intervista
DARIO PAPPALARDO
Yuri Herrera“La letteraturasvela la violenzadegli uomini”
L’opera
GUIDO BARBIERI
Al PetruzzelliDon Giovanniè sconfittodall’orchestra
Il libro
ALESSANDRO BARICCO
Una certaidea di mondo“Il verbo esseredella Kristof”
Antonioni segretoTutti i filmche non vedremo
Spettacoli
MICHELANGELO ANTONIONI
e MARIO SERENELLINI
Dall’Iri all’Ilva,il tramontodell’età dell’acciaio
L’attualità
ENRICO DEAGLIOC’è una clessidra. I movimenti cresciuti sponta-
neamente dal basso sono destinati a declinare econsumarsi, e lasciare di nuovo il posto alla po-litica verticale e ai poteri costituiti. È vero? È ve-
ro. Ma la politica verticale e i poteri costituiti sono destinati a logo-rarsi e strafare, aprendo la strada ai movimenti cresciuti sponta-neamente dal basso. Non è vero? A volte, una ventata più forte ro-vescia la clessidra. Dunque, a che punto siamo? Nel luglio di un an-no fa una rivista canadese legata a una fondazione ambientalista eanticonsumista, Adbusters, convocò per il 17 settembre una occu-pazione pacifica di Wall Street. Non so se pensassero davvero chesuccedesse: successe. Il loro proposito era di ripetere a New Yorkl’occupazione di piazza Tahrir al Cairo e di Puerta del Sol a Madrid(o di Tel Aviv, la più effimera).
(segue nelle pagine successive)
ADRIANO SOFRI
NEW YORK
Occupy & disoccupy. Quel che resta di Occupy WallStreet saranno pure gli slogan che infiammano In-ternet, la piazza virtuale che un anno dopo si ac-cende ancora a ogni sfrucolio della protesta, lo scio-
pero degli insegnanti di Chicago, Mike Bloomberg, il sindaco mi-liardario che dice che gli homeless a New York nei rifugi cittadinistanno meglio che al Plaza. Quel che resta di Occupy Wall Streetsarà pure l’anonimo blogger che richiama alla lotta citando micaMarx o Marcuse o Marcantonio: ma i Beatles — «I don’t care too mu-ch for money / money can’t buy me love». Sì, il denaro non potrà com-prare il loro amore per la rivoluzione. Però quando domattina ri-marceranno ancora — e il lunedì 17 rischierà di trasformarsi in unnuovo lunedì nero di Wall Street — non dite che non ve l’avevanodetto.
(segue nelle pagine successive)
ANGELO AQUARO
Gli “Indignati” e il movimentole banche e Wall Street,il “99 e l’1 per cento” Ritorno a Zuccotti Park
OccupyUn anno dopo
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Volevano fermare la finanza responsabile della crisi,dicevano che non è giusto che la ricchezza di pochisia pagata da tutti, erano “indignati”, come i ragazzi spagnolie quelli delle Primavere arabe. A un anno dall’iniziodella protesta, il movimento torna a riunirsi
In un’America più stanca, più povera e sempre più indecisa
La copertinaOccupy Wall Street
Quel che resta del 99 per cento(segue dalla copertina)
Esperti com’erano di mali-zie pubblicitarie, produs-sero un manifesto mera-viglioso: una ballerina cheesegue la sua figura didanza su un piede solo,
sul dorso dello scalpitante toro dibronzo (siciliano) che è diventato ilsimbolo della Borsa. Per qualche mesequel rodeo visse il suo stato di grazia.«Dove andrà a finire questa armataBrancaleone?» si chiedeva già con pie-na simpatia Riccardo Staglianò nel suolibro-reportage da Occupy Wall Street.A guardarlo dalla Piazza Tahrir di oggi,dove le donne hanno paura di passare,dal Cairo nel quale i manifestantistrappano la bandiera sull’ambasciataamericana, il bilancio è quasi irriden-te. E lo è altrettanto a guardarlo dallacampagna elettorale di Mitt Romney edel suo sincero disgusto per i poveri.Ma la lena dei movimenti non si misu-ra su un anniversario. Che OccupyWall Street, e Zuccotti Park, non potes-se durare quanto proclamava — «per
sempre» — era nel conto. Sulla demo-crazia diretta piove, e le polizie sonomanesche e quando trovano migliaiadi libri prima chiedono sbigottite: «Mali avete letti tutti?», poi li squinternano,e la divisione fra chi ha una doccia aportata di piedi e chi no si fa sentire ecosì via. Anzi, Ows ha avuto il pregio difornire dei resoconti così sensati eistruttivi dei problemi che incontrava,
gabinetti e docce compresi, da far rim-piangere che non si facesse altrettantoai tempi andati, quando la politica eratutto.
Del resto il capitale finanziario è sto-ria antica, ma ancora nel famoso Ses-santotto il colmo del cedimento uma-no, come dicevano le canzoni, era didiventare bancario, e il banchiere era
ancora una figura astratta. Ora, il desi-derio di mettere in galera i banchieri èdiventato vasto e pressoché irresistibi-le, e intanto i banchieri menano le dan-ze internazionali, aggrappati mani epiedi alla groppa del toro furente, evanno a presiedere i governi dei paesicol debito in emergenza. I bancari: li-cenziati. A leggere quelle belle crona-che sulla vita quotidiana e la democra-zia diretta di Occupy — a New York enelle centinaia di altre città in cui si ètentata — viene voglia di accostarla aquello che succede in una tendopoli diterremotati emiliani, non so, a distan-za di qualche mese: dove chi poteva èandato altrove, e rimane chi non pote-va, i vecchi soli, i barboni, gli stranieripoveri, e si radunano e si separano pertribù. Era bella, la stagione originaledel movimento, con le frasi degli ora-tori ripetute senza microfono da unascoltatore all’altro, come in un giocodel telefono di cui si potessero control-lare equivoci e distorsioni: e del resto ilDiscorso della Montagna fu tenutosenza microfono, ed ebbe una riso-nanza forte.
Che cosa è restato? Be’, la Robin Tax,per esempio. Non è un errore di stam-
pa, come conferma il cartello: «RobinHood aveva ragione». È restata l’ideache una colossale disuguaglianza è in-sopportabile, e che è una buona ragio-ne per proporre un cambiamento aquasi tutti. Non “ai delusi di Obama”, enemmeno “ai delusi di Berlusconi”: aquasi tutti, al 99 per cento. Intendia-moci: anche di quel «siamo il 99 percento» si sapeva che semplificava un
po’ le cose, e oltretutto nelle specifica-zioni l’Uno per cento deteneva di voltain volta un quinto, o il 40 per cento, o il75 per cento della ricchezza, e tuttaviaera comunque un’enormità. Il 99 percento di Stiglitz era una metafora leg-gera e spericolata come la ballerina sultoro alla carica, ed era facile obiettare:diciamo che il 99 per cento controlla il
60 per cento, l’1 per cento di quel 99quanto controlla? E così via — comeAchille e la tartaruga: si arriverà mai alproletario in fondo — all’1 per centoche tiene sulle spalle, come Atlante, ilrestante 99?
È un fatto che una netta maggioran-za di americani aveva simpatizzato perOws, e l’idea è chiara: non si tratta diabolire la disuguaglianza, ma di ta-gliarle le unghie. Che poi questo possaavvenire senza abolire il capitalismo, èaltra questione: come quella se l’arraf-fa-arraffa contemporaneo possa an-cora vantarsi capitalismo. E quella del-la criminalità: Roberto Saviano (il suoricordo di Ows uscirà su D di Repub-blica) andò a Zuccotti Park a parlare daitaliano di mafia e finanza al tempodella crisi, e di come combatterla.
Intanto, Ows è restata pacifica e gliaeroplanini di carta lanciati contro lebanche d’affari nella città dell’11 set-tembre sono un’altra bella metafora.L’onda di Ows non si è mutata in risac-ca, e nemmeno le primavere arabehanno rovesciato per intero le loropromesse. Agli oltranzisti della finan-za rapace seccherebbe molto, imma-gino, di essere paragonati ai salafiti
ADRIANO SOFRI
Non si tratta di abolirela disuguaglianza,ma di tagliarlele unghie
Che possa avveniresenzaabolireil capitalismo,
è altra questione
ED MORRIS. Filosofo e scrittore, 70 anni DEBRA GOODMAN. Sopravissuta al cancro, 50 anni PAUL A. Manifestante DRISK. Attivista, 24 anniPETER LENER. Fisico in pensione, 71 anni
DONNA BALDWIN. Ballerina in pensione, 66 anni LISA V. Manifestante JAKE ROSZAK. Disoccupato, 22 anni BOBBY STEELE. Broker in pensione, 64 anniKATHERINE HULIT. Studentessa filosofia
Repubblica Nazionale
(segue dalla copertina)
Non dite che non ve l’avevano detto quando lisgombravano da qui, una notte di dicembre di unanno fa, non dite che non l’avevano detto quan-
do urlavano «Whose Park? Our Park!», «Di chi è il parco?Nostro!», inteso naturalmente come Zuccotti, che piùche parco — lo vedete, adesso che è cordonato di nuovodalla polizia? — è più che altro uno stradone con quattroalberi intorno, trasformato in accampamento quando lapazza idea di occupare davvero Wall Street si era scon-trata contro il muro dei lacrimogeni. Ecco, vedete, qui al-l’angolo verso Broadway c’era la libreria sociale, più dicinquemila volumi donati da tutta America, c’eranoJohn Steinbeck e per carità Angela Davis ma mica spro-loqui che ai nostri tempi sarebbero stati catalogati allavoce Cgdct: Come Giustamente Diceva il CompagnoTogliatti.
Dennis Laumann, che è professore dell’Università diMemphis e comunista vero, iscritto al partito ufficialed’America, anche lui era salito fin qui dalla città che ave-va assassinato il sogno di Martin Luther King: sapendobene di trovarsi accanto non solo ai delusi di Barack Oba-ma ma anche ai meno arrabbiati dei Tea Party. «Due mo-vimenti nati entrambi dalla frustrazione», spiega ades-so Kalle Lasn, il fondatore di Adbusters, la rivista canade-se fino ad allora incubo delle multinazionali per aver lan-ciato il “No Buy Day”, lo sciopero dei consumi. AdessoLasn annuncia a Repubblica che quel che resta di Oc-cupy potrebbe ritrovarsi in un partito. Ma chi glielo dicea Fernando, Vicente, Angel, Begona, cioè i professoriniche qui tutti conoscono solo per nome, i trapiantati spa-gnoli nelle università Usa che in America hanno portatoil seme degli Indignados — chi glielo dice che i ragazzi diPuerta del Sol dovrebbero transoceanicamente unirsicoi nipotini di Sarah Palin?
Ecco, questa qui è invece Trinity Church, la chiesasimbolo all’ombra delle Twin Towers che diventò il tem-pio dell’11 settembre: anche qui hanno provato a spo-starsi i ragazzi di Occupy, cacciati da Zuccotti, da Foley
Park e da Thompson Square, dove tutto era davvero ini-ziato intorno alle birre e ai proclami degli spagnoli. An-che la chiesa alla fine li ha sloggiati. Tutti quei sacchi a pe-lo allontanavano gli immobiliaristi che coi monsignoridi ogni confessione da sempre fanno affari divini: e qui,estrema Downtown, tra Ground Zero e le prime bouti-que dei quartieri fighetti, da Tribeca in su, c’è ancora tan-to spazio per elevare al cielo tante belle torri di Babele.Non sono del resto le costruzioni, come dice il sindacoBloomberg — accanto alla fabbrica di carta di Wall Streetnaturalmente — il cuore dell’industria di New York? E al-lora che cosa vogliono questi ragazzi che parafrasando ilnobel Joe Stiglitz denunciano la società dove l’1 per cen-to possiede tutto e il 99 per cento paga per tutti?
Alla biondina disoccupata che veniva da Worcester, ea Zuccotti ha dormito più di un mese, salgono i brividiquando ricorda la delicatezza con cui Newt Gingrich,l’ex speaker della Camera ai tempi di Bill Clinton e fino apochi mesi fa pretendente alla nomination di Mitt Rom-ney, ha riassunto la filosofia del movimento: «Voglionoun lavoro? Prima si facciano una doccia». Chissà se lo ri-corderanno i ragazzi che proveranno a marciare anco-ra, a New York, un anno dopo. E chissà se anche la poli-zia di Mike Bloomberg, un anno dopo, mostrerà la stes-sa (diciamo così) durezza degli sgomberi che hanno re-stituito la piazza a John Zuccotti, l’italoamericano allacui chiara fama imprenditoriale era stato appunto dedi-cato quello spazio che in origine aveva il destino già nelnome, Liberty Street — finché si scoprì che il Zuccotti do-veva al comune la bellezza di 140mila dollari di tasse ar-retrate. Ai giornalisti scesi a Tampa per la Convention diRomney, Brendan Hunt, neppure trent’anni, uno deileader di questo movimento senza leader, ha detto che aNew York avrebbero dovuto imparare dai modi gentili diChief Jane, la signora Castor alla guida della polizia del-la Florida che davanti ai ragazzi che assediavano la ker-messe, invece che coi manganelli, s’è presentata con unmegafono: per discutere. Occupy & disoccupy: la storia,dicono, non si ripete. Un’altra storia è possibile?
“Di chi è il Parco? Nostro!”Ultima marcia a Zuccotti Park
ANGELO AQUARO
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delle primavere arabe, ma giocano an-che loro col fuoco. Domani Ows sicommemorerà, o inaugurerà il suo se-condo autunno, e le elezioni presiden-ziali sono lì alla porta. Il miliardarioBuffett dichiarò di voler pagare di tas-se almeno quanto la propria segreta-ria, e Obama trovò, un po’ in lui, un po’nella gente di Occupy, il coraggio di ri-vendicare che «un miliardario versas-
se almeno le stesse tasse della sua se-gretaria». È, in un compendio eufemi-stico, la posta delle elezioni, benchénon la posta del movimento.
Un mio amico in gamba che ha stu-diato alla Bocconi mi ha detto di averimparato una cosa soprattutto: che lacosa più insopportabile per le personeè di essere costrette a vivere peggio di
come erano abituate a fare. Nella no-stra parte di mondo la povertà esisteeccome, ma è l’impoverimento a se-gnare l’epoca, ed è l’altra faccia dell’ar-ricchimento sfrenato e oltraggioso.Leggo che «da gennaio ad aprile 2012,il patrimonio delle quaranta personepiù ricche del mondo si è accresciuto di95 miliardi di dollari». Se è insopporta-bile per le persone, figurarsi per le ge-nerazioni intere. Alle quali oggi le au-torità competenti illustrano la loro le-zione: «Staremo peggio per poter staremeglio». È la ricetta universale, gover-no Monti compreso. Ma persone e ge-nerazioni la capiscono così, che stare-mo peggio, e basta. L’1 per cento sisbriga a rimettersi in sella, anche dopole batoste: le fa pagare agli altri. Si fa ve-dere meno: è la differenza fra il merca-to finanziario e la piazza del mercato,la Borsa e il giardinetto di Zuccotti, odella Libertà. Gli affari del mondo nonpossono regolarsi nella piazza delmercato, nell’agorà della democraziadiretta: però il mondo è pieno di piaz-ze. Alcune, come a Pechino, o aPyongyang, sembrano fatte appostaper riempirsi di ragazzi coi bonghi.
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Sempre che
l’arraffa-arraffadi oggi possa ancoravantarsi capitalismo
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Attivista, 24 anni GARY PHANEUF. Commerciante, 55 anni ROBERT REISS. Studioso di magia, 55 anni NATE BARCHUS. Designer, 23 anni XIOMARA HAYES. Insegnante, 65 anni
Broker in pensione, 64 anni DYLAN NOVACK. Disoccupato, 18 anni HERMAN SCHWALL. Caposquadra, 60 anni DONALD B. Manifestante LUIS DANIEL. Disoccupato, 31 anni
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Chiude il centro Italsider di Bagnoli:
nel ’94 inizia la dismissione, i capannoni
vengono rilevati dalla Città della Scienza
1991Iniziano le privatizzazioni: Piombino va
a Lucchini, Taranto a Riva, Terni a una
cordata formata da Krupp, Riva, Falck
anni ’90L’acciaio è il motore della rinascita
e del boom: sono gli anni
dell’Iri e della siderurgia di Stato
anni ’60
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L’Italsider di Bagnoli, Sesto San Giovanni Stalingrado d’Italia,Gigi Lamera e i maghi del tornio di Jannacci, la locomotiva di GucciniPoi, la tragedia della Thyssen, la crisi dell’Ilva, la dismissionesiderurgica: fenomenologia del rapporto tra l’uomo e il metallo più potente. E, così si pensava, eterno
L’attualitàClasse operaia
Sia lodeagli uominid’acciaio
ultima immagine è stata quella della disperazione tarantina,nell’agosto delle vacanze: il colosso dell’Ilva con i suoi fumi e ve-leni, le particelle subdole e le emottisi, il quartiere dei bambinicondannati, gli operai umiliati tra il tumore e un salario, il silen-zio comprato e messo in bilancio. Al nord le cose non sono an-date meglio. Nell’aprile del 2011, i dirigenti dell’acciaieria di To-rino in cui erano bruciati vivi sette operai venivano condanna-ti per “omicidio volontario”. E che nomi avevano! Nientemenoche Thyssen e Krupp, le due famiglie che avevano nutrito Hitlerdi tutto il ferro che voleva e ora trattavano Torino alla stregua diuna loro colonia. Come oggi a Taranto, quegli operai che mori-rono uno a uno per tutto il dicembre 2007 erano da tempo «di-ventati invisibili», come scrisse Ezio Mauro su questo giornale.Ci mancherà, l’acciaio? Ne potremmo fare a meno? Lo rim-piangeremo? O accetteremo di morire per lui? La risposta, piùancora che nel futuro, sta in un secolo di storia epica, con un fi-nale che nessuno avrebbe immaginato.
Cominciò con il mondo attonito a guardare in su, verso la ci-ma della Torre costruita dall’ingegner Gustave Eiffel a Parigicon 7.300 tonnellate di ferro, continuò con le meraviglia deltransatlantico Titanic, 50mila tonnellate, lavorate nei cantie-ri navali di Belfast e con la locomotiva di Guccini, «un giovanepuledro che mordeva la rotaia con i muscoli d’acciaio». Farel’acciaio è stata la liturgia laica del Novecento. Per officiare civolevano giacimenti di minerali ferrosi grandi come disteselunari e le viscere della terra da cui estrarre il carbone; per be-nedire la loro comunione vennero costruiti degli edifici catte-drali che occupavano spazi mai pensati prima. L’uomo erapiccolo, in mezzo a tanta natura, ma la domava, lei incande-scente, la faceva colare in lingotti, lamelle, travi, tubi. L’acciaioformò il nostro paesaggio, spostò milioni di contadini verso le
nuove città, divenne il metro su cui valutare il progresso e l’ar-ma segreta per vincere le guerre.
In Inghilterra fu il simbolo della rivoluzione industriale e del-l’Impero, negli Usa venne concupito da titani come AndrewCarnegie, la cui Us Steel diventò il più grande monopolio e lapiù grande società per azioni del pianeta. In Germania l’acciaioera della famiglia Krupp, la dinastia industriale che sposò il na-zismo; in Urss, invece, l’acciaio divenne del popolo, o megliodel partito. L’acciaio fu, nello stesso tempo, democratico, im-periale, nazista e comunista. Steel in inglese, Stahl in tedesco,Stalin in russo. Lì fu l’unico posto dove il capo del comunismointernazionale (all’anagrafe era un banale Iosif VissarionovicDzugasvili) prese addirittura il nome del materiale, per identi-ficarsi con la forza, l’invincibilità, la freddezza. Ma anche gli al-tri non scherzavano. Hitler e Mussolini nel 1939 il loro accordoper dominare l’Europa lo chiamarono “patto d’acciaio”. Fallì,perché al di là dell’Atlantico gli Stati Uniti sfornarono in pochianni talmente tanto acciaio da rendere nero di navi l’OceanoPacifico e le coste della Normandia, e lo fecero assicurando pa-ghe sindacali e lauti straordinari. Quando poi i maschi partiro-no per la guerra, negli altiforni arrivarono anche donne giova-ni (tante brunette con il fazzoletto a raccogliere i capelli, comequella del famoso poster che mostra il bicipite) e qualcuno so-stiene che da quella esperienza cominciò il movimento di libe-razione della donna.
I nazisti presero una via diversa: Krupp e Hitler sfornarono ac-ciaio con il lavoro schiavo e i deportati, e proprio per questo per-sero la guerra. Stalin, invece, fu talmente affascinato dal trino-mio classe operaia-acciaio-esercito che sulla siderurgia fondò isuoi piani quinquennali e con quel trio i suoi eredi martirizza-rono Budapest. (Altri tempi: a Milano gli operai siderurgici, tut-
ti stalinisti, erano quelli con i giacconi di pelle nera, quelli che«limavano la ghisa con le mani», quelli che erano stati assuntiperché sapevano fare un uovo al tornio uguale preciso all’origi-nale — osservavano le prime pagine dell’Unitàcon i carri armatisovietici sulle rive del Danubio, soddisfatti per il buon uso chela classe operaia finalmente faceva del ferro).
Ma la più grande tragedia del pianeta l’acciaio la produssenella Cina di Mao Zedong. A metà degli anni Cinquanta ancheil Grande Timoniere diventò ossessionato dalla produzione diferro. Convinto di poterlo produrre con minuscole fornaci inogni villaggio, utilizzando rottami e scarti, il partito intimò aqualcosa come sessanta milioni di contadini di diventare an-che operai siderurgici. Il tutto fallì in pochi anni (l’acciaio pro-dotto non valeva niente) non senza aver provocato decine dimilioni di morti per le carestie derivanti dall’abbandono del-le campagne.
E da noi? Ben prima del rogo di Torino e della scoperta del di-sastro di Taranto, l’epopea dell’acciaio italiana era terminata.Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, è una città terziaria,Torino si è da tempo disimpegnata, Brescia traccheggia, Piom-bino peggio ancora. Ma è soprattutto la siderurgia ex statale nelMeridione ad aver consumato le sue speranze. L’Italsider di Ba-gnoli, che con i suoi operai avrebbe dovuto guidare una nuovaNapoli, è diventata una triste area dismessa. Il colossale Quin-to centro siderurgico di Gioia Tauro, promesso dalla politica piùconfusionaria e più cinica a una Calabria da placare e da assi-stere, addirittura non vide mai la luce. Di Taranto, ora si sa. Diquella breve era ci restano però personaggi di carta, di celluloi-de o di vinile: l’operaio Libertino Faussone e la sua fierezza in-dustriale (Primo Levi, La chiave a stella); il volto di GiancarloGiannini, sia che fosse Mimì metallurgico o il napoletano man-
ENRICO DEAGLIO
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Repubblica Nazionale
Vengono smantellati gli impianti Falck
di Sesto San Giovanni
Stessa sorte tocca alle acciaierie Breda
1996In un incendio muoiono nella notte sette
operai della ThyssenKrupp di Torino
Lo stabilimento chiude nel marzo 2008
2007Alla fine di luglio gli impianti dell’Ilva
di Taranto vengono messi
sotto sequestro per disastro ambientale
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dato dall’operaio Picone; nella musica, il Gigi Lamera di Jan-nacci che intagliava fiori nella lamiera per la sua bella. Era affe-zionato allo stabilimento, l’operaio Vincenzo Buonocore di Ba-gnoli (nel tristissimo La dismissionedi Ermanno Rea). A rende-re insopportabili gli uomini d’acciaio è poi arrivata l’anno scor-so una ragazza di Piombino raccontando del maschilismo si-derurgico, e per poco non vinceva il premio Strega (Acciaio, diSilvia Avallone, ora anche un film).
In Inghilterra la cultura del carbone e dell’acciaio finì neglianni Ottanta. La signora Margaret Thatcher ci prese gusto aschiacciare sindacati e produzione, e per paradosso passò allastoria come la “lady di ferro”. Anche i laburisti si stancarono diquegli anacronistici minatori e sindacalisti, e così emerse TonyBlair, che sicuramente di ferro non era. Negli Stati Uniti, l’ac-ciaio se ne andò piano piano, lasciando Pittsburgh arrugginita,Bruce Springsteen a cantarla e le Twin Towers in macerie. Il mo-tivo era stato ben spiegato in un film del 1968, Il laureato, doveil giovane Dustin Hoffman, ammollo in piscina riceve la drittafondamentale: «Figliolo, l’avvenire è nella plastica». Fu cosìdavvero: la plastica, sempre più versatile e innovata, penetrònelle automobili, negli elettrodomestici, nei tubi, nell’edilizia,mentre gli uomini d’acciaio diventavano troppo cari e troppoinquinanti. L’immagine del futuro è, pittoricamente, nella baiadi San Franciso, con i suoi due ponti. Il Golden Gate, trionfo delferro e del New Deal e il lunghissimo Bay Bridge, oggi in rifaci-mento, e il cui acciaio viene tutto dalla Cina. Unica consolazio-ne per l’Occidente? Le avventure sadomaso della giovane pro-tagonista delle Cinquanta sfumature di grigio: miss AnastasiaSteel, che, saggiamente, l’acciaio del suo nome lo usa non perdominare il mondo, ma solo per certi innocui giochini.
LE IMMAGINI
Le foto che illustrano
queste pagine sono
prese dal celebre
servizio sugli impianti
dell’acciaio
negli Stati Uniti
negli anni Cinquanta
del fotografo
W. Eugene Smith:
gli scatti ritraggono
operai al lavoro
tra il 1949 e il 1955
a Pittsburgh
in Pennsylvania
e nell’Ohio
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Per gli americani fu la battaglia che fondò il mito degli Stati UnitiPer i messicani poco più di una scaramuccia insignificante. Ma allorache cosa avvenne tra i “patrioti” del Texas e l’esercito del generaleSanta Anna? Nel suo nuovo libro Paco Ignacio Taibocerca le risposte dietro la propaganda. Cominciandodall’eroe con il cappello di pelliccia. Molto diverso da John Wayne
La storiaAntirevisionismi
Tra tutte le morti dei difen-sori di El Alamo, quellache avrebbe generato unacontroversia destinata adurare un secolo e mezzo,è indubbiamente la mor-
te di David Crockett. Le prime versioniconferivano un’aria di straordinariagrandiosità al tragico finale. Nel marzodel 1836, E. Bowker raccontava in unalettera che «è stato trovato morto conuna ventina di nemici attorno, il fucileera spezzato e si suppone che da soloabbia ucciso venti o trenta messicani».Il Texas Almanac nel 1837 raccontavache stringeva ancora un coltello in ma-no e intorno a lui giacevano diciassettemessicani, undici dei quali pugnalati egli altri abbattuti con il fucile e le quat-tro pistole che aveva con sé, e aggiun-geva che Crockett stava sorridendo.Una descrizione meravigliosa, nonc’è che dire, ma difficile da verifica-re, a meno che i messicani mortinon avessero riferito all’autore
dell’articolo come erano stati uccisi daCrockett. Lee Paul racconta di altreversioni diffuse poco dopo la caduta diEl Alamo, secondo le quali Crockettaveva ben sedici fucili carichi quandoiniziò l’attacco e c’era «un mucchio dicorpi di messicani» davanti al suo ca-davere. [...]
Assieme alle esagerazioni spuntaro-no le prime falsificazioni, rivolte algrande pubblico, e nel maggio del 1836Richard Penn Smith scrisse ColonelCrockett’s Exploits and Adventures inTexas e una casa editrice di Filadelfia,Carey&Hart, lo pubblicò annuncian-dolo come «il diario autentico» diCrockett, trovato a El Alamo da un ge-nerale messicano che poco tempo piùtardi era morto a San Jacinto; quando
nel 1884 fu dimostratosenza ombra di
dubbio che il te-sto era apo-
crifo, ne ave-vano giàvendute mi-gliaia di co-
pie. Gli almanacchi dove comparivanoscritti su David Crockett divennero deibestseller e il personaggio tornò da pro-tagonista in teatro. Tra le tante leggen-de deliranti, la più divertente lo volevascampato all’attacco e individuatoquattro anni dopo in una miniera nellazona di Guadalajara. La diceria presecorpo e il figlio di Crockett, John, unpaio di mesi dopo chiese al Segretariodi Stato di aprire un’indagine, che ov-viamente non sortì alcun risultato.
Tuttavia, accanto a tante immaginigloriose, circolava anche una versioneper nulla eroica sulla morte di Crockett.Già il 29 marzo 1836, sul New OrleansTrue American si leggeva: «Soltantosette della guarnigione erano ancoravivi. Ci dispiace dover dire che DavidCrockett, il suo compagno Benton eBonham erano tra quelli che si arrese-ro, ma non ebbero pietà di lo-ro». Secondo la testimo-nianza di un messica-no non identifica-to, pubblicatasul Mor-
ning Courier and New York Enquirernel luglio 1836, Crockett si arrese e fucondotto al cospetto del generale San-ta Anna, questi reagì rabbiosamentedicendo che l’ordine era di non fare pri-gionieri, e lo fece fucilare. [...] Il genera-le Cos, da prigioniero, raccontò più omeno lo stesso: una volta catturato,David Crockett gli chiese di intercede-re in suo favore perché «si trovava lì so-lo in visita e per sua disgrazia era rima-sto bloccato a El Alamo». [...]
Le varie storie erano poco precise e incontrasto tra loro. Si trattava di quattro,di sei o di un solo prigioniero? Eranostati fucilati o uccisi a colpi di sciabola?Perché più tardi Santa Anna avevachiesto di identificare il corpo diCrockett tra i cadaveri se prima avevadato l’ordine di fucilarlo? In ogni caso,la scomoda immagine di un Crockettche si arrende e chiede clemenza fucancellata sotto la valanga di versionieroiche. Nel 1955, l’anno in cui si con-solidava il mito con il film di FessParker, Davy Crockett: King of the WildFrontier, Jesús Sánchez Garza, colle-
zionista e studioso della numismaticadella rivoluzione messicana, e che pos-sedeva anche un’importante collezio-ne di manoscritti della Nueva España,pubblicò il libro del tenente colonnelloJosé Enrique de la Peña, La rebelión deTexas. Manuscrito inédito de 1836 porun Oficial de Santa Anna, memorie dioltre seicento pagine scritte a mano econ un’appendice di documenti cheincludeva un diario tenuto durantel’assedio. [...] José Enrique de la Peña,nato nello stato del Jalisco nel 1807, [...]chiese il permesso di unirsi alla spedi-zione di Santa Anna per combattere lasedizione texana. Assegnato a un bat-taglione di zappatori, partecipò all’as-salto finale con il colonnello Duque.Tornato a Città del Messico fu trasferi-to nel Sonora agli ordini di Urrea e in se-guito a una rivolta contro il governovenne arrestato. La sua scheda di servi-zio nell’archivio militare fu manomes-sa, fecero scomparire la partecipazio-ne alla campagna texana; nel 1839, inprigione, scrisse il pamphlet Una vícti-ma del despotismo.
PACO IGNACIO TAIBO II
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DavyCrockett
Come è andatadavvero
a Fort Alamo
LA COLONIA
A partire dal 1821 gruppi
di coloni americani iniziano
a insediarsi nella provincia
messicana del Texas
GLI SCONTRI
Con la crescita del numero
degli immigrati cominciano
i primi scontri e il Messico
mette restrizioni all’ingresso
LA DITTATURA
Intanto in Messico sale
al potere il generale Antonio
López de Santa Anna che
instaura una dittatura militare
LE TAPPE
Repubblica Nazionale
Nell’arco dei cinque o sei anni che ri-mase detenuto si dedicò a rielaborareil diario, annotando e aggiungendodocumenti sulla guerra in Texas. [...]Nel manoscritto di De la Peña si legge:«Sette uomini erano sopravvissuti allamattanza [...] e il generale Castrillón liportò da Santa Anna. Tra loro ve n’erauno di notevole statura, robusto, trattiregolari, dall’espressione del voltosembrava abbattuto, ma dimostravauna certa rassegnazione unita a fierez-za [...]. Era il naturalista DavidCrockett, molto noto in Nordamericaper le sue originali avventure, venuto aconoscere il nostro paese e, trovando-si a Béjar, aveva finito per rifugiarsi a ElAlamo, temendo che come stranieroavrebbe corso dei rischi. Santa Annafece un gesto sprezzante nei confrontidi Castrillón, e rivolgendosi agli zappa-tori, cioè i soldati in quel momento piùvicini, ordinò che lo fucilassero».
La pubblicazione della traduzionedel testo di De la Peña negli Stati Unitiprovocò una prima reazione quandoDan Kilgore, nel suo discorso alla
Texas State Historical Association inoccasione della pubblicazione del suolibro How Did Davy Die?, fece propriala versione del generale messicano. Lacosa arrivò ai media, che la definirono«assassinio di un mito», e fece infuriaremolti lettori, uno dei quali consigliòl’autore di «lavarsi la bocca con il sapo-ne». Tuttavia, le acque non parvero agi-tarsi eccessivamente, e per diversi anniil dibattito sulla fine di Crockett man-tenne un basso profilo. [...]
Nel 1993, Mark Derr pubblicò unabiografia del personaggio — The Fron-tiersman: The Real Life and the ManyLegends of Davy Crockett — in cui davaper buona la versione di De la Peña;Stephen L. Hardin, uno dei più rigorosianalisti della guerra del Texas, fece al-trettanto in Texian Iliad, del 1994. Al-bert Nofi, nel suo The Alamo and theTexas War for Independence, del 1994,usò il termine «abbastanza convincen-te». [...] All’estremo opposto, Bill Gro-
neman, in Defense of a Legend, del 1994,sosteneva a spada tratta la versioneeroica. La morte di Crockett, come eb-be a dire uno dei polemisti, era «unfronte della guerra culturale sul finiredel Ventesimo secolo».
Il dibattito assunse toni deliranti: persostenere una o l’altra tesi venivanoscreditati documenti storici, si discute-va all’infinito su dettagli insulsi [...].
Il manoscritto di De la Peña fu ac-quistato nel 1974 dal politico demo-cratico e collezionista James Peace,che lo diede in prestito all’universitàdel Texas a San Antonio. Alla sua mor-te, la famiglia lo mise in vendita e nelnovembre del 1998 due milionari texa-ni, Charles W. Tate, di Houston, e Tho-mas O. Hicks, di Dallas (proprietariodei Texas Rangers e della squadra dihockey Dallas Stars), sborsarono387.500 dollari in un’asta della Los An-geles Butterfield & Butterfield. [...]
L’asta fu preceduta dalle accuse diGroneman e di altri alamoisti come Jo-seph Musso, convinti che il documen-to fosse una truffa. La respon-
sabile della casa d’aste fornì i risultatidelle perizie: «È stato scritto su un tipodi carta fatta a mano a Lisbona tra il1825 e il 1832», l’inchiostro risultava dieguale antichità e non c’era alcunaprova di falsificazione. Nel 2000 la di-scussione riprese vigore quando ilCentro di storia statunitense dell’uni-versità del Texas ad Austin organizzòuna mostra di documenti e opere gra-fiche dal titolo The Texas Revolutionand the Narrative of José Enrique de laPeña, dal 29 aprile al 14 ottobre; il gior-no dell’inaugurazione venne organiz-zata una tavola rotonda. Ancora unavolta le polemiche avevano precedutol’esposizione. [...] In un dibattito su Hi-story Channel gli animi si infuocaronoa tal punto che si arrivò agli insulti per-sonali. [...]
Al dibattito partecipavano due deipiù ferventi detrattori del documen-to, Bill Groneman e il romanziereStephen Harrigan (autore di The Ga-tes of the Alamo). Uno dei punti ne-vralgici della discussione era una pe-rizia tecnica eseguita sul manoscritto.
Un giornalista coglieva il singolareambiente della sala, dove le personestavano «sedute sul bordo delle pol-troncine e regnava un silenzio assolu-to». David Gracy rese pubblica la det-tagliata analisi del manoscritto: lacarta era indubbiamente di quell’e-poca, come pure l’inchiostro, e la cal-ligrafia messa a confronto con altriscritti di pugno di De la Peña conser-vati negli archivi militari risultava at-tendibile; «dunque, la conclusione èche il diario è autentico». Richard G.Santos mise il punto finale al dibatti-to: «L’onorevole David Crockett delTennessee non morì alla maniera diJohn Wayne». Ed Eric von Schmidtavrebbe aggiunto: «non è finalmentegiunta l’ora di lasciar perdere l’illuso-ria immagine di un Davy in piedi suuna catasta di messicani morti, ro-teando il suo Old Betsy in cerca di unaltro cranio da sfondare?».
Traduzione Pino Cacucci© 2012 Marco Tropea Editore Srl
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IL LIBRO
Sarà in libreria il 20 settembre Alamo. Per la storia non fidatevidi Hollywood di Paco Ignacio Taibo II (Marco Tropea, 288 pagine,
14 euro) di cui pubblichiamo un’anticipazione in queste pagine
Il libro ricostruisce minuziosamente i fatti della battaglia che fondò
il mito Usa basandosi su sei anni di ricerche d’archivio e rivela fatti
e aspetti inediti su circostanze e protagonisti. Taibo presenterà
il volume a Pordenonelegge domenica 23 settembre al Teatro Verdi
alle 20,30 e a Milano il 26 settembre alla Feltrinelli di Piazza Duomo
L’INSURREZIONE
Intolleranti verso il regime
di Santa Anna nel ’33 i texani
si rivoltano e si danno
una propria costituzione
LA CAMPAGNA
All’inizio del 1836 Santa
Anna marcia sulla missione
di Alamo dove si erano
rifugiati duecento americani
L’ASSEDIO
L’assedio di Fort Alamo inizia
il 23 febbraio 1836: tra i difensori
che muoiono sul campo
c’è anche David Crockett
LA RESA
Dopo tredici giorni
di assedio alle sei del mattino
del 6 marzo l’esercito
messicano espugna il forte
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Il 29 settembre di cento anni fa
nasceva l’autore di “Blow-Up”Mentre la Cineteca di Bologna gli dedicauna rassegna, riemergono lettere, foto, progettimai nati o realizzati da altri. Come “Caro Ivan”che diventò “Lo sceicco bianco” di Fellini
SpettacoliProfessione: regista
«Un film non im-presso su pelli-cola non esiste— era solito ri-petere — E lesceneggiature
son funzioni del film: non hanno auto-nomia, sono pagine morte». Michelan-gelo Antonioni aveva sperimentato fintroppo bene la tormentosa inesistenzad’un film soltanto pensato o «scritto», ladoppia beffa d’un’opera che c’è e nonc’è, che c’è senza esserci. Il suo è per lamaggior parte un cinema fantasma. Afronte dei pochi titoli realizzati in unavita quasi centenaria — sedici lungo-metraggi, una ventina di corti — una va-langa di progetti, tra il 1945 e il 1985, ri-masti sulla carta: almeno venti lungo-metraggi e, tra corti e lunghi, venti do-cumentari in soli cinque anni (1945-’50). Senza contare i soggetti divenutifilm di altri (Caro Ivan, del 1949, sui mi-raggi dei fotoromanzi, «che Carlo Pontimi comprò per due soldi dandolo a Fel-lini, che ne fece Lo sceicco bianco»), lacollaborazione a vari titoli di Visconti(Furore e Il processo di Maria Tarnov-ska) e quel mare di «pagine morte» chesono le sue idee e ipotesi di cinema.
La sua esistenza è stata scandita daun cinema in stand by: talora realizza-to, ma il più delle volte rimasto un ab-baglio, una visione illusa, di cui solo ilsuo sguardo ha trattenuto la traccia,sempre viva e interrogativa. Come seBlow-Up, dove un clic capta il segretoche la realtà cancella, fosse non un suofilm ma la sua vita. E chissà se una ras-segna del suo cinema «invisibile» — im-magini suggerite da parole, dattiloscrit-ti, correzioni — non sarebbe stata più«antonioniana», nonché rivelatrice,della retrospettiva che, per il centenariodella nascita (29 settembre 1912), sisvolgerà dal 27 alla Cineteca di Bologna.
Fatalmente, nel suo cinema, sia rea-
lizzato che irrealizzato (al cui viavai de-dica un denso saggio l’amico e collabo-ratore storico Carlo di Carlo, nel volu-me di Cinecittà International del ’92, inoccasione dell’omaggio al Louvre), lasparizione è ricorrente: oltre al blackout, in Blow-Up, del cadavere (e del rul-lino), lo svanire nel nulla dell’amante inL’avventura, la sostituzione d’identitàin Professione: reporter, l’appuntamen-to lasciato morire nel vuoto in L’eclisse(che è già un astronomico sparire eriapparire). Ma è nella filmografia pa-rallela, nel limbo del suo cinema senzaciak, che il leit motiv si fa più tagliente.In Stanotte hanno sparato (1949) — chesarebbe dovuto essere il lungo d’esor-dio, prima di Cronaca di un amore —nelle righe iniziali del dattiloscritto il
cadavere, alla seconda occhiata dellagiovane alla finestra, è già scomparso.In un progetto tra i più rimpianti, Tec-nicamente dolce (1966), «ambientatonella foresta vergine dell’Amazzonia, lapiù terrificante e meno fotogenica almondo», nell’intrico impermeabile al-la luce del sole «i personaggi rischieran-no l’invisibilità». E quel che affascinaAntonioni nel conradiano La ciurma,annunciato fin dal 1977, a favore delquale s’era battuto anche Martin Scor-sese, è il mistero mai risolto del fatto dicronaca cui s’ispira il soggetto, scrittocon Mark Peploe: uno yacht alla derivanelle acque australiane, tre uomini rin-chiusi per giorni nella stiva dallo skip-per che, una volta risaliti sul ponte, nontroveranno più.
La gran matassa di film irrealizzati ri-badisce i temi di predilezione del regi-sta: prima di tutto, l’universo femmini-le, esplorato in ogni suo aspetto. Tra idocumentari mancati: Modelle, En-traîneuses, Indossatrici, Balletto, Ledonne di tutti, Conventi di clausura, dacui svilupperà con Tonino Guerra nel1981 Questo corpo di fango, divenutonel 1995 il quarto episodio di Al di là del-le nuvole. Tra i progetti di fiction: Lilia-na ha fatto poker (1952), scritto con Su-so Cecchi d’Amico, Il bacio di Lesbia(1954), con Ennio Flaiano, Emanuela(1965), con Calvino, Furio Colombo eGuerra, Sotto il vestito niente (1984), dalbestseller di Marco Praga, che la produ-zione, per l’unanime «vade retro» deglistilisti milanesi al cineasta, si affrettò a
dirottare sui Vanzina, con i noti risulta-ti. Ma l’Antonioni sconosciuto riservaanche gustose sorprese: un’inattesa in-dulgenza per la comicità più popolare(il soggetto scritto per un film di Totò,Totò e il cadavere, di cui ha poi sempretaciuto) e l’inclinazione a uno humourmentale, aritmetico, di marca anglo-sassone, quando si fa tentare («in unmomento di disperazione») dall’adat-tamento di poesie di Ray McNiece o deicapitoli iniziali della Introduzione allafilosofia matematica di Bertrand Rus-sell. Del primo gli frullano in testa datempo versi che «potrebbero divenire ilnocciolo d’un film comico, orientan-done già lo stile: “Pensate a un nume-ro/, raddoppiatelo/, triplicatelo/, ele-vatelo al quadrato/ e cancellatelo”». (Di
MARIO SERENELLINI
I film che non ho giratoAntonioni
Michelangelo
LE INIZIATIVEDal 27 settembre la Cineteca di Bologna dedica
ad Antonioni una rassegna. Il 29 il Comune di Ferrara proietta
L’eclisse. A Natale esce il cofanetto edito dalla Cineteca
di Bologna con il romanzo della vita e il dvd
Antonioni su Antonioni, libro e film sono di Carlo di Carlo
Dal 10 marzo 2013 Ferrara allestirà la mostra al Palazzo
dei Diamanti Lo sguardo di Michelangelo Antonionie le arti a cura di Dominique Païni
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nuovo, la sparizione...). Del testo diRussell, «molto serio, ma ricco di tro-vate comiche», l’attirano passaggi deltipo: «Il rapporto uomo-donna è l’in-verso del rapporto donna-uomo». Alregista «pare già di vederle, quelle duecoppie a rovescio e gli amici e le situa-zioni con cui avrebbero a che fare». Laparte sommersa dell’iceberg Anto-nioni rivela infine la lucidità silenzio-sa, solitaria d’una coscienza cinema-tografica che in più casi ha anticipato itempi, a partire da Gente del Po, giratonel 1943 — negli stessi giorni e non lon-tano dal set di Ossessionedi Visconti —che sarebbe stato il suo primo film e ilprimo film neorealista, se la pellicola,deterioratasi in quegli anni di guerra,non fosse risultata in gran parte inser-
vibile, consentendo solo il montaggio,nel ’47, d’un corto di nove minuti. Per-so il primato neorealista, il registaavrebbe potuto tenerne a battesimo lafiliazione rosa se gli avessero lasciatogirare Pane e fantasiadel ’51 sul milieudel cinema romano, che, con l’aggiun-ta di amoree della Lollobrigida, avreb-be inaugurato il filone due anni dopo.Oltre a movimenti e mode, la sua li-bertà d’indagine e l’occhio rapace glihan fatto cogliere umori esplosi poi inalmeno due film d’autore. Le allegreragazze del ’24, sul fascismo vissuto inprovincia dai giovani ignari come unapiacevole mascherata, poteva essergià, vent’anni prima di Fellini, unAmarcord ferrarese. Mentre Lolita diKubrick nel ’62 fece pentire Ponti di
non averne prodotto il prototipo ita-liano, Ida e i porci, su una contadinellache si prostituisce, scritto con De Con-cini e Sonego nel ’56.
Parlando dei suoi protagonisti,sempre frenati, galleggianti in un’e-terna sospensione, Antonioni evoca-va Freud: ognuno di noi, limitato damille condizionamenti, oppresso daquel che si definisce normale, «non èche un’ombra di quel che potrebbeessere». È la spiegazione del suo ci-nema dimezzato, d’una produzionedebordante diminuita dalle «regole»in un’umiliante impotenza: quel ches’è salvato è l’ombra d’un maestosonaufragio. O il suo occultamento, lasua eclisse.
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Una notte d’estate, a Roma. Fa caldo. Nellasua camera una ragazza non riesce a dor-mire. Si chiama Giulia, ha ventuno anni. È
figlia di un affarista senza scrupoli arricchito neldopoguerra. Studia lingue al Magistero.
La finestra della camera è aperta sulla stradadeserta. D’improvviso salgono delle voci, unoscalpiccio e poi due colpi di rivoltella, vicinissimi.Giulia stava leggendo un romanzo, si precipita aguardare. Dalla finestra si vede solo un tratto distrada, il resto è coperto dalla casa vicina, piùavanzata. Ma hanno sparato proprio lì sotto e sivede un uomo vestito di chiaro, in ginocchio inmezzo alla strada, ferito. Un terzo colpo, e l’uomosi abbatte definitivamente.
Giulia si ritrae atterrita. Ma la curiosità è più for-te del suo spavento. Si riaffaccia. L’uomo non c’èpiù, c’è rimasto qualcosa che sembra un fazzolet-to scuro. Giulia corre nella camera di suo padre,ma questi non è ancora rientrato. Corre in quelladella domestica, che russa profondamente.
Sul punto di svegliarla cambia idea, ritornanella sua stanza, alla finestra. Un altro individuosbuca da dietro la casa vicina proprio in quel mo-mento, raccoglie il fazzoletto, lo guarda attenta-mente e se lo mette nel taschino della giacca; poi
sente evidentemente quella finestra illuminata eguarda in su. Giulia ha un brivido; l’uomo un at-timo di esitazione. È uno alto, magro.
Giulia è atterrita. Abbassa la saracinesca e si in-fila nel letto.
La prima cosa che le torna alla mente la mat-tina dopo appena sveglia, è il fattaccio a cui haassistito. Sfoglia un giornale, ma il giornale nonne parla. Esce a comperarne altri: niente. Nes-suno ne parla. Non avrà sognato per caso? A vol-te capita di ricordarsi cose sognate come se fos-sero vere.
Va a trovare un’amica che abita a pochi passi.L’amica ha sentito ma si è ben guardata dall’al-zarsi: a volte i rumori sembrano sotto casa e inve-ce vengono da lontano. Giulia le racconta quan-to ha visto; ma Elena è scettica. Come mai i gior-nali non ne parlano? Un uomo è morto e tutto ètranquillo. La città ha il suo aspetto normale, ditutti i giorni.
Oppure Giulia è la sola a saperlo. Lei... e chi haucciso. Costui gira tranquillamente per le vie, in-disturbato. Potrebbe essere quel signore lì, oquell’altro. Incontrandosi potrebbero ricono-scersi. E allora?
“Stanotte hanno sparato”Il giallo dell’esordio mancato
MICHELANGELO ANTONIONI
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LE FOTOGRAFIE
Sotto, Jack
Nicholson
e Antonioni
in Spagna,
nel periodo
della lavorazione
di Professione:reporter; a destra
Monica Vitti
e Alain Delon
sul set
de L’eclisse
I DOCUMENTI
Nell’altra pagina,
da sinistra in senso
orario, la lettera
di Fellini datata
5 aprile ’75
dove il regista
elogia Professione:reporter;una lettera di Tarkovskij
con autoritratto;
una lettera di Flaiano
“a Michelangelo”
firmata “Raffaello
da Urbino”; lettera
e foto di Julio Cortázar
da Zabriskie Point;
Antonioni fotografato
da Bruce Davidson
sul set di ZabriskiePoint. A sinistra,
Antonioni e Monica
Vitti sul set
de L’eclisse (1962)
Sotto, le pagine
di Stanotte hannosparato, soggetto
mai realizzato
I documenti,
che saranno in mostra
a Ferrara da marzo,
provengono
dal Fondo Antonioni
del Comune
di Ferrara
inventariato
da Carlo di Carlo
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NextCommunity
STEFANIA PARMEGGIANI
inoa qualche settimana fa, chiunque avesse cercatosul web informazioni sul norovirus, il primo respon-sabile delle infezioni gastrointestinali non batteri-che, sarebbe stato sommerso da più di due milioni dipagine: notizie di cronaca, consigli di buon senso, li-nee guida per medici e pazienti, documenti seri e an-che tanto, immancabile, ciarpame scientifico. Lastessa ricerca oggi non risparmierebbe al navigatorerisultati caotici e contraddittori, ma in compenso glidarebbe la possibilità di posare gli occhi su un nuovopezzetto di scienza. Potrebbe visitare il laboratorio diStephen Curry, docente di biologia strutturale al-l’Imperial college di Londra e scoprire perché si è de-dicato allo studio di una variante del virus che colpi-sce i topi. Il professore voleva offrire a tutti i risultatidelle sue ricerche: per questo, a differenza di quantoaveva fatto a inizio carriera, non si è rivolto a un gior-nale accessibile solo attraverso costosi abbonamen-ti, ma a Plos One, una rivista pubblicata in rete da unaorganizzazione no profit di scienziati e medici, aper-ta ai commenti e alle critiche dei lettori. «Se volete leg-gere le ultime ricerche del mio laboratorio, accomo-datevi, siete miei ospiti», ha scritto su New Scientist,che da mesi dibatte sull’accesso senza restrizioni aimateriali prodotti da medici, biologi, chimici, fisici.
Forse non molti capiranno la base molecolare del-l’infezione ma chiunque sarà libero di fare una pas-
Medicina, fisica, chimica aprono semprepiù spesso le porte del loro laboratorio
alla Rete.Mentre Internet si arricchisce di riviste,documenti, archivi e relazioni in progress, il dibattito sul libero accesso alle fonti è finito su “New Scientist” E la scienza, a poco a poco, diventa meno oscura
scenza, sia quando i grandi progetti sono coordinatida una struttura centrale, come nel caso di Encode,l’enciclopedia degli elementi del Dna, elaborata do-po 1.600 esperimenti diversi, che hanno coinvoltosolo per il paper principale 450 ricercatori di trentaistituti. I risultati, pubblicati “in chiaro”, sono ac-compagnati da materiale multimediale come unaserie di dvd, un cartone animato, una app per iPad.
Non sempre funziona così. In ballo ci sono gli in-teressi economici dei grandi editori. «Le riviste ad ac-cesso aperto sono la strada d’oro della scienza aper-ta — spiega Gino Roncaglia, docente all’Universitàdella Tuscia e autore di numerose pubblicazioni de-dicati ai nuovi media — ma devono trovare un equi-librio economico. I costi sono coperti da una quotaversata dall’autore o dalla sua istituzione. Oppuresono ridotti al minimo, utilizzando software liberi ecoinvolgendo gli editori commerciali, che devono
seggiata nel futuro della scienza, in un mondo dove ilaboratori avranno pareti di cristallo o saranno wiki,collaborativi come l’enciclopedia. Dove le ricerchesaranno a disposizione di chiunque le voglia cono-scere, nuovi algoritmi passeranno al setaccio unamole impressionante di dati e collegheranno gli stu-di effettuati ai due capi del globo. Si potrebbe defini-re scienza 2.0 o citizen science o open access perchéconcentra scambio di progetti, piattaforme crowd-funding e soprattutto elimina le restrizioni alla ricer-ca dettate dalla pubblicazioni classiche a stampa.
Quest’ultimo è il terreno più caldo degli ultimi me-si. A gennaio Tim Gowers, matematico inglese insi-gnito del più alto riconoscimento nella sua materia,la medaglia Fields, ha chiesto ai colleghi di boicotta-re la casa editrice Elsevier, che insieme a Sprinter eWilley controlla il 42 per cento dell’editoria scientifi-ca: le università britanniche per gli abbonamentispendono qualcosa come duecento milioni di sterli-ne l’anno, quelle italiane versano nelle casse della so-la Elsevier ottanta milioni di euro. Dodicimila scien-ziati hanno risposto al suo appello e il Welcome Tru-st, uno dei principali fondi inglesi che finanziano laricerca, ha deciso di scendere in campo annuncian-do il debutto di eLife, una rivista ad accesso apertoche promette di fare concorrenza alle prestigiose Na-tureo Science. Già oggi esiste un’alternativa. Anzi, neesistono ottomila. Basta dare un’occhiata a Doaj, ladirectory che le cataloga. Tra le più autorevoli, le pub-blicazioni del BioMed Central e della Public Libraryof Science. Quest’ultima non solo pubblica riviste adaccesso aperto basate sulla “revisione tra pari”, masperimenta ogni strada per la diffusione della scien-za. Un esempio è il SciVee, un sito dove i ricercatoricondividono video clip, letteratura scientifica, grafi-ci e diapositive. Un altro è OpenWetWare, “laborato-rio globale” dell’ingegneria e delle scienze biologi-che che sfrutta il modello Wikipedia: chiunque puòdare un contributo, pubblicando dati, ponendo que-siti, scrivendo articoli. Roba da fare impallidire la bigscienza nata con la bomba atomica, lo sbarco sullaLuna, gli studi sulla fusione nucleare, la costruzionedei grandi acceleratori di particelle.
Oggi la ricerca sposa il concetto di intelligenza col-lettiva: sia quando si lavora dal basso, mettendoognuno a disposizione dell’altro la propria cono-
comprendere come i loro margini di profitto sianotroppo alti». In questa direzione si muove Scoap 3. Ilconsorzio nato al Cern vuole creare un modello edi-toriale open access per la fisica delle particelle coin-volgendo autori, finanziatori, biblioteche ed editoriprivati.
L’open access passa non solo per le riviste, ma an-che per gli archivi aperti: gli autori depositano gli stu-di e conservano la possibilità di pubblicare sulle rivi-ste tradizionali. «In Italia ne esistono una sessantina— spiega Roberto Delle Donne, responsabile delgruppo di lavoro della conferenza dei rettori delleuniversità italiane — A seconda degli atenei abbiamouna quota di archiviazione compresa tra il cinque e ilsette per cento del materiale prodotto». La percen-tuale raggiunge il cento per cento solo per gli istitutiche obbligano al deposito. Un esempio è l’università
Stephen CurryBiologo dell’Imperial college di Londra
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Ricercatori di tutto il mondo, unitevi (online)Open science
Trarremo notevolibenefici da una societàpiù impegnata con la scienzae da scienziati più impegnaticon la società
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di Harvard, «ma nel mondo possiamo contare altritrecento casi tra cui l’Istituto superiore di sanità».
C’è poi un altro problema. Oggi la maggior partedella letteratura scientifica è scritta dai ricercatoriper i ricercatori con una lingua incomprensibile allamaggioranza dei potenziali lettori. «Trarremo note-voli benefici da una società più impegnata con lascienza e da scienziati più impegnati con la società»,ha spiegato Curry che non solo ha pubblicato il suostudio su una rivista open access ma ha anche cerca-to di rivolgersi ai profani. Non è sicuro di esserci riu-scito, «ma almeno dovreste riuscire a capire perchéabbiamo lavorato sui topi e come questo possa aiu-tarci a combattere una malattia umana. Sono inte-ressato a sapere cosa ne pensate».
Secondo la dichiarazione
internazionale di Budapest
del 2001 è una nuova
modalità di diffusione
dei risultati della ricerca
in formato digitale,
online e gratuito
Sotto l’ombrello dell’open
science rientrano tutte
le strategie e i progetti,
non solo accademici,
per rendere la ricerca,
i dati e il sapere accessibili
a ogni livello della società
PLOS ONE
È la più grande rivista
open access del mondo, edita
dalla Public Library of Science
Gli articoli di medicina e scienza,
13.798 nel 2011,
sono valutati attraverso
la peer reviewe commentabili
www.plosone.org
DOAJ
La Directory of Open Access
Journals è un servizio
dell’Università di Lund, Svezia
Cataloga circa ottomila periodici
accademici o sottoposti
a controllo di qualità
Tutti consultabili
liberamente
www.doaj.org
SCOAP3
Il progetto internazionale
con base al Cern
vuole creare un modello
editoriale open access
per la fisica delle particelle
che coinvolgerà anche
12 riviste di sette grandi
editori commerciali
www.scoap3.org
ELIFE
Debutterà quest’inverno
la rivista finanziata
dal Wellcome Trust,
uno dei principali fondi inglesi
che sostengono la ricerca
condividendo la protesta
contro gli editori
scientifici
www.elifesciences.org
ARXIV
È un archivio
per pubblicazioni scientifiche
in fisica, matematica,
informatica e biologia
liberamente consultabili online
Dal 1991 ne sono
state depositate
quasi 800mila
arxiv.org
OPENWETWARE
Lo scambio di informazioni
nel settore dell’ingegneria
e delle scienze biologiche
passa anche attraverso
OpenWetWare, un sito
che ospita più di 100 laboratori
e sogna di diventare
globale
www.openwetware.org
SCIVEE
Un sito web sul quale
i ricercatori possono
scambiare materiale,
caricare video di presentazione
del loro lavoro
e collegarli alla letteratura
scientifica, a poster
e diapositive
www.scivee.tv
ENCODE
L’enciclopedia
degli elementi che compongono
il Dna è stata scritta
dopo 1.600 esperimenti diversi
È quindi frutto
di una “intelligenza collettiva”
ed è un modello
di open science
encodeproject.org
La revisione dei pari indica
la procedura di selezione
degli articoli o dei progetti
eseguita da specialisti
per stabilire l’idoneità
alla pubblicazione o, nel caso
dei progetti, al finanziamento
GLOSSARIO
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Open science
Open access
Gold e green road
Sono le due strade principali
dell’open access, quella d’oro
riguarda le riviste scientifiche
senza abbonamento, quella
verde il deposito dei dati
e dei risultati della ricerca
in archivi aperti istituzionali
Peer review
Citizen science
La scienza non è fatta solo
dai professionisti,
anche i cittadini possono
partecipare a più livelli,
dalla raccolta dei dati
all’osservazione
e interpretazione dei fenomeni
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA■ 40
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2012
I saporiPiccanti
Quattro petali di colore giallo. Difficile trovarefiore più semplice alla vista, più neutro all’ol-fatto. Una fioritura discreta al limite del tra-scurabile, se non fosse che i suoi piccoli semi«hanno sapore così ardente da bruciare comeil fuoco», come scriveva Plinio nel Primo seco-
lo d. C. È questo il tempo dei fiori di senape, timidi, tardivie amanti del sole morbido di settembre. Per scoprirli, ba-sta schiacciare qualche seme con un poco d’acqua: l’aro-ma sale rapido e verticale a pungere le narici, la lingua as-saggia piccantezza e aromaticità. Ma la crema aromaticache accende il gusto di carni e panini è ben più di questo.Rispetto alla maggioranza delle spezie che conosciamo, lasenape ha bisogno di tempo e dedizione. Se pepe e zaffe-rano sono per quel che appaiono, bacche e stimmi in pu-rezza, la sinapis arvensis— scelta e assemblata nelle sue di-verse tipologie più o meno piccanti — viene utilizzata in ri-cette codificate, che la trasformano in una delle salse piùcaratteristiche della cucina internazionale.
Dopo Plinio (Historia naturalis) e Apicio (De re coquina-ria), l’alto potere gastronomico della senape affascinò an-che i gastronomi francesi, che nel Medioevo non si accon-tentarono più di identificarla con la sua lavorazione: non piùsemplicemente senape, allora, ma mosto che arde, ovveromosto di vino impastato con i semi, in parte macinati e inparte interi (à l’ancienne). Da quel momento, fuori dall’Ita-
lia il nome riconosciuto fu moutarde o mustard, mentrenella Pianura padana — Cremona e Mantova in primis —diventò mostarda la caratteristica miscellanea di fruttacandita e semi di senape.
Ma non tutte le terre del Po hanno scelto la derivaagrodolce della sinapis. L’Emilia, infatti, si distin-gue per la concentrazione di aziende produttricidi senape elaborata secondo la ricetta millenaria,che prevede l’uso di aceto di vino o di mosto (di cuiModena è terra madre) e l’aggiunta di altre spezieper armonizzarne il gusto. E come tutte le spezieche si rispettino, anche la senape vanta virtù cu-rative nei confronti di affezioni bronchiali — i se-mi mischiati a quelli di lino, più farina e acqua perfarne cataplasmi — e reumatismi (frizionando l’olio es-senziale sulle parti dolenti), mentre i decotti riattivano la cir-colazione e sono un toccasana contro i piedi freddi.
In attesa che i semi delle nuove fioriture trasformati in sal-sa completino il riposo necessario, una gita nella campagnatra Modena e Reggio, in lento ma fiero recupero dal terre-moto, vi permetterà di gustare il meglio delle salse locali —senape, condimento di mosto, aceto tradizionale balsami-co — in compagnia di arrosti e bolliti. Altrimenti, spingetevifino a Monaco di Baviera, dove sabato prossimo comincial’Oktober Fest, due settimane di stravizi annunciati nel no-me della birra. Hamburger e hot dog battezzati con la sena-pe supporteranno la sfida all’ultimo boccale.
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LICIA GRANELLO
Hot dogIl celeberrimo panino
americano al latte
farcito con il würst
si accompagna
con ketchup, maionese
e senape, ideale anche
per il contorno di crauti
I suoi fiori sono gialli, delicati e amanti del sole timidodi settembre. Ma i suoi semi pungono le naricie infuocano la lingua. Dai romani ai gastronomi francesiecco come una pianta curativa si è trasformata in una delle salse
più aromatiche del mondo. Diventando,all’occasione, la regina dell’Oktober Fest
FranceseDue tipologie di moutarde:
quella di Digione, cremosa,
dolce o piccante, e quella
di Meaux, detta anche
à l’ancienne, con parte
dei semi lasciati interi
PreparazioneSemi bianchi e neri mischiati,
macinati con le mole, lavorati
con spezie, vino, aceto
di barbabietola, birra,
acqua. Poi, riposo
in vasche d’acciaio
Continuavanoa non chiamarlamostarda
ColoriQuattro varietà botaniche
— sinapis alba e arvensis,
brassica nigra e juncea —
e due colori per identificarne
i semi: bianco (dolce)
e scuro (piccante)
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LA RICETTA
Pulire e tagliare le verdure a bastoncino. Preparare lo sciroppo con mezzo litrod’acqua e lo zucchero, tenerlo in caldo. Sbollentare le verdure in acqua e aceto per un minuto, raffreddarle col ghiaccio. Versarle nello sciroppo bollente e raffreddare a temperatura ambiente. Frullare pane, uovo, senape e burroammorbidito per ottenere un composto omogeneo. Stendere col mattarello sullacarta da forno e far riposare in frigo per un’ora. Pulire le ossa del carré e dividerloin porzioni. Salare, pepare, rosolare e portare a cottura con poco olio, lasciareriposare. Sistemare le verdure al centro del piatto, adagiare il carré di agnello,coprire con la crosta di senape, caramellare con un cannello o la piastra rovente
Il campano Ilario Vinciguerra
è uno dei cuochi più interessanti
della scena italiana. Dal suo
ristorante di Gallarate, Milano,
escono piatti accattivanti, come
la ricetta per i lettori di Repubblica
Gli
in
dir
izzi
DOVE DORMIRE
CASTELFRANCO HOTEL
Via Visconti 6, Castelfranco Emilia
Tel. 059-925252
Doppia da 75 euro
AMATI DESIGN HOTEL
Via Rigosa 14, Zola Predosa
Tel. 051-758093
Doppia da 60 euro
LOCANDA DEL MULINO
Via Nuova Estense 3430, Loc. Maranello
Tel. 0536-944175
Doppia da 80 euro
DOVE DORMIRE
LA BOTTEGA DI MONTALE
Via Vandelli 4/C
Castelnuovo Rangone
Tel. 0595-31726
IL CHICCO D’ORO
Via Claudia 153
Località Maranello
Tel. 0536-945278
PUNTO GUSTO
Via Tasso 18
Località Castelvetro
Tel. 0597-90489
RemouladeIn Francia, la mayonnaise à la moutarde condisce il sedano
rapa tagliato a fiammifero
Nella salsa, a piacere aceto,
cetriolini, cipolline e prezzemolo
Filetto VoronoffCarne infarinata e spadellata con
burro e rosmarino, fiammeggiata
con cognac. Per la salsa:
fondo di cottura, senape, panna,
tabasco e worcestershire
TartareRosso d’uovo, senape, capperi,
olio, acciughe, cipolla, limone,
prezzemolo, lavorati come
una maionese, da mescolare
alla carne macinata
JENNER MELETTI
Carré di agnello in crosta di senape in grani
Ingredienti per 4 persone
500 gr. carré di agnello550 gr. di zucchero7 fette di pane in cassetta75 gr. burro1 spicchio d’aglio1 uovo2 cucchiai di senape in grani 1 carota
1 zucchina1 peperone giallo1 peperone rosso1 cipollotto150 gr. di aceto biancoolio extravergine d’oliva qbsale e pepe
DOVE MANGIARE
FRANCESCHETTA58
Via Vignolese 58, Modena
Tel. 059-3091008
Chiuso lunedì, menù 24 euro
LA LUMIRA
Corso Martiri 74, Castelfranco Emilia
Tel. 059-926550
Chiuso dom. sera e lunedì, menù 32 euro
OSTERIA FEFA
Via Trento Trieste 9/c, Finale Emilia
Tel. 0535-780202
Chiuso martedì, menù 30 euro
Sulla strada
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Per secoli, in Emilia, la parola “senape” era pronun-ciata soltanto nelle chiese. «Il Regno dei cieli si puòparagonare a un granellino di senape che un uo-
mo prende e semina nel suo campo (Matteo, 13,31 —35)». I contadini, soprattutto, avrebbero avuto voglia diavere fra le mani una manciata di questi semi meravi-gliosi che il Vangelo indicava come i più piccoli che so-no sulla terra, in grado di diventare però grandi come ar-busti o alberi. Nulla da fare. Semi piccolissimi nasceva-no anche in questa pianura e sulle colline, ma eranoquelli dell’erba medica, e costavano un occhio della te-sta. Adesso si apprende che, proprio in queste terre, cisono artigiani e industriali che lavorano la senape, lamescolano con aceto e altro, e la vendono in tutta Italiae anche fuori. In piena concorrenza con la Francia e l’In-ghilterra, dove la senape è un’istituzione.
C’è da stupirsi? Nemmeno per sogno. In una terra cheè stata capace di inventare la coppa di testa, il cotechino,lo zampone, non ci si può meravigliare di nulla. Mesco-lare gli ingredienti, cercare spezie che arrivano da lonta-no, è anche qui un’arte secolare. Provocata dalla neces-sità. Il padrone della terra portava via al mezzadro, oltreal grano e all’uva, anche la metà del maiale, quella piùpreziosa: i prosciutti, le spalle, i salami, le coppe… Il mez-zadro si arrangiava con il resto. La coppa veniva prepara-ta con la testa del maiale, muso compreso e anche con glizampetti. Ed era condita, oltre che con il sale, con nocemoscata e pepe, che come la senape arrivano da lontano.Nel cotechino, oltre a noce moscata e pepe nero, vannomessi anche i chiodi di garofano, che arrivano dal Mada-gascar e dall’Indonesia. Inventare, per i poveri, è semprestata una necessità. Se passi l’inverno con polenta e fa-gioli, l’anno seguente inventi i “casagai”, che sono fattisempre con polenta e fagioli (su un soffritto di cipolla epancetta) ma che così sembrano un piatto diverso. Un sa-pore nuovo — si chiami noce moscata o senape — aiutaa passare l’inverno. E sognare i sapori della primavera.
Il Paradiso dei poveri
Cocktail di gamberiCrostacei sgusciati, cotti poco
al vapore. Nella coppa con lattuga
a julienne e salsa aurora: senape,
maionese, ketchup, brandy
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È l’ultima di quattro figli, è cresciutacon il nonno nelle campagne romane,si è diplomata al conservatorioma ha vissuto con pastori e contadiniassorbendone la cultura e cercando
di trasmetterla nelle sue canzoniE ora che ha messo in musica mezzo secolodi storia italiana, a settantacinque anni,
confessa:“La mia vita è statapiena di morte. Ma neanchecon Dio me la sono mai presa”
di Pasolini.Ha composto canzoni, bal-late, oratori, musiche per il cinema eper il teatro; ha vissuto in Inghilterra, inSvizzera, negli Stati Uniti e in Francia;ha insegnato etnomusicologia all’uni-versità di Saint-Denis, a Parigi; nel ’76ha fondato la Scuola di musica popo-lare di Testaccio (con GiancarloSchiaffini, Michele Innaccone ed Eu-genio Colombo, per i quali nel ’79 scri-verà La madre impazzita) e nello stes-so momento il suo prodigioso Quar-tetto Vocale.
E adesso, a settantacinque anni,mentre sta componendo le musicheper l’Agamennone di Elio De Capitani(che conclude la trilogia dell’Oresteadi Eschilo, dopo le Coefore e le Eume-nidi, tutte tradotte da Pasolini), ve-nerdì prossimo all’Auditorium di Ro-ma, accompagnata solo da suo figlioFrancesco (sax e clarinetto), proporràUn canto lungo cinquant’anni. «Rac-conto e canto, come sempre», diceGiovanna Marini seduta nel soggior-no della villa del nonno. Accanto a lei,intrecciato al tavolino del telefono,pende un rosario: «Era di mia madre.Durante il concerto di venerdì tireròfuori un vecchio repertorio, cose lun-ghe e strane scritte negli anni Sessan-ta, cose che ho tenuto quasi solo perme. Questa volta le farò brevissime,una dopo l’altra, non annoierannonessuno. Quando cantavo la Ballatadell’America, con la coda dell’occhiovedevo Paolo Pietrangeli e Ivan DellaMea agitare le mani in segno di “du’palle”. Diciamo che ho spesso cantatoall’insegna del “du’ palle”. Ma il miorepertorio è preso dalla tradizioneorale che è la base di tutte le musiche eva rispettata. Per questo non amochiamarlo canto popolare. La musicapopolare è fatta di quattro note; quel-la della tradizione orale ha una ric-chezza di timbri e di modi, sono scalearmoniche anche complicate, è comeun raga. Per chi, come me, non ha maismesso di studiarli, il Gloria di Monte-doro o la Passione di Sessa Auruncasono come la Quinta di Beethoven».
Colta e borghese — il padre, Giovan-ni Salviucci, fu un promettente com-positore; la madre fu la prima donna adirigere un’orchestra nell’AuditoriumAugusteo — la famiglia scelse per leiuna carriera accademica. Nel ’59 eragià diplomata in chitarra classica alconservatorio, dove aveva studiatocon Segovia, sempre alternando studimusicali con una scuola religiosa per
signorine abbienti a Trinità dei Monti.Come finì, negli anni Sessanta, nellecampagne a registrare i canti di conta-dini, mondine e pastori? «Incontri conluoghi e persone mi permisero di usci-re dal ghetto dell’accademia. La musi-ca è sempre stata la mia libertà. Lascuola e il conservatorio erano a duepassi, come vasi comunicanti. Ma pri-ma del 1960 avevo in testa soltanto Ba-ch e quella paura dell’“inquinamentomentale”. Mi sembrava che quella fos-se la mia vita. Poi nel ’60 fui invitata asuonare in casa di Adele Cambria perintrattenere una di quelle serate intel-lettuali dell’epoca. C’erano Siciliano,Eco, Masolino D’Amico. E c’era unoche mi venne presentato come “il no-stro Pier Paolo” e non sapevo chi fosse.Iniziai a suonare la chitarra. Nessunomi si filava, tranne quel Pier Paolo. Miascoltava attentamente. Poi mi chiesedi cantare. Ecco il solito ignorante,pensai, io suono Bach e questo vuole
Casetta di Trastevere. Cantai una lauda.È cultura orale, mi disse. No, è una lau-da ed è scritta su un libro, risposi. Sicantava anche per le strade, continuò.Allora cantò lui, una ciaula in friulano.Avevo scoperto la cultura orale, quellascritta non nei libri, ma nella vita dellagente. Poi, sempre nel 1960, in una can-tina di via Garibaldi Harold Bradleyaprì il Folkstudio. Giancarlo Cesaronisarebbe venuto dopo: fu Bradley, mu-sicista afroamericano, che lo aprì. Co-minciai ad ascoltare i cantautori. E ungiorno trovai il coraggio di salire sul pal-co. Lì conobbi Francesco De Gregori,bello come un angelo, portato al Folk-studio da suo fratello Luigi Grechi».
In quegli anni passarono di lì Ven-ditti, Lo Cascio, Bassignano. Ma an-che, come spettatore, l’etnomusicolo-go Roberto Leydi. «Mi sentì cantare Lucacciatore Gaetano. L’avevo scritta io,ma la spacciavo per popolare. Ho sem-pre fatto così: studiavo una canzonedella tradizione orale, la riscrivevo, laspacciavo per popolare. Non avevo ilsenso della realtà, quindi della verità.Ero nata in questa famiglia complica-ta, da una madre puro spirito che miaveva fatto conoscere solo Carosone, eVirgilio Savona e Lucia Mannucci delQuartetto Cetra perché erano suoi al-lievi. Quando poi i miei figli mi hannoportato i dischi di Belafonte e dei Bea-tles, la mia vita è cambiata». Torniamoa Leydi, quella sera al Folkstudio. «Ley-di non fa il gesto del “du’ palle” e insi-ste perché io finisca di cantare. Poi midice: devi assolutamente venire a Mi-lano».
Giovanna Marini arriva a Milano eincontra Gianni Bosio, socialista ecantore della Resistenza, circondatoda ragazzi impegnati come Ivan DellaMea. Nel ’62 nasce il Nuovo canzonie-re italiano e poi i Dischi del Sole. Finoalla metà degli anni Novanta il gruppofu un laboratorio dal quale entrarono euscirono musicisti appassionati e stu-diosi della tradizione italiana: MicheleStraniero, Fausto Amodei, SandraMantovani, l’ex mondina GiovannaDaffini, Ivan Della Mea, Paolo Pietran-geli, Caterina Bueno. «Era un mondo aparte, tutto nostro, non si avevanocontatti con altri tipi di musiche. Finoa poco tempo fa dicevo Luciano Batti-sti e Riccardo Baglioni, perché davve-ro non li conoscevo. A Milano trovaiamici, impegno politico, progetti co-muni. Ma nel ’64 partii per gli Stati Uni-ti con mio marito, fisico nucleare, e i
nostri due bambini. In fila, aspettandodi suonare al Club 47 di Boston, cer-cando di resistere alla prepotenza diun ragazzino con la chitarra, Bob Dy-lan che tutti chiamavamo Zimmy, sco-prii la canzone popolare americana.Woody Guthrie, invece, non l’ho maiconosciuto, ma è una vera passione. Dilui so tutto a memoria».
Altri incontri hanno cambiato la vi-ta di Giovanna Marini. Importante fuquello con Citto Maselli per il qualecomporrà musiche per i film più im-portanti. «Avevo iniziato a cantare co-se politiche, legate all’attualità. Le can-zoni di Paolo Pietrangeli. Maselli mi fe-ce conoscere Dario Fo con il quale, nel’66, feci lo spettacolo Ci ragiono e can-to. Fo avrebbe voluto che restassi conlui, ma era invadente, si appropriavadelle mie cose. Me ne andai». In più dicinquant’anni di carriera ha scrittomusiche per fatti e personaggi chehanno segnato la nostra storia, da Fal-cone a Hulrike Meinhof, da Ustica aPasolini; ha cantato i poeti e messo inmusica Il secolo breve; ha fatto cantarel’Internazionale anche a gente non disinistra e ovunque vada nel mondo èrispettata e accolta come una regina.Ma non le dispiace di essere diventatapopolare in Italia soprattutto grazie a Ilfischio del vapore, il disco inciso diecianni fa con De Gregori? «Assoluta-mente no. Lavorare con Francesco èstato bello e il successo, grazie alla suacompagnia, mi ha fatto doppiamentepiacere. Se volessi crearmi delle fru-strazioni potrei benissimo, ma non homai provato rabbia, rancore, amarez-za. La mia vita, anche prima di nasce-re, è stata piena di morte: mio padre, ilpiù grande dei miei fratelli a diciottoanni, mia cognata della quale ho cre-sciuto due figli, e tanti dei miei amicimusicisti. Ma neanche con Dio me lasono mai presa».
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L’incontroSignore del popolo
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A una serataintellettuale c’erauno che mi vennepresentato comeil nostro Pier PaoloMi chiese di cantareEcco il solitoignorante, pensai
Giovanna Marini
LAURA PUTTI
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MONTE PORZIO CATONE
(Roma)
Sulla strada che si arrampi-ca verso il monte Tuscolo,nascosta dietro a una cur-
va, c’è una villa degli anni Trenta. So-bria, lineare, nulla di lussuoso. Appar-teneva a un filosofo calabrese, all’epo-ca abbastanza noto: Luigi Parpagliolo,che tirò su i suoi quattro nipoti bambi-ni, orfani di padre, proteggendoli con-tro quello che chiamava «l’inquina-mento mentale». A un certo punto se laprese con le automobili che iniziavanoa percorrere Roma e, per difenderli an-che dall’inquinamento atmosferico, liportò tutti a Monte Porzio Catone, nelcuore dei Castelli romani. «Era il ’39quando venimmo a stare in questa ca-sa», dice Giovanna Marini che dal ’93 ètornata a viverci. «Mio padre era mor-to nel ’37 a ventinove anni. In quellostesso anno ero nata io, ultima di quat-tro figli. Mia madre era in uno stato gra-ve di depressione e fui messa a balia. Ilnonno diceva che qui c’era aria buona.Ma noi bambini vedevamo solo granoe vigne, e strade non asfaltate».
La signora della tradizione musica-le popolare italiana, ricercatrice ecompositrice di musiche contadine,guardiana e trascrittrice della nostratradizione orale, è una che non ha maimollato. Giovanissima è andata nellecampagne con il registratore, ha vissu-to con pastori e contadini. Ha assorbi-to quella cultura e, anche davanti apubblici esigui, negli anni felici dellascoperta e in quelli bui del terrorismo,nelle case del popolo e nei teatri d’o-pera, ha cercato di trasmetterla. Can-zoni popolari e canzoni di lotta, il can-to delle mondine e Contessa, Bella ciao— nella versione popolare e in quellapartigiana — e il Lamento per la morte
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