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Gli indifferenti. Moravia A.Posted on settembre 7, 2012 by Giangiuseppe Pili | Leave a comment
Gli indifferenti è un romanzo che si svolge in una città senza nome, una città qualunque di
un paese industrializzato. La vicenda è incentrata su una famiglia, gli Ardengo, i quali sono
sull’orlo della miseria e hanno già ipotecato la loro abitazione. Pur essendo vicini al tracollo
finanziario, pensano poco ai problemi economici relativi alla loro situazione, a parte
Michele Ardengo. La madre dei ragazzi, Michele e Carla, intrattiene una relazione amorosa,
ormai al termine, con un individuo abbietto, Leo Merumeci, il quale è a conoscenza dei
problemi economici della famiglia Ardengo ma non per questo, convinto di avere un buon
senso per gli affari, vuole rinunciare ad una sua personale speculazione nell’acquisto della
grande casa della famiglia. Ogni membro della famiglia ha una sua storia sentimentale
relazionata a quella di tutti gli altri e variamente frustrante: la madre, Mariagrazia, ama
Leo senza più essere ricambiata né nei sentimenti né nell’attrazione fisica; la figlia, Carla,
vuole “cambiare vita” ma non ha bene idea di cosa ciò significhi, di cosa lei desideri per sé
stessa e finisce per cedere alle lusinghe di Leo Merumeci; Michele, il figlio, vorrebbe
ardentemente desiderare qualcosa, lottare per una buona causa, provare dei sentimenti
profondi “come quelli di una volta”, ma non ci riesce, desidera ardentemente l’amore di
una donna ma costei non si è ancora presentata alla porta del suo cuore e, così, egli
rimane solo con il suo senso di futilità per ogni tentativo.Attorno al nucleo familiare degli
Ardengo ruotano gli altri due personaggi centrali: Leo Merumeci e Lisa. Leo è un rozzo
uomo d’affari, il quale sa pesare ogni parola e azione in vista di un fine prettamente
incentrato su se stesso, incapace, com’è, di qualsiasi autocritica, sia essa puramente
psicologica o morale; così egli è un uomo continuamente dominato dalle sue stesse voglie,
che lo inducono prima ad amare Lisa, poi Mariagrazia e, in fine, Carla, giungendo, così, ad
essere mutevole nel suo oggetto ma non nel suo scopo; per le stesse ragioni egli è
variamente sottoposto ad accuse da parte di Michele, il quale, più volte, vorrebbe
smuoversi dal suo torpore, proprio grazie ai continui abusi di Leo ai danni del suo onore e
della sua famiglia. Lisa, un tempo amante di Leo, è un’amica di Mariagrazia, ammesso e
non concesso che in un mondo come quello in cui soggiace la famiglia Ardengo sia
possibile una qualche forma di amicizia; la quale finisce per innamorarsi di Michele per via
della sua purezza e genuinità. Gli indifferenti narra la storia delle singole vicende che sono,
allo stesso tempo, tutte intrecciate tra loro, così che ogni evento è causa di una catena
ininterrotta di effetti tra le varie persone. La storia, in fondo, non è niente di più che una
massa inerziale che va verso un punto senza deviare mai dalla sua traiettoria.
I personaggi sono descritti minuziosamente da un punto di vista psicologico e fisico,
laddove ogni persona viene precisamente inquadrata non solo in ciò che pensa ma anche
in ciò che appare, una dimensione, questa dell’apparenza, che ha uno spessore suo
proprio. Mariagrazia è una donna istintiva, borghese, ignorante, priva di interessi,
totalmente incapace di fare la madre ma non per questo incapace di sollecitare azioni e
reazioni attraverso ricatti psicologici ai danni dei figli e dell’amante; ma il gioco riesce solo
sui figli perché sull’amante i suoi ricatti psicologici non fanno più alcun effetto, giacché la
relazione di forza d’amore è unilaterale e riconosciuta come importante solo da
Mariagrazia, cosicché il vantaggio della forza sta tutta dalla parte di chi possiede l’oggetto
del desiderio dell’altro senza, per questo, dover lottare a sua volta per qualcosa che l’altro
ha. Pur non essendo ricca, Mariagrazia ha un istintivo odio verso i poveri dei quali
disprezza l’assenza dei suoi stessi privilegi e, soprattutto, li disistima per due ragioni:
primo, perché sono disprezzati agli occhi di quanti fanno parte dell’ambiente alto borghese
di cui Mariagrazia è parte; secondo, perché essi sono così privi di forza, così insignificanti
che ciò deve essere dovuto alla loro intrinseca stupidità:
Silenzio; la paura della madre ingigantiva; non aveva mai voluto sapere di poveri e
neppure conoscerli di nome, non aveva mai voluto ammettere l’esistenza di gente dal
lavoro faticoso e dalla vita squallida. “Vivono meglio di noi” aveva sempre detto; “noi
abbiamo maggiore sensibilità e più grande intelligenza e perciò soffriamo più di loro…”; ed
ora, ecco, improvvisamente, ella era costretta a mescolarsi, a ingrossare la turba dei
miserabili; quello stesso senso di ripugnanza, di umiliazione, di paura che aveva provato
passando un giorno in un’automobile assai bassa attraverso una folla minacciosa e lurida
di scioperanti, l’opprimeva; non l’atterrivano i disagi e le privazioni a cui andava incontro,
ma invece il bruciore, il pensiero di come l’avrebbero trattata, di quel che avrebbero detto
le persone di sua conoscenza, tutta gente ricca, stimata ed elegante; ella si vedeva,
ecco… povera, sola, con quei due figli, senza amicizie ché tutti l’avrebbero abbandonata,
senza divertimenti, balli, lumi, feste, conversazioni: oscurità completa, ignuda oscurità.[1]
La donna, dunque, non si interroga minimamente sui problemi degli altri e risulta avvolta
da un fortissimo egocentrismo che ne fa di una persona le cui uniche credenze si
sostanziano su ciò che essa desidera, a prescindere dalla bontà dei suoi desideri e da ciò
che da tali fini può scaturire. Per lei vale la massima humeana secondo cui la ragione è e
dev’essere sempre schiava delle passioni, così che anche il più terribile dei desideri, se
uno lo desidera, deve essere realizzato. La sua unica preoccupazione, il suo unico scrupolo
è quello di dissimulare, piuttosto malamente, per altro, le sue intenzioni, solamente per
poter salvare le apparenze quel tanto che basta da poter continuare a galleggiare in
superficie, senza ulteriori scrupoli di giustezza:
“Come si fa?” disse la madre; “non si può mica dir sempre la verità in faccia alla gente… le
convenienze sociali obbligano spesso a fare tutto l’opposto di quel che si vorrebbe… se no
chi sa dove si andrebbe a finire…” Faceva dei gesti, come per dire: “comprendimi, è
proprio così”: inarcava le sopraciglia, torceva la bocca; ma il volto di Carla s’induriva, ella
si sforzava di non guardare quella maschera materna.[2]
L’assenza totale di autocritica, un arbitrarismo autocratico di fondo fanno della madre
l’esempio perfetto e compiuto di quella società fondata su individui abbietti, informi,
capaci di replicare indefinitamente uno stato di cose fin tanto che tale stato di cose si
sostiene da solo ed è totalmente incapace di evitare la catastrofe, qualora si profili
all’orizzonte e, poi, giunga sotto i suoi piedi. Continuamente vittima delle sue stesse
voglie, viene condotta dai suoi istinti più gretti e compie gli atti indegni di una donna e di
una madre, pur di massimizzare, in modo del tutto inefficace, quella che è la sua personale
utilità, giacché, totalmente priva di scrupoli, non ha da pensare a cosa questa sua utilità
consista. In fondo, Mariagrazia non è niente più che un individuo cresciuto sulla base di
piccoli passi nei quali l’assenza totale di introspezione e autocritica l’abbiano condotta ad
una crescita morale ed umana sufficiente da farle riconoscere il benché minimo valore, sia
esso anche semplicemente posticcio ma, per lo meno, suo personale. Ed, invece, la sua
vita, evidentemente piana, l’ha condotta solo a compiere, passo dopo passo, una linea
dritta, fatta di regole assunte perché prese da altri, senza averne riconosciuto la necessità
o il valore.
Leo Merumeci incarna l’affarista spicciolo, concreto, privo di ideali che è il contraltare
psicologico di Mariagrazia. Sia Leo che Mariagrazia sono condotti dai loro personali
vantaggi materiali senza critica e senza ripensamenti ma con un’importante differenza:
Leo sa adeguare i mezzi per raggiungere il fine, Mariagrazia no. In questo senso, Leo ha
una sua intelligenza pratica, sufficiente a fargli conquistare l’apparenza del cuore di Carla,
ma, per lui, più che sufficiente; intelligenza pratica sufficiente per ottenere dei compensi
materiali vantaggiosi, come i suoi tentativi di nascondere alla famiglia Ardengo il reale
valore della loro sontuosa abitazione. Se Mariagrazia è una persona irrazionale nel fine e
irragionevole nella scelta dei mezzi, Leo Merumeci è irrazionale nel fine ma è molto
ragionevole nei mezzi, ben inteso che tale ragionevolezza non ha da intendersi come
“giustezza morale” ma come capacità di determinare il giusto mezzo per il fine desiderato.
Leo è incapace di avere una serie di credenze spirituali elevate, siano esse credenze che
esprimono sentimenti (amore, odio…), siano esse credenze che mostrano l’apprezzamento
per qualcosa in particolare. Anche Leo, infatti, è totalmente dominato dai suoi desideri e
dalle sue disposizioni all’azione, e ciò che fa è la perfetta traduzione in azione di ciò che
desidera. In questo Leo è diametralmente opposto a Michele, laddove, quest’ultimo, agisce
per ciò che vorrebbe desiderare e pensa che debba desiderare e mai da ciò che desidera
effettivamente; Leo, invece, è un individuo totalmente prono a quelle che sono le sue
finalità passionali, senza dare a questo un valore in sé positivo perché tali passioni sono
sfuggevoli, passeggere, figlie dell’egoismo e totalmente prive di una giustificazione
qualunque. Come Mariagrazia, Leo non si interroga mai sulle conseguenze disastrose che
le sue azioni possono avere sugli altri, ma ha la capacità adattiva sufficiente a mascherare
le sue intenzioni e a salvare le apparenze in modo tale da poter sempre negare di aver
desiderato o fatto qualcosa di puramente autoreferenziale. Anche Leo, dunque, assume
delle regole impostegli dagli altri, ma solo per poter massimizzare la propria utilità e,
grazie all’assunzione acritica di queste regole, assunzione, cioè, non ratificata dal
riconoscimento della bontàdi tali regole; grazie a ciò, dunque, riesce sempre sfruttare le
convenzioni sociali e morali per raggiungere i suoi scopi: quando vuole conquistare Carla
solletica il suo senso di avidità, di vanità materiale, piuttosto che mostrarle che l’ama
senza, però, molto furbescamente, smentire mai il suo presunto amore per lei. D’altronde,
per una persona siffatta, priva di ragioni sociali o morali riconosciute dalla sua stessa
coscienza o ragione, l’amore risulta solo una parola quasi vuota, che indica il desiderio
sessuale verso una particolare persona. Leo, dunque, possiede una profonda massa
inerziale di credenze che lo conducono verso un movimento lineare, che non si discosta
mai dalla direttrice generale della sua stessa inerzia.
Carla è una ragazza di ventiquattro anni, ancora senza marito (una ragazza “da maritare”),
i cui desideri oscillano tra la necessità di un affetto incondizionato da parte di un uomo e il
bisogno impellente di rompere la rutine, quella rutine che prevede continuamente la
madre bisticciare a pranzo e a cena con Leo Merumeci, della cui relazione con la madre è
a conoscenza da anni. Carla è una ragazza piuttosto bella, dai bei seni, dal bel volto
giovanile e attenta alla cura di se stessa, gioca a tennis, sa suonare il pianoforte, va ai balli
e si diverte, senza passione, ad andare alle feste dell’alta società. Sembra, però, non
godere di buona fama proprio per la sua sensualità, descritta nei termini più materiali
possibili, giacché la sua cultura non viene mai estrinseca né valorizzata, in un mondo in cui
l’educazione è improntata verso il riconoscimento di valori puramente estrinseci, privi di
sostanza, ma non per questo non fissati da delle convenzioni da seguire con precisione.
L’educazione materiale le fa credere che i vantaggi tangibili sono solo quelli materiali,
come esibire una bella macchina. Ma a ciò fa contrasto il suo bisogno impellente di amore,
così che, nonostante si sia data a Leo, senza grandi resistente, esprime, così, il suo
desiderio più profondo:
“Egli mi ama molto ed io lo amo molto” continuò con una dolcezza piana e facile che
l’incantava e la meravigliava, perché ora le sembrava di neppure mentire; “ci siamo
conosciuti due anni fa… e da allora ci siamo sempre veduti… egli non è come te… è… è
soprattutto buono, voglio dire che mi comprende anche prima che io abbia parlato, che a
lui posso confidare tutto quello che penso, qualsiasi cosa, e lui mi discorre come nessuno,
e mi prende nelle sue braccia e… e… (….)”.[3]
La disperazione domina la fanciulla, la cui normale intelligenza, l’abitudine alla comodità e
la completa mancanza di coraggio non le consente di andare a cercare da sola quello che
il suo stesso mondo non le ha offerto né mai le avrebbe potuto offrire. Rimane, invece,
invischiata dalla comodità, dalla semplicità di una vita che le viene offerta che, per quanto
sostanzialmente già conscia dell’infelicità che dovrà sopportare, preferisce accettare il
noto che sottrarvisi e andare verso nuove possibilità, magari più rare e difficili, ma, al
contempo, più positive e felici. Anche Carla, dunque, ha qualcosa in comune con
Mariagrazia e Leo, ed è la massa inerziale delle sue credenze che la sospingono verso una
direzione che lei non è capace di alterare, anche quando riconosce la totale vacuità,
brutalità e negatività di tale realtà. Il prezzo che dovrà accettare sarà salatissimo, ma lo
preferirà alla lotta per una vita degna di essere vissuta.
Lisa è un’amica degli Ardegno, che, un tempo, era stata amante di Leo Merumeci. La
relazione terminò perché Leo preferì Mariagrazia a lei. Lisa è una donna sola, abbandonata
prima dal marito e poi dall’amante, così che si ritrova a vivere alla ricerca di quell’amore
che, in realtà, non ha mai avuto. Finisce per illudersi che Michele la ami, di quell’amore
puro, giovanile di cui lei sembra avere un gran bisogno. Nonostante sia, anche lei, una
figura propriamente borghese, risulta, comunque, meno ipocrita ma non meno guidata dai
bisogni momentanei, privi di positiva autocritica, profondamente egoistici e, dunque,
risulta anch’essa una donna profondamente egocentrica. Le sue azioni e reazioni sono
dominate dal suo amore femminile per Michele, che cercherà di conquistare con le
lusinghe corporee, incapace, com’è, di riconoscere i bisogni di Michele che non rientrano
pienamente nelle sue aspettative e, proprio per questo, non riesce a comprenderlo né
poco né molto: come Michele è, in fondo, un sentimentale, bisognoso di affetto tanto
quanto la sorella, così Lisa è materiale, gretta, a suo modo, così che lo attira a sé mediante
le sole attrattive del sesso perché lei stessa è impossibilitata alla comprensione verso colui
che le sta di fronte, resa cieca dai suo stessi vili interessi.
Michele è un ragazzo profondamente autocritico, vittima di una forma sofisticata di
introspezione che lo priva di ogni capacità di azione. Egli si vede continuamente vivere,
giudica continuamente i suoi atteggiamenti e, invece di trarre ragioni per agire, giunge
solo alla sua stessa continua negazione. Ci sono molte differenze tra Michele e gli altri
personaggi, la prima delle quali egli non vive per la sola ragione che è stato messo al
mondo, intendendo, ciò, nella sua metafora: egli riconosce tutta l’inutilità e vacuità del
mondo che lo circonda e non è minimamente dominato dalle passioni momentanee e
fallaci degli altri personaggi, ma non ha una visione positiva della vita così che egli vede
solamente la sua indifferenza per quel mondo in cui vive e che non lo attrae, di cui
riconosce la vacuità e l’inutilità. Infatti, egli, nonostante tutto, esprime dei pensieri
propriamente controcorrente e compie azioni, per quanto deboli e quasi impalpabili, contro
questo stato di cose: egli, dunque, sente di doversi ribellare ma non ha la forza psicologica
sufficiente per farlo. Potrebbe dirsi un nichilista, se non fosse che riconosce la necessità
dell’amore come un fatto genuino, puro, dell’esistenza; piuttosto può dirsi un esperto nel
riconoscere il nichilismo reale della vita altrui e, per riflesso, ciò che c’è di nichilistico nella
sua stessa vita, guidata e condotta da un ambiente privo di sostanza, totalmente inerziale
e incapace di dar vita ad una società positiva, nel quale le persone si riconoscano amiche
le une delle altre, un ambiente nel quale ogni conversazione è frutto di una mediazione
negativa in cui ogni parola viene spogliata di significato, in cui ogni frase non è niente più
che l’espressione inespressiva di un mondo totalmente chiuso in se stesso, dove il gioco
sta nel riuscire ad ottenere il proprio egoismo realizzato alle spese degli altri ma senza
darlo a vedere. Michele, dunque, è intelligente ma privo di forza morale ed è, per questo, il
rovescio perfetto di Leo, piuttosto che della madre: come Michele è razionale nella
considerazione e valutazione dei fini, Leo è irrazionale; come Michele è irragionevole nella
definizione dei mezzi per raggiungere i suoi scopi, così Leo è ragionevole e sa come
ottenere il suo scopo. L’affinità con la madre è, infatti, tutta giocata sull’uguale incapacità
di tradurre in azione il loro scopo, cioè di dare una buona definizione degli strumenti per
raggiungerlo. Egli diventa, dunque, spettatore passivo degli eventi e, come tutti coloro che
contemplano il mondo nel suo nudo male, senza sentire di poterlo minimamente cambiare,
sprofondano in stati di profonda angoscia:
Ma intanto l’angoscia aumentava, su questo non c’era dubbio; già ne conosceva la
formazione: prima una vaga incertezza, un senso di sfiducia, di vanità, un bisogno di
affaccendarsi, di appassionarsi; poi, pian piano, la gola secca, la bocca amara, gli occhi
sbarrati, il ritorno insistente nella sua testa vuota di certe frasi assurde, insomma una
disperazione furiosa e senza illusioni. Di questa angoscia, Michele aveva un timore doloro:
avrebbe voluto non pensarci, e come ogni altra persona, vivere minuto per minuto, senza
preoccupazioni, in pace con se stesso e con gli altri; “essere un imbecille” sospirava
qualche volta; ma quando meno se l’aspettava una parola, un’immagine, un pensiero lo
richiamavano all’eterna questione; allora la sua distrazione crollava, ogni sforzo era vano,
bisognava pensare.[4]
Michele, dunque, è vittima della sua stessa intelligenza, di quello che la madre dice di
essere vittima senza esserlo: più sensibile e più intelligente e, per ciò, più capace di
soffrire. Questo, che in genere è piuttosto una bella massima falsa, diventa vero proprio
perché dall’intelligenza di Michele non si traduce altro che impotenza: rimane il fatto che
Michele, essendo incapace di formarsi idee positive e trasporle in azione, rimane vittima
dell’empasse, della futilità. Così che, continuamente, viene vinto dalla noia, dalla futilità di
un mondo che lo piega alla sua stessa indifferenza:
“Io sciocco?” si ripeté il ragazzo: “Ben mi sta” pensò “sciocco… sì…, sciocco a volermi per
forza appassionare a queste tue questioni”. Un orribile senso di futilità e di noia l’oppresse;
girò gli occhi intorno, per l’ombra ostile del salotto; poi su quelle facce; Leo lo guardava, gli
parve, ironicamente, un sorriso appena percettibile fioriva sulle sue labbra carnose; quel
sorriso era ingiurioso; un uomo forte, un uomo normale se ne sarebbe offeso e avrebbe
protestato; lui invece no… lui con un certo avvilente senso di superiorità e di
compassionevole disprezzo restava indifferente… ma volle per la seconda volta andar
contro la propria sincerità: “Protestare”, pensò “ingiuriarlo daccapo”.[5]
Michele, dunque, è un sentimentale che non riesce a trovare sfogo delle sue esigenze,
impossibilitato dal mondo ad avere facile soddisfazione delle sue necessità, rimane
all’interno di un pericoloso circolo vizioso, che è quello di considerare ogni tentativo e ogni
discussione una buona prova di quella stessa inutilità e noia dalla quale cerca egli stesso
di trarsi. Ma ogni azione e ogni parola diventa conferma indiretta del principio da cui cerca
di sottrarsi, così che viene confermata di continuo la sua visione pessimista di fondo,
anche perché non c’è spazio per la buona sorte per chi va in cerca di una vita diversa, in
un mondo puramente indifferente e inerziale di cui Michele è solo uno specchio distorcente
e consapevole: distorcente perché lo svaluta sulla base delle sue credenze normative e
vede tutto alla luce di ciò; ma consapevole perché ne riconosce tutti i limiti. Egli si
dimostra un sentimentale proprio perché è, comunque, capace di grande introspezione e
di scavare in se stesso per capire cosa vorrebbe e cosa sente, ché non è cosa banale saper
riconoscere in se stessi ciò che veramente costituisce il giusto fine per sé. Ma, ciò
nonostante, sembra che non sia, però, in grado di vivere in modo sufficientemente
indipendente per chiudersi in una positiva solitudine e poter trarre la giusta autonomia per
poter vivere la sua vita:
I primi accordi risuonarono; Michele socchiuse gli occhi e si preparò ad ascoltare la
melodia; la sua solitudine, le conversazioni con Lisa gli avevano messo in corpo un gran
bisogno di compagnia e di amore, una speranza estrema di trovare tra tutta la gente del
mondo una donna da poter amare sinceramente, senza ironie e senza rassegnazione:
“Una donna vera” pensò; “una donna pura, né falsa, né stupida, né corrotta… trovarla…
questo sì che rimetterebbe a posto ogni cosa”. Per ora non la trovava, non sapeva neppure
dove cercarla, ma ne aveva in mente l’immagine, tra l’idea e materiale che si confondeva
con le altre figure di quel fantastico mondo istintivo e sincero dove egli avrebbe voluto
vivere; la musica lo avrebbe aiutato a ricostruire quest’immagine amata… ed ecco difatti,
più per la sua esaltazione e per il suo desiderio che in grazia della musica stessa, fin dalle
prime note, formarsi tra lui e Carla quella immagine… era una fanciulla, lo indovinava dalla
snellezza del corpo, dagli occhi, da tutto il portamento (…): “la mia compagna”, egli pensò:
e già dei gesti, una specie di abbraccio, un sorriso, una mossa della mano, degli
avvenimenti, passeggiate, conversazioni, si formavano e passavano nel cielo desideroso
della sua fantasia, quando un chiacchiericcio fitto e sommesso ruppe l’illusione e lo
ricondusse alla realtà.[6]
Basta poco, dunque, per distrarre il giovane Michele ed è in questa sua incapacità a
fissarsi su uno scopo, avere la pazienza di perseguirlo perché sente che tutto è inutile così
che lo diventano, per riflesso, tutti i tentativi, diretti o indiretti, a vincere lo stato di cose.
La prosa di Moravia, da alcuni definita realista, è, in realtà, imbevuta di un
sentimentalismo di fondo, dove l’ambiente rispecchia la psicologia dei personaggi: la luce
diviene metafora dell’anima proiettata nel mondo del personaggio di cui si parla, e come la
luce può diventare opaca o brillante in base allo stato emotivo della persona, così il tempo
meteorologico diventa la proiezione dell’Io sul mondo. Il continuo cielo grigio e piovoso
inducono nel lettore un senso di continua oppressione, non senza qualche slancio di
barlume positivo, ma tutto sembra avvolto dalla medesima atmosfera intrisa di
sentimento, anche se non sempre allegro. Così si dovrebbe appropriatamente parlare di
realismo espressionista, per indicare una prosa, sì, realista, ma di un realismo strumentale
atto alla resa di una dimensione psicologica che investe il mondo. Impossibile che tale
dimensione psicologistica diffusa non sia, almeno in parte, frutto della giovane età
dell’autore nel quale, ancora, doveva vivere potentemente quel senso tutto giovanile in cui
l’intera realtà è densa di significati, in cui ogni oggetto acquisisce un posto suo nella
dimensione emotiva dei personaggi e del lettore stesso. Le descrizioni o sono collettive o
sono singole; quando sono collettive ogni evento viene descritto dai vari punti di vista dei
personaggi, quando sono singole, v’è l’estrinsecazione privilegiata di un punto di vista
particolare:
Per tutta la durata del tragitto nessuno dei quattro parlò; Leo guidava con abilità la grossa
macchina tra la confusione delle strade congestionate; Carla immobile guardava
trasognata il movimento della via, laggiù, oltre il cofano lucido, dove, tra due nere
processioni di ombrelli, sotto la pioggia, i veicoli coi loro rossi lumi guizzavano da ogni
parte come impazziti. Anche la madre guardava attraverso il finestrino, ma piuttosto che
per vedere, per farsi vedere: quella grande e lussuosa macchina le dava un senso di
felicità e di ricchezza, e ogni volta che qualche testa povera o comune emergeva dal
tenebroso tramestio della strada e trasportata dalla corrente della folla passava sotto i
suoi occhi, ella avrebbe voluto gettare in faccia allo sconosciuto una smorfia di disprezzo
come per dirgli: “Tu brutto cretino vai a piedi, ti sta bene, non meriti altro… io, invece, è
giusto che fenda la moltitudine adagiata su questi cuscini”.
Soltanto Michele non guardava la strada, quello che l’automobile portava nella sua scatola
sontuosa l’interessava di più; gli pareva che non ci fosse altro; l’ombra nascondeva le
facce dei suoi tre compagni, ma ogni volta che la macchina passava sotto un fanale, una
luce vivida illuminava per un istante quelle persone sedute e immobili: apparivano allora il
volto della madre dai tratti fiacchi e profondi, dagli occhi vanitosi; quello di Carla, il viso
incantato e puerile della fanciulla che va alla festa; e quello di Leo, di profilo, rosso,
regolare, un po’ duro, come quegli oggetti inspiegabili e paurosi che i lampi delle tempeste
rivelano per un istante.[7]
Il romanzo è denso di nuclei tematici importanti. Il primo e centrale è la descrizione di un
mondo nichilistico in senso profondo, nel quale non c’è un solo valore dominante ma tutti
sono schiavi di una serie di precetti morali totalmente accettati sulla base dell’adozione
irriflessa, senza giustificazione in prima persona, di una regola sociale. In più di un passo
l’esigenza della sincerità viene vinta dalla forza dell’ipocrisia, resa necessaria per un
mondo sociale nel quale ogni singolo vive come gli animali ma che non può riconoscerlo
per cattiva coscienza. Inoltre, c’è anche un altro motivo per cui una società può imporre ai
singoli individui una certa serie di regole sociali di valutazione: essi fondano la loro
giustificazione ed esistenza, differente dalla massa dei “poveri”, dei “lavoratori”, sulla
base di quella stessa apparenza che è l’indice della loro forza e della loro potenza, forza e
potenza che, per quanto non giustificano sul piano morale nessuno, sono, però, sufficienti
a legittimare una condizione di disparita tra le classi sociali. Così, la borghesia fonda se
stessa proprio sull’imposizione di uno stato di regole tali per cui il rifiuto da parte di chi fa
parte di quel mondo implicherebbe, immediatamente, far crollare un edificio sociale
attraverso cui si difendono i propri privilegi, il proprio status quo. Questo nichilismo, velato
dalla condizione di apparenza reiterata e apparentemente ovvia, diventa la parte
costituente e di sfondo dell’intero romanzo. Tutto deve divenire una prassi ovvia, implicita
in ogni azione perché la delicatezza dell’edificio è troppo evidente perché ci possano
essere elementi devianti. Così, le regole devono essere introiettate in modo sicuro e
acritico, sicuro perché, altrimenti, c’è il margine di manovra per comportamenti devianti; e
acritico perché nessuno, in cuor suo, potrebbe mai accettare tale e tanta futilità, capace di
peggiorare il mondo e la propria vita perché, bisogna pur dirlo, nessuno dei personaggi
risulta mai felice ma, nel migliore dei casi, momentaneamente soddisfatto (viene in mente
Leo nell’atto di concupire Carla e Mariagrazia nella piccola vendetta contro Lisa). Nessuno,
infatti, è mai felice in senso forte per aver realizzato un desiderio che non sentiva esser
suo: tutti i personaggi si sentono soli (infelicità sociale), tutti i personaggi sanno di essere
insinceri e di ciò ne soffrono variamente (infelicità morale), ognuno di loro non si prende
positivamente cura di sé o, se lo fa, non lo avverte come un valore intrinseco (benessere
fisico) e, in particolare, nessuno si cura della dimensione puramente spirituale dell’animo
(felicità spirituale), riuscendo, dunque, a non fare niente per lottare per la propria felicità.
Nessuna condizione della felicità umana sembra, dunque, interessare i personaggi de Gli
indifferenti proprio perché, in fondo, essi non sanno neppure in cosa consista la natura
stessa della felicità. Un fatto curioso, questo, se si assume che in tanti sosterrebbero che
al mondo si è venuti per provare ad esser felici.
Un altro nucleo tematico risulta quello del mondo borghese, descritto in controluce e le cui
implicazioni sono le stesse vicende familiari della famiglia Ardengo. Si tratta di un mondo
chiuso, ignorante, privo di speranza, la cui unica realtà è quella di replicarsi
indefinitamente per difendere i propri interessi materiali, quali che siano, a qualunque
costo. In questa dimensione, si badi, non c’è un solo personaggio o elemento che mostri
come il mondo possa discostarsi da questo stato di cose, non c’è un artista, un filosofo,
uno scienziato perché sono tutti uomini che hanno ragioni per lottare, per vivere e non
solo per sopravvivere, ma, naturalmente, viene implicitamente mostrato come tali
individui sono automaticamente esclusi dalla società borghese proprio per quelle stesse
ragioni per cui, una volta morti, diventano oggetto di interesse: essivivono una
vita controcorrente rispetto ai valori borghesi, ma possono diventare utili nella loro
produzione culturale che diventa interessante quando la vita del pensatore non è più di
ostacolo alla realizzazione dell’utilità di qualcuno. Un filosofo, un artista, uno scienziato
vivono mostrando, in controluce, tutta l’assurdità della condizione borghese, intesa come
vien descritta nel romanzo (salvo i casi dei sedicenti uomini che si integrano in tale forma
sociale), così che la loro stessa vita va contro l’interesse della classe dominante, salvo nel
momento della loro morte, momento in cui la loro presenza diventa accettabile perché
uomini le cui opere risultano preziose e non vengono inficiate, nella loro diffusione, dalla
figura scomoda che prima viveva e pulsava: la morte legittima la vendita e la parola
rispetto a chi, ormai, non può rivendicare più nessuna paternità e distinzione. Nel mondo
de Gli indifferenti non ci può essere spazio per niente che sia diverso dal mondo borghese
stesso, con tutto ciò che comporta.
Tutta la vicenda si gioca su fatti amorosi, quasi che l’amore fosse l’unica cosa su cui giri il
mondo. Ed, in parte, c’è qualcosa di profondamente significativo, se non altro nel fatto che
le persone si struggono e combattono solo per qualcosa di così forte che ha la potenza
sufficiente a far sì che la loro vita sia giustificata per realizzare quello stato di amore
idilliaco di cui, però, nessuno sa indicare il preciso confine: Michele desidera una
“compagna” che, però, non è concretamente identificata né risulta chiaro quanto valga la
pena lottare per scoprire se esiste o non esiste; Carla desidera un uomo che la
“comprenda” ma, intanto, si accontenta dell’unico uomo che le abbia realmente offerto
qualcosa di tangibile, anche se non si tratta di amore; Leo desidera Carla per i seni giovani
e per la bella schiena; Mariagrazia ama Leo incondizionatamente; Lisa desidera Michele
per un bisogno ritrovato di purezza e ingenuità, per quanto lei stessa non sia né pura né
ingenua. Tutti dall’amore cercano quello che non trovano dalla vita, chi una compagnia
comprensiva e intelligente, chi una persona unica e speciale che faccia sentire parte del
mondo, chi un ideale per cui valga la pena vivere. Eppure, nell’amore, vissuto dai singoli
personaggi, non sembra esserci speranza alcuna ma solo una perpetua fonte di sofferenza,
una malinconica presenza ossessiva e incapace di guarire i patemi d’animo ma, semmai,
per risaltarne l’inconsistenza del sogno per contrasto. Niente dell’amore de Gli
indifferenti può salvare i personaggi, nel momento in cui sono tutti così chiusi in sé stessi,
incapaci di aprirsi una via positiva nel mondo.
Siamo di fronte ad un grande libro, ad un capolavoro della narrativa che avrebbe potuto
avere molti altri titoli, per la sua straordinaria valenza di trattare tanti temi diversi senza
essere ristretto ad uno in particolare. Poteva intitolarsi: I nichilisti, Gli inerziali, La futilità, I
borghesi o La noia. Tutti questi titoli sarebbero potuti andare ugualmente bene, ma tutti
possono essere riassunti inGli indifferenti, i peggiori esseri viventi di questa nostra Terra,
capaci di sopravvivere alla loro stessa inutile esistenza e capaci di replicare quello che è il
male del mondo sin dai tempi antichi; questo sembra dirci Moravia.
MORAVIA ALBERTO