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DIPARTIMENTO DI STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA
ANNALI DI STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA
NUOVA SERIE - ANNO III - 3/2015
ISSN 1124 - 0296
EDUCatt - Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.72342235 - fax 02.80.53.215
e-mail: editoriale.dsu@educatt.it (produzione)librario.dsu@educatt.it (distribuzione)
redazione: rivista.annalistoria@unicatt.itweb: www.educatt.it/libri/ASMC
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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUOREUNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE
DIPARTIMENTO DI STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA
ANNALIDI STORIA MODERNAE CONTEMPORANEA
3NUOVA SERIE - ANNO III 2015
EDUCATT - UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUOREEDUCATT - UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE
ISSN 1124 - 0296
UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUOREUNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUOREDIPARTIMENTO DI STORIA MODERNA E CONTEMPORANEADIPARTIMENTO DI STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA
ANNALIDI STORIA MODERNAE CONTEMPORANEA
3NUOVA SERIE - ANNO III 2015
EDUCATT - UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUOREEDUCATT - UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE
Milano 2015
Fondati da Cesare Mozzarelli
ANNALI DI STORIA MODERNA E CONTEMPORANEADipartimento di Storia Moderna e contemporaneaUniversità Cattolica del Sacro Cuore
Nuova Serie - Anno III - 3/2015ISSN 1124-0296
DirettoreROBERTINO GHIRINGHELLI
Comitato scientifi coCESARE ALZATI - GABRIELE ARCHETTI - GILIOLA BARBERO -PIETRO CAFARO - LUCA CERIOTTI - EMANUELE COLOMBO -CHIARA CONTINISIO - CINZIA CREMONINI - MASSIMO FERRARI -ROBERTINO GHIRINGHELLI - DANIELE MONTANARI - IVANA PEDERZANI -ELENA RIVA - PAOLA SVERZELLATI - PAOLA VENTRONE
Segreteria di redazioneANDREA BRAMBILLA
Per la selezione dei contributi da pubblicare la rivista segue il metodo dellarevisione tra pari basata sull’anonimato, avvalendosi dei membri del Comitatoscientifi co e di studiosi esterni italiani e stranieri.
© 2016 EDUCatt - Ente per il diritto allo studio universitario dell’Università CattolicaLargo Gemelli 1 - 20123 Milano - tel. 02.7234.2234 - fax 02.80.53.215e-mail: editoriale .dsu@educatt.it (produz.( ) - librario.dsu@educatt.it (distrib.)web: www.educatt.it/libri/ASMC
questo volume è stato stampato nel mese di dicembre 2016presso la Litografi a Solari - Peschiera Borromeo (Milano)con tecnologia e su carta rispettose dell’ambiente
ISBN 978-88-9335-102-7
INDICE
Nota editoriale 5
SAGGI
FRANCESCA RUSSO
Politics, power and republicanism in Florentine Renaissance:
Donato Giannotti. History of the edition and of the European
circulation of his essay upon venetian constitution 9
ROBERTO QUIRÓS ROSADO
Patronato regio y clientelismo cortesano. La provisión
de dignidades y beneficios eclesiásticos en la Italia de Carlos
III de Austria, 1706-1714 33
ADELINA BISIGNANI
Persona-valore e libertà dei moderni nella riflessione
di Norberto Bobbio (1934-1965) 67
PERSONAGGI DEL NOVECENTO ITALIANO
MARCELLO SAIJA
Gaetano Martino 95
ALFREDO CANAVERO
Filippo Meda 107
OIKONOMICA
PIETRO CAFARO
Local banking systems on both sides of the border:
High Lombardy and Ticino between the nineteenth
and twentieth century 131
4 INDICE
ANGELO MOIOLI
Capitali e imprenditori svizzeri a Bergamo
tra Ottocento e Novecento 145
MATERIALI
CARLO CARINI
Pensieri paralleli sul cittadino: Bodin e Constant 169
GIANFRANCO BORRELLI
Dall’evanescenza del cittadino moderno alle nuove pratiche
della cittadinanza di prossimità 177
GUSTAVO GOZZI
Cittadinanza e diritti 193
BARBARA PISCIOTTA
L’evoluzione della democrazia
Dallo Stato nazionale al cosmopolitismo 209
DAMIANO PALANO
«Homo democraticus». Note per un ripensamento
del rapporto tra cittadinanza e democrazia 229
STEFANO PETRUCCIANI
Cittadinanza e diritti sociali tra dimensione nazionale
e prospettiva europea 265
MARINA CALLONI
Quale identità per l’Unione Europea? Per la costruzione
di una cultura politica e di una politica culturale comune 279
ARGOMENTANDO
ANNA RITA GABELLONE
Cosimo I. Dalla ragion di stato all’assolutismo 301
Scritti scelti 329
Nota editoriale
Questo fascicolo degli Annali si apre con un doveroso e sentito ricordo
di uno dei più sottili attori e studiosi della vita culturale e civile dell’I-
talia democratica: Arturo Colombo (1934-2016). Professore emerito di
storia delle dottrine politiche nella “sua” Università di Pavia, editoria-
lista del “Corriere della sera”, interprete, ma prima studioso acuto e
critico, delle idee del Risorgimento e della tradizione cattaneana e maz-
ziniana, è stato un continuo punto di riferimento per gli storici delle
giovani generazioni. Fra di loro mettiamo con orgoglio e riconoscimento
anche il gruppo degli “Annali”. Difatti, nell’ormai lontanissimo autun-
no del 1994 quando Cesare Mozzarelli lanciò l’idea di un annale storico
dell’allora Istituto, lo convinsi a consultare il professor Colombo per
come aprire la rivista anche agli storici del pensiero e delle istituzioni
favorendo quell’ampio ventaglio tematico e diacronico che consentiva
di aprire nuovi versanti di studio e di fornire ai giovani ricercatori la
possibilità di presentare le loro ricerche. Arturo Colombo riassunse il
tutto con il suo solito umorismo costruttivo con la frase «è meglio se-
guire solo la strada segnata o cercare di scoprire ed aiutare a tracciare
nuovi sentieri?».
E proprio rammentando i suoi insegnamenti vogliamo continuare ad
averlo qui con noi ricordando i suoi principali scritti e contributi.
Questo fascicolo della rivista contiene, come al solito, la sezione Sag-
gi, quella dedicata a Personaggi del Novecento italiano, Oikonomica,
Materiali e Argomentando.
Sottolineo qui come in Materiali siano riportati contributi che sono
il frutto degli interventi e delle discussioni al Convegno su «Cittadini e
cittadinanza dallo Stato nazione all’Europa unita», tenutosi a Milano in
Università Cattolica il 30 gennaio 2015 e frutto della collaborazione tra
gli storici delle dottrine e delle istituzioni politiche, gli studiosi di scienza
politica e quelli di filosofia politica.
Robertino Ghiringhelli
Saggi
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 9-32
Politics, power and republicanism in FlorentineRenaissance: Donato Giannotti.
History of the edition and of the European circulation of his essay upon venetian constitution
FRANCESCA RUSSO
Il mio saggio è dedicato principalmente al Libro della repubblica de’Vinitiani, pub-iiblicato nel 1540 da Donato Giannotti a Roma per i tipi di Blado. Giannotti fu un
importante testimone della tradizione repubblicana fiorentina. Nato a Firenze nel
1492, egli studiò presso i grandi maestri dell’umanesimo, fra i quali Francesco Cat-
tani da Diacceto e Marcello Virgilio Adriani. Da Diacceto ereditò una profonda
conoscenza per la filosofia aristotelica, che fu fondamentale per i suoi scritti poli-
tici L’incontro con Niccolò Machiavelli, avvenuto nelle riunioni che si svolgevano
presso i giardini di casa Rucellai si rivelò anche determinante per la formazione del
giovane Donato. L’ex Segretario fiorentino divenne suo amico e suo riferimento
culturale. Egli fu profondamente influenzato dai Discorsi, letti nel contesto degli OrtiiiOricellari. Giannotti, a differenza di Machiavelli, aveva una grande ammirazione per
il sistema istituzionale veneziano, essendo la “Serenissima” un modello contempora-
neo di repubblica. Decise quindi di soggiornare nella città e presso l’ateneo patavino
e di scrivere il Libro de la repubblica de’Vinitiani, dedicato al funzionamento delleiimagistrature della città lagunare. Questa fu l’unica opera pubblicata durante la vita
dell’autore. Ebbe molte edizioni nella penisola italiana e numerose traduzioni in lin-
gua tedesca, di cui si dà conto nel saggio. La prima traduzione fu pubblicata da Hans
Kilian nel 1557, quando ancora Giannotti era in vita. Venne anche data alle stampe
nel 1631 in latino a Leida, divenendo fruibile per un pubblico europeo. Non man-
carono infatti un’edizione in olandese e citazioni nel mondo culturale britannico.
Giannotti scrisse molte altre opere delle quali si dà brevemente cenno in questo
scritto. Tra le maggiori si ricorda Della repubblica fi orentina, proposta costituzionale
per Firenze, alla quale l’autore lavorò in differenti redazioni. Naufragato un progetto
di edizione francese per cura di Jacopo Corbinelli, anche per l’esitanze dell’autore
stesso, l’opera venne pubblicata solo nel 1721.
Giannotti fu Segretario dei Dieci nell’ultima repubblica fiorentina (1527-1530). In
seguito alla sconfitta del fronte repubblicano decise, dopo un periodo in carcere e
qualche incertezza, dettata dalla speranza che Clemente VII potesse dare un ordine
accettabile alle istituzioni fiorentine, di aderire al nutrito fronte del fuoriuscitismo e
di concludere la sua vita in esilio. Mantenne però un costante interesse per le vicen-
de storico-politiche fiorentine e toscane, nonché l’impegno a propagandare i valori
ed i simboli del repubblicanesimo italiano. Questo saggio trae origine dalla mia re-
10 FRANCESCA RUSSO
lazione tenuta nell’ambito della sessione organizzata dalla prof.ssa Suzanne Magna-
nini (University of Colorado) nell’ambito della conferenza annuale della Sixteenth Century Society (Vancouver, 24 ottobre 2015).
My essay focuses mainly on Donato Giannotti’s book upon Venice. He witnessed
with his works, and above all, thanks to the translation of Libro de la Republica de’Vin-tiani the republican Italian tradition throughout Europe. Giannotti was Machiavel-ili’s good friend and one of his most important disciple.
He was born in Florence in 1492 and he died in Rome in 1573. He attended the les-
sons of Marcello Virgilio Adriani and of Francesco Cattani da Diaccetto, receiving a
deep philosophical education under the teachings of Florentine humanism. Due to
the lesson of Diacceto, Giannotti accrued a strong interest and admiration for the
political theories of Aristotle.
He took part in the meetings of Florentine intellectuals at Rucellai’s gardens, the
so called Rucellai gardensd , during its second period (1516-22), at the time when
Niccolò Machiavelli explained the Roman republican model, reading a draft of his
great masterpiece that he was writing at the time, the Discourses upon the fi rst ten books of Titus Livy. Giannotti became a close friend and a follower of Machiavelli’s
ideas, even if his republican beliefs were different form the ones of his great master
and friend. He was also convinced of the necessity of establishing a Res publica mixta in Florence, but he preferred the example of Venetian constitution, to the Roman
constitution described by Machiavelli. His political theories were mostly in favor of
the Aristotelian-Polybian model of mixed Constitution. He wrote about this subject
in an essay, Libro de la republica de Vinitiani, published in 1540. This book had been iiprinted several times in Italian States between half 16th Century and 17h th Century. Ith
had been translated into German in 1557 by Hans Kilian. Many German editions
followed after that time until the first half of 17th Century. There was a Latin Editionh
published in Amsterdam in 1631 and shortly afterwards a Dutch translation. My
paper would like to focus on the history of the circulation of this book, that became
a European success. In 1656 James Harrington, in fact, in his work The Comonwealth of Oceana, defined Giannotti’s essay as the best description of Venetian Constitution.
Giannotti was also the author of Della repubblica fi orentina, an interesting proposal
of a constitutional reform for Florence, which was never to come into being and
remained unpublished until 1721.
He was during the last Florentine republic (1527-1530) Secretary to the Ten, the
same position held by Machiavelli during the former republic. After the defeat of
Florentine republic (1530), he was imprisoned and he then went on a long- life exile.
Keywords: Donato Giannotti; Florentine Renaissance; republican tradition; Floren-
tine exiles; story of Florence; mixed Constitution in German States; Venetian insti-
tutional model; myth of Venice.
Parole chiave: Donato Giannotti; tradizione repubblicana; esuli fiorentini; storia di
Firenze; Costituzione mista negli Stati tedeschi; modello istituzionale veneziano;
mito di Venezia.
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 11
Donato Giannotti is one of the leading author of Florentine Renais-
sance republican tradition. He survived for a long while the failure of
republican coalition on Florence. He nevertheless kept on his political
faith, even if the chances to restore republic in his city were few. He
wanted with his works, which remained unpublished, except for Libro dela Republica de’Vintiani, but had a relevant diffusion in the manuscript iform, to give his own contribution to preserve the values of Florentine
republicanism1. His writings were rediscovered and published as collect-
ed works at the beginning and on the first half of Nineteenth Century, in
the framework of the cultural research of the roots of Italian republican
tradition2.
Giannotti was born in Florence on 27th November 1492 from a mid-
dle-class family. His father Lionardo was a goldsmith. His mother was
Alamanna Gherardini3. The economical situation of his family was not
sot so favorable and most of all during the period of his exile, he suffered
from economic troubles4.
He studied philosophy, Rhetoric, Latin and Greek at the “Studio
fiorentino”5. His most important masters were Marcello Virgilio Adria-
ni and Francesco Cattani da Diacceto6. The cultural influence of the
teachings of Diacceto was very significant to him. At his school he learnt
the importance of Aristotelian thought, that Diacceto was trying to
combine with the Florentine neo-Platonic tradition7. The interest for the
philosophy of Aristotle became a fixed point in Giannotti’s intellectual
1 D. GIANNOTTI, Libro de La Republica de’Vinitiani, in Roma, per Antonio Blado d’Asola,
nel 1540, del mese di Luglio, con il privilegio del Sommo Pontefice, per Anni Diece.2 D. GIANNOTTI, Opere, 3 volumi, Pisa, presso Niccolò Capurro cò caratteri di F. Didot,
Collezione degli ottimi scrittori italiani in supplemento ai classici milanesi, 1819; ID.,
Opere, per Niccolò Bettoni, Milano 1830; ID., La Repubblica fi orentina e la veneziana, cò
Tipi del Gondoliere, Venezia 1840; ID., Opere politiche e letterarie, collazionate sui ma-
noscritti e annotate da F.L. Polidori, precedute da un Discorso di Atto Vannucci, vol. 2,
Felice Le Monnier, Firenze 1850.3 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, in i ID., Opuscoli di storia letteraria ed erudizione. Savonarola, Machiavelli, Guicciardini e Giannotti, Bibliopolis, Firenze 1942,
pp. 55- 164.4 S. MARCONI, Giannotti Donato, in AA.VV., Dizionario Biografi co degli italiani, vol.54, iIstituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma pp. 527-533; G. CAMPBELL, Giannotti Donato in AA.VV., The Oxford Dictionnary of Renaissance, Oxford University press, Oxford 2003,
p. 334.5 S. MARCONI, Giannotti Donato, cit., pp. 527-528.6 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., pp. 61-62.i7 P.O. KRISTELLER, Francesco Cattani da Diacceto and Florentine Platonism in the Sixteenth century, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1946; E. GARIN, L’Umanesimo Italiano. Filosofi a e vita civile nel Rinascimento, Laterza, Roma - Bari 1978, pp. 142-146.
12 FRANCESCA RUSSO
life, as he considered the Aristotelian-Polybian model of mixed Consti-
tution the best and the most stable form of Constitution8. Nevertheless,
in Giannotti’s political education the most relevant acquaintance hap-
pened during the meetings of intellectuals, mainly aristocrats, organized
by Cosimo Rucellai in his gardens: the so called Rucellai’s Garden. In
the “second period” of these meetings, when the young Cosimo Rucel-
lai started to rule the reunions, (from 1516), Niccolo Machiavelli was
invited to give lectures and to lead the discussions9. That was a turning
point of the reunions of this group. Before that moment, they were dis-
cussing about literature and arts. They were all involved into friendly
relationships with the Medici’s family. Bernardo Rucellai, the former
organizer of the reunions, was the brother-in- law of Lorenzo de’Medi-
ci10. Machiavelli’s influence upon this group of his intellectuals, and es-
pecially upon Giannotti, was very strong and long-lasting11. One can get
an idea about that, by reading some editions of Antonio Brucioli’s work
I Dialogi12.
In this work, there is also a detailed report of the meetings in Rucel-lai gardens, with the description of the persons attending the reunions.
From Brucioli’s Dialogi (edition 1528-1529) one can learn that Donato
Giannotti was part of that group, together with Luigi Alamanni, Zanobi
Buondelmonti, Pietro Martelli, Giovanni Corsi, Antonfrancesco Albizzi,
Iacopo Nardi, Filippo Nerli, and Palla, Giovanni and Cosimo Rucellai13.
Machiavelli introduced politics into their lives, especially a strong in-
terest towards the history of Roman republic, which he considered the
best model of mixed republic14. In fact, during the reunions in Rucellai gardens, he read some passages of the manuscripts of the Discourses uponthe fi rst ten books of Titus Livy, his great masterpiece devoted to this sub-
ject, that he was writing with deep involvement15.
8 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., pp. 61-62.i9 F. GILBERT, Le “Istorie fi orentine” di Machiavelli. Saggio interpretativo, in ID., Machiavelli e il suo tempo, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 291-318.10 Ibidem.11 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit.,i pp. 62; R. VON ALBERTINI,
Firenze dalla Repubblica al Principato, Einaudi, Torino 1970, p. 145.12 A. BRUCIOLI, Dialogi, Impressi in Vinegia per Giovannantonio e i Fratelli da Sabbio, inel mese di Agosto del 1528, con privilegio del Senato di Vinegia; ID., Dialogi, impressi iin Vinegia, per Giovannantanio e i Fratelli da Sabbio, nel mese di Luglio del 1529. Con
Privilegio dello Inclito Senato di Vinegia.13 Ibidem.14 G. CAMBIANO, Polis. Un modello per la cultura europea, Laterza, Roma - Bari 2007, pp.
118-119.15 Ibidem.
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 13
In 1522, a conspiracy against Medici’s government was organized
by some of these young men, inflamed by republican ideals. It failed16.
Neither Machiavelli, nor Giannotti were part of it. There is no proof of
Giannotti’s participation to this project, even if the organizers of the
conspiracy were among his acquaintances of the time17.
In the intellectual environment of the Rucellai gardens, Giannotti
started his long-lasting friendship and cultural relationship with Nicolò
Machiavelli18. The author of the Prince represented for him an important
benchmark and he succeeded in gaining his friend’s confidence. From
some of Giannotti’s, letters stored in Ambrosiana library, one can learn
that Machiavelli gave to his friend Donato the manuscript of his work
Historiae fi orentinae19.
Giannotti’s political and intellectual growth was not only influenced
by his friend Machiavelli. At the same time, he was attending the group
of the so called ottimati moderati, the moderates aristocrats, who were dis-icussing about politics, but were not against the Medici’s power20. Some
of them (also his master Diacceto) were taking part to the reunions of
the medicean Academy, the Sacra Academia Medicea. Giannotti was also
likely to be part of the Academy, as it is witnessed by his first literary
work, written in 1516 and dedicated to Lorenzo de’ Medici21.
In 1521 he was appointed as Professor of rhetoric, poetics and Greek
literature at the University of Pisa, thanks to his important friendships
among the Florentine aristocrats22. He stayed there until 1525, when he
was given the permission for a sabbatical leave, in order to enhance his
knowledge of the Constitution of Venice and of its institutional inner
16 F. RUSSO, Bruto a Firenze. Mito, immagine e personaggio, Editoriale Scientifica, Napoli
2008, pp. 257-259.17 Ibi, p. 259.18 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., pp. 64-65; J.G.A. POCOCK,
The Machiavellian moment. Florentine Political thought and the Atlantic republican tradition,
Princeton University Press, Princeton - London 1975, pp. 272-273; G. CAMBIANO, Polis. Un modello per la cultura europea, cit. p. 119.19 Letter of Donato Giannotti to M. Antonio Michieli, (Comeano, 30th June 1533, in
Biblioteca Ambrosiana, Segnatura D.191 INF. Unità Codicologica 6).20 S. MARCONI, Giannotti Donato, cit., p. 528.21 Ibidem.22 Ibidem; R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., pp. 65-68;i D. HÖCHLI,
Donato Giannotti, ini Portgalerie der Politischer Denker, herausgegeben von P.C. Mayer r- Tasch, B. Mayerhofer, Stämpli Verlag - Wallstein Verlag, Bern - Göttingen 2004, pp.
107-108.
14 FRANCESCA RUSSO
workings23. That was the very beginning of his long- life scientific inter-
est and political admiration for Venetian model.
He went, in fact, to Padua where he met his friend Giovanni Bor-
gherini, the son-in-law of the gonfaloniere di giustizia of the next Floren-
tine republic (1527- 1530) Niccolò Capponi. There he stayed from June
1525 to November 1526, studying the institutional structure of Venetian
republic, in order to describe it better in its work24. He started, indeed, at
that time writing his great masterpiece: Libro de la republica de’ Vinitiani25ii .
He came back to Florence and Pisa, but he did not stay there for a
long while. His interest for the “Serenissima” was already too high to be
left aside26. He wanted to carry on his researches for his book upon ve-
netian institutional system. He asked his friend Alessandro de’ Pazzi to
get back to Venice with him27. De’ Pazzi had been appointed as ambas-
sador of Florence. Giannotti succeeded in his purpose and in February
1527, he had the chance to set for Venice28. During his legacy with the
ambassador he was able to deepen his knowledge of the inner secrets
of international politics of Venetian republic and of all its international
connections. He also became more acquainted with the political dynam-
ics of the Serenissima29. At this time, he wrote a second draft of his work
devoted to venetian Constitution30. In 1530 it went under a following
revision after the defeat of Florentine republic31.
The Libro de la republica de’ Vinitiani was published in 1540 in Rome, iby the editor Antonio Blado, thanks to the back-up of cardinal Niccolò
Ridolfi, one of the main leaders of Florentine political emigrants, the so
called fuoriusciti32ii . Giannotti was at the time working as a secretary to
the cardinal and he had the chance of taking advantage of the huge and
powerful cultural milieu, which surrounded him. He was thus involved
23 S. MARCONI, Giannotti Donato, cit., p. 528.24 Ibidem; D. HÖCHLI,, Donato Giannotti, cit., p. 108.i25 F. GILBERT, The date of composition of Contarini’s and Giannotti’s books on Venice, in «Stu-
dies in the Renaissance», 14 (1967) edited by «The Renaissance society of America», pp.
172-184; H. SOLDINI, Della republica de’ Viniziani de Donato Giannotti, un projet éditorial avorté, in AA.VV., Varchi ed altro Rinascimento. Studi offerti a Vanni Bramanti,i S. LO RE - F.
TOMASI (a cura di), Vecchiarelli editore, Manziana 2013, pp. 579-590.26 F. GILBERT, The Venetian Constitution in Florentine political thought, in AA.VV., Floren-tine studies, N. RUBINSTEIN (edited by), Faber and Faber, London 1968, pp. 187-214.27 S. MARCONI, Giannotti Donato, cit., p. 528.28 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., pp. 76-77.29 Ibidem.30 Ibi, pp. 77.31 F. GILBERT, The date of composition of Contarini’s and Giannotti’s books on Venice, cit.32 D. GIANNOTTI, Libro de La Republica de’ Vinitiani, cit.
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 15
in the main erudite circles in Rome, in Venice and in the whole Italian
peninsula33.
The Libro de la republica de’ Vinitiani had a huge success. It still re-imains an important contribution to the history of European political
ideas and one of the author’s masterpieces. James Harrington in 1656,
at the beginnings of the Preliminaries of The commonwealth of Oceana de-
fined, in fact, Donato Giannotti as «the most excellent describer of the
commonwealth of Venice»34.
The Libro de la republica de Vinitiani was again published by Antonio iBlado in 1542 and had afterwards interesting editions in Venice35. The
first one was published in 1564 and the second one, stressing the impor-
tance of republics against princedom, was given to the print in 159136.
There was also a very important edition given to the print in France,
in Lyons, in 1569, edited by an Italian religious and political dissenter
Gian Michele Bruto, addressed to the Italians living in France, banished
by their homeland for political and religious reasons37.
Giannotti’s masterpiece had a surprising success also in German
States38.
Giannotti’s masterpiece was in fact translated into German and pub-
lished in 1557 by Hans Kilian in Neuburg an der Donau39. In the long
preface Kilian, a convinced reformer addresses many criticisms to the
33 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., pp. 116-117.34 J. HARRINGTON, The Commonwealth of Oceana and a system of politics, J.G.A. POCOCK
(edited by), Cambridge University Press, Cambridge 1992, p. 8.35 D. GIANNOTTI, Libro de la republica de’ Vinitiani, per Antonio Blado, stampato in Roma, i1542. 36 D. GIANNOTTI, Libro de la repubblica de’ Vinitiani, coni G. CONTARINI, La republica e i magistrati di Vinegia nuovamente corretta e stampata, Domenico Giglio, Venezia 1564; ID.,
Della republica et magistrati di Venetia, Libri V, di Gasparo Contarini, che fu poi cardinale, con un ragionamento intorno alla medesima di Donato Giannotti fi orentino. Et i Discorsi di M. Se-bastiano Errizzo e di M. Bartolomeo Cavalcanti: aggiuntovi uno di nuovo dell’eccellenza delleRepubbliche, onde con molta dottrina si mostra, quanto siano utili i governi publici e necessari i privati, per conservazione del genere humano, con la diffinitione di tutte le qualità degli Stati,ipresso Aldo Manuzio, Venezia 1591.37 D. GIANNOTTI, La repubblica di Vinegia, per Antonio Gyphio, Lione 1569. See also
D. CACCAMO, Bruto Gian Michele, in AA.VV., Dizionario biografi co degli italiani, Istituto idell’Enciclopedia Italiana, Roma, vol. 14 (1972), p. 731.38 F. RUSSO, Il libro della Repubblica de’ Vinitiani tradotto in tedesco: aspetti della circolazione del modello di “Res publica mixta” in area germanica fra il XVI e il XVII secolo, in AA.VV.,
«Annali dell’Università Suor Orsola Benincasa», Università Suor Orsola Benincasa, Na-
poli 2012, vol. 1, pp. 248-270.39 Respublica Venetum. Der grossen Commun der Statt Venedig. Ursprung, Erbawung, Aufne-mung [..]aus italienischer Sprach verdeutscht, Neuburg an der Donau, 1557.t
16 FRANCESCA RUSSO
Pope and to the Hapsburgs40. This translation is devoted to Otto Hein-
rich von der Pfalz, who was trying at the time to create in Palatinate a
new model of State, and Giannotti’s essay seemed to the translator to be
a good institutional guide for his Prince41. In the Preface the author is not
mentioned, but Kilian affirmed that he had received that book eleven
years ago and afterwards he decided to translate it into German, consid-
ering the content extremely useful42. Another aim stressed by Kilian is
the need to stop Turkish expansion throughout Europe43. This should be
the task pursued by the renewed Christian States, after having defeated
the Pope, called the Antichristus and the Emperor44.
The Libro de la republica de Vinitiani was published in 1571 in Frank-ifurt by another editor Sigmnud Feyerabend45. The same edition was in
1574 again given to the print together with an interesting edition of Thelife of the Doges, written by Heinrich Kellner, in order to show the stabil-
ity of Venetian institutional model46. Kellner knew perfectly the institu-
tional tradition of Venice, since he lived there for a while. He had studied
law at the University of Padua47.
Giannotti’s essay was again translated into German and published by
Hieronymus Megiser in Frankfurt in 1602 and in 161648. The editor was
40 Ibidem.41 Ibidem.42 Ibidem.43 Ibidem.44 Ibidem; F. RUSSO, Il libro della Repubblica de’ Vinitiani tradotto in tedesco: aspetti dellacircolazione del modello di “Res publica mixta” in area germanica fra il XVI e il XVII secolo,
cit., pp. 256-259.45 Respublica. Der Herrlichen Statt Venedig Ursprung, Anfang, Auffnemung, Erbawung ihrer Herrschaft, Erweitterung, Regiment, Ordnung, Rüstung, Einkommens und Außgebens, auch wie sie sich undereinander von Anfang biß auff diese Zeit unzertheilt in Einigkeit erhalten ha-ben und noch erhalten. Allen hohen und niedriges Standts sehr nützlich zu wissen und zu lesen,
Feyerabendt-Schmidt, Franckfurt am Main 1571.46 Respublica. Das ist: Warhaffte eigentliche und kurze Beschreibung der herrlichen und weltbe-rümpten Statt Venedig[...], Feyerabendt-Schmidt, Franckfurt am Main 1574, pubblicato
insieme a H. KELLNER, Chronica. Das ist: Warhaffte eigentliche und kurze Beschreibung aller Hertzogen zu Venedig Leben[...] von dem ersten biß auff denn jetzt regierenden, Feyerabendt-
Schmidt, Franckfurt am Main 1574.47 F. RUSSO, Il libro della Repubblica de’ Vinitiani tradotto in tedesco, cit., p. 262.48 Venediger Herrligkeit und Regiment. Das ist: Wahrhaffte [...]Beschreibung der [...] Statt Venedig, Alles aus Italienischer in unser Deutsche Sprach von einem Liebhaber der Historien mit Fleiß ubersetzt und in Druck gegeben. Durch Hieronimus Megiser, Franckfurt, Joachim rBrathering, 1602; Respublica Venetorum. Das ist Wahrafftige unnd außführliche Beschreibung der fürtrefflichen hoch weitberühmten Stadt Venedig, sampt derselben inner unnd eusserlichen Herrligkeiten, prächtigen Gebäuwen, schönen Kirchen und Klöstern, grössen Städten, starcken Vestungen, mechtigen Herrschaften zu Wasser und zu Land [...]Alles aus Italienischer in unser
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 17
an historian and a linguist49. He enjoyed living in Venice for some years
and he studied law in Padua as well50. He considers in any case, Venice as
the perfect model of balanced Constitution51. In Megiser’s editions also
the charming of the city appeared, as the author was a political writer
but also an enthusiastic traveller and describer of the beauties of the
places that he visited52.
In 1669, there was a “last” edition of Giannotti’s essay published in
German states53. It was deeply connected to the historical happening of
Candia, and Venetian people were described in the preface such as the
examples of the perfect heroes. They in fact resisted for a long time to
Turkish attack. Giannotti’s name is mentioned, such as it was in Megis-
er’s edition54.
In 1631 a translation into Latin of Libro de la republica de’Vinitianiappeared in Leiden55. This edition is very important, as Latin was still
the language of European intellectuals and made it possible for the text
to become a well known essay throughout Europe. Shortly afterwards in
fact a translation of it into Dutch was given to the print in Amsterdam
in 1667, related to the Latin edition56.
Deutsche Sprach von einem Liebhaber der Historien mit Fleiß ubersetzt und in Druck gegeben. Durch Hieronimus Megiser, Grosse, Leipzig - Frackfurt am Main 1616.r49 M. DOBLINGER, Hieronimus Megiser Leben und Werken, «Mitteilung des Instituts für
Österreichische Geschichtsforschung», 30 (1905), pp. 431-478; L.T. ELZE, Megiser Hie-ronimus, in AA.VV., Allgemeine Deutsche Biographie, Band XXI, Duncker und Humblot,
Leipzig 1885, pp. 183-185; A. FRIGGIERI - T. FRELLER, Hyeronimus Megiser: the man and his work, in H. MEGISER, Malta, the Bulwark of Europe, A. FRIGGIERI - T. FRELLER (edited R
by), Gutemberg Press, Malta 1988, pp. 4-13.50 F. RUSSO, Il libro della Repubblica de’ Vinitiani tradotto in tedesco, cit., p. 265.51 Ibi, pp. 266-267.52 Ibi, pp. 267-268.53 Respublicae Venetiae. Das ist: der welt-beruffenen Stadt Venedig, und selbiger Signoriae Ur-sprung[..]in einem anmuthingen Gespräch zweyer Adels-Personen erörtet; Deme beygefügt, Der Venetianer und Türcken Niederlags- Register, die Vestung Candia betreffend, Durch Donatum Giannotti Florenthinern, s.l., 1669.54 Ibidem.55 D. GIANNOTTI, Dialogi de republica venetorum cum notis et lib. Singulari de forma eiusdem Reip cum privilegio, ex officina Elzeviriana, Ludguni Batavorum 1631.56 D. GIANNOTTI, Het Gemeene- Best van Venetia, of naaukeurige Beschrijving van de
Stadt, sahet Rijk van Venetia; hasr onderhoorige Steden, Eylanden, der selver standt, ge-
legentheydt, vrugtbaarheydt, en rijkdommen [...] uyt het Latijn verduyts, S. IMBRECHTS
(a cura di), Boeckderkooper, Amsterdam 1667.
18 FRANCESCA RUSSO
Giannotti wanted with Libro de la republica de’Vinitiani to describe ve-inetian Constitution, as itself, but also as a political model for Florence57.
In one of his letters in 1538, he cleared out that he wanted to give to the
print his essay, to contribute to the political struggle for republicanism
in Italian states and to help Florence, to reflect upon republic, even if,
after 1537 it seemed extremely difficult that it could come back again in
his beloved homeland58. He did not want to lose his hopes. Giannotti’s
work is an humanistic dialogue among Giovanni Borgherini and Trifone
Gabriello59. It is dedicated to Francesco Nasi. He was one of his best
friends, a Florentine republican activist, who, in 1527, took part of the
riots in favour of Florentine republic60. In the Preface to his work, Gi-
annotti wrote some criticisms towards the so-called “wise men” of his
time who used to praise the values and the habits of the ancients, without
following their example61. Giannotti believed that it was necessary to be
endowed with political virtues in the present and not only to praise them
as qualities of the past62. For this reason, he said, he decided to write
this work, because Venice, with its Constitution represented the embod-
iment of the perfect balance of power, of the stable mixed republic of his
time63. As Rome, described by Machiavelli in the Discourses upon the fi rst ten books of Titus Livy, represented a good model of mixed republic in the
past, Venice was the model of mixed Constitution in present times64. The
aim of the author is therefore to describe perfectly this model, by the
dialogue between Gabriello and Borgherini, in order to learn as much as
possible, about the inner mechanisms and the political dynamics of the
Serenissima, and to imitate its Constitution65. Venice was a peaceful, rich
and long-lasting republic, where the power was organized conveniently.
It was indeed a model to follow66. Giovanni Borgherini, who was in the
reality one of the author’s closest friend and the son- in-law of Niccolò
57 G. SILVANO, La “Republica de’ Vinitiani”. Ricerche sul repubblicanesimo veneziano in età moderna, Prefazione, Leo S. Olschki, Firenze 1993.58 Letter of Donato Giannotti to M. Antonio Michieli, (Comeano, 30th June 1533, in
Biblioteca Ambrosiana, Segnatura D.191 INF. Unità Codicologica 6).59 D. GIANNOTTI, Libro della repubblica de’ Viniziani, ini ID., Opere politiche, F. DIAZ (a cura
di), Marzorati, Milano 1974, pp. 29-151.60 G. SANESI, La vita e le opere di Donato Giannotti, Fratelli Bracali, Pistoia 1899, pp. 45-i47.61 D. GIANNOTTI, Libro della repubblica de’ Viniziani, ini ID., Opere politiche, cit., p. 29.62 Ibidem.63 Ibi, p. 30.64 Ibidem.65 Ibi, p. 31.66 Ibi, p. 32.
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 19
Capponi, wanted to know in details the structure and the interior work-
ings of Venetian Constitution. So he asked to Trifone Gabriello many
questions about it in an imaginary dialogue, located by the author at
Pietro Bembòs place67. In the whole work all the government bodies
operating in Venice are described by Trifone Gabriello68. The libro de la republica de’Vinitiani is a juridical scholarship essay, because it contains a ivery detailed description of several institutions participating to venetian
constitutional system, and a deep analysis of their political role. The so-
cial reality that was located behind the institutions is also by the author
carefully considered69. Giannotti followed in this work the teaching of
Aristotle, more than the one of his friend and master Machiavelli. The
author of Libro de la republica de’ Vinitiani strongly believed that the di-ivision of social classes was the anchorage of a balanced Constitution70.
He nevertheless recognised the important role played by the aristocracy
in the venetian society, even if he insisted on the necessity of creating a
system of checks and balances to avoid that a class becomes too much
important71. He also highlighted the role of the Censori, a magistracy cre-iated to prevent ant to fight corruption, to avoid that one family or one
single person took on an excessive power72.
On the contrary, Machiavelli did not like venetian Constitution, as
Felix Gilbert had underlined in his studies73. He believed that it had the
formal shape of a mixed republic, but it did not really coincide with the
theoretical model of a balanced mixed republican Constitution, because
of the overwhelming power of aristocracy74. Giannotti considered, in-
stead, Venice, a good representation of the Aristotelian-Polybian model
of mixed Constitution, composed by the three main forms of govern-
ment: democracy, aristocracy and monarchy75. The main magistracies,
described by Trifone Gabriello, following the hints derived by the ques-
67 Ibidem.68 Ibi, pp. 29-151.69 Ibidem.70 Ibi, pp. 53-54.71 Ibi, p. 53.72 Ibi, p. 85.73 F. GILBERT, Machiavelli e Venezia, in Machiavelli e il suo tempo, Il Mulino, Bologna 1996,
pp. 319-334.74 Ibidem.75 V. CONTI, The mechanization of virtue: republican rituals in Italian political thought in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, in AA.VV., Republicanism. A shared European heritage.The values of republicanism in early modern Europe, vol. 2, M. GELDEREN - Q. SKINNER (ed-R
ited by), Cambridge University Press, Cambridge 2002, pp. 73-84; Q. SKINNER, Political philosophy, in AA.VV., The Cambridge history of Renaissance philosophy, E. KESSLER - J.
20 FRANCESCA RUSSO
tions of Giovanni Borgherini were, in fact, Consiglio Grande, Consigliode’ Pregadi, Collegio, Doge. These magistracies correspond to the classical
pattern of the government of the many, of the few, of the single one76.
The Libro della repubblica de’Vinitani had a remarkable success in the
Italian states and in Europe. It was the only one among Giannotti’s woks
that had been published during his life time77.
Donato Giannotti played a very important political role in the last
Florentine republic (1527- 1530)78. When on 16th May 1527 the rebel-
lion in Florence against the Medici’s government blew up, Giannotti
was still in Venice where he remained for a while. The uprising was also
a consequence to the Sack of Rome made by the Landsknechts troops79.
The Medici were sent away from Florence and the republic was re-
stored80. Niccolò Capponi was elected as gonfaloniere81. Giannotti was
asked by him to send a summary of Venetian Constitution to Florence,
as a contribution for a new constitutional project82. He decided after-
wards to set to Florence, where he arrived in July83. On 23 September
1527 he received from Niccolò Capponi the role of Secretary to the Tenof Freedom and Peace, taking on the same position that Machiavelli had
practised in the former Florentine republic, finished in 151284.
Giannotti was charged with many important difficult duties and his
work as Secretary to the Ten was extremely awkward, because Florence
was divided into political factions and the international situation of the
time, most of all referring to Italian states, was very complicated. In
fact, the Florentine republic had a hard life to survive85. He was asked
by Niccolò Capponi to write a proposal for a Constitution for Florence,
in order to prevent the political struggle inside the city and settle peace-
ful relationships among the citizens. Following the Aristotelian-Polybian
model and most of all the contemporary example of the Constitution of
KRAYE - C.B. SCHMITT - Q. SKINNER (edited by), Cambridge University Press, New York R
- Melbourne 1988, pp. 434-435.76 D. GIANNOTTI, Libro della repubblica de’ Viniziani, in i ID., Opere politiche, cit., pp. 52-62.77 F. RUSSO, Il libro della Repubblica de’ Vinitiani tradotto in tedesco, cit., pp. 248-270.78 A. D’ADDARIO, Alle origini dello Stato moderno in Italia. Il caso toscano, Le Lettere, Fi-
renze 1998, p. 124.79 Ibi, pp. 124-125.80 Ibidem.81 Ibi, p. 126.82 S. MARCONI, Giannotti Donato, cit., p. 529.83 Ibidem.84 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., p. 83.85 Ibi, pp. 83-84.
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 21
Venice, that he knew extremely well he wrote his proposal for Niccolò
Capponi in 1528: the Discorso sopra il fermare il governo di Firenze86.
In the same year, he also wrote Il Discorso di armare la città di Firen-ze, to give an answer to the military needs of his city87. In this essay the
teachings of Niccolò Machiavelli were strongly evident88. The political
life of Florentine republic was conflicted and Capponi was deeply criti-
cized. The struggle between the moderated republicans and the people’s
faction raised on89. In April 1529 Niccolò Capponi, considered by the
public opinion too near to the moderated faction was, a result of the
conflict, removed from his office90.After him a new gonfaloniere was elected: Francesco Carducci. He was
near to the popular faction and he remained at his office until December
152991. He was then substituted by Raffaello Grolami, who was the last
gonfaloniere of Florentine republic and remained in power until the final
defeat of the republic, after the “great siege” of the city, that lasted for
a long term, thanks to the strong opposition of Florentine republicans
towards the military attacks of Medici’s coalition92.
Donato Giannotti remained in his role of Secretary to the Ten, also un-
der the gonfalonierati of Francsco Carducci and Niccolò Capponi, even
if he did not agree with their political perspective93. He played also a
very important role in the defence of Florence at the time of the “great
siege”, fighting against the huge armies of the Hapsburgs who were sup-
porting the attempts to restore the Medici’s government in Florence,
according to the agreement with Pope Clement VII94. He remained loy-
al to the republic and he did his best to organize the resistance of it
against the troops, who were trying to invade the city95. In this difficult
circumstances, he became a good friend to Michelangelo Buonarroti,
who was a fervent supporter of Florentine republic and took part to the
86 D. GIANNOTTI, Discorso sopra il fermare il governo di Firenze, in ID., Opere politiche, pp.
153-166.87 D. GIANNOTTI, Discorso di armare la città di Firenze, in ID., Opere politiche, cit. vol. 1,
pp. 167-180.88 Ibidem.89 A. D’ADDARIO, Alle origini dello Stato moderno in Italia. Il caso toscano, cit., p. 13290 Ibidem.91 Ibidem.92 G. SILVANO, Florentine republicanism in early sixteenth century, in AA.VV. Machiavelli and republicanism, G. BOCK - Q. SKINNER - M. VIROLI (edited by), Cambridge University
Press, Cambridge 1990, p. 65.93 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., pp. 98-90.94 Ibidem.95 Ibidem.
22 FRANCESCA RUSSO
long struggle to defend it96. He was also in charge for the republic of
reinforcing the fortifications of the city. He developed some projects and
it is impossible to know if they were completely built up. Giannotti and
Michelangelo remained friend during their whole life. The great artist is
also one of the main character of a later work of Giannotti’s Dialogi de’ giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e’l Purgatorio97.
The siege of Florence ended on 12th August 1530, when the imperial
army, commanded by Ferrante Gonzaga entered the city. Bartolomeo
Valori, as commissary of Pope Clement VII imposed a strict treaty of
surrender for the republic, where the Emperor Charles V was recognised
as the only arbitrator of the city’s political future. On October 1530 he
decided to give Alessandro de’ Medici, Duca di Penne, an illegitimate
son of the Pope, the ruling role in the city98. Although Alessandro was
not formally recognized as Duke of Florence by Charles V, he was, as a
matter of fact, the new master of the city and in the diploma issued by
the Emperor the hereditary character of the Medici’s Signoria in Flor-
ence was clearly recognized99. Charles V wanted to support Alessandròs
power, so he later on decided to give his daughter Margareth’s hand in
marriage to the Lord of Florence. The opposition to Alessandròs gov-
ernment was very intense100.
Donato Giannotti did not have the chance to express openly his po-
litical ideas. Being one of the leaders of the defeated republic, on 17th
October 1530 he was imprisoned101. He was inflicted severe pains and he
almost lost his life102. On 17th December his imprisonment was changed
into a condemn of three years of exile, thanks to a bail paid by his friend
Niccolò Ardinghelli for him103. He decided to spend his period of exile
in the property that he owned together with his brother Giannotto in
Comeano. There, he lived a life of hardship for lack of money, but he
consoled himself fr om the practical concerns, devoting himself to the
study104.
96 Ibi, p. 91.97 D. GIANNOTTI, De’ giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e’l Purgatorio, D. REDIG
DE CAMPOS (edizione critica a cura di), Sansoni, Firenze 1939.98 J.N. STEPHENS, The fall of the Florentine Republic, Clarendon Press, Oxford 1983, pp.
222-230.99 Ibidem.100 Ibidem.101 B. VARCHI, Storia fi orentina, vol. 2, L. ARBIB (a cura di), Società editrice delle Storie del
Varchi e del Nardi, Firenze 1843, p. 513.102 Ibidem.103 Ibidem.104 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., p. 96.
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 23
His literary interests seemed to be at the time more important to him
than the political reflection, also because he tried many times to ask the
Pope for a clemency measure. He wanted to pretend that he was giving
up for his political republican passions in order to write some “neutral”
writings. He did not succeed in his aim105.
In 1533 his personal situation became even worse. His conditions of
exile changed and he was compelled to go to Bibbiena106. Several attempts
were made to find a reconciliation with the Medici, but they yielded no
results. Only in 1535 his situation changed but he was just able to come
back to a more comfortable situation in Comeano, thanks to the help of
Cardinals Ridolfi, Cesi e Della Valle107. In 1534 Pope Clement VII died
and the Florentine republicans started to hope about the possibility of a
changing in the situation of the government in Florence108.
A formal trial in Naples, in front of the Emperor Charles V was
opened, with the aim to charge Alessandro de’ Medici formally of ty-
rannical behaviour in Florence, of ruling against the traditions of free-
dom of the city. Alessandro was also considered an illegitimate ruler.
The charges against Alessandro were expressed by Jacopo Nardi and the
“Duke” was defended by Francesco Guicciardini109. The latter won the
trial and Charles V ended up the discussion endorsing formally Alessan-
dròs position, which seemed to him a more reliable ally then the repub-
licans to hold up his plans in the Italian peninsula110. Nevertheless, the
republicans obtained an inferior benefit, such as an amnesty for those
who had been sentenced to confinement111. Giannotti was one of them.
Consequently, on March 1536 he achieved the permission to come back
to Florence. He did not take this opportunity too often112.
He preferred to spend his time in the countryside, away from Floren-
tine politics, as he didn’t want to be involved anymore in the institutions.
It is extremely interesting to consider the writings of this period, even
if the great part of his works remained incomplete and some of them
105 Ibidem.106 Ibi, p. 100.107 R. STARN, Donato Giannotti and his Epistolae. Biblioteca Universitaria Alessandrina, Rome, Ms. 107, in «Travaux d’Humanisme et de Renaissance», vol. 47, Droz, Genève 71968, pp. 68-69.108 R. VON ALBERTINI, Firenze dalla Repubblica al Principato, cit., p. 205.109 Ibi, pp. 205-206.110 Ibidem.111 Ibidem.112 S. MARCONI, Giannotti Donato, cit. p. 531.
24 FRANCESCA RUSSO
were dispersed (maybe also destroyed by Giannotti himself who was
afraid of their “dangerous” political meaning)113.
At the very beginning of his exile Giannotti devoted himself most of all
to literary works114. Between January and March 1531 he composed the
firsts two acts of the play Il vecchio amoroso. This work was supposed to be
written for Alessandro de’ Medici, but, when it was finished in 1536, it was
dedicated to the author’s friend and republican exile Lorenzo Strozzi115.
Giannotti was at the same time studying the Aristotle’s philosophy,
and translating Tolomeòs Quadripartitum116. From his letters, one can
learn that he also wrote a tragedy about the passion of Christ and in 1533
a tragedy about the story of Brutus, that he sent to his friend Lorenzo
Strozzi. The latter was cooperating to the drafting of the work upon Bru-
tus117. Unfortunately this work is nowadays lost.
In 1535 he wrote Il Discorso delle cose d’Italia al santissimo padre e nostro Signore Papa Paolo III. In this work, the author addressed himself directly
to the new Pope, Paolo III, Alessandro Farnese, who represented a hope
for the Florentine republicans. He was in fact an enemy of the Emperor
Charles V and he could help them in their attempt to upset the Medici’s
power. The words written by Giannotti in this essay were really passion-
ate. He wrote a heartfelt appeal to the Pope to organize an alliance of the
Italian States supported by France and England, in order to fight against
the Habsburgs, to avoid that Italy becomes an exclusive domain held by
Charles V. He was indeed afraid that Italian States were near to lose com-
pletely their independence.
Another work composed during the time of the exile is: Della repubblicafi orentina. Giannotti started to write his essay devoted to the issue of the
model of government to settle in Florence in 1531, meaning to dedicate
his work at the very beginning to Pope Clement VII. Of course, the repub-
113 F. RUSSO, L’idea di res publica e pensiero anti-tirannico in Donato Giannotti negli anni dell’esilio, in AA.VV., «Annali dell’Università Suor Orsola Benincasa», Università Suor
Orsola Benincasa, Napoli 2009, vol. 1, pp. 207-222.114 Ibidem.115 D. GIANNOTTI, Il vecchio amoroso, in N. BORSELLINO (a cura di), Commedie del Cinque-cento, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 3-83; T. PICQUET, Le theatre du Cinquecento et la crise de la famille. Donato Giannotti, le vieillard amoureux, in AA.VV., «Theatres du monde»,
Theatre et societé: la famille en question, Études recueillies et présentées par Maurice Abite-
boul, Université d’Avignon, 6 (1996), pp. 15-28.116 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., pp. 98-100.i117 D. GIANNOTTI, Lettere italiane, F. DIAZ (a cura di), Marzorati, Milano 1974, p. 26; R.
RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., pp. 97-98; i W.J. LANDON, Lorenzo di Filippo Strozzi and Niccolò Machiavelli. Patron, client and the “Pistola fatta per la peste”,
University of Toronto Press, Toronto - Buffalo - London 2013, pp. 29-30.
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 25
lican feelings and the political choices of the authors were in favour of a
different solution for the Constitutional orders of the city, from the one
that was going on under Alessandro de’ Medici’s rule. The perfect model
to Donato Giannotti always remained the mixed republican Constitution,
drafted by Aristotle and Polybius and Machiavelli, and embodied in his
contemporary times by the Republic of Venice. So in the following years,
in the new drafts, Giannotti’s republican proposal became more clear
and the author felt completely detached from any commitment to the
Medicis. His essay Della repubblica fi orentina went under several reviews aand afterthoughts. There was a second draft around 1532 and a general
review around 1538, but the author kept on rewriting parts of it during
his life time118. He never published it. Nonetheless, there was a project
to edit this work in France. The author gave the manuscript to Jacopo
Corbinelli, who was in exile. This project yielded no result and Giannotti
fearing for his own life, asked Corbinelli to send him back the manuscript
(a copy of the original one), because he knew that the political content of
his work was too “dangerous” for him. He preferred to avoid to have new
disagreements with the imperial-Medicean side119. The work was in effect
published long after Giannotti’s death. It was printed in 1721 in Venice,
by Gabriel Hertz120. It is extremely interesting to examine shortly the con-
tent of Della repubblica fi orentina and the historical circumstances that lead aGiannotti to review the manuscript of his work newly around 1538121.
This treatise was really connected to the defeat of Florentine republi-
cans and it witnessed their hopes to transform the situation in Florence
and their political proposal for establishing a balanced structure of pow-
er122.
The historical circumstances in Florence had a sudden change on the
night of the Epiphany in 1537. On 6th January 1537, Lorenzino de’Medici,
cousin, courtier and trusted friend of the Duke, killed the Duke Alessan-
118 G. CADONI, Ancora sulla “Repubblica fi orentina” di Donato Giannotti: per una cronologia delle varianti d’autore, in «Storia e Politica», 19 (1980), pp. 1-27;. D. GIANNOTTI, Della Repubblica fi orentina, T.S. PICQUET (a cura di), Introduzione, Aracne, Roma 2011.119 P. CARTA, I fuoriuscitiA italianii e l’antimachiavellismo francese del Cinquecento, in «Il pen-
siero politico», 36 (2003), pp. 93-117.120 D. GIANNOTTI, Della repubblica fi orentina libri quattro, per Gio. Gabriel Hertz, Venezia
1721.121 D. GIANNOTTI, Repubblica fi orentina, G. SILVANO (a critical edition and introduction
by), Droz, Genève 1990, pp. 67-68.122 G. CADONI, L’autocritica di Donato Giannotti, in ID., Crisi della mediazione politica econfl itti sociali. Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini e Donato Giannotti di fronte al tramonto della “Florentina Libertas”, Jouvence, Roma 1994, p. 237.
26 FRANCESCA RUSSO
dro123. That was an unexpected event. Lorenzino acted almost alone, with
the help of a servant, taking advantage of his proximity to Alessandro and
of the Duke’s trust124. He then locked in his room the Alessandròs corpse
and escaped from Florence, to bring the happy news of the Tyrant’s death
to the Florentine republicans who were in exile, the so-called fuoriusciti,iand most of all to Filippo Strozzi, their political leader125. At the very be-
ginning they could not believe him. He was considered such as a good
friend, almost a servant of the Duke and it seemed impossible that he had
changed his mind and killed him126. But soon after, the unexpected news
of Alessandròs death spread itself quickly from Florence, and a new wave
of hope arose among the opponents of the Medici’s regime127. Lorenzino
was celebrated for his audacity. He was considered the homeland’s libera-
tor, and named and praised as the “Florentine Brutus”128.
In the meantime in Florence, the proposal made by Innocenzo Cybo
to have Alessandròs five years old son recognized as ruler of the city was
rejected. The Quarantotto (the Florentine council) approved Francesco
Guicciardini’s proposition to call Cosimo de’ Medici as Capo primario del governo della città129. That solution was considered weak by the fuoriusciti,being Cosimo a very young man, but it proved to be a successful choice
for the Medici. On 1559 Cosimo became the first Grand Duke of the
whole Tuscany, and his power on his State was thus formalized130.
In 1537, The fuoriusciti tried to put together an army to overthrowithe young Cosimo and to bring back the republican free institutions in
Florence, but it took them a long time to overcome their inner divisions.
They created an army lead by Filippo Strozzi, but it was too late, because
Cosimòs power was already settled131.
When the battle took place in Montemurlo, in late July 1537, the
Medicis front was in a more favourable situation. The republicans were
finally defeated and on 1 August 1537 and Filippo Strozzi was taken as
prisoner. He then committed suicide.
It was a bitter disappointment for the republicans and it was the last
real chance that they really had to overthrow the Medici’s power, even if
123 F. RUSSO, Bruto a Firenze. Mito, immagine e personaggio, cit., p. 286.124 Ibi, pp. 286-294.125 Ibi, pp. 293-295.126 Ibidem.127 Ibi, pp. 294-295.128 Ibidem.129 R. VON ALBERTINI, Firenze dalla Repubblica al Principato, cit., pp. 207-209.130 G. SPINI, Cosimo I e l’indipendenza del principato mediceo, Vallecchi, Firenze 1980.131 R. VON ALBERTINI, Firenze dalla Repubblica al Principato, cit., pp. 215-224.
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 27
many of them (and among them Giannotti) did not accept the Medici’s
government. They tried their best during their whole life to restore the
vivere civile, the republican institutions, in Florence. The fuoriusciti were
discussing animatedly among themselves after Montemurlo battle to as-
sign to one faction or to another (most of all the aristocrats against the
so-called popolari) the blame for the defeatii 132. The last draft of Della repub-blica fi orentina written in 1538 was affected by this controversial mooda 133.
Giannotti was not personally involved in the battle of Montemurlo, but
he had openly praised the tyrant’s death made by Lorenzino and he had
supported the effort of the republicans134. He hoped in the restoration
of political freedom in Florence135. He was bitterly disappointed by the
final defeat of the group headed by Filippo Strozzi136. He wrote in the last
review of his Della repubblica fi orentina his frustration and his criticisms aagainst Florentine aristocracy, because they did not give any real help to
the republicans137. Nevertheless, he did not want to give up his hopes for
Florence and he meant to enlighten his project for a better Constitution
for his city. This aim is well-rendered in the Dedication of the work, writ-
ten to the Cardinal Niccolò Ridolfi, as a symbol of the republican fac-
tion138. He was one of the leaders of the Florentine emigrants, opponents
to the Medici, with whom Donato Giannotti worked as secretary from
1539 until Ridolfi’s death in 1550139. He was very active in supporting the
hopes of fuoriusciti to overturn the Medici’s government and to restore
freedom in Florence. In the Dedication of Della repubblica fi orentina, the
author explained from the very beginning his passionate intent to fight to
set Florence free from tyranny140. He praised the role of the tyrant’s slayer,
who must be considered as a political hero, as someone who risks his life
132 P. SIMONCELLI, Fuoriuscitismo repubblicano fi orentino 1530-54 (volume primo-1530-37),
Franco Angeli, Milano 2006, pp. 246-335.133 G. CADONI, L’autocritica di Donato Giannotti, in i ID., Crisi della mediazione politica econfl itti sociali, cit., p. 237.i134 F. DIAZ, Introduzione, in D. GIANNOTTI, Opere politiche e Lettere italiane (1526-1571),
cit., p. 16.135 R. STARN, Donato Giannotti and his Epistolae, cit., pp. 138-143.136 Ibidem.137 G. CADONI, L’autocritica di Donato Giannotti, in i ID., Crisi della mediazione politica econfl itti sociali, cit., p. 237.i138 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., p. 109;i D. GIANNOTTI, Della Repubblica fi orentina, T.S. PICQUET (a cura di), cit. p. 3.139 F. RUSSO, L’idea di res publica e pensiero anti-tirannico in Donato Giannotti negli anni dell’esilio, cit. pp. 212-213.140 R. RIDOLFI, Sommario della vita di Donato Giannotti, cit., p. 109.i
28 FRANCESCA RUSSO
to help his community141. But it was not enough. In fact, if the republic
had been well-organized, before the establishment of tyranny, it would
have been just necessary to kill the tyrant and restore the free institution,
in order to let political life resume its natural and peaceful functioning142.
On the contrary, if the republic, before the tyrant had assumed the power,
had been very badly organized, it would not have been enough to kill the
tyrant, but it would have been extremely important to reform the institu-
tions, to help the republic to survive for a long time143.
That was really the particular case of Florence according to Giannotti.
The evidence of this statement was given from the failure of the previous
republics (1494-1512; 1527- 1530)144. By his personal political experience,
the author stated that these republics failed in giving themselves well-bal-
anced Constitutions, that could be able to contain social conflicts145. So
when the political international situation was not favourable and they
were under attack, they fell apart because they were already weakened by
the fight among the internal factions146. It is thus extremely important for
the author to write a proposal of Constitution for Florence. It is necessary
to set the city free from the Medici’s tyranny, but also to provide a new,
strong and balanced institutional order for the republic to come. That is
the main aim that Della repubblica fi orentina should achievea 147. Giannotti
wanted to give his contribution for the liberation of his homeland. His
political experience and his theoretical competence were well-mixed in
his essay, that witnessed his enduring faith and hope for Florence, even if
he was extremely disappointed by the happenings of Montemurlo, and by
the betrayal of Florentine aristocracy, who preferred the Medici’s rule to
the free institutions148.
In the first book of Della repubblica fi orentina, Giannotti portrayed Flor-
ence as a city possessing all the qualities described by Aristotle for the es-
tablishment of a mixed Constitution. He also wanted to demonstrate that
this kind of Constitution was the best one. He invoked Polybius’ authority
141 D. GIANNOTTI, Della Repubblica fi orentina, T.S. PICQUET (a cura di), cit. pp. 3-6.142 Ibidem.143 Ibidem.144 Ibi, pp. 47-113.145 Ibidem.146 Ibidem.147 Ibi, pp. 193-243.i148 Ibi, p. 243.i
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 29
to explain his convictions149. Giannotti strongly believed that a mixed re-
public was the model to establish in Florence150.
It represented better than any other kind of government the different
umori (social and political factions) living in the city and it succeeds in
harmonizing them at best. The “mixture” should, according to Giannotti,
be arranged not in an equal way, but so that one part comes first, and
the others follows in a prescribed sequence. The government should not
lean to the aristocrats, because there could be the danger that they would
aspire to rule alone. It should be better to have a predominance of the
popular faction, in order to preserve free institutions. Giannotti also want-
ed to establish a long-life gonfalonierato and a milizia propria, made by the
citizen’s who are convened to defend their freedom.
His constitutional theory is very developed and following his political
experience, his knowledge of history, and also the model of Venice and
referring himself to his main authors (Aristotle, Polybius, Machiavelli),
he described a new political order for the Florentine republic to be es-
tablished. He strongly believed that it was important that the people who
gave the advices in the republic were not the same called to decide upon
the same issues. Giannotti never published his essay Della repubblica fi oren-tina during his life. It has been published in Venice in 1721a 151.
In 1539 he moved to Rome where he started to work as secretary for
Cardinal Niccolò Ridolfi, one of the most important leaders of Florentine
fuoriusciti152. Giannotti hoped in Ridolfi’s support for his personal needs
but also for the liberation of Florence153. At the time of Pope Paul III,
Rome was one of the centres of the political opposition against the Medi-
ci154. This conspicuous political activity appears also from Giannotti’s
Epistolae published by Starn. In one of his letters (1541) he praised Loren-ezino de’Medici, the “Florentine Brutus” for his bravery155. In the Dialogi de’ giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e’l Purgatorio, written in
1546, Giannotti expressed again his admiration for Alessandro de Medi-
ci’s slayer and his faith in the killing of the tyrant as a political solution to
149 Ibi, p. 9-16.150 Ibidem.151 D. GIANNOTTI, Della repubblica fi orentina libri quattro, cit.152 F. RUSSO, L’idea di res publica e pensiero anti-tirannico in Donato Giannotti negli anni dell’esilio, cit. pp. 212-213.153 Ibidem.154 G. BENZONI, Paolo III, in AA.VV., Enciclopedia dei Papi,i vol. 3, Istituto dell’Enciclo-
pedia Italiana, Roma 2000, pp. 91-111; G. FRAGNITO, Paolo III, in AA.VV., Dizionario Biografi co degli Italiani, vol. 81, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2014.155 Cfr. R. STARN, Donato Giannotti and his Epistolae, cit., pp. 138-143.
30 FRANCESCA RUSSO
restore freedom. He showed to adhere to the myth of Brutus, following
the tradition of Florentine civic humanism156.
On the contrary, his friend Michelangelo, who was one of the main
character of this work, written as a dialogue, did not trust anymore in the
myth of Brutus that he had praised in his younger years157. He appeared
intensely disappointed towards the political situation in Florence and he
had lost his hopes for a republican restoration. He showed to be afraid for
the future158. He was worried about what could happen after the tyrant’s
death. So he stated that it was better to keep in power an unsatisfactory
Lord, than to kill him. One could always try to persuade him to change
his mind and rule better, instead of choosing an uncertain future. In fact,
after his death, there was always the risk of the blast of a civil war or
of having a worse ruler. Giannotti did not agree on his friend’s negative
opinion. He still hoped that a political change in Florence could happen159.
This work remained unpublished until 1859160.
In 1550 Ridolfi died. Giannotti started to work as secretary for Cardi-
nal François de Tournon and remained in his role up to 1562, when the
Cardinal died161. Tournon was a influential diplomat. He was in charge
to embody the interests of the monarchy of France at the Curia romana.He played a very important strategic role in the Italian peninsula162. He
encouraged the revolt of Siena against Spain in 1552, helping the republi-
cans to restore free institutions there under the shelter of France. This was
a very important occasion for the republicans to undermine the political
156 D. GIANNOTTI, De’ giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e’l Purgatorio, cit., pp.
96-97.157 Ibidem.158 Ibidem.159 Ibidem. See also A. RIKLIN, Giannotti, Michelangelo und der Tyrannenmord, Stämpfli, dBern - Wien 1996; trad. it., Giannotti, Michelangelo e il tirannicidio, cit; See also H. GRIMM,
Leben Michelangelos, Phaidon Verlag, Wien - Leipzig 1983, pp. 679-680; S. SARACINO,
Tyrannis und Tyrannenmord bei Machiavelli. Zur Genese einer antitraditionellen Auffassung politischer Gewalt, politischer Ordnung und Herrschaftsmoral, Wilhem Fink, München 2012, lp. 37; F. RUSSO, Bruto a Firenze. Mito, immagine e personaggio, cit., pp. 272-280; ID., L’idea di res publica e pensiero anti-tirannico in Donato Giannotti negli anni dell’esilio, cit., pp. 217-
219; P. SIMONCELLI, Antimedicei nelle “Vite” vasariane, vol. I, Edizioni Nuova Cultura,
Roma 2016, pp. 150-151.160 D. GIANNOTTI, De’ giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e’l Purgatorio, Tipogra-
fia Galileana, Firenze 1859.161 F. RUSSO, L’idea di res publica e pensiero anti-tirannico in Donato Giannotti negli anni dell’esilio, cit. p. 220.162 M. FRANÇOIS, Le cardinal François de Tournon: homme d’État, diplomate, mécène et hu-maniste (1489-1562), Boccard, Paris 1951; F. TOURNON, Correspondance (1521-1562), M.
FRANÇOIS (recueillée, publiée et annotée, par), H. Champion, Paris 1946.
POLITICS, POWER AND REPUBLICANISM IN FLORENTINE RENAISSANCE 31
balances in Tuscany163. They considered Siena as the first step towards
Florence. Unfortunately, the “war of Siena” ended in a defeat for the re-
publicans and for France.
In 1552, Giannotti wrote for the occasion a political essay Discorso so-pra il riordinare la repubblica di Siena164. In this work, he offered his tradi-
tional pattern of a mixed Republic, where the popolari were at the base
of the power. He underlined the urgent need of the institutional reforms.
Siena was a very corrupted city, and changing in the organization of the
institutions was necessary in order to be sure that political freedom could
survive165. The restored republic had there too many enemies. In fact, it
did not survive too long166.
After Tournon’s death, Giannotti moved to Venice, where he wrote,
probably in 1563, Sulla vita di Girolamo Savorgnano, following the model
of Sulla vita e sulle azioni di Francesco Ferrucci, written likely in 1547167.
They were both military biographies, describing the life of two fighters
who sacrificed their lives to defend their homelands168. Savorgnano died
for the Venetian Republic. Francesco Ferruci died to defend the last Flo-
rentine republic. They were celebrated as republican heroes169. Giannotti
wanted to leave with his works witnesses of republican virtues Never-
theless, he kept on writing about literature and about the history of the
Church. He reviewed his Epitomae historiae Ecclesiasticae170. In 1571 he moved to Rome, where he was given a role in the Curia
romana by Pope Pius V, but he was already very ill and he could not take
up his position. Soon afterwards, on 27th December 1573 he died171.
Donato Giannotti was one of the last witnesses of Florentine republi-
can tradition, that he tried to perpetuate with his political works. He had a
163 R. CANTAGALLI, La guerra di Siena (1552-1559): i termini della questione senese nella lotta fra Francia e Asburgo nel Cinquecento e il suo risolversi nell’ambito del principato mediceo,
Accademia degli Intronati, Siena 1962.164 D. GIANNOTTI, Discorso sopra il riordinare la repubblica di Siena, in ID., Opere politiche,F. DIAZ (a cura di), cit., pp. 443-455.165 Ibidem.166 F. RUSSO, L’idea di res publica e pensiero anti-tirannico in Donato Giannotti negli anni dell’esilio, cit. p. 221.167 Ibi, pp. 221-222.168 D. GIANNOTTI, Sulla vita e sulle azioni di Francesco Ferrucci, e Sulla vita di Girolamo Savorgnano, cit., pp. 433-441, pp. 457-470.169 Ibidem.170 S. MARCONI, Giannotti Donato, in Dizionario Biografi co degli italiani, cit., pp. 532-533; iG. CAMPBELL, Giannotti Donato in AA.VV., The Oxford Dictionnary of Renaissance, cit.,
2003, p. 334; D. HÖCHLI, Donato Giannotti, cit. pp. 110-111.i171 Ibidem.
32 FRANCESCA RUSSO
remarkable success with Libro de’la republica de’Vinitiani, which was for ailong time considered a reference text for the political writers who wanted
to reflect upon the model of mixed Constitution. All the translations of
this essay show the achievements of Giannotti’s efforts to leave a polit-
ical trace of the noble and estimated tradition of Italian republicanism.
Venice was to him the institutional model to imitate, even if, his com-
mitments, as a politician and as a political writer, were devoted mostly to
Florence and to Tuscany, where he hoped to see a republican restoration.
It did not happen. Giannotti had a European circulation with Libro de’la republica de’Vinitiani. He succeeded to gain a real “Italian” success during
his life with his treatise upon Venice and most of all, between the end of
Eighteenth and the beginning of Nineteenth century, when the issue of
republicanism came back into the political debate. He was rediscovered
and his works were published in several editions of collected works, in the
framework of a general research upon the cultural roots of Italian repub-
lican tradition.
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 33-66
Patronato regio y clientelismo cortesano.La p rovisión de dignidades y beneficios
eclesiásticos en la Italia de Carlos III de Austria, 1706-17141
ROBERTO QUIRÓS ROSADO2
La articulación de las monarquías ejecutivas en la transición entre los siglos
XVII y XVIII tuvo un elemento característico en el progresivo control de los
soberanos sobre las instituciones y beneficios eclesiásticos de sus reinos. Se
trataba de un histórico proceso, en cuyo repunte influyeron condicionantes
externos de honda relevancia. En el presente caso, se analizará la incidencia
de un conflicto dinástico, la guerra de Sucesión española, como factor de-
cisivo en la gestión regalista del reino de Nápoles y del Estado de Milán. A
través de una mirada comparada, este complejo proceso, bajo el protagoni-
smo del rey-emperador Carlos III/VI de Habsburgo, se observará como un
continuum en la construcción de la Italia austriaca.
The articulation of executive monarchies between 17th and 18th centuries
had a characteristic element. It was an historical process around the pro-
gressive royal control on the institutions and ecclesiastical benefits of its
kingdoms. This paper focuses on the Spanish War of Succession as decisive
factor in the administration of the regalismo in Naples and Milan. Through a
comparative view, this complex process would be analysed as a continuum in
the building of Austrian Italy under the reign of the King-Emperor Charles
III/VI of Habsburg.
Palabras clave: Italia. Milán. Nápoles. Casa de Habsburgo. Iglesia católica.
Regalismo.
Keywords: Italy, Milan, Naples, House of Habsburg, Catholic Church, Re-galismo
1 El presente estudio se inserta dentro del proyecto de la Dirección General de Investiga-
ción del Ministerio de Economía y Competitividad Sociedad cortesana y redes diplomáti-cas: la proyección europea de la monarquía de España (1659-1725) [HAR2015-67069-P
(MINECO/FEDER)].R
2 Universidad de Alcalá.
34 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
A lo largo de la Edad Moderna, un monarca católico no sólo había de
garantizar el culto entre sus vasallos, sino regir bajo los parámetros te-
ológico-políticos sus designios y los de la Iglesia allá donde su abarcase
su iurisdictio. Sin embargo, la justicia que el soberano representaba en sí
mismo también podía evidenciarse hacia aquellos eclesiásticos que no
respetasen su autoridad o la paz de sus estados3. Ésta era la moraleja que
Francesco Moles, duque de Parete y embajador del emperador José I en
Barcelona, imprimió a uno de los pareceres dados a Carlos III de Austria:
tomará Su Magestad las resoluciones más efectivas que le permite la
potestad económica que Dios le ha dado con los eclesiásticos pertur-
badores de sus reynos, y las mandará executar con visibles y rigurosas
demonstraciones4.
El origen de tal juicio no era otro sino el tradicional enfrentamiento
jurisdiccional que enfrentaba desde hacía siglos a gran parte de la elite
mitrada napolitana con el poder secular. En el verano de 1708, cuando
Moles conminaba a su señor natural ejercer una férrea presión hacia Fi-
lippo Anastasio, arzobispo de Sorrento, no sólo recordaba la salvaguarda
de la suprema auctoritas del príncipe gobernante, sino el ejercicio de un
mayor control sobre las diócesis que no dependían del patronato regio.
Ante el inminente estallido de un conflicto armado entre la Casa de
Austria y la Santa Sede por el control de Comacchio y las legacías ro-
manas en Emilia y Romagna, la posición de Carlos III, “rey católico de
las Españas” a todos los efectos, no podía demostrar fisuras ni debilidad
ante los valedores del poder pontificio en el Reame5.
3 Sobre los orígenes del regalismo dieciochesco dentro de la teoría y práctica político-
teológicas en la España de los Austrias, véase la síntesis de R. GÓMEZ RIVERO, El regalismo de los Austrias: derecho de presentación y patronato regio, en J.A. ESCUDERO LÓPEZ (dir.), La Iglesia en la historia de España, Fundación Rafael del Pino, Madrid 2014, pp. 549-561.
Asimismo, consúltese L. SALAS ALMELA, Patronato regio y rentas: la negociación de la gracia,
«Hispania Sacra», LII/106 (2000), pp. 423-456; y L.Mª. GARCÍA - BADELL ARIAS, Felipe V, la Nobleza Española y el Consejo de Castilla. La Explicación jurídica e histórica de la con-
sulta que hizo el Real Consejo de Castilla, atribuida a Macanaz, «Cuadernos de Historia
del Derecho», 12 (2005), pp. 125-149.4 Archivo Histórico Nacional (AHN), Estado, legajo 8689, parecer del duque de Parete,
Barcelona, 27 de junio de 1708.5 Sobre la cultura forense y política partenopea de dicho periodo, de un marcado carácter
anticurial, véase la clásica monografía de R. COLAPIETRA, Vita pubblica e clssi politiche del Viceregno napoletano (1656-1734), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1961; y, junto
a los trabajos de Ajello, Mastellone y Luongo, caben destacarse las recientes síntesis de
A. SPAGNOLETTI, Il dibattito politico a Napoli sulla successione di Spagna, en A. ÁLVAREZ -
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 35
La configuración del “regalismo” carolino constituye un proceso
poco conocido para la historiografía. Sólo recientemente, gracias a los
estudios de Marina Torres Arce José Solís, se ha dado comienzo a un
redescubrimiento de la perspectiva eclesiástico-regalista de la monar-
quía del último Austria español6ll . Por ello, a lo largo del presente ensayo
se analizarán las estructuras que, en Lombardía y Nápoles, gestionaron
la œconomía política y el patronato regio, sus problemáticas relaciones
con Roma y su mediatización por las elites cortesanas de Barcelona y
Viena hasta la firma de los tratados de paz de Utrecht, Rastatt y Baden.
1. Un patronato mediatizado: la mediatización del regalismo austriaco en el Estado de Milán.
La decisiva derrota borbónica en Turín, el 7 de septiembre de 1706,
ante las tropas coaligadas austro-saboyanas del príncipe Eugenio de Sa-
boya supuso el inicio del fin del dominio de Felipe V sobre el Estado de
Milán. El inesperado desplome del sistema defensivo lombardo puso en
las manos del vencedor la estratégica “llave de Italia”, culminando un
deseado control que la corte de Viena esperaba desde hacía decenios7.
OSSORIO ALVARIÑO (ed), Famiglie, nazioni e monarchia. Il sistema europeo durnte la Guerra di Successione spagnola, «Cheiron», 39-40 (2003), pp. 267-310, y A. MUSI, Politica e cultura a Napoli tra il crepuscolo del sistema imperiale spagnolo e l’avvento degli Asburgo d’Austria (1698-1707), en A. ÁLVAREZ - OSSORIO ALVARIÑO - B.J. GARCÍA GARCÍA Y V. LEÓN SANZ
(eds.), La pérdida de Europa. La guerra de Sucesión por la monarquía de España, Fundación
Carlos de Amberes. Sociedad Estatal de Conmemoraciones Culturales, 2007, pp. 785-
797.6 P. VOLTES BOU, Documentos para la historia del Tribunal de la Inquisición de Barcelona, durante la guerra de Sucesión, «Analecta Sacra Tarraconensia», 26 (1953), pp. 245-275;
J. SOLÍS, La organización del Santo Ofi cio y el nombramiento de inquisidor general por el archiduque Carlos (1709-1715), «Hispania», LXV/2/220 (2005), pp. 515-542; M. TOR-
RES ARCE, Inquisición, jurisdiccionalismo y reformismo borbónico. El Tribunal de Sicilia en el siglo XVIII, «Hispania», LXVIII/229 (mayo-agosto 2008), pp. 375-406; II ID., Otra herencia de los Austrias en la corte de los Habsburgo: la inquisición de Carlos VI (1705-1734), en J.
MARTÍNEZ MILLÁN - R. GONZÁLEZ CUERVA (eds.), La dinastía de los Austria: las relaciones entre la Monarquía Católica y el Imperio, vol. I, Polifemo, Madrid, 2011, pp. 289-334.7 Una visión de conjunto sobre las problemáticas político-dinásticas con reflejo en Milán
a comienzos del Setecientos se desarrolla en A. ANNONI, Gli inizi della dominazione au-striaca, en Storia di Milano, vol. XII, Fondazione Treccani degli Alfieri, Milano 1959,
pp. 1-267, y la más reciente a cargo de C. CREMONINI, Lo Stato di Milano nel Settecento: il lungo tramonto dell’Antico Regime, en AA.VV., Storia dell’Ambrosiana. Il Settecento, Ca-
riplo. Laterza, Milano 2000, pp. 1-53. Asimismo, para profundizar en la evolución del
gobierno de la Lombardía entre Carlos II y Felipe V, vid. C. CREMONINI, El príncipe de Vaudémont y el gobierno de Milán durante la Guerra de Sucesión española, en A. ÁLVAREZ -
36 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
La entrada pacífica del príncipe Eugenio en Milán el día 26 hizo
que la mayor parte del ministerio lombardo permaneciese fungiendo
de forma interina sus puestos. Pocos fueron los oficiales felipistas que
abandonaron la metrópoli junto con el gobernador general príncipe de
Vaudémont. Entre ellos se encontraba el economo regio Francesco Bel-
credi, descendiente de una familia de notarios y causídicos de Pavía que
habían adquirido relevancia política en Milán en las décadas anteriores.
Su progenitor, el togado Carlo Antonio Belcredi, accedió a la admini-
stración de la capital ambrosiana por medio de una plaza de secreta-
rio del Senado, entroncando en paralelo con el patriciado ciudadano
merced a sus dos matrimonios. Sus hijos prosiguieron dicha estrategia
nupcial, casando con los Gallarati, Silva y Barbavara, y promocionando
a puestos en las magistraturas intermedias y supremas. El primogénito
varón, Giambattista Belcredi, alcanzó una plaza de senador en 1705 y,
de allí, pasó a Madrid a servir como regente lombardo en el consejo su-
premo de Italia. El menor, el abate Francesco, fue provisto con un cano-
nicato ordinario en el Duomo milanés y se le hizo encargo de la cúspide
del Regio Economato (1704)8.
El servicio de los dos hermanos Belcredi a la Casa de Borbón supuso
el eclipse, definitivo para el ecónomo y temporal para el regente, de la
influencia de su familia en la vida político-religiosa de Milán. Sus bienes
fueron secuestrados por las nuevas autoridades austriacas y su digni-
dad económica se entregó a Francesco Visconti, hermano del general
cesáreo Annibale y del nuevo gran canciller, Pirro Visconti, marqueses
de Borgoratto9. Sin oficio ni bienes con que subsistir, el depuesto Fran-
OSSORIO ALVARIÑO - B.J. GARCÍA GARCÍA - V. LEÓN SANZ (eds.), La pérdida de Europa, pp.
463-490.8 Para más información sobre el servicio borbónico de los hermanos Belcredi, véase A.
ÁLVAREZ - OSSORIO ALVARIÑO, De la plenitud territorial a una prolongada agonía: el Consejo de Italia durante el reinado de Felipe V, en A.VV ÁLVAREZ - OSSORIO ALVARIÑO (ed.), Famiglie, nazioni e Monarchia, pp. 311-392: 349-352. El patriciado milanés de la Alta Moderni-
dad es el objeto de estudio, desde diferentes ópticas historiográficas, de las obras de F.
ARESE, Carriere, magistrature e stato. Le ricerche di Franco Arese Lucini per l’Archivio Storico Lombardo (1950-1981), C. CREMONINI (edición de), Cisalpino, Milano 2008; y C. CRE-
MONINI, Le vie della distinzione. Società, potere e cultura a Milano tra XV e XVIII secolo,
EDUCatt, Milano 2012.9 El canónigo Visconti acababa de regresar del destierro en Alessandria que le habían
impuesto las autoridades borbónicas. Archivio di Stato di Firenze (ASF), Mediceo del Principato, filza 3225, carta de Camillo Bondicchi a Francesco Panciatichi, Milán, 13 de
octubre de 1706.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 37
cesco Belcredi sólo pudo retirarse a Génova y lograr la expectativa de
pensiones felipistas merced a su naturalización “de español”10.
El cargo de Belcredi y Visconti, el Regio Economato, hundía sus raíces
en la Baja Edad Media, siendo gestado como un instrumento privativo
de los duques Visconti y Sforza para controlar las provisiones de obispa-
dos, abadías y beneficios eclesiásticos en tierras lombardas. Por medio
del economo, los duques se arrogaban la capacidad de aceptar o negar
las bulas pontificias mediante los consabidos placet ot exequatur sobera-rnos, además de gestionar las rentas vacantes de las prebendas religiosas
milanesas. Una relación del secretario Blas de Navarrete, de fines del
reinado de Carlos II, reseñó su primera gran reforma en 1529, durante
el gobierno disputado de Francesco II Sforza, quien tuvo que acomodar
el nombramiento del ecónomo en la persona que contase con el bene-
plácito pontificio. Ante tal colaboración de los poderes secular y ecle-
siástico, el duque logró que el papa no impidiese la interinidad de los
sujetos nombrados para el puesto. De esta forma, se solventó cualquier
problema jurídico hasta 1615, cuando se volvió a sancionar la praxis de
nombramiento conjunto entre el duque, ahora rey de España, y la Santa
Sede. Pese a ciertas fricciones durante el reinado de Carlos II – ya que
no se logró la aprobación romana a los provistos Luis Carrillo y Joseph
Casado –, el control monárquico sobre esta estructura de su patronato
se mantuvo inalterado hasta 170611.
La figura jurídica y la presencia política del ecónomo regio cobra-
ron relevancia en 1708. El reconocimiento de Clemente XI a Felipe
V como rey de España causó gran enojo entre los dinastas austriacos
desde 1701. Aunque el archiduque Carlos había sido investido como
Carlos III por su padre, el emperador Leopoldo, y a lo largo sucesivos
años había recibido la fidelidad de los reinos de la Corona de Aragón, el
Estado de Milán, el reino de Nápoles y parte de los Países Bajos españo-
les, Roma se había negado constantemente a acceder a su tratamiento
10 AHN, Estado, legajo 1668, expediente 4, carta del marqués de Monteleone a Felipe V,
Génova, 6 de febrero de 1707. La concesión de la naturaleza española para gozar bene-
ficios eclesiásticos, con la especificación regia de tenerle “muy presente en las ocasiones
que occurran expezialmente en Aragón y Valenzia”, se encuentra en AHN, Consejos supri-midos, legajo 4475, año 1707, expediente 89, consulta de la cámara de Castilla borbóni-
ca, Madrid, 5 de diciembre de 1707.11 B. DE NAVARRETE, Archivo de materias que comprehende e la Secretaría de Milán [Ma-
drid, c. 1691-1693], en M.C. GIANNINI - G. SIGNOROTTO (eds.), Lo Stato di Milano nel XVII secolo. Memoriali e relazioni, Ministero per i bene e le attività culturali. DirezioneiGenerale per gli archivi, Roma 2006, pp. 153-301: 206-211. Asimismo, véase la reciente
monografía setecentista de G. DELL’ORO, Il Regio Economato. Il controllo statale sul cleronella Lombardia asburgica e nei domini sabaudi, FrancoAngeli, Milano 2007.i
38 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
como “rey católico de las Españas”. La indignación de los Habsburgo
ante la renuencia pontificia a satisfacer sus demandas fue in crescendo a
lo largo del año 1707, durante el paso de las tropas imperiales hacia el
Reame por territorio pontificio, para degenerar rápidamente en un con-
flicto militar12.
Menos de dos meses antes de la entrada en Comacchio del ejército
del general cesáreo conde Claude Alexandre de Bonneval, llegaron a
Milán las órdenes del rey Carlos para secuestrar los frutos de beneficios
eclesiásticos gozados por aquéllos “esistenti fuor dello Stato di Milano”.
Las primeras noticias parecían indicar que las medidas podían prove-
nir de la necesidad de contar con conspicuas rentas para sufragar las
campañas militares, pero también como un mecanismo de coacción al
papa Clemente XI para reconocer al príncipe Habsburgo como legítimo
rey de España y mandar un legado a latere a la reina Isabel Cristina de
Braunschweig-Wolfenbüttel por su paso por la capital lombarda13.
Un decreto de Carlos III al arzobispo de Milán despejó todas las
dudas. Las súplicas del clero lombardo para que se cesasen las órdenes
barcelonesas serían echadas al olvido. La legislación punitiva hacia la
extracción de moneda a Roma y el secuestro de los frutos eclesiásticos
de los religiosos ausentes del Estado se hacían totalmente convenientes.
Más aún,
las resoluciones que he tomado sobre esta materia como fundadas en la
justicia, potestad económica que Dios ha dado a los Reyes en sus domi-
nios, y defensa natural de sus regalías, las deliberé con maduro acuerdo,
no hallando hasta aora razón, ni motivo alguno para revocarlas, bien sí
maiores argumentos para mantenerme constante en la puntual, y efecti-
12 D. MARTÍN MARCOS, El Papado y la Guerra de Sucesión española, Marcial Pons Historia,
Madrid 2011, pp. 126-138.13 Archivio Segreto Vaticano (ASV), Fondo Albani, 80, ff. 31v-32r, avisos, Milán, 24 de imarzo de 1708. Aprovechando el paso lombardo de la reina Isabel Cristina, y con-
siderando que podía ser una oportunidad fundamental para evitar el enfrentamiento
con los Habsburgo, se ordenó al cardenal Giuseppe Archinto, arzobispo de Milán, que
representase ante la misma “più distinta dimostrazione di stima, ad effetto di vie più
contestare verso l’Augustissima Casa quella sincera e paterna predilezione, con cui l’ha
sempre rimirata e la rimira” y que se bendecía su matrimonio con grandes expresiones
pontificias. A su discurso, el cardenal – pese a no tener la condición de legatus a latere – le
haría entrega de distintos presentes remitidos expresamente por Clemente XI, caso de
un “pezzetto del Santo Legno della Cruce di Nostro Signor Giesù Christo” proveniente
de la iglesia romana de Santa Croce in Gierusalemme. ASV, Fondo Albani, 106, ff. 36r-i37r, 40r-v, cartas del cardenal Fabrizio Paolucci al cardenal Giuseppe Archinto, Roma,
7 de abril y 30 de mayo de 1708.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 39
va execución de ellas, lo qual procuraré por todos los medios possibles,
como lo praticará también el señor Emperador mi hermano14.
El tenor de las palabras del soberano se corresponde con la argumenta-
ción política esgrimida por el duque de Parete para garantizar la auto-
ridad regia sobre los díscolos prelados napolitanos. Así, el artífice de las
medidas ejecutivas no era otro que el propio embajador cesáreo, buen
conocedor de las realidades políticas, económicas y sociales de su Nápo-
les natal y de Milán, tierra donde ejerció el cargo de gran canciller y
donde estableció vínculos de sangre15.
Con la respuesta al purpurado metropolitano cristalizó la ofensiva
contra Roma y se autorizó al ecónomo regio y sus ministros delegados
a proseguir su tarea de control y secuestro de las rentas y el capital lom-
bardos, cuyo destino alcanzaba la Urbs16. Era una abierta demostración
de fuerza y de autoridad, y sólo el reconocimiento de Clemente XI a
Carlos III como soberano de las Españas permitió cierto alivio a los
eclesiásticos que basaban su manutención en las pingües abadías y be-
neficios del Estado de Milán17.
Mientras perduraban los conflictos entre la Casa de Austria y la corte
pontificia, no sé dejó de lado la composición institucional del Regio Eco-nomato. Aunque la autoridad de Francesco Visconti no fue nunca puesta
14 ASV, Fondo Albani, 80, ff. 116r-v, carta de Carlos III al cardenal Giuseppe Archinto, iBarcelona, 20 de junio de 1708.15 Sobre el papel político de Moles a finales del Seiscientos, muy vinculado a los intereses
del Almirante de Castilla en Lombardía, véase A. ÁLVAREZ - OSSORIO ALVARIÑO, Prevenir la sucesión. El príncipe de Vaudémont y la red del Almirante en Lombardía, «Estudis», 33
(2007), pp. 61-91.16 En dichas labores de gestión de las rentas secuestradas tuvo un papel fundamental
Stefano Luongo, quien desde 1709 ejerció la interinidad del oficio de canciller del Re-
gio Economato, en sustitución de su titular, Carlo Mainone, asistiendo al servicio “de
la Real Jurisdicción, y embargo de las rentas eclesiásticas que gozan los forasteros y
ausentes de aquel Estado”. Gracias a sus buenos oficios y por la protección del gober-
nador general y el ecónomo regio, se le concedió la titularidad de la cancillería en 1712.
Haus-Hof und Staatsarchiv (HHStA), Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden,
Karton 10, consulta del consejo supremo de Italia, Barcelona, 28 de mayo de 1712.17 En el verano de 1709 se remitieron a Milán nuevas órdenes dando por finalizadas
las medidas excepcionales promulgadas en 28 de febrero de 1708 contra la saca de
monedas, “quedando sólo firmes los edictos y órdenes antecedentes, que se hallaban
establecidas y observadas en la materia de la extracción de las monedas”. ASV, Fondo Albani, 106, ff. 47r-v, despacho de Carlos III al príncipe Eugenio de Saboya, Barcelona, i28 de agosto de 1709. Asimismo, otras órdenes comandaron el levantamiento del secue-
stro de los frutos eclesiásticos gozados por forasteros, que había de ejecutar el ecónomo
Visconti. ASV, Fondo Albani, 80, f. 163r, i grida impresa del príncipe Eugenio de Saboya,
Milán, 26 de octubre de 1709.
40 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
en tela de juicio, dada la preeminencia política de sus hermanos, pronto
se buscó un potencial sustituto ante la mala salud del titular. Poco de-
spués de la partida de la reina hacia Barcelona, se recibieron órdenes
de Carlos III por las cuales concedía “las ausencias y enfermedades”
de don Francesco, con el grado de subecónomo general, a Giorgio Ser-
ponti18. Descendiente de un linaje de Como dedicado al comercio, la
promoción de sus familiares dentro del ministerio lombardo permitió a
Serponti, por entonces canónigo de la Scala, acceder a un rango presti-
gioso dentro de las instituciones de patronato regio. Pero no sólo su valía
y parentelas fueron el motivo directo de su nombramiento. Su cercanía
al obispo de Osnabrück durante la calata milanesa de Isabel Cristina fue
la aldaba necesaria para verse beneficiado por la benevolencia del rey.
La posesión del oficio de subecónomo en cabeza de Serponti no fue
del agrado del gran canciller. Dado el menoscabo que provocaba en su
red de parientes y hechuras la promoción de don Giorgio, el marqués
Pirro Visconti elevó distintas instancias al gobernador general Eugenio
de Saboya, y éste al monarca, para que concediese el cargo en Luigi Vi-
sconti. La solicitud del marqués fue censurada por la barcelonesa junta
de Italia, viéndose en su mal proceder el “verdadero motivo de no ha-
verse dado cumplimiento” al privilegio de Serponti. Los pretextos argüi-
dos por el gran canciller no sirvieron para que los ministros rechazasen
su petición. Para ellos, era “un sugeto tan digno y a propósito para el
empleo” que había alcanzado el favor de la propia reina y del obispo
alemán, y, merced a ellos, la munificencia de Carlos III19.
Tras el fracaso de su hermano el gran canciller, Francesco Visconti
asistió en sus últimos cuatro años de vida a la consolidación de su di-
gnidad como como garante del patronato regio-ducal y su conversión
en un referente para el regalismo napolitano. Una vez fue eximido de
la censura pontificia en febrero de 1710, la propia corte de Roma vio
su figura e institución como un modelo de encuentro entre la voluntad
privativa del Rey Católico y las provisiones papales de beneficios ecle-
siásticos. Una carta destinada para la diplomacia pontificia en Barcelona
y fechada a mediados de dicho año, afirmaba cómo el modelo lombar-
do de concesión del exequatur, controlado por el monarca gracias a la rmediación del ecónomo regio, “trovandosi già quest’osservanza inve-
18 Archivio di Stato di Milano (ASMI), Dispacci Reali, cartella 143, despacho de Carlos iIII al príncipe Eugenio de Saboya, Barcelona, 16 de septiembre de 1708. El gobernador
general evacuó la orden al Senado y al ecónomo Visconti “perché ciascuno resti nell’in-
teligenza della real determinatione di Sua Maestà”.19 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 1, consulta de la
Junta de Italia, Barcelona, 24 de diciembre de 1709.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 41
terata, qui non si reclama”. Frente a ello, en Nápoles se observaba con
preocupación la potestad arrogada por el cappellano maggiore del Regnopara dar o bloquear el placet “senza la necessità di aspettare per questitl’ordine regio”20. No obstante, dicha dualidad no provenía de prácticas
simultáneas, sin conexiones internas, en Nápoles y Milán. Había nacido
de Carlos III, quien había abdicado en el Consejo Colateral (y éste, por
defecto, en el capellán mayor) “la facultad de dar el exequatur, mirar por
el bien de mis vassallos, y su maior quietud”21.
La progresiva normalización de las relaciones con la Santa Sede se
convirtió en la tónica dominante durante el resto del economato de
Visconti. Éste, fiel servidor del monarca, ejecutó las órdenes venidas
desde las cortes de Barcelona y Viena, limitando la ejecución de las bu-
las clementinas cuando la razón de Estado se impuso en los tratos con
Roma, como se vería durante la guerra de Toggenburg entre católicos
y protestantes suizos, o facilitando su cumplimiento siempre y cuando
los intereses del papa y el rey-emperador convergían, caso de la conce-
sión de abadías y rentas lombardas para el mantenimiento de las misio-
nes apostólicas en Braunschweig-Wolfenbüttel22. Con la muerte de don
Francesco, en 1714, se cerraba una toda una etapa del Regio Economatomilanés23.
Dejando a un lado la institución suprema del patronato de Carlos
III en el Estado de Milán, es preciso descender a la práctica, a aquéllos
espacios donde las nóminas carolinas se vinculaban a la praxis religiosa
y a los mecanismos de control de elites: los beneficios y prebendas ema-
nados de la voluntad del soberano.
Frente al caso napolitano, en que la potestas regia abarcaba una se-
rie de veinticuatro de mitras episcopales, Carlos III en cuanto duque
20 ASV, Fondo Albani, 47, ff. 155r-157r, carta anónima, Roma, 16 de mayo de 1710.i21 ASV, Fondo Albani, 47, ff. 185r-186r, despacho de Carlos III al cardenal Vincenzo Gri-imani, Vic, 25 de enero de 1710.22 R. QUIRÓS ROSADO, Un antemural de la fe en tiempos de transición dinástica. Esguízaros y grisones ante la Monarquía de Carlos III de Austria, en P. GARCÍA MARTÍN - R. QUIRÓS
ROSADO - C. BRAVO LOZANO (eds.), Antemurales de la fe. Confl ictividad confesional en lamonarquía de los Habsburgo, 1516-1714, Ministerio de Defensa. UAM Ediciones, Madrid
2015, 241-263; R. QUIRÓS ROSADO, Diplomacia y misión en Europa durante la guerra de Sucesión: los Habsburgo-Wolfenbüttel, el Estado de Milán y el catolicismo septentrional, «Cua-ldernos de Historia Moderna», 41/1 (2016), pp. 29-47.23 Su sustituto fue el abate Antonio Maria Melzi, un advenedizo que, durante la déca-
da anterior, había servido como residente del Elector Palatino y enviado del duque
de Braunschweig-Wolfenbüttel, además de gestor de las postas del Estado de Milán.
HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 20, consulta del con-
sejo supremo de España, Viena 23 de agosto de 1714.
42 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
de Milán sólo podía ejercer su derecho regalista sobre el obispado de
Vigevano. Capital del condado homónimo, y situada estratégicamente
al margen izquierdo del río Ticino, poseía obispado propio desde 1530.
Desde entonces, el último duque Sforza y todos los reyes de España
gozaron la designación de su prelado y el resto de prebendas capitulares
dependía de la voluntad soberana.
La incidencia de la problemática sucesoria española en la sede mitra-
da de Vigevano comenzó a evidenciarse con motivo de las alteraciones
diplomáticas entre Roma, Viena y Barcelona. En una memoria de las
respuestas del papa Clemente XI al cardenal Vincenzo Grimani, princi-
pal valedor de los Habsburgo en la curia, se recordaba la mínima inci-
dencia de la auctoritas del rey Carlos sobre el clero lombardo24. Aquella
capacidad para nombrar cargos del cabildo local todavía había de ser
compartida por un triunvirato: el obispo, el Senado de Milán y el gober-
nador general del Stato25. Por otro lado, la ciudad de Vigevano acababa
de instituirse como una estratégica cabeza de puente más allá del Ticino,
tras la cesión de su jurisdicción condal al duque de Saboya como com-
pensación territorial al pasarse al bando coaligado durante la guerra26.
Sería con la muerte del último titular, Girolamo Archinto, en octubre
de 1710, cuando el impacto de la ruptura Habsburgo-clementina se pu-
siese de relieve en la diócesis. Pese a la negativa del pontífice a conceder
las bulas a aquellos cargos que, dependientes del patronato carolino,
debían solicitarse en Roma, rápidamente se inició la búsqueda del suce-
sor del difunto obispo. La influencia del gobernador general Eugenio de
Saboya y los oficios favorables del secretario de Guerra, Giuseppe Fede-
li, ante el marqués de Erendazu, secretario de Estado parte de Italia en
Barcelona, pusieron en una situación privilegiada en la nómina al barón
Giorgio Cattaneo27. Éste, nacido en las cercanías de Lecco, pertenecía a
una familia de advenedizos bien situada en el ordo político milanés. Su
padre fue Giambattista Cattaneo, podestà de Rovereto, en Trentino, y
consejero del archiduque Fernando Carlos de Habsburgo en Innsbruck,
24 ASV, Fondo Albani, 80, ff. 86v-88r: 87v-88r. i Ristretto delle risposte, che forono date da Nostro Signore alle rimostranze fatte alla Santità Sua dal signor cardinal Grimani, sin lugar, ini fecha; Roma, 1708.25 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 3, consulta de la
junta de Italia, Barcelona, 17 de mayo de 1710.26 C.W. INGRAO, In Quest and Crisis. Emperor Joseph I and the Habsburg Monarchy, Purdue
University Press, 1979, East Lafayette, pp. 88-93.27 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Lombardei Korrespondenz, Karton 218, carta de Gi-
useppe Fedeli al marqués de Erendazu, Milán, 29 de de octubre de 1710. ASF, Mediceo del Principato, filza 3230, avisos, Milán, 4 de febrero de 1711.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 43
quien le elevó al rango de barón en 1670. El hermano mayor del can-
didato, Giulio, ejercía el oficio regio de capitano di giustizia en Milán y
Finale, de donde sería promocionado a vicario de la provincia de Seprio,
mientras el secundogénito, Carlo Giuseppe, trabajaba como causídico
colegiado en la metrópoli desde 170128.
La junta de Italia quedó encargada de evaluar la terna del gober-
nador general, quien propuso respectivamente a Giorgio Cattaneo, el
terciario Vincenzo Conti y el cisterciense Gregorio Rainoldi, otrora resi-
dente de Carlos II ante el duque de Mantua. La consulta constituía una
novedad, no sólo por la difícil situación a que se enfrentaría el obispo
electo ante la Santa Sede, sino por el hecho que sólo se podía contar con
una terna, la de Eugenio de Saboya, ya que el Senado fue acusado de
haber dilatado el envío de la suya. Así las cosas, “considerando lo mu-
cho que importa oy adelantar las horas en esta provisión por las justas
políticas reflexiones”, los ministros regios potenciaron la candidatura de
Cattaneo, quien acabó siendo elegido por el soberano29.
La gracia de Carlos III investía como obispo a una hechura de prín-
cipe Eugenio, pero la seguridad del electo ya no dependía del poderoso
gobernador de Milán, sino de las conveniencias de la corte pontificia.
Éstas parecían insalvables a la altura del verano de 1711. De nuevo,
según el negociado de la junta de Italia, había de conseguirse de Roma
la salvaguarda de las tradicionales regalías del monarca Habsburgo. Tras
la muerte de José I, quien como consecuencia de los tratados secretos
de 1703 había recibido la suprema soberanía del Estado, el rey Carlos se
veía ahora en la plena capacidad para fungir los destinos lombardos. Así,
se planteó mandar al embajador carolino en Roma, príncipe de Avellino,
“los despachos de su presentación para poder solicitar que se le expidan
las bullas”. La junta debatió la necesidad de reforzar la autoridad regia
en la estratégica mitra de Vigevano por medio del establecimiento de
pensiones eclesiásticas. Esto aparecía como una novedad en el patronato
regio lombardo frente al granero económico de la colación monárquica
en Nápoles y Sicilia. Según consulta de 5 de julio, se propuso cargar
seiscientos ducados dado el crecido aumento de las rentas diocesanas.
Con esta remesa se beneficiarían los servicios de dos reputados clérigos
austriacos, los abates Antonio Maria Melzi y Giuseppe Finale30.
28 C. CREMONINI (ed.), Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, parte I, GianluigiiArcari Editore, Mantova 2003, p. 289.29 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 6, consulta de la
junta de Italia, Barcelona, 18 de abril de 1711.30 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 7, consulta de la
junta de Italia, Barcelona, 5 de julio de 1711.
44 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
El modelo indicado por la junta, que sólo debía negociar Avellino
en caso que no “pueda embarazar o retardar la expedición de las bul-
las”, no prosperó31. Finalmente, tras un año de espera, se expidieron las
aprobaciones clementinas al obispo electo, quien tomaría posesión de
su sede en la primavera de 1712. A partir de entonces, pasaría a gober-
nar a sus fieles y establecería contactos políticos para realizar las ternas
de subalternos, al igual que el Senato y el gobernador general príncipe
Eugenio, eligiéndose para los cuadros medios y superiores del cabildo a
vástagos del patriciado vigevanese y otros individuos de naturaleza próxi-
ma, fieles todos a la Casa de Austria.
Junto al obispado de Vigevano, la otra institución eclesiástica de ma-
yor relevancia dentro del patronato regio-ducal era el cabildo de la Real
Colegiata de Santa Maria della Scala. Situada en el corazón de la ciu-
dad de Milán, sus dignidades y canonjías habían sido instauradas por
el duque Bernabò Visconti en 1385. Por privilegio cesáreo de Carlos V,
otorgado en 1 de agosto de 1545, quedó regulado su funcionamiento,
dependiente de una elite proveniente, mayoritariamente, del patriciado
milanés. Durante el dominio español, la colegiata vivió un periodo de
esplendor que se evidenció con su intitulación como real capilla por
decreto de Felipe IV en 7 de marzo de 166232. Sin embargo, al igual que
sucediese al Regio Economato, los ecos del conflicto sucesorio hispánico
afectaron directamente a su composición social.
La filiación borbónica de parte del cabildo reconvino a Eugenio de
Saboya a reforzar el papel de determinados canónigos. Ya en verano
de 1707 se remitió a la corte de Barcelona una instancia de licencia al
nombramiento de coadjutores para tres de aquéllos, Francesco Visconti
(el nuevo ecónomo regio), Giuseppe Castelli y Giuseppe Sirtori. Pese
a demostrar su afinidad dinástica y a observarse la petición como un
contentamiento al gobernador general, el ministerio carolino atajó el
negociado. Posiblemente a instancias del embajador imperial en Bar-
celona y antiguo gran canciller milanés, Francesco Moles, se respondió
a Eugenio mostrando el “grave incombeniente el dispensar semejantes
gracias” y la negativa del rey a condescender con la instancia lombar-
31 Ibidem.32 NAVARRETE, «Archivo de materias», pp. 221-223. Nueve años antes, en 1653, el rey
Felipe había confirmado los privilegios de exenciones e inmunidades que previamente
gozaba el capítulo. AHN, Estado, legajo 2778, caja 1, expediente 9, Privilegia exemptio-num inmunitatum et gratiarum insignis ac regii capitulis S. Mariae Scalensis Mediolanii,iMadrid, 28 de junio de 1653.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 45
da33. La importancia de la presencia física de los canónigos en la Scala
era determinante a la hora de controlar una institución poderosa, cuyos
miembros representaban numerosos casati de la nobleza del Estado.iLa limitada autoridad de Carlos III sobre la Lombardía austriaca, a
causa del mencionado pacto secreto de cesión acordado, de mala gana,
con su hermano José en 1703, hizo que sólo avanzado el año 1710 el
ministerio barcelonés comenzase a mediatizar las dignidades privativas
de la colegiata milanesa. El tradicional recurso a las nóminas duales,
del gobernador general y del Senado, compensó el amparo del príncipe
Eugenio y del gran canciller Pirro Visconti a sus hechuras34. La propia
lejanía del gobernador, quien abandonó en 1708 el ducado para co-
mandar la milicia imperial en Flandes y dirigir el Hofkriegsrat vienés, tcoadyuvó en la limitación de su poderosa influencia, como se verá en las
decisiones del consejo supremo de Italia en 1712.
Los principales cambios estructurales que sufrió la Scala durante los
inicios de la restauración Habsburgo tuvieron lugar tras el fallecimiento
de su arcediano, el jenízaro Joseph Casado, en febrero de 1711, y el
del arcipreste Giorgio Serponti tres meses después35. Ambos constituían
prototipos de homines novi que, merced a estrategias parentelares y ser-ivicio ministerial, eclesiástico y militar, lograron hacerse un hueco entre
los canónigos provenientes del antiguo patriciado local. Don Joseph era
miembro de una ilustre familia castellana que había copado importantes
puestos en el ministerio lombardo durante los reinados de Felipe IV y
Carlos II. Los Casado, pese a un modesto origen, rápidamente lograron
su inserción en la comunidad de acogida y se convirtieron en feudatarios
titulados. Su prometedora trayectoria política, similar a los Belcredi, se
truncó con la guerra de Sucesión. Parte de la familia hubo de abandonar
el Estado y solicitar el amparo de Felipe V. Mientras éste fue el camino
que siguió Isidro Casado de Rosales, marqués de Monteleón y uno de
los más señalados diplomáticos borbónicos durante el conflicto suceso-
rio, su padre, el senador Pedro Casado, y su tío Joseph permanecieron
33 Para evitar enojar al gobernador general de Milán, se indicó cómo quedaría el rey “en-
terado de los méritos” de los sujetos que se proponían como sustitutos de los canónigos:
Paolo Camillo Roma, Paolo Maria Cabiati y Pietro Giorgio Borro, también patricios mi-
laneses. ASMI, Dispacci Reali, cartella 142, despacho de Carlos III al príncipe Eugenioide Saboya, Barcelona, 30 de julio de 1707.34 C. CREMONINI, Pirro Visconti di Brignano-Borgoratto al servizio degli Asburgo, in nomedell’Imperio (1674-1711), en C.J. HERNANDO SÁNCHEZ - G. SIGNOROTTO (ed.), Uomini di governo italiani al servizio della Monarchia spagnola (secoli XVI e XVII. «Cheiron», 53-54
(2011), pp. 273-326.35 ASF, Mediceo del Principato, filza 3230, avisos, Milán, 4 de febrero y 6 de mayo de 1711.
46 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
en Milán hasta sus muertes36. Por su parte, el ya mencionado Giorgio
Serponti había logrado alcanzar una dignidad que acrisolaba su humilde
origen. Los servicios de su padre, Giovan Antonio Serponti, secretario
de la cancillería Secreta y reciente titulado como marqués de Mirasole,
y los del propio don Giorgio acabaron por hacer olvidar la sombra de
los negocios de mercanzia, coadyuvando en no poca medida la protec-
ción de su tío, el cuestor Valeriano Serponti37. Como se observó líneas
atrás, los servicios de don Giorgio a la reina Isabel Cristina durante su
estancia milanesa le valieron la protección del obispo de Osnabrück,
quien le conseguiría el cargo de subecónomo regio y las enfermedades
y sustitución del titular.
La sucesiva vacante de las dos deseadas prebendas movilizó los
esfuerzos de activos medianeros por situar en su posesión a deudos y
hechuras. El propio virrey de Nápoles, conde Carlo Borromeo Arese,
escribió en sendas ocasiones a Carlos III y al secretario marqués de
Erendazu, en favor de su favorito, el canónigo Carlo Giacomo Catta-
neo38. Por su parte, el gobernador general Eugenio y el Senado enviaron
sendas ternas al rey con sendos sujetos elegidos de la flor del patriciado
milanés para copar el arcedianato de la Scala.
La proliferación de lombardos, cinco de entre los seis propuestos, se
debatió arduamente en la junta de Italia. Sus ministros incidieron en
que “sólo considera en el caso de plena aptitud para obtenerla al segun-
do propuesto por el Senado [Joseph Pacheco], respecto a ser español,
y a haverse regularmente proveído en estrangero la referida dignidad”.
Aun existiendo quorum entre los consejeros y regentes, la defensa de las
plazas privativas para españoles en Milán fue promovida por el marqués
de Erendazu, Juan Antonio Romeo, quien había formado parte de la
secretaría de Estado y Cifra lombarda bajo el conde de Melgar, y por
Lupercio Mauleón, cuestor y senador antes de ser ascendido a la regen-
36 A. ÁLVAREZ - OSSORIO ALVARIÑO - R. QUIRÓS ROSADO, La supervivencia de una elite de poder. Ministros y militares de nación jenízara en la Lombardía austriaca (1706-1733), en V.
LEÓN SANZ (a cura di), La Monarquía borbónica y Europa durante la primera mitad del siglo XVIII, Sílex, Madrid, 2016 (en prensa).II37 C. CREMONINI, Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, parte II, p. 229.i38 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Neapel Korrespondenz, Karton 18, carta del conde Car-
lo Borromeo Arese al marqués de Erendazu, Nápoles, 20 de mayo de 1712. Sobre el
papel de Cattaneo dentro de la “familia” aristocrática y la corte virreinal napolitana
del conde Borromeo, vid. C. CREMONINI, Ritratto politico cerimoniale con fi gure. Carlo Borromeo Arese e Giovanni Tapia, servitore e gentiluomo, Bulzoni, Roma, 2008, pp. 148-
149; 260, nota 124. Asimismo, sobre la cercanía del canónigo respecto al virrey, “molto
confidente” del mismo, vid. ASF, Mediceo del Principato, filza 4129, avisos, Nápoles, 23
de diciembre de 1710.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 47
cia lombarda en Barcelona. Junto a la propuesta de Pacheco como arce-
diano de la Scala, otro suceso rompió la lógica de patronazgo inserta en
las nóminas del gobierno y el Senado. Por mediación del conde Rocco
Stella, el favorito real, se eligió a una de sus criaturas, el siciliano Vassallo
di Vassallo, para suplir el canonicato vacante, dirigido a no-lombardos,
del promocionado Pacheco39.
El amparo de la junta a sujetos forasteros constituyó un jalón decisivo
en los intentos barceloneses por evitar un mayor control del patriciado
milanés sobre el patronato regio-ducal. Frente a dicha plaza privativa,
los ministros españoles no pudieron evitar que el resto de canonicatos
sirviesen de resorte de poder de los vástagos de ilustres familias locales
en el ámbito eclesiástico. Durante la misma reunión, se proveyó también
el oficio de arcipreste de la Scala. Los votos, entre los que sí se incluyó
el mencionado Parete, que se había ausentado de la votación previa,
tuvieron que valorar la propuesta nominativa del príncipe Eugenio de
Saboya, pues no había llegado la terna senatorial. De los tres candidatos,
dos pertenecían al cabildo: el canónigo Giovanni Battista Arrigone, hijo
del marqués Giovanni Pietro, cuestor del Magistrado Extraordinario; y
Alessandro Serponti, canónigo y sobrino del difunto titular. Un tercero,
Giovanni Carlo Rubini, era nepote del conocido regente Pietro Giaco-
mo Rubini. Las prendas de los tres propuestos fueron bien valoradas
por la junta, pero el favor del gobernador general y del regente Mauleón
hacia el también canónigo Pietro Antonio Crevenna hicieron que éste
desbancase a Arrigone, situándose en la cabeza de la terna barcelonesa
y logrando la gracia soberana40.
Con la partida del rey Carlos hacia tierras germánicas, donde sería
electo emperador con el nombre de Carlos VI, quedaron sin proveerse
algunos canonicatos de la Scala. Dando continuidad a la práctica con-
sultiva y nominativa gestada en Barcelona, en su consejo supremo de
Italia y por la regente Isabel Cristina se seguirían dirimiendo las solici-
tudes de cargos de patronato regio. Los registros documentales de dicho
dicasterio evocan los problemas surgidos en torno a la recepción de las
nóminas de los oficios eclesiásticos de jurisdicción regalista. Pese a que
39 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 8, consulta de la
junta de Italia, Barcelona, 19 de septiembre de 1711. Sobre el papel del canónigo Vassal-
lo como mediador entre su patrón, el conde Stella, y el plenipotenciario cesáreo-católico
en Génova, duque de Uceda, véase HHSTA, Staatenabteilungen. Italienische Staaten. Ge-nua, Karton 19, cartas del duque de Uceda al conde Rocco Stella, Génova, 1 y 5 de
septiembre de 1712; sin día, octubre de 1712.40 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 8, consulta de la
junta de Italia, Barcelona, 19 de septiembre de 1711.
48 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
corrieron en Milán voces sobre la lentitud administrativa del ministe-
rio barcelonés, la irresolución para la asignación de dichas plazas no
fue voluntad del consejo, sino por los continuos retrasos en los envíos
de ternas de Eugenio de Saboya41. Tal debió ser el enojo de la reina-
emperatriz gobernadora que se ordenó tramitar los expedientes sin el
parecer del príncipe, mientras se solicitó encarecidamente, y por medio
del gran canciller Visconti, la remisión de las relaciones de los canonica-
tos milaneses42. Finalmente, llegadas éstas, a lo largo del otoño de 1712
se consultaron diferentes prebendas de la real colegiata milanesa. Frente
a los candidatos propuestos por el gobernador general, los regentes del
consejo de Italia consiguieron imponer paulatinamente su criterio, pro-
tegiendo al abogado Carlo Giuseppe Castelletti y al abate Alessandro
Olivazzi, hermano de uno de los ministros de la junta vienesa de Italia43.
Con estos nombramientos parecían progresivamente postergados los
postulantes ligados al establishment Eugenio de Saboya-Pirro Visconti.tLos dirigentes supremos del Estado de Milán no podían, pese a todo,
ser obviados y, por ello, se les debió contentar al promocionar como
canónigo a Sigismondo Ravizza. Éste, hermano del barón Pio Ravizza,
uno de los principales consejeros hacendísticos en Barcelona y hechura
del duque de Parete, tenía una buena aceptación entre los ministros del
consejo, lo que facilitó su elección44.
41 ASF, Mediceo del Principato, filza 3231, carta de Pietro Alessandro Bondicchi a France-
sco Panciatichi, Milán, 2 de marzo de 1712.42 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 11, consulta del
consejo supremo de Italia, Barcelona, 28 de junio de 1712.43 Las consultas y nombramientos de Castelletti y Olivazzi, en HHSTA, Italien Spani-scher Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 12, consulta del consejo supremo de Italia,
Barcelona, 10 de diciembre de 1712); Ibi, Karton 13, consulta del consejo supremo de iItalia, Barcelona, 14 de enero de 1713. Castelletti ya había sido evaluado previamente
por el dicasterio barcelonés, haciendo valer no sólo sus servicios al ejército cesáreo antes
de la batalla de Turín, sino su estudio legal en Milán y en la propia corte de Barcelona,
donde residía desde hacía un tiempo. Ibi, Karton 12, consulta del consejo supremo de iItalia, Barcelona, 13 de octubre de 1712.44 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 12, consulta del
consejo supremo de Italia, Barcelona, 15 de diciembre de 1712. Respecto a la servidum-
bre de los Ravizza ante el rey-emperador Carlos desde su envío a Lisboa en 1704, así
como sus gestiones fiscales como veedor general del ejército en Cataluña y sus reformas
hacendísticas en el virreinato sardo después de la evacuación catalana, vid. V. LEÓN
SANZ, Carlos VI. El emperador que no pudo ser rey de España, Aguilar, Madrid, 2003, p. 57;
LL. GUÍA MARÍN, Pio Ravizza y la Superintendencia de la Caja militar del Reyno de Cerdeña. Cénit y ocaso de una reforma de Carlos de Austria (1715-1717), en G. MELE (a cura di),
Tra Italia e Spagna. Studi e ricerche in onore di Francesco Manconi, i CUEC, Cagliari, 2012,
pp. 77-102.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 49
El avance de los tratados de paz en la ciudad neerlandesa de Utrecht
y el acuerdo franco-imperial para la evacuación de Cataluña y la neu-
tralidad italiana llevaron a su fin a la regencia de la ya emperatriz Isa-
bel Cristina de Braunschweig-Wolfenbüttel. En la primavera de 1713,
junto a la soberana, se dirigieron a tierras itálicas y austriacas la mayor
parte de los oficiales reales, así como los negociados políticos de con-
sejos y secretarías. Por este motivo, la junta vienesa que, gestionaba las
problemáticas italianas, españolas y flamencas, prosiguió tramitando las
provisiones del patronato real. Ante la práctica ocupación de los canoni-
catos de la Scala, sólo se trataron negocios de gracia, como la solicitud
de una canonjía y el título de capellán de honor por Francesco Gabri,
canónigo de la colegiata de Monza, y la concesión de los gajes de Vas-
sallo di Vassallo, cuyas instancias generaron órdenes punitivas hacia los
colegas suyos que se encontraban al servicio de la Casa de Borbón45.
A partir de dichos momentos, todos los asuntos relacionados con las
provisiones graciosas y el reglamento de la real colegiata de Santa Maria
della Scala revirtieron en las instituciones situadas en Viena. El progre-
sivo eclipse del ausente gobernador general y de su gran canciller facilitó
el control del consejo supremo de España sobre los oficios dependientes
de la gracia del rey-emperador Carlos. Si durante el lustro precedente
los consejeros y regentes consiguieron socavar el efecto mediador de los
factotum de la política lombarda, sólo con la fundación de dicho consejo
y la secretaría del Despacho Universal en cabeza del marqués de Rialp
se despejaron las incógnitas sobre los valedores de los sujetos destinados
a copar una de las instituciones eclesiásticas más relevantes del Estado46.
Nuevos tiempos, nuevos patrones.
45 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 17, consulta de la
junta imperial de Italia, Viena, 30 de octubre de 1713. Respecto a Vassallo di Vassallo,
el parecer de la junta vienesa alude al “odio y aversión que le tienen” los “declarados
parciales y adherentes de los enemigos”, lo que denotaría la pervivencia de sujetos fieles
a los Borbón dentro de la colegiata de patronato carolino. Ibi, Karton 16, consulta de la ijunta imperial de Italia, Viena, 22 de marzo de 1713.46 Rialp consiguió que el canonicato vacante en la colegiata milanesa por el deceso del
ecónomo regio Francesco Visconti fuese concedido al preceptor catalán de sus hijos.
ASF, Mediceo del Principato, filza 4433, carta de Neri Guadagni a Francesco Panciatichi,
Viena, 1 de diciembre de 1714.
50 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
2. Confl ictividad jurisdiccional, intereses cortesanos. Las problemáticasdel patronato regio napolitano bajo Carlos III de Austria
Las problemáticas relaciones con la Santa Sede no sólo tuvieron eco en
Milán. La cercanía del Reino de Nápoles con Roma y la tradicional vin-
culación personal y económica de los miembros de la Curia Apostólica
con el Reame hicieron que los problemas político-diplomáticos abiertos
en 1708 perviviesen largo tiempo sin resolver. Después de la conquista
del reino napolitano por el ejército cesáreo en el vernao de 1707, la la-
tente conflictividad partenopea hacia el curialismo pontificio consolidó
una corriente filosófica, política y económica de marcado carácter ra-
cionalista y jurisdiccional que configuró un corpus de arbitrios y textos
jurídicos sobre las causas de la decadencia de dicho reino. Figuras de
la talla de Serafino Biscardi, Paolo Mattia Doria, Gaetano Argento y
tantos otros autores tachados por Roma como ateisti sentaron las bases ide un discurso reformista que eclosionó durante las décadas de 1720 y
1730 con Pietro Giannone y Giambattista Vico. Los autores giurisdizio-nalisti alumbraron un clima de opinión fundamentado en la necesidadide reformular las pautas de conducta política y económica tradicionales,
con un corte mercantilista, y de limitación de la influencia pontificia so-
bre Nápoles. Teniéndose en cuenta la inserción de dicha intelligentzia en
los cuadros ministeriales no sólo de la corte provincial napolitana, sino
de las de Barcelona y Viena, así como la ejecución de órdenes anticu-
rialistas derivadas del desencuentro de Carlos III y José I con Clemente
XI, puede deducirse la progresiva implantación de medidas tendentes a
limitar la secular sombra romana hacia las tierras meridionales47.
47 La literatura historiográfica y jurídica sobre estas problemáticas político-culturales es
amplísima. Por ello, entre obras de conjunto y biografías de los principales juristas del
periodo, caben destacarse las obras de S. MASTELLONE, Pensiero politico e vita culturale aNapoli nella seconda metà del Seicento, Casa Editrice G. D’Anna, Messina - Firenze 1965;
R. AJELLO (a cura di), Pietro Giannone e il suo tempo, 2 vols., Jovene, Napoli 1980; D.
LUONGO, Serafi no Biscardi. Mediazione ministeriale e ideologia economica, Jovene, Napoli
1993; I. ASCIONE, Il governo della prassi. L’esperienza ministeriale di Francesco D’Andrea,
Jovene, Napoli 1994; D. LUONGO, Vis jurisprudentiae. Teoria e prassi della moderazione giuridica in Gaetano Argento, Jovene, Napoli 2001. Para insertar dichos pensadores y
corrientes en su contexto político conviene recordar las obras de G. GALASSO, Napoli spagnola dopo Masaniello. Politica, cultura, società, 2 vols., Sansoni, Firenze 1982 y ID.,
Storia del Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo e austriaco (1622-1734), UTET, Torino,
2006. Asimismo, la eclosión de dicho particularismo napolitano y su visión desde el ám-
bito diplomático se analiza en R. QUIRÓS ROSADO, La “hora napolitana” del Setecientos. Ladiplomacia provincial partenopea y la casa de Austria durante la guerra de Sucesión española,
«Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1 (2016), pp. 149-187.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 51
El control monárquico sobre los beneficios eclesiásticos y las nómi-
nas episcopales y abaciales también estaba garantizado por medio de
una estructura ministerial dependiente directamente-o al menos me-
diatizada-de la voluntad soberana: la Cappellania Maggiore del Regno.
La fundación de dicho ministerio databa de 1442 y entre sus princi-
pales atribuciones se encontraban el control judicial de los religiosos
servidores del monarca en la Capilla Real situada en el Palacio Real
napolitano y en otras fundaciones monárquicas, así como el control de
la Universidad o Studio48. Como acaecía con el Regio Economato milanés,
paulatinamente fueron introduciéndose otros campos de gobierno en su
seno, sobre todo, la fiscalización de las rentas vacantes de jurisdicción
eclesiástica.
La capacidad ejecutiva de la Cappellania Maggiore durante los pri-
meros años del reinado de Carlos III de Austria recayó en un ministro
aragonés, Diego Vincencio de Vidania49. De origen oscense, había ocu-
pado las cátedras de Digesto Viejo, Sexto y Código en la Universidad
Sertoriana de su ciudad natal, en la que también ocuparía su rectoría.
Sus prendas eruditas, bien conocidas en el círculo intelectual de Lasta-
nosa y que le auparon a “cronista de los Reynos de Castilla, y León, y del
de Aragón” hacia 1683, le llevaron a comenzar una fulgurante carrera
al servicio de Carlos II, ejerciendo progresivamente la fiscalía y el oficio
de inquisidor de Barcelona50. Poco después se le destinó con el mismo
encargo inquisitorial en Sicilia, donde también sirvió por dos ocasiones
la interinidad “del Judicato de la Monarquía”, es decir, la MonarchiaSicula. Su buen conocimiento de la realidad eclesiástica y del patronato
regio en la isla le facilitaron su inserción en el ministerio napolitano bajo
la protección del virrey conde de Santisteban, siendo investido como
capellán mayor del Reame en 1693. El favor del pro rex partenopeo y del
inquisidor general, fray Joan Tomàs de Rocabertí, le mereció el encargo
48 Una sintética relación sobre el origen y atribuciones del cappellano maggiore del Regno,
así como sus oficiales subordinados se encuentra en F. TRINCHERA, Degli Archivii Neapo-litani, Stamperia del Fibreno, Napoli 1872, p. 389.i49 Ante la inexistencia de un estudio biográfico del religioso aragonés, véase el interesan-
te estudio sobre su pensamiento filosófico-político, cercano a Grotius, de J. VALLET DE
GOYTISOLO, Diego Vincencio de Vidanía, un oscense grociano contemporáneo de Vico, «Anales
de la Real Academia de Ciencias Morales y Políticas», 69 (1992), pp. 287-299. Asimi-
smo, para su papel en la cultura universitaria napolitana durante el primer tercio del
siglo XVIII es necesario consultar la monografía de D. LUONGO (a cura di), All’alba dell’Illuminismo. Cultura e pubblico studio nella Napoli austriaca. Contegna, Vidania, Caravi-ta, Giannone, Liguori Editore, Napoli 1997.50 La referencia a su oficio cronístico proviene de D.V. DE VIDANIA, Triunfos christianos del Mahometismo vencido, por Lucas Antonio de Bedmar y Baldivia, Madrid 1684.
52 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
de visitador del Santo Oficio siciliano y una plaza en el consejo de la
Inquisición en Madrid51.
El cambio sucesorio truncó el cursus honorum de Vidania, cayendo en
desgracia ante el nuevo virrey de Sicilia, cardenal Francesco del Giudi-
ce, por su posicionamiento filocesáreo. En 1702 se le apartó temporal-
mente de la Cappellania Maggiore, ejerciendo interinamente su puesto
Baldassarre Ardia52. Sin capacidad autónoma ni valedores en la corte
regia, el capellán mayor sólo pudo ser reintegrado en sus funciones a
fines de 1704, siendo el encargado de ejecutar “la nuova planta de los
quatro coros de música que se deven formar para esta Real Capilla de
Palacio”53. Aun así, Vidania tuvo que esperar a que la conquista austriaca
de Nápoles en el verano de 1707 le permitiese regresar al primer plano
de la vida política partenopea. Su oposición a Felipe V fue premiada con
la reinserción en su ministerio, y en sus manos juraron las universidades
demaniales y los feudatarios del Regno su fidelidad a Carlos III54.
Como tantos otros napolitanos y españoles residentes en la corte
provincial, y contando con licencia del plenipotenciario cesáreo conde
Martinitz, pasó a fines de 1707 a Barcelona para solicitar sus ascensos y
medrar gracias a la persecución sufrida durante el virreinato borbónico.
Su conocimiento de la realidad eclesiástica italiana le valieron la con-
fianza regia y se le permitió ejercer en la distancia su recuperada Cap-pellania55. Su jerarquía parecía hacer de Vidania una pieza clave en la
51 Junto a la Cappellania Maggiore se le invistió como abad de San Nicola di Pergoletto y
San Nicola di Bucciano, también radicadas en el Reino de Nápoles. Para las referencias
biográficas, véase HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 20,
consulta del Consejo Supremo de España, Viena, 31 de agosto de 1714. Un ejemplo de
la cercanía del virrey Santisteban y el capellán mayor Vidania se halla en la redacción por
éste de un amplio memorial genealógico de la familia Benavides en vista a la solicitud de
la Grandeza de España. D.V. DE VIDANIA, Al Rey nuestro señor. Don Francisco de Benavides, Dávila, Corella, y de la Cueva (...) representa los servicios heredados, y proprios, y los de sus hijos (...) y la antigüedad, y calidad de su Casa, y de las incorporadas en ella, por Dominico
Antonio Parrino, y Miguel Luis Lucio, Napoli 1696.52 A. DE UBILLA Y MEDINA (marqués de Ribas), Successión de el Rey don Phelipe V, nuestro señor, en la Corona de España, por Juan García Infanzón, Madrid 1704, p. 438.53 N.A. SOLAR - QUINTES, Músicos de Mariana de Neoburgo y de la Real Capilla de Nápo-les. Facetas líricopalaciegas del último Austria y del primer Borbón, «Anuario Musical», 11
(1956), pp. 165-193: 180-182.54 J.B. PUJADES, Memoriale istorico, in cui per modo di giornale si narrano li principali avve-nimenti succeduti per l’entrata dell’armi austriache in questo Regno di Napoli nell’anno 1707 fi no a’ quartieri d’inverno presi dalle medesime, appresso Michele Loigi Muzio, Napoli
1708, p. 209.55 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Neapel Korrespondenz, Karton 1, despacho de Carlos
III al conde Daun, virrey interino de Nápoles, Barcelona, 26 de marzo de 1708.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 53
ejecución de las órdenes restrictivas de la saca de moneda hacia Roma
y del secuestro de las rentas de eclesiásticos ausentes de Nápoles. Sin
embargo, la puesta en marcha de los decretos regios se hicieron por me-
dio de Flavio Gurgo, consejero de Santa Chiara y “deputato consultore
per la corte ecclesiastica di monsignore cappellano maggiore per tutto il
Regno”. Los efectos de dicha política no se hicieron esperar. Pese a no
encontrarse en la corte napolitana, el capellán fue excomulgado desde
Roma, al igual que el consigliere Gurgo y sus ecónomos subordinados, o
el propio virrey Daun y los regentes del Consiglio Collaterale, en un fulmi-
nante castigo a la desobediencia de los mandatos pontificios56.
La ausencia de Vidania de Nápoles y la reactivación de los tradicio-
nales conflictos jurisdiccionales entre el ministerio partenopeo y la curia
romana afectaron a la viabilidad de una Cappellania Maggiore sin su ca-
beza presente. El nombramiento de don Diego Vincencio como regente
aragonés del consejo de Aragón en Barcelona colmó la paciencia de los
virreyes57. Por carta al secretario marqués de Erendazu, el pro rex conde
Borromeo representó sus quejas por “la falta que haze aquí la ausencia
del capellán mayor por lo que ocurren en los Estudios y para la admi-
nistrazión de la juridición de los sugetos a esta Real Capilla”. El temor
a una relajación en las costumbres del clero regio y al descontrol de los
estudios jurídicos en Nápoles, en un periodo de eclosión del racionali-
smo crítico, determinaron a Carlos III en el envío de una terna virreinal
para nombrar sucesor al regente58.
Pese a los miedos de las autoridades napolitanas y barcelonesas, nun-
ca se consultaría un nuevo capellán mayor. La protección a Vidania por
parte del ministerio carolino, posiblemente gracias al mencionado secre-
tario Erendazu, hicieron que se perpetuase en su persona el oficio59. Tras
56 Biblioteca Apostolica Vaticana (BAV), Vaticani Latini, 10172.i A. FIOCCA, Memorie istori-che de fatti più notabili succeduti in Roma nell’anni 1708 e 1709, circa le note emergenze nelle corti di Roma, Vienna, Barcellona e Napoli. (...) Parte prima, manuscrito, Roma 1709, ff.
60r-v, 69r-v.57 Vidania fue promocionado a la regencia aragonesa junto con Salvador Lochi, quien re-
cibió el encargo “per quanto tocca alle isole [de Mallorca y Cerdeña]”, y Joseph Moret,
“regente per parte di Cattalogna”, a la par que el fiscal y otros secretarios del consejo
de Aragón. Foglio straordinario. 23 Maggio 1711, appresso Giovanni van Ghelen, Wien,
1711, avisos, Barcelona, 26 de abril de 1711.58 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Neapel Korrespondenz, Karton 18, carta del conde Car-
lo Borromeo Arese al marqués de Erendazu, Nápoles, 3 de julio de 1711; y anotación
del marqués de Erendazu a la secretaría de Estado, sin lugar, ni fecha.59 Fruto de ese amparo político fue la encomienda regia a favor de Domingo Marco,
capellán suyo, al virrey Borromeo. Según palabras del secretario Erendazu, Marco pa-
saba a Nápoles para “poner cobro en sus intereses, y dependencias”, especialmente los
54 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
dos años de servicio – sin retribución – en el consejo de Aragón, don
Diego Vincencio retornó a Nápoles junto con parte de los servidores
regios evacuados de la corte barcelonesa. Corría la primavera de 1713
y sólo a partir de entonces retomó el control efectivo de su ministerio60.
La compleja vida de la Cappellania Maggiore napolitana durante la
ausencia de su titular es un claro ejemplo de la paradójica evolución
del patronato monárquico del Reame durante los primeros tiempos del
dominio carolino. Si en el caso lombardo, el ecónomo regio Francesco
Visconti se posicionó como vértice activo entre los distintos poderes
interesados en controlar los beneficios y las principales prebendas ecle-
siásticas del Stato, el capellán mayor Vidania no consiguió influir en las
tomas de decisiones relativas al ámbito de su ministerio. Por ello, la do-
tación de rentas y oficios religiosos vinculados al poder monárquico fue
mediatizada por otros individuos e instituciones.
Muestra de la multiplicidad de agentes interesados en fiscalizar el
patronato carolino en Nápoles se encuentra en el priorato de San Nicola
de Bari. Desde la Baja Edad Media, la basílica dedicada al santo licio
fue protegida por los reyes partenopeos, siendo dotada con numerosas
rentas y títulos urbanos y feudales en Puglia. Su creciente importancia a
nivel socio-religioso en la urbe adriática consiguió incluso limitar la pre-
ponderancia jerárquica del arzobispo local. La causa de su pujanza pue-
de encontrarse en su integración dentro de la jurisdicción regia merced
a una bula de Bonifacio VIII (1301). Años después, bajo los reyes Luis y
Juana de Anjou, se convirtió en capilla real, categoría que fue reconocida
por la dinastía aragonesa y bajo los monarcas austriacos. Su naturaleza
alcances del sueldo de cappellano maggiore durante el tiempo de la estancia española de
su titular. HHSTA, Italien Spanischer Rat. Neapel Korrespondenz, Karton 20, carta del
marqués de Erendazu al conde Carlo Borromeo Arese, Barcelona, 12 de abril de 1711.
Asimismo, su buena posición en la corte de Barcelona le permitió promocionar a un
sobrino suyo, Nicolás Blanco, como auditor del presidato de L’Aquila y abogado en
la Vicaria napolitana, pasos previos a su entrada en la Regia Camera della Sommaria en
la calidad de presidente. Cfr. R. QUIRÓS ROSADO, Tradition and change in the Neapolitan provincial government during the War of Succession: the Spanish presidi (1707-1714), en A.
ÁLVAREZ - OSSORIO ALVARIÑO - C. CREMONINI - E. RIVA (a cura di), The Transition in Eu-rope between XVII and XVIII centuries. Perspectives and case studies, FrancoAngeli, Milano
2016 (en prensa).60 Archivo General de Simancas (AGS), Gracia y Justicia, legajo 742, avisos, Nápoles, 24
de abril de 1713. En 1714 logró del ya emperador Carlos VI la concesión de los atrasos
y sueldo corriente de su plaza de capellán mayor, así como – pese a la oposición de los
napolitanos Rofrano y Ravaschiero – una pensión vitalicia de cincuenta ducados men-
suales. HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 20, consulta
del consejo supremo de España, Viena, 31 de agosto de 1714.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 55
regalista se acentuó con estos últimos soberanos, quienes lograron con-
trolar “il diritto di conferire tutte le dignità, e di creare il priore istesso,
senza altro breve apostolico, e d’imponere le pensioni sul priorato, non
ostante che’l Papa non ispedisse le bolle di dette pensioni”61.
Con la llegada de las tropas cesáreas a la capital del Regno, el prio-
rato de Bari hacía tiempo que se encontraba vacante. La larga tenencia
del prior Alessandro Pallavicino, entre 1676 y 1702, se siguió de un
periodo de incertidumbre no resuelta ante los problemas derivados de
lo atractivo de su influencia política, económica y social en la vida reli-
giosa meridional62. Durante la corta plenipotencia del conde Martinitz,
este aristócrata bohemio intentó que fuese concedida por Carlos III a
monseñor Franz Karl von Kaunitz, auditor de la Rota en Roma. Las
maniobras concertadas entre el baronaggio napolitano y el cardenal Vin-
cenzo Grimani, amparado por la corte barcelonesa, provocaron la caída
del vienés Martinitz y, con ello, de la mayor parte de sus protegidos en el
reino. Soslayada la potencial candidatura de Kaunitz, el propio Grimani,
durante su virreinato, no dudó en buscar el control del priorato de Bari.
Según unas instrucciones secretas dirigidas a su agente en Barcelona, el
abate siciliano Domenico Giurba, el purpurado advertía de la diversidad
de noticias sobre los frutos de la prelacía regia. Aunque el tesorero prio-
ral le informase de no ser “più di scudi mille”, el apoyo de su antecesor
al auditor podía encubrir unas rentas mayores. Así, intentaría verse be-
neficiado con su titularidad, no para disfrutar del oficio y sus entradas,
sino con el placet de renuncia a su sobrino, el abate veneciano Antonio tGrimani63.
61 G. FALLETTI, Trattato del marchese Falletti nella corte di Roma, appresso Pier Martelli,
Köln (¿Napoli?) 1712, pp. 125-135; la referencia, en p. 134. Sobre los problemas sur-
gidos por la conflictiva relación entre la curia arzobispal y el capítulo prioral de San
Nicola a comienzos del Setecientos, vid. Real Academia de la Historia (RAH), 9-3946,
Pregiudicij fatti al Regno dal Sommo Pontefi ce, manuscrito, Nápoles, c. 1709. Un registro
documental sobre la rica documentación producida por el priorato se halla en D. POR-
CARO MASSAFRA (a cura di), L’archivio della Basilica di S. Nicola di Bari. Fondo cartaceo,
EdiPuglia, Bari 1988.62 El día 12 de julio de 1707 se proclamó solemnemente en la ciudad de Bari a la persona
real de Carlos III de Austria. Según el informado cronista Pujades, el día 14 de dicho
mes se cantó un segundo Te Deum en la real basílica de San Nicola “con l’assistenza del
Magistrato, e triplicata scarica di mortaretti, ed archibusi de’ soldati così di fanteria,
come di cavalleria, ch’ivi stavano schierati”. J.B. PUJADES, Memoriale istorico, cit., pp.
222-224.63 Archivo Capitular de Toledo (ACT), Fondo Zelada, 91-9, instrucción del cardenal Vin-
cenzo Grimani al abate Domenico Giurba, sin lugar, ni fecha; Nápoles, 1708. Quede
56 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
La ausencia de otras noticias sobre el pretendido interés del virrey
sobre San Nicola parece indicar el fracaso de sus pretensiones. La im-
popularidad de Grimani en Nápoles, acrecentada con la aplicación de
nuevas medidas fiscales, pudo contribuir a que se evitase cualquier re-
forzamiento de su presencia o la de sus criaturas en el reino, máxime
cuando otros barones ya habían puesto sus miras en el priorato barese64.
Según un parecer de Francesco Moles al monarca, el conde de Montuo-
ro había solicitado directamente su posesión. Éste era el hijo primogéni-
to del príncipe de la Riccia, quien tras verse involucrado en la conjura
aristocrática de 1701 contra Felipe V había sido capturado y enviado a
la Bastilla parisina. Montuoro elevó un memorial a Carlos III pidiendo
numerosas y elevadas mercedes, desde la Grandeza de España hasta
un gobierno militar vitalicio en Salerno. Según su relación, requirió del
monarca la cesión del priorato de Bari “en uno de sus segundos herma-
nos, que es ecclesiástico”, o una pensión correspondiente a su calidad
nobiliaria. Las peticiones del conde enojaron a Moles, buen conocedor
de la situación política y económica de su tierra de origen. Por ello, en el
caso de Bari, representó al rey Carlos “quánto importa el nombrar por
aquel puesto un ecclesiástico excemplar y docto para reformar aquel
relaxadíssimo clero”65. La ausencia desde hacía más de siete años de
un prior hacía inevitable un mayor control desde la corte de Barcelona,
pues dicho priorato se constituía como una de las perlas del patronato
regio en el Mezzogiorno.
Aun obviándose los intereses del conde de Montuoro, la problemáti-
ca de Bari acabó por integrarse dentro de los principales negociados
eclesiásticos del ministerio barcelonés. Las pingües rentas que se pre-
suponían pertenecían a San Nicola también habían llamado la atención
de otros particulares. Según unos avisos napolitanos, a fines de 1709
corrió la voz de su concesión a Antonio Maria Grimaldi, un músico
partenopeo que gozaba de la protección de la reina Ana Stuart gracias a
patente mi agradecimiento a José María Domínguez por la comunicación de este fondo
documental.64 El aumento de las cargas fiscales provocó tumultos en la urbe partenopea en la prima-
vera de 1709, dirigidos especialmente contra el lugarteniente de la Sommaria, el regente
Vincenzo de Miro, y sus colaboradores. Una relación de los mismos se incluye en D.
LUONGO (a cura di), Diario napolitano dal 1700 al 1709, Società Napoletana di Storia Pa-
tria, Napoli 2003, p. 344. Una síntesis del programa tributario del virrey Grimani, en A.
DI VITTORIO, Gli austriaci e il Regno di Napoli, 1707-1734. Le fi nanze pubbliche, Giannini
Editore, Napoli 1969, pp. 32-35.65 AHN, Estado, legajo 8690, parecer del duque de Parete a Carlos III, Barcelona, 12 de
noviembre de 1709.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 57
la influencia en Londres de su hermano, el castrato Nicolino66. Con toda
probabilidad, ante la circulación de tales bulos, el virrey Grimani envió
a Carlos III una terna para la provisión del priorato.
La junta de Italia consultó al soberano los sujetos propuestos por el
cardenal que incluían a dos segundones de la alta aristocracia feudal au-striaca: los teatinos Pietro Maria Carafa – consanguíneo del príncipe de
Chiusano – y Tommaso Spinelli – hermano del duque de la Castelluccia
–, y al abate Girolamo Tomacelli. La lista de Grimani fue rechazada en
su práctica totalidad por los ministros regios. De nuevo sería el duque
de Parete quien elevase una dura queja sobre la “tan relaxada (...) di-
sciplina ecclesiástica en aquel cavildo”, interpelando a Carlos III para
reformar los desórdenes de sus miembros y, con ello, “assegurar la real
conciencia de Vuestra Magestad”. La necesidad de mano dura sobre
los díscolos prebendados de Bari debía ir acompañada de la elección
de un religioso que, por obras y “calidad”, recuperase el decoro de la
real basílica y limitase el creciente influjo del arzobispo Muzio Gaeta.
Con todas estas premisas, la junta propuso a un protegido de Moles, un
clérigo secular jenízaro llamado Antonio de Torres, dejando en segundo
y tercer lugar al enunciado Pietro Maria Carafa y al canónigo napoli-
tano Capece Galeota, respectivamente67. Ante el positivo examen de las
prendas del padre Torres, el soberano aceptó el parecer de sus ministros
y le nombró prior de San Nicola, si bien, el clérigo se negó a aceptar la
provisión “di una dignità, cui la giurisdizione, l’entrate, ed ogni altra
cosa la rendono decorosissima”68. La modesta vida del padre Antonio le
impedía aceptar tal encomienda regia, justificación que también haría el
siguiente prior electo, el canónigo Galeota, al recusar la nómina regia en
verano de 171069.
La doble renuncia de Torres y Capece Galeota postergó un año más
el intento de Parete para reformar y sujetar al poder regio el priorato de
Bari70. El encargado de ejecutar los proyectos regalistas del duque fue,
66 ASF, Mediceo del Principato, filza 4129, avisos, Nápoles, 10 de diciembre de 1709.67 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 2, minuta de con-
sulta de la junta de Italia, Barcelona, 8 de enero de 1710.68 Una relación de los motivos de la renuncia al priorato se halla en L. SABBATINI D’AN-
FORA, Vita del padre don Antonio de Torres, preposito generale della Congregazione de’ Pii Ope-rarj, nella Stamperia di Carlo Salzano, e Francesco Castaldo, Napoli 1732, pp. 70-73.jj69 ASV, Segreteria di Stato. Spagna, 203, f. 210v, avisos, Barcelona, 24 de junio de 1710.70 Pese a las constantes reflexiones sobre la relajación de costumbres del cabildo prioral
barese, no se dejó de beneficiar la autoridad jurisdiccional de la basílica, otorgándole
a mediados de 1711 las segundas causas civiles, criminales y mixtas de los feudos de
Rotigliano y San Nicandro. HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden,
Karton 6, consulta de la junta de Italia, Barcelona, 25 de mayo de 1711. Archivio di
58 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
finalmente, Pietro Maria Carafa. Perteneciente a la Orden de Clérigos
Regulares, su fidelidad a la Casa de Austria había quedado fuera de toda
duda durante el virreinato borbónico, ya que su hermano don Tiberio,
príncipe de Chiusano, fue uno de los principales articuladores de la re-
sistencia del baronaggio napolitano a la instauración de la nueva dinastía
en el reino meridional71. Asimismo, debió gozar del favor del privado
regio conde Rocco Stella a la hora de ver valorados sus méritos perso-
nales y familiares con la provisión prioral. Pese a todo ello, el latente
enfrentamiento entre la Santa Sede y la corte carolina hizo necesaria
la intercesión del agente pontificio radicado en Barcelona, Lucini, para
lograr la dispensa pontificia72.
Con el nombramiento de Carafa a la prebenda de Bari se dio por
cerrado un complejo episodio en la intrahistoria del patronato regio en
el Reame. De nada sirvieron las presiones de la corte londinense en favor
de Antonio Maria Grimaldi para que el soberano español cambiase de
opinión respecto a “una dignidad tan estimable y conspiqua como es la
del priorato de Bari”. La animosidad de los Grimaldi en su pretensión declesiástica tampoco podía convertirse en un motivo de ruptura de las
buenas relaciones diplomáticas con la reina Ana, a decir de la junta de
Italia. Por ello, la peregrina protección británica hacia un oscuro preten-
diente terminó con una solución agradable a Londres, pues se impuso
una pensión pecuniaria “sobre algún obispado” vacante en el reino par-
tenopeo73.
El caso del hermano del castrado Nicolò Grimaldi constituye un
ejemplo-tipo de la gestión de los beneficios eclesiásticos dependientes
en exclusiva del patronato monárquico. Entre los años 1707 y 1714, se
tiene constancia de la imposición de doce pensiones sobre obispados de
nómina regia en Nápoles. Un análisis detallado de los mismos permite
entrever el rígido control del ministerio cortesano, bien desde Barcelo-
Stato di Napoli (ASNA), Consiglio di Spagna, vol. 25, ff. 135r-139v, asiento de privilegio
de Carlos III al capítulo de San Nicola en Bari, Barcelona, 22 de agosto de 1711.71 C. CIANCIO, La nobiltà di spada napoletana tra viceregno spagnolo e viceregno austriaco.Le “Memorie” di Tiberio Carafa principe di Chiusano, «Archivio Storico del Sannio», 11
(2006) 1, pp. 31-89.72 ASV, Segreteria di Stato. Spagna, 204-A, f. 104v, avisos, Barcelona, 1 de marzo de 1711;
f. 131r, carta del abate Giuseppe Lucini al cardenal Fabrizio Paolucci, Barcelona, 7 de
marzo de 1711.73 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 5, consulta de la
junta de Italia, Barcelona, 7 de marzo de 1711.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 59
na, bien desde Viena (desde 1712), hacia los frutos vacantes revertidos
en la administración privativa de la Cappellania Maggiore74.
La docena de beneficiarios de rentas episcopales pertenecen mayo-
ritariamente a estratos medios del estamento clerical. Sus vinculacio-
nes con oficiales reales y diplomáticos ligados a la Casa de Austria son
evidentes. Así, aparecen Juan Manuel Mauleón, hermano de Lupercio
Mauleón, regente del consejo supremo de Italia, y Domenico Stella, so-
brino del conde Stella, favorito regio y ministro en distintos dicasterios
áulicos75. Otros, como monseñor Pierluigi Carafa, Alessandro Litta y un
sobrino del cardenal Imperiale (amparado, de nuevo, por Stella), eran
miembros de las elites partenopeas, milanesas y genovesas. Por último,
también había familiares de las casas aristocráticas napolitanas, caso del
abate Marco Antonio di San Marco, agente del marqués del Vasto en
Barcelona76. A todos estos ejemplos han de sumarse distintos embaja-
dores de potencias extranjeras que actuaban cual medianeros, caso del
portugués conde de Assumar con el doctor Zberg o el modenés conde
Orazio Guicciardi con el abate Gaudenzio Zanolli, servidor conjunto del
duque de Módena y del embajador cesáreo-católico ante los Esguízaros,
conde Franz Ehrenreich von Trauttmanssdorff77ff .
La entrega de rentas sobre obispados vacantes en Nápoles trató de
evitar el sobredimensionamiento de los fondos seculares de la Real Ha-
cienda, en relación a pensionados y miembros de las casas reales. Junto
al ejemplo del doctor Giulio Antonio Sacchi, predicador regio-imperial,
cuya pensión de trescientos ducados en obispados vacantes partenopeos
le fue imposible cobrar, el caso de Carlo Menga, sopranista de la Real
74 Sobre las atribuciones de los oficiales reales, especialmente los ligados al capellán
mayor del reino, en materia vinculada a “le rendite maturate delle chiese e beneficii
spettanti a nomina, presentazione e collazione regia”, véase F. TRINCHERA, Degli Archivii Neapolitani, p. 413.i75 ASV, Fondo Albani, 106, f. 163r, despacho de Carlos III al príncipe de Avellino, Milán, i7 de noviembre de 1711 [Stella]. HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentral-behörden, Karton 12, consulta del consejo supremo de Italia, Barcelona, 30 de diciembre
de 1712 [Mauleón].76 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 9, consulta de la
Junta del consejo supremo de Italia, Barcelona, 3 de noviembre de 1711 [Carafa]. Ibi-dem, Karton 16, consulta de la junta imperial de Italia, Viena, 12 de diciembre de 1712
[Imperiale]. Ibidem, Karton 13, consulta del consejo supremo de Italia, Barcelona, 10 de
enero de 1713 [San Marco] y consulta del consejo supremo de Italia, Barcelona, 15 de
marzo de 1713 [Litta].77 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 2, consulta de la
junta de Italia, Barcelona, 21 de febrero de 1710 [Zanolli]. Ibidem, Karton 13, consulta
del consejo supremo de Italia, Barcelona, 15 de marzo de 1713 [Zberg].
60 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
Capilla barcelonesa, permite analizar los procedimientos de tales asi-
gnaciones78. Conforme a una consulta del consejo de Italia de 31 de di-
ciembre de 1712, el soprano había recibido tres años atrás una pensión
de ciento cincuenta escudos anuales sobre el arzobispado vacante de
Taranto. La cantidad se había librado no como un fin en sí mismo, pues
se trató de un complemento al tenue sueldo remitido desde Nápoles a
los pagadores de la Casa. Pero al igual que a otros individuos, la apli-
cación no fue efectiva, pese a reiteradas órdenes enviadas al virrey. Tal
desajuste entre los decretos cortesanos y su ejecución parece provenir de
la difícil fiscalización de los canales de control de las mesas episcopales,
los ecónomos regios, ante su autonomía frente a la centralizadora figura
del cappellano maggiore.La situación de las rentas permanentes no siempre fue factible, tanto
por los problemas internos en la percepción y libranza de las rentas asi-
gnadas por el monarca como por la sobrecarga de parcelas hacendísti-
cas de los episcopados vacos. A tenor de las consultas y decretos, se
tiene constancia de la aplicación del arzobispado de Taranto para tres
beneficiarios, mientras que los obispados de Pozzuoli y Potenza sólo
satisficieron a un único sujeto. En otros cuatro casos se generaliza nomi-
nalmente la concesión en “obispados vacantes en Nápoles”, cuando no
en el Reame y la Sicilia todavía borbónica79. Ante la creciente solicitación
de tales pensiones, se establecieron controles complementarios, caso de
la exclusión del milanés abate Giovanni Battista Finale, a causa de su
naturaleza lombarda, o se excusaron peticiones de forma abierta ante la
falta de parcelas libres sobre las que imponer dichas prebendas80.
Una posible causa de la indeterminación puede residir en la conflicti-
va gestión de las prelacías napolitanas desde 1708. La negativa carolina
78 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 13. Informe de
Juan Antonio de Alvarado, Barcelona, 16 de marzo de 1713 [Sacchi]. Las referencias
sobre el castrato Menga, en Ibidem, Karton 12, consulta del consejo supremo de Italia,
Barcelona, 31 de diciembre de 1712. Asimismo, vid. D. LIPP, Músicos italianos entre las cortes de Carlos III/VI en Barcelona y Viena, en ÁLVAREZ - OSSORIO ALVARIÑO - GARCÍA GAR-
CÍA - LEÓN SANZ (eds.), La pérdida de Europa, pp. 159-179: 170, 172.79 La concesión de pensión “sobre obispados de Nápoles, y Sicilia” corresponde al reli-
gioso Juan Manuel Mauleón. HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden,
Karton 12, consulta del consejo supremo de Italia, Barcelona, 30 de diciembre de 1712.80 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 4, consulta de la
junta de Italia, Barcelona, 27 de agosto de 1710. La referencia a la exclusión se cor-
responde a los problemas para situar una renta al conde Carlo Giuseppe Albani, paje
cesáreo, pues “ni en Milán, ni en Nápoles ay vacante de beneficio que se le pueda con-
ferir” a la altura del otoño de 1713. Ibidem, Karton 17, consulta de la junta imperial de
Italia, Viena, 9 de octubre de 1713.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 61
para aceptar las nóminas de obispados dependientes privativamente de
la Santa Sede tuvo un efecto secundario en los pertenecientes al pa-
tronato regio. El origen de su control monárquico proviene, de nuevo,
del pontificado de Bonifacio VIII, quien concedió a Carlos II de Anjou
algunas sedes diocesanas en suelo napolitano. Sin embargo, la conso-
lidación de dicha forma de patronato era más reciente, de tiempos del
césar Carlos V, quien vio reconocida la posibilidad de presentar veinti-
cuatro diócesis partenopeas. La voluntad regalista del emperador trató
de fortalecer su posición en ámbitos estratégicos “per la diffusione del
lealismo e il controllo della popolazione”, tanto por su naturaleza de
polos económicos o antemurales militares del reino81.
Durante los años iniciales del reinado de Carlos III en Nápoles se
reformularon prácticas tradicionales sobre el control de dichas sedes
episcopales. Como ha estudiado recientemente Ida Mauro, a lo largo
del Seiscientos se fortaleció el interés tanto de los reyes de España como
de los virreyes de Nápoles por situar al frente de aquéllas a sujetos bien
conocidos por su fidelidad a la Monarquía. Además, tras la represión de
las alteraciones de Massaniello y la Real Reppublica Napoletana, se asi-
stió a un repunte en los nombramientos de eclesiásticos españoles, que
se ralentizaría tras la derrota del virrey borbónico marqués de Villena82.
La mutación de escenarios cortesanos tuvo un notable impacto en
las provisiones regias del patronato partenopeo. Analizando los casos
de nueve diócesis vacantes en el periodo entre 1707 y 1714 (arzobispa-
dos de Manfredonia, Trani, Brindisi y Taranto, y obispados de Ugento,
Castellammare, Acerra, L’Aquila y Potenza), solamente dos de los suje-
tos propuestos por el rey Carlos provenían de reinos de la Corona de
Aragón: el oratoriano castellonense Gaspar Fuster, arzobispo electo de
81 I. MAURO, Il governo dei viceré di Napoli e la presenza di vescovi spagnoli nelle diocesi di regio patronato del Regno, en C. BRAVO LOZANO - R. QUIRÓS ROSADO (a cura di), En tierra de confl uencias. Italia y la Monarquía de España, siglos XVI-XVIII, Albatros Ediciones, IIValencia 2013, pp. 51-59: 52-53. G. MUTO, La nobleza napolitana en el contexto de la Monarquía Hispánica: algunos planteamientos, en B. YUN CASALILLA (a cura di), Las Redes del Imperio. Élites sociales en la articulación de la Monarquía Hispánica, 1492-1714, Marcial
Pons Historia, Madrid 2009, pp. 135-171: 163.82 I. MAURO, “Il governo dei viceré”, op. cit. Asimismo, vid. M. SPEDICATO, Il mercato della mitra. Episcopato regio e privilegio dell’alternativa nel regno di Napoli in età spagnola, 1529-1714, Cacucci Editore, Bari 1996; ID., Il patronato regio nel Regno di Napoli in età moderna tra rivendicazioni giurisdizionali e processi amministrativi, en M. i SPEDICATO (a cura di), Sta-ti e chiese nazionali di antico regime, EdiPan, Galatina 2006, pp. 75-97. Sobre el impacto
pugliese del patronato regio, véase P. NESTOLA, Una provincia del Reino de Nápoles con fuerte concentración regalista: Tierra de Otranto y el entramado de la geografía de regio patro-nato entre los siglos XVI y XVII, «Cuadernos de Historia Moderna», 36 (2011), pp. 17-40.II
62 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
Brindisi en 1710 – cargo que renunció con posterioridad por el arzobi-
spado sardo de Sassari –, y el barcelonés Pau Vilana-Perlas, arzobispo de
Taranto desde 1714. Por contra, el resto de los obispos y arzobispos no-
minados era de origen napolitano, aunque sus patronos se encontraban
bien situados en la corte carolina.
Un ejemplo de esta progresiva concesión a regnícolas lo constituyen
los hermanos jenízaros De Lerma, Giovanni y Baldassarre, quienes fue-
ron electos por Carlos III para el arzobispado de Manfredonia y los
obispados de L’Aquila y Acerra, respectivamente83. Mientras don Gio-
vanni no tuvo problemas para recibir el asenso pontificio a su elección,
su hermano Baldassarre no logró ver efectivo ninguno de sus nombra-
mientos, aunque por motivaciones personales. Este prelado, oriundo de
una familia burgalesa pero nacido en Bitonto, había demostrado una
constante fidelidad a la Casa de Austria durante el periodo borbónico,
que se patentizó nuevamente tras el regreso de los Habsburgo a la sobe-
ranía napolitana. Así, tras la conquista cesárea de 1707, hizo exponer en
Altamura, donde ejercía como arcipreste,
superbo teatro avanti il suo palagio, ed ivi spose il ritratto del Re con mol-
ti torchj, fece una fontana quasi perenne di vino, figurata in una grande
aquila imperiale, e con nobil serenata, spargimento di confitture e danari
in molta copia al popolo, festeggiò per più sere cotanta solennità, ren-
dendone publicamente le grazie a Dio nella sua real chiesa, e faccendo
recitar’una dotta orazione panegirica, continente le lodi del Monarca84.
Su afectación austriaca le facilitó la exaltación al obispado de L’Aquila
en 1710, que no llegó a aceptar “por decir era a su complexión mui
contrario aquel ayre”. La renuncia vino al tiempo en que los enfrenta-
mientos entre Lerma y las autoridades locales de Altamura preocuparon
al ministerio barcelonés. La única opción para atajar la conflictividad
de la ciudad pugliese fue su nombramiento, en 1711, como obispo de
Acerra, sustituyéndole en su arciprestazgo una hechura del conde Stella,
el canónigo Michele Orsi. De nuevo, retomando los motivos de salud y
“la mala calidad de aquel clima y ayre”, don Baldassarre excusó la inve-
stidura episcopal ante la atónita contemplación de la corte carolina. Las
incógnitas sobre la doble renunciación de Lerma se despejaron cuando
se conocieron las instancias que los parientes del prelado, mediante su
83 G. RECCHO (duque de Accadia), Notizie di famiglie nobili, ed illustri della città, e Regno di Napoli, presso Domenico Antonio, e Nicola Parrino, Napoli 1717, p. 25.i84 J.B. PUJADES, Memoriale istorico, cit., pp. 224-225.
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 63
hermano el arzobispo de Manfredonia, habían efectuado en Roma para
verle condecorado con uno de los obispados pontificios del Reame85.
Los problemas del arcipreste de Altamura no constituyeron la tóni-
ca dominante en los negociados de provisiones episcopales napolitanas.
Más bien al contrario, la resistencia de Clemente XI para “despachar las
bullas a los electos obispos del reyno de Nápoles” fue el factor común a
las nóminas carolinas para cubrir las diócesis de patronato vacantes86. A
causa de tal bloqueo, entre 1708 y 1713 las cortes de Barcelona y Viena
sólo consiguieron asignar una indeterminada futura de las prelacías a los
agraciados, sin poder siquiera gozar éstos de las rentas caídas de aquel-
las sedes que habrían de ocupar87. Respecto al arzobispo eletto Fuster,
éste suplicó tres años después de la nómina la consignación de parte
de los frutos de Brindisi “hasta que entre en posesión”. La querella que
podía suscitarse con la Santa Sede si se condescendiese con don Gaspar
hizo necesario un parecer de los teólogos fray Anselmo de la Peña y fray
Ambrosio Albendea previo a la consulta definitiva del consejo supremo
de Italia. Finalmente, se acordó la asignación de mil ducados anuales
“en la tercera parte destinada a limosnas” en la mesa arzobispal88. La
promoción de Fuster a la diócesis de Sassari, primada de Cerdeña, sol-
ventó sus problemas financieros y, de paso, abrió las puertas de la jerar-
quía religiosa napolitana a un hermano del marqués de Rialp, secretario
del Despacho Universal en Viena, el doctor Pau Vilana-Perlas89. El caso
del flamante nuevo arzobispo de Brindisi es similar al de Giovanni Bat-
tista Stella, hermano del conde Rocco Stella, quien, sin ver efectivo su
85 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 12, consulta del
consejo supremo de Italia, Barcelona, 3 de noviembre de 1712.86 Ibidem.87 En 1713, las primeras nóminas regias para ser tratadas en el consistorio secreto roma-
no fueron presentadas por el cardenal Gianantonio Davia, quien “propose l’arcivescova-
to d’Ugento per Nicolò Spinelli, quello di Castelli a Mare per Biagio de Dura”, así como
el obispado de Malta a Jaume Canavès (que también sería nominado por Felipe V). Il corriere ordinario. 20 Settembre 1713, nº 75, appresso Giovanni van Ghelen, Wien, 1713,
avisos, Roma, 2 de septiembre de 1713.88 HHSTA, Italien Spanischer Rat. Vorträge der Zentralbehörden, Karton 13, consulta del
consejo supremo de Italia, Barcelona, 16 de febrero de 1713.89 HHSTA, Staatenabteilungen. Rom. Spanischer Rat. Varia, Karton 1, carta de Carlos VI
a Clemente XI, Viena, 5 de diciembre de 1714. Algunos datos complementarios sobre
Pau Vilana-Perlas, en A. ALCOBERRO, L’exili austriacista (1713-1747), vol. I, Fundació
Noguera, Barcelona, 2002, pp. 77, 183.
64 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
designación de obispo de Potenza, le fue provisto el rico arzobispado de
Taranto90.
El influjo cortesano no siempre supuso un éxito asegurado en la bú-
squeda de las mitras de patronato regio. Una carta del enviado extraordi-
nario portugués a la corte vienesa, conde de Vilar Maior, a su homólogo
en Barcelona, conde de Assumar, buscaba “patrocínio e proteccão” para
el dominico Tommaso Gaudioso. Napolitano participante en la conjura
de 1701, fra’ Tommaso se había refugiado entre los barones exiliados
para lograr la protección del emperador Leopoldo. Según palabras del
propio religioso, sus servicios a la Augustísima Casa le habían servido
para ser investido como teólogo, predicador y capellán de honor de José
I, pero también consideraba debían ser honrados por Carlos III con una
renta vitalicia, “coll’onore de caratteri conferitemi da Sua Maestà Cesa-
rea et una nomina di un regio vescovato” en Nápoles. Los oficios de los
diplomáticos no sirvieron para que la gracia del soberano español reca-
yese sobre tal religioso91. Inclusive, mayores aldabas tampoco lograron
reconvenir otras voluntades decisivas. Ésta sería la situación de Antoni-
no Constantini, electo arzobispo de Trani, quien no logró el asenso de
Clemente XI, pese a los oficios favorables a su persona del emperador
José92.
Todos los mencionados testimonios denotan la dificultad de hallar
una interpretación unidireccional sobre los comportamientos y procesos
de provisión de diócesis de patronato regio en el Regno. Sin embargo, de
ellos pueden extraerse líneas maestras, como la constante intervención
de las elites ministeriales y palatinas cercanas al rey-emperador Carlos
en favor de los pretendientes y la inexistente interacción de las nóminas
con poderes intermedios, el virrey y el cappellano maggiore. Además, ha
de sumarse otro factor cardinal en la lógica del patronato partenopeo: el
papel de la curia pontificia que, al igual que acaeciese con el Priorato de
San Nicola de Bari, se convirtió en un poder limitador de la autonomía
de la potestas y el ius regalista del monarca hispano.
90 ASV, Fondo Albani, 47, ff. 356v-357r, carta de Carlos VI a Clemente XI, Viena, 22 deijulio de 1713.91 Biblioteca Nacional de España (BNE), Ms. 7544, f. 25r, carta del conde de Vilar Maior
al conde de Assumar, Viena, 26 de mayo de 1708); ff. 28r-29v, memorial de fra’ Tomma-
so Gaudioso a Carlos III, sin lugar, sin fecha; Viena, 1708.92 Según se desprende de la epístola cesárea al papa Clemente XI, el nombramiento
carolino parecía haberse dado gracias a los oficios del emperador a favor de Constantini,
doméstico, consejero eclesiástico, capellán y teólogo de la corte de Viena. ASV, Fondo Albani, 47, f. 353r, carta de José I a Clemente XI, Viena, 28 de junio de 1710.i
PATRONATO REGIO Y CLIENTELISMO CORTESANO 65
En la primavera de 1715, por un decreto dirigido al conde Wirich Phi-
lipp von Daun, virrey de Nápoles, Carlos VI dio aviso de su regia volun-
tad de “atender al consuelo de tantos españoles de distinzión, méritos y
prendas personales, que abandonando sus haziendas, patrias y empleos
an seguido con imbariable fidelidad la justicia de mi causa”. Como pa-
dre de sus súbditos, y buen conocedor de los efectos de la fidelidad a la
Augustísima Casa de ministros, militares y clérigos de origen hispano,
su propio decoro hacía convenible dicho gesto de munificencia. Para que
ésta tomase corporeidad, se dio orden de su connaturalización en el
reino de Nápoles. Esta acción, que se recordaba ya había sido ejecutada
“en yguales cassos y en familias portuguesas y borgoñonas” a lo largo
de la centuria precedente, facilitaría la inserción de los exiliados dentro
de las propias instituciones93. Éstos se componían de cincuenta y sie-
te individuos diferenciados en tres categorías, “eclesiásticos, políticos y
letrados”, algunos de los cuales provenían de la evacuada Barcelona y,
otros, ya habían ejercido algunos oficios reales en el Reame94.
A un siendo claras las órdenes carolinas, tras ser evacuadas por la
secretaría de Estado y Guerra a los seggi napolitanos, éstos mostraroniuna seria oposición. Para dicha elite ciudadana, la connaturalización de
sujetos que estaban en condición de verse favorecidos con tales cargos y
beneficios anulaba la búsqueda de su provisión exclusiva en individuos
regnícolas. Graves eran “los perjuicios que esta naturalizazión ocasiona
a este público”, y ante la lesión de los privilegios privativos del reino,
siempre habrían de resistirse a semejantes gracias95.
La negativa napolitana a que los españoles accediesen a conspicuos
puestos del ministerio y las rentas también se vio reflejada en el Estado
de Milán, en particular, en el ámbito del patronato regio. La causa del
descontento lombardo no provino de un decreto de connaturalización,
sino de los beneficios mediatizados por los principales ministros españo-
les del césar Carlos. A fines de 1714, el marqués de Rialp, secretario del
93 ASMI, Carteggi Consolari, cartella 24, despacho de Carlos III al conde Daun, Viena,i11 de mayo de 1715.94 Ibi, i Las listas de eclesiásticos, políticos y letrados que se han de connaturalizar, sin lugar, ni rfecha.95 Ibi, i Voto de la ziudad y diputazión de Nápoles tocantes a las naturalezas de los españoles,sin lugar, ni fecha; Nápoles, 1715. Sobre la fobia napolitana ante el asentamiento en
el Reame de naturales de la península Ibérica o la implantación de modelos políticos,
económicos y sociales hispanos, aspecto subrayado por el reputado jurista coetáneo Pa-
olo Mattia Doria, vid. G. RICUPERATI, L’immagine della Spagna a Napoli nel primo Sette-cento: Vico, Carafa, Doria e Giannone, en A. MUSI (a cura di), Alle origini di una nazione.Antispagnolismo e identità italiana, Guerini e associati, Milano 2003, pp. 83-111.
66 ROBERTO QUIRÓS ROSADO
Despacho Universal, obtuvo para el preceptor catalán de sus hijos el
canonicato en la colegiata de la Scala vacante por muerte del ecónomo
regio Francesco Visconti96. Dicha merced, que obviaba la secular selec-
ción de canónigos para dicha institución, fue acogida con reticencias por
un patriciado que acordó atajar nombramientos semejantes en exiliados
forasteros. El agente de la Congregación del Estado destinado en Viena,
marqués Achille Torelli, presionó para que tal concesión sólo fuese dada
“a’ nazionali di codesta città, e Stato”97. Era un deseo que se remonta-
ba, al menos, dos décadas atrás, cuando también se buscara en la corte
madrileña de Carlos II98. Pero, al igual que entonces, sólo se consiguie-
ron palabras generales por parte del gobernador general, Eugenio de
Saboya, y los regentes provinciales por el Estado de Milán en el consejo
de España99.
Con ello quedaba patente la creciente hostilidad de las elites locales
al nuevo rumbo de la gestión del patronato regio. En sí, hacia los gestos
de un monarca que, tras las alteraciones (y necesidades) del periodo
bélico, vería influida su graciosa voluntad por un entourage cortesano
que observó las posibilidades de las colaciones monárquicas como un
medio de subsistencia en la corte de Viena y de instauración de redes de
poder en los diferentes territorios de la Italia austriaca.
96 ASF, Mediceo del Principato, filza 4433, carta de Neri Guadagni a Francesco Panciati-
chi, Viena, 1 de diciembre de 1714.97 Archivio Storico Civico di Milano (ASCMI), Dicasteri, cartella 80, fascicolo 3, carta idel marqués Achille Torelli al vicario de provisión y Consiglio Generale de Milán, Viena,
26 de febrero de 1716. Sobre la negociación diplomática lombarda ante los soberanos
de la casa de Austria durante el conflicto sucesorio, vid. R. QUIRÓS ROSADO, Defender el Stato, promocionar al patriciado. La diplomacia lombarda en las cortes de los Habsburgo (1706-1714), en R. QUIRÓS ROSADO - C. BRAVO LOZANO (a cura di), Los embajadores.Representantes de la soberanía, garantes del equilibrio (1659-1748), Marcial Pons Historia,
Madrid 2017 (en prensa).98 Dicho negociado había sido gestionado, entre 1695 y 1696, por el marqués Giovanni
Battista Ajroldi, aunque sin grandes resultados para los intereses milaneses. ASCMI,
Dicasteri, cartella 168, carta del marqués Giovanni Battista Ajroldi a la Congregaciónidel Estado, Madrid, 10 de marzo de 1695; Ibi, cartella 169, carta del marqués Giovanni iBattista Ajroldi a la Congregación del Estado, Madrid, 9 de febrero de 1696.99 ASCMI, Dicasteri, cartella 80, fascicolo 3, carta del príncipe Eugenio de Saboya al ivicario de provisión de Milán, Viena, 18 de marzo de 1716.
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 67-92
Persona-valore e libertà dei moderni nella riflessione di Norberto Bobbio (1934-1965)1
ADELINA BISIGNANI
Il saggio analizza il pensiero politico e giuridico di Norberto Bobbio nel suo
svolgimento dagli ’30 agli anni ’50 del Novecento.
Muovendo dall’iniziale interesse per la fenomenologia, Bobbio pone al centro
della sua riflessione il concetto di “persona”. Nella ricerca teorica di Bobbio
tale concetto resterà centrale anche nel secondo dopoguerra, quando la sua
attenzione si sposterà sulle tematiche del formalismo giuridico.
The essay analyzes the political and legal thought of Norberto Bobbio in its
development from the thirties to the fifties of twentieth century. Moving from
initial interest in phenomenology, Bobbio is at the center of his reflection on
the concept of “person”. This concept remains central even after World War II,
when the focus will shift Bobbio ‘on issues of legal formalism.
Parole-chiave: Fenomenologia; Persona; diritto; politica; formalismo giuridico.
1. Dalla fenomenologia al positivismo giuridico
Nella introduzione alla raccolte di scritti su Kelsen, Diritto e potere, è lo
stesso Bobbio a fornire alcuni elementi per interpretare la sua forma-
zione culturale. Egli ricorda che lui e Renato Treves, entrambi allievi di
Gioele Solari, «indirizzati allo studio della filosofia tedesca», ritennero di
doversi dividere il campo degli studi.
Lui [= Treves] – scrive Bobbio – avrebbe studiato la Scuola di Marburgo,
cui si era ispirato Kelsen, io la fenomenologia, di cui erano apparsi allora
i primi tentativi di estensione al diritto. [...] Mentre da Treves si può far
cominciare la fortuna di Kelsen in Italia, anche se era apparso qualche
scritto precedente, un seguito ai miei studi sulla fenomenologia della te-
oria del diritto non ci fu mai. Io stesso li abbandonai ben presto alla furia
roditrice dei topi. Il mio kelsenismo, per cui sono considerato spesso uno
1 Considero come periodizzanti le date di pubblicazione de L’indirizzo fenomenologico nella fi losofi a sociale e giuridica e della prima edizione di Giunaturalismo e positivismo giu-ridico.
68 ADELINA BISIGNANI
dei maggiori, se non il maggiore, responsabile della “kelsenite” italiana,
cominciò molti anni dopo2.
È una pagina che sottolinea i limiti di quel primo approccio alla filoso-
fia del diritto e che evidenzia l’insoddisfazione per una ricerca che ver-
rà “bruciata” nell’arco di pochi anni. Tuttavia, non vanno sottovalutate
(anche per la comprensione dei caratteri del suo successivo “kelseni-
smo”) le ragioni che, in quei suoi primi passi, muovevano Bobbio. Già
ad una prima lettura il saggio su L’indirizzo fenomenologico nella fi losofi asociale e giuridica3 rende manifesto il bisogno di uscire dalle riduzioni
idealistiche del diritto: il bisogno di evitare sia la riduzione crociana del
diritto all’economico, sia la subordinazione del diritto alla sola autorità
dello Stato teorizzata da Gentile. La via che Bobbio tenta è quella di
fissare i caratteri di un “rapporto obbligatorio” tra i molteplici individui
che compongono una società. In quel saggio si legge:
Tra gli atti sociali, alla cui categoria appartiene, l’atto giuridico si distin-
gue per il carattere della reciprocità che gli conferiscono i due termini di
diritto e di dovere. Nell’atto giuridico la direzione dall’io al tu è correlati-
va all’altra diversa direzione dal tu all’io [...] Gli atti giuridici hanno una
struttura loro propria che non si può confondere con nessuno degli altri
2 N. BOBBIO, Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992,
p. 6. Per una ricostruzione complessiva della vita e della ricerca di Norberto Bobbio
si vedano i seguenti saggi: N. MATTEUCCI, Democrazia e autocrazia in Norberto Bobbio(1985), in ID., Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 67-95; i E.
LANFRANCHI, Un fi losofo militante. Politica e cultura nel pensiero di Norberto Bobbio, Bollati
Boringhieri, Torino 1989; T. GRECO, Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra fi losofi ae politica, Donzelli, Roma 2000; P. ROSSI (a cura di), Norberto Bobbio tra diritto e politica,
Laterza, Bari 2005; V. PAZÉ (a cura di), L’opera di Norberto Bobbio. Itinerari di lettura, F.
Angeli, Milano 2005; R. GIANNETTI, Tra liberaldemocrazia e socialismo. Saggi sul pensiero politico di Norberto Bobbio, Edizioni Plus, Pisa 2006; P.P. PORTINARO, Introduzione a Bob-bio, Laterza, Bari 2008. Infine, anche se focalizzato sull’ultima fase della ricerca di Bob-
bio, è da tener presente il volume di D. ZOLO, L’alito della libertà. Su Bobbio, Feltrinelli,
Milano 2008, che contiene venticinque lettere inedite di Bobbio all’autore. Strumenti
indispensabili sono, naturalmente, la sua Autobiografi a, A. PAPUZZI (a cura di), Laterza,
Bari 1997 e la Bibliografi a degli scritti di Norberto Bobbio. 1934-1993, C. VIOLI (a cura di),
Laterza, Bari 1995.
Tra le opere di Renato Treves (1907-1992), che insegnò filosofia del diritto presso l’U-
niversità di Milano, ricordiamo: Introduzione alla sociologia del diritto, Einaudi, Torino
1977, e Sociologia del diritto. Origini, ricerche, problemi, prefazione dii M.G. LOSANO, Ei-
naudi, Torino 1996 (1a ed. 1986). Sulla sua figura vi veda il saggio di N. BOBBIO, Il pen-siero fi losofi co e giuridico di Renato Treves (1994), ora in ID., La mia Italia, Passigli, Firenze
2000, pp. 84-95.3 Istituto giuridico della Regia Università, Torino 1934.
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 69
infiniti atti della coscienza, e per rimanere nel campo degli atti sociali, né
con gli atti economici né con gli atti etici4.
L’intento di Bobbio è quello di trovare una “essenza” del diritto, una
sua “specificità”, che consenta di sottrarlo alla subordinazione a un’altra
“sfera dello Spirito”. A tal fine, il ricorso all’approccio “eidetico”, che
la fenomenologia suggeriva, poteva risultare efficace. La successiva in-
soddisfazione per una tale ricerca non deve, perciò, far dimenticare la
domanda da cui muoveva: come rivendicare l’autonomia della fi losofi a edella scienza del diritto rispetto ad altre Forme (o discipline) dello Spirito.
In un periodo storico dominato dallo storicismo e dalle “culture della
crisi”, che per ragioni diverse tendevano a relativizzare la funzione del
diritto, Bobbio tentava, attraverso la ricerca di una essenza (di un eidos), di ancorare la scienza e la pratica del diritto a un sistema valoriale certo.
Fissare il carattere eidetico del diritto aveva lo scopo di combattere la sua
relativizzazione e, quindi, la sua subordinazione a volontà ideologiche o
politiche. D’altra parte, la critica di ogni tentazione relativistica lo ac-
compagnerà anche dopo la “scoperta” del kelsenismo. In Kelsen, egli
vedrà, soprattutto, il modo per giungere alla neutralizzazione del conflit-
to tra valori opposti e, quindi, ancora una volta un modo per sottrarsi al
relativismo e all’ideologismo.
È, però, con il saggio su La fi losofi a del decadentismo (1944) che le mo-
tivazioni anti-relativistiche della sua ricerca si chiariscono pienamente.
In questo scritto, l’esistenzialismo e la fenomenologia appaiono come
la rappresentazione filosofica di una crisi epocale. Analizzando gli argo-
menti dell’esistenzialismo, Bobbio osserva che non si può enfatizzare e
ipostatizzare la situazione di crisi e, quindi, chiudersi nella dimensione
di una perenne “angoscia esistenziale”; non è possibile annichilirsi nella
contemplazione quasi estatica della crisi e ripiegarsi su se stessi. Dalla
crisi bisogna uscire. Ed essa può essere superata, recuperando la nozione
di “persona-valore”. Così, nelle pagine de La fi losofi a del decadentismopuò scrivere:
Il decadentismo, come degenerazione del titanismo romantico, esprime
una esigenza di aristocratica differenziazione (la volontà di potenza); il
personalismo, prima ancora che se ne approfondisca il suo significato
teoretico, già ci richiama alle istanze più vive del democraticismo eguali-
tario (i diritti naturali dell’uomo). [...] Quando si parla di una reviviscen-
za del personalismo a proposito dell’esistenzialismo, s’intende parlare di
una riaffermazione del valore assoluto, in senso religioso, dell’individuo
umano, in antitesi all’universalismo panlogistico e immanentistico dell’i-
4 N. BOBBIO, L’indirizzo fenomenologico, cit., p. 144-145.
70 ADELINA BISIGNANI
dealismo hegeliano e post-hegeliano, e al falso universalismo empirico e
agnostico della sociologia positivistica5.
E nelle pagine finali del saggio Bobbio insiste sul carattere programmati-
co del personalismo: il suo essere, innanzitutto, un progetto per superare
la crisi di civiltà in cui era caduto il genere umano a causa della guerra:
L’uomo diventa persona per quel valore che egli acquista nella società
degli uomini, in quanto gli uomini stessi, cominciando dalla madre che
lo nutre sino al capo che lo comanda, glielo riconoscono in ragione del
suo avere bisogno degli altri e del suo dare agli altri. Tutta l’etica, e quin-
di anche il valore della personalità morale, è in funzione dell’attuabilità
della convivenza. Ogni altra fondazione dell’etica che non sia l’attuabilità
della convivenza in un luogo e in un tempo storicamente dati, è fittizia
e surrettizia [...] Di fronte all’irrazionalismo e all’antirazionalismo vit-
toriosi, la via per la quale il pensiero contemporaneo si trarrà fuori dal
pelago del decadentismo, è la via di un nuovo e rafforzato razionalismo
che abbia per guida non la ragione astratta, ma la ragione storica6.
Il personalismo è, dunque, la via per emanciparsi dalla relativizzazio-
ne dei valori che il decadentismo esistenzialista suggerisce. Di fronte
al dramma dell’Europa moderna (che ha visto il sorgere di totalitari-
smi e due guerre mondiali) il concetto di persona indica la via per una
fuori-uscita dalla crisi morale e politica. La difesa della persona-valore
è il punto di partenza per la ricerca della pace e la costruzione di una
“società giusta”. Non vi può essere nessuna società conciliata con se
stessa, se non ci sono regole che garantiscano la dignità e l’inviolabilità
della persona. E il personalismo è quella filosofia che pone l’essenza e il
fine del diritto nella regolamentazione dei rapporti tra l’“Io” e il “Tu”;
è la filosofia più adatta a fissare le garanzie necessarie per la vita del-
l’“individuo sociale”. Come ha notato Pier Paolo Portinaro7, è questo
il modo in cui Bobbio traduce la lezione crociana sulla “religione della
5 N. BOBBIO La fi losofi a del decadentismo, Chiantore, Torino 1944, pp. 90 e 91.6 Ibi, pp. 120-121. Sulla necessità di difendere la persona umana Bobbio insiste anche
nella sua Prolusione su La Persona e lo Stato, letta il 6 novembre 1946 all’Università
di Padova e pubblicata nell’“Annuario dell’Università di Padova dell’anno accademico
1946-47”, Successori Penada Stampatori, Padova 1948, pp. 15-26, ora in N. BOBBIO, Tradue repubbliche, T. GRECO (a cura di), Donzelli, Roma 1996, pp. 72-86. Che l’idea della
“dignità della persona umana” sia una costante della riflessione bobbiana è testimoniato
anche dal fatto che su tale tema egli ritorni anche nel saggio Diritto e Stato nell’opera gio-vanile di Aldo Moro, in “Il Politico”, 45 (1980) 1, pp. 7-26, poi ripubblicato, con il titolo
Il giovane Aldo Moro, in ID., Dal fascismo alla democrazia, M. BOVERO (a cura di), Baldini
& Castoldi, Milano 1997, pp. 283-307.7 Cfr. P.P. PORTINARO, Introduzione a Bobbio, cit., pp. 62-63.
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 71
libertà”. Se Croce aveva interpretato l’epoca storica iniziata con la Ri-
voluzione Francese come l’epoca della “religione della libertà”, Bobbio
pensa questa stessa epoca come l’“età dei diritti”: come l’epoca in cui
gli uomini hanno conquistato i propri diritti civili e politici In questa età,
funzione e compito del diritto divengono l’affermazione della libertà e
della dignità della persona, non più vista nella sua pura individualità ma
nel suo co-esistere con l’altro.
La impostazione teorica di Bobbio ha chiare connessioni con la coeva
riflessione di Capitini, di Calogero e di Calamandrei. Il principio della
interdipendenza dell’“Io” con il “Tu” e del riconoscimento dell’“aver
bisogno degli altri” e del “dare agli altri” è facilmente rintracciabile in
questi autori. È in quest’area culturale (liberalsocialista) che la “perso-
na” diviene il principio etico fondativo del diritto e della vita sociale8. Si
tratta, comunque, di un personalismo laico che non ricerca alcuna giusti-
ficazione o fondazione teorica nella Trascendenza, ma nell’affermazione
della dignità umana e dell’individuo come individuo sociale.La elaborazione di una concezione laica della persona umana trova,
in questi stessi anni, una ferma opposizione nella ricerca di Galvano
Della Volpe. Questi sviluppa un’analisi dei testi di Marx che lo porta
una critica del concetto di persona-valore. L’obiettivo teorico era la de-
costruzione tanto della concezione cattolica della persona umana, quan-
to di quella liberalsocialista, che egli identifica con il “revisionismo” di
Bernstein, Mondolfo e Croce. Della Volpe oppone al concetto di per-
sona-valore il concetto di “uomo-lavoro” e tenta di fondare su questo
concetto una teoria della rivoluzione socialista. Nel saggio su La libertàcomunista egli scrive:
Il problema di un ordine sociale, significando il problema di una società
degna del nome, di una società sociale o società verace e non apparente,
resta completamente estraneo a chi muova dal principio della mera pri-
marietà della persona rispetto alla società in genere9.
E ancora:
La distinzione della vita individuale, in quanto essa è personale e in que-
sto è sottoposta a una determinata branca di lavoro, è infine illusoria: per-
8 Sulla elaborazione teorica di Calogero e Capitini rinvio al mio Intellettuali e Stato, Cen-
tro Editoriale Toscano, Firenze 2015, ma si vedano anche: D. COFRACESCO, Europeismo e cultura. Da Cattaneo a Calogero, Ecig, Genova 1981, e P. BAGNOLI, Il liberalsocialismo,
Polistampa, Firenze 1997.9 G. DELLA VOLPE, La libertà comunista, Samonà e Savelli, Roma 1969, pp. 16-17. La
prima edizione di questo volume di Della Volpe è del 1946, presso l’editore Ferrara di
Messina.
72 ADELINA BISIGNANI
ché a guardar bene, l’autoestraneazione dell’uomo nel suo lavoro, ch’essa
esprime, tale estraneazione si ripercuote nella sua stessa vita cosiddetta
personale e libera, che solo in apparenza risulta tale10.
Non è qui il caso di approfondire ulteriormente il discorso che Della
Volpe viene svolgendo intorno al marxismo come «galileismo morale».
Già dai brevi passaggi da noi citati appare chiaro che, per lui, il concetto
di persona non è solo un concetto astratto, ma è anche un concetto mi-
stificante. Esso esprime l’illusione di una soggettività che si crede libera,
ma che, in realtà, è sottoposta ad un meccanismo di autoestraneazione.
Per costruire una società autenticamente umana o “verace” (come egli
si esprime), è opinione di Della Volpe che non sia opportuno muovere
dalla “primarietà” della persona ma dalla stessa “società in genere”. In
breve: la persona deve essere subordinata alla “società in genere”. Ma
chi garantisce della “veracità” di questa società cui la persona deve esse-
re subordinata? E che cosa garantisce che questa persona non venga sa-
crificata non alla volontà della “società in genere” ma alla volontà di un
soggetto determinato (individuo o ente collettivo) che si impone come
espressione autentica della volontà della “società in genere”?
Della Volpe si muoveva nella consapevolezza che la dissoluzione del
neo-idealismo era ormai in atto e che occorrevano nuove elaborazioni
teoriche per interpretare il mondo che cambiava. Senonché, egli tende-
va a risolvere la crisi del neo-idealismo nell’assunzione immediata del
“punto di vista” del movimento comunista nella ricerca scientifica. Fi-
niva, così, non solo con l’instaurare una dipendenza della ricerca teorica
dalla prassi politica, ma con il subordinare la stessa libertà di coscienza,
del singolo ricercatore come dell’uomo comune, alla prospettiva politica
di un determinato Soggetto collettivo. Bobbio, pur registrando la disso-
luzione del neo-idealismo, recupera il concetto dell’individuo-persona e
non accetta di sostituire la Trascendenza con l’idea di un Macro-Sogget-
to, cui andrebbe subordinata la persona, e ancor meno accetta l’idea di
un primato della prassi politica sulla ricerca teorica. Egli vede che la dis-
soluzione del neo-idealismo scaturisce dal fatto che è ormai crollata ogni
fiducia nella «adeguazione tra realtà e ragione», ma, nello stesso tempo,
10 Ibi, pp. 95-96. Ma di Della Volpe si veda anche Umanesimo positivo e emancipazione marxista, Sugar, Milano 1964 (1a ed.: Zuffi, Bologna 1949). Della Volpe svilupperà ulte-
riormente la sua critica della persona-valore nei saggi raccolti in Rousseau e Marx, Edito-
ri Riuniti, Roma 19644 (1a ed.: 1956). Su Della Volpe cfr. il saggio di G. GIANNANTONI,
Il marxismo di Galvano Della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1976. Utili osservazioni su
Della Volpe e il dibattito culturale nel secondo dopoguerra in G. BEDESCHI, La fabbrica delle ideologie, Laterza, Bari 2002, pp. 340-345, e in D. GENTILI, Italian Theory, il Mulino,
Bologna 2012, pp. 29-33.
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 73
ritiene di dover tener fermo il concetto di persona-valore, perché è da
tale concetto che occorre partire per la ricostruzione dell’ordine sociale.
Perciò, in una lettera inviata a Della Volpe, il 4 gennaio 1948, respinge le
tesi relative al concetto di uomo-lavoro, scrivendo:
L’affermazione del valore della persona deve ubbidire, mi pare all’esigen-
za [...] che l’uomo sia rispettato come tale indipendentemente dalle sue
caratteristiche biologiche, fisiche, sociali ecc. Volendo sostituire al con-
cetto tradizionale di persona un concetto nuovo, criticamente fondato,
questo nuovo concetto non dovrà soddisfare questa stessa esigenza? Mi
domando: la riduzione della persona a lavoro [...] serve a questo scopo?
Non conduce invece alla conseguenza catastrofica per la società civile,
che l’uomo inadatto al lavoro (i deboli, i malati, gli abulici ecc.) non deb-
bono essere rispettati? E tra il non rispetto e l’eliminazione violenta non
corre, come si è visto, un brevissimo, troppo breve, tratto? Che l’uomo
trovi nel lavoro l’espressione della propria personalità in quanto perso-
nalità sociale, implica che la trovi soltanto nel lavoro?11
È, dunque, convinzione di Bobbio che non si possa rinunciare a questa
acquisizione teorica: che non è possibile arretrare sul concetto di per-
sona-valore. Arretrare su questo punto e ridurre il concetto di persona
a quello di uomo-lavoro comporta che solo l’attività lavoratrice possa
essere considerata come unico modo per ottenere un riconoscimento
sociale; come unico modo per definire e qualificare la personalità uma-
na. I deboli e i non-lavoratori (o quelli ritenuti tali) non sarebbero più
considerati persone degne di rispetto. Quella riduzione dell’uomo alla
sua sola attività lavoratrice comporterebbe l’innesco di un meccanismo
di esclusione dalla cittadinanza politica di singoli individui o gruppi sociali,
perché non ritenuti lavoratori. L’affermazione del concetto di uomo-la-
voro comporterebbe, in definitiva, una discriminazione di tipo classista.
È una simile riduzione della complessità dell’“individuo sociale” (della
persona considerata nelle sue relazioni inter-soggettive, nei suoi affetti e
nei suoi sentimenti) a giustificare, secondo Bobbio, quella filosofia che
riconduce sotto il comando di una autorità assoluta tutte le attività so-
ciali e impone il proprio controllo anche sulla vita privata dei singoli cit-
tadini. Ridotto il cittadino al suo lavoro e riconosciuta socialmente solo
l’attività lavoratrice, qualsiasi altra attività individuale è s-valorizzata e
resa non-rispettabile. Lo Stato si assume, allora, il compito di giudicare
11 La lettera è citata dallo stesso Bobbio nel saggio: Postilla a un vecchio dibattito, in C.
VIOLI (a cura di), Studi dedicati a Galvano Della Volpe, Herder, Roma 1989, pp. 35-46,
poi ripubblicato con il titolo: Galvano Della Volpe, in N. BOBBIO, La mia Italia, Passigli
Editori, Firenze 2000, pp. 254-268. La lettera è riportata, in quest’ultimo volume, alle
pp. 259-260.
74 ADELINA BISIGNANI
della vita dell’uomo-lavoro sia nella sua attività lavoratrice che nella sua
vita privata.
Bobbio evitava, così, una lettura riduzionistica del concetto di per-
sona e, nello stesso tempo, iniziava un cammino, del tutto personale,
che lo sottraeva ad ogni ipostasi della “crisi dei valori”, come accadeva
all’esistenzialismo. Si trattava, a suo avviso, di mettere proprio la per-
sona-valore al centro dei nuovi ordinamenti giuridici e politici, che vi
venivano creando nel secondo dopoguerra. Si trattava di affermare una
nuova “età dei diritti”. A suo avviso, diveniva necessario riaffermare i
valori del liberalismo, perché era lo Stato liberale, più dello Stato demo-
cratico, il vero ostacolo al ritorno di forme politiche totalitarie. Una tale
tesi, la ritroviamo esplicitata nel suo corso universitario del 1946 su Leorigini del giusnaturalismo moderno, dove, trattando del tema dello Stato
nel pensiero politico di Hobbes, Bobbio afferma:
La distinzione fra stato liberale e stato non liberale, non coincide con
la distinzione fra stato democratico e stato monarchico, bensì colla di-
stinzione fra stato limitato e stato assoluto: in questo senso potremmo
dire che lo stato hobbesiano è illiberale. Non è detto infatti che lo Stato
democratico sia sempre liberale: esso può essere anche assoluto, dal mo-
mento che la liberalità dello Stato consiste solo nel modo di esercitare il
potere supremo. Lo Stato veramente liberale è quello in cui l’individuo
ha dei diritti inalienabili che gli sono riconosciuti e garantiti dalla costi-
tuzione stessa dello Stato [...] Lo Stato democratico non è l’antitesi dello
Stato assoluto. A questo ultimo si oppone unicamente lo Stato limitato
o liberale12.
Ricostruendo questa fase culturale nel suo Profi lo ideologico del ’900,
Bobbio utilizzerà uno schema interpretativo non dissimile da quello uti-
lizzato da Löwith in Da Hegel a Nietzsche. Löwith aveva raccontato la
dissoluzione della filosofia hegeliana, mostrando come il sistema hege-
liano avesse trovato in Marx e in Kierkegaard i suoi maggiori continua-
tori e critici. Bobbio mostrerà come la dissoluzione del neo-hegelismo
italiano aveva preso due vie: quella marxista (Della Volpe, Banfi e Lu-
porini con “Società”), che ricercava un rapporto organico tra cultura e
rivoluzione sociale; e quella dall’esistenzialismo che, come abbiamo vi-
sto, riteneva insuperabile la condizione di crisi spirituale e politica del
12 N. BOBBIO, Le origini del giusnaturalismo moderno e il suo sviluppo nel secolo XVII, lezioniIIraccolte e stampate a cura degli studenti G. MILNER e R R. TOSO, Tipografia Tagliapietra,
Padova 1946, p. 145. Di queste lezioni esiste una recente pubblicazione (insieme alle le-
zioni su Il diritto naturale nel secolo XVIII, edite da Giappichelli, Torino 1947) nel volume IIN. BOBBIO, Il giusnaturalismo moderno, T. GRECO (a cura di), Giappichelli, Torino 2009.
In questo volume la citazione è alla p. 80.
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 75
tempo; la eterizzava e in essa ritrovava la sua stessa ragione d’essere. È
la insoddisfazione per questi due modi di interpretare la crisi a spingere
Bobbio (e, in generale, il liberal-socialismo dei Calogero e dei Capitini)
verso la ricerca di un nuovo razionalismo etico-giuridico.
L’idea che il diritto debba costituirsi come difesa della persona (in
quanto centro di un sistema di relazioni sociali e, quindi, in quanto
“individuo sociale”) impedisce a Bobbio di pensare il lavoro di ricer-
ca come indifferente alle questioni sociali, politiche e morali del proprio
tempo13. E, all’indomani della Seconda guerra mondiale, questo signi-
ficava essere consapevoli del pericolo di una nuova apocalisse mondiale.
Non era da sottovalutare l’eventualità che uno scontro catastrofi co tra due civiltà (quella democratica e quella comunista) potesse verificarsi. Quel-
lo scontro attraversava anche la cultura italiana, come la polemica tra
Felice Balbo e Augusto Del Noce mostrava in maniera emblematica14.
Era, allora, necessario fissare le regole entro cui il confronto ideologico
sulle diverse opzioni politiche doveva svolgersi. Perciò, per garantire la
dignità dell’individuo sociale e impedire il ritorno di ogni forma di regi-
me totalitario, era necessaria la costruzione di un ordinamento giuridico
(di un sistema normativo e istituzionale) assolutamente indipendente
da influenze politiche, ideologiche e religiose. Da qui l’interesse, che
13 Nel suo Profi lo ideologico del ’900 (Garzanti, Milano 1990), Bobbio ricorderà la tesi
crociana, secondo cui «l’unico modo di fare politica per un intellettuale è di fare cultura»
(ibi, p. 204). La consapevolezza che è necessario conservare la distinzione (ma non sepa-
razione) tra lavoro teorico e prassi politica non ha mai impedito a Bobbio di “prendere
posizione” sulle questioni politiche fondamentali. E vale la pena ricordare che il periodo
dell’immediato dopoguerra è anche il periodo del suo maggior impegno politico. Egli
si candida all’Assemblea Costituente nelle file del Partito d’azione. E, nella sua Auto-biografi a, così riflette sulla sconfitta di quel partito: «Il Partito d’azione andò spaccato
alle elezioni. A febbraio si era tenuto il congresso e il partito si era presentato diviso fra
l’ala moderata di Parri e La Malfa, quella liberalsocialista di Calamandrei e Codignola e
quella socialista di Emilio Lussu. Se fosse andato alle elezioni unito qualche voto in più
lo avrebbe rastrellato. Ma non sarebbe mai riuscito a gareggiare con tre partiti di massa,
il democristiano, il comunista e il socialista. Eravamo un partito di intellettuali, estranei
a quelle che saranno chiamate le due subculture del nostro paese, quella cattolica e quel-
la socialista». (N. BOBBIO, Autobiografi a, cit., pp. 82-83).14 La polemica è ricostruita dallo stesso Bobbio nel suo Profi lo ideologico del ’900, cit.,
alle pp. 203-204. Felice Balbo espose le sue tesi intorno alla necessità di un dialogo tra il
cattolicesimo democratico e il marxismo nel saggio Religione e ideologia religiosa, «Rivista
di filosofia», 39 (1948) 2, pp. 105-131, poi in ID., Opere. 1945-1964, Bollati Boringhieri,
Torino 1966, pp. 223-249. Nel numero successivo della stessa rivista Del Noce espose
le sue argomentazioni sulla necessità di restaurare il cristianesimo nella sua integrità nel
saggio Marxismo e salto qualitativo, «Rivista di filosofia» 39 (1948) 3, pp. 209-229, ora in
ID., Il problema dell’ateismo, il Mulino, Bologna 1990, pp. 267-292.
76 ADELINA BISIGNANI
matura in Bobbio, per Thomas Hobbes, di cui cura nel 1948 l’edizione
italiana del De cive.Da Hobbes Bobbio trae, innanzitutto, l’idea della necessaria unifica-
zione politica e giuridica della società: l’idea che lo Stato deve collocarsi
al di sopra dei conflitti religiosi e sociali e che, per usare una termino-
logia schmittiana15, deve proporsi il compito di neutralizzare i confl itti. Il filosofo torinese non si nasconde che lo Stato disegnato da Hobbes è
una figura disumana, ma questa figura, aggiunge, è la realistica rappre-
sentazione dello Stato moderno.
Egli scrive:
La costruzione hobbesiana non è poi così paradossale come può sem-
brare ad un primo sguardo. E proprio qui sta la sua forza persuasiva e il
suo valore duraturo. Lo stato moderno è veramente questa potenza mo-
struosa e questa macchina smisurata che Hobbes descrisse e a cui diede
un nome. È veramente, come lo vide Hobbes, da un lato il Leviatano da
cui gli uomini sono divorati, dall’altro l’homo artifi cialis di fronte al quale
sono ingranaggi senz’anima16.
In verità, osserva ancora Bobbio, Hobbes
non si è accorto alla fine di aver saltato a piè pari niente meno che l’uo-
mo, la persona umana, quella persona che proprio nella sua patria espri-
meva istanze di libertà e indicava nel principio della tolleranza religiosa e
nella libertà di pensiero formule destinate a sciogliere, sopra un terreno
di compromesso fra lo stato di natura coi suoi diritti naturali e individuali
e lo stato civile col suo potere sugli individui, antichi nodi che la formula
assolutistica per non saperli sciogliere recideva.17
Dunque, il diritto positivo-con la codificazione dell’unità e della sovra-
nità dello Stato-non può e non deve dimenticare la persona umana. È
solo a partire dal principio che la persona umana è il fondamento e il
fine del sistema giuridico-politico che è pensabile il primato del diritto
positivo sul diritto naturale. Impostato in questi termini il rapporto tra
diritti fondamentali dell’individuo sociale e il diritto positivo o, più esat-
tamente, pensato il diritto positivo come codificazione dei diritti fon-
damentali dell’individuo, l’organizzazione della unità e sovranità dello
15 Bobbio aveva pubblicato nel 1939, nella «Rivista di filosofia», una recensione allo
scritto schmittiano sul Leviatano. La recensione è ora riportata nel volume dello stesso
Bobbio, Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 1989, pp. 211-213.16 N. BOBBIO, Introduzione al “De cive” (1948), in” ID., Thomas Hobbes, cit., p. 99. Ma il
saggio costituiva l’introduzione a T. HOBBES, Elementi fi losofi ci sul cittadino, UTET, To-
rino 1948.17 N. BOBBIO, Introduzione al “De cive”, in ID., Thomas Hobbes, cit., p. 98.
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 77
Stato non mette più capo a quella figura disumana (il Leviatano) che
fagocita gli individui, ma è quella potenza la cui principale funzione è
quella di difendere la libertà degli individui.
Bobbio aveva ben illustrato tale funzione dello Stato in un saggio su
Cattaneo, che precede di pochi anni quello su Hobbes. In questo saggio
Bobbio interpreta il federalismo di Cattaneo come il modo di organiz-
zare la difesa della libertà dell’individuo sociale. Anzi, con Cattaneo,
egli afferma che «il federalismo è la teorica della libertà, l’unica possibile
teorica della libertà»18. Secondo Bobbio, il federalismo di Cattaneo.
Non è se non lo sviluppo logico del principio che la libertà si conserva,
come disse il Machiavelli, tenendovi sopra le mani, impedendo la for-
mazione di leggi da parte di parlamenti lontani dai soggetti a cui le leggi
sono destinate19.
E ancora:
Essenziale nel pensiero politico del Cattaneo non è tanto la formula pro-
posta, quanto la meta ch’egli vuole raggiungere, cioè la maggior libertà
possibile, civile e politica, insieme con i mezzi indicati, cioè una certa
autonomia legislativa delle regioni, o se vogliamo pure usare il suo lin-
guaggio federalistico, degli stati. Questa autonomia, mentre è, da un lato,
garanzia di libertà, nel senso liberale della parola, cioè di libertà civile,
diventa nel suo senso più maturo e certamente più moderno, incremento
di libertà politica, nella direzione di una genuina democrazia, poiché una
maggior partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica è da questa mol-
teplicità di centri autonomi presupposta e promossa20.
Sia con il saggio su Cattaneo che con quello su Hobbes, Bobbio rivol-
geva la sua attenzione ad autori che, se non ignorati, non avevano avuto,
nella cultura italiana della prima metà del ’900, l’attenzione che avreb-
bero meritato. Con Cattaneo offriva una immagine del Risorgimento
ben diversa da quella proposta da Gentile con il suo Rosmini e Gioberti. Con Hobbes e con la riconsiderazione del rapporto tra giusnaturalismo
e giuspositivismo offriva una immagine più articolata del processo di
formazione dello Stato moderno: assai lontana dalla linea Machiavelli -
Vico - Hegel suggerita da Croce. Bobbio era consapevole del fatto che
la stessa formazione politica della “nuova Italia”-dell’Italia democrati-
18 N. BOBBIO, Stati Uniti d’Italia (1945), in Id., Una fi losofi a militante. Studi su CarloCattaneo, Einaudi, Torino 1971, p. 19. Il saggio costituiva “l’introduzione a un’antologia
di scritti politici del Cattaneo pubblicata con lo stesso titolo dall’editore Chiantore di
Torino”.19 Ibi, p. 33.20 Ibi, p. 54.
78 ADELINA BISIGNANI
ca-aveva bisogno di ritrovare una tradizione culturale diversa da quel-
la proposta dal neo-idealismo e, in particolare, da Gentile21. Bisognava
superare il canone storico e filosofico fissato dal neo-idealismo. Erano
necessarie una revisione della interpretazione della storia nazionale e
una modernizzazione delle categorie e del metodo dell’indagine sociale.
Da qui il necessario approccio a correnti filosofiche (il neo-positivismo,
il pragmatismo, la stessa fenomenologia) che la cultura italiana, nel pe-
riodo fascista, aveva ignorate. Per queste ragioni, la ricerca di Bobbio,
in questi anni, si intreccia con quella di Nicola Abbagnano, che tra la
fine degli anni ’30 e gli inizi degli anni ’40 pubblicherà i suoi scritti
sull’esistenzialismo positivo, e con quella di Ludovico Geymonat, che
introdurrà in Italia i testi del “Circolo di Vienna” (Schlick, Hahn, Car-
nap, Neurath) e verrà elaborando una filosofia neo-razionalistica. Non
a caso, con Geymonat e Abbagnano, Bobbio darà vita ad un Centro di
studi metodologici22.
La ragione che porta Bobbio a rivolgere la propria attenzione al for-
malismo giuridico di Kelsen muove, dunque, da due esigenze: 1. ritro-
vare le forme giuridiche che, nella loro autonomia dalla politica e dalla
religione, possano garantire la difesa dell’“individuo sociale”; 2. rinno-
vare la tradizione culturale italiana in modo da legittimare, sul piano
teorico e storico, una filosofia positiva del diritto. Sono queste esigenze
21 Bobbio ha ben chiara la differenza teorica tra l’attualismo gentiliano e lo storicismo
di Croce. Pur non condividendo molti aspetti della filosofia crociana e, in particolare,
il suo permanere nell’orizzonte dell’hegelismo, Bobbio si sente vicino a Croce per la
sua concezione etica della libertà e per la sua distinzione tra attività culturale e attività
politica. Sul Croce di Bobbio cfr. P.P. PORTINARO, Introduzione a Bobbio, cit., pp. 53-66.22 Bobbio ricostruirà le ragioni di questo mutamento degli orientamenti culturali dall’e-
gemonia neo-idealistica all’esistenzialismo e al neo-illumismo nel saggio L’impegno dell’intellettuale ieri e oggi, pubblicato nel numero monografico della «Rivista di filosofia», icurato da C.A. VIANO e dedicato al tema: Filosofi a e impegno politico, n. 1/1997. Il saggio
di Bobbio è alle pp. 11-23. Ma si vedano anche i saggi bobbiani raccolti in Il dubbio e lascelta, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993.
L’incontro tra Bobbio e Nicola Abbagnano (1901-1990) si deve probabilmente al co-
mune amico Ludovico Geymonat (1908-1991), che coinvolse entrambi nei lavori del
Centro di studi metodologici. Obiettivo del Centro era quello di dare uno sviluppo ri-
gorosamente scientifico a discipline quali la filosofia, la sociologia e la filosofia del dirit-
to. Successivamente, quando Gioele Solari lascia la direzione della «Rivista di filosofia»
Bobbio, assunta la direzione della rivista, coinvolge Abbagnano nell’impresa.
Ma per una ricostruzione complessiva di queste vicende della cultura italiana, oltre al
classico saggio di E. GARIN, Quindici anni dopo, in ID., Cronache di fi losofi a italiana, Later-
za, Bari 1966, cfr. M. PASINI e D. ROLANDO (a cura di), Il neoillumismo italiano. Cronachedi fi losofi a (1953-1962), Il Saggiatore, Milano 1991, e A. D’ORSI, L’Italia delle idee, Bruno
Mondadori, 2011, in particolare il cap. 11.
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 79
che rendono l’avvicinamento di Bobbio alle tesi di Kelsen originale e
critico, mai totalmente consenziente con le teorie del giurista austriaco,
di cui, anzi, non esita a sottolineare i limiti. In Kelsen egli ritrova l’idea
dell’autonomia della scienza giuridica (autonomia dalla politica e dalla
religione), ma questo non lo spinge ad abbandonare l’idea che il compito
fondamentale di tale scienza deve essere la difesa della persona-valore.
Anzi, si può osservare che Bobbio, nel momento stesso reclama la neu-
tralità della scienza giuridica, non cessa di sottolineare, con eguale forza,
la sua finalizzazione alla difesa dell’individuo sociale. La oggettività e
la neutralità della scienza giuridica sono poste a garanzia della libertà e
della dignità della persona. L’accettazione di una prospettiva giuspositi-
vistica viene, così, ad essere giustificata dal fatto che i diritti fondamen-
tali dell’uomo (la inviolabilità e la dignità della persona), all’indomani
della Seconda guerra mondiale, vengono ad essere inscritti nelle costitu-
zioni nazionali23 e nella stessa carta dell’ONU. Quei diritti non sono più
un “dover essere”, ma sono la realtà stessa delle leggi scritte: sono quel
diritto positivo che occorre difendere da illegittime ingerenze politiche,
ideologiche e religiose. Ma, è proprio questo voler tener fermo il carat-
tere etico universale (“trascendentale”) dei diritti codificati a far sì che,
per Bobbio, si debba parlare di “positivismo inquieto“ ”24.
2. Un positivista “inquieto”
Il saggio del 1950 Scienza del diritto e analisi del linguaggio è stato giudi-
cato da Luigi Ferrajoli il “manifesto programmatico” del neopositivismo
giuridico in Italia25». Vale la pena, perciò, fermarsi ad analizzarlo detta-
gliatamente.
Bobbio muove dalla necessità di superare l’immagine tradiziona-
le della scienza intesa «come adeguamento della ragione soggettiva
23 Basti ricordare gli articoli 2 e 3 della Costituzione italiana.24 L’espressione è stata adoperata da Sergio Cotta nel saggio Bobbio: un positivista in-quieto, in U. SCARPELLI (a cura di), La teoria generale del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a Norberto Bobbio, Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 41-55. 25 Cfr. L. FERRAJOLI, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Bari 1999, pp.
84-85. Lo stesso giudizio in M. JORI, Uberto Scarpelli e il giuspositivismo, introduzione a U.
SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, pp.
29-30. Il saggio di Bobbio, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, fu pubblicato nella
«Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 3 (1950) 2, pp. 342-367, poi ripubbli-
cato in U. SCARPELLI (a cura di), Diritto e analisi del linguaggio, Edizioni di Comunità,
Milano 1976, pp. 287-324. Useremo questa edizione.
80 ADELINA BISIGNANI
dell’uomo alla ragione oggettiva dell’universo26». A suo avviso, un simile
schema, ancora viziato da una mentalità metafisica o idealistica, è stato
superato da una nuova concezione della scienza, fondata sulla necessità
di fissare un «linguaggio rigoroso27». Nel nuovo orientamento scientifico,
osserva Bobbio:
l’accento è stato spostato per così dire dalla verità al rigore, o meglio è
stata intesa anche la verità in termine di rigore. La scientificità di un di-
scorso non consiste nella verità, cioè nella corrispondenza della enuncia-
zione ad una realtà obiettiva, ma nel rigore del suo linguaggio, cioè nella
coerenza di un enunciato con tutti gli altri enunciati che fanno sistema
con quelli. Il valore scientifico di una ricerca non è quindi possibile al
di fuori dell’uso di quel linguaggio rigoroso; la scienza non è possibile
al di fuori di quel linguaggio rigoroso, essenzialmente più rigoroso del
linguaggio comune, che è il linguaggio scientifico28.
Egli aggiunge che il Concetto non è una copia o un rispecchiamento
della realtà, ma è un mezzo di comunicazione intersoggettiva29. E, conside-
rata la scienza giuridica come formazione di un linguaggio rigoroso, la
sua specificità deve consistere nell’attribuire un significato comunica-
bile in maniera univoca e privo di incongruenze ai termini e ai concetti
adoperati. In questo senso, la giurisprudenza non è altro che l’analisi
del linguaggio del legislatore; più esattamente «essa deve trasformare il
discorso legislativo in un discorso rigoroso»30.
Su questa base – aggiunge Bobbio –, e solo su questa base, essa divie-
ne scienza. Ma proprio perché la sua operazione fondamentale consiste
nella costruzione di un linguaggio rigoroso, cioè scientifico, essa è scien-
za al pari di ogni altra scienza empirica o formale. Le sue operazioni, in-
somma, coincidono perfettamente con le operazioni, o per lo meno con
una parte vitale ed ineliminabile delle operazioni di ogni altra scienza,
e senza la quale nessuna ricerca può pretendere di valere come scienza.
Queste operazioni, a badar bene, altro non sono che quella attività com-
26 N. BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, cit., p. 291.27 Il termine “rigoroso” richiama ancora la concezione di Husserl della «filosofia come
scienza rigorosa», là dove per “rigorosa” si intenda un linguaggio coerente e univoco.28 N. BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, cit., p. 300.29 Su questo punto insiste M. Jori nell’introduzione a U. SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, cit., in particolare alle pp. 30-31. Secondo Jori, Bobbio giunge a una conce-
zione della scienza come «sistemazione rigorosa di concetti a fini pratici, in primo luogo
alla comunicazione intersoggettiva» (ivi, p. 31). Dunque, nel saggio del 1950, Bobbio
riconoscerebbe che la rigorosità del linguaggio non è fine a se stessa, ma è finalizzata alla
comunicazione sociale e alla regolazione degli stessi rapporti intersoggettivi.30 N. BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, cit., p. 306.
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 81
plessa, in cui si fa consistere tradizionalmente l’opera del giurista, cioè
l’interpretazione della legge. Che altro è, infatti, l’interpretazione della leg-
ge se non l’analisi del linguaggio del legislatore, cioè di quel linguaggio
in cui vengono espresse le regole giuridiche?31
L’obiettivo di Bobbio è, ancora una volta, quello di affermare l’au-
tonomia della scienza giuridica e, a tal fine, utilizza gli strumenti teorici
che il neopositivismo logico aveva elaborati tra le due guerre mondiali32.
L’analisi formale del linguaggio e la necessità di verificare il rigore e la
coerenza del linguaggio giuridico sono rese funzionali alla interpretazionedella legge. Il filosofo torinese tenta, perciò, di liberare la scienza giuridica
sia dalla sua riduzione storicistica che da quella naturalistica. E, nelle
lezioni del 1950 raccolte nel volume di Teoria della scienza giuridica33, egli
respinge sia la tesi crociana, secondo cui «solo la storia è conoscenza»,
perché è l’unico sapere che si costruisce attraverso un giudizio indivi-dualizzante e non attraverso un giudizio classificatorio, sia la tesi del
Carnelutti, che riconduce la scienza giuridica nell’universo delle scienze
naturalistiche e immagina che le scienza giuridica possa operare come
le scienze logico-sperimentali34. La giurisprudenza – osserva Bobbio –
non può essere ridotta né a un sapere puramente classificatorio né a un
sapere sperimentale. Essa ha caratteristiche specifiche, perché riguarda
le persone e le relazioni tra le persone; è una scienza formale, perché dà
una forma alla vita sociale, qualifi cando i diversi atti che i soggetti sociali
compiono. La norma giuridica, cioè, assolve a una funzione qualifi catri-ce dei comportamenti umani, perché giudica e decide del loro valore e
della loro natura. La forma del diritto (la sua capacità di dare un ordine
sistemico alla società) è data dal suo sistema normativo. Conclude Bob-
bio:
La teoria formale del diritto si identifica con la teoria normativa del di-
ritto35.
31 Ibidem.32 Sul neopositivismo logico cfr. P. PARRINI, L’empirismo logico. Aspetti storici e prospettive teoriche, Carocci, Roma 2002.33 N. BOBBIO, Teoria della scienza giuridica, Giappichelli, Torino 1950.34 Per questa discussione delle tesi di Croce e di Carnelutti cfr. N. BOBBIO, Teoria dellascienza giuridica, cit., pp. 108-115. Le tesi del Carnelutti erano state discusse da Bobbio
anche nel saggio Francesco Carnelutti, teorico generale del diritto, Giurisprudenza italiana,
1949, IV, pp. 113-127, poi in ID., Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino
1955, pp. 1-26. Per le posizioni di Carnelutti cfr. Metodologia del diritto, Cedam, Padova
1939 (ristampa anastatica 1990). Per Croce, si veda nella Filosofi a della pratica, Laterza,
Bari 19739, i capp. VI e VII.35 N. BOBBIO, Teoria della scienza giuridica, cit., p. 146.
82 ADELINA BISIGNANI
Possiamo, allora, concludere, relativamente a questo punto, notando
che, per Bobbio, il diritto nasce dalle relazioni intersoggettive e dai pro-
cessi storici, ma si struttura e determina attraverso un sistema di norme
che, divenendo la forma delle relazioni, si autonomizza dalla sua materia istorica e può divenire oggetto di un’analisi logico-linguistica. In questo
modo, è fatta salva la concretezza del diritto (il suo riferirsi alle relazioni
umane), ma, nello stesso tempo, è fissata anche l’autonomia e specifi-
cità della scienza giuridica. Viene determinato l’oggetto di tale scienza
(il sistema delle norme e l’ordinamento giuridico) e ne viene definita la
metodologia (l’analisi logico-linguistica).
In questa direzione procederanno anche i due corsi universitari degli
anni accademici 1957-1958 e 1959: il primo sulla Teoria della norma giuridica e il secondo sulla Teoria dell’ordinamento giuridico36. L’idea gui-
da resta quella della specificità epistemologica della scienza giuridica e
della sua autonomia dagli orientamenti politici, ideologici e religiosi. Ma
direi che ciò che, ora, interessa maggiormente Bobbio è dimostrare che
la teoria normativa non coincide affatto in linea di principio con la teoria
statualistica, anche se, in linea di fatto, molti giuristi statualisti siano nor-
mativisti, e viceversa, molti normativisti siano statualisti. La teoria nor-
mativa si limita ad affermare che il fenomeno originario dell’esperienza
giuridica è la regola di condotta, mentre la teoria statualistica, oltre ad
affermare che il diritto è un insieme di regole, afferma che queste rego-
le hanno particolari caratteristiche (per esempio: di essere coattive), e,
come tali, si distinguono da ogni altro tipo di regola di condotta. La teo-ria statualistica è una teoria normativa ristretta. E pertanto non v’è nessuna
ragione di considerare la teoria normativa di per se stessa meno larga
della teoria istituzionale. Non vi è insomma nessuna ragione che induca
a escludere che anche la teoria normativa possa essere compatibile con il
pluralismo giuridico.37
Rivendicando il carattere pluralistico della teoria normativa, Bobbio può
respingere gli attacchi mossi al normativismo dalla dottrina istituzionale
del diritto elaborata da Santi Romano. E rivendicare il carattere plura-listico della teoria normativa del diritto serve a Bobbio per riafferma-
re, al di là della specificità logico-linguistica della scienza giuridica, la
presenza di un contenuto sociale (l’esistenza di una pluralità di soggetti
e di relazioni intersoggettive) cui il diritto dà forma38. In verità, egli ha
36 I corsi sono stati, poi, raccolti in N. BOBBIO, Teoria generale del diritto Giappichelli,
Torino 1993.37 Ibi, p. 13. L’ultimo corsivo è mio.38 «Che l’elemento caratteristico dell’esperienza giuridica – sottolinea Bobbio – sia il
rapporto intersoggettivo è, al contrario della teoria istituzionale, dottrina vecchissima e
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 83
sempre presente la genesi storica e ideale del diritto. Rifiuta di chiu-
dersi nell’ambito della scienza pura e fa costantemente riferimento a
un orizzonte extra-giuridico entro cui la scienza svolge la sua funzione,
acquistando il compito di garantire l’autonomia, la coerenza e la rigorosità del lavoro del giurista.
La volontà di superare sia l’impostazione storicistica che quella natu-
ralistica trova una sua conferma e una ulteriore chiarificazione nel sag-
gio su Filosofi a del diritto e teoria generale del diritto (1950)39. Qui Bobbio
attribuisce alla filosofia del diritto il compito di prendere posizione di
fronte alla realtà storica, mentre alla scienza giuridica riconosce quello
di prendere possesso di tale realtà.
La scienza perciò è indifferente ai valori, donde il suo carattere-sog-
gettivamente-di ricerca disinteressata,-oggettivamente-di ricerca pura.
La filosofia è assiologicamente orientata e impegnata, donde il suo ca-
rattere, di fronte a cui oggi non si può non chiudere gli occhi, di ideolo-gia.40
Questa tensione tra scienza del diritto e filosofia del diritto, tra di-
scorso rigoroso e “presa di posizione”, costituisce l’inquietudine del posi-
tivismo giuridico di Bobbio. Ponendo la persona e le relazioni intersog-
gettive come il “contenuto” della forma giuridica, Bobbio non accetta
mai che la scienza giuridica si appiattisca sulla datità (e presunta ra-
zionalità) del reale. Essa non deve perdere mai di vista quello che deve
essere il suo fine principale: conservare con il proprio rigore formale
l’autonomia della struttura normativa e dell’ordinamento giuridico. È
convinzione di Bobbio che norme e ordinamento hanno come proprio
fine la formazione di una comunità civile e la realizzazione della pace. Il
formalismo della scienza giuridica non esclude la realizzazione di un tale
fine etico, anzi essa appare giustificata in funzione di tale fine: la crea-
zione di una comunità sociale. Tuttavia, esige che le ragioni morali non
condizionino la formazione del sistema giuridico. Per usare la termino-
logia di un autore, Max Weber, su cui Bobbio concentrerà la sua atten-
periodicamente ricorrente. A ben guardare, essa nasce dalla stessa idea fondamentale, da
cui è nata la teoria dell’istituzione, cioè dall’idea che il diritto sia un fenomeno sociale,
abbia la sua origine nella società» (ivi, p. 15). 39 Il saggio apparve in Scritti in onore di F. Carnelutti, Cedam, Padova 1950, vol. I, pp. i43-69, poi ripubblicato in N. BOBBIO, Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli,
Torino 1955, pp. 27-52.40 Ibi, p. 50. Sulla stessa linea procedeva l’Introduzione alla fi losofi a del diritto. Ad usodegli studenti, Giappichelli, Torino 1948, di cui si vedano in particolare le pp. 50-51 e i121-123, dove Bobbio insiste sul concetto dell’uomo come essere sociale, per così dire,
“bisognoso” di giustizia e libertà.
84 ADELINA BISIGNANI
zione solo successivamente, le finalità etiche e sociali costituiscono una
dimensione formalmente esterne a quei meccanismi di razionalizzazione che costituiscono il diritto e che consentono il governo della vita sociale.
Nel saggio su Formalismo giuridico e formalismo etico41 Bobbio tenta di
definire il rapporto tra questi due livelli (quello della razionalizzazione del diritto e quello della extra-razionalità dei fini etici), individuando due
ordini di discorso distinti (ma non in opposizione): quello della scien-
za del diritto, che è analisi logico-linguistica, e quello della teoria della
giustizia In questo saggio, dopo aver ribadito che «altro è il formalismo
giuridico, altro è il formalismo etico», Bobbio aggiunge:
teoria formale del diritto e concezione formale della giustizia sono due
cose diverse, non dobbiamo spendere molte parole: la prima è una teoria
scientifica, in quanto stabilisce un certo punto di vista e un certo metodo
per conoscere il fenomeno giuridico; la seconda è una teoria etica, la
quale stabilisce un certo criterio per valutare un’azione giuridica.42
La teoria formale del diritto è, dunque, un metodo per conoscere il
fenomeno giuridico (la sua struttura e il suo modo di funzionare). La
concezione formale della giustizia, invece, formula i criteri di valutazio-
ne dei comportamenti. Ma, una volta fissati e distinti questi due livel-
li dell’attività giuridica, Bobbio procede nel formulare una concezione
formale della giustizia (caratterizzata dall’idea che la giustizia si affermi
solo tramite la legge) assai diversa e lontana da una concezione sostan-ziale della giustizia (caratterizzata dall’idea che la giustizia si definisca
attraverso un «criterio di valutazione superiore alle leggi positive»43).
Questa concezione formale (o legalistica) della giustizia è definita da due
aspetti: 1) la considerazione della pace come fine esclusivo del diritto;
2) la considerazione della coerenza come virtù giuridica per eccellen-
za. Il filosofo torinese indica, così, come caratteri propri di una teoria
della giustizia un fine extra-giuridico (la pace) e un principio logico (la
coerenza). Così, da un lato, viene fissata la responsabilità etica del ricer-
catore; dall’altro, vengono garantite la sua indipendenza e la sua autono-
mia scientifica, senza che questo renda necessario il riferimento ad una
qualche dimensione ideologica o religiosa che pretenda di sovrapporsi
all’attività giuridica. La definizione di una teoria della giustizia, cioè,
non incide sulla neutralità della scienza giuridica e, nello stesso tempo,
questa stessa scienza giunge a includere il fine che deve realizzare.
41 Il saggio fu pubblicato in «Rivista di filosofia», 45 (1954), 3, pp. 255-270, e poi in N.
BOBBIO, Studi sulla teoria generale dl diritto, cit., pp. 145-162.42 Ibi, p. 146.43 Ibidem.
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 85
Per esemplificare questi caratteri della concezione legalistica del-
la giustizia, Bobbio si ferma ad analizzare la filosofia politica di Hob-
bes e la teoria pura del diritto di Kelsen, trovando tra i due pensatori
delle interessanti e insospettate convergenze. Hobbes-osserva Bobbio-
«allontanandosi dalla corrente giusnaturalistica, precorre il positivi-
smo giuridico ottocentesco che giunge alla più coerente e conseguente
espressione, appunto, nel Kelsen»44. Il positivismo hobbesiano, aggiunge,
contiene in sé un “fine supremo”: la pace.
Fine supremo della società civile è in Hobbes l’istituzione e la con-
servazione di uno stato di pace, in quanto la società civile si pone come
antitesi allo stato di natura che è stato di guerra perpetuo e universale.
La legge naturale fondamentale, da cui tutte le altre derivano, è pax est quaerenda (...). Ciò che interessa Hobbes non è di sostituire un ordine
giusto ad un ordine ingiusto (...), ma di rimediare allo stato di guerra
con uno stato di pace45.
Si può, allora, dire che in Hobbes la pace ha la stessa funzione di una
Norma Fondamentale «da cui tutte le altre derivano». Non diversamen-
te, anche in Kelsen è la pace (la costruzione di un ordine sociale) il fine
fondamentale del diritto:
Kelsen considera il diritto come una tecnica sociale: con questa espressio-
ne vuol dire che qualsiasi scopo sociale può essere perseguito nella forma
specifica del diritto, vale a dire mediante un ordinamento collettivo (...).
Si possono allora, forse, distinguere gli scopi mediati del diritto – libertà,
giustizia, sicurezza, ecc. – di fronte ai quali esso ha valore puramente
strumentale; e lo scopo immediato, ovvero il valore che il diritto ha di
per se stesso, e quindi ha sempre, in quanto appunto strumento di fini
ulteriori variabili: questo scopo immediato è la pace46.
Pur essendo Hobbes un esponente del formalismo etico e Kelsen un
esponente del formalismo giuridico47, entrambi convergono nel fissare
come fine e giustificazione dell’ordinamento giuridico la pace. La stessa
coerenza della struttura del diritto e del lavoro del giurista è misurata da
questo fine. E se distinzione c’è tra la filosofia politica di Hobbes e la
dottrina giuridica di Kelsen, questa sta nel fatto che
44 Ibi, p. 157. Sul senso del passaggio di Hobbes dal giusnaturalismo al positivismo
giuridico si veda anche il saggio Hobbes e il giusnaturalismo, in «Rivista critica di storia
della filosofia», 17 (1962), 4, pp. 471-486, poi in N. BOBBIO, Da Hobbes a Marx, Morano
Editore, Napoli 1964, pp. 51-74.45 N. BOBBIO, Formalismo giuridico e formalismo etico, cit., p. 157.46 Ibi, p. 159. Corsivo mio.47 «Hobbes – scrive Bobbio – esemplifica il formalismo etico, Kelsen esemplifica meglio
il formalismo giuridico» (Ibi, p. 158).
86 ADELINA BISIGNANI
mentre per l’autore del Leviatano la pace è fine esclusivo, il Kelsen am-
mette che è soltanto il fine immediato, il fine che si propone a una consi-
derazione positiva del diritto. (...) Per Hobbes la giustizia, intesa come il
complesso degli ideali etici dell’uomo, si risolve nella pace sociale. Kelsen
ammette, invece, che si possa distinguere, partendo da una determinata
ideologia, una pace giusta da una pace ingiusta e che quindi la giustizia
non si risolva nella pace48.
Ci siamo dilungati su questo testo di Bobbio, perché ci sembra che esso-
meglio di molti altri-mostri come, già negli anni Cinquanta, la sua rifles-
sione non sia chiusa in una concezione “pura” del diritto. La sua adesio-
ne al positivismo giuridico non lo porta ad aderire acriticamente al for-
malismo giuridico del pensatore viennese. Bobbio ridimensiona la teoria
pura del diritto e la utilizza entro una prospettiva teorica che non perde
mai di vista il fi ne ultimo della giurisprudenza. Il suo orientamento non è
mai puramente formalistico (o positivistico), ma tende sempre a piegarel’analisi formale del diritto nell’orizzonte di una teoria della giustizia49,
come se la stessa analisi formale trovasse la sua giustificazione solo entro
il riconoscimento di una sua intrinseca finalità (il raggiungimento della
pace, la formazione di una nazione, la composizione dei conflitti sociali
ma non la loro eliminazione). Per Bobbio, la scienza giuridica non può
ignorare il sistema dei valori entro cui opera. La ricerca della rigorosi-
tà e coerenza del sistema normativo e dell’ordinamento giuridico non
può far dimenticare le finalità proprie del diritto. Certamente rigoroso
e coerente poteva, per esempio, apparire il diritto sovietico, ma non per
questo se ne dovevano riconoscere gli obiettivi che lo fondavano.
Lo sforzo di definire l’autonomo statuto scientifico del diritto porta
necessariamente Bobbio a confrontarsi con le teorie kelseniane. Se, ne-
gli anni Trenta, il giudizio su Kelsen era stato affrettato, ora il filosofo
torinese deve riconoscere che Kelsen offre gli strumenti teorici più af-
filati per una teoria formale del diritto. Ma questo non comporta che
egli ignori quelli che sono i limiti della riflessione kelseniana. E, infatti,
la difesa di Kelsen che egli sviluppa nel saggio su La teoria pura del di-ritto e i suoi critici si conclude con l’affermazione che «il i punctum dolensdella dottrina kelseniana è la teoria della soggettività o irrazionalità dei
48 Ibi, p. 161.49 Questa articolazione (e, potremmo dire, “unità dei distinti”) tra formalismo giuridico
e idea di una giustizia, fondata sulla pace e sulla libertà, si ritrova esposta in maniera
sistematica nelle lezioni di filosofia del diritto che Bobbio tenne nel 1953, ora riproposte
nel volume: N. BOBBIO, Teoria della giustizia, Aragno, Torino 2012.
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 87
valori»50. Bobbio, certo, non ignora che Kelsen, nei suoi scritti per una
teoria della democrazia, ha espresso chiaramente il suo orientamento
ideale, ma ritiene che, in Kelsen, vi sia una teoria della a-valutatività del
diritto che, in un saggio del 1981, accosterà alla riflessione di Weber.
Egli vede, in entrambi, una visione dei processi di razionalizzazione dello
Stato moderno che li porta a ignorare la necessità di una giustificazio-
ne etico-sociale dell’agire politico e dello stesso diritto51. Kelsen avreb-
be, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale
come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è
tale, non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pen-
sa Capograssi. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma
Fondamentale che Bobbio può osservare:
Il Capograssi sostiene che tutta la costruzione kelseniana è così solida
solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi presupposti non
sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si fondano su
una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione è che
il diritto è forza52.
Le argomentazioni di Capograssi, secondo Bobbio, rinviano a una con-
cezione giusnaturalistica del diritto che confonde «il criterio di validità e
il criterio di giustificazione del diritto», e aggiunge che il Kelsen
si limita a dire che il diritto esiste (indipendentemente dal fatto che sia
giusto o ingiusto) solo quando la norma, oltre che valida, è anche efficace
(il cosiddetto principio di effettività). Non si potrebbe mai trarre dalla
concezione kelseniana il principio che il diritto è giusto in quanto è co-
mandato, perché da nessun passo del Kelsen si può trarre la conclusione
che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato (e fatto valere colla
forza), sia anche giusto53.
Dunque, l’insoddisfazione di Bobbio per la soluzione kelseniana nasce
dal fatto che il giurista viennese lascia aperto il problema del che cosa
fondi e legittimi il sistema normativo e l’ordinamento giuridico, con la
50 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e iprocedura civile», (1954), 8 pp. 356-377, poi ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1955, pp. 75-107. Il saggio è ora in ID., Diritto e potere,Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992. Utilizzo quest’ultima edizione. La citazione
è alla p. 39.51 Cfr. N. BOBBIO, Max Weber e Hans Kelsen, «Sociologia del diritto», (1981) 8, pp. 135-
154, ora in ID., Diritto e potere, cit., pp. 159-177.52 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si
veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4,
pp. 767-810, poi in ID., Opere, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, pp. 311-356.53 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto, cit., pp. 25-26.
88 ADELINA BISIGNANI
conseguenza che la stessa funzione costituente della Norma Fondamen-
tale non viene esplicitata. L’esigenza di superare i limiti teorici di Kel-
sen non comporta, però, il recupero del giusnaturalismo come ideologia(come idea di una fondazione del diritto su valori assoluti e trascenden-
ti), ma sollecita il pieno recupero di quelle ragioni etiche e sociali che,
dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e dopo l’olocausto, si
erano manifestate come una “rinascita del giusnaturalismo”54.
Il bisogno di affermare un metodo di indagine analitico del diritto
nasceva, come abbiamo visto, dalla necessità di assicurare l’autonoma
della scienza giuridica rispetto alla politica, alla morale e alla religione.
La struttura epistemologica del positivismo giuridico-a differenza del
neo-idealismo e del “naturalismo” che sottoponevano la scienza giuri-
dica a principi e metodi ad essa esterna-assicurava tale autonomia. Alla
fine degli anni Cinquanta, tale opera di modernizzazione della scienza
giuridica e della filosofia del diritto poteva dirsi compiuta55. Il giuspositi-
vismo aveva acquisito una presenza, se non dominante, assai significati-
vo nell’ambito delle discipline giuridiche. Si trattava, ora, di riaffermare
quei principi democratici che il diritto era chiamato a difendere. E, sotto
questo profilo, era possibile recuperare e riassorbire il “nocciolo raziona-le” del giusnaturalismo. Affermare l’autonomia della scienza del diritto
non poteva significare cadere in una sorta di agnosticismo etico. E Bobbio
non dimenticava la lezione di Capitini e di Calogero: la difesa dell’indi-
viduo sociale (o persona-valore) era da considerare come il principale
fine del diritto.
I saggi raccolti in Giusnaturalismo e positivismo giuridico56, nonché i
corsi universitari su Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant (1957) e tsu Locke e il diritto naturale (1963)57, segnano, a mio avviso, un comples-
54 Per una prima analisi della “rinascita del giusnaturalismo” sono da vedere i testi di G.
RADBRUCH, Propedeutica alla fi losofi a del diritto, Giappichelli, Torino 1964; A. PASSERIN
D’ENTRÈVES, La dottrina del diritto naturale, V. FROSINI (traduzione italiana a cura di),
Edizioni di Comunità, Milano 1954 (1a ed.: London 1951); L. STRAUSS, Diritto naturale e storia, N. PIERRI (traduzione italiana a cura di), Melangolo, Genova 1990 (1a ed.: Chi-
cago 1953); G. FASSÒ, La legge della ragione, il Mulino, Bologna 1964. 55 Il convegno tenutosi a Villa Serbelloni, Bellagio, tra il 4 e il 18 settembre 1960, al quale
parteciparono, tra gli altri, Bobbio, Treves, Hart e Ross può essere considerato come il
momento di maggiore espansione del giuspositivismo nella cultura giuridica italiana. 56 Il volume, pubblicato nel 1965 presso le Edizioni di Comunità, è stato riedito, a cura
di L. FERRAJOLI, presso l’editore Laterza, Bari 2011. Contiene saggi pubblicati tra il 1957
e il 1964.57 I corsi furono pubblicati dall’editore Giappichelli di Torino, rispettivamente nel 1957
e nel 1963. Ma su Kant e su Locke, di Bobbio, si vedano anche i saggi: N. BOBBIO, Due concetti di libertà nel pensiero politico di Kant,t in AA.VV., Studi in onore di Emilio Crosa,
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 89
sificarsi e un arricchirsi della visione bobbiana del positivismo giuridico.
L’accento non è più posto sull’analisi formale della struttura giuridi-
ca ma sull’articolarsi dello stesso discorso giuridico nella prospettiva di
un sistema politico democratico. L’attenzione di Bobbio si sposta dalla
scienza giuridica all’analisi dei sistemi politici e la stessa analisi giuridica
viene resa più chiara e netta da questa nuova prospettiva teorica.
Il recupero del “nocciolo razionale” del giusnaturalismo è, a mio av-
viso, rintracciabile soprattutto nel saggio su Il giusnaturalismo come teoria morale58. Qui, ribadito il rifiuto di una teoria “oggettivistica” della mo-
rale secondo cui il diritto deve discendere da leggi della natura oggettive e universali, Bobbio riconosce che il giusnaturalismo ha avuto il merito idi aver insistito sulla necessità di una teoria dei limiti del potere statale. iQuesti limiti, però, non possono essere fissati da «norme superiori alla
volontà umana», anzi: devono essere fissati entro gli stessi ordinamenti
giuridici. Scrive Bobbio:
Dall’esigenza di uno stato limitato dalla legge naturale sono nati il co-
stituzionalismo moderno contro il machiavellismo, contro le teorie della
ragion di stato e del diritto divino dei re, contro l’assolutismo paterna-
listico e quello hobbesiano [...] Orbene, ciò che oggi rinasce col nome
di giusnaturalismo è la perenne esigenza, particolarmente intensa nei
periodi di gerre esterne e interne, che la vita, alcuni beni e alcune libertà
dell’individuo siano protette giuridicamente contro la forza organizzata
di coloro che detengono il potere.59
E così prosegue:
Ciò che rinasce continuamente è il bisogno di libertà contro l’opposizio-
ne, di uguaglianza contro la disuguaglianza, di pace contro la guerra. Ma
questo bisogno nasce indipendentemente da ciò che i dotti pensano sulla
natura dell’uomo. Più che di una rinascita del giusnaturalismo, dunque,
si dovrebbe parlare del ritorno di quei valori che rendono la vita umana
degna di essere vissuta60.
Di fronte ai sostenitori di una “rinascita del giusnaturalismo” Bobbio
non si limita a respingere l’accusa di statalismo, spesso rivolta al giuspo-
Giuffrè, Milano 1960, vol. I, pp. 221-235 (poi ripubblicato, con il titolo Kant e le due libertà, in N. BOBBIO, Da Hobbes a Marx, cit., pp. 147-163) e Studi lockiani, in «Rivista istorica italiana», 1965, LXXVII, pp. 96-130 (poi in N. BOBBIO, Da Hobbes a Marx, cit.,
pp. 75-128).58 Si tratta del cap. VIII di N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Laterza,
Bari 2011.59 Ibi, p, 167.60 Ibi, pp. 169-170.
90 ADELINA BISIGNANI
sitivismo, ma mostra come questo abbia assimilato «quei valori che ren-
dono la vita umana degna di essere vissuta». Il diritto nasce dal bisogno
di libertà, di uguaglianza e di pace. Se la teoria oggettivistica della morale
non può essere soddisfacente, non lo può essere neppure un positivismo
giuridico che metta tra parentesi quel bisogno. D’altra parte, la stessa
origine storica del positivismo giuridico dal giusnaturalismo (come la fi-
losofia politica di Hobbes attesta) dimostra che il diritto e la scienza giu-
ridica devono rispondere alla necessità di difendere la libertà e la dignità
della persona umana. Posta la persona come principio fondamentale, la
scienza del diritto non può rinchiudersi nell’analisi formale dell’ordi-
namento e delle norme, ma deve misurare i suoi compiti e orientare la
sua attività in funzione della realizzazione di quel principio. L’indagine
scientifica deve, allora, passare dall’analisi della struttura del diritto all’a-
nalisi della sua funzione61. E il diritto positivo deve essere misurato sulla
sua capacità di affermare i diritti fondamentali dell’“individuo sociale”.
Se così non fosse, quali ragioni scientifiche potrebbero autorizzare la
critica del sistema giuridico sovietico? Non è anch’esso un ordinamento
giuridico formalizzato e “coerente”?62
Non basta, allora, riconoscere la positività del diritto o immaginare
che l’ordinamento giuridico possa limitare la sovranità statale, occorre
spostare l’indagine dall’analisi della struttura dell’ordinamento giuridi-
co all’analisi della sua funzione sociale; occorre elaborare una teoria dei
meccanismi che presiedono alla conquista e al funzionamento del pote-
re: una teoria generale della politica. Gli studi bobbiani sulla “scienza poli-
tica” dei Mosca e dei Pareto nascono da questa esigenza di definire una
teoria del potere. Nascono dal bisogno di elaborare una scienza in grado
di guardare al di là dell’ordinamento giuridico; di trascenderlo, per co-
glierne la genesi e le finalità63. Rispetto a Kelsen, v’è, nella riflessione
61 È in questa direzione che, a partire dalla fine degli anni ’60, Bobbio svilupperà la sua
ricerca. Cfr. i saggi raccolti in N. BOBBIO, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoriadel diritto, Edizioni di Comunità, Milano 1977.62 Nel già ricordato saggio su La teoria pura del diritto e i suoi critici, analizzando le tesiidel giurista sovietico Vischinskij, Bobbio osserva che, per quanto lo stesso Vischinskij
si affretti nell’affermare che la sua elaborazione non ha nulla a che fare con quella dei
normativiti, tuttavia «non ci si può sottrarre all’impressione che tra il punto di vista degli
avversari, respinti a parole, e il suo sia intervenuta l’assimilazione della teoria positivisti-
ca normativa, per cui il diritto è norma statuale coattiva, e di cui la teoria del Kelsen è
stata la più coerente espressione, e insomma che il ritorno alla legalità sovietica sia av-
venuto passando attraverso la strada regia della dottrina normativistica» (Diritto e potere,cit., pp. 34-35).63 Sul percorso compiuto da Bobbio verso una “teoria generale della politica” si veda M.
BOVERO, Introduzione, in N. BOBBIO, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 1999.
PERSONA-VALORE E LIBERTÀ DEI MODERNI 91
di Bobbio, uno accentuato interesse per la definizione di una teoria del
potere (e dello Stato) che guarda al di là dell’ordinamento giuridico
e che, appunto, non riduce lo Stato al suo ordinamento giuridico. V’è
l’interesse a una difesa dell’individuo sociale attraverso gli strumenti della democrazia, perché, in definitiva, è tale difesa che giustifica e fonda l’or-
dinamento giuridico. Rispetto ad essa si misurano le leggi.
Per queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare dal ridurre lo
Stato al suo ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che Capograssi
rinfaccia a Kelsen. Anzi, respingerà qualsiasi forma di statolatria. Egli
sa bene che non vi può essere «un diritto senza Stato» (un ordinamento
giuridico senza Stato). È l’esistenza dello Stato che assicura la effettivitàdel diritto. Ma la necessità della esistenza di uno Stato come strumento
indispensabile per dare effettività alle leggi non può legittimare uno Sta-
to assoluto; non può annullare l’idea che la sovranità dello Stato debba
essere definita e limitata dalle leggi.
Personaggi del Novecento italiano
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 95-106
Gaetano MartinoMARCELLO SAIJA
È difficile sostenere che l’Europa di Gaetano Martino1 sia il frutto di
strategie politiche contingenti dell’epoca in cui questi ricopre l’incarico
di ministro degli Esteri. Il disegno che presenta e sostiene alla confe-
renza di Messina del 1955 (solo in piccola parte recepito dai trattati
di Roma), appare piuttosto come il risultato di un lento processo di
maturazione con radici risalenti alla prima formazione. È lo stimolante
ambiente del collegio Pennisi di Acireale che gli procura l’immersione
nella cultura classica, e, con questa, la convinzione che i parametri della
civiltà occidentale siano insostituibili nel processo di modernizzazione
del mondo. La famiglia e il frizzante ambiente cittadino fanno il resto.
Il padre, per lunghi anni sindaco della città, ha trascorsi repubblicani
e di internazionalismo massonico e non risparmia ai figli giovanissimi il
battesimo politico. La madre viene da una famiglia di commercianti di
stoffe operanti nell’area del ex porto franco e collegati con quelle ditte
inglesi che proiettavano Messina nei traffici internazionali2.
Il capoluogo peloritano baraccato del post terremoto è, poi, una sorta
di villaggio del far west che lascia sbigottito un giovane consigliere di
prefettura li catapultato pochi anni dopo il sisma:
...Mi aspettavo di trovare uomini e donne chiusi nel dolore – scrive –...E,
invece no!... In questa grande distesa di legni abitati, i più si muovevano
con sorprendente vitalità. Entravano ed uscivano dai negozi dagli uffici,
dai ritrovi, quasi tutti ospitati in baracche di legno, con l’aria indaffarata
di chi sta inseguendo un progetto importante e non può frapporre indu-
gi3.
1 Un ampia biografia di Gaetano Martino, redatta da chi scrive insieme ad Angela Villa-
ni, è stata pubblicata, nel 2011 con la prefazione di Giorgio Napolitano. Si veda M. SAIJA
- A. VILLANI, Gaetano Martino 1900-1967, Rubettino, Soveria Mannelli 2011.72 M. D’ANGELO, Aspetti commerciali e fi nanziari in un porto mediterraneo: Messina 1795-1805, in Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, CCXLIX (1979) v. 55, Tipografia
Samperi, p. 201-247; M. D’ANGELO, Comunità straniere a Messina tra XVIII e XIX secolo,Perna Edizioni, Messina 1998.3 Il brano è riportato per intero in M. SAIJA Gli anni messinesi di Giorgio La Pira 1913-1924, in ID. (a cura di) Giorgio La Pira dalla Sicilia al Mediterraneo, Trisform edizioni,
Messina 2005, p. 41
96 MARCELLO SAIJA
La città è, in realtà, una sorta di ground zero dove giungono fermenti
di tutti i tipi. Marinetti pensa che la Messina terremotata sia il terreno
più fertile per coltivare la modernità e, con una capillare azione di pe-
netrazione, galvanizza giovani e intellettuali di tutte le classi4. I socialisti
massimalisti inviano un sindacalista rivoluzionario per convincere chi
ha perso tutto che la soluzione dei problemi è la proprietà collettiva5. La
Chiesa, con le predicazioni di Don Orione ed Sant’Annibale Maria di
Francia, stende sulle macerie una cappa mistica per trasformare il do-
lore in moto ascensionale verso Dio6. I mercanti stranieri sopravvissuti
(che avevano regalato alla città uno splendido Ottocento) tentano di
ricostituire il tessuto economico7 e il giovane Le Corbusier, sollecitato
da ambienti massonici internazionali, offre alla ricostruenda città la spe-
rimentazione della sua Maison Dominò8.
Fino ai primi anni Venti, si pubblicano quattro quotidiani ed una in-
numerevole quantità di periodici che si occupano anche della ricostru-
zione ma, più in generale, operano come motori di una intensa stagione
culturale9. Ed è in questo ambiente che – insieme a La Pira, Quasimodo,
Pugliatti e Fulchignoni, per citare solo nomi noti – Martino vive la sua
adolescenza e parte della sua giovinezza.
Qui, in questo ambiente, prima del devitalizzante connubio clerico-
fascista10, Martino matura gli anticorpi che gli permettono di vivere cri-
ticamente l’incombente grigio ventennio di una città avviata al suo de-
stino burocratico e piccolo borghese.
Ha appena 22 anni quando, studente universitario di medicina a
Roma, di fronte ad una sfilata di camice nere, commenta al suo collega
di studi che «il fascismo non ha nulla a che vedere con il risorgimento
4 Ibidem.5 Si tratta di Domenico Viotto che resta a Messina per alcuni anni dirigendo la locale
Camera del Lavoro e tentando di fondare nuclei socialisti rivoluzionari. Riferimenti a la
sua attività si possono rintracciare nelle carte personali, riordinate da Gianfranco Porta
e versate al Museo dell’Industria e del lavoro (MUSIL) di Cedegolo (L BS).6 Si veda il saggio di M. SAIJA, Gli anni messinesi di Giorgio La Pira, cit.7 M. SAIJA, La perdita dell’Agorà, in DPR Rassegna di studi e ricerche, 4 (2002) 4, Sicania R
editore, Messina; si tratta di un numero monografico sulla falce di Messina a cura di N.
ARICÒ.8 G. CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina. Dal terremoto al 1948, Gangemi editore,
Messina 1993.9 A. CICALA, Partiti e movimenti politici a Messina: dal fulcismo al fascismo 1900-1926, Rub-
bettino editore, Soveria Mannelli (CZ) 2000.10 M. SAIJA, Messina 1923: la transizione dei poteri, in R. BATTAGLIA - M. D’ANGELO - M.
LO CURZIO (a cura di), Messina negli anni 20 e 30, Sicania editore, Messina 1983; M.
SAIJA, La perdita dell’Agorà..., cit.
GAETANO MARTINO 97
nazionale dei Cattaneo e dei Mazzini e che tutto ciò che aumenta la con-
flittualità tra i popoli d’Europa va contro il progetto di civilizzazione del
mondo11». Si laurea con una tesi in Chirurgia ma le frequentazioni del
circolo antroposofico di via Gregoriana diretto da Ermelinda Sonnino
e, in particolare, le conferenze di Silvestro Baglioni lo spingono verso
la Fisiologia12. Dopo la laurea, con il patronage del senatore messinese
Francesco Durante, chirurgo di fama internazionale, va a studiare in
prestigiosi centri di ricerca da anni operanti a Berlino e Parigi13. Il con-
fronto scientifico con studiosi di indiscusso valore e di diverse nazio-
nalità allarga i suoi orizzonti ma contribuisce non poco a fornirgli una
risposta chiara sulla insensatezza della guerra ed in particolare di quella
appena conclusa tra le nazioni europee.
Forte di un bagaglio culturale maturato con esperienze scientifiche di
alto profilo, nella seconda metà degli anni Venti torna a Messina ormai
ammorbata dall’incalzante clerico-fascismo. Trova una precaria colloca-
zione accademica nella locale Università dove l’insigne fisiologo Giusep-
pe Amantea gli apre le porte dei suoi laboratori. L’humus politico non
gli è, però, favorevole. Pesa come un macigno il rifiuto pubblico della
tessera del PNF da parte di suo padre e, nonostante la benevolenza del
Rettore on. Gaetano Vinci, è costretto ad espatriare per procurarsi i gra-
di della docenza. Su suggerimento e con l’appoggio dello stesso rettore
Vinci si reca ad Asuncion in Paraguay dove impianta ex novo una scuola
di fisiologia14.
Nei tre anni di permanenza nel paese sudamericano, entra in con-
tatto con studiosi brasiliani ed argentini e per sua stessa ammissione,
trascorre il periodo scientifico più proficuo della sua vita15. L’improvvisa
occasione di un concorso a cattedra che vince per titoli nel 1931, lo
induce a tornare a Messina, dove è, però, costretto a tesserarsi al fascio
11 Dal diario manoscrittio di Francesco Scullica posseduto in copia da chi scrive e ripor-
tato in M. SAIJA - A. VILLANI, Gaetano Martino 1900-1967, cit., pp. 25 ss.712 Ibi, p. 28.13 La prima esperienza di studi all’estero la compie presso la Clinica medica dell’univer-
sità di Berlino, nei primi mesi del 1924. Si reca poi, da giugno a settembre dello stesso
anno, nel reparto di medicina interna dell’ospedale Sant’Antoine di Parigi. M. SAIJA - A.
VILLANI, Gaetano Martino 1900-1967, cit., p. 31.714 Per un analisi più ampia degli eventi descritti e sulle vicende della formazione scien-
tifica di Gaetano Martino si rinvia al citato volume di M. SAIJA - A. VILLANI, Gaetano Martino 1900-1967, cit.715 Chi scrive ha presentato la biografia di Martino nella facoltà medica di Asuncion
nel 2009, trovando una memoria ancora viva dello studioso italiano, nonostante siano
trascorsi quasi cinquanta anni dalla sua scomparsa. A lui è stata dedicata una strada del
centro storico della città.
98 MARCELLO SAIJA
per poter assumere servizio. A 33 anni è quindi titolare di cattedra, ma
è irrequieto e in una posizione piuttosto scomoda. La facoltà medica lo
chiama con una risicata maggioranza e qualcuno non esita a palesargli
contrarietà. Nonostante ciò, con il sostegno del rettore riesce a fare car-
riera accademica e, nella seconda metà degli anni Trenta diventa preside
della facoltà di Farmacia. E controllatissimo dall’OVRA che continua a
fornire di lui informazioni pessime: «Indossa con insofferenza l’orbace»,
si legge in una nota riservata della questura. Ma è la promulgazione del-
le leggi razziali in Italia che, nel 1938, lo induce a qualcosa in più che la
resistenza passiva al regime. Lo ritroviamo nella casa del console ingle-
se Garbutt, in compagnia di una piccola e segretissima conventicola di
ottimati locali, impegnatissimo ad esplorare vie alternative al dominan-
te conformismo. Anche in Facoltà opera controcorrente e si oppone al
dictat del federale di porre un fascista sulla cattedra di Odontoiatria. Si
salva dalle ire della gerarchia per l’intervento del segretario amministra-
tivo del PNF stretto congiunto della sua promessa sposa Alberta Stagno
d’Alcontres, appartenente alla famiglia più in vista della città16.
Sono questi gli episodi che, ben conosciuti dagli inglesi, gli fruttano
onori ed oneri, all’indomani dello sbarco alleato17. Una pattuglia di uffi-
ciali britannici, in marcia per raggiungere Messina da Catania, lo preleva
a Santo Stefano Medio, nella casa di campagna dove si era rifugiato e
gli affida l’incarico di Provveditore agli Studi e Rettore della Università.
Da quel momento, in rapida successione, gli eventi della sua prima
carriera politica si susseguono a ritmo incalzante. Con il sostegno del
maggiore Gayre, amministra con cura la ricostruzione dell’Ateneo. Ri-
fonda a Messina il Partito Liberale ed ha forse parte nella ricostituzione
della massoneria ferana. In rappresentanza dei liberali è membro del
locale CLN e, dopo un duro attacco dei comunisti alla sua politica filoal-
leata, ha una breve deriva separatista. Nel 1946 viene, però, officiato da
Vittorio Emanuele Orlando e Giuseppe Paratore per la candidatura nel-
le liste dell’Unione Democratica Nazionale. Viene eletto alla Costituen-
te e vive una stagione di intenso impegno politico ideale mostrando una
straordinaria ed insospettata competenza di dottrine politiche e storia
delle istituzioni. Sua è la difesa della Corte Costituzionale dagli attacchi
dell’amico e mentore Vittorio Emanuele Orlando ed è ancora sua l’illu-
16 Per un approfondimento degli eventi descritti e per i riferimenti documentari ci per-
mettiamo di inviare alla citata biografia di M. SAIJA - A. VILLANI, Gaetano Martino 1900-1967, cit., ad indicem.7717 Gli eventi qui di seguito riportati sono più ampiamente descritti e suffragati dall’ap-
parato critico nel secondo capitolo della citata biografia redatta da M. SAIJA - A. VILLANI,
Gaetano Martino 1900-1967, cit., pp. 69 ss.77
GAETANO MARTINO 99
strazione in aula del notissimo caso Marbury vs Madison, rispolverato
per spiegare a Palmiro Togliatti come la fiducia tutta giacobina nelle ve-
rità della maggioranza può essere un pericolo gravissimo per la neonata
democrazia italiana18. Diventa vicepresidente della Camera dei Deputati
e, per la sua abilità giuridica a districarsi tra i regolamenti parlamentari,
entra nelle grazie di De Gasperi con il quale instaura un solido rapporto
di condivisione proprio nella stagione del primo europeismo. La sua cre-
scente visibilità incoraggia Giorgio Almirante a tentare contro di lui una
opera di screditamento. Rivangando l’episodio della sua fulminea nomi-
na a rettore dell’Università, il leader dell’MSI lo accusa di essere stato
una spia degli inglesi. Martino si difende giudizialmente e Almirante è
costretto a pubbliche scuse19.
Nel marzo del 1954 entra a far parte del governo Scelba. Per la verità
Alcide De Gasperi, che dopo le dimissioni del precedente governo aveva
guidato la propria successione, aveva indicato Martino agli Esteri, ma le
alchimie interne alla DC lo avevano dirottato alla Pubblica Istruzione.
Qui, con grande preoccupazione dei cattolici, si occupa dei rapporti
tra scuola pubblica e privata istituendo gli esami di Stato per il diploma
di licenza ma soprattutto riordina con scrupolosa precisione la scuola di
ogni ordine e grado. Sei mesi dopo, il 19 settembre, però, lo scandalo
Montesi obbliga alle dimissioni il ministro Attilio Piccioni e quasi deplano, Martino lo sostituisce agli Esteri. Le indicazioni di De Gasperi,
morto un mese prima, erano diventate cogenti. C’era sul tappeto la de-
finizione del memorandum d’intesa sul confine giuliano e l’assegnazio-
ne di Trieste all’Italia. Gran parte della DC e tutte le destre erano per
richieste territoriali massimaliste mentre gli americani premevano per
l’accettazione di uno schema predefinito di una zona A all’Italia e di una
zona B alla Jugoslavia. Martino si rende conto che la posta in gioco è
molto più alta della semplice divisione territoriale. Si tratta di trovare un
modus vivendi con la Jugoslavia per attrarre definitivamente nell’orbita
occidentale il maresciallo Tito che, dopo la rottura con Stalin, mostra
chiare disponibilità di dialogo. E così all’insegna di «ciò che conta non
è un metro in più alla Jugoslavia e uno in meno all’Italia», firma il me-
morandum d’intesa e come primo atto da ministro degli Esteri, saluta
18 Più ampiamente le posizioni di Gaetano Martino alla Costituente sono illustrate da
G. SILVESTRI, Gaetano Martino e la Costituente, in M. SAIJA (a cura di), Gaetano Martino, scienziato, rettore, statista 1900-1967. Atti del convegno internazionale di studi 24-26 novem-bre 2000, Trisform edizioni, Messina 2002, pp. 48-55.19 M. SAIJA - A. VILLANI, Gaetano Martino 1900-1967, cit., pp. 181 ss.77
100 MARCELLO SAIJA
il ritorno di Trieste all’Italia20. È l’esordio del suo atlantismo che trova
immediata conferma nell’abile trattativa subito dopo dispiegata per la
costituzione dell’Unione Europea Occidentale (UEO). Il suo impegno
viene pubblicamente riconosciuto dal segretario di Stato Americano
John Foster Dulles e dal ministro degli Esteri britannico Anthony Eden
che gli riservano parole di apprezzamento e di stima, ma la sua stella
europeista brilla con ben altra evidenza pochi mesi dopo per la storica
conferenza di Messina21.
Molto è stato scritto sulle ragioni che determinano la scelta della città
dello Stretto come sede dell’evento. Si è parlato di una intesa segreta tra
Martino e Spaak per attribuire a Messina la sede dei lavori e a Bruxelles
quella della costituenda Alta Autorità. Si sono ipotizzate ragioni contin-
genti connesse alla propaganda politica in vista delle imminenti elezioni
regionali. In realtà, per attenerci a ciò che consta per acta, riportiamo ciò
che ci ha raccontato la signora Alberta Martino Stagno d’Alcontres, 35
anni dopo la morte del marito. La scelta di Messina, al di là dell’oggetti-
vo legittimo orgoglio dello statista peloritano di veicolare nella sua città
un evento tanto importante, era dovuta ad una sorta di regia che (l’e-
spressione è mia, non della signora Martino) puntava su metodi che oggi
chiameremmo di persuasione occulta. In sostanza, era stato scientemen-
te previsto di offrire ai sei ministri degli esteri di quella che di li a breve
sarebbe divenuta la Piccola Europa, uno scenario capace di evocare le
origini della civiltà occidentale, ponendo davanti ai loro occhi i miti del-
lo Stretto e di quella Magna Grecia racchiusa nel triangolo di mare Jonio
che ha come ipotenusa la linea che partendo da Taormina, raggiunge la
costa calabra. Martino ne aveva parlato con il sindaco di Messina dell’e-
poca, avvocato Carmelo Fortino, uomo di profonda cultura e costui,
entusiasta del disegno, sia per il prestigio che veniva alla città, sia per
l’alto valore simbolico a cui assurgeva quella porzione di regione siculo
calabra, a lui particolarmente cara, si era dato immediatamente dato da
fare con grande impegno. Convocato a Roma d’urgenza il 15 maggio
1955 – come egli stesso soleva ripetere – in 15 giorni, aveva trasformato
il municipio in una succursale della Farnesina, facendo il possibile per
20 L’intera vicenda è più ampiamente ricostruita nel quinto capitolo della biografia di
Gaetano Martino redatta da M. SAIJA - A. VILLANI, Gaetano Martino 1900-1967, cit., pp. 77221 ss.21 Chi scrive si è occupato di ricostruire le cause e le dinamiche della Conferenza di
Messina, oltre che nella citata biografia redatta insieme ad Angela Villani, nella confe-
renza di apertura del convegno internazionale commemorativo tenuto a Messina per i
sessant’anni dall’evento. Qui di seguito si riportano alcune notazioni inedite utilizzate in
quella occasione e mai pubblicate.
GAETANO MARTINO 101
offrire agli ospiti la scenografia richiesta. Aveva messo a disposizione per
i lavori il salone di palazzo Zanca con le ampie vedute sullo stretto. Ave-
va fatto arredare lo stesso con le testimonianze archeologiche della città
greca ottenute in via eccezionale dal Museo Archeologico Regionale, e,
per i più distratti che non avevano ancora compreso dove si trovassero,
nell’incipit del discorso di benvenuto aveva enfatizzato il mito dell’anti-
ca Zancle, prima colonia greca di Sicilia.
Zancle appunto – aveva precisato Fortino – con i suoi meriti non secon-
dari nella trasmissione della cultura greca e dei valori fondanti di quella
civiltà aveva avuto un ruolo importante nel porre l’Occidente in una
condizione privilegiata22.
Nel programma successivo all’inaugurazione, nel primo giorno era sta-
to previsto un sontuoso pranzo mediterraneo sulle rive dello Stretto in
vista degli omerici promontori di Scilla e Cariddi; poi, una serata al te-
atro greco di Taormina con balletti e musiche d’autore. Infine, il giorno
successivo, una ineguagliabile ospitalità nel trecentesco hotel San Do-
menico, a picco sulla baia di Naxos, colonia greca fondata dai calcidesi
in epoca coeva alla creazione di Zancle.
Certo nessuno può dire se e quanto tutto questo abbia contribuito
al miracolo diplomatico che nella notte tra il 2 ed il 3 giugno, in un sa-
lone dell’hotel San Domenico, aveva permesso di vedere la nascita del
Mercato Comune Europeo, secondo quella prospettiva di integrazione
orizzontale, vagheggiata dal memorandum belga e italiano, ma forte-
mente osteggiata da francesi e tedeschi. È fuor di dubbio che i contenuti
più ostici fossero stati digeriti dai recalcitranti Antoine Pinay e Walter
Hallstein in virtù del collante della minaccia comunista che riguardava
tutti in egual misura. Ciò che appare a chiare lettere dalle carte e dai
documenti ufficiali, però, è che lo spirito greco di Messina, servirà a Mar-
tino nei discorsi successivi per far capire quanto al di la delle contingenti
ragioni economiche vi fossero pregnanti elementi spirituali che motiva-
vano la necessità del processo di integrazione europea. A chi come Ugo
La Malfa gli rimproverava di aver rinunciato all’Europa politica, Mar-
tino rispondeva che la soluzione di compromesso adottata era l’unica
possibile e che era del tutto strumentale all’obiettivo di fare accettare
il principio di limitazione della sovranità nazionale per poi approdare
all’Europa costituzionale, politica e morale.
Dopo la conferenza di Messina, la stella politica di Gaetano Martino
brilla come non mai. Nonostante la incombente tendenza a superare il
22 Dal resoconto della Gazzetta del Sud del 3 giugno 1955. Copia del giornale ci è stato dmesso a disposizione dalla professoressa Carla Fortino, figlia del sindaco.
102 MARCELLO SAIJA
centrismo nella prospettiva di un ingresso ufficiale del PSI nell’area di
governo, Antonio Segni, successo a Mario Scelba nel luglio del 1955, gli
conferma la fiducia agli Esteri assicurando, così, continuità alla linea di
politica internazionale. Le difficoltà interne che, però, il riconfermato
ministro si trova ad affrontare crescono notevolmente. Con l’elezione di
Giovanni Gronchi a Presidente della Repubblica, si rafforza la linea di
chi considera l’atlantismo una gabbia e lo stesso inquilino del Quirinale,
in barba al dettato costituzionale, tende ad esternare le sue convinzioni
in tema di politica estera non sempre collimanti con le posizioni del
governo. In particolare, Gronchi è convinto che l’Italia deve in qual-
che modo prendere le distanze dagli USA e modificare il registro dei
comportamenti nei confronti dell’URSS. Martino non ha alcuna voglia
di abdicare al suo ruolo e sul piano sostanziale considera l’atlantismo
un’opzione irrinunciabile. Sostiene, così, con la massima carica istitu-
zionale dello Stato un confronto piuttosto duro che sarebbe cessato solo
a maggio del 1957 con le dimissioni del governo Segni.
All’insegna dell’atlantismo, affronta, poi, la sfida dell’ingresso dell’I-
talia nell’Assemblea delle Nazioni Unite. Qui il problema di fondo era
quello di non intaccare equilibri diplomatici consolidati tra Est ed Ovest,
ma anche quello di come accaparrarsi il consenso di Francia ed Inghil-
terra senza svendere le posizioni di indipendenza in merito al processo
di decolonizzazione. Il ministro degli esteri italiano tesse, quindi, una
trama nella quale, all’interno di un ordito internazional-pacifista, preme
sui suoi potenziali alleati per far ricomprendere l’Italia nei sedici paesi
scelti con il bilancino dell’equivalenza tra quelli filoatlantici e quelli filo-
sovietici (package deal(( ). Ci riesce e già nel gennaio del 1956 il rappresen-lltante permanente dell’Italia siede nell’Assemblea delle Nazioni Unite.
Sin dall’inizio, Martino si rende conto che la sua posizione all’ONU non
è per nulla comoda. È costretto a notevoli equilibrismi per non urtare
gli americani, favorevoli al processo di decolonizzazione, ma contem-
perando le ragioni di Inghilterra e Francia, (determinanti per l’ingresso
dell’Italia alle Nazioni Unite) che restavano arroccati a difesa delle loro
posizioni coloniali. Con la Francia, in particolare, Martino usava parti-
colari precauzioni per non compromettere i delicatissimi negoziati per
la ratifica dell’accordo di Messina. Lo scenario di fondo restava sempre
quello della competizione tra USA ed URSS nell’egemonia sui paesi di
nuova indipendenza.
In questo quadro, la prima presa di posizione del ministro degli esteri
italiano è prudente. Chiarisce che ferma restando la ricerca di contatto
con tutti i popoli del mondo, per lui rimaneva prioritaria la solidarietà
occidentale.
GAETANO MARTINO 103
Come questo enunciato generico si traducesse operativamente era
però all’inizio una vera e propria incognita e l’impressione che poteva
trarsi dall’avvio delle prime discussioni in Assemblea in tema di decolo-
nizzazione era quella di una navigazione a vista delle nostre delegazioni
diplomatiche. Poi Martino affina la sua linea e durante le crisi di Suez e
d’Ungheria del 1956 si comprende con maggiore chiarezza la sua stra-
tegia. Si trattava di rafforzare la coesione atlantica premendo sui paesi
coloniali perché mutassero le posizioni nella direzione di una coopera-
zione allo sviluppo dei paesi di nuova indipendenza. Con questa bussola
si oppone alla formazione di una coalizione di paesi coloniali in Assem-
blea ONU, proposta dalla Francia e con il vivo consenso degli americani
prende una posizione di mediazione tra gli interessi in conflitto nell’area
mediorientale. Sul versante opposto, in linea con il suo anticomunismo,
non esita a condannare l’invasione sovietica in Ungheria. Non vuole,
però, fughe in avanti e rimane tiepido alla proposta di varare una mis-
sione ONU per garantire libere elezioni nel paese magiaro. È questo suo
sostanziale equilibrio, ma soprattutto le sue manifeste convinzioni sulla
cooperazione internazionale che gli fruttano la nomina alla presidenza
del comitato dei tre saggi NATO che avevano il ruolo di definire i compiti
dell’Alleanza Atlantica nella sfera civile23.
In assemblea generale ONU tenta, come può, di perseguire una linea
di coesione occidentale non incompatibile con gli interessi terzomondi-
sti. La sua azione è spesso frenata da fatti contingenti. Vorrebbe esterna-
re il dissenso italiano sulla politica di apartheid del governo sudafricano,
ma deve agire con prudenza nella discussione sulla regolamentazione
delle minoranze per il contenzioso aperto dall’Austria contro l’Italia per
violazione degli accordi De Gasperi-Gruber sui diritti delle minoranze
di lingua tedesca in Alto Adige. Appena può, tenta, però, di favorire l’ag-
gregazione di paesi ex coloniali e, in Assemblea opera per coalizzare stati
di vaste aree geografiche come nel caso della regione latinoamericana
cercando con questi la consonanza sul terreno della grande emigrazione
italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Dopo un ultimo scontro con Gronchi in difesa del piano Eisenho-
wer e quel piccolo capolavoro diplomatico per ratificare con i trattati di
Roma quanto era stato stabilito a Messina nel 1955, Martino chiude la
sua esperienza agli Esteri non senza aver lasciato una sorta di chiave di
lettura del suo operato con la quale chiariva definitivamente che quanto
23 La commissione era presieduta da Martino nella qualità di ministro degli esteri ita-
liano e dai ministri degli esteri di Norvegia, Halvard Lange, e dell’omologo canadese
Lester Pearson.
104 MARCELLO SAIJA
costruito con il varo del MEC e l’avvio del processo di integrazione eco-
nomica orizzontale, era soltanto un mero strumento per la realizzazione
di un più ampio e coraggioso progetto politico:
Se l’Europa fosse solo un insieme di popoli – aveva detto – sia pure ricchi
di ricordi gloriosi ed usi civili, e non avesse una sua anima, e quest’ani-
ma non rappresentasse un valore indispensabile all’avvenire del mondo,
essa sarebbe irrimediabilmente condannata e a nulla varrebbero i nostri
sforzi. Anche il corpo perirebbe se l’anima lo disertasse. A base della no-
stra azione politica, il cui contenuto è economico-sociale, ci sono perciò
elementi di natura spirituale di cui dobbiamo sempre rinnovare in noi
la coscienza perché solo in tal modo possiamo serbarli ed arricchirli. Il
giorno in cui questa coscienza si oscurasse, sull’Europa si stenderebbe
una notte senza fine24.
Nel 1958, Gaetano Martino diventa rappresentante italiano all’Assem-
blea parlamentare europea e riprende con più forza la sua concezione
di Europa federata con istituzioni democratiche e una diffusa coscienza
unitaria. Sin dai primi discorsi che pronuncia riemerge l’eco di convin-
zioni in lui radicate sin dalla formazione. Il suo europeismo è genetico
di stampo risorgimentale, filtrato poi dalla elaborazione einaudiana nel
secondo dopoguerra.
Il vero fondamento dell’Unità europea è di natura spirituale – esordisce
a Strasburgo il 19 marzo 1958. L’Europa è già unita nella cultura e nella
civiltà, se è vero che non esitiamo a chiamare europei Dante, Ghoete,
Shakespeare e Pascal e che riteniamo nostro comune patrimonio la liber-
tà individuale, la democrazia politica, lo stato di diritto, tutte conquiste
elaborate dalla plurimillenaria storia europea nel suo svolgimento unita-
rio. Ma la coscienza di questa unità culturale non basta. Occorre che sia
confermata dai popoli europei con azioni positive e concludenti25.
Ed a queste azioni si dedica per l’ultimo decennio della sua vita senza
interruzioni di continuità. Si schiera contro la proposta Britannica di
trasformare l’assemblea dell’UEO in organo parlamentare comune alla
CECA ed alla nascente CEE con composizioni diverse a seconda delle
materie da trattare ed ipotizza, invece l’elezione del Parlamento Europeo
24 Intervento di Martino all’Assemblea del Consiglio d’Europa tenuta il 17 aprile 1956
poi riportato in G. MARTINO, Per la libertà e la pace, Le Monnier, Firenze 1957 p. 319.25 Il primo discorso di Gaetano Martino nell’Assemblea di Strasburgo, già pubblicato
varie volte in precedenza, si trova da ultimo nella raccolta dei suoi scritti pubblicata nel
2001. Lo si veda in G. MARTINO, L’unificazione dell’Europa in ID., Gaetano Martino. 10 anni al Parlamento europeo (1957-1967). Un uomo di scienza al servizio dell’Europa, Ed
Comunità Europee, Lussemburgo 2001, pp. 12-13.
GAETANO MARTINO 105
a suffragio universale diretto, con il rafforzamento dei poteri assembleari
l’allargamento ad Est e ad Ovest dei paesi membri, ed il bilanciamento
del rapporti con gli organi esecutivi. Da lui parte poi l’idea ed il progetto
di una università europea che troverà pratica attuazione con la creazione
dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, dopo la sua morte26. E da
lui in quell’acerba epoca, viene il più coraggioso dei discorsi sul supera-
mento delle barriere nazionali pronunciato in forma ufficiale:
Io non temo la parola sopranazionalità anzi lo considero come uno dei
principi più importanti e fecondi della nostra età. [...] Oggettivamente
non vedo in quale altro modo potremmo ottenere l’Unità d’Europa e
dell’intero mondo atlantico27.
Era certamente una fuga in avanti di ispirazione einaudiana, forse anche
un po’ provocatoria per i francesi, sempre pronti ad innalzare le dighe
delle barriere nazionali. Non c’è dubbio, però, che per Martino questo
costituisse il vero punto d’arrivo del processo di integrazione europea.
Per il prestigio conquistato viene eletto alla massima carica dell’As-
semblea parlamentare, ma gli eventi della vita gli riservano anche un
nuovo ruolo in patria. Per decisa iniziativa di Aldo Moro, all’epoca Pre-
sidente del Consiglio dei Ministri, nel 1966, viene eletto Rettore dello
Studium Urbis. È, però, il suo ultimo anno di vita. Un tumore ai polmo-
ni lo stronca il 21 luglio 1967.
26 Si veda per la genesi dell’Università europea in M. SAIJA - A. VILLANI, Gaetano Martino 1900-1967, cit., pp. 428 ss.727 G. MARTINO, Gli aspetti non militari dell’Alleanza atlantica, conferenza tenuta al collegio NATO di Parigi il 6 luglio 1959, in G. MARTINO, Verso l’Avvenire, Le Monnier, Firenze
1965, p. 210.
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 107-128
Filippo MedaALFREDO CANAVERO
Filippo Meda è uno di quei personaggi fondamentali nella storia d’Ita-
lia, ma che sono oggi quasi completamente dimenticati. Eppure Meda
fu l’uomo che portò i cattolici dall’intransigentismo all’accettazione del-
lo Stato liberale, fu tra i primi cattolici a divenire deputato e fu il primo
cattolico ad ottenere la carica di ministro. Oppositore del fascismo, dopo
l’instaurarsi della dittatura si ritirò a vita privata, ma ebbe il coraggio di
difendere in tribunale Alcide De Gasperi, accusato di tentato espatrio
clandestino. Trascorse i suoi ultimi anni scrivendo di vicende e perso-
naggi del movimento cattolico in attesa del crollo del regime che però
non fece in tempo a vedere. Ripercorrerne la biografia vuol dire ripen-
sare ad un lungo periodo della storia d’Italia in cui, tra battaglie ideali
e grandi sconvolgimenti epocali, si formava il mondo contemporaneo.
Primo di nove fratelli, Filippo Meda nacque a Milano il 1° genna-
io 1869 da una famiglia della borghesia commerciale. Il padre Luigi
aveva un negozio di stoffe nella centrale via Mercanti, non lontano dal
Duomo. Aveva cominciato a lavorarvi come commesso per poi divenir-
ne proprietario, realizzando quindi il sogno di tanti giovani che nella
Milano della seconda metà dell’Ottocento, in quella capitale morale all’a-
vanguardia del paese in tutti i campi, erano convinti che con il lavoro,
il sacrifico e la tenacia si potessero migliorare le proprie condizioni e
raggiungere importanti traguardi. Luigi Meda, dunque, si era fatto da sé
e aveva portato alla sua famiglia, se non una grande ricchezza, almeno
un tranquillo benessere che aveva permesso ai figli di raggiungere un
elevato livello di istruzione.
Il giovane Filippo frequentò le scuole elementari comunali e, dopo il
ginnasio, il liceo classico Cesare Beccaria. Della sua formazione spirituale
e delle sue letture giovanili sappiamo poco, se non che fu influenzato
dalla filosofia tomista, appresa in particolare dal libro di Luigi Taparelli
d’Azeglio Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto1, che contri-
buì a formare la sua visione della società e della politica. Durante il cor-
so degli studi manifestò la sua vocazione alla politica e al giornalismo,
1 L. TAPARELLI D’AZEGLIO, Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto, 5 voll.,
Palermo, Stamperia d’Antonio Muratori, 1840-1843.
108 ALFREDO CANAVERO
aderendo alla Sezione giovani dell’Opera dei Congressi e pubblicando
articoli su diversi periodici cattolici per approdare poi a «L’Osservatore
Cattolico» diretto da don Davide Albertario. Il suo primo articolo sul
prestigioso quotidiano cattolico milanese apparve nel 1887 e fu un atto
d’accusa contro lo spirito liberale («che tutto domina, che tutto ha inva-
so, e tutto rovina») imperante nelle scuole secondarie statali e che le con-
dannava alla decadenza2. Divenuto presidente della Sezione giovani, si
occupò di svilupparla attraverso la propaganda e l’acquisizione di nuovi
soci. Pubblicò anche un agile mensile, «Il Foglietto Volante», per dare
indicazioni, diffondere notizie e mantenere la coesione degli associati.
Mentre frequentava la Regia Accademia Scientifico Letteraria di Mi-
lano, autorizzata a rilasciare lauree in lettere, cominciò a tenere confe-
renze di propaganda, distinguendosi per il tono pacato, la lucidità del
pensiero e la chiarezza dei contenuti. Egli si preoccupava di sottolineare
sempre con citazioni da documenti pontifici o da autori di sicura or-
todossia le argomentazioni più innovative, in modo da non correre il
rischio di attirarsi gli strali dei custodi della tradizione cattolica, che pure
non mancarono3.
La sua prima preoccupazione fu quella di distinguere la causa dei
clericali da quella dei legittimisti che auspicavano il ritorno dei sovrani
detronizzati dall’unificazione nazionale. I legittimisti erano particolar-
mente forti nell’Italia meridionale, dove i borbonici tendevano a lega-
re la loro causa a quella dei cattolici. In un discorso del 1889 Meda
affermava con forza che i cattolici non volevano una «Italia in pillole
con relativi duchi e granduchi», ma una Italia grande, forte e una, pur-
ché «in pace col pontefice sovrano effettivo»4. Ancora nel 1893 ribadiva
che clericalismo e legittimismo erano assolutamente incompatibili e che
essere cattolici intransigenti non significava essere reazionari5. Intransi-
gente era colui che aderiva «alla volontà pontificia nelle questioni che
sono di sua competenza dirette o indiretta», non chi voleva tornare a un
passato ormai sepolto. «Per sé intransigente non è nemmeno colui che
vuole il principato civile pel Papa, ma colui che lo vuole perché e finché
lo vuole il Papa»6. Si può già notare qui, in nuce, il pensiero di Meda
sulla posizione dei cattolici di fronte allo Stato unitario, tipica di quella
2 X. [F. MEDA], Le scuole secondarie governative, in «L’Osservatore Cattolico», 14-15 mag-
gio 1887.3 Cfr. G. DE ROSA, Filippo Meda e l’età liberale, Le Monnier, Firenze 1959, pp. 5-7.4 F. MEDA, Le cinque piaghe del movimento cattolico italiano, in F. MEDA, Fatti ed idee, Pal-
ma, Milano 1898, p. 15.5 F. MEDA, L’idea clericale, in «L’Idea Liberale», 16 aprile 1893, pp. 5-6.6 F. MEDA, Le cinque piaghe del movimento cattolico italiano, cit., p. 16.
FILIPPO MEDA 109
generazione di esponenti del movimento cattolico nati intorno al 1870
e che non avevano subito il trauma della presa di Roma e della fine del
potere temporale del pontefice. Questo dato generazionale distingueva
i Meda, i Murri, gli Sturzo, i Miglioli, i Mauri, i Micheli dalla vecchia
guardia dell’Opera dei Congressi che non riuscì mai ad accettare i fatti
compiuti dell’Italia unita e di Roma capitale. Per Meda invece anche
la potestà temporale del papa era un obiettivo solo finché il pontefice
stesso la avesse ritenuta opportuna. «Se domani il papa giudicasse diver-
samente per ipotesi, noi – scriveva Meda – cesseremmo di volerla e di
domandarla»7.
Il suo pensiero politico e sociale fu indubbiamente influenzato dall’in-
contro con Giuseppe Toniolo, di cui si dichiarò in seguito “figlio spiri-
tuale”, benché non ne condividesse tutte le opinioni. Dal 1893 collaborò
con la «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie»
che Toniolo aveva fondato assieme a mons. Salvatore Talamo. La col-
laborazione aiutò Meda ad ampliare i suoi orizzonti alle esperienze dei
cattolici francesi, belgi e tedeschi. Queste nuove prospettive convinsero
Meda della bontà del sistema democratico e gli fecero prendere posizio-
ne contro i tentativi autoritari di Crispi, così come prenderà posizione in
seguito contro quelli di Rudinì e di Pelloux.
Dopo l’esperienza fatta in cinquant’anni io credo che ben pochi prote-
sterebbero –scriveva nel 1896, alla vigilia della caduta definitiva di Crispi
– se oggi per esempio a Crispi venisse il ticchio di sbarrare per sempre
Palazzo Madama e Montecitorio e di far procedere l’amministrazione
dello stato con decreti reali. Tra questi pochi però, prego i lettori a cre-
dere, ci sarei io.8
L’impegno profuso nell’attività giornalistica e politica non impedì a
Meda di percorrere una brillante carriera universitaria. Dopo essersi
laureato in lettere alla Regia Accademica Scientifico Letteraria di Mi-
lano nel 1891 con una tesi su Il melodramma e Rinuccini, si iscrisse alla ifacoltà di giurisprudenza dell’Università di Genova, dove conseguì una
seconda laurea nel novembre del 1893. La sua tesi, dedicata alle cor-
porazioni di arti e mestieri del comune di Milano, fu poi pubblicata9.
Nel frattempo aveva assolto gli obblighi di leva, venendo congedato col
grado di sottotenente. Sostenne poi gli esami per procuratore e avvocato
e il 1° maggio 1896 aprì a Milano uno studio legale con Agostino Ca-
7 F. MEDA, Noi e gli altri, in i F. MEDA, Fatti ed idee, cit., p. 49.8 F. MEDA, Parlamentarismo e sistema rappresentativo, in «Rivista internazionale di scienze
sociali e discipline ausiliarie», marzo 1896, p. 4.9 F. MEDA, Le corporazioni milanesi d’arte e mestieri, Ghezzi, Milano 1894.i
110 ALFREDO CANAVERO
meroni. Nel successivo giugno sposò Maria Annunciata Branca, da cui
ebbe due figli, Gerolamo (1897) e Luigi (1900).
Negli anni in cui Meda si affacciava alla politica attiva, una delle que-
stioni maggiori del movimento cattolico era rappresentata dall’astensio-
nismo elettorale. Il non expedit, letteralmente t non è opportuno, definito nel
1868, era poi divenuto un non licet nel 1886. Per gli intransigenti della tvecchia guardia, i Paganuzzi, i Sacchetti e gli Scotton, l’astensione dalle
elezioni politiche era un vero e proprio dogma di fede, una prescrizione
immutabile. Per i più giovani esponenti del movimento cattolico l’a-
stensionismo era invece qualcosa di contingente, legato alla volontà del
pontefice, che avrebbe potuto mutare parere al mutare delle circostanze.
I cattolici, quindi, avrebbero dovuto prepararsi alle future competizio-
ni elettorali, secondo la formula «preparazione nell’astensione», che era
divenuta la parola d’ordine de «L’Osservatore Cattolico»10. Meda cercò
di dare una interpretazione estensiva alla formula in un articolo apparso
nel marzo 1896. Il momento in cui i cattolici avrebbero potuto parteci-
pare alle elezioni politiche dipendeva certamente dalla volontà del pon-
tefice, ma, aggiungeva Meda, anche «dal radicale mutamento della situa-
zione politico-religiosa del paese». Di conseguenza occorreva migliorare
l’organizzazione dei cattolici e istruire al meglio i potenziali elettori, in
modo che la decisione del pontefice di lanciare i cattolici alle urne non
fosse ritardata dalla considerazione della loro impreparazione11.
La palestra degli elettori cattolici dovevano essere le elezioni ammini-
strative. Meda si dedicò con passione ad organizzare i cattolici milanesi
per fare entrare i loro rappresentanti nel Consiglio comunale, a cui, tra
l’altro, spettava la decisione di introdurre l’insegnamento della religione
nelle scuole elementari. Meda rese permanente il comitato elettorale,
trasformandolo nella Associazione degli elettori cattolici e dotandolo di un iorgano di stampa, «L’elettore cattolico milanese». Le capacità organizza-
tive di Meda, l’appoggio de «L’Osservatore Cattolico» e una buona dose
di spregiudicatezza nello stringere accordi elettorali dette i suoi frut-
ti. Quattro cattolici furono eletti nel 1893 e il successo fu ripetuto nel
1895, grazie ad un “contratto” coi moderati, anche se, nell’occasione, il
gioco delle preferenze impedì l’elezione di alcuni candidati cattolici. Ma
10 Cfr. A. CANAVERO, Albertario e «L’Osservatore Cattolico», Studium, Roma 1988, pp.
56-59.11 [F. MEDA], L’azione pubblica dei cattolici, in «L’Osservatore Cattolico», 17-18 marzo i1896.
FILIPPO MEDA 111
intanto i cattolici si erano affermati come una terza forza tra moderati e
radicali, con cui non si poteva non fare i conti12.
I risultati della “tattica di Milano”, cioè l’alleanza dei cattolici con al-
tre forze politiche, portarono Meda a divenire il responsabile dell’Opera
dei Congressi per le elezioni amministrative in tutta Italia. Gli fu anche
affidato il compito di scrivere una guida pratica per gli elettori cattolici,
caratteristicamente definito catechismo13 e di tenere la relazione intro-
duttiva nella sezione Elezioni amministrative durante il XIII Congresso
cattolico tenuto a Torino nel settembre 1895.
Nonostante avesse avversari all’interno e all’esterno del movimento
cattolico, Meda, grazie anche all’appoggio di don Albertario, si andava
imponendo come figura di spicco capace di assumere la guida di nume-
rose forze giovani. La sua posizione si rafforzò dopo i drammatici fatti di
Milano della primavera 1898. La repressione dei moderati lombardi non
risparmiò i cattolici intransigenti: Albertario fu arrestato e condannato a
tre anni di carcere e Meda stimò opportuno allontanarsi da Milano. Lo
stato d’assedio durò fino all’inizio di settembre. Qualche giorno prima,
intervistato dal corrispondente de «La Stampa», Meda, definito «l’anima
del partito clericale intransigente milanese», escluse ogni responsabilità
di socialisti e repubblicani nello scoppio dei moti e pronosticò che l’an-
no successivo i moderati, che avevano «accumulati tanti e tali malcon-
tenti, tali e tante avversioni» nel periodo dello stato d’assedio, avrebbero
perso la guida del comune. Questo perché i cattolici intransigenti non
avrebbero più rinnovato il “contratto” coi moderati, togliendo così loro
quei voti che li avrebbero potuti portare al successo.
Io credo che la parte conservatrice del nostro partito appoggerà anco-
ra i moderati; ma la parte popolare, la parte democratica, la parte che
dispone d’una vera organizzazione e della massa maggiore di voti non
potrà seguire una simile condotta; questa volta le esigenze tattiche non si
potranno far valere; ci sono di mezzo, a tacer d’altro, i tre anni di reclu-
sione di Albertario, al quale pure i moderati debbono l’essere a palazzo
Marino.
Anche se i capi delle associazioni cattoliche avessero ordinato l’accor-
do, proseguiva Meda, i cattolici intransigenti si sarebbero astenuti. Era
12 Su tutto questo cfr. F. FONZI, Crispi e lo «Stato di Milano», Giuffré, Milano 1972, pp.
257-303.13 F. MEDA, Catechismo elettorale teorico-pratico, Ghezzi, Milano 1895.
112 ALFREDO CANAVERO
certamente «impossibile» che essi andassero a votare per i radicali, ma la
sola loro astensione avrebbe sbarrato le porte del comune ai moderati14.
Le cose andarono effettivamente come Meda aveva previsto. Alle ele-
zioni parziali del giugno 1899 la lista dei partiti popolari trionfò, obbli-
gando allo scioglimento del Consiglio comunale. Alle elezioni generali
del dicembre, nuova sconfitta dei moderati. Meda era riuscito a far con-
fluire tutti i cattolici in una unica lista, che non raccolse abbastanza voti
per avere eletti, ma sufficienti per far vincere la coalizione di radicali,
repubblicani e socialisti15.
La sconfitta della tattica autonomista non scoraggiò Meda, che dopo
la morte di Albertario (21 settembre 1902) era divenuto unico diretto-
re e proprietario de «L’Osservatore Cattolico». Conformemente al suo
carattere, tolse al giornale quei toni eccessivamente aspri e polemici che
erano stati tipici di Albertario e vi chiamò a collaborare i più giovani
esponenti del movimento cattolico: Murri, Mauri, Micheli, Vercesi, Ar-
cari. Il giornale divenne così banditore delle idee democratico cristiane,
accentuando i contrasti con la vecchia guardia veneta dell’Opera dei
Congressi.
Nel giugno 1902 Meda entro a far parte del Comitato Permanente
dell’Opera e contribuì all’elezione alla presidenza di Giovanni Grosoli
al posto di Giovanni Battista Paganuzzi. Parve ai giovani una grande
vittoria, che tuttavia si rivelò ben presto effimera. Alla morte di Leone
XIII (20 luglio 1903) fu eletto papa il veneto Giuseppe Sarto, col nome
di Pio X. La vecchia guardia riprese fiato e, giovandosi dell’appoggio
del pontefice, riguadagnò posizioni. Nel luglio 1904 Grosoli emanò una
circolare, in realtà stesa da Meda e da mons. Radini Tedeschi, in cui si
diceva che «dopo la Rerum Novarum, la Graves de communi, le Istruzioni
della S.C. degli affari ecclesiastici straordinari» il programma dell’Ope-
ra, «all’infuori di ciò che concerne i diritti imprescrittibili della Santa
Sede», non poteva che essere quello democratico cristiano16. Il 19 luglio
«L’Osservatore Romano» pubblicò una secca nota in cui si diceva che il
documento non era «in tutto conforme alle istruzioni pontificie più volte
emanate» e che quindi «non potrà essere approvato»17. Era la sconfessio-
ne della nuova linea assunta dall’Opera dei Congressi. Grosoli si dimise,
14 CINO, I partiti politici a Milano dopo lo stato d’assedio. Il contegno dei clericali, in «LaiStampa», 24 agosto 1898.15 Sulle elezioni del giugno e del dicembre 1899 cfr. A. CANAVERO, Milano e la crisi di fi nesecolo (1896-1900), Unicopli, Milano 1998, pp. 331-366 e 385-395.16 La circolare è citata da G. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Laterza, Bari 1970, p. 254.17 «L’Osservatore Romano», 19 luglio 1904.
FILIPPO MEDA 113
dando il via a una serie di dimissioni di altri dirigenti, tra cui Meda e
Sturzo. Qualche giorno dopo, con una lettera ai vescovi italiani datata 28
luglio, il Segretario di Stato card. Merry del Val comunicò la decisione
del pontefice di sciogliere l’Opera dei Congressi18.
Proprio in quei giorni Meda aveva convocato a Milano alcuni amici
con lo scopo di fondare una associazione nazionale di elettori cattolici.
Nonostante le riserve di Medolago Albani, Toniolo e Rezzara, che te-
mevano ulteriori sconfessioni, la riunione si tenne il 4 agosto. A Milano
giunsero Luigi Sturzo, Filippo Crispolti, Angelo Mauri, Giuseppe Mi-
cheli e Arnaldo Bürgisser. Nacque allora l’Unione nazionale tra gli elettori cattolici amministrativi che, al di là del nome, pareva prefigurare un vero e iproprio partito, pronto a partecipare anche alle elezioni politiche. Come
era facile prevedere, il progetto dispiacque a molti e suscitò sospetti in
Vaticano per l’aconfessionalismo che lo permeava.
L’Unione non decollò, ma intervenne un fatto esterno al movimento
cattolico a cambiare le cose: il primo sciopero generale della storia d’Ita-
lia (Settembre 1904). Giolitti pensò di sfruttare la reazione antisocialista
dell’opinione pubblica indicendo le elezioni. Pio X, pur senza abrogare
formalmente il non expedit, permise che i cattolici andassero alle urnetper sostenere candidati che avessero di fronte un socialista, un radicale o
un massone. Vi furono anche due candidature esplicitamente cattoliche:
Carlo Ottavio Cornaggia a Milano IV e Agostino Cameroni a Treviglio.
Anche Meda, senza che l’iniziativa partisse da lui, fu candidato a Rho,
collegio che dal 1902 rappresentava in Consiglio provinciale. La noto-
rietà di Meda e la sua militanza cattolica erano però tali da non consen-
tirgli di impegnarsi direttamente senza pericolo di coinvolgere la Santa
Sede. Già Scotton e Sacchetti lo accusavano di voler forzare la mano al
papa. D’altra parte Meda era contrario a candidature scoordinate, senza
«un programma proprio, ben distinto e chiaro»19, e a portare sostegno ai
candidati liberali.
Pur non impegnandosi nella campagna elettorale, Meda sfiorò il bal-
lottaggio. L’esperienza delle elezioni del 1904 lo convinse che la sola
associazione di elettori amministrativi non era più sufficiente. Il 28 di-
cembre 1904 tenne a Rho un discorso in cui auspicava la formazione di
un partito cattolico non confessionale, «riformatore e moderatamente
progressista», che non si limitasse a difendere esclusivamente gli inte-
18 Lettera circolare dell’eminentissimo Cardinale Segretario di Stato di Sua Santità ai reveren-dissimi ordinari d’Italia, in «L’Osservatore Romano», 30 luglio 1904.19 Un gruppo nuovo? Il discorso di Cornaggia, in «L’Osservatore Cattolico», 1 novembre
1904.
114 ALFREDO CANAVERO
ressi religiosi e i diritti del pontefice, ma che fosse al servizio di un pro-
gramma di «pace religiosa, di libertà politica, di giustizia sociale»20. Il
modello da seguire doveva essere il Zentrum, il partito cattolico della
Germania e avrebbe dovuto comprendere diverse tendenze, accettare
lo Stato liberale italiano e le sue istituzioni e combattere i socialisti, ma
senza l’ossessione antisocialista dei moderati. A proposito della «questio-
ne, assai impropriamente detta romana», Meda affermava che essa era di
esclusiva competenza del pontefice.
Né la sua potestà – aggiungeva – sarà mai diminuita dalla presenza in
Parlamento di uno o più deputati cattolici, perché questi, come tutti i
deputati, non riceveranno il mandato dalla Santa Sede, ma dai loro elet-
tori21.
Meda prospettava quindi un ingresso dei cattolici nella vita pubblica
con un proprio programma e con l’accettazione delle istituzioni vigenti.
I tempi non erano però ancora maturi per la formazione di un gruppo
ispirato dalla dottrina sociale della Chiesa, ma laico e autonomo nelle
scelte concrete. Resistenze di vario genere e varie provenienze fecero
quindi fallire «il primo serio tentativo di fondare un organismo politico
costituito da cattolici, ma aconfessionale, negli anni che precedettero
la nascita del partito popolare»22. Ben altra cosa dai progetti di Meda
era l’Unione Elettorale, che nel 1906 si affiancò all’Unione Popolare
e all’Unione economico-sociale per rimpiazzare l’Opera dei Congressi.
A Meda ne fu offerta la presidenza, ma l’avvocato milanese rifiutò, in
quanto gli statuti sottoponevano tutto al controllo dei vescovi e impedi-
vano ogni autonoma attività.
Nel nuovo clima politico inaugurato da Giolitti, anche lo stile de
«L’Osservatore Cattolico», come si è già accennato, doveva mutare. Il
tentativo di farne un giornale moderno, che potesse competere con «Il
Secolo» o il «Corriere della Sera» spiacque a molti vecchi lettori, senza
che il giornale riuscisse a conquistarne di nuovi. Gli avversari di Meda
non persero occasione per attaccarlo, facendo balenare l’accusa di mo-
dernismo, assai pericolosa in quegli anni. Meda ebbe scontri polemici
con «L’Unità cattolica» di Firenze, «L’Italia reale» di Torino e «La Riscos-
20 Il discorso dell’avv. Meda a Rho. I cattolici italiani nella vita politica, in «L’Osservatore
Cattolico», 29 dicembre 1904.21 Ibidem. Su questa fase cfr. G. VECCHIO, Il mito del Centro tedesco e i progetti di Filippo Meda (1904-1905), in G. VECCHIO, Alla ricerca del partito. Cultura politica ed esperienze dei cattolici italiani nel primo Novecento, Morcelliana, Brescia 1987, pp. 19-43.22 G. DE ROSA, Filippo Meda e l’età liberale, cit., p. 69.
FILIPPO MEDA 115
sa» di Breganze e perfino con la «Civiltà Cattolica» del padre Pavissich,
che pure stimava Meda.
Nel frattempo Meda era divenuto presidente della Direzione dioce-
sana milanese (18 novembre 1906), rilanciando la formula «azione so-
ciale su terreno costituzionale» e affermando che i cattolici accettavano
le istituzioni «non solo per rispettarle e occorrendo per difenderle, ma
anche per migliorarle e riformarle»23. Meda fu subito attaccato dai gior-
nali cattolici più conservatori, ma replicò sostenendo che continuare nel
rifiuto delle istituzioni vigenti avrebbe condotto a una ondata anticleri-
cale, come stava avvenendo nella Francia delle leggi Combes. Occorreva
invece utilizzare le armi legali «non esclusa la conquista, per sé e per i
partiti affini, qualora siano possibili con questi accordi leali, dei collegi
politici»24.
Il sostanziale rifiuto di proseguire nell’astensionismo elettorale finì
con l’avvicinare i due giornali cattolici di Milano, «L’Osservatore Cat-
tolico» di Meda e «La Lega Lombarda» di Carlo Ottavio Cornaggia. Le
posizioni dei due giornali erano tutt’altro che coincidenti, ad esempio
nel giudizio sulla politica giolittiana e sui rapporti con i moderati. Tutta-
via la fusione diveniva indilazionabile, anche per reggere la concorrenza
degli altri quotidiani. Superate numerose difficoltà, finalmente il nuovo
giornale poté comparire nelle edicole il 14 dicembre 1907. Il giornale fu
chiamato «L’Unione», in ricordo di quanto aveva detto Pio X invitando
il cardinal Ferrari a fare l’unione dei due giornali cattolici25. La direzione
fu affidata e Filippo Meda, mentre Cornaggia fu posto a capo del Con-
siglio d’amministrazione, in cui sedevano anche alcuni notabili liberali,
come il senatore Ettore Ponti o l’allora deputato Alessandro Stoppato.
La fusione generò contrasti e polemiche e lo stesso pontefice non fece
mancare le sue critiche perché il giornale non parlava abbastanza della
necessaria libertà della Chiesa e del pontefice e faceva credere superato
il dissidio con lo Stato italiano. Particolarmente duro nel contrastare la
linea de «L’Unione» era «L’Unità cattolica», che si giovava di corrispon-
denze inviate da Milano da sacerdoti e laici legati al vecchio intransi-
gentismo: il gesuita padre Guido Mattiussi, don Carlo Bonacina, mons.
Felice Bertani e il notaio Leone Donadoni. Per molto tempo Meda evitò
di replicare alle accuse, preoccupato che ogni risposta divenisse pre-
testo per ulteriori polemiche. Alla fine si risolse a scrivere un articolo
23 «L’Osservatore Cattolico», 19 novembre 1906.24 Le conseguenze politiche della campagna anticlericale, in «L’Osservatore Cattolico», 13
agosto 1907.25 Cfr. G. DE ROSA, Filippo Meda e l’età liberale, cit., p. 96.
116 ALFREDO CANAVERO
per difendere la linea del suo quotidiano, volta a riconquistare all’idea
cattolica la società contemporanea. Di fronte allo sviluppo della stam-
pa avversaria, Meda riteneva necessario «portare la battaglia sul terreno
pratico della conquista e della penetrazione, abbandonando le trincee
e le armi divenute inservibili» per riacquistare influenza e dare spirito
religioso alle novità della scienza, della cultura, dell’economia e della
politica26. Il giornale fiorentino lasciò passare qualche giorno poi rispose
con una corrispondenza in cui si affermava che «L’Unione» aveva soste-
nuto «che i dogmi e i principii della Religione e della Morale cattolica
son divenuti trincee ed armi inservibili»27. Di fronte a una tale evidente
malafede, Meda, preoccupato che l’accusa fosse ripresa da altri giornali,
querelò immediatamente il giornale fiorentino e il giorno dopo ne diede
notizia su «L’Unione». Sollecitato dal direttore de «L’Unità Cattolica»,
don Alessandro Cavallanti, l’arcivescovo di Firenze scrisse al cardinal
Ferrari cercando di comporre la vicenda senza adire le vie legali. Di
fronte al rifiuto de «L’Unità Cattolica» (ma meglio si dovrebbe dire di
Cavallanti) di riconoscere la calunnia, Meda decise di non recedere. Si
arrivò alla sentenza (9 giugno 1909) che riconobbe colpevole il gerente
del giornale fiorentino, responsabile secondo la legge. Meda, soddisfatto
della vittoria morale, dichiarò subito che era disposto a rinunciare alla
querela e alle mille lire di multa che erano state inflitte. Successivamen-
te, in una relazione che fu inviata anche al pontefice, Meda spiegò il suo
atteggiamento:
I miei avversari non avevano che una sola cosa da fare: comparire e pro-
vare la sussistenza del fatto attribuito a «L’Unione»; oppure confessare
che l’attribuzione era puramente e semplicemente un falso. Non lo pote-
rono o non lo vollero, poco m’importa. Io ho la coscienza di avere com-
piuto il mio dovere di cattolico, di cittadino e di pubblicista, difendendo
la buona reputazione mia e quella del giornale contro una accusa quale
più grave non avrei potuto attendermi28.
Il successo della causa con «L’Unità Cattolica» non mise termine alle
difficoltà de «L’Unione». In alto loco, come si usava dire, la stampa di
penetrazione non piaceva. Le simpatie andavano ai fogli di protesta, alla
26 Una volta tanto, in «L’Unione», 21 novembre 1908.27 [F. BERTANI], Sono le “idee” che generano i “fatti”, in «L’Unità Cattolica», 5 dicembre
1908.28 Citato da G. DE ROSA, Filippo Meda e l’età liberale, cit., pp. 115-116. Sulla questione
cfr. L. BEDESCHI, Lineamenti dell’antimodernismo. La querela Meda - Unità cattolica (Do-cumenti e considerazioni), in «Nuova Rivista Storica», 1970, fasc. I-II, pp. 125-176 e M.
TAGLIAFERRI, L’Unità Cattolica. Studio di una mentalità, Pontificia Università Gregoriana,
Roma 1993, pp. 138-143.
FILIPPO MEDA 117
vecchia intransigenza papale rappresentata, oltre che dal giornale fio-
rentino, da «La Riscossa», «La Liguria del Popolo» o «L’Italia Reale».
Dopo la lettera di Pio X all’episcopato lombardo29 (1° luglio 1911) in
cui venivano stigmatizzati i giornali non del tutto aderenti alle direttive
pontificie, tra cui appunto «L’Unione», lo stesso cardinal Ferrari, sospet-
tato di non fare abbastanza contro il modernismo, dovette muoversi con
maggiore cautela e in occasione del giubileo giornalistico di Meda nel
1911, così come molti altri, gli scrisse privatamente per congratularsi,
ma evitando di rendere pubblici i suoi sentimenti30.
La diffidenza di una parte del mondo cattolico provocò anche pro-
blemi finanziari al giornale. Così nel 1912 Meda venne nella decisione
di cedere il giornale alla Società Editrice Romana, fondata nel 1907 da
Giovanni Grosoli, che già pubblicava altri giornali cattolici, come «Il
Momento» di Torino, «L’Avvenire d’Italia» di Bologna e «Il Corriere d’I-
talia» di Roma. La messa in comune di alcuni servizi avrebbe consentito
di ridurre le spese e dare un migliore servizio ai lettori. Fu anche presa
la decisione di cambiare nome al quotidiano, che divenne «L’Italia». La
direzione fu affidata a Paolo Mattei Gentili, mentre a Meda restò solo la
rubrica politica.
D’altra parte Meda aveva meno tempo da dedicare al giornale, dal
momento che nelle elezioni generali del marzo 1909 era stato eletto de-
putato nel collegio di Rho. Come è noto, con l’enciclica Il fermo proposito (11 giugno 1905), Pio X, pur ribadendo il non expedit, aveva lasciato aitvescovi la facoltà di concedere deroghe. Dopo Cornaggia e Cameroni,
nelle elezioni suppletive tra il 1906 e il 1908 entrarono quindi in Parla-
mento altri cattolici e in vista delle elezioni del 1909 furono presentate
una cinquantina di candidature che portarono a una quindicina di eletti,
tra cui appunto Filippo Meda.
La sua candidatura, sostenuta da don Giulio Rusconi31, aveva susci-
tato polemiche, in quanto presentandosi agli elettori Meda aveva rico-
nosciuto le «istituzioni che ci reggono» e garantito «una lealtà costitu-
zionale, senza riserve»32. Giuseppe Angelini, direttore de «L’Osservatore
29 Ista quanti sit, Lettera apostolica all’Episcopato Lombardo.t30 «Sa il Signore quanto mi rincresca di non potere pubblicamente indirizzarle congra-
tulazioni e voti per la ricorrenza del suo giubileo giornalistico». La lettera del cardinal
Ferrari, datata 16 novembre 1911, è citata da G. DE ROSA, Filippo Meda e l’età liberal,lcit., p. 120, n. 1.31 Su Rusconi, parroco di Rho e uno dei tre «cappellani del lavoro» istituiti dal cardinal
Ferrari cfr. A. ROBBIATI, Giulio Rusconi. Educò i giovani all’impegno civile e sociale, Centro
Ambrosiano, Milano 2001.32 Il testo integrale della lettera in «L’Unione», 6 marzo 1909.
118 ALFREDO CANAVERO
Romano», replicò con un secco articolo, in cui accusava Meda di non
aver fatto alcuna riserva per quanto ancora vi era «di inaccettabile o
di oltraggioso» per la coscienza cattolica e la Chiesa e concludeva che
«deputati cattolici in Italia non sono possibili, sono anzi una specie di
contraddizione in termini ed una vera assurdità»33. In realtà quello che la
Santa Sede temeva è che si identificassero i cattolici in Parlamento come
esponenti di un partito cattolico e che quindi potessero coinvolgere la
Chiesa nelle lotte politiche italiane. Quindi «cattolici deputati» sì, ma
«deputati cattolici» no.
In realtà le divergenze di opinioni tra i cattolici in Parlamento era-
no tali che solo raramente questi avrebbero votato insieme. In mezzo a
Cornaggia, Nava o Degli Occhi che sedevano a destra e gli organizzatori
sindacali Miglioli, Longinotti o Coris, Meda, con Micheli e Cameroni si
collocava al centro, nell’ampia maggioranza giolittiana. Meda apprezza-
va Giolitti, anche se non sempre ne condivise le scelte, come ad esempio
avvenne per l’introduzione del monopolio delle assicurazioni sulla vita,
sulla riforma elettorale, sulle autonomie comunali e sull’istruzione ele-
mentare. Anche sulla guerra di Libia Meda fu inizialmente contrario,
salvo poi aderire, ma senza quelle entusiastiche manifestazioni naziona-
liste a cui alcuni cattolici si erano lasciati andare. Quanto alla riforma
elettorale, Meda era certamente favorevole all’ampliamento del suffra-
gio, ma avrebbe voluto un sistema proporzionale, che avrebbe evitato il
legame troppo stretto tra il deputato e il suo collegio, cosa che favoriva
clientelismo e corruzione34.
Nel 1911 Meda aveva fondato l’Associazione proporzionalista mila-
nese, assieme a Filippo Turati, e in essa collaborava senza problemi con
socialisti e radicali. La riforma giolittiana del 1912 invece confermò il
sistema maggioritario uninominale, allargando il suffragio da tre a otto
milioni e mezzo di elettori. Di fronte alla possibilità di una vittoria socia-
lista, radicale o genericamente anticlericale, il pontefice trasferì dai ve-
scovi all’Unione Elettorale il compito di decidere sulla sospensione del
non expedit nei diversi collegi. Dall’ottobre 1912 presidente dell’Unione tElettorale era il Conte Ottorino Gentiloni, che in vista delle elezioni
redasse una circolare che indicava i sette punti (il cosiddetto «eptalogo»)
che i candidati desiderosi di avere i voti dei cattolici dovevano sotto-
scrivere, anche in segreto. I punti riguardavano questioni che stavano
33 a. [G. ANGELINI], Intorno al programma di un cattolico... candidato, in «L’Osservatore
Romano», 19 febbraio 1909.34 Cfr. F. MEDA, Vigilia parlamentare, in F. MEDA, Pensiero ed azione. Conferenze e discorsi,iVolonteri & C, Milano 1921, p. 33.
FILIPPO MEDA 119
a cuore della Chiesa e che risentivano dell’esperienza francese. Ci si
doveva impegnare ad opporsi a progetti di legge che turbassero la pace
religiosa, sostenere l’insegnamento privato, l’istruzione religiosa nelle
scuole pubbliche, opporsi all’introduzione del divorzio, favorire la pari
rappresentatività dei cattolici con le altre forze sociali nei consigli dello
Stato, attuare una riforma tributaria in senso progressivo e garantire
l’aumento dell’influenza internazionale dell’Italia.
Meda avrebbe voluto che i cattolici si presentassero alle elezioni con
un proprio partito (Partito Popolare Cristiano), autonomo dalla gerar-
chia ecclesiastica, ma basato sui principi del cristianesimo e della dottri-
na sociale della Chiesa. Il progetto non andò in porto e Meda si dovette
accontentare di contribuire alla stesura dell’eptalogo. Sono probabil-
mente dovuti a lui gli ultimi tre punti, gli unici che avessero una valenza
politica e non solo religiosa.
Il 26 ottobre 1913 Meda fu rieletto a Rho, assieme ad altri 22 cattolici
e a una ventina di candidati di area cattolica. Quando a seguito dell’inter-
vista di Gentiloni al «Giornale d’Italia» si seppe dell’appoggio cattolico a
228 deputati (tra cui anche qualche anticlericale e massone)35, scoppiò
una furibonda polemica. Meda ancor più si convinse che era necessario
costituire un partito cattolico, per evitare che il voto cattolico favorisse
solo i liberali e mantenesse i cattolici in posizione subordinata. Le elezio-
ni avevano invece mostrato che l’elettorato cattolico poteva modificare
radicalmente la vita pubblica del paese, se solo si fosse riusciti a dar
vita a una organizzazione comune. «Io credo –scrisse Meda all’indomani
delle elezioni – [...] che in Italia l’esistenza di una organizzazione dei
cattolici non sia solo una necessità per la difesa religiosa, ma anche per
la normale e progressiva evoluzione della vita nazionale»36.
Lo scoppio della prima guerra mondiale costrinse però a rinvia-
re ogni progetto. Meda si dichiarò da subito favorevole alla neutralità.
«Alla guerra – scriveva il 2 agosto 1914 – un paese non si conduce se
non quando lo esigano o l’interesse nazionale o il dovere internaziona-le». Entrambe queste due condizioni non sussistevano. «Sembra a noi
che la neutralità a questo punto del confl itto sia non solo giustificata ma
doverosa»37. Si trattava tuttavia di un neutralismo non assoluto, che an-
dava evolvendosi man mano che passavano i giorni e le settimane. L’at-
teggiamento dei cattolici, del resto, era quello di attendere e seguire le
35 Intervista con l’altro... Presidente del Consiglio, il Conte Gentiloni, in «Giornale d’Italia», i8 novembre 1913.36 F. MEDA, I cattolici italiani e le ultime elezioni politiche in «Nuova Antologia», 16 gennaio
1914, pp. 295-309.37 M [F. MEDA], L’Italia neutrale? in «L’Italia», 2 agosto 1914.
120 ALFREDO CANAVERO
decisioni del governo. Su «L’Italia» Meda continuava a ripetere la for-
mula «neutralità, salvo lesione degli interessi italiani» e «preparazione
militare per ogni evenienza»38. In qualche modo sembra di risentire l’eco
della vecchia formula «preparazione nell’astensione», ovviamente appli-
cata a un campo ben diverso. Anche la sorte del Belgio neutrale invaso
dalle truppe tedesche non cambiò la prospettiva. Il Belgio meritava tut-
ta la simpatia dei cattolici, se ne auspicava il risorgere al termine della
guerra, ma il «sacro egoismo per la patria nel quale il nostro Governo ha
segnato il programma degli Italiani nella difficile ora attuale» esigeva il
mantenimento della neutralità39.
Quando però l’Italia entrò in guerra, Meda invitò i cattolici a fare il
loro dovere e a
far tacere ogni personale opinione, di rimuovere dal proprio animo ogni
incertezza e ogni velleità censoria, di stringersi con perfetta disciplina e
fedeltà intorno alla nostra bandiera, dedicando tutte le forze ad assicura-
re il trionfo della causa nazionale40.
Dopo un anno di guerra si fece sentire l’esigenza di comporre un go-
verno di unità nazionale, specie dopo la Strafexpedition del maresciallo
Conrad. Ma l’unità non sarebbe stata completa senza la presenza di
un deputato cattolico. Per la sua posizione centrale nello schieramento
cattolico e la sua riconosciuta autorevolezza, la scelta non poteva che
cadere su Meda, che entrò così nel governo di Paolo Boselli (18 giugno
1916) come ministro delle finanze. Accettando l’incarico, Meda sentiva
di adempiere al compito di eliminare gli ultimi pregiudizi ancora esi-
stenti nei confronti dei cattolici. Come scrisse a Giuseppe Toniolo, era
caduta «l’ultima barriera da cui i cattolici erano ancora segregati». «Il
mio compito – forse storico – è finito... mi chiederanno un giorno che
cosa avrò fatto: io non potrò mai rispondere altro se non che ho reso
possibile ad altri di fare»41.
Il passo di Meda, benché sollecitato da alcuni dei maggiori esponenti
del movimento cattolico come Grosoli, Sturzo, Santucci o Nava, suscitò
perplessità, le maggiori delle quali venivano dalla Santa Sede. Meda non
si fece influenzare e alla fine «L’Osservatore Romano» si limitò a scrivere:
38 Ibidem.39 L’on. Melot al Gabinetto cattolico, in «L’Italia», 14 novembre 1914. Cfr. anche F. MEDA,
I cattolici italiani nella guerra, Mondadori, Milano 1928, p. 25.40 CIVIS [F. MEDA], La guerra italiana, in «Vita e Pensiero», 20 giugno 1915, pp. 631-639.41 F. Meda a G. Toniolo, Roma, 19 giugno 1916, citata da F. FONZI, Filippo Meda nella storia e nella storiografi a del movimento cattolico italiano, in G. FORMIGONI (a cura di), Filip-po Meda tra economia, società e politica, Vita e Pensiero, Milano 1991, p. 37.
FILIPPO MEDA 121
Non essendovi in Italia un partito cattolico politicamente costituito, anzi
neppure in Parlamento un gruppo cattolico propriamente detto, l’on.
Meda non può, come Ministro, rappresentare altri che se stesso e gli
amici suoi42.
Era una sorta di via libera. Meda non era il rappresentante della Chiesa,
ma la sua sola presenza testimoniava che i cattolici italiani erano solidali
con lo sforzo bellico del paese. La guerra era una triste necessità, ma
aveva anche il compito provvidenziale di far considerare i cattolici come
cittadini italiani a pieno titolo.
Stretto tra le perplessità e le istanze pacifiste del Vaticano e il giaco-
binismo anticlericale di molti interventisti (non escluso qualche collega
di governo) Meda non ebbe vita facile. Un discorso di Bissolati che at-
taccava socialisti e cattolici per il loro atteggiamento definito ambiguo,
la campagna anticristiana di Mussolini su «Il Popolo d’Italia», fecero
pensare a Meda di dimettersi. Ma le possibili ripercussioni negative del
suo gesto lo indussero a desistere. Meda temeva lo scatenarsi di una
campagna anticlericale e un governo ancor più orientato a sinistra. Si
limitò quindi a inviare una forte lettera a Boselli che portò alla fine, al-
meno provvisoria, della campagna anticlericale.
Ben maggiori problemi portò a Meda l’apparizione della famosa Let-tera ai capi delle potenze belligeranti, datata 1° agosto 1917, ma trasmessa ia partire dal 9, con cui si invitava «alla cessazione di questa lotta tre-
menda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage». Conside-
rata una indebita intromissione e un favore fatto agli Imperi centrali
in un momento in cui le sorti della guerra erano loro sfavorevoli, gli
«umori antivaticaneschi»43 all’interno del ministero ripresero fiato. Alla
fine prevalse l’idea di non rispondere alla Nota e di invitare le potenze
dell’Intesa a fare altrettanto, contribuendo così al fallimento dell’inizia-
tiva di pace di Benedetto XV. Meda fu attaccato tanto dagli anticlericali
e dagli interventisti che dai molti cattolici, che ritenevano una offesa che
il governo non rispondesse alla Lettera pontificia. Meda sollecitò allora
Boselli44, che incaricò Sonnino di rispondere alla Camera. Il 25 ottobre
il ministro degli esteri accusò il pontefice di aver provocato un irrigidi-
mento delle potenze belligeranti e quindi l’allungamento della guerra e
negò il valore universale e la nobiltà delle intenzioni di Benedetto XV,
scendendo a criticare i singoli punti che il pontefice aveva indicato per il
ristabilimento della pace. Lasciò anche intendere che il documento pon-
42 Il nuovo ministero, in «L’Osservatore Romano», 20 giugno 1916.43 G. DE ROSA, Filippo Meda e l’età liberale, cit., p. 200.44 La lettera di Meda a Boselli, del 19 ottobre 1917, è citata ibi, p. 201.
122 ALFREDO CANAVERO
tificio fosse di «ispirazione germanica»45. Di fronte a tali affermazioni,
Nava, a nome dei deputati cattolici, annunciò voto contrario alla fiducia
chiesta dal Governo46. Il governo fu sconfitto con 314 voti contro 96 e
5 astenuti47. Boselli si dimise e il re incaricò Vittorio Emanuele Orlando,
già ministro degli interni.
Il giorno prima una nuova offensiva austriaca aveva sfondato le linee
italiane a Caporetto e superato il Tagliamento. La marcia dei nemici
sembrava inarrestabile. Meda, che dopo il discorso di Sonnino aveva
deciso di non entrare più in un ministero che comprendesse il ministro
degli esteri, di fronte all’emergenza nazionale decise di restare. In tali
circostanze andarsene «sarebbe stato legittimamente giudicato un atto
di debolezza, di insensibilità patriottica, forse di viltà»48. Anche «L’Osser-
vatore Romano» giudicò positivamente la decisione di Meda49.
Meda fu lieto dell’incarico a Orlando, che stimava e che aveva difeso
quando gli interventisti ne chiedevano le dimissioni dopo i tumulti di
Torino del settembre 1917. Meda dichiarò allora in Consiglio dei mini-
stri che si sarebbe dimesso anch’egli, precipitando una crisi generale, se
non si fosse passati da una discussione in Parlamento sull’operato del
ministro dell’interno50. Difendendo Orlando, Meda prendeva anche le
difese dell’istituzione parlamentare, da non pochi interventisti giudicata
inadeguata, se non dannosa, nella condotta della guerra.
Confermato al ministero delle finanze, Meda aveva in mente un pro-
getto di riforma tributaria di grande modernità, che prevedeva un’uni-
ca imposta progressiva che sostituisse tutte quelle esistenti. L’ipotesi fu
però giudicata troppo avanzata e Meda dovette ripiegare su una imposta
costante del 18,36% sui redditi di terreni, fabbricati e da lavoro, con
esenzione per i redditi minimi. Era poi prevista una imposta patrimonia-
le dell’1% e l’imposta complementare, con aliquota progressiva dall’1 al
25%, calcolata però su quanto restava effettivamente a disposizione del
contribuente, dedotte le spese di produzione del reddito e le detrazioni
per carichi di famiglia. Agli effetti fiscali come famiglia si doveva con-
siderare ogni riunione stabile di persone fisiche, purché conviventi. In
questo modo potevano rientrare nella categoria della famiglia anche le
45 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, tornata di giovedì 25 ottobre 1917, pp. 15019-
15024.46 Ibi, pp. 15048-15049.47 Ibi, p. 15053.48 F. MEDA, I cattolici italiani nella guerra, cit., p. 122.49 La soluzione della crisi, in «L’Osservatore Romano», 1° novembre 1917.50 Cfr. G. DE ROSA, Filippo Meda e l’età liberale, cit., p. 219.
FILIPPO MEDA 123
associazioni religiose51. Il progetto rimase in sospeso durante la guerra
e solo nel marzo del 1919 fu presentato in Parlamento, ma decadde per
lo scioglimento della Camera. Fallì così il primo serio tentativo di intro-
durre una imposta personale sul reddito nella legislazione italiana.
Superata la grave crisi di Caporetto, un’altra questione internaziona-
le rese difficile la vita a Meda. Il governo bolscevico, che aveva preso il
potere in Russia, aveva cominciato a pubblicare i trattati internazionali
segreti trovati negli archivi della cancelleria dello Zar. Il 28 novembre
1917 fu reso noto anche il testo del Patto di Londra, sulla base del quale
l’Italia era entrata in guerra. Nel Patto, come è noto, era previsto all’art.
15 l’esclusione della Santa Sede dai negoziati per la pace, qualora l’Italia
l’avesse richiesto52. La clausola era stata voluta da Sonnino, per timore
che la Santa Sede potesse rilanciare a livello internazionale la Questione
romana. Il testo reso noto dai russi, e ripreso dalle agenzie di stampa,
parlava invece di sostegno delle potenze dell’Intesa alla «opposizione
dell’Italia all’ammissione di qualsiasi passo diplomatico da parte di rap-
presentanti della Santa Sede tendente alla conclusione della pace o alla
soluzione di questioni che abbiano rapporto con la guerra»53.
Il significato era ben diverso e lasciava sospettare che proprio per ef-
fetto di questa clausola le potenze dell’Intesa non avevano risposto alla
Nota di Benedetto XV. «L’Osservatore Romano» scrisse che la questione
era di «estrema gravità»54. In assenza di Orlando e Sonnino, che erano a
Parigi per la conferenza interalleata, tocco proprio a Meda predisporre
una risposta da parte del governo. Meda se la cavò dicendo che le circo-
stanze erano ormai mutate dalla primavera del 1915 e che i fatti interve-
nuti nel frattempo avevano «tolto ogni reale importanza a punti di vista
che allora sembravano prevalenti»55. Longinotti presentò comunque una
interpellanza per sapere se tale clausola era effettivamente esistente e
il sottosegretario agli esteri ne negò l’esistenza56. La polemica si placò
per riaccendersi nel febbraio quando il giorno 13 Giuseppe Bevione
51 Sull’attività di Meda al ministero delle Finanze e sul suo progetto di riforma tributaria
cfr. A. COVA, Filippo Meda al ministero delle Finanze, in G. FORMIGONI (a cura di), Filippo Meda tra economia, società e politica, cit., pp. 202-234.52 “La Francia, la Gran Bretagna e la Russia appoggeranno l’opposizione dell’Italia a tutte le proposte tendenti ad introdurre un rappresentate della Santa Sede in tutti i negoziati per la pace e per il regolamento delle questioni sollevate dalla presente guerra”.53 F. MEDA, I cattolici italiani nella guerra, cit., p. 124.54 «L’Osservatore Romano», 1° dicembre 1917.55 F. MEDA, I cattolici italiani nella guerra, cit., p. 126.56 Il Comitato segreto. La risposta alla interrogazione Longinotti, in «L’Italia», 14 dicembre i1917.
124 ALFREDO CANAVERO
lesse alla Camera gli articoli del Patto di Londra così come riportati
dalla rivista inglese «New Europe»57. Questa volta fu lo stesso Sonnino
a prendere la parola il giorno 16, smentendo la «falsa versione» di deri-
vazione bolscevica del Patto e lodando la Legge delle Guarentigie che
aveva permesso alla Santa Sede libertà d’azione durante la guerra, ma
ostinandosi a non voler rivelare l’esatto contenuto dell’articolo 1558 che
nel frattempo lord Robert Cecil, sottosegretario agli esteri e ministro
del blocco, aveva reso noto rispondendo il 14 febbraio ad una inter-
pellanza al parlamento di Westminster. «L’Osservatore Romano» definì
comunque «offensiva e ingiuriosa» la formulazione dell’art. 15, ma non
si spinse oltre. La polemica rientrò e Meda moltiplicò i suoi interventi in
senso patriottico, condannando chi avrebbe voluto distruggere l’«ordine
sociale e politico» del paese, distruggendo l’unità nazionale. «Sarebbe
– concludeva in un discorso tenuto a Genova il 24 febbraio 1918 – l’an-
nullamento dei sacrifici di tre quarti di secolo»59. Parole che da sole testi-
moniavano quanto fosse cambiato l’atteggiamento del mondo cattolico
e quanto la guerra avesse contribuito per far accettare l’unità dello Stato
nazionale senza pensieri nascosti.
Al termine della guerra Meda manifestò la volontà di dimettersi e
invitò Orlando a fare altrettanto, ma il presidente del Consiglio si rifiutò.
Meda era psicologicamente provato, sia per la guerra che gli muovevano
gli ambienti industriali per la difesa dei monopoli commerciali, sia per
la nuova situazione postbellica. Egli riteneva di aver raggiunto il punto
massimo della sua carriera politica con la nomina a ministro e percepiva
in maniera sempre più grave il peso dei suoi obblighi familiari e profes-
sionali. Resisteva in carica solo per senso del dovere, ma pensava di aver
aperto la strada ai cattolici, che ora potevano e dovevano fare senza di
lui.
Anche la novità del Partito Popolare gli creava problemi. Inizialmente
rifiutò di iscriversi, allegando il suo ruolo di ministro che doveva mante-
nersi al di sopra delle parti e il dissenso su alcuni punti del programma.
Come l’amico Micheli, Meda era uomo di altri tempi, che temeva di
essere vincolato alla disciplina di partito e di perdere quella libertà d’a-
zione a cui i «cattolici deputati» erano abituati. Solo alla fine di settembre
1919 si decise ad iscriversi, fondando però nel contempo la rivista «Ci-
vitas» per poter esprimere liberamente il suo pensiero.
57 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, tornata del 13 febbraio 1918, pp. 15585-15598.58 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, tornata del 16 febbraio 1918, pp. 15749-15751.59 F. MEDA, I cattolici italiani nella guerra, cit., p. 140.
FILIPPO MEDA 125
Alle elezioni del 16 novembre 1919 Meda fu eletto con 42.652 voti
di preferenza su un totale di 73.820 voti raccolti dal PPI nella provin-
cia di Milano. Quando il governo Nitti andò in crisi nel maggio 1920
per il ritiro del sostegno dei popolari, a Meda fu offerto l’incarico di
comporre un nuovo governo. Stretto tra l’ostilità dei socialisti e le diffi-
denze dei liberali, Meda rinunciò e tornò al potere Nitti. Quando poi il
parlamentare lucano cadde definitivamente e l’incarico passò a Giolitti,
Meda accettò l’incarico di ministro del tesoro. Giolitti aveva fatto della
presenza nel suo governo dei parlamentari più rappresentativi e Meda
non seppe dire di no.
Giolitti – scriveva Meda al figlio Gerolamo il 10 giugno 1920 – mette
quasi a condizione sine qua non per accettare che io entri nel Gabinetto.
Io mi riservo di adoperarmi a persuaderlo che non è il caso di esigere il
mio sacrificio: ma temo che non riuscirò. E allora mi si pone innanzi un
problema formidabile dal punto di vista della coscienza: potrei assumere
la responsabilità di far fallire l’unica combinazione politica che nelle at-
tuali circostanze si presenta possibile?60
Da questo momento Meda manifestò più volte ai suoi familiari e agli
amici il disagio nel ricoprire una carica per cui diceva di non sentirsi
adeguato. Per di più nel settembre 1920 era morto Agostino Cameroni,
suo socio nello studio legale e questo imponeva a Meda di seguirne più
da vicino l’attività. Decise quindi di dimettersi, ma Giolitti lo pregò di
restare in carica fino all’approvazione della legge che aboliva il prezzo
politico del pane. Dopo di ciò Meda poté ritirarsi il 29 marzo 1921.
In questi anni Meda aveva anche avuto parte nella preparazione e
nella fondazione dell’Università Cattolica, dando a padre Gemelli es-
senziali consigli giuridici ed entrando nell’Istituto Toniolo, centro diret-
tivo dell’ateneo61.
Quando Giolitti sciolse la Camera e indisse nuove elezioni per il 15
maggio 1921, Meda non avrebbe voluto ripresentarsi. Temendo però
che il suo ritiro potesse danneggiare il PPI e confortato anche da un
contributo di 50.000 lire ottenuto da padre Gemelli, Meda si rican-
didò, ottenendo un clamoroso successo personale, con 58.568 voti di
preferenza sul totale di 101.131 andati al PPI. Caduto definitivamente
Giolitti, Meda avrebbe potuto aspirare alla carica di presidente del Con-
60 Citata da G.DE ROSA, Filippo Meda e l’età liberale, cit., p. 223.61 Sul ruolo di Meda cfr. A. CANAVERO, Filippo Meda e la fondazione dell’Università Cat-tolica, in G. FORMIGONI (a cura di), Filippo Meda tra economia, società e politica, cit., pp.
235-256.
126 ALFREDO CANAVERO
siglio. Persino Mussolini avrebbe visto con favore un suo ministero62.
Ma Meda, sempre più deciso ad abbandonare la vita politica, non fece
nulla ed anzi rifiutò la carica di ministro degli esteri o della giustizia che
Bonomi gli offriva.
Al momento della crisi del governo Bonomi nel febbraio 1922 il re
invitò Meda a comporre il ministero, ma Meda, senza consultarsi con
nessuno, rifiutò. La situazione era drammatica, gli scontri tra fascisti e
socialisti erano quotidiani, l’economia peggiorava di giorno in giorno.
Ci sarebbe voluto un colpo d’audacia, ma Meda, come scrisse qualche
tempo dopo Sturzo, era alieno dai colpi d’audacia63. Si arrivò a Facta
(febbraio 1922) e la crisi politica e sociale divenne irreversibile. Alla fine
di luglio, andato in crisi il primo ministero Facta, il re ricorse ancora a
Meda. Saputo della convocazione al Quirinale, Sturzo esortò Meda ad
accettare, e così fece anche il figlio Luigi. Ma ancora una volta Meda
rifiutò con il pretesto degli impegni professionali. Indicò al re Nitti e
De Nava, cioè due parlamentari non appartenenti al PPI, prese il treno
e tornò a Milano.
Sturzo si irritò e i rapporti con Meda si guastarono, peggiorando
poi nei mesi seguenti a proposito dell’atteggiamento da tenere di fronte
al fascismo. Entrambi erano convinti che non si potessero accettare i
metodi fascisti, ma mentre Sturzo voleva una opposizione decisa e una
forte difesa contro i soprusi dello squadrismo, Meda era dell’idea che si
dovesse tenere un basso profilo, evitando di offrire pretesti per rappre-
saglie. Erano molti nel campo cattolico a pensarla così: il fascismo ave-
va fatto cessare le violenze anticattoliche dei socialisti ed ora bisognava
attendere che la situazione si normalizzasse e il fascismo rientrasse nei
ranghi. In breve, però tali illusioni si sarebbero dissolte.
Meda fu contrario all’ingresso dei popolari nel governo Mussolini
dopo la marcia su Roma, ma votò il 16 novembre la fiducia al suo go-
verno, che comprendeva anche alcuni popolari. Meda temeva che i figli
Gerolamo e Luigi, esponenti della sinistra popolare, potessero essere
vittime della violenza fascista e predicava moderazione. Fu perciò con-
trario alla convocazione del Congresso di Torino, che avrebbe dovuto
segnare la fine della collaborazione popolare al governo. Come scrisse a
Cesare Degli Occhi
62 Intervista rilasciata da Mussolini al «Giornale d’Italia», 21 maggio 1921, citata da
R. DE FELICE, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. 1921-1925, Einaudi, Torino
1966, p. 95.63 Cfr. L. STURZO, Il Partito Popolare Italiano, vol. II, Popolarismo e fascismo [1924], Zani-
chelli, Bologna 1956, p. 35.
FILIPPO MEDA 127
a salvaguardia, se non per l’oggi, per il domani, degli interessi congeniti
alla esistenza del Partito Popolare, questo ha indeclinabile necessità di
raccogliersi, di far parlare di sé meno che possibile, di applicare la politi-
ca del fl ectar ne frangar64rr .
Fedele alla sua idea di mantenere un basso profilo, invitò anche ad ac-
cettare la legge elettorale Acerbo, in cambio di qualche garanzia. Violan-
do la disciplina di partito, scrisse a tutti i deputati popolari una lettera
per illustrare la sua posizione contraria a quella decisa dal PPI. Meda,
come scrisse a Micheli, cercava una occasione per abbandonare la poli-
tica attiva, ma, incapace di decidersi, si aspettava forse che il partito lo
espellesse o gli chiedesse di dimettersi da deputato65. È noto come sulla
votazione della legge Acerbo, cui Meda non partecipò, una decina di
deputati popolari che avevano votato a favore del passaggio alla discus-
sione degli articoli furono espulsi. Meda, preoccupato anche dalle defe-
zioni di alcuni senatori come Grosoli e Crispolti, che non condividevano
l’atteggiamento antifascista del partito, cercò assieme a Longinotti una
mediazione che permettesse il rientro degli espulsi, ma il gruppo parla-
mentare respinse il tentativo.
In vista delle elezioni del 1924 Meda, stanco e convinto che non ci
fosse più nulla da fare contro il fascismo, dichiarò la sua indisponibilità a
candidarsi, a meno che il partito non glielo avesse richiesto. In quel caso,
però, avrebbe posto delle condizioni, ben consapevole che il partito non
le avrebbe potute accettare. Escluso dalla lista popolare, gli fu chiesto
di entrare nel listone fascista. Gli fu anche comunicato che Mussolini
avrebbe potuto farlo nominare senatore, se non si fosse presentato col
PPI. Meda rifiutò entrambe le proposte. La sua polemica col PPI era stata
dura, ma al partito restava fedele. Condannava anzi quei cattolici come
Grosoli e Crispolti che avevano firmato un manifesto che invitava a vo-
tare per il listone fascista.
Meda non era certo filofascista né tantomeno fascista. Era però con-
vinto che di fronte alle violenze non ci si dovesse opporre. Come scrisse
dopo le elezioni:
Chi scrive – diceva Meda – è un tolstoiano nell’ora attuale: cioè è per
la non resistenza al male, perché la crede l’arma più sicura per vincere
il male stesso: s’intende però che la non resistenza non ha nulla a che
vedere colla acquiescenza spirituale, e tanto meno colla adesione. Chi
64 F. Meda a C. Degli Occhi, 29 aprile 1923, citata da G. VECCHIO, I cattolici milanesi e la politica, Vita e Pensiero, Milano 1982, p. 361.65 F. Meda a G. Micheli, Milano, 2 luglio 1923, in C. PELOSI (a cura di), Dall’intransigenza al governo. Carteggi di Giuseppe Micheli (1891-1926), Morcelliana, Brescia 1978, p. 464.
128 ALFREDO CANAVERO
scrive non muoverebbe un dito per far cadere il governo fascista; ma si
farebbe tagliare la testa piuttosto che muoverne uno per sostenerlo o per
difenderlo.66
Uscito dalla politica attiva, prese più nette posizioni antifasciste che
espresse su «Civitas». Ma il fascismo non poteva sopportare alcuna cri-
tica e cominciò a sequestrare la rivista di Meda che nel novembre 1925
ne sospese le pubblicazioni. Nel 1927 si espose per difendere Alcide De
Gasperi accusato di tentato espatrio clandestino. Fu uno dei pochissimi,
o forse l’unico, intervento politico di Meda negli anni del fascismo. Nel
1928 fu anche estromesso dalla presidenza della Banca Popolare di Mi-
lano cui era stato nominato nel 1920.
Da allora e fino alla morte si dedicò alla professione di avvocato e a
scrivere di storia e di letteratura, intrattenendo rapporti solo con quei
vecchi amici che non si erano lasciati trascinare dagli idola del momento:
il nazionalismo esasperato, il culto del duce, il razzismo. Il 1° gennaio
1939 compì 70 anni. Non vi furono pubblici festeggiamenti e anche pri-
vatamente ebbe poche lettere degli amici più cari. A un anno dalla mor-
te, che avverrà il 31 dicembre 1939, Stefano Jacini ne faceva un ritratto
che si può ancora ben porre alla fine di questo breve schizzo biografico:
Una vita come la tua, tutta spesa al servizio della Chiesa, della Patria e
di buoni studi, con assoluto disinteresse, con perfetta buona fede, con
rettitudine cristallina e instancabile operosità, deve costituire un esempio
luminoso e fecondo, che non i tuoi figli soltanto, ma tutti gli Italiani di
pura coscienza devono sentirsi orgogliosi di seguire67.
66 G. SERGI [F. MEDA], Politica opportunistica, in «Civitas», 1 agosto 1924, p. 226.67 S. Jacini a F. Meda, 5 gennaio 1939, citata da G. DE ROSA, Filippo Meda e l’età liberale,cit., p. 249.
Oikonomica
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 131-144
Local banking systems on both sides of the border:High Lombardy and Ticino between the nineteenth
and twentieth centuryPIETRO CAFARO
The Essay illustrates the effects on the banks System of Como and of Canton
Ticino of the State border between Italy and Switzerland between XIXth and
XXth centuries.
Il saggio illustra gli effetti del confine di Stato sul sistema bancario di Como e
del Canton Ticino tra Ottocento e Novecento.
Parole-chiave: Banche, sistema bancario, Italia, Svizzera, confine di Stato.
Keywords: Banks, banking System, Italy, Switzerland, State Border.
1. An economic and fi nancial platform and its doors
On a Europe’s map, Switzerland appears as a platform of exchange
in the heart of old continent. It opens to three of the traditional «four
engines» of the European economy, Lombardy and the Rhone-Alpes to
the South, and Baden-Wurttemberg to the North (the northern part of
the Netherlands is the fourth engine). Today there are two main ports
that connect Switzerland with these areas and, through Switzerland,
Basel and Lugano. Until the First World War, however, the southern
gate was Como, the Italian city closest to the border. Basel and Como
are very similar to each other and over time they have developed a fi-
nancial system particularly suited to take advantage of their positions.
This explains why Basel and Como, though divided by the formida-
ble Alps and within two different countries, developed similar economic
and banking systems1. In this case, we can apply the theory by Fernand
1 As regards the area of Como, see A.M. GALLI, Il sistema produttivo e fi nanziario in S.
ZANINELLI (a cura di), Da un sistema agricolo a un sistema industriale: il Comasco dal Sette-cento al Novecento, IV, 1, Continuita’ e cambiamento tra Grande Guerra e miracolo economico,
Como 1998, pp. 117-157. Compare also P. CAFARO, Finanziamento e ruolo della banca inS. ZANINELLI - P. CAFARO, Alla guida della prima industrializzazione italiana. Dall’Unita’ politica alla fi ne dell’Ottocento, Milano 1990; a detailed description of the logic underlying
the dynamics of the distribution of credit institutions in Lombardy is F. PAGETTI, Dif-
132 PIETRO CAFARO
Braudel according to which, instead of being a source of division, the
Alps created unity and communication between different geographical
areas, «une fabrique d’hommes à l’usage d’autrui»2.
Como and its territory bordering the Canton Ticino are divided by
national borders, but both use the Italian language and culture. Be-
tween Como and the Ticino there are differences of landscape and to-
pography, but the people who live in the two areas belong to the same
culture, speak the same dialect and have the same habits. In fact, the
visitor, who did not realize he had crossed the border, would not hesi-
tate to think he was in the same region.
Como and Ticino have even experienced similar historical events:
the border is one of the most severe from a political point of view. All
this has created a very unique situation and allowed this area to take
advantage of its favourable position.
Between 1865 and 1925 Switzerland and Italy were joined by the
Latin monetary union: in those years both countries used the same
currency. For a long time, and at least until the First World War, also
their currency of payment had been largely the same3. The slow degen-
eration of the Latin monetary union and the gradual spread of paper
money then created an anomalous situation, but beneficial to financial
speculation.
Moreover, Como and Lugano, the financial capitals of Ticino4, were
both peripheral cities to the main centers of political and economic
power. In Switzerland, they were Bern, Zurich, and Basel; in Italy they
were Milan, Turin, Genoa and Rome. The influence of the economic
strength of the Lombard capital, Milan, extended much more beyond
the state border: so that Lugano, Bellinzona and Locarno also gravitat-
ed towards Milan5.
fusione, concentrazione e polarizzazione dello sviluppo della rete bancaria in Lombardia, in
«Rivista internazionale di scienze sociali», 89 (1981), pp. 73 ss.2 F. BRAUDEL, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris II1966, t. 1., p. 46.3 On Latin Monetary Union (1965-1925), see P. PECORARI, La lira debole. L’Italia, l’unio-ne monetaria latina e il «Bimetallismo zoppo», Padova 1999; L. EINAUDI, Money and Politics: European Monetary Unifi cation and the International Gold Standard (1865-1873), Oxford
2001, as well as the pioneering work by F. MARCONCINI, Vicende dell’oro e dell’argento, Mi-
lano 1929. See also G. ZUCCOLI, La fi ne dell’Unione monetaria latina, in «Politica», Roma,
fascicolo 75, 1926, and Ditto, Riforma monetaria, Roma, 1925.4 The administrative capital of Canton Ticino is Bellinzona.5 R. ROMANO, Il Canton Ticino tra ’800 e ’900: la mancata industrializzazione di una regione di frontiera, Milano 2002.
LOCAL BANKING SYSTEMS ON BOTH SIDES OF THE BORDER 133
2. The genesis of the banking system in the territory of Como
At the time of the Italian unification, the only credit institution of some
importance in Como was an agency of the Cassa di Risparmio (savings
bank) di Lombardia, which was founded in Milan in 18236 with a phil-
anthropic aim. It was established to collect deposits and to place them
with a low degree of risk, and its primary purpose was to educate poor
people about saving. Over time, however, it had increasingly began to
resemble modern banking: its goals were not merely to invest the depos-
its in government bonds and mortgage loans, investments that seemed
to be the safest, but also through other operators, who increased risks.
The proposal of establishing a savings bank in Como was met not
only with interest but, as Giovan Battista Luraschi, President of the
Chamber of Commerce and municipal councilor, pointed out in the
following comments, the idea was so praised:
In a capital city where the wealth of an entire Province, of a State, accu-
mulate, even great projects have no difficulties to be quickly fulfilled...
A savings bank ... brings with it too many advantages not to be created.
But adding profit from trade to the help of the poors, it seems to me that
it gathers all the most desirable advantages7.
The Cassa di risparmio that opened in Como, as well as those that
appeared in other capitals of the provinces, were institutions capable
of collecting deposits in a city where, as Luraschi wrote «the workers’
wages were not as poor as to leave nothing to those who could save»8.
Conversely, this bank was able to play a much bigger role. By the ’40s
and ’50s, the Cassa di risparmio was in a symbiotic relationship with
the large network of small, private banks operating in the area9.
6 See M. ROMANI, Sulle origini della Cassa di Risparmio di Lombardia (1820-1823), «Il
Risparmio», 11 (1970), pp. 2034 ff, but see especially A.M. GALLI, L’Ottocento in A.M.
GALLI - A. COVA, La Cassa di risparmio delle provincie lombarde dalla fondazione al 1940,
vol. 1, Bari 1991.7 See the complete original quotation: “In una città capitale dove si accumulano le ric-
chezze dell’intera provincia, di uno Stato, non è difficile trovare in breve termine l’adem-
pimento di progetti anche grandiosi...: una cassa di risparmio... porta seco troppi van-
taggi per trascurarne la sua istituzione e potendo unire l’utile del commercio al soccorso
dei poveri parmi riunire tutto il vantaggio che si può desiderare. La cassa si occupi degli
affari di commercio, di anticipazioni ed anche di giro per gli azionisti e faccia tutte quelle
operazioni che verranno fissate” G.B. Luraschi to I.R. Delegazione provinciale, 4th April
1822, in State Archives of Milan, “Luoghi Pii”, pm, 80.8 Ibidem.9 See P. CAFARO, Alle origini del sistema bancario in Lombardia: Casse di risparmio e banchie-ri privati, in i G. CONTI - S. LA FRANCESCA (a cura di), Banche e reti di banche nell’Italia po-
134 PIETRO CAFARO
After the national unification, it is worthy to mention that the Cassa
could not become a large liquidity reserve which would be in direct
competition with the same Banca Nazionale nel Regno d’Italia (Na-
tional Bank in the Kingdom of Italy), namely the largest of the issuing
banks in the country. From the 40’s up to the 50’s, the Cassa went
into an almost symbiotic relationship with other banks: first small pri-
vate bankers, and then, simultaneously, merchants and bankers; this
animated the territory. Since 1858, two years before the Unification, a
bill discounting operation had started on a provisional basis, aiming to
open a new outlet for loans. At the time, entrepreneurs needed new ac-
cess to the credit market and this tool seemed balanced. In this way de-
posits were not put at risk because there were bankers meeting the cost
of the final risk: the Cassa needed more than three signatures in order
to protect clients and itself, conforming the purposes of its statutory.
As a consequence the Cassa became a bank of second degree and at
the end of the century is started operating as a sort of central bank in
direct competition with the National Bank of the Kingdom of Italy10.
Specifically the city of Como was host to a denser presence of pri-
vate bankers. There was a more intense development and manufac-
turing especially in the silk factories. This activity required a financial
superstructure with the tools necessary for advances, for rebates of ef-
fects, and for currency exchange across borders. «Commercial matters
– writes Bertrand Gille – mainly silk affairs caused significant bank
relationship11». The savings bank interwove a thick network of agencies
in the province of Como. Financial resources that were partly invested
in the rich agriculture of the Po valley, remained in the territory thanks
to the private bankers. By the 60’s other banks were founded: in 1880
new banks were operating in the province: two in the form of the joint-
stock company (Banca di Lecco, Banca di Varese di depositi e conti
correnti) and seven in the form of the model shaped by the Italian
stunitaria, Bologna 2000, pp. 437-503 and DITTO, Il difficile esordio della società di capitali nel mondo del credito lombardo (1860-1880), in A. CARERA - M. TACCOLINI - R. CANETTA (a
cura di), Temi e questioni di storia economica e sociale in età moderna e contemporanea. Studi in onore di Sergio Zaninelli, Milano 1999, pp. 331-355.i10 See P. CAFARO, Il progressivo affermarsi dell’industria, in S. ZANINELLI (a cura di) Da un sistema agricolo a un sistema industriale cit., II, La lunga trasformazione tra due crisi (1814-1880), pp. 237-238 and ditto, Dalla città manifatturiera al distretto industriale: il caso di Como nell’Ottocento, in G.L. FONTANA (a cura di), Le vie dell’industrializzazione europea,
Bologna 1997, pp. 897-922.11 «Les affaires commerciales principalement les affaires de soie, provoquaient rapports
d’importants bancaires» (B. GILLE, Les investissements français en Italie (1815-1914),
Roma 1968, p. 232)
LOCAL BANKING SYSTEMS ON BOTH SIDES OF THE BORDER 135
Luigi Luzzatti, a model that was intended to the develop the political
and economic environment. Such model was cooperative with limited
liability and also distributed a small share of profits in the form of re-
bates (Banca popolare di Como, Banca cooperativa canturina, Banca
popolare di Lecco, Banca popolare di Varese, Banca popolare briantea
di Merate, Banca popolare di Luino)12.
As in the case of the popular Luino, industrial and business people
who found convenient to choose these kinds of institutions, were at the
top of the cooperative banks13. The popular banks were grouped into an
association and had the Banca popolare di Milano as the institution of
the second degree14. However they soon related to Cariplo (as the Cassa
became commonly know), as well as the non-cooperative banks. At the
end of the century the largest Cassa di Risparmio of Milan represented
indeed the greatest reserve of liquidity for all banks and bankers oper-
ating in the area.
3. The corporate banks of Como
Against this backdrop, a very large number of private bankers were ris-
ing. They generally acted as individual firm or limited partnership (So-cietà in accomandita). Many of these operators remained also merchants;
others, on the contrary, became full-fledged bankers. This constituted a
magmatic and ever evolving mechanism, which did not destabilize the
system, but on the contrary provided stability to it. Small bankers had
an emergency exit available to them; the mercantile profession was the
lightning rod in moments of crisis. They were equipped with tools that
allowed them to overcome information asymmetries. It became neces-
sary to find even the most hidden possibilities of the use of money; it
became obsolete when it reached a balance of any kind. In the current
state of studies, it is impossible to provide a detailed list of these finan-
ciers. Recently, however, a thorough investigation in the archives of the
Chamber of commerce of Como carried out by Anna Maria Galli and
12 P. CAFARO, Il progressivo affermarsi dell’industria cit., p. 236.13 See P. CAFARO, Vita economica e cooperazione a Varese tra la fi ne dell’Ottocento e la Secon-da guerra mondiale, Varese 1987.14 See Ditto, Banche popolari e Casse rurali tra Ottocento e Novecento: radici e ragioni di un successo, in P. PECORARI (a cura di), Le Banche popolari nella storia d’Italia, Venezia 1999,
pp. 21-78, more generally on the Banca popolare di Milano see S. LOLLI, La Banca po-polare di Milano dalla fondazione alla seconda guerra mondiale, in M.A. ROMANI (a cura di),
La banca dei Milanesi. Storia della Banca popolare di Milano, Bari - Roma 2005, pp. 13-84.
136 PIETRO CAFARO
by Giuseppe Pagani has identified the evolution of these small banks
over time. Their legal status was that of the general partnership (società in nome collettivo) or, more frequently limited partnership (società in nome collettivo) or, more frequently limited partnership. Providing the
exact number of these small companies is impossible. These companies
were quite unstable: the societies formed and flowed continuously into
a dizzying turnover of actors and extras. They were bankers, but also
traders, industrialists, large landowners or small fortune-holders. The
names on the scene were the same for almost a century: Mantegazza,
Binda, Ortelli, Savanelli, Castelli, Corti, Curti, Clerici, Giorgetti, Sala,
Reguzzoni, Tajana, Longhi, Vitali, Cameroni, etc.
They appear as limited (or silent) partners (accomandanti) or, to-
gether with an equally large number of «caratisti», they were hidden
among the general partners (accomandatari). Among all, this position
was the most elusive: the «caratista» was an investor of small capital
shares (the «carato»)15. In this way, the risk was fractionated and the in-
vestment represented a gainful use; it was easily done in cases of need.
The carat had the advantages of savings deposit and those investing in
shares. The financial system in Como, the banking system included,
was the most important component of the economy whose it was an
intrinsic part. From one point of view it was the alter ego and provided
guaranteed balance and elasticity.
The complex organizational structure of the «factory Como», was
largely based on the work of the customer who anticipated the money.
It could, in turn, prosper thanks to the great elasticity and the ability of
avoiding inventory costs. Thus, the financial system had also to be ex-
tremely flexible and able to offset the costs caused by the slowdown of
monetary circulation. Hence, it would be incorrect to consider the forma-
tion of the Como banking system as an intermediary step, from a simple
to a complex system. Indeed, all these institutions (from the biggest to the
smallest ones) were part of an organic system, which has continuously
evolved. At the top there was a central reserve of liquidity (the Cariplo
or a bank of issue), at the next level it acted as a reference institution for
private and cooperative banks, and at the base of this «pyramid» there were
individual firms. If one element shifted, the rest of the system would move
accordingly. At any time the system as a whole benefits from the peculiari-
15 See. A.M. GALLI, Il sistema produttivo e fi nanziario cit., pp. 130-132. The “carato”
traditionally was the partnership share of the indivisible venture. Originally it was one
twenty-fourth of a merchant ship or one twenty-fourth of ounce of a precious metal
(gold).
LOCAL BANKING SYSTEMS ON BOTH SIDES OF THE BORDER 137
ty of this multi-faceted composition: it is in a dynamic equilibrium, always
able to change one or more of its elements in case of need: for example,
the merchant banker (part-time(( merchant or banker) could easily turn to eoperate either as full merchant or as full banker.
Tabella 1 - Exposures Como’s Subsidiary of the Bank of Italy (in italian lire)(Inspection of August 4, 1913)
Subsidiary of Como
Piccolo credito comasco 195.617,00
Banca popolare di Como 160.974,00
Banco lariano 333.641,00
Società bancaria italiana 2.961.359,00
Società italiana di credito provinciale 79.276,00
Baffa Ettore 26.000,00
Banca Sala Corti & C. 71.215,00
Banca Longhi Vitali & C. - Como 127.825,00
Baragiola Luigi 180.000,00
Brambilla Enea 4.000,00
Cantaluppi Rodolfo & C. 270.000,00
Istituto italiano di cambio 21.634,00
Banca Clerici & C di Amadeo Scacchi & C. 660.627,00
Agency of Lecco
Banca popolare di Lecco 701.793,00
Banca di Lecco in liquidazione 126.142,00
Badoni & C. 99.453,00
Bonaiti Giuseppe 23.770,00
Fabbrica Sali di Bario concimi 587,00
Fratelli Pazzini 55.458,00
Lanfranchi Luigi fu Paolo 4.500,00
Merlo G.B. 52.653,00
Mira Giuseppe 3.250,00
Sala Scola & C. 12.215,00
Agency of di Varese
Credito Varesino 509.664,00
Bianchi Cesare 1.400,00
Lonati Francesco 1.460,00
Rossi Ermelinda Crespi 20.000,00
Soc.an. Fratelli Macchi 28.600,00
Substandard loans
Banca di Como 203.294,00
Sala Regazzoni & C. 1.209,00
Source: Central historical archive of the Bank of Italy, Rome (in italics business credit)
138 PIETRO CAFARO
Consistent with the homogeneity (in its complexity) of a way of pro-
duction forced to adapt to difficult conditions, a very similar pat-
tern was present in Basel, the door of north-western Switzerland.
As much as the rapid possibility of change, the economy triggered
continuous adaptations of the smaller individual cells which lay at
the base of the pyramid.
Thanks to its privileged position in terms of geographical location
and consequent commercial opportunity, Basel had been a large man-
ufacturing center for centuries; it also does considerable business in
the export industry. As early as the late Middle Ages and until the mid
19th century the city, as a training center of the capital, had been for
the banking and financial sectors, the emporium of a vast territory
that reached beyond the Swiss border until the Alsace and into the
heart of Germany16.
In 1840, Basel’s population reached about 24,000 inhabitants and
there were 16 banks. Later, branches of Swiss banks opened; large
banking firms in corporate form were also based in the city. The
most interesting element, however, is the consortia of private, small
bankers, most notably the Basler bankverein of 1844 and Kleiner
banksverein a decade later which, as in the case of Como, provided
great elasticity to the system. Eventually, these consortia turned into
corporate firms17.
What happened in Como followed a parallel path. The econom-
ic operator (the manufacturing entrepreneur, the merchant or the
banker) ran changes easily. Though his nature is ever changing, the
aspect of the merchant prevails. His five senses were always present
in order to puzzle out the signs of the events and to seize the oppor-
tunity to his best advantage. His mind did not entirely dwell on a spe-
cific activity: he rarely fell in love with only one job. Moreover, when
negative signs of an impending crisis appeared on the horizon, he did
not hesitate to use financial resources to work out the problem.
Nothing is free from major risks: the story of the great specula-
tions which took place in Southern Italy from the Sala, Reguzzoni &
C in 1906 is an evident example18.
The Helvetic territory close to the border of Lombardy (Canton
Ticino), belonged to Swiss from a political point of view, yet from
16 H. BAUER (a cura di), R Società di Banca Svizzera 1872-1972, Basel 1972.17 Ibi, p. 27.18 See G. PAGANI, Banche e credito a Como tra Otto e Novecento: le società bancarie in acco-mandita semplice, Varese 2005, pp. 46 ss.
LOCAL BANKING SYSTEMS ON BOTH SIDES OF THE BORDER 139
an economic, cultural and political point of view it belonged to It-
aly. Until the First World War, the economy, more lively in this vast
homogeneous Italian and Swiss area, was south of the border: the
major industries of Varese, Como and Luinese attracted Swiss work-
ers; banks were operating with the same great savings bank of Milan.
The banks of the Canton Ticino tended to resemble their system with
those of their sisters in the neighboring Italian area, rather than with
those of central Switzerland.
A balance was destined to change over time, toward a more direct
relationship with the Swiss banking system. The evolution was relat-
ed to the improved transalpine communications which favored the
internal relationships from the Swiss state, the slow but inexorable
crisis in the Latin monetary union that increasingly pushed the two
national currencies further apart, and finally to the outbreak of the
Great War.
Grafico 1 - Paper inflation. Italian Lira / Swiss Franc (1914-1938)
Source: data from F. MARCONCINI, Vicende dell’oro e dell’argento, Milano1929, passim
In the same years, then, the first attempts of banking regulation (es-
pecially in order to protect savings) began to tighten within a national
system. The settings of the post-war period (the analogous of political
and economic nationalism in the banking field) would have sanctioned
this new fact.
140 PIETRO CAFARO
Tabella 2 - The depreciation of the value of the Italian lira against the Swiss franc(paper currency, index number)
CH F IT L
1914 100,0 100,0
1915 113,0 93,5
1916 131,0 74,7
1917 163,0 52,8
1918 204,0 37,9
1919 222,0 37,3
1920 224,0 28,4
1921 200,3 24,0
1922 163,9 24,1
1923 163,8 24,3
1924 168,8 23,5
1925 168,2 20,9
1926 162,2 19,4
1927 160,3 21,2
1928 161,0 22,8
1929 161,2 22,5
1930 158,4 23,2
1931 150,2 25,7
1932 138,5 26,4
1933 131,4 28,1
1934 129,5 29,6
1935 128,2 29,2
1936 130,4 27,1
1937 136,7 24,8
1938 137,0 23,0
1939 138,0 22,0
Source: data from F. MARCONCINI, Vicende dell’oro e dell’argento, cit.
3. The Gotthard Tunnel, the Great War and the end of the Latinmonetary union. The metamorphosis of a homogeneous territory.
From an economic point of view the Canton Ticino had characteris-
tics very similar to those of the high plains of Lombardy and of the
Alps.
Wrote Virginio Mazzolini:
LOCAL BANKING SYSTEMS ON BOTH SIDES OF THE BORDER 141
Among the municipalities placed between the highest and lower re-
gions there is a 1300 meter altitude gap. The mountainous part of
the Canton is sparsely populated and is mainly agricultural. The land
is yet not so productive and the possibilities of favorable trading in
normal times are very scarce, so that for centuries a high rate of emi-
gration from the valleys of these regions had taken place. In the lowest
part of the Canton productive conditions are better, but the scarcity
of fertile land, the fragmentation of properties, and the lack of small
farms, do not allow, even here, a rational exploitation with severe dis-
advantages for production. The only relevant resource consists of the
hotel industry ... but also this industry, which represent a safe asset
wealth, has reached its highest degree of exploitation ... Other indus-
tries, hampered by the lack of raw materials and of transport costs,
cannot claim to transform the Ticino into an industrial country. The
people live and try to flourish as much as they can19.
Conversely, this part of Switzerland, on the southern part of the Alps
had for a long time produced a lackluster banking organization. As
Mazzolini highlighted, this was mainly due to the geographical situ-
ation that divided it from the richest part of the country and was put
in easier communication with Italy. Throughout the 19th century, the
Ticino economy was dominated by the economies of the bordering
areas. The trade balance was always passive, even in the financial sec-
tor, the working environments were modest. The banks founded in
that period did not differ much from the Italian banks: there was a
savings bank in 1833, a cooperative bank in 1885, and some banks in
corporate form in the same years.
The table below shows this situation.
19 «Tra i comuni situati nelle regioni più alte e quelli delle regioni più basse esiste un
divario altimetrico di 1300 m. La parte montagnosa del Cantone è scarsamente po-
polata e massimamente agricola. Il terreno è però poco produttivo e le possibilità di
smercio in tempi normali sono sfavorevoli cosicché da secoli si registra un forte tasso
di emigrazione dalle vallate di queste regioni. Nella parte più bassa del Cantone le con-
dizioni produttive sono migliori, ma la scarsità di terra fertile, il suo frazionamento e la
mancanza di unità anche di piccoli poderi, non permettono sempre nemmeno qui un
uno sfruttamento razionale con grave svantaggio della produzione. L’unica risorsa di
qualche importanza è costituita dall’industria alberghiera... ma anche questa industria,
che rappresenta un sicuro cespite di ricchezza, ha raggiunto il suo massimo grado di
sfruttamento... Le altre industrie ostacolate dalla mancanza di materia prima nonché
dalle altre spese di trasporto, non possono avere la pretesa di trasformare il Ticino in un
paese industriale. Essi vivono e cerca il prosperare al limite del possibile» (V. MAZZOLINI,
Le banche nel Canton Ticino, Roveredo 1946, p. 7), see also P. CORNARO, Le banche Ticinesi: premesse, vicende, realtà, Bellinzona 1969.
142 PIETRO CAFARO
Tabella 3 - Banks based in the Canton Ticino
1833 Cassa ticinese di risparmio 1961 in Soc. An. Banca cantonale ticinese
1861 Soc. An. Banca cantonale ticinese 1914 default
1873 Banca della Svizzera italiana
1885 Banca popolare ticinese 1914 default
1897 Banca Svizzera-Americana 1920 became Unione banche svizzere
1904 Società bancaria ticinese
1904 Banca agricola commerciale 1908 became Credito ticinese
1908 Società di banca svizzera (Subsidiary)
1913 Credito svizzero (Subsidiary)
1914 Banca del Ticino 1915 became Banca dello Stato del
Canton Ticino
1919 Banco di Roma (Subsidiary)
1919 Banca unione di credito
1919 Banca popolare svizzera (Subsidiary)
1920 Unione di banche svizzere (Subsidiary)
1923 Cassa Raiffeisen di Sovico
1929 Banca nazionale svizzera (Subsidiary)
1932 Società anonima privata finanziaria
then Banca Solari s.a.
Source: V. MAZZOLINI, Le banche nel Canton Ticino, cit. passim.
The State bank was founded only in 191520. With the opening of the
Gotthard rail tunnel, things seemed to change. Suddenly the area was
in rapid communication with the Canton Ticino and inner Switzerland.
This development promised to make cisalpine Switzerland the outpost
of the major central banks21.
At this time the banks of Ticino became the most appropriate instru-
ments for financial interrelationships between Italy (especially Lombar-
dy) and central Switzerland.
Besides giving breath to local banks which were located at the south
of the Alps, they found advantageous opening up braches in Switzer-
land, and the Canton Ticino became the ideal place where settling such
branches22. Moreover, the rapid crisis of the Latin monetary union in-
20 Compare R. MELLINI, La Banca dello Stato del Cantone Ticino dal 1915 al 1964, Bellin-
zona 1967 and E. CONTI, La Banca dello Stato del cantone Ticino, Lugano 1936.21 See A. BRUNATI, Lo sviluppo economico del Canton Ticino dopo il traforo del San Gottardo,
Mendrisio 1957.22 H.J. MAST, Il sistema bancario svizzero, Zurigo 1978 and most recently, R. CHOPARD, Il sistema bancario ticinese e la piazza fi nanziaria svizzera: caratteristiche, evoluzioni, prospetti-ve nel contesto europeo e internazionale, Bellinzona 1992.
LOCAL BANKING SYSTEMS ON BOTH SIDES OF THE BORDER 143
creasingly limited the use of coins for exchanges between Italy and Swit-
zerland; this was a sharp prediction of what would occur during and
after the Great War. The banks of the canton (as well as those of Como)
were going to make money on the exchange rate between the lira and
franc paper.
After the First World War, the Latin monetary union permanently
disappeared and the new ports of the country would become two: Ba-
sel and Lugano. They were both within the confederation and therefore
they were better controlled by the central government.
Yet for Como, and its silk manufacturers, this was the dawn of a «new
factory». Even today Como has a worldwide reputation as a manufac-
turing center of top-quality silks and no longer, as in the nineteenth cen-
tury, as the home of the worst and cheapest kind. This was due to many
elements, but mainly by the fact that the currency dumping through
Switzerland and its franc (increasingly distant from the Italian lira)
found consumers with greater ability to pay.
In the same years as the application of the rules of the «Como’s fac-
tory silk», the city of Lario found a new youth23.
Grafico 2 - Italian lira depreciation and silk export (index numbers)
Source: Elaboration from M. ROSASCO, Il commercio di esportazione di manufatti di seta e i suoi rapporti col problema doganale e il cambio in “Atti del Congresso serico nazionale”,
Padova 2-3-4 giugno 1922, La Litotipo, Padova 1922, pp. 27 ss.
Como started producing for the international market through Switzer-
land. Its manufacturers were also paid in Swiss francs, and thus they
were able to steer clear of the increasingly devalued Italian lira24. This
23 A.M. GALLI, Il sistema produttivo e fi nanziario cit., pp. 232 ss. and 258 ss.24 «We must consider how absurd and dangerous a rapid return to the old parity mone-
tary or to circulation of gold (or silver) and have faith in any appreciation pursued in a
144 PIETRO CAFARO
system began to settle into the banks of the Canton Ticino. The Swiss
banking system ensured stability and security to profits rarely used in
an environment like the one from Como which was shy and far from
exhibitionism25.
It was a little revenge of this land of Italian culture beyond the border
that could begin enjoying wealth built in the nearby opulent Lombardy.
slow, gradual, continuous, following step by step and not ahead of the improvements of
our finance» (M. ROSASCO, Il commercio di esportazione di manufatti di seta e i suoi rapporti col problema doganale e il cambio in «Atti del Congresso serico nazionale», Padova 2-3-4 giugno 1922, Padova 1922, p. 30).25 This was the peculiarity of the square of Como on this beautiful description by A.M.
Galli: “A circumscribed world of business entered into the sly of an accumulated yet not
declaimed wealth,, which was discreetly enjoyed but which was hidden to most eyes, and
where the verbal promise had much more value than the signature on a bill of exchange
and where the personal knowledge often replaced the ancient practice of the collater-
al”(Un mondo circoscritto di affari stipulati in sordina, di ricchezze accumulate ma non
proclamate, godute discretamente, anzi celate agli occhi dei più, e dove la promessa
verbale valeva più della firma cambiaria e la conoscenza personale spesso sostituiva
l’antica prassi della garanzia reale.), in A.M. GALLI, Il sistema produttivo e fi nanziario cit.,
pp. 122-123.
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 145-166
Capitali e imprenditori svizzeri a Bergamo tra Ottocento e Novecento
ANGELO MOIOLI
This article deals with Swiss investments in Bergamo between 19th and 20th cen-
turies in two different ways. Taking up a distinction made by Pierre-Antoine
Wavre in his work on Swiss investments in Italy, the paper aims to study the
role played by foreign capital in Bergamo, hence differentiating between the
concept of “direct investment” (that is, industrial or manifacturing activities)
and “portfolio”, namely financial assets, in particular bonds.
Subsequently, the paper analyzes the great economic success achieved by Swiss
families migrated in Bergamo like Blondel, especially thanks to the silk’s trade,
and the following response of local entrepreneurs, which eventually led to the
establishment of a bank owned by these latter and specialized in silk activities.
In parallel, the article coped with the crisis occurred to the Swiss entrepreneurs
operating in Italy because of inability to diversify their business, as they were
not able to embrace the new successful as well as more profitable sector of cot-
ton manufacturing at the beginning of 20th century. Instead, financial capital
allocated by Swiss who did not previously invested in the silk factory continued
playing an important role in Bergamo’s economy.
Il saggio principalmente si occupa delle due forme di investimento attuate dal
capitale svizzero in Bergamo nei secoli XIX e XX: investimenti diretti, cioè atti-
vità manifatturiere o industriali in genere, e indiretti, vale a dire partecipazioni
diverse attraverso “assets” finanziari o “bonds”. In secondo luogo si analizza il
grande successo economico grazie al commercio delle sete delle famiglie sviz-
zere emigrate a Bergamo (ad esempio i Blondel) e la risposta degli imprenditori
locali che arrivò a fondare una banca specializzata in operazioni legate a questo
comparto economico.
Infine, l’articolo, individua nell’incapacità degli imprenditori svizzeri di cogliere
i segni del decadimento della produzione serica e nell’ascesa concomitante di
quella cotoniera, la causa primaria del declino.
A Bergamo un ruolo importante continuarono ad avere anche in seguito quegli
uomini d’affari elvetici che avevano investito in attività puramente finanziarie.
Parole-chiave: capitale svizzero, industria serica, finanza, investimenti stranieri,
Bergamo
Keywords: Swiss capital, silk industry, finance, foreign investment, Bergamo
146 ANGELO MOIOLI
La dinamica del capitale straniero in Italia già prima, ma ancor più dopo
l’Unificazione, è stata sinora e il più delle volte ricostruita secondo la
valenza nazionale delle sue componenti, così come è avvenuto per il caso
francese e belga, ma non meno per quello della Germania e dell’Austria1.
Lo stesso sarebbe potuto succedere anche per la Svizzera se fosse
andato in porto il progetto di una pubblicazione analoga a quella sugli
investimenti francesi nell’Italia post-unitaria uscita nel 1968, il cui au-
tore Bertrand Gille, l’aveva pubblicata nella collana dell’Archivio Eco-
nomico dell’Unificazione Italiana finanziata dall’IRI e diretta da Carlo
M. Cipolla2. Se non che il volume commissionato allo storico elvetico
Basilio Biucchi non aveva mai visto la luce3.
Si era poi dovuto attendere il 1988 per assistere a un rinnovato ten-
tativo in tal senso, consistente però questa volta in un saggio piuttosto
conciso, volto a tratteggiare per grandi linee il procedere nel lungo pe-
riodo dei flussi di capitale di quella provenienza verso l’Italia. Il suo
autore, Pierre Alain Wavre, non solo lo faceva spaziare dal secolo XVIII
al XX, ma poneva al suo centro come discriminante la nozione di “inve-
stimento diretto” contrapposta a quella di “portafoglio”4. Lodevole era il
suo intento di valorizzare questo distinguo concettuale5, non riuscendo
però a farlo valere se non in concomitanza con gli anni a cavallo della
prima guerra mondiale, quando le stime disponibili gli avevano con-
sentito di valorizzare più gli impieghi di portafoglio che non quelli più
propriamente diretti.
1 P. HERTNER, Introduzione in ID., Investimenti, tecnologie e capitale umano di origine stranie-ra tra ’800 e ’900 pubblicati in «Padania», Ferrara, 2 (1988), 4, pp. 9-10.02 B. GILLE, Les investissements français en Italie (1815-1914), ILTE Torino, 1968.3 Le trattative in proposito erano iniziate con lo storico elvetico fin dal 1968, ma ancora
nel 1973 esse non erano giunte ad alcun risultato concreto (cfr. la corrispondenza in-
tercorsa tra Cipolla e Biucchi intorno al volume progettato, in «Archivio Centrale dello
Stato», Fondo Pasquale Saraceno, c. 501, fasc. 10).4 P.A. WAVRE, Swiss Investments in Italy from the XVIIIth to the XXth century, in «The Jour-
nal of European Economic History», Roma, 17 (1988), 1, pp. 85-96.5 Sembra ormai assodato che gli investimenti internazionali “diretti” siano da intendersi
come “un flusso di capitali, tecnologie, risorse umane e imprenditoriali (...) indirizzato
da uno o più operatori economici di un dato paese ad una attività economica da svol-
gersi all’estero, ma che conservi l’impronta del controllo esercitato dall’istituzione eco-
nomica di origine” (F. BOVA, L’industria cotoniera piemontese fi no al 1914, in P. HERTNER,
Investimenti, tecnologie e capitale umano di origine straniera tra ’800 e ’900, cit., p. 11). Per
contro quelli di “portafoglio” andrebbero considerati come “operazioni essenzialmente
finanziarie nelle quali (...) l’investitore in titoli esteri non intende esercitare alcun con-
trollo sull’utilizzo dei fondi investiti” (G. ROGGERO - FOSSATI, I movimenti internazionali di capitale, Giuffrè, Milano 1972, p. 9). Cfr. C.P. KINDLEBERGER, International capital movement, Cambridge University Press, Cambridge 1987, p. 23.t
CAPITALI E IMPRENDITORI SVIZZERI A BERGAMO 147
A tal punto da avallare l’idea che fossero prevalenti i primi rispetto ai
secondi. Era per altro per lui più agevole prospettare valutazioni del ge-
nere se riferite agli sviluppi di nuovi rami produttivi ad alta intensità di
capitale, come nel caso dell’industria idroelettrica ed elettromeccanica,
verificatisi anche da noi tra Otto e Novecento. Ma non era altrettanto se
si trattava di apporti svizzeri al decollo dell’industria tessile meccanizza-
ta anche nel nostro Paese. Se non altro perché questi si sono manifestati
in concomitanza con una diaspora imprenditoriale generatrice di impre-
se nelle quali sono prevalsi processi cumulativi di capitale autofinanziati,
piuttosto che derivati da investimenti diretti.
Non restava però a quel punto che porsi in una prospettiva diversa,
come aveva invitato a fare Peter Hertner: più che procedere per grandi
aggregati alla ricerca di un quadro evolutivo sul piano nazionale di ca-
pitali ed energie imprenditoriali venuti dai Cantoni elvetici, mettersi a
ricostruirlo attraverso il suo vario polarizzarsi sul territorio e a seconda
dei settori frequentati6. Vi interagivano operatori intenti a intessere tra
loro relazioni su basi fiduciarie, frutto di un loro collocarsi entro conte-
sti comunitari che associavano un notevole grado di integrazione a una
voluta separatezza fatta derivare se non da vincoli familiari, di prove-
nienza territoriale e di ceppo linguistico, dal riconoscersi in una comune
matrice religiosa riflettente la loro appartenenza a chiese riformate di
derivazione luterana o calvinista.
La forza competitiva che a loro così derivava si confrontava per altro
con una economia, quella italiana, in cui l’antico regime solo lentamente
cedeva il passo allo sviluppo in senso moderno e proprio per questo tro-
vava modo di farsi valere attraverso il persistente e pervasivo nesso mer-
cantile-manifatturiero del tessile. A fungere da tramite prioritario erano
allora la produzione e lo smercio di filati serici, laddove ovviamente la
sericoltura si era fatta preponderante, come nell’Italia centro-settentrio-
nale. Essa infatti consentiva di realizzare forti tassi di accumulazione, ge-
nerando così notevoli disponibilità di ricchezza finanziaria da far rifluire
se non nelle imprese dello stesso ramo già in essere, verso altre tipologie
di impieghi, dalle quali non poteva certo essere esclusa a priori la lavo-
razione meccanizzata del cotone. Solo che se in quest’ultima interveni-
vano degli imprenditori stranieri come quelli svizzeri, era da attendersi
che essi operassero attingendo più a capitali importati che non a risorse
disponibili in loco, anche indipendentemente dal fatto che si dovesse
dipendere per questo da investimenti diretti. Poteva però pure succedere
che le traiettorie imprenditoriali volte alla produzione di semilavorati
6 Ibi, p. 10.i
148 ANGELO MOIOLI
serici non avessero altri effetti moltiplicativi dal lato manifatturiero e si
risolvessero in una manifesta propensione a favore di impieghi immo-
biliari, fossero essi appannaggio di soggetti locali o immigrati. Nel qual
caso si è però anche detto che sarebbe stata questa la riprova del fatto di
essere rimasti gli uni come gli altri “ancorati a un ruolo assolutamente
tradizionale nel quadro dell’economia locale”.
Lo si è peraltro affermato nei confronti di un’area come il Bergama-
sco7, caratterizzata lungamente da una vocazione serica delle più qua-
lificate e ricche della Lombardia e alla cui valorizzazione la presenza
elvetica ha saputo dare un contributo certamente dei più rilevanti. Ne
ha tratto bensì pur essa dei surplus finanziari di prima grandezza da
destinare alla creazione di cospicui patrimoni fondiari ed edilizi, ma sen-
za che ciò significasse la rinuncia al proprio dinamismo economico in
altre direzioni. Semmai a muoversi in una prospettiva decisamente più
conservatrice sono stati i serici di estrazione locale, ma anche loro non
del tutto. E del resto sarebbero stati pur essi svizzeri quegli industriali
che nella seconda metà dell’Ottocento si sarebbero trapiantati nella pro-
vincia orobica sino a crearvi un insediamento cotoniero tra i maggiori
della Lombardia. A fare dell’iniziativa elvetica in campo serico un vero e
proprio volano dell’economia bergamasca è stato poi il peculiare modo
con cui essa si è inserita in tale contesto a partire dalla seconda metà del
Settecento. Sino da allora infatti era iniziata per la seta lavorata in loco
una fase di più intensa commercializzazione, proprio mentre il capo-
luogo diventava una centrale di smistamento dei relativi filati tra le più
qualificate della Penisola8.
Vi avevano contribuito anche quei mercanti svizzeri del ramo che da
tempo erano presenti sulla piazza bergamasca, attratti dalle straordinarie
occasioni di regolazione delle transazioni loro offertesi durante la grande
fiera agostana che vi si teneva ogni anno9. Era venuto infatti anche per
loro il momento di adeguarsi ai mutamenti di scala che il mercato delle
7 N. CREPAS, Seta e cotone: due traiettorie divergenti, in i V. ZAMAGNI - S. ZANINELLI (a cura
di), Storia economica e sociale di Bergamo. Fra Ottocento e Novecento. Il decollo industriale,Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, Bergamo 1997, p. 122.8 Cfr. A. MOIOLI, Assetti manifatturieri nella Lombardia politicamente divisa della seconda metà del Settecento, in S. ZANINELLI (a cura di), Storia dell’industria lombarda. vol. I, Dal Settecento all’unità politica, Il Polifilo, Milano 1988, pp. 11-12; ID., Il commercio serico lombardo nella prima metà dell’Ottocento, in Istituto Internazionale di storia economica F.
Datini Prato, La seta in Europa secc. XIII-XX, Le Monnier, Firenze 1993, pp. 723-724.XX9 ID., Il sistema delle fi ere e dei mercati nell’Italia Centro-Settentrionale tra Sette e Ottocento, in
A. BONOLDI - M.A. DENZEL (a cura di),L Bozen in Messenetz Europas (17.-19. Jahrhundert). Bolzano nel sistema fi eristico europeo, Verlagsaustalt Athesia, Bolzano 2007, pp. 201-202.
CAPITALI E IMPRENDITORI SVIZZERI A BERGAMO 149
sete andava subendo sul piano internazionale e che spingeva gli opera-
tori interessati a un controllo sempre più serrato ed efficace sul prodotto
da smerciare. Questo aveva voluto dire cambiare il tipo di approccio
all’attività di intermediazione da loro svolta, nel senso di gestirla non
più attraverso i contatti che l’ambiente in questione offriva con caden-
ze temporali differite e bensì accettando di insediarsi stabilmente nei
luoghi della commercializzazione, mediante la costituzione di imprese
supportate da capitali importati o comunque provvisti in via autonoma
sul posto. Ed ecco stabilirsi a Bergamo un primo nucleo di operatori
provenienti dai Grigioni, cui entro la fine del secolo se ne erano aggiunti
altri venuti dai cantoni di Zurigo e Berna, mescolatisi poi con alcuni
immigrati dalle Cevennes francesi10.
Non era certo la loro consistenza numerica a spiegarne la rilevanza
economica: rimasta tutto sommato modesta la prima anche dopo i nuo-
vi arrivi registratisi ai primi dell’Ottocento; quando invece la seconda
ha mostrato di svilupparsi con ritmi e proporzioni ben altrimenti rile-
vanti. La coesione raggiunta al loro interno ne è stata di sicuro una car-
ta vincente, procurata per effetto più che della appartenenza nazionale
(non la stessa per tutti), del credo religioso professato all’interno di una
comunità “evangelica”. Ma se si è resa tale, è stato perché coloro che
la esprimevano erano venuti a porsi sul piano operativo in modo ben
caratterizzato rispetto al resto della “business community” bergamasca.
Privilegiavano infatti il ruolo di negozianti-finanziatori del ciclo serico,
impegnati principalmente ad assicurare la copertura dei fabbisogni di
capitale che questo comportava a motivo della non-sincronia dei tempi
di regolazione dei contratti di acquisto dei bozzoli e del greggio rispet-
to a quelli con cui si saldavano i pagamenti per la vendita delle sete
lavorate11. Sono diventati così coloro che in via prioritaria esercitavano
il credito alla produzione, praticando sovvenzioni o in denaro, semmai
garantite dalle stesse sete in lavorazione presso i filandieri e torcitori
finanziati, o anche in natura se era loro garantita l’esclusiva sui conferi-
menti di bozzoli o greggio da torcere12.
È quanto almeno risulta dalla pur limitata documentazione lasciata-
ci, in fatto di contratti di mutuo, da due degli operatori svizzeri più di
spicco che hanno animato l’ambiente serico bergamasco tra Settecento
e Ottocento. Si tratta, nell’ordine del loro insediamento, di Ambrogio
10 C. MARTIGNONE, La comunità evangelica di Bergamo (1807-1848), in «Archivio Storico
Lombardo», Milano, 120 (1994), s. XII, vol. I, pp. 322-324.11 A. MOIOLI, Il commercio serico lombardo nella prima metà dell’Ottocento, cit., p. 732.12 Ibi, p. 733.i
150 ANGELO MOIOLI
Zavaritt e di Antonio Frizzoni provenienti entrambi dai Grigioni e più
precisamente da Schanf il primo e da Celerina il secondo13. In questo
modo sia loro che gli altri correligionari via via stabilitisi a Bergamo e
dintorni sono stati in grado di incidere sull’offerta di seta colà contrat-
tata, più di quanto lo potesse consentire la funzione di raccordo con i
mercati verso i quali si indirizzavano.
Anche loro però non avevano che due opzioni per farlo: o inviare le
sete altrove in cerca di compratori, previo anche l’ottenimento di antici-
pazioni dietro garanzia delle stesse; oppure far fronte a ordini di acquisto
pervenuti da una clientela già definita e raccolti direttamente in qualità
di commissionari o tramite agenti collocati sulle piazze più gettonate.
I copialettere ancora conservati presso l’archivio privato della famiglia
Zavaritt14 forniscono ampie prove al riguardo, soprattutto laddove do-
cumentano i tentativi compiuti dalla relativa casa di commercio di pe-
netrare sul mercato russo, avvalendosi per questo della collaborazione
di agenti come Jean e François Blondel15, rispettivamente fratello e ni-
pote del ben più noto Jean François16, o come Thomas Gacon assunto
per questo in società con la ditta Thierrot Bassange operante a Lipsia17.
Esistono per altro le prove, attinte pur esse da questo tipo di fonti, delle
negoziazioni cambiarie con cui si effettuavano i pagamenti delle sete
commercializzate e che si facevano con delle tratte spiccate ovviamente
a carico degli acquirenti delle stesse e a beneficio o della ditta venditrice
13 C. MARTIGNONE, La comunità evangelica di Bergamo (1807-1848), cit., pp. 307-308.14 Si meritano una speciale menzione e il più sentito ringraziamento i signori Willi e
Maria Adele Zavaritt che hanno consentito la consultazione del loro archivio di famiglia
per la ricerca condensata in questo lavoro. L’archivio Zavaritt da ora in poi sarà citato
sotto la sigla AZ.15 Quest’ultimo, già “maestro di negozio” della ditta Zavaritt Moeli, diventava nel 1807
suo procuratore generale (se ne veda il contratto, ibidem, cc. ss.) e a partire dall’ottobre
dell’anno successivo era inviato come suo agente a San Pietroburgo e a Mosca, dove
sarebbe rimasto fino alla fine del 1814, pur in mezzo a mille vicissitudini e a non pochi
rovesci. Non per niente la voluminosa corrispondenza da lui intrattenuta allora con Am-
brogio Zavaritt è giunta sino a noi come il «carteggio riflettente il fallimento di Mosca»
(ibidem, cc. ss.).16 La sua notorietà è tuttora legata al fatto di essere diventato il suocero di Alessandro
Manzoni che ne aveva sposato la figlia Enrichetta. Ma sul percorso che ha segnato la sua
ascesa sociale ed economica rimangono ancora oggi molti interrogativi irrisolti. Cfr. per
questo C.C. SECCHI, Nuovi documenti della famiglia Blondel, in l AA.VV., Atti del I congresso nazionale di studi manzoniani, Lecco, 1963, pp. 187-210, con i D. ROTA, I Blondel di Casi-rate tra impresa e cultura, Casa del Manzoni, Milano s.d., voll. I e II.17 “Contrat entre Messieur Zavaritt & frères Mali [Moeli] de Bergame e Thierrot & Bas-
sange à Lepzig”, a proposito dell’agente Thomas Marie Gacon “a Moscou” in data 30
gennaio 1815 in AZ, cc. ss.
CAPITALI E IMPRENDITORI SVIZZERI A BERGAMO 151
o di creditori terzi. E siccome le località di smercio si trovavano in varie
parti d’Europa, ivi compresa la stessa Russia, è evidente che la regola-
zione delle posizioni debitorie cui tali effetti rinviavano, non poteva che
avvenire poggiando sui rapporti di corrispondenza intrecciatisi tra ban-
chieri di tali sedi estere e quelli della Penisola dotati di un certo appeal
internazionale e operanti se non a Bergamo, a Milano o addirittura a
Genova. Era questa del resto la via obbligata per accrescere la negoziali-
tà di tali titoli attraverso la pratica dello sconto, che restava pur sempre
il veicolo principale per rendere meno pesante il rischio della illiquidità
se non dell’insolvenza18.
La copertura dei fabbisogni di capitale circolante connessi con il ciclo
serico non attingeva però soltanto all’autofinanziamento che la compra-
vendita delle sete assicurava, ma anche all’attività di prestito che questi
negozianti praticavano tra loro o per far decollare le loro imprese allor-
ché si mettevano in proprio, oppure per acquisire e attrezzare impianti
di trattura e torcitura da dare in gestione ad altri. Ferma restando la loro
propensione a investire largamente nella formazione di un loro patrimo-
nio immobiliare. Se poi si costituivano in società sia in nome collettivo
che in accomandita, non era certo per uscire dalla cerchia di rapporti
che l’appartenenza alla comunità evangelica del posto e i legami familia-
ri che si andavano intrecciando al suo interno, consentivano di coltivare
proprio sul terreno economico. Per cui l’intervento di finanziatori ester-
ni operanti in altri contesti restava del tutto eccezionale. Fanno testo
al riguardo due contratti stipulati da Antonio Frizzoni negli anni della
sua irresistibile ascesa ai vertici del commercio serico bergamasco: uno
per una società in accomandita avviata nel 1819 con il nipote Giacomo
Curò che voleva mettersi in proprio, conferendo un capitale di mezzo
milione di lire austriache diviso a metà19; l’altro per un mutuo di cento-
mila lire austriache concesso nel 1831 ai fratelli Enrico e Luigi Mariton
suoi concorrenti sulla stessa piazza, ma pur sempre dei correligiona-
ri20. Ma lo stesso si dovrebbe dire per altri intrecci societari e parentali
che hanno coinvolto oltre a questi nomi, anche quelli dei Blondel, dei
Fuzier, dei Ginoulhiac, ma non meno degli Stampa, degli Steiner, dei
Zuppinger e degli stessi Zavaritt.
18 A. MOIOLI, Il commercio serico lombardo nella prima metà dell’Ottocento, cit., p. 731.19 Ved. la scrittura sociale relativa, rogata in data 10 aprile 1819, da Teodoro Giuseppe
Vailati in Archivio di Stato di Bergamo (d’ora in poi AS BG), Fondo Notarile, Indice
delle parti, c. 415. La società sarebbe durata 12 anni a partire dal 30 giugno 1819.20 Tale mutuo, concesso il 2 maggio 1831 sarebbe stato saldato il 20 giugno 1834. Se ne
vedano gli atti, ambedue rogati da Teodoro Giuseppe Vailati, in AS BG, Fondo Notarile,
Indice delle parti, c. 443.
152 ANGELO MOIOLI
Per la verità, questi ultimi, durante una lunga fase della loro presenza
a Bergamo, erano sembrati attingere principalmente a capitali venuti da
fuori. Il loro capostipite Ambrogio, come il figlio suo successore, aveva-
no infatti operato facendo parte di una accomandita che a partire dal
1764 aveva avuto come socio accomandante Nicolò Zamboni, a capo
di una analoga società avente la sua sede a Bever, un piccolo centro
dei Grigioni. Il sodalizio si era poi rinnovato nel 1774 con l’apporto di
altri “capitalisti” della medesima località nelle persone degli zii Nicolò e
Lucio Moeli e di Domenico Bonorandi. Uscito quest’ultimo dalla ditta
nel 1796, la stessa era continuata anche dopo la morte dello Zamboni,
tra l’erede Zavaritt (omonimo del padre) e i due fratelli Moeli appena
nominati21. Era stato poi lo zio Lucio a sottoscrivere con il nipote nel
1809 un nuovo patto sociale, sempre come accomandante, venuto a sca-
denza nel 1820 e non più rinnovato22. Da allora la ditta, ormai intestata
ai fratelli Zavaritt e gestita sino al 1832 dal padre Ambrogio insieme ai
suoi due figli, sarebbe continuata senza più apporti esterni al capitale
societario23.
Si andava inoltre anche a Bergamo verso una istituzionalizzazione del
credito che non avrebbe mancato di fornire agli stessi mercanti evangeli-
ci nuove opportunità di finanziamento del ciclo serico. Rispondeva però
molto poco allo scopo la pur capillare penetrazione nel territorio che la
succursale della Cassa di Risparmio di Lombardia aveva fatto registrare
dopo la sua costituzione, non consistendo evidentemente nel credito
commerciale il fulcro delle sue operazioni attive e bensì nel mutuo ipo-
tecario24. Superata poi la soglia dell’unità nazionale, già nel 1862 apriva
la sede locale della Banca Nazionale che si era posta anche a Bergamo
ad effettuare anticipazioni su seta e soprattutto sconti cambiari estesi
a svariate piazze del nuovo Regno. Ma si trattava pur sempre di opera-
21 Per una narrativa di questa vicenda societaria a partire dall’atto fondativo del 1764 ed
entro la scadenza stabilita del 20 marzo 1801, ved. il testo della transazione stipulata il
20 giugno 1800, a firma del notaio Domenico Maria Gavazzeni, per la liquidazione delle
spettanze a favore di Nicolò Zamboni nel frattempo defunto (Ibi, c. 12265).22 Ved. l’atto notarile rogato da Giuseppe Teodoro Vailati in data 3 febbraio 1821 per la
liquidazione di detta società (Ibi, Indice delle parti, c. 431).23 Sulla nuova azienda ormai appannaggio di questi soli Zavaritt e in particolare di Pietro
Luigi e di Giovanni Zaccaria e sui suoi contrastati andamenti anche dopo che, con la
scomparsa di quest’ultimo nel 1840, era diventata individuale, cfr. in AZ il «Libro memo-
rie» dal 1830 al 1855 con il registro intestato «Bilanci» dal 1833 al 1857.24 P. BOLCHINI, Banche e banchieri a Bergamo nell’Ottocento, in V. ZAMAGNI - S. ZANINELLI
(a cura di), Storia economica e sociale di Bergamo. Fra Ottocento e Novecento. Lo sviluppodei servizi, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, Bergamo 1997, pp. i22-23.
CAPITALI E IMPRENDITORI SVIZZERI A BERGAMO 153
zioni gestite per conto di una clientela di alto profilo, alle quali aveva-
no perciò accesso gli operatori economicamente più dotati del posto25.
Erano tuttavia in gioco istanze di intermediazione di ben più articolato
spessore che questa nuova istituzione non era interessata più di tanto a
soddisfare. Ed ecco allora prendere corpo nell’ambiente il progetto per
fondare in loco una banca popolare sul modello di quella propugnata
da Luigi Luzzatti. Si sarebbe chiamata “Banca Mutua Popolare della
città e della provincia di Bergamo” e avrebbe iniziato a funzionare a
partire dal 186926. A presiederla per un decennio sarebbe stato Cesare
Ginoulhiac, uno dei figli di quell’Eugenio che subentrato allo zio Luigi
Caumel insediato in città sin dai primi dell’Ottocento, era diventato un
esponente di primo piano della compagine serica bergamasca, nella sua
duplice veste di negoziante-banchiere e di gestore in proprio di due fila-
toi, l’uno nel centro orobico e l’altro a Nembro27. Apparteneva pure lui
alla comunità evangelica e tenuto conto del fatto che altri membri della
stessa figuravano tra i soci promotori dell’iniziativa28, viene da credere
che la loro partecipazione fosse dovuta tutt’altro che a un caso fortui-
to ed esprimesse invece una precisa intenzione di inserirsi attivamente
nell’iniziativa.
E se poi si è giunti così a creare, come si sarebbe in seguito affer-
mato, «la banca dei setaioli», ciò non è certo avvenuto per mettere fuo-
ri gioco i “banchieri” evangelici, svizzeri o non che fossero. I rapporti
fiduciari da cui attingevano la loro capacità di fare credito a breve, li
stavano in effetti rendendo sempre meno autosufficienti. A erodere il
vantaggio competitivo di cui godevano sotto questo profilo erano ormai
i mutamenti di scala intervenuti nel mercato internazionale delle sete,
dopo la crisi produttiva generata dalla pebrina29 e diventava perciò anche
per loro decisivo affidarsi alla mobilitazione del risparmio locale, quale
anche un piccolo istituto bancario come questo, data la sua peculiare
fisionomia cooperativa, era in grado di assicurare. In ogni caso non era
25 G. DE LUCA, «Una catena di reciproca convenienza» a vantaggio del territorio. Le origini della Banca Mutua Popolare di Bergamo, 1869-1899, in M.A. ROMANI (a cura di), Banca Popolare di Bergamo 1869-2009. Con i piedi nel borgo e la testa nel mondo, Banca Popolare
di Bergamo, Bergamo 2009, pp. 17-19.26 P. BOLCHINI, Banche e banchieri a Bergamo nell’Ottocento, cit., pp. 25-27.27 M. GELFI, L’Ottocento: il secolo della seta e del cotone, in S. LICINI (a cura di), Lungo il fi lo della storia. L’industria tessile bergamasca dal XIV al XXI secolo, Fondazione per la storia
economica e sociale di Bergamo, Bergamo 2008, p. 67.28 Tra i soci promotori figuravano infatti, oltre al Ginouliach, Teodoro Frizzoni, Enrico
Frizzoni Steiner, Enrico Fuzier (ved. Banca Mutua Popolare della città di Bergamo. Pro-gramma 21 febbraio 1869, in «Archivio Cifaldi», F. Banca Popolare di Bergamo).29 N. CREPAS, Seta e cotone. Due traiettorie industriali divergenti, cit., pp. 106-110.i
154 ANGELO MOIOLI
più nemmeno il tempo di trovare altre possibilità compensative ai fini
della copertura finanziaria dell’offerta serica, attraverso le contrattazio-
ni di filati tradizionalmente concluse durante l’appuntamento annuale
della grande fiera locale. Semplicemente perché questa era diventata nel
frattempo una appendice dei traffici con i paesi tedeschi facenti ancora
capo alle fiere bolzanine, ad alimentare i quali erano sempre meno le
transazioni seriche di una volta30.
Il binomio banca/seta sarebbe del resto tornato di nuovo al centro di
un altro istituto di credito costituitosi nel 1873 sempre nella città oro-
bica. Si trattava della Banca Bergamasca di Depositi e Conti Correnti,
una società per azioni con tre milioni di lire di capitale31, alla quale con-
correvano, secondo la terminologia del tempo, due “compagini”: l’una
“milanese” formata da banchieri privati della città ambrosiana, con alla
testa, da posizioni di assoluto primo piano, l’appena istituito Credito
Milanese; l’altra “bergamasca” formata in larga misura da negozianti se-
rici del posto, tra i quali spiccavano alcuni dei maggiori esponenti elveti-
ci del ramo32 e primo fra tutti Edoardo Zuppinger, il cui padre Giovanni
nel 1821 aveva fondato insieme a Giovanni Sieber una ditta dedita al
commercio delle sete e dei cascami lavorati in proprio, avente una sede
anche a Zurigo fin dal 1849. Alla sua morte avvenuta nel 1867, il figlio
gli era succeduto, ereditando una azienda ormai divenuta tra le princi-
pali nell’ambiente e in forza del successo ottenuto, non gli era stato diffi-
cile farsi eleggere presidente della banca, mantenendo tale carica fino al
187933. Erano stati quelli del suo mandato anni particolarmente difficili,
contrassegnati dai numerosi crac bancari allora intervenuti, cui non ave-
va potuto sottrarsi neppure il Credito Milanese appena ricordato34.
Ma sin da allora era apparso evidente che il finanziamento del ciclo
serico stava ormai diventando un obiettivo da ricondurre alla logica del-
la banca d’affari, animata da intenti speculativi che valicavano le regole
imposte all’esercizio del credito commerciale da una raccolta di depositi
a breve.
30 A.M. GALLI, Gli scambi e le relazioni economiche interne e internazionali, ini A. COVA (a
cura di), Storia economica e sociale di Bergamo. Dalla fi ne del Settecento all’avvio dello Stato unitario, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, Bergamo 1994, pp.
271-274.31 P. BOLCHINI, Banche e banchieri a Bergamo nell’Ottocento, cit., p. 30.32 Per l’elenco dei soci fondatori delle due «compagini», ved. l’atto costitutivo della so-
cietà, rogato il 6 gennaio 1873 dal notaio Vincenzo Strambio di Milano, in Archivio
Fondazione Famiglia Legler, iscrizione n. 21.33 M. GELFI, L’Ottocento: il secolo della seta e del cotone, cit., p. 72.34 P. BOLCHINI, Banche e banchieri a Bergamo nell’Ottocento, cit., pp. 28-29.
CAPITALI E IMPRENDITORI SVIZZERI A BERGAMO 155
Era quanto del resto volevano i soci milanesi che dalla loro posizione
di nettissima maggioranza nella banca, si mostravano in grado di farla
valere in forza dell’elevata specializzazione finanziaria con la quale gio-
cavano il loro ruolo creditizio in campo serico. A tal punto da rendere gli
azionisti bergamaschi e quindi anche quelli elvetici che ne erano parte,
degli attori subordinati nella regolazione delle partite a debito e a credito
di loro afferenza, creando così le condizioni per spostare l’asse dei loro
stessi affari da Bergamo verso Milano.
Con questo non si vuole certo dire che sia stata solo la banca di cui
si parla a generare e alimentare una simile polarizzazione. Ma è un fatto
che vi ha certamente concorso. E così, mentre la vicenda di tale istituto
si dipanava tra alti e bassi, lasciando sempre più ai margini il ruolo dei
serici bergamaschi, si è assistito a una progressiva caduta di tono della
commercializzazione della seta sulla piazza orobica. Sino a che, proprio
ai primi del Novecento, capitava di leggere che mancava “ormai nella
nostra città e provincia ogni elemento di speculazione nell’articolo seri-
co, tutto essendo assorbito dalla troppo vicina Piazza di Milano”. Né è
da credere che si esagerasse nell’affermarlo. Coloro che lo dichiaravano
in modo così perentorio erano pur sempre i soci dell’accomandita “Giu-
seppe Agazzi e C. successori di Antonio F. Frizzoni” e quindi della ditta
che era stata tra le leader del settore per diversi decenni anche dopo la
metà dell’Ottocento. Erano peraltro ancora più espliciti quando aggiun-
gevano che
fino dal principio dell’anno 1902 abbiamo cessato d’esercitare il com-
mercio sia per nostro conto che per conto terzi (...) limitando le nostre
operazioni al solo esercizio dell’industria della filatura bozzoli nelle due
filande di Alzano Maggiore e Costa di Mozzate e cioè semplicemente
acquistando i bozzoli e vendendo la seta prodotta come si pratica da tutti
gli altri nostri colleghi35.
Non si deve per altro credere che il ridimensionamento in atto del ruo-
lo giocato dal complesso serico bergamasco rispetto a quello milanese
ne abbia messo in crisi gli operatori e in primis quelli che animavano
la comunità evangelica locale. Costoro hanno anzi continuato a resta-
re ai vertici della gerarchia della ricchezza radicata nella città orobica,
come dimostrano le dichiarazioni di successione elaborate a partire dal
35 Cfr. la comunicazione inviata il 6 febbraio 1904 alla camera di Commercio di Berga-
mo dal rappresentante di tale accomandita in AS BG, Fondo Camera di Commercio e
Industria, inventario 1811-1929, notifica al registro delle ditte n. 4010, b. 91, c/o Fon-
dazione Famiglia Legler.
156 ANGELO MOIOLI
1863 ed entro il 1915 dalla Licini36. Non per niente si rilevavano cifre
da primato per i Frizzoni (i più ricchi, in misura addirittura superiore a
quella che sarebbe stata denunciata per i Piazzoni, a cominciare dal loro
capostipite Giovanni Antonio)37. A distanza si collocavano, per importi
comunque ragguardevoli i Ginoulhiac, i Fuzier, gli Steiner, i Curò, i
Saluzzi, gli Zuppinger, i Mariton. Ma l’elenco potrebbe farsi più ricco e
articolato se si riuscisse a conoscere anche i dati dei soggetti per i quali
la cittadinanza straniera consentiva ai loro eredi di sottrarsi agli adem-
pimenti prescritti. A quanto pare tra costoro non si doveva annovera-
re Pietro Luigi Zavaritt, benché ancora cittadino svizzero38, in quanto
all’atto della sua morte nel 1877, una simile dichiarazione risulta rego-
larmente compilata39. Quando però ciò avveniva, era già passato molto
tempo dal momento in cui questi aveva cessato di essere un negoziante
serico. Succeduto infatti al padre Ambrogio dopo la sua scomparsa nel
1832, aveva continuato a gestire l’azienda ereditata insieme al fratello
Giovanni Zaccaria. Alla morte di questi nel 1840, ne era diventato l’u-
nico titolare, fino a che, superata la metà dell’Ottocento, aveva deciso
di mettere in liquidazione la propria ditta. Come avrebbe dichiarato nel
1857, egli non era più ormai “nel commercio”, avendo tra l’altro prov-
veduto a collocare i propri capitali “presso una casa di commercio di
qui”40. In compenso era apparso intento a consolidare ed estendere il
patrimonio fondiario di famiglia che già il padre aveva iniziato a formare
fin dai tempi della seconda Cisalpina41.
36 S. LICINI, Élites e patrimoni in città (1862-1915), in V. ZAMAGNI - S. ZANINELLI (a cura
di), Storia economica e sociale di Bergamo. Fra Ottocento e Novecento. Tradizione e innova-zione, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, Bergamo 1997, pp.
279-281.37 Si consideri che per Antonio (junior) Frizzoni, morto il 3 marzo 1876, il patrimonio
era stimato in 2.115.322 lire, quando per Giovanni Antonio Piazzoni, l’esponente più
ricco tra i setaioli di estrazione locale, all’atto della morte avvenuta l’8 maggio 1886, la
relativa denuncia giungeva a 2.019.979 lire.38 La sua richiesta per restare suddito svizzero era stata inoltrata nel 1836, ved. AS BG, F.
Imperial Regia Delegazione, c. 1818.39 Alla sua morte, sopraggiunta il 15 dicembre 1877, gli si imputava infatti un patrimo-
nio di 386.861 lire.40 Un suo appunto al riguardo recava la data del 28 febbraio 1857 e risultava annotato
nel registro già citato sui «Bilanci» tra il 1833 e il 1857, conservato in AZ.41 Il nucleo maggiore di detto patrimonio era stato acquistato infatti da Ambrogio Za-
varitt quando, tra il 5 e il 6 marzo 1801, insieme allo zio Lucio Moeli, aveva partecipato
all’acquisto di ben 1789 pertiche confiscate alla Mensa vescovile bergamasca in quel
di Gorle, alle porte della città. Ne era stato il tramite Francesco Luigi Blondel allora
«agente dei beni nazionali» in sede locale e l’operazione era costata agli acquirenti la bella
somma di 428.000 lire, per altro liquidata entro il maggio di tale anno. Se ne veda la
CAPITALI E IMPRENDITORI SVIZZERI A BERGAMO 157
Sembrava quasi che la proprietà terriera fosse diventata per lui l’inve-
stimento da privilegiare come reale alternativa all’esercizio dell’attività
mercantile in campo serico. Ma se così era stato per lui, non altrettanto si
poteva dire per il figlio Giovanni Pietro suo erede. Questi, pur restando
nel solco della scelta paterna e quindi confermando la propria estraneità
alla commercializzazione della seta, avrebbe ugualmente inaugurato una
nuova stagione imprenditoriale in ben altra direzione, dapprima entran-
do nel 1878 nella Società Italiana dei cementi e calci e poi nel 1885 fon-
dando e presiedendo a Trieste la Società Austro-Italiana del Cemento,
ulteriormente capitalizzata nel 1903 e trasformata poi nel 1907 nella
anonima Cemento Portland dell’Adriatico con sede legale a Bergamo42.
Il suo primogenito, Giulio Pietro, avrebbe poi mostrato una capacità
di iniziativa anche maggiore perché mentre dava un rinnovato impulso
all’investimento fondiario della propria casata e alla sua valorizzazione,
si adoperava per far confluire nel 1926 la Cemento Portland appena
ricordata nell’Italcementi diventandone consigliere d’amministrazione43
e nel contempo si impegnava anche altrimenti nel settore industriale,
contribuendo alla formazione di numerose nuove imprese e non solo del
ramo immobiliare e termale, ma anche di quello bottoniero, canapiero,
grafico e persino elettrico44.
Del resto per differenziare gli impieghi e le posizioni di reddito che vi
erano connesse non era necessario fare come gli Zavaritt e abbandonare
perciò il finanziamento del ciclo serico proprio mentre trovava conferma
una “persistente netta preferenza per l’investimento immobiliare”45. Si
poteva se non altro associare la negoziazione della seta alla lavorazio-
ne del cotone. Avevano operato da battistrada in tal senso due fratelli
provenienti da Männedorf nel cantone di Zurigo, Giovanni e Giaco-
documentazione nei rogiti compilati al riguardo da Francesco Carrara in AS BG, Fondo
Notarile, c. 12665.42 Archivio Camera di Commercio e Industria di Bergamo (d’ora in poi ACCI BG), Regi-
stro Ditte, n. iscrizione 48, in data 31/05/1925, c/o Fondazione Famiglia Legler (d’ora
in poi F.F. Legler).43 Ibidem. Ma cfr. anche G. SUBBRERO, La grande avventura del cemento (1864-1964), in V.
ZAMAGNI - S. ZANINELLI (a cura di), Storia economica e sociale di Bergamo. Fra Ottocento e Novecento. Il decollo industriale, cit., p. 242.44 Partecipava così alla costituzione del Canapificio Bergamasco, delle Officine Trasfor-
matori Elettrici, delle Officine Elettrochimiche Trentine, della Carrozzeria Bergamasca,
dell’Industria Italiana Bottoni e di una ditta del ramo come la Corozite, delle Arti Gra-
fiche e delle Terme di Trescore (per le schede relative si rinvia a ACCI BG, in Registro
Ditte, c/o F.F. Legler).45 Così almeno si dichiarava convinto che fosse N. CREPAS, Seta e cotone: due traiettorie divergenti, cit., p. 112.i
158 ANGELO MOIOLI
mo Zuppinger. Il primo, come già si è ricordato, era a Bergamo fin dal
1821, dove in società con Giovanni Sieber, aveva avviato un negozio
che associava il commercio alla filatura di seta e suoi cascami, destinato
a un durevole successo. Nel 1828 era stato raggiunto da Giacomo che
anche con il suo sostegno aveva aperto in città una filatura meccanica
di cotone, la prima del Bergamasco. Che vi avesse parte anche il fratello
è dimostrato dal fatto che nel 1843 questi, insieme al Sieber appena
nominato, era annoverato tra i soci dell’impresa. E così sarebbe stato
anche dopo che quest’ultima nel 1848 si era ulteriormente potenzia-
ta, dotandosi di una tessitura meccanizzata dedita alla fabbricazione su
vasta scala di fustagni e telerie, in sede bensì disgiunta da quella della
filatura, ma pur sempre collocata allo stesso modo entro il perimetro
cittadino46. L’integrazione tra i due piani dell’azione industriale intrapre-
sa dagli Zuppinger a Bergamo si era poi ancor più consolidata quando
nel 1849 Giovanni, il figlio di Giacomo, aveva sposato Caterina, la figlia
dello zio Giovanni47. Dopo di che l’intreccio degli assetti proprietari sul
fronte serico-cotoniero sarebbe rimasto tale fino al 1857, quando la dit-
ta assumeva la denominazione «Zuppinger G.G.»48. La scomparsa poi
nel 1860 del fondatore di tale cotonificio aveva imposto un ulteriore
cambiamento di rotta. Si era infatti aperta allora una fase di riorganiz-
zazione aziendale che si sarebbe risolta in modo da separare nettamente
la sfera di iniziativa in campo cotoniero da quella invece esercitata nel
ramo serico. Nella prima direzione la titolarità dell’impresa insieme alla
proprietà degli impianti sarebbe allora passata al figlio primogenito del
defunto (recante il suo stesso nome), sotto la denominazione sociale di
«Zuppinger Giovanni Giacomo e C.», come risulterebbe dalla denuncia
presentata alla C. di Commercio nel 186449. Né è da credere che le diffi-
coltà sopravvenute circa il rifornimento del cotone a seguito della guerra
di secessione americana avessero inciso in modo particolarmente pesan-
te sugli equilibri aziendali. Tant’è che mentre perduravano le difficoltà di
mercato connesse con la mancata provvista di tale materia prima si era
deciso, nel 1866, di aggiungere alla filatura già esistente un’altra del tut-
to nuova collocata questa volta fuori città, a Torre Boldone50. Sembrava
che tutto andasse per il meglio, se non per effetto degli effetti protezioni-
stici introdotti con il corso forzoso nel 1866, in seguito ai nuovi spazi di
46 M. GELFI, Capitali svizzeri e nascita dell’industria cotoniera a Bergamo, in «Archivio Sto-
rico Bergamasco», Bergamo, n.s., 15 (1995), 3, pp. 11-12.47 Ibi, p. 9.i48 ACCI BG, Registro Ditte, n. iscrizione 2096, in data 1/03/1857, c/o F.F. Legler.49 ACCI BG, Registro Ditte, n. iscrizione 3086, in data 13/08/1864, c/o F.F. Legler.50 M. GELFI, Capitali svizzeri e nascita dell’industria cotoniera a Bergamo, cit., pp, 11-12.
CAPITALI E IMPRENDITORI SVIZZERI A BERGAMO 159
mercato creati seppur temporaneamente con la guerra franco-prussiana
nel 1870-7151. E anzi l’impresa si stava dimostrando in grado di reggere
pienamente il confronto con le iniziative che nel frattempo altri concor-
renti, pur essi di provenienza elvetica, andavano intraprendendo anche
in quello stesso territorio. Non era tuttavia così perché, a fronte di nuo-
vi e ingenti investimenti in seguito compiuti, il sopraggiungere di una
crisi di sistema come quella dei primi anni ’80, aveva messo alle corde
l’azienda, soprattutto a motivo dei crediti accumulati e rimasti inevasi
sulle piazze del Mezzogiorno da essa più frequentate52. Ne era scaturi-
to uno stato di progressiva insolvenza, fronteggiato con l’accensione di
prestiti rivelatisi molto onerosi53. La messa in liquidazione della ditta si
era infine resa inevitabile, sfociando nel 1884 in un definitivo passaggio
di mani della proprietà, ceduta allora a Enrico Solivo, un cotoniere di
Männedorf, concittadino del titolare e questi, di lì, a qualche anno e
più precisamente nel 1888, l’avrebbe rivenduta a Giovanni Reich suo
procuratore, messo in grado di poterne sostenere l’onere, non certo da
poco, grazie al mutuo ottenuto da una casa bancaria berlinese54. La fun-
zionalità produttiva di quel cotonificio era stata così fatta salva, ma or-
mai sotto altro nome e senza peraltro che vi si potesse ravvisare un caso
di investimento diretto andato a buon fine.
Forse non si sarebbe giunti a tanto se si fosse verificato, nel momento
più difficile attraversato dall’azienda, un intervento risanatore da parte
della componente familiare rimasta impegnata sul versante serico. Ma
non ce n’era stato il tempo. Colui che l’aveva fatta crescere sin dalle ori-
gini, vale a dire il fratello Giovanni, era bensì riuscito a rendersi artefice
di una avventura imprenditoriale tra le più significative del Bergamasco,
ma questa si era conclusa nel 1867 con la sua morte. Il figlio Edoar-
do aveva pur mostrato di saperla continuare e sviluppare, diventando
esponente di primo piano di quel nuovo ceto serico locale che stava
mettendo fine all’esercizio di un ruolo mercantile disgiunto da quello
51 ID., L’Ottocento: il secolo della seta e del cotone, cit., p. 116.52 Si vedano le considerazioni in merito agli «Investimenti onerosi e la crisi» della ditta
Zuppinger G.G. sviluppate nel sito www.perfiloepersegni.it del Museo Storico di Ber-
gamo.53 Nel marzo del 1884 era avvenuta l’accensione di due mutui: l’uno di 300 mila lire
dalla possidente svizzera Anna Bazzingher di Bergamo e l’altro di 1.200.000 dalla ditta
milanese Turati e Ponti (M. GELFI, Capitali svizzeri e nascita dell’industria cotoniera a Bergamo, cit., p. 30).54 Si trattava della Berliner Handelsgesellschaft e il prestito era stato di 314.700 lire (ID.,
L’Ottocento: il secolo della seta e del cotone, cit., p. 122).
160 ANGELO MOIOLI
industriale55. E in tale veste era anche riuscito a farsi nominare nel 1873
– lo si è appena accennato – primo presidente della Banca Bergamasca
di depositi e conti correnti56. Tuttavia nel 1879 la sua ascesa economica
aveva subito una brusca quanto inattesa interruzione57, rendendo del
tutto improbabile ormai l’esistenza di un qualche margine di manovra
nella direzione ipotizzata del salvataggio.
Vi era stato nel frattempo un altro tentativo di interconnettere all’at-
tività serica quella cotoniera e a compierlo era stato nel 1869 Giovanni
Stampa appartenente a una famiglia di commercianti di seta della Val
Bregaglia, da tempo insediatisi a Bergamo. Costui allora, proprio men-
tre subentrava ai fratelli Mariton nell’esercizio di una filanda e di un
filatoio in campo serico, si era messo in società con il glaronese Nicola
Schönenberger che fin dal 1860 aveva impiantato una piccola tessitura
a mano del cotone in città. Il capitale, diviso a metà, si era limitato a un
importo modesto, pari a 20 mila lire e tale sarebbe rimasto fino al 1876
quando era passato a 100 mila lire, ma riferito questa volta a una acco-
mandita che sotto la ragione sociale Schönenberger Muller e C. vedeva
lo Stampa impegnato come accomandante per una cifra di 30 mila lire58.
La nuova ditta aveva ora due piccole tessiture, l’una meccanizzata e l’al-
tra ancora a mano, situate in locali presi in affitto a Deste e a Seriate, ma
nel complesso la sua esistenza si era rivelata da subito piuttosto stentata.
Essa era tuttavia continuata fino al 1882 quando lo Stampa era fallito59
e non certo a motivo della sua partecipazione a questo sodalizio. Erano
stati infatti i rovesci subiti dalla azienda serica di famiglia a renderlo
insolvente60, costringendolo tra l’altro ad abbandonare la carica di mem-
bro del consiglio di amministrazione della Banca Bergamasca di Depo-
siti e Conti Correnti. Dopo di che agli altri due soci non era rimasto che
sciogliere la loro società con lui61.
Anche questa vicenda si era dunque risolta a conferma della impra-
ticabilità da parte degli stessi svizzeri e comunque di altri loro correli-
gionari, di un percorso imprenditoriale che facesse della seta una fonte
55 C. BESANA, Esperienze imprenditoriali nel Bergamasco tra restaurazione e primi decenni postunitari, ini A. COVA (a cura di), Storia economica e sociale di Bergamo. Dalla fi ne del Settecento all’avvio dello Stato unitario, cit., pp. 181. 199. 56 Cfr. nota 31 del testo.57 C. BESANA, Esperienze imprenditoriali nel Bergamasco, cit., p. 199.58 ACCI BG, Registro Ditte, n. iscrizione 3362, in data 25/04/1876, c/o F.F. Legler.59 Ibi, n. iscrizione 3367, in data 14/06/1876, c/o F.F. Legler.60 M. GELFI, L’Ottocento: il secolo della seta e del cotone, cit., pp. 103-104.61 Cfr. le iscrizioni n. 3292 del 12/11/1873 e la cit. iscrizione del 14/06/1876, in ACCI BG,
c/o F.F. Legler.
CAPITALI E IMPRENDITORI SVIZZERI A BERGAMO 161
cumulativa di reddito tale da generare, se non altro per contaminazione,
lo sviluppo del cotonificio nell’area bergamasca. Può anche darsi che vi
sia stata, come si è sostenuto, una maggiore “effervescenza economica”
recata nell’ambiente dalla “presenza di larghe quote del sovrappiù serico
di appannaggio degli svizzeri”. Ma un conto è ammettere questo e un
altro è desumerne “l’esistenza di un nesso diretto tra capitali serici ac-
cumulati in precedenza e successivo sviluppo dell’attività cotoniera” in
sede locale62. In effetti le verifiche appena compiute sembrano attestare
che “il ruolo primigenio ivi svolto dall’attività in campo serico” abbia
condotto soltanto a delle false partenze in ordine al decollo di tale ramo
tessile. Non era preclusa però la possibilità che per altra via si giungesse
ugualmente a un simile risultato. E sarebbero stati allora di nuovo degli
svizzeri a rendersene protagonisti. Ma questa volta non si trattava certo
di imprenditori che per essere tali dovevano ancora passare attraverso
una lunga fase di adeguamento tecnico-organizzativo oltre che di ac-
cumulazione del capitale, così come in effetti continuava a succedere
ai mercanti imprenditori del settore operanti in altri distretti cotonieri
lombardi63. Semplicemente perché non erano più come loro alle prime
armi, essendo il più delle volte partecipi, nelle località da cui proveniva-
no, di esperienze industriali condotte in quello stesso ramo tessile, il più
delle volte inseriti a vario titolo nella proprietà delle rispettive aziende.
Ciò consentiva di far coincidere il loro nuovo insediamento con la realiz-
zazione di impianti meccanizzati dei più avanzati, attingendo per questo
a capitali propri o comunque anche dei soci acquisiti a vario titolo nei
luoghi di partenza. Diventava per altro altrettanto agevole per loro, gra-
zie alle garanzie che erano in grado di offrire, l’accedere a ulteriori risor-
se finanziarie ricorrendo a canali del credito informale, ma non meno a
quelli invece istituzionalizzati64.
E così quando nel 1867 Gioacchino Zopfi del cantone di Glarona
giungeva a Ranica per aprirvi una filatura di cotone che affiancava l’a-
nalogo, anche se più potente, impianto avviato da Giacomo Zuppinger a
Torre Boldone l’anno prima, poteva ben farlo ricorrendo, a quanto pare,
62 N. CREPAS, Sistema di famiglia, efficienza e rischio d’impresa: i primi quarant’anni di at-tività della Legler a Ponte San Pietro, in «Fondazione Assi. Annali di storia d’impresa»,
Bologna, 8 (1992), p. 478.63 M. GELFI, Capitali svizzeri e nascita dell’industria cotoniera a Bergamo, cit., p. 20.64 ID., L’Ottocento: il secolo della seta e del cotone, cit., p. 88. Sulla persistente importanza
del ricorso al credito informale rispetto a quello formalizzato delle banche insiste a ra-
gione G. DE LUCA, Credito informale versus credito bancario a Milano nei primi quattro de-cenni dell’Ottocento, in G. CONTI - A. BIANCHI - D. MANETTI (a cura di), Studi in memoria di Tommaso Fanfani, Pacini, Firenze 2013, pp. 1-2.i
162 ANGELO MOIOLI
a capitali della sua stessa famiglia. Solo nel 1870, per ampliare lo stabi-
limento e per dotarlo di apparati meccanici più sofisticati, era ricorso a
un prestito di una certa entità contratto presso gli industriali e banchieri
Ponti65. Non si danno del resto altre tracce di finanziamenti esterni in
occasione degli interventi di ulteriore potenziamento e miglioramento
tecnico degli impianti da lui compiuti nel 1877 e nel 1880 e tutto lascia
credere che egli vi abbia fatto fronte per via di autofinanziamento. La
sua è del resto rimasta una ditta individuale fino al 1889 quando, poco
prima della sua morte, la trasformava in una società in nome collettivo
a lui intestata, alla quale vendeva gli immobili posseduti, compresi lo
stabilimento e le sue attrezzature. Il relativo capitale, pari a 1 milione
di lire, era ripartito in modo tale che soci di maggioranza diventassero i
fratelli, pur essi glaronesi, Alfredo e Pietro Tschudy66, con cui il titolare si
era intanto imparentato. E poiché questi non si sarebbero certo trasferiti
da Schwanden dove avevano l’azienda cotoniera di famiglia, era previsto
che gerente unico della nuova ditta diventasse Jost Luchinger, pure lui
fattosi socio dopo essere stato a lungo procuratore dello Zopfi67. Si confi-
gurava così un riassetto organizzativo che potrebbe anche far pensare al
realizzarsi di una centralizzazione dei processi decisionali a tutto favore
dell’impresa di riferimento in terra svizzera e come tale riconducibile a
un processo tipico dell’investimento diretto.
Nel qual caso si sarebbe assistito al riprodursi di una situazione ana-
loga a quella recentemente studiata con riferimento alla Legler Hefti e
C., una accomandita artefice del grande opificio di filatura e tessitura
fatto sorgere con il 1875 a Ponte S. Pietro. È stata infatti dimostrata la
sua persistente dipendenza dalla casa madre, la J.M. Legler di Diesbach,
in merito alle scelte che riguardavano “sia la sfera decisionale strategica,
sia quella della gestione corrente”68. E così va a maggior ragione ribadito
in ordine ai rapporti con il mercato dei capitali che per la ditta di Ponte
San Pietro sono stati particolarmente ampi e articolati. Essi si sono in-
fatti resi tali per il costante intervento della società sua referente, in vista
non solo dell’ottenimento dei prestiti maggiori, garantiti attingendo al
proprio patrimonio, ma anche del conseguimento di adeguate coperture
65 M. GELFI, Capitali svizzeri e nascita dell’industria cotoniera a Bergamo, cit., p. 12. L’in-
debitamento non aveva però superato le 200 mila lire.66 Se ne veda l’atto costitutivo rogato il 18 maggio 1889 da Giovanni Dolci di Bergamo,
in ACCI BG, Registro Ditte, inventario 1811-1929, n. iscrizione 3813, b. 90.67 M. GELFI, Capitali svizzeri e nascita dell’industria cotoniera a Bergamo, cit., pp. 32-33.68 N. CREPAS, Sistema di famiglia, efficienza e rischio d’impresa: i primi quarant’anni della Legler a Ponte San Pietro, cit., pp. 486-487.
CAPITALI E IMPRENDITORI SVIZZERI A BERGAMO 163
bancarie ai fabbisogni di credito a breve69. Intrecci finanziari sempre più
stabili si sono così instaurati specialmente con la Banca di Winterthur
e con la Banca Bergamasca di depositi e conti correnti già richiamata.
Quest’ultima in particolare ne ha tratto dei vantaggi dal punto di vista
operativo, come dimostra la vicenda del mutuo di 350 mila lire concesso
nel 1877 alla Legler Hefti dalla Banca di Winterthur con il suo con-
corso e a patto che la ditta mutuataria ne usufruisse per interposizione
di quell’Antonio Reusch originario di San Gallo che vi fungeva da di-
rettore70. Essa non era ancora la banca dei cotonieri locali, ma lo stava
diventando e anche questa operazione lo dimostrava; molto di più di
quanto potesse farlo la presenza tra i suoi consiglieri della prima ora di
due industriali del ramo come Augusto Tobler della Tobler Wismer e C.
da una parte e Giulio Guttinger della Caprotti e Guttinger dall’altra71.
Lo stesso istituto di credito non deve essere stato estraneo neppure
alla costituzione della società in nome collettivo Spoerry e C. avvenuta
sempre in quell’anno, se risulta che lo stesso Reusch in qualità di suo
direttore, ne è stato parte attiva72. Nel qual caso verrebbe da associare
un simile intervento al realizzarsi di una iniziativa che sembrava pur
essa impostata secondo i canoni dell’investimento diretto. Questa infatti
nasceva come proiezione del cotonificio Gaspar Spoerry di Zurigo, “in
rappresentanza” del quale operavano come soci al suo interno Alberto
Spoerry che ne era il direttore e Alberto Hurlimann che nel 1885 ne
sarebbe diventato il contitolare73.
Ma se anche così fosse, ciò non dovrebbe comunque indurre a cre-
dere che, con o senza l’intervento della Banca Bergamasca, fosse in atto
una inversione nella direttrice di marcia lungo la quale, tra il 1875 e il
1877, si era verificata la maggior concentrazione di iniziative svizzere
cotoniere nel Bergamasco74. In effetti si stava pur sempre operando nella
69 Ibidem, p. 492.70 M. GELFI, Capitali svizzeri e nascita dell’industria cotoniera a Bergamo, cit., pp. 18-19.71 Il primo era rimasto nel CDA della banca dal 1876 al 1891, mentre il secondo ne
diventava il vicepresidente nel 1889 (O. TERZI, La Banca Bergamasca di Depositi e Conti Correnti 1873-1892. Un’esperienza di banca universale. Tesi di Laurea in Economia, Uni-
versità degli Studi di Bergamo, a.a. 1994-1995).72 Non era certamente un caso che costui partecipasse alla stipulazione del contratto,
seppure in sostituzione dell’assente Giacomo Wirth, uno della cordata dei cinque soci
coinvolti nella fondazione della ditta (ved. M. GELFI, Capitali svizzeri e nascita dell’indu-stria cotoniera a Bergamo, cit., p. 20).73 Cfr. C. BESANA, Esperienze imprenditoriali nel Bergamasco tra Restaurazione e primi de-cenni postunitari, cit., p. 213 con i M. GELFI, L’Ottocento: il secolo della seta e del cotone, cit.,
pp. 115-116.74 M. GELFI, Capitali svizzeri e nascita dell’industria cotoniera a Bergamo, cit., p. 13.
164 ANGELO MOIOLI
logica del puro e semplice trasferimento di capitali e capacità mana-
geriali già stata sottolineata per gli insediamenti del ramo di analoga
provenienza in Piemonte75. Né si poteva cancellare l’evidenza di quanto
si sarebbe verificato, sempre nella provincia orobica, durante gli anni
Ottanta del secolo, quando alle imprese svizzere se ne erano affiancate
altre di matrice non più straniera ma neppure locale, aventi il loro centro
propulsivo a Milano, sino addirittura a integrarsi con esse. Quest’ultima
eventualità si era verificata in modo esemplare con la costituzione tra il
1888 e il 1889 di due società anonime: il Cotonificio della Valle Seriana
e il Cotonificio Bergamasco76. Entrambe avevano visto bensì primeg-
giare alcuni tra i maggiori esponenti del cotonificio nostrano operanti
a Milano, quali Alberto e Edoardo Amman, Federico Mylius, Giuseppe
Frua, Paolo Muggiani, Enrico Taroni, ma pur sempre in quanto associa-
ti con alcuni imprenditori elvetici che si erano stabiliti di recente in Val
Seriana, realizzandovi impianti in grado di sfruttare al meglio, anche per
le dotazioni tecniche di cui si avvalevano, i vantaggi localizzativi insiti in
quei loro insediamenti. L’obiettivo era stato allora quello di poter usu-
fruire delle relative installazioni a vantaggio delle imprese societarie di
cui i loro intestatari erano diventati membri. Si poteva per questo anche
prenderne in affitto gli stabilimenti, come in effetti era avvenuto inizial-
mente per gli apparati di filatura e tessitura situati tra Cene e Gazzaniga,
affittati al Cotonificio della Val Seriana da Federico Widmer e dal co-
gnato Rodolfo Walty, dopo esserne diventati soci (e quest’ultimo anche
vicepresidente)77. Per la verità il primo, in quanto erede della filatura
paterna, aveva potuto farlo dopo che aveva liquidato nel 1887 ai suoi
fratelli Rodolfo e Giacomo le rispettive quote di proprietà dell’azienda
di famiglia. Ma questo non aveva posto particolari problemi e così i tito-
lari rimasti dei due opifici avevano proceduto a cederli alla nuova società
entro l’ottobre del 1891. Il prezzo allora pattuito per tale conferimento
non si conosce, ma deve essere stato piuttosto rilevante, anche tenuto
conto del fatto che le potenzialità dimensionali degli impianti stimate
nel 1877 all’avvio di entrambe le ditte erano tutt’altro che modeste78 e
considerato che si trattava pur sempre di acquisizioni compiute da parte
di una società sorta per operare su vasta scala come le era consentito dal
fatto di avere un capitale sociale nell’ordine di 4 milioni di lire versato
75 F. BOVA, L’industria cotoniera piemontese fi no al 1914, in P. HERTNER, Investimenti, tecno-logie e capitale umano di origine straniera tra ’800 e ’900, cit., pp. 11-30.76 M. GELFI, I cotonieri svizzeri a Bergamo tra il 1867 e il 1888, in «Padania», cit., pp. 42-43.77 ID., Capitali svizzeri e nascita dell’industria cotoniera a Bergamo, cit., pp. 31-32.78 Come è possibile verificare nelle note sul «Cotonificio della Valle Seriana» pubblicate
sul sito www.perfiloepersegni.it del Museo Storico di Bergamo.
CAPITALI E IMPRENDITORI SVIZZERI A BERGAMO 165
da subito per 1.200.00079. Una misura indicativa del costo di una opera-
zione come questa la si può comunque ricavare prendendo in esame la
vendita al Cotonificio Bergamasco avvenuta allo stesso titolo il 3 maggio
1889, della tessitura gestita a Ponte Nossa da Alfredo Zopfi in accoman-
dita con Giacomo Trümpy, dopo che ambedue ne erano diventati soci.
Composto di 400 telai, il complesso era stato rilevato da detta società
per un milione e mezzo di lire80.
Cifre come queste presupponevano da parte svizzera apporti di ca-
pitale che se anche non riconducibili a investimenti diretti, non sembra
opportuno definire “contenuti”81 e che dovevano quindi trovare un’a-
deguata copertura, senza tuttavia poterla ottenere soltanto dai processi
cumulativi di finanziamento interni alle imprese in grado di alimentarli.
Né è da escludere che, fermi restando i motivi di convenienza in base ai
quali, nei due casi esaminati, le società in questione avevano deciso di
addivenire all’acquisto di tali opifici, ciò sia avvenuto proprio perché i
soci intestatari non erano riusciti a fronteggiare altrimenti i gravosi im-
pegni finanziari assunti.
79 M. GELFI, Capitali svizzeri e nascita dell’industria cotoniera a Bergamo, cit., p. 31.80 ID., L’imprenditoria svizzera e l’industria cotoniera bergamasca, cit., p. 176.81 P. HERTNER, Introduzione in P. HERTNER, Investimenti, tecnologie e capitale umano di ori-gine straniera tra ’800 e ’900, cit., p. 9.
Materiali
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 169-176
Pensieri paralleli sul cittadino: Bodin e ConstantCARLO CARINI
Abbiamo due momenti teorici, in epoca moderna, in cui due importanti
scrittori politici, certo ben distanziati fra loro e con finalità divergenti se
non opposte, ma con argomentazioni in parte simili, hanno preso una
chiara posizione per distinguere il cittadino moderno dal cittadino antico.
Mi riferisco a Jean Bodin e a Benjamin Constant. Sulla questione in-
tervenendo, l’uno, già nel capitolo VI, paragrafi 5 e 6 della Methodus ad facilem historiarum cognitionem, pubblicata a Parigi in prima edizione nel
1566 e nel 1572 in seconda. Straordinario capitolo, come si sa, dedicato
a «Gli ordinamenti degli Stati» (De statu Rerumpublicarum). Delineando,
l’altro, con ancora maggior nettezza il problema – almeno per noi con-
temporanei – nel celebre Discours, letto all’Athénée Royal nel 1819 e
pubblicato nel 1820.
Ora, non è per nulla trascurabile, anzi è altamente rilevante per la
formazione storica della scienza politica moderna che Bodin e Constant
considerino il raffronto cittadino antico/cittadino moderno come uno dei
punti da cui partire per una più larga riflessione sull’ordinamento degli
Stati e le forme di governo (Bodin avrebbe dato alle stampe di lì a qual-
che anno la République, laddove Constant proveniva da una serie piutto-
sto copiosa di scritti già pubblicati, oltre che da un lavoro decisamente
esteso intorno ai Principes de politique applicables à tous les gouvernements[1806-1810]). Ma qui vorrei limitarmi a tracciare, in breve sintesi, i ri-
spettivi quadri teorici, che hanno, come dicevo, significativi elementi di
contatto, pur in situazioni ideologiche molto distanti.
A Bodin, pur convinto dell’utilità di partire, nella conoscenza delle
cose, dall’unità più piccola per arrivare alla dimensione più grande (le
istituzioni politiche intese come sistema), la definizione aristotelica o
greca di cittadino, ancorché suggestiva, appare superata, ambigua e di
fatto inutilizzabile ai fini dell’affermazione di un concetto di sovranità
che vada bene per i moderni. Ai quali serve, per la grandezza e la forza
che vanno assumendo gli Stati, che essa sia assoluta, indivisibile e per-
petua.
Scrive Bodin, in un passo all’inizio del paragrafo 5, che citiamo per
intero:
170 CARLO CARINI
Aristotele definisce il cittadino in base alla facoltà di partecipare a pro-
cessi, magistrature e decisioni, una definizione che riconosce essere adat-
ta soltanto a regimi di tipo popolare. Ma siccome la definizione deve
essere adatta a tutti i casi, a giudizio di Aristotele non vi sarebbe altro
cittadino che quello nato ad Atene all’epoca di Pericle: tutti gli altri, es-
sendo esclusi dai pubblici onori, dai processi e dalle decisioni d’interesse
pubblico, erano esuli e forestieri nella loro stessa città. Come la mettiamo
allora con l’imperatore Antonino, il quale promulgò una legge con cui
stabilì che tutti gli uomini <liberi> all’interno della monarchia romana
erano cittadini romani? Questi, se diamo retta ad Aristotele, avrebbero
dovuto essere forestieri, dal momento che era stato abolito il regime po-
polare. È impossibile non vedere quanto simili idee siano assurde e dan-
nose per le comunità politiche, e quanto assurde siano le conseguenze
che ne derivano. Tale opinione di Aristotele ha tratto in errore Contarini,
Sigonio, Garimberto e moltissimi altri; e non c’è dubbio che abbia offer-
to a numerose comunità un ottimo pretesto per scatenare guerre civili1.
Non basta: occorre proseguire nella lettura di Bodin, portandoci all’ini-
zio del par. 6:
Ma che succede se questa descrizione che Aristotele dà del cittadino non
si addice neppure agli Stati popolari? In effetti, ad Atene, che si dice fosse
in assoluto lo Stato più popolare, la quarta classe [quarta classis infi mo-rum] – quella degli ultimi, dei più umili, vale a dire la stragrande mag-
gioranza della popolazione – era esclusa dai pubblici onori, dal Senato e
dal sorteggio per le magistrature in virtù di una legge di Solone, stando
a quanto scrive Plutarco2.
Questi brani sono estremamente significativi, tanto più se letti insieme
alla frase, espunta dall’edizione del 1572 della Methodus, ma presente in
quella originaria del 1566, in cui Bodin scriveva:
Del resto, che cosa impedisce che in una monarchia e in un’aristocrazia
siano tutti cittadini esattamente come in una democrazia, visto che per
volere del principe, tanto quanto degli ottimati o del popolo, le magistra-
ture e i posti di comando possono essere attribuiti a turno a tutti?3.
Credo che dall’insieme di tali proposizioni di un pensiero in sviluppo,
com’è quello di Bodin tra 1566 e 1576, sia possibile ricavare i seguenti
punti:
1 J. BODIN, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, S. MIGLIETTI (a cura di), Edizioni
della Normale, Pisa 2013, p. 355.2 Ibidem.3 Ibi, n. 17.i
PENSIERI PARALLELI SUL CITTADINO: BODIN E CONSTANT 171
a) È quanto meno inesatto il considerarsi in scienza politica (civilis disci-plina) un metodo di comparazione delle forme di Stato che faccia di un
caso particolare (l’Atene di Pericle) un modello generale di riferimento
per stabilire, nella fattispecie, che cosa debba intendersi per cittadino;
b) È del tutto discutibile poi l’attribuzione al regime ateniese dei caratteri
della vera democrazia, quando ad essere esclusi dalla partecipazione e
dalle cariche pubbliche in quel tempo erano proprio le classi inferiori,
cioè la «stragrande maggioranza della popolazione» [senza dire degli esu-
li, per i quali varrebbe il parallelo con i brani del Discours di Constant
dedicati all’ostracismo: prova per eccellenza dell’asservimento dell’indi-
viduo alla «supremazia del corpo sociale»];4
c) Molto più disponibili ad assicurare i diritti ai propri cittadini (e quindi
più inclusive) potrebbero rivelarsi in effetti le monarchie, se ben avver-
tite, come osserva anche Constant, «di non prendere a prestito dalle re-
pubbliche antiche dei mezzi di opprimerci»;5
d) Perciò, non dipende dall’essere necessariamente in democrazia il go-
dimento dei diritti da parte del cittadino, perché in qualsiasi regime egli
potrebbe goderne, se il vero sovrano lo volesse.
Il quadro teorico viene però a completarsi con un ulteriore ed impor-
tante punto, se mettiamo in connessione fra loro i brani, sempre dei
paragrafi 5 e 6, in cui Bodin, da un lato, come abbiamo visto, riprende
la definizione aristotelica del cittadino (ateniese) che partecipa a proces-
si, magistrature e decisioni, e, dall’altro, sottolinea la definizione che il
filosofo antico dà del magistrato: «Aristotele – scrive l’autore della Me-thodus – definisce il magistrato in base a tre elementi: potere di coman-
do, potere giurisdizionale e diritto di prendere decisioni».6 Il che, come
quantità di potere nelle mani di chi governa, sembrerebbe troppo anche
per un monarca regio dei tempi moderni, sempre bisognoso, secondo
Bodin, degli Stati generali e dei Parlamenti per non esporsi all’accusa di
comportarsi come un tiranno. Figuriamoci per un cittadino in democra-
zia, che verrebbe in tal caso a concentrare nelle proprie mani il potere
del legislatore, il potere di esercitare giustizia, nominare magistrati ed
essere egli stesso magistrato. Ci troveremmo, per dirla in gergo corrente,
di fronte ad un cittadino “totale” o “globale”, che aprirebbe la strada ad
una forma di dispotismo tanto improbabile quanto pericolosa per chi
4 B. CONSTANT, De la liberté des anciens comparée à celle des modernes. Discours prononcé à l’Athenée royal de Paris en 1819, tr. it., La libertà degli antichi paragonata a quella dei moder-ni, con Pref. di i D. COFRANCESCO, RCS, Milano 2010, pp. 28, 36-39.5 Ibi, p. 41.i6 J. BODIN, Methodus, cit., p. 135.
172 CARLO CARINI
immagina che uno «Stato bene ordinato» si ottiene solo con una distri-
buzione sociale armonica delle competenze e delle funzioni pubbliche.
La realtà moderna esige chiarezza e occorre seguire un filo razionale
per organizzare la gerarchia di un ordinamento politico che risponda alle
prescrizioni di una corretta «scienza del governo dello Stato» (Reipublicaemoderandae scientia). Il rischio, se no, è di finire nella confusione e nelle
infinite dispute dello Stato misto, laddove è necessario capire in quali
mani sia concretamente collocato il potere sovrano e in quale rapporto,
rispetto a questo potere sovrano, debba essere visto e definito colui che
vi è sottoposto, facendo attenzione che non finisca nella condizione di
chi è servo in una monarchie seigneuriale o, peggio, di chi è senza proprietà
e viene trattato come schiavo in una monarchie tyrannique. Se è vero che
un cittadino, in uno «Stato bene ordinato» – monarchia, aristocrazia o
democrazia che sia –, può veder riconosciuti i propri diritti, è altrettanto
vero che la repubblica popolare, più di altri regimi, potrebbe non meno
facilmente sfociare in una forma di dispotismo in cui il cittadino, dotato
di poteri smisurati e senza nessuno che possa contenerlo, getterebbe la
società nell’anarchia e nella guerra di tutti contro tutti: che viene preci-
samente a determinarsi quando da un normale «stato del popolo» (populi ((
statu) si cade in quello della «plebe sediziosa» (seditiosae plebis) (III, 18)7.
Si spiega il concetto bodiniano di monarchie royale, in cui non solo chi
governa lo fa nel rispetto delle leggi fondamentali e della proprietà dei
sudditi, ma dove anche chi ubbidisce conosce il proprio ruolo ed è mes-
so in condizione di non avere dubbi su cosa fare (come avrebbe ribadito
più tardi, con ottica in parte diversa, anche Hobbes). Senza dire che gli
stessi magistrati, dipendendo dal sovrano e a lui dovendo la legittimità
delle loro funzioni e la loro stessa carica, hanno interesse a muoversi ed
operare nel senso di quello Stato amministrativo armonico, che tanta in-
fluenza ha esercitato nella formazione laica dell’Europa civile moderna
(rinvio, per questo, allo splendido volume di Cesare Vasoli curato da
Enzo Baldini)8.
Contro il cittadino integrale, inizio e terminale al tempo stesso di
un potere totale che lo proietterebbe oltre ogni limite, verso un punto
di non ritorno assai pericoloso – le guerre civili ne erano per Bodin
una prova – per la sopravvivenza di qualsiasi République, sono rivolte
anche le considerazioni di Constant, ben consapevole degli «effetti del
Terrore» (1797) e quindi tanto più ansioso di veder riconosciuti al cit-
7 Ibi, p. 130.i8 C. VASOLI, Armonia e giustizia. Studi sulle idee fi losofi che di Jean Bodin, E. BALDINI (a cura
di), Olschki, Firenze 2008.
PENSIERI PARALLELI SUL CITTADINO: BODIN E CONSTANT 173
tadino moderno diritti e uno spazio privato, che consentano ad ognuno
di provvedere ai propri affari senza dover dedicare tutto il tempo alla
gestione della cosa pubblica: per la quale va più che bene il sistema della
rappresentanza politica, sistema che dall’Inghilterra si va diffondendo
nei maggiori Paesi del continente.
Notiamo che, come per Bodin in uno «Stato bene ordinato» e in una
società “armonica” anche il potere assoluto del monarca non deve esse-
re inteso in modo totalmente verticale, così per Constant è necessario
che in una società pluralistica ed economicamente dinamica il potere si
configuri quale potere “moderato” (cioè costituzionale rappresentativo),
capace di favorire lo sviluppo delle libertà individuali anziché limitarle o
addirittura sacrificarle ad un non meglio precisato bene comune, simile
a quello evocato – lo aveva già detto la Staël in Des circonstances actuelles(1798) – da «un popolo deliberante nella pubblica piazza». Si sa che,
alla fine del Discours, l’auspicio è che le due libertà, quella liberale e
quella democratica, vengano nel processo della società moderna ad un
certo punto ad incontrarsi, se non proprio a fondersi. Ma è interessante
rilevare, fra i due autori considerati, Bodin e Constant, almeno tre forti
coincidenze.
La prima, che non potrebbe quella greca definirsi una democrazia,
essendo dalla partecipazione e dalle cariche pubbliche di Atene esclu-
se classi importanti, le più povere, della società (tutti gli «Stati liberi
dell’antichità», scrive Constant, avevano schiavi e assegnavano a «mani
oberate di ferri» il lavoro meccanico e industriale, tant’è che senza «la
popolazione schiava d’Atene, ventimila ateniesi non avrebbero potuto
deliberare ogni giorno sulla pubblica piazza»)9; la seconda, che sareb-
be simile ad un despota, cioè dotato di immensi poteri almeno quanto
asservito al corpo sociale, quel cittadino talmente impegnato a gestire
la cosa pubblica, da non poter più amministrare i propri affari privati;
la terza, che non si può discutere del cittadino e delle sue libertà senza
affidare alla scienza politica lo studio di questo problema e di tutto ciò
che appare comunque inerente alla dinamica di una società in sviluppo.
Bodin, lo abbiamo visto, chiama, questa forma di sapere Reipublicaemoderandi scientia, o, più in generale, civilis scientia, da configurare se-
condo i princìpi di uno «schema del diritto universale» (iuris universi [...] tabula»)10; si appella Constant ad una science politique di nuovo corso, al
fine di chiarire cosa veramente serva ad un cittadino moderno (se non
vuol essere assoggettato all’«autorità del corpo sociale») per sentirsi li-
9 B. CONSTANT, La libertà degli antichi cit., pp. 22, 25.i10 J. BODIN, Methodus cit., p. 68 (Lettera dedicatoria).
174 CARLO CARINI
bero e godere con tranquillità dei propri diritti soggettivi e dei vantaggi
del commercio. Ma è indubbio che entrambe gli autori, ognuno nel suo
tempo, si muovano lungo una decisa tendenza del mondo moderno, che
risponde alla domanda di limitare il potere e di garantire i diritti di chi
vive in società od aspira ad entrarvi in qualità di cittadino.
Laddove erano per gli Antichi prerogative di pochi in una cerchia ri-
stretta – in definitiva, così era anche per i Romani, abituati non meno dei
Greci a considerare l’individuo completamente assoggettato all’«autorità
dell’insieme», e il cittadino (civis), rispetto alle élites governanti, nient’al-
tro che elemento di un contesto (civitas) per cui operare con devozione e
patriottismo (civilitas) [i censori, scrive Constant, «penetrano con occhio
scrutatore all’interno delle famiglie», sono le leggi a regolare i costumi,
così intervenendo su ogni cosa]11 – laddove, dicevamo, Cittadino e cittadi-nanza diventano per i Moderni riconoscimento ed esecuzione, da parte
dello Stato e in termini formali, di diritti che hanno la loro origine altro-
ve, nella natura, sono perciò estensibili a tutti e non possono essere vio-
lati senza che le buone ragioni per l’esistenza dello Stato vengano meno.
Infatti, non metteva Bodin il diritto di proprietà fra quelli inviolabili
di natura e perciò determinanti per la distinzione tra monarchia legitti-
ma e monarchia tirannica? (République, II, 2), proprio come Constant,
che pur non si direbbe un teorico del diritto di natura, vede in fin dei
conti nella «libertà politica» l’indispensabile garanzia di quella «indivi-
duale»?.
È un’evoluzione legata alle grandi Rivoluzioni Sei-settecentesche e
alle altrettanto grandi elaborazioni teoriche che le accompagnarono. È
in quest’arco di tempo che la cittadinanza moderna, con il suo corredo
di diritti, prende forma a seguito della dissoluzione, in verità lunga e
contrastatissima, dei regimi e delle concezioni assolutistico-patriarcali.
Ma al giusnaturalismo va assegnato un ruolo decisivo, e ancor più all’ac-
coppiata giusnaturalismo/contrattualismo, se vista, questa accoppiata,
come accade in diversi autori da Grozio a Rousseau, in senso ottimisticoe propositivo. È infatti la condizione di cui godrebbe un individuo nello
stato di natura, se di uguali o disuguali, di liberi od oppressi, di pacifici o
bellicosi, ad essere assunta dallo Stato e riconosciuta come determinan-
te ai fini della messa in essere di una certa forma di potere o di governo.
Nella Bill of Rights (1689) – incredibile quanta parte di essa la si ri-
trovi nel testo di Constant – in questo documento fondamentale per le
libertà dei Moderni, da esaminare insieme con l’Habeas corpus (1679) e
l’Act of Sttlement (1701), leggiamo di «Freedome of Speech and Debates
11 B. CONSTANT, La libertà degli antichi cit., p. 19.i
PENSIERI PARALLELI SUL CITTADINO: BODIN E CONSTANT 175
or Proceedings in Parlyament (art. 9); di «right of petition» per i sudditi
di sua Maestà (art. 5); di diritto del cittadino a non subire ammende
eccessive o pene crudeli (art. 10) e comunque di non essere arrestato
senza mandato del tribunale con sentenza di colpevolezza (art. 12).
Ma questi princìpi, passati alla storia, scaturiscono da una premessa,
secondo cui appartiene al cittadino una libertà inviolabile garantita dalle
leggi e dagli statuti fondamentali del Regno, oltre che da un Parlamen-
to periodicamente costituito con altrettanto libere elezioni. E prendono
corpo all’interno di eventi, che mentre conducono l’Inghilterra verso la
Glorious Revolution sono accompagnati e sostenuti da una straordina-
ria operazione intellettuale: di sostituzione delle tesi del contrattualista
autoritario Hobbes, dallo stesso considerate fondative di una politica
finalmente trattata come scienza, con quelle del contrattualista liberale
Locke, legato al leader del partito whig Shaftesbury e sostenitore dei
diritti dell’individuo in una civil society.
Arrivava Hobbes al cittadino come al necessario punto d’approdo del-
la fuoriuscita volontaria degli uomini da uno stato di natura dominato
dal «timore reciproco», a causa del fatto che in natura «ciascuno esige
l’uso esclusivo delle cose comuni» scatenando la guerra di tutti contro
tutti (De cive, Lettera dedicatoria al conte del Devonshire e I, 1)12. Così,
diventare cittadino significa conservare la vita protetti da un potere le-
gale, al posto dell’illusorio godimento di una libertà originaria riservata
solo ai più forti e rapaci. Significa rinunciare per sempre al diritto di go-
vernare se stessi mentre si affida ad un Leviatano il compito di decidere
per noi assicurando la pace (II, 3)13. Poiché nell’unione civile «il diritto di
tutti viene trasferito a uno solo» dotato di potere supremo, è inutile allon-
tanarsi troppo dalla forma di governo monarchica per capire quale degli
Stati sia il migliore, giacché è precisamente in questo regime politico
che si realizza un vero «dominio» della «potestà suprema» (V, 8-11)14. Di
fronte alla quale, avendo «abbandonato il proprio diritto di resistenza»,
ciascun «cittadino, come anche ogni persona civile subordinata, è detto
SUDDITO di chi ha il potere supremo» (V,8-11)15.
La conservazione della sovranità di natura è, viceversa, lo scopo del
cittadino di Locke, che soltanto per meglio proteggere i propri diritti
originari in quanto individuo acconsente di obbedire alle leggi di uno
Stato: folle e inconcepibile operazione, se non fosse accompagnata dal-
12 T. HOBBES, De cive. Elementi fi losofi ci sul cittadino, T. MAGRI (a cura di), Editori riuniti,
Roma 1999, pp. 67, 80.13 Ibi, p. 90.i14 Ibi, pp. 127-28.i15 Ibidem.
176 CARLO CARINI
la certezza della disponibilità di quest’organismo, dagli stessi individui
creato e governato per consenso, a fornire le garanzie necessarie (Secondotrattato sul governo, VII, 93)16.
Per l’uno, la soluzione dell’enigma libertà sta nell’annullamento di
questo diritto. Per l’altro, nella sua esaltazione, espressa da istituzioni
rappresentative messe sistematicamente alla prova e in qualsiasi mo-
mento revocabili dal basso.
Lo sviluppo di questa avvincente tematica, del cittadino e della cit-
tadinanza dal mondo moderno a quello contemporaneo, è in parte de-
scritto nel bel libro che, con perno sull’Illuminismo, ha di recente dedi-
cato Vincenzo Ferrone alla Storia dei diritti umani (Laterza, 2014), quan-ido già disponevamo, in Italia, di almeno cinque importanti riferimenti:
Le ideologie della città europea dall’Umanesimo al Romanticismo, curato dal
compianto ed indimenticabile Vittorio Conti (Olschki, 1993); un nume-
ro unico della rivista «Filosofia politica», proprio dedicato alla Cittadi-nanza, per i «Materiali di un lessico politico europeo» (XIV, n. 1, 2000); I diritti umani tra politica, fi losofi a e storia, in 2 tomi curati da Pietro Barcel-
lona e Agostino Carrino (Guida, 2003); la raccolta di testi Cittadinanza. Soggetti, ordine, diritto, curata nel 2004 da Sandro Mezzadra per la Clueb
di Bologna; la monumentale trilogia sulla Cittadinanza di Pietro Costa
(Laterza, 1999-1005). Senza dire della quantità di contributi in volumi
collettivi e monografie via via prodotti per l’Otto-Novecento da Raffael-
la Gherardi, Gustavo Gozzi, Sergio Amato.
Gli studiosi delle dottrine sanno bene di trovarsi di fronte ad una
tipica questione di storia ideologica, dove idee-forza sostenute da gruppi
sociali e trasmesse dal linguaggio si materializzano in strutture politiche
e nelle loro evoluzioni17.
16 J. LOCKE, Il secondo trattato sul governo. Saggio concernente la vera origine, l’estensione e il fi ne del governo civile, Introduzione di T. MAGRI, traduzione di A. GIALLUCA, Biblioteca
Universale Rizzoli, Milano 2009, pp. 182-184. 17 S. MASTELLONE, Storia ideologica d’Europa da Sieyès a Marx, Sansoni, Firenze 1974,
p. 3.
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 177-192
Dall’evanescenza del cittadino moderno alle nuovepratiche della cittadinanza di prossimità
GIANFRANCO BORRELLI
Nella chiusura del saggio dedicato a L’età dei diritti (1987)i 1, Bobbio si
soffermava sulla specificità della pratica dei diritti dell’uomo:
altro è parlare di diritti dell’uomo, di diritti sempre nuovi e sempre più
estesi, e giustificarli con argomenti persuasivi, altro è assicurare loro una
protezione effettiva. A proposito sarà bene fare ancora questa osserva-
zione: via via che le pretese aumentano, la loro soddisfazione diventa
sempre più difficile. I diritti sociali, come è ben noto, sono più difficili da
proteggere che i diritti di libertà. Sappiamo tutti altrettanto bene che la
protezione internazionale è più difficile che quella all’interno di uno sta-
to, in particolare all’interno di una stato di diritto... Poiché ho interpre-
tato la vastità che ha assunto attualmente il dibattito sui diritti dell’uomo
come un segno del progresso morale dell’umanità non sarà inopportuno
ripetere che questa crescita morale si misura non dalle parole ma dai
fatti. Delle buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno2.
Tanto vale a ricordarci in partenza che i diritti della libertà politica e
i diritti sociali sono stati certamente il risultato di un grande sforzo di
teoria – dal giusnaturalismo di Locke fino al positivismo giuridico – ma
che su questo punto particolarissimo della tensione tra morale e politi-
ca bisogna fare attenzione ai fatti, agli eventi ed ai conflitti, relativi alle
realizzazioni concrete che hanno prodotto diritti positivi di cittadinanza.
Ora, sono proprio i fatti che ci dicono che nei paesi democratici v’è
stato un sicuro incremento dei diritti civili e sociali in corrispondenza di
1 Questo saggio viene pronunciato da Bobbio nel 1987 all’Università di Madrid; quindi
ha dato il titolo alla raccolta dei numerosi studi sui diritti dell’uomo (N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990). Nell’introduzione al volume, Bobbio scrive che in quello ispecifico contributo egli veniva ad affrontare “il tema, già affiorato negli scritti prece-
denti, del significato storico, o meglio filosofico-storico, del rovesciamento, caratteristico
della formazione dello stato moderno, del rapporto stato–cittadino: dalla priorità del
dovere dei sudditi alla priorità dei diritti del cittadino, al mutato modo di guardare al
rapporto politico, non più prevalentemente dal punto di vista del sovrano, ma preva-
lentemente dal punto di vista del cittadino, in corrispondenza all’affermarsi della teoria
individualistica della società contro quella tradizionale organicistica” (ibi, p. IX).i2 Ibi, p. 64.i
178 GIANFRANCO BORRELLI
quel periodo specifico – che va dalla seconda metà degli anni Quaranta
alla fine degli anni Settanta – che viene ormai designato come capitali-smo democratico, grazie all’affermazione delle politiche keynesiane d’in-
tervento pubblico e delle misure sociali del Welfare State3; in tale epoca,
nei paesi democratici occidentali, si verifica il produttivo incontro tra lo
sviluppo economico della ricostruzione post-bellica e il contenimento
dei gravi conflitti sociali perseguito dalle organizzazioni partitiche e sin-
dacali del movimento operaio, che sedimentano esperienze storiche di
lotte e riconvertono le dure espressioni della militanza rivoluzionaria in
forme adattive e disciplinate di comportamenti. Dagli anni Ottanta in
poi, il decollo inarrestabile delle forme più spinte di neoliberalismo in
Inghilterra, negli Stati Uniti e in Germania, provoca la trasformazione
della produzione dei diritti di cittadinanza; accade anzi qualcosa che
mette decisamente alla prova la figura del cittadino soggetto di diritti ci-
vili, sociali e umani. Alla crescente evanescenza della figura del cittadino
moderno corrisponde l’emergenza – nei diversi contesti nazionali – di
una composizione diversa della cittadinanza, che per un verso sembra
aprirsi a forme plurali e maggiormente i partecipative delle iniziative rese
possibili ai cittadini; contemporaneamente, le forme tradizionali della
cittadinanza, segnate come diritti/doveri degli individui nella carte co-
stituzionali, vengono impegnate a intraprendere altri percorsi segnati si-
curamente da maggiore incertezza, che appaiono inoltre orientati verso
il ridimensionamento delle conquiste conseguite dai cittadini sul piano
sociale ed economico nell’epoca del capitalismo democratico. Conviene
allora soffermarsi su alcuni contesti storici al fine di problematizzare
ulteriormente sulle forme di sofferenza della cittadinanza che proviene
dalla modernità: di seguito ci si potrà forse rendere conto dell’urgente
richiamo a proporre modi radicalmente diversi di essere cittadini parte-
cipi dei processi di mondializzazione.
1. Se prendiamo in considerazione lo sviluppo dei diritti politici e sociali
nell’Italia democratica del secondo dopoguerra, risulta con immediata
evidenza la serie impressionante di sicuro incremento dei diritti civili e
sociali: Statuto dei lavoratori (1970), legge sul divorzio (1970), riformaidel diritto di famiglia che garantisce parità tra i coniugi (1975), legge
Basaglia per i malati mentali (1978), la serie di leggi a tutela del diritto
alla salute delle donne lavoratrici e dei malati, l’avvio della legislazione
3 L’espressione capitalismo democratico si deve alle convincenti argomentazioni di Streeck,
in W. STREECK, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli,
Milano 2013.
DALL’EVANESCENZA DEL CITTADINO MODERNO ALLE NUOVE PRATICHE 179
sulla tutela dell’ambiente. In seguito, assistiamo al rallentamento de-
gli interventi legislativi sul tema dei diritti di cittadinanza sicuramente
legato alle vicende della paralisi governativa verificatasi in seguito alla
tragica soluzione degli aspri conflitti sociali e politici degli anni Settanta
con l’assassinio di Aldo Moro: il sistema politico italiano appare inca-
pace di rinnovarsi e di offrire uno sbocco istituzionale più largamente
partecipativo alle istanze di trasformazione poste da un lungo periodo
di antagonismi sociali. Da questo periodo in poi, lo sviluppo dei di-
ritti dei cittadini nell’ordinamento giuridico italiano resta soprattutto
legato ai processi di costituzione della cittadinanza europea: dalla prima
definizione dell’articolo sul cittadino europeo (trattato di Maastricht,
1994) alla consistente e importante giurisprudenza della Corte Euro-
pea di Giustizia nel merito dei diritti dei cittadini, ed ancora fino allo
strumento di democrazia diretta avviato con il Green Paper on European Citizen’s Institute (trattato di Lisbona, 2009) divenuto poi nel 2012 attivo
– per quanto scarsamente utilizzato – dispositivo d’Iniziativa dei cittadini europei (i ICE)4.
Accade anche per il nostro paese qualcosa che coinvolge tante na-
zioni europee: il complesso sistema d’integrazione politica, economica e
giuridica del cittadini italiani nell’Unione Europea apre ad uno spettro
plurale di cittadinanze, che tende a sminuire il significato della cittadi-
nanza vissuta come appartenenza di origine ad un ordinamento giuri-
dico politico nazionale, promuovendo inoltre vantaggi e protezioni più
efficaci nel merito della circolazione dei prodotti di mercato per territori
diversi e più ampi di quelli d’origine. Tuttavia la trasformazione dei tra-
dizionali canoni della cittadinanza costituzionale e nazionale non sem-
bra offrire garanzie sul piano sociale e contribuisce all’impoverimento
dell’iniziativa partecipativa dei cittadini italiani; in effetti, questi cittadini
soffrono ancora oggi quel defi cit democratico che connota fin dall’inizio
4 Per un’introduzione ai problemi relativi alle difficoltà di costruire una sfera pubblica
europea sicuramente utile il lavoro di D. DELLA PORTA - M. CAIANI, Quale Europa? Eu-ropeizzazione, identità e confl itti, Il Mulino, Bologna 2006. Sulle caratteristiche dell’i ICE
come strumento di democrazia diretta, messo a disposizione dei cittadini europei pure
con molte limitazioni di accoglimento, vedi il volume a cura di G. BORDINO, Un nuovo diritto per la democrazia e lo sviluppo in Europa. L’Iniziativa dei cittadini europei (ICE(( )E , Il
Mulino, Bologna 2013. Per le argomentazioni relative al punto per cui la giurisprudenza
della Corte di giustizia europea abbia affermato un incisivo principio di eguaglianza
“tra stranieri”, mentre non si sia riusciti in sede istituzionale ancora ad affermare una
solidarietà sociale europea, vedi il saggio di S. GIUBBONI, Diritti e solidarietà in Europa, Il
Mulino, Bologna 2012, pp. 157-163.
180 GIANFRANCO BORRELLI
il processo costitutivo dell’Unione Europea ed impedisce ancora oggi la
formazione dell’Europa politica.
2. In realtà, la sofferenza dei diritti civili e sociali di cittadinanza è da
riferire alla crisi dei governi democratici che prende avvio nei paesi oc-
cidentali alla fine degli anni Settanta, al termine di quel periodo di capi-talismo democratico. A metà di quel decennio, il report della Commissionetrilaterale annunciava l’insostenibilità della democrazia rappresentativa
e parlamentare ritenuta ormai incapace di reggere il confronto rispetto
all’accelerazione dell’economia mondiale5: in questo modo, il fenome-
no inarrestabile della globalizzazione economica spingeva alla crisi della
politica moderna degli Stati sovrani ed apriva a un periodo di postdemo-crazia. Coloro che detengono il comando politico nell’area occidenta-
le intendono sottrarsi rapidamente ai vincoli di politiche democratiche
che inducono tagli crescenti alle dinamiche dell’accumulazione; per fare
questo bisogna intraprendere strategie nuove in cui il ruolo autonomo
dell’economia venga sostenuto contro i limiti imposti dalla politica e
dall’ingerenza dello Stato. Prende via via corpo il progetto di riconverti-
re a tale obiettivo pratiche e comportamenti d’interi strati sociali. Mar-
garet Thatcher e Ronald Reagan sono i soggetti che danno via all’af-
fermazione più ampia del neoliberalismo, della società che pretende di
offrire autonomia e autoregolazione alle dinamiche dei mercati e della
concorrenza; le incidenze negative di queste politiche si fanno avvertire
nei decenni a cavallo tra il secolo appena trascorso e quello nuovo in
modo da destabilizzare i contenuti della cittadinanza democratica:
– innanzitutto, accrescono enormemente le partizioni sociali e gli an-
tagonismi economici; già negli anni Novanta, Ralph Dahrendorf de-
scriveva le forme dell’esclusione profonda che pone ai margini della
comunità i gruppi dei soggetti adolescenti, anziani, dei senza-lavoro
e senza-casa; costoro vengono a costituire la cosiddetta underclass, un insieme composito e sofferente che sembra avere perduto ogni
rapporto con la cittadinanza; oggi, possiamo constatare come questo
fenomeno di emarginazione si allarghi agli immigrati, e ancora alla
seconda e terza generazione di tali immigrazioni con conseguenti ef-
fetti di malessere e di rivolta nelle metropoli europee6;
5 Il famoso rapporto sulla stato della democrazia predisposto dalla Trilateral Commis-
sion fu opera di M. CROZIER - S.P. HUNTINGTON - J. WATANUKI, The crisis of Democracy.Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York 1975
(trad. it, La crisi della democrazia, Milano 1977).6 R. DAHRENDORF, Quadrare il cerchio. Benessere economico, coesione sociale e libertà politica,
Laterza, Roma - Bari 1995, p. 1995.
DALL’EVANESCENZA DEL CITTADINO MODERNO ALLE NUOVE PRATICHE 181
– il cittadino moderno, titolare di diritti civili e sociali, diventa sem-
pre più introvabile: Robert Dahl, sostenitore del neopluralismo di
matrice liberale, aveva già da tempo argomentato che non esiste più
il cittadino medio come soggetto di centrale riferimento nei processi
decisionali democratici; piuttosto, il funzionamento delle democra-
zie resta caratterizzato dalle dinamiche poliarchiche, policentriche,
che dovrebbero garantire autonomia alle organizzazioni indipendenti
(istituzionali, associative, pubbliche e private) impegnati in contesti
inevitabilmente sistemici7. Affianco alla liquefazione della figura del
cittadino, soggetto politico della modernità, si rende sempre più eva-
nescente il personaggio dell’individuo economico, privato, rivolto a
perseguire i propri interessi e convinto d’impegnare con l’autorità
pubblica positive relazioni di scambio di comando/obbedienza. Viene
dunque riconosciuta la schizofrenica separazione interna al cittadino
moderno tra il soggetto titolare di diritti politici universali e l’indi-
viduo privato rivolto al perseguimento egoistico dei propri interessi:
viene dunque denunciata come ideologica e comunque ormai inef-
ficace la separazione funzionale, propria dell’impianto di moderni-
tà, tra le condotte pubbliche rappresentative di bisogni/desideri dei
soggetti e i comportamenti rivolti alla realizzazione di un benessere
privato;
– al soggetto civile, titolare di specifici diritti politici e sociali, diventa
in effetti impossibile intervenire nelle procedure decisionali pubbli-
co-statuali proprie del governo rappresentativo prodotto da cittadi-
ni consapevoli e responsabili: secondo John Dunn esisterebbe ormai
un enorme surplus di autorizzazione, prodotto secondo l’inarrestabile
sviluppo di modelli sistemici nei contesti delle democrazie occiden-
tali, e di esso si avvantaggerebbero ormai normalmente i governanti
contro i governati. A fronte di questa condizione di un potere di auto-
rizzazione fortemente concentrato, la possibilità di de-autorizzazione
(de-authorization) da parte dei singoli cittadini sarebbe praticamente
del tutto compromessa; in breve, il controllo da parte dei cittadini
sarebbe nella sostanza vanificato, mentre discorsi di validificazione di
tipo normativo delle decisioni politiche costituirebbero l’ideologia la-
terale (spurious suggestion) di pratiche incontrollabili di potere (Dunn
richiama criticamente le teorie di Ronald Dworkin)8.
7 R. DAHL, Dilemmas of Pluralist Democracy, New Haven - London 1982 (trad. it, di L.
Caracciolo di San Vito, Milano 1988, p. 19).8 J. DUNN, Disambiguating democracy, in M. LENCI - C. CALABRÒ (a cura di), Viaggio nella democrazia, ETS, Pisa 2008.
182 GIANFRANCO BORRELLI
Nelle democrazie occidentali, la dimensione della sfera del pubblico, sta-
tuale e civile, perde sempre più senso e autonomia: in corrispondenza,
le esperienze crescenti di privatizzazione degli stili di vita rendono pos-
sibile il rifiuto drammatico e sconvolgente dei fondamenti pubblici delle
istituzioni e delle forme tradizionali del governo civile, rappresentativo
e parlamentare. All’interno di questi scorrimenti di pratiche di vita si
è venuto realizzando anche un composto distruttivo e autodistruttivo
formato dalla convergenza di una diffusa microfi sica della corruzione dei
comportamenti con una forma di anomia che spinge le condotte dei
cittadini al piano egoistico degli interessi privati e a pratiche di acuto
narcisismo.
Nella società della mondializzazione viene pure profilandosi un fe-
nomeno estremo, di difficile comprensione: da un lato, la produzione
di potere tende ad affermarsi privatizzando ogni aspetto delle esistenze
individuali, sfruttando in particolare le risorse cognitive e emotive del la-
voro umano come valore d’uso principale da cui estrarre valore; dall’al-
tro lato, i soggetti sembrano aderire consensualmente alla costituzione
di una sorta di nuova servitù degli individui, sfruttati in maniera abnor-
me e privati di prospettive futurizzanti9. In effetti, la crisi dei processi
di democratizzazione producono diffusa depoliticizzazione e inducono
processi di discrezionalità tali da ampliare in modo smisurato l’area dei
soggetti senza diritti e strutturalmente precari nelle attività lavorative.
Il lavoro sembra aver perduto ogni senso di fondamento etico nella co-
stituzione delle autonomie emancipative dei soggetti: esso appare uni-
camente come il mezzo ineliminabile per consentire autoconservazione
e sopravvivenza. Quasi ovunque nell’area del ricco Occidente, assistia-
mo al ridimensionamento sul piano economico degli ambiti di vita e
alla rinuncia alle aspirazioni del desiderio. Questa recente tendenza alla
repressione dei sentimenti si accompagna a forme acute di sofferenza
spirituale, alla scomparsa dell’inconscio: da qui deriva pure la serie di di-
spositivi di controllo e di attivazione dei comportamenti che mirano a
neutralizzare ogni tipo di attività desiderante10.
In definitiva, le sofferenze della cittadinanza trovano espressione in
due fenomeni che esprimono significativamente la crisi dello strumento
rappresentativo-elettivo su cui è venuta via via impiantandosi il sistema
9 Sulle condizioni del lavoro frantumato e precarizzato vedi il libro di A. FUMAGALLI,
Lavoro male comune, Bruno Mondadori, Milano 2013.10 Sul fenomeno per cui nell’epoca dell’ipermoderno la macchina del godimento viene
via via sostituita dalla macchina della rimozione, con le relative ricadute sul soggetto
dell’inconscio, si sofferma il saggio di M. RECALCATI, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.
DALL’EVANESCENZA DEL CITTADINO MODERNO ALLE NUOVE PRATICHE 183
della democrazia politica moderna: da un lato, la disaffezione alla politi-
ca spinge una grande percentuale di elettori all’astensione dal voto; per
un altro versante, il disfunzionamento dei corpi intermedi del sistema
politico – innanzitutto, dei partiti – ha aperto da lungo tempo la stra-
da ad una modalità di democrazia del pubblico. Con questa espressione,
Robert Manin perviene alla tesi secondo cui, negli ultimi decenni del
secolo passato, la democrazia è sicuramente andata oltre il modello della
democrazia dei partiti per assumere altre caratteristiche – appunto quelle
della democrazia del pubblico – secondo cui la funzione tradizionalmente
e inevitabilmente elitaria-aristocratica dell’esercizio del governo demo-
cratico viene decisamente puntando sull’accentuazione dei caratteri di
personalizzazione, sull’elemento di trust (fiducia) tra elettori ed eletti,
quindi su un legame sempre più diretto tra leadership e cittadini. Gli
elettori, che si sentono ormai deprivati dei propri diritti politici e socia-
li soprattutto dalle élites partitiche e sindacali, puntano a praticare un
rapporto di più stretto collegamento con i leaders politici, dando vita a
modalità nuove di populismi e plebiscitarismi11. Manin non traeva dalla
sua analisi previsioni dal punto di vista storico-politico; tuttavia, dietro
e oltre la decisa trasformazione dei partiti di massa in partiti personali,
egli lasciava intravedere conseguenze di tipo diverso; il più stretto col-
legamento tra leadership di potere e cittadini avrebbe potuto costituire
forme più dirette di rappresentazione e d’incidenza della volontà dei
cittadini: ma, alternativamente, avrebbe potuto promuovere accumuli di
potere smisurato per i membri degli esecutivi e per le oligarchie di gover-
no. Nella postfazione alla recente integrale traduzione italiana dell’opera
di Manin, l’autore si sofferma ulteriormente sulla crisi – diffusa ormai
in tutti i paesi democratici – del sottosistema dei partiti, fenomeno che
viene a confermare la sua tesi relativa alla fine della democrazia dei partiti, ienunciata fin dalla metà degli anni novanta del secolo scorso. L’autore
ritorna sul tema con lo scopo di precisare che i partiti costituiscono an-
cora il riferimento principale nei processi elettivi e nella composizione
delle istituzioni parlamentari: tuttavia, una trasformazione inarrestabi-
le ha prodotto la lenta e inevitabile erosione di quelle organizzazioni
partitiche caratterizzate da identità fortemente ideologizzate e durature,
sostenute dal consenso di elettorati fissi e permanenti. Sempre in questo
testo, Manin sottolinea le caratteristiche funzionali e efficaci del gover-
11 B. MANIN, Principes du gouvernement représentatif, Paris 1996; prima edizione parzialeffpubblicata in Italia, ID., La democrazia dei moderni, Milano 1992; quindi, la recente itraduzione integrale ID., I principi del governo rappresentativo, I. DIAMANTI (a cura di), Il
Mulino, Bologna 2011.
184 GIANFRANCO BORRELLI
no rappresentativo e democratico, che confermerebbero la centralità di
questo strumento a suo parere insostituibile; grazie ad esso si rendereb-
bero comunque possibili forme articolate e ricche di una partecipazionenon istituzionalizzata capace di introdurre modificazioni e arricchimenti:
vale a dire, le forme di difesa e d’implemento dei diritti civili attraverso
le tradizionali manifestazioni di massa oppure come produzione per-
manente di opinione pubblica (tramite le tecnologie dei mass media
e della rete); in questo contesto, anche altri dispositivi partecipativi e
movimenti di contestazione (come il recente fenomeno di Occupy Wall Street) costituirebbero la testimonianza della ricchezza della democra-tzia rappresentativa in grado di produrre forme di attivismo destinate a
rinsaldare e a accrescere garanzie e diritti di libertà. Con la sua analisi,
Manin ha preannunciato importanti cambiamenti nelle relazioni tra le
forme del governo democratico e l’utilizzo dello strumento di rappresen-
tanza; a non molti anni di distanza, e in seguito ad avvenimenti storici
di portata davvero straordinaria – il crollo dei socialismi reali negli anni
1989/91, l’abbattimento delle Twin Towers, la seconda guerra dell’Iraq
ed il tentativo USA (fallito) di realizzare un’egemonia mondiale, l’espe-
rienza davvero inedita di rivolte democratiche in regioni del Sud Ame-
rica, del Nord Africa e di alcuni paesi asiatici – si può riflettere in modo
più articolato sul peso che nei governi democratici assumono in misura
crescente le difficoltà del criterio della rappresentanza politica nella sua
funzione centrale di espressione dei bisogni/interessi dei cittadini e di
mediazione dei conflitti. Secondo Manin, che costituisce certamente la
più ricca e convincente argomentazione dell’inesauribile produttività e
della flessibilità straordinaria del governo democratico rappresentativo,
la ricerca sociologica/empirica e l’analisi teorica/critica portano alla pre-
cisa determinazione che sarebbe ingenuo oppure estremamente peri-
coloso congetturare e tentare di sostituire questo dispositivo con altre
forme di rappresentazione politica delle volontà dei cittadini.
3. Ritornando ai fenomeni storici relativi alla costituzione politica dell’U-
nione Europea, dobbiamo purtroppo constatare che questo numeroso
concerto di stati non è ancora riuscito a dare un rappresentazione poli-
tica all’enorme potenzialità democratica avviata negli ultimi due secoli
della storia moderna in Occidente. Da un lato, negli stati nazionali, la
cittadinanza viene via via mutando i caratteri originari impressi nelle
procedure segnate dalle carte costituzionali: questo versante di trasfor-
mazione sembra comportare perdita di partecipazione dei cittadini; sul
piano europeo, per gli aspetti che riguardano la lentissima esasperante
progressione della costituzione politica, il progetto del Trattato di Lisbo-
DALL’EVANESCENZA DEL CITTADINO MODERNO ALLE NUOVE PRATICHE 185
na (2009) sembra solo un lungo elenco di promesse e di articoli che non
trovano modalità d’attuazione12.
In realtà, il problema del deficit democratico delle istituzioni delibe-
rative era ben presente alle istituzioni politiche della nascente Europa:
se prendiamo in considerazione i documenti ormai storici che per primi
hanno descritto le modalità di porre rimedio alle mancanze dell’impian-
to democratico in Europa incontriamo, a fine Novecento, contributi po-
lititologici di grande rilievo e, in particolare, il famoso documento WhitePaper on European Governance (2001) in cui si cercava di preparare il
terreno per l’affermazione di una forma diffusa di governance politica.
Si trattava di fare dell’area europea il campo di positiva applicazione
di un modello nuovo di politiche neopluralistiche che veniva suggerito
dall’elaborazione della Commission on global governance dell’ONU (questo
documento appare nel 1995). Una letteratura critica enorme ha contri-
buito a ricostruire le caratteristiche di questi organismi di governance e
del loro funzionamento13; essi si pongono al di fuori delle procedure del-
la legittimazione rappresentativa, infatti sono non-rappresentativi ei non-elettivi, ed azzerano la separazione funzionale tra i poteri. Tali dispositiviidi governance agiscono ampliando lo spettro delle autorità non-statuali,
riducendo spazi/tempi del pubblico specificamente statuale; interven-
gono, in breve, con finalità di rimedio nei confronti dell’incapacità delle
funzioni del government di offrire rappresentazione pubblico-politica alla tdiversità ed alla pluralità crescente delle soggettività in campo. Per que-
ste caratteristiche funzionali, dispositivi e politiche di governance erano
sembrate convergenti e quindi condivisibili con gli sforzi della progetta-
zione politologica dell’Unione Europea. Al di fuori della prassi di legit-
timazione per via rappresentativa-elettiva e della moderna divisione dei
12 Per la letteratura critica relativa agli impedimenti che ancora non consentono l’attiva-
zione di politiche di solidarietà, reciprocità e piena cooperazione tra gli stati europei vedi
i contributi di S. VACCARO, Globalizzazione e diritti umani. Filosofi a e politica della mondia-lità, Mimesis, Milano 2004, pp. 147-153; ed ancora di S. GIUBBONI - G. ORLANDINI, La libera circolazione dei lavoratori nell’Unione Europea, Il Mulino, Bologna 2007.13 Come introduzione alla categoria di governance vedi i lavori di R. MAYNTZ, La teoria della governance, in «Rivista italiana di scienze politiche», 29 (1999), pp. 3-21; i saggi
contenuti nella raccolta a cura di J.N. ROSENAU - O. CZEMPIEL, Governance without go-vernment: Order and Change in World Politics, Cambridge 1992; D. HELD - M. KOENIG -
ARCHIBUG, Global Governance and public Accountability, Mal-den/London/Victoria 2005.
B. KOHLER - KOCH - R. EISING, The Transformation of Governance in the European Union,
New York 1999; S. PUNTSCHER RIEKMANN, Die kommissarische Neuordnung Europas, Wien
- New York 1998; G. BORRELLI, La democrazia di governance tra crisi di legittimazione e dispositivi d’emergenza, in G. FIASCHI (a cura di.), Governance: oltre lo Stato?, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2008; A. ARIENZO, La governance, Ediesse, Roma 2013.
186 GIANFRANCO BORRELLI
poteri, questa serie di organismi indipendenti mira a costruire una specie
di autogoverno collettivo degli interessi attraverso procedure negoziali/
concorrenziali che sottraggono spazio alla sfera del pubblico statuale.
Le caratteristiche del funzionamento di queste politiche di governancesono giustificate teoricamente come forma di un pluralismo limitato che
interviene per porre rimedio – anche attraverso l’utilizzazione di dispo-
sitivi straordinari d’emergenza – alla disfunzione delle politiche pubbli-
che nazionali: una rete di autorità ed agenzie non statuali, indipendenti,
vengono attivate dai fuochi dei governi centrali al fine di offrire regola-
mentazione e produrre diffusi comportamenti di autodisciplina. Si tratta
del complesso delle Autorità Amministrative Indipendenti, authorities e
agencies poste in essere da organismi internazionali (FMI, BCE, OCSE,
etc.), fino alle reti delle NGOS (Non Governamental Organizations) che
avvolgono a rete il mondo; anche questi organismi e le relative politiche
possono essere analizzati come risposta sul lungo periodo alle difficoltà
effettive vissute dalle procedure di legittimazione del government, che topererebbero ormai in modo inefficace tramite i mezzi rappresentativi e
costituzionali tradizionali.
L’obiettivo principale di questi dispositivi sarebbe quello di contri-
buire su piani diversi (multilevel) alla produzione di un efficace rapportolldi comando/obbedienza attraverso l’utilizzazione di tecnologie partico-
larmente efficaci a fare di ciascun soggetto l’individuo per eccellenza
consumatore. Nei contesti nazionali e sul piano mondiale, i dispositi-
vi di governance contribuirebbero ad incrementare il cosiddetto capitaleumano, a rendere più funzionali corpi, energie e poteri dei singoli che
si impegnano a fare di se stessi i veicoli di forme sempre più flessibili
dell’impresa. Produrre dunque maggiore integrazione tra pratiche eco-
nomiche, modelli d’impresa e regolamenti giuridico-amministrativi: at-
tivazione di processi di amministrazione della vita rivolti a depotenziare
i pesi onerosi della politica statuale, del government tradizionale. Tutta-tvia, si può giudicare con buona approssimazione che alla fine del primo
decennio del nuovo secolo, questo modello di governance politica pone
molti interrogativi e sicuri problemi nel merito della sua applicazione.
In realtà, le preoccupazioni di Dahrendorf e di altri teorici della politi-
ca si stanno rivelando reali; i processi di mondializzazione attestano il
primato della globalizzazione finanziaria e il fi nanzcapitalismo costringe
la politica a modulare i propri interventi a seconda degli interventi e
delle strategie dei mercati14. In effetti, discorsi e pratiche della distruttiva
14 Mi riferisco innanzitutto al lavoro di L. GALLINO, Finanzcapitalismo. La civiltà del dena-ro in crisi, Einaudi, Torino 2011; certamente utili i contributi di i B.B. MANDELBROT - R.L.
DALL’EVANESCENZA DEL CITTADINO MODERNO ALLE NUOVE PRATICHE 187
utopia neoliberale nemmeno più utilizzano l’ideologia neopluralistica
e modernizzante: la veste di governance politica è stata dismessa nelle
politiche europee e le forme di governance hanno assunto sempre più le
modalità di dominazione economico-finanziaria, vera propria governan-ce commissaria di mercato15.
Nei paesi occidentali, il dominio dei mercati finanziari avanza soste-
nuto dalle tecnologie avanzatissime di ICT (Information, Communica-
tion, Technology), ponendo i processi finanziari assolutamente avanti
rispetto alla situazione dei vari stati nazionali in sofferenza di bilancio.
Ancor più si comprende allora come il dispositivo rappresentativo risulti
spiazzato dalle novità introdotte dalle nuove tecnologie produttive: la
stretta contiguità tra comunicazione ed economia ha provocato il rove-
sciamento dei rapporti tra produzione e consumo, offerta e domanda,
procurando esiti di stravolgimento nella vita di individui e di attori col-
lettivi cui fa riferimento il criterio rappresentativo. La strumentazione
tecnologica contribuisce a personalizzare, singolarizzare, il consumo dei
soggetti, a rivoluzionare il funzionamento dell’organizzazione dei pro-
cessi lavorativi ampliando tutta la serie dei lavori propri di una socie-
tà di rete: da qui derivano quei processi quali la diffusione di attività
polivalenti e immateriali, l’individualizzazione dei rapporti lavorativi, la
frantumazione dei lavori. In breve, il passaggio ad un’economia post-
fordista ha favorito processi di flessibilizzazione del sistema produttivo
producendo una precarizzazione strutturale dei lavori (precariousness(( ) e
ha contribuito a indebolire quella configurazione politico-giuridica che
impiantava nei diritti/doveri di cittadinanza gli avanzamenti del progres-
so civile e sociale degli individui.
In effetti, il potere sui viventi intende prendere corpo grazie a processi
di soggettivazione sempre più individualisti e competitivi, mentre la pro-
duzione di potere disciplinare viene inquadrata all’interno di uno stato
sociale minimo, compresso secondo diverse misure in spazi che perdono
il carattere pubblico-politico. In definitiva, non sembra che quei processi
HUDSON, Il disordine dei mercati. Una visione frattale di rischio, rovina e redditività, Einaudi,
Torino 2005, e di J. HOLLOWAY, Crack Capitalism, Derive Approdi, Roma 2012. 15 Carlo Amirante descrive egregiamente sviluppo e crisi della european Governance come
esempio particolarmente significativo del fallimento del progetto giuridico-costituziona-
le europeo prodotto dal dominio dei mercati finanziari mondiali, in C. AMIRANTE, Dalla forma stato alla forma mercato, Giappichelli editore, Torino 2008; sui caratteri dei più
recenti processi di governance vedi di A. ARIENZO, Il governo economico della politica e dellesoggettività come nuova governance commissaria di mercato, in A. ARIENZO - G. BORRELLI,
Emergenze democratiche. Ragion di Stato, governance, gouvernementalité, Giannini editore,
Napoli 2012, 105-126; ancora di A. ARIENZO, Governance, Ediesse, Roma 2013.
188 GIANFRANCO BORRELLI
di soggettivazione possano incontrare adeguata espressione sul piano
politico attraverso la funzione rappresentativa: infatti, evidenti sono le
difficoltà di dare voce significativa alle singolarità in campo. In effetti, da
un lato, aumentano le differenze di singolarità, individuali e collettive,
indotte dagli arricchimenti di conoscenze e di pratiche di resistenza pure
diffuse: da un altro lato, prendono corpo egoismi e autoreferenzialità di
oligarchie e di corporazioni economiche e politiche. In realtà, sembrano
segnare il passo quelle modalità del disciplinamento neoliberale che re-
stituivano ai soggetti la possibilità di scambiare l’incremento energetico
dei propri poteri psico-fisici con pratiche di consapevole obbedienza nei
confronti delle autorità istituzionali; peraltro, dispositivi e pratiche di go-vernance sembrano operare esclusivamente attraverso la partecipazione
di attori collettivi alle procedure di negoziazione e di decisione, con sicu-
ra mortificazione di bisogni ed espressioni dei singoli. A questo punto si
può meglio comprendere come le conquiste moderne della cittadinanza
giuridico-politica conseguite sul piano nazionale vengono fortemente
ridimensionale ai livelli dei processi di mondializzazione, mentre nuove
esigenze emergono e si fanno strada dietro le spinte irrefrenabili dei
flussi migratori e delle guerre prodotte ancora dagli antagonismi religio-
si che ormai mettono alla prova la stabilità politica in grande parte del
mondo.
4. Se la verità della politica consiste nel tentativo di rispondere ai traumi
e ai conflitti che s’impiantano con differenze particolari nel cuore del
mondo, ogni forma possibile di governamentalità – in quanto modalità di
produrre pratiche e dispositivi di autogoverno da parte dei soggetti – re-
sta condizionata dalla trasformazione dei processi di soggettivazione che
l’umanità impegna per situazioni diverse di vita. In effetti, per la stes-
sa Europa, i tempi stessi della mondializzazione contemporanea hanno
preso avvio dagli eventi tragici (genocidi, persecuzioni di massa, xeno-
fobia, etc.) verificatisi in Europa nella prima metà del secolo trascorso
e, in seguito, in tante parti del mondo. Ancora oggi, nei processi della
mondializzazione spinta, la democrazia indica l’unica strada possibile di
cittadinanza per le singolarità sofferenti: imparare a esercitare l’arte del
governo democratico di sé e degli altri. In effetti, solo a condizione di
inventare e praticare forme più avanzate di democrazia, i paesi occiden-
tali potranno assegnare continuità al senso più fervido d’innovazione e
DALL’EVANESCENZA DEL CITTADINO MODERNO ALLE NUOVE PRATICHE 189
di progresso della modernità politica: contribuire a costruire una futura
più ricca cittadinanza16.
Questa serie di argomentazioni precipita allora in un punto: singo-
larità differenti possono dare vita a processi nuovi di soggettivazione
che configurano un nuovo tipo di governamentalità. Come argomentano
Pierre Dardot e Christian Laval, si tratta di inventare un’altra governa-mentalità, orientare e sedimentare processi alternativi di soggettivazione
provocati da controcondotte capaci di innescare pratiche di lavoro co-
operativo, di reciprocità, di condivisione dei beni comuni17. Qui prende
avvio il problema di nuovi dispositivi democratici e di forme radical-
mente altre di essere oggi cittadini del mondo: bisogna dunque pre-
stare attenzione alle esperienze già realizzate e anche a forme inedite
in via di sperimentazione che pongono in relazione percorsi nuovi di
singolarità con sistemi economico-produttivi in decomposizione, in am-
bienti di vita compromessi dall’intervento perverso degli esseri umani.
Per questa via, volendo rivolgere l’attenzione ai tentativi di introdurre
innovazioni migliorative nell’ambito dei processi decisionali all’interno
della forma democratica di governo, bisogna operare rapidamente una
prima distinzione: da un lato, incontriamo gli sforzi di pura teoria, rivolti
a suggerire proposte tecniche di riforma della democrazia liberale: basti
ricordare i lavori di Robert Dahl e i progetti di Ackermann, Fishkin e
Elster; oppure, la serie di strumenti argomentati in dettaglio da Phi-
lippe Schmitter ed Alexander Trechsel per migliorare la democrazia in
Europa18. Da una diversa angolazione, invece, molti studiosi procurano
di descrivere e commentare sperimentazioni diffuse in tutto il mondo
finalizzate all’attivazione di procedure più intensamente partecipative,
all’implementazione dei dispositivi democratici. A tale riguardo bisogna
richiamare subito l’importante pubblicazione a cura di Rey, Bacquè e
16 Su questo punto vedi le osservazioni di Etienne Balibar nell’intervista “La citoyenneté
à venir”, in E. BALIBAR, Europe Constitution Frontière, Editions du Passant, Bègles 2005,
p. 19.17 P. DARDOT - CH. LAVAL, La nouvelle raison du monde. Essai sur l’ordre neoliberal, La Dé-lcouverte, Paris 2009.18 Vedi almeno B. ACKERMAN - J. FISHKIN, Deliberation Day, Yale University Press, Yale
College 2004; J. FISHKIN, Il sondaggio deliberativo: perché e come funziona, in G. BOSETTI -
S. MAFFETTONE (a cura di), Democrazia deliberativa: cosa è, Luiss University Press, Roma
2004; J. ELSTER (a cura di), R Deliberative Democracy, Cambridge University Press, Cam-
bridge 1998. Per le proposte di Robert Dahl si veda: R. DAHL, I dilemmi della democrazia pluralista, Il Saggiatore, Milano 1988; ID., Il cittadino, in «Parolechiave», 5 (1994), pp.
13-29; ID., Quanto è democratica la costituzione americana?, Laterza, Roma - Bari 2003.
Infine, PH. SCHMITTER - A. TRECHSEL, Il futuro della democrazia. Stato di fatto e proposte di riforma, Sapere 2000, Roma 2006.
190 GIANFRANCO BORRELLI
Sintomer che raccoglie studi e riflessioni su significative realizzazioni in
regioni diverse del mondo, laddove risultano praticati dispositivi quali
assemblee, giurie civiche, procedure partecipative di bilanci pubblici,
utilizzo del sorteggio19. Esiste dunque una notevole letteratura critica
che descrive sperimentazioni di forme più avanzate di democrazia; con-
viene in forma rapida segnalare le più significative tipologie.
Dapprima, possiamo prendere in considerazione le procedure che
vanno sotto il nome di gestione di prossimità; si tratta di funzioni che age-
volano l’esercizio del governo a livelli microlocali attraverso organismi
che affiancano le istituzioni e rivestono poteri in prevalenza consulti-
vi; finalità particolari sono la salvaguardia della pace sociale, la lotta
all’esclusione, l’attivazione del più ampio dialogo tra rappresentanti e
rappresentati; in breve, si cerca di migliorare la gestione amministrati-
va locale attraverso l’incorporazione di saperi/competenze proprie dei
cittadini. Notevole è la diffusione di queste esperienze negli USA e nei
paesi del Nord Europa; in Francia, dopo un dibattito che dura almeno
dal 1995 (con la proposta di legge Bernier), nel febbraio 2003 è stata in-
trodotta una ricca legislazione di prossimità (vedi sempre il testo di Rey
- Bacquè - Sintomer). Esiste poi l’area delle applicazioni del cosiddetto
modello di democrazia deliberativa; il processo del prendere decisione
viene qui letto e praticato come processo di comunicazione pubblica,
strutturato rigorosamente come l’insieme delle procedure pragmatiche
e relazionali che operano attraverso dispositivi sistemici autocorrettivi,
finalizzate appunto alla migliore attivazione deliberativa. Tali dispositivi
sono applicati o come normali procedure di controllo per tutte le fasi
del processo decisionale, oppure ancora per la produzione di strumenti
di governo resi attivi attraverso la partecipazione di progetto da parte
del maggior numero di cittadini (vedi le argomentazioni teoriche, or-
mai classiche, di Habermas). Infine, un’altra serie di sperimentazioni
democratiche riguarda il modello che si può definire in senso stretto de-mocrazia partecipativa. In questi casi si tende alla realizzazione di forme
più autonome d’autogoverno territoriale; la dimensione politica è forte e
richiama un confronto diretto con il ruolo dello stato. Si tratta di nuovi
organismi che dispongono di poteri decisionali o codecisionali diversi,
con regole di garanzie procedurali autonome e con forme diversificate
di istituzionalizzazione. Questo tipo di organismi produce effetti redi-
stributivi importanti, introducendo elementi di politiche esplicitamente
egualitarie. La discussione su queste diverse sperimentazioni è appena
19 M.H. BACQUÉ - H. REY - Y. SINTOMER (a cura di),R Gestion de proximité et democratie partecipative. Une perspective comparative, La Découverte, Paris 2005.
DALL’EVANESCENZA DEL CITTADINO MODERNO ALLE NUOVE PRATICHE 191
agli inizi: essa cerca di rendere attive forme nuove di essere cittadini
del mondo, impegnando un terreno di effettive pratiche di cittadinanza
affianco alle impostazioni tradizionali dei discorsi di cosmopolitismo e
di federalismo. Questa più intensa richiesta di produrre diritti politici di
libertà e di eguaglianza richiede certamente di estendere ovunque nel
mondo quelle garanzie civili e sociali che la modernità politica ha posto
alla base di una cittadinanza che si è realizzata attraverso la combattuta
e sofferta attuazione delle carte costituzionali; inoltre, al fine di offrire
una sponda di sostegno e di rimedio ai danni e alle sofferenze indotti
dagli irruenti processi della globalizzazione economico-finanziaria, bi-
sogna favorire pratiche di cittadinanza di prossimità con modalità inedite
d’incontro e di reciprocità tra i soggetti nomadi e eccentrici che oggi
attraversano il mondo, che corrono il rischio dell’esclusione sociale e
politica, e che sicuramente – anche attraverso duri conflitti – pongono
il problema di praticare maggiore partecipazione alla vita del comune20;
si tratta, in breve, di “cogliere i mutamenti del lavoro, dello spazio, del
tempo, del potere e della cittadinanza, che accompagnano la prolifera-
zione dei confini nel mondo contemporaneo”21.
20 La cittadinanza di prossimità risponde a una diversa modalità di legittimazione di pros-simità che, secondo Pierre Rosanvallon, costituisce al presente uno dei percorsi di arric-
chimento della democrazia: per queste argomentazioni vedi P. ROSANVALLON, La Légi-timité démocratique. Impartialité, réfl exivité, proximité, Paris 2008, pp. 267-318. Per uno
svolgimento pienamente filosofico del tema della prossimità, ancora poco accolto come
uno dei punti centrali del dibattito contemporaneo, davvero notevole il contributo di
Lambros Couloubaritsis, La Proximité et la question de la souffrance humaine, Ousia Ébau-
ches, Bruxelles 2005.21 S. MEZZADRA - B. NEILSON, Confi ni e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondoglobale, Il Mulino, Bologna 2014, p. 23.
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 193-208
Cittadinanza e dirittiGUSTAVO GOZZI
1. Premesse concettuali. Il fondamento di legittimazione del concetto di cittadinanza
Aristotele nella Politica si interroga, chiedendosi chi sia cittadino, e ri-
sponde fornendo due precise indicazioni: la prima relativizza il concetto
di cittadino riconducendolo ai differenti contesti costituzionali e istitu-
zionali. «È necessario, scrive Aristotele, che ...il cittadino sia differente in
rapporto a ciascuna costituzione» (1275 b, 5)1.
La seconda considerazione introduce invece una riflessione che af-
fronta il fondamento di legittimazione dei diversi concetti di cittadino.
Dopo aver delimitato l’ambito della sua analisi al «cittadino della demo-
crazia», e averlo connotato in base alla sua partecipazione «alle funzioni
di giudice e alle cariche» pubbliche (1275 a, 23), Aristotele osserva che
«in pratica» è definito «cittadino chi discende da genitori entrambi citta-
dini». Ma subito dopo chiede: «quell’antenato di tre o quattro generazio-
ni addietro, come sarà diventato cittadino?» (1275 b, 27).
Prendendo ad esempio la costituzione di Clistene del 507 a.C., che
consentì l’acquisizione della cittadinanza a molti stranieri e meteci, Ari-
stotele pone la domanda decisiva chiedendo se l’abbiano «ottenuta in-
giustamente o giustamente» (1275 b, 39).
Aristotele pone dunque con chiarezza il problema del rapporto tra
cittadinanza e giustizia. Ma che cos’è la giustizia in un ordinamento
giuridico?
Secondo Hans Kelsen nel suo piccolo, ma prezioso libro dedicato
al problema giustizia, essa è un concetto relativo2, ossia proprio di ogni
specifico ordinamento giuridico. Nella forma di governo democratico il
concetto di giustizia è relativo al rapporto tra maggioranza e minoranze.
La cittadinanza, nelle forme di governo democratiche, non è un di-
ritto, bensì uno status, i cui criteri «giusti» sono stabiliti da un legislatore
di maggioranza che, nella rappresentazione della democrazia di Hans
Kelsen, dovrebbe garantire i diritti delle minoranze.
1 ARISTOTELE, Politica, Laterza, Roma - Bari 1983, p. 73.2 H. KELSEN, Il problema della giustizia (1960), Einaudi, Torino 1975.
194 GUSTAVO GOZZI
In realtà accade che il legislatore di maggioranza non approvi nor-
me ispirate al principio di «maggioranza-minoranza», bensì basate sulla
propria concezione della giustizia, della cittadinanza e del suo rapporto
con i diritti.
Occorre pertanto fornire una precisa definizione di cittadinanza per
poi ricostruirne storicamente il concetto e analizzarlo successivamen-
te all’interno della forma di governo democratica e, infine, nel quadro
dell’Unione Europea.
La cittadinanza è l’appartenenza alla comunità nazionale. In questa
prospettiva il concetto di cittadinanza si identifica con quello di naziona-lità, ossia con lo status di membro della comunità nazionale. È da questo
status che dipende l’attribuzione dei diritti.
Si tratta dunque di definire i criteri dell’attribuzione dello status di
cittadino. Essi non sono posti dalla costituzione, bensì dal legislatore di
maggioranza. Queste premesse consentono di chiarire la struttura logica
e giuridica della cittadinanza: il potere legislativo stabilisce i criteri (i jus((
soli oppurei jus sanguinis), da cui discende lo status di cittadino cui sono
attribuiti diritti civili e diritti politici.
Questa struttura comporta numerosi problemi. In primo luogo i di-
ritti civili sono attribuiti ai soli cittadini, ma non vi sono ragioni, se non
la volontà della maggioranza, per le quali il diritto di circolazione (art.
16 della costituzione italiana), o il diritto di riunione (art. 17), o il diritto
di associazione (art. 18) debbano essere riservati ai soli cittadini. Essi
infatti si riferiscono allo status personae3 e non allo status civitatis.In secondo luogo, se si pone al fondamento dello status di cittadino il
criterio dello jus sanguinis – come è stabilito dalla legge italiana del 1992
e da quella tedesca del 22.7.1913 (RUSTAG), modificata in base alla
sentenza del BundesVerfassungsGericht (BVERFG) tedesco del 21 mag-
gio 19744, e come è stato confermato dall’ultima legge tedesca del 15 lu-
glio 1999 (malgrado essa abbia introdotto anche il principio territoriale
accanto a quello della nascita5) – si pone al fondamento dell’idea di cit-
3 L. FERRAJOLI, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma - Bari 1994, p. 269 ss.i4 La sentenza ha dichiarato l’incostituzionalità – in quanto violava il principio di ugua-
glianza proclamato dall’art. 3 Abs. 2 del Grundgesetz – dell’art 4 del RUSTAG che at-
tribuiva, in virtù della nascita, la sola cittadinanza del padre e ha determinato la rifor-
mulazione dell’art. 4 con l’introduzione dell’attribuzione, in virtù della nascita, della
cittadinanza del padre e della madre e non più del solo padre.5 La legge del 1999 non ha tuttavia ammesso la doppia cittadinanza, in quanto ha stabi-
lito, all’art. 29, che lo straniero che abbia ottenuto la cittadinanza in virtù della nascita
sul territorio tedesco, debba dichiarare di scegliere, al momento dell’acquisizione della
CITTADINANZA E DIRITTI 195
tadinanza l’idea naturalistica di nazione, ossia della comunità di cittadini
nazionali, discendenti da genitori nazionali secondo una linea di sangue.
Ne può scaturire un conflitto tra l’universalismo morale dei diritti e il
particolarismo etico della comunità nazionale, come ha ben avvertito S.
Benhabib6.
Un esempio significativo è chiaramente illustrato dalla sentenza
24.9.2003 del BVERFG relativa alla negazione dell’esercizio della fun-
zione pubblica di insegnante, in nome dei requisiti richiesti ad un fun-
zionario tedesco, ad una donna di origine afgana e religione musulmana,
anche se cittadina tedesca per naturalizzazione, che chiedeva di poter in-
dossare il velo islamico durante lo svolgimento dell’attività di insegnan-
te. In questo caso, come precisa Benhabib, il Tribunale costituzionale
federale tedesco ha subordinato il diritto alla libertà coscienza, “nono-
stante le numerose affermazioni della neutralità dello Stato rispetto alle
convinzioni religiose e di altro genere, ...all’interesse del popolo demo-
cratico alla preservazione della propria identità e tradizione culturale”7.
Il caso in esame è ancora più significativo, in quanto mette in luce come
la discriminazione in nome della concezione naturalistica della nazione
possa lacerare la stessa appartenenza alla comunità nazionale di cittadini
di etnie diverse da quella nazionale.
Giungiamo qui ai confini della democrazia e appare evidente che la
negazione dell’appartenenza ad una comunità politica «è probabilmen-
te la forma di tirannia più comune nella storia dell’umanità», come ha
chiaramente sostenuto M. Walzer8.
2. La cittadinanza come criterio interpretativo per defi nire il rapporto tra democrazia e diritti
Le considerazioni che abbiamo esposto mettono in luce con chiarezza
che la cittadinanza può costituire il criterio per definire con precisione il
rapporto tra democrazia e diritti.
Il processo politico democratico è una forma di autodeterminazione
del popolo che avviene sulla base del riconoscimento dei diritti.
maggiore età, la cittadinanza tedesca e conseguentemente di rinunciare a quella stra-
niera.6 S. BENHABIB, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Raffaello Cortina Editore, iMilano 2004, p. 141 ss.7 Ibi, p. 160.i8 M. WALZER, Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 1987, p. 71.
196 GUSTAVO GOZZI
Una sentenza del BVERFG ha precisato questo rapporto: «i diritti fon-
damentali non sono concessi al cittadino perché ne disponga liberamen-
te, ma per la sua condizione di membro della comunità e dunque anche
nell’interesse pubblico»9. Questa sentenza stabilisce la relazione tra cit-
tadino e democrazia attraverso i diritti fondamentali. Tuttavia qualche
autore stabilisce, al contrario, la relazione tra cittadino e democrazia,
mentre attribuisce ai diritti fondamentali solo il carattere di fondamento
costitutivo della società.
I diritti possono essere infatti riconosciuti a tutti, anche agli stranieri,
ma la partecipazione politica può essere invece riservata ai soli cittadi-
ni10.
3. Modelli di cittadinanza e storie costituzionali
In relazione alle diverse storie costituzionali, esistono in Europa dif-
ferenti modelli di cittadinanza. Ciò naturalmente è destinato ad avere
un’influenza sulla cittadinanza europea, in quanto l’art. 8 del Trattato
sull’Unione Europea stabilisce che: «È cittadino dell’Unione chiunque
abbia la cittadinanza di uno stato membro».
Si consideri ad esempio il modello di cittadinanza inglese e si riscon-
trerà facilmente che esso è fortemente determinano dal passato imperia-
le della Gran Bretagna. «L’identità e l’appartenenza britanniche – scrive
Randall Hansen, docente di scienze politiche all’Università di Oxford
– si fondano tradizionalmente sul fatto di essere suddito (subjecthood) ddpiuttosto che sulla cittadinanza, della quale il diritto britannico non dà
una definizione fino al 1948»11. Anche allora la cittadinanza britannica
era legata ad una più estesa cittadinanza imperiale che garantiva lo stes-
so status giuridico a tutti membri dell’impero britannico.
Quando la Gran Bretagna si spogliò dell’impero e trattò sempre più
i cittadini del Commonwealth come stranieri, «la cittadinanza finì per
legarsi lentamente ma definitivamente alla nascita e residenza nel Regno
Unito»12.
Storicamente la nazionalità britannica si basava dunque sul subjectho-od: era suddito britannico chi doveva fedeltà (allegiance) al re. Tutti gli
altri erano stranieri. I diritti e doveri derivavano da un’allegiance indivi-
9 BVERFGE 14, 21 (25).10 Cfr. J. ISENSEE, Grundrechte und Democratie, in «Der Staat», 1981, p. 166.11 R. HANSEN, Il diritto di nazionalità nel Regno Unito, in M. MARTINI (a cura di), Modelli di cittadinanza in Europa, Clueb, Bologna 2003, p. 73.12 Ibidem.
CITTADINANZA E DIRITTI 197
duale al sovrano. La dottrina prese origine da una famosa sentenza giu-
diziaria del 1608, denominata “Caso Calvin”, che introdusse nel diritto
britannico lo jus soli, che perdurò fino agli anni Ottanta del secolo scor-iso. In breve: tutti gli individui nati in un luogo all’interno di quello che
divenne l’impero britannico erano sudditi britannici con uguali diritti.
All’inizio del XX secolo circa 800 milioni di persone avevano diritto ad
entrare nel Regno Unito e ad avvalersi dei diritti associati con la cittadi-
nanza britannica13.
Quando la Gran Bretagna si era ormai spogliata dell’impero, il Bri-
tish Nationality Act del 1981 creò un nuovo modello di cittadinanza
basato su tre categorie principali: la cittadinanza britannica, che esclu-
deva le colonie; la cittadinanza britannica d’oltremare (British Overseas
Citizenship - BOC) e la cittadinanza dei territori dipendenti dalla Gran
Bretagna (British Dependent Territories Citizenship - BDTC). Questi
due ultimi tipi di cittadinanza erano residui della cittadinanza delle co-
lonie. Coloro che li possedevano non avevano il diritto ad entrare nel
Regno Unito.
L’Act si differenziava dalla tradizione dello jus soli, che era stato allaibase della nazionalità precedente. Per acquisire la cittadinanza per na-
scita era necessario essere nati da un cittadino britannico (o da due),
oppure da un residente permanente (o da due). Ci si poteva tuttavia
registrare come cittadini britannici se, mentre si era ancora minorenni,
uno dei genitori si fosse naturalizzato o fosse diventato residente nel
Regno Unito, oppure se si fosse stati residenti nel Regno Unito per dieci
anni14. La legge del 1981 ha pertanto introdotto una chiara limitazione
dello jus soli. La trasformazione è dipesa dalla fine dell’impero britan-
nico e dalla necessità di regolamentare i flussi migratori dai paesi del
Commonwealth.
Diverso appare il modello italiano di cittadinanza. Le prime norme
risalgono agli artt. da 4 a 15 del Codice civile del 1865. Il principio
guida, destinato a perpetuarsi fino ai giorni nostri, era quello dello jussanguinis: un modo di trasmissione della cittadinanza che risaliva alla
tradizione romanistica e che valeva solo nei confronti del padre. Questa
chiusura nei confronti degli stranieri era tuttavia compensata dall’at-
tribuzione del godimento dei diritti civili, sancita in modo paritetico, a
stranieri e cittadini.
La successiva legge organica del 1912 mantenne il principio dello jus sanguinis. La legge mirava a mantenere il legame tra la madrepatria e gli
13 Ibi, p. 78.i14 Ibi, p. 87.i
198 GUSTAVO GOZZI
emigrati, giacché stabiliva che, anche nel caso di rinuncia alla cittadi-
nanza italiana per imposizione della cittadinanza dello stato di residen-
za, essa sarebbe stata riacquistata automaticamente al rientro in Italia
dell’ex-cittadino. La legge era dunque fortemente connessa alla realtà
dei grandi flussi migratori di lavoratori dall’Italia.
Infine l’ultima legge – n. 555 del 1992 – appare fortemente determi-
nata dalla trasformazione dell’Italia in «paese d’immigrazione» e da un
dibattito politico che ha finito – sulla base di una malintesa volontà di
rafforzare l’identità nazionale e della rinuncia al dovere della solidarietà
sociale – col ribadire il principio dello jus sanguinis e con l’introdurre,
attraverso la legislazione successiva, un modello contro l’integrazione
degli stranieri.
Molto rilevante è il modello francese di cittadinanza, anche per l’in-
fluenza che ha esercitato su altri paesi europei. La Francia introdusse
per prima lo jus sanguinis nel Codice civile del 1804, spezzando la tra-
dizione monarchica, che legava l’individuo alla terra del suo signore.
Questo modello fu seguito dalla Prussia nel 1842 e dal Codice civile
italiano del 186515.
Ma la Francia ritornò alla fine del sec. XIX allo jus soli su di un fon-idamento rappresentato non più da un vincolo di soggezione feudale,
bensì sulla necessità dell’assimilazione della vasta immigrazione di mas-
sa. La legge del 1889 rendeva infatti francese alla nascita il figlio nato
in Francia da un genitore straniero, egli stesso nato in Francia, senza
possibilità di ripudio (salvo se era musulmano d’Algeria)16. La successiva
legislazione sulla cittadinanza del 1973, del 1984, del 1993 e del 1998 fu
una progressiva articolazione del principio introdotto nel 1889.
La nuova legislazione del 1998 stabilisce che il figlio nato in Francia
da un genitore straniero è francese se risiede sempre in Francia e se vi
ha risieduto durante l’adolescenza. In breve «la logica dell’assimilazione
progressiva degli immigrati e dei loro discendenti adottata nel 1889 non
sembra più in causa»17.
La qualità di cittadino francese è attribuita automaticamente alla se-
conda generazione nata in Francia. Lo stato francese lo adotta conside-
randolo francese alla maggiore età, quale che sia la sua volontà. L’accor-
do del giovane è successivamente presunto, se non rifiuta esplicitamente
la nazionalità francese.
15 P. WEIL, La storia della cittadinanza francese: una lezione per l’Europa, in M. MARTINI (a
cura di), Modelli di cittadinanza in Europa, cit., p. 49.16 Ibi, p. 38.i17 Ibi, p. 48.i
CITTADINANZA E DIRITTI 199
Essendo molti paesi europei divenuti paesi d’immigrazione, potreb-
bero seguire lo stesso cammino della Francia.
4. Storia del concetto di cittadinanza
Il modello francese è particolarmente rilevante per l’influenza che ha
esercitato su numerosi paesi europei. Nell’età della rivoluzione francese
i diritti del cittadino erano in realtà diritti dell’uomo rifl essi, in quanto
esprimevano il diritto alla conservazione dei diritti naturali. In breve: «Il
cittadino era cittadino e aveva i diritti di un cittadino perché era titolare
dei diritti universali dell’uomo»18.
Tuttavia ben presto si verificò una cesura tra cittadinanza e diritti
naturali dell’uomo, come appare dai criteri censitari introdotti fin dalla
costituzione francese del 1791. Si spezzò il rapporto tra l’universalismo
dei diritti dell’uomo, sui quali si fondava originariamente il concetto di
cittadinanza, e i criteri posti al fondamento dell’esercizio della funzione
politica della cittadinanza.
Anche nello scritto Sopra il detto comune di I. Kant pubblicato nel
1793, appare il concetto di cittadino (Bürger or Staatsbürger) come sog-rrgetto dotato di «indipendenza», ossia che disponeva di proprietà o cul-
tura, distinto dall’uomo al quale erano riconosciuti gli inalienabili diritti
dell’uomo.
La cittadinanza era il rapporto dei cittadini con la civitas: era una re-
lazione che coinvolgeva tutti i soggetti «in quanto titolari di quella sfera
di libertà che l’ordine giuridico coattivo tutela(va) e protegge(va)». La
civitas – scrive Pietro Costa – rende i cittadini partecipi dell’unico re-
gime che può dirsi propriamente patriottico: «un governo patriottico è
quello che solo può essere concepito per uomini capaci di diritti». Costa
esprime questo rapporto tra governo e libertà con il concetto di «patriot-
tismo dei diritti»19.
Ma a partire dal secolo XIX si sono gradualmente attenuati i criteri
fondativi dello status di cittadino legati alla proprietà, alla cultura, all’e-
tà, al sesso. Il concetto di cittadino è diventato sempre più inclusivo, ma
ciò non significa che si sia identificato con il concetto di «uomo».
18 U.K. PREUSS, Zum verfassungstheoretischen Begriff des Staatsbürgers in der modernen Ge-sellschaft, int ID. (a cura di), Staatsbürgerschaft und Zuwanderung, gg ZERP - Diskussionspapier
5 (1993), Bremen 1993, p. 24.19 P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 2. L’età delle rivoluzioni, Laterza, iRoma - Bari 2000, pp. 154-157.
200 GUSTAVO GOZZI
Il principio democratico ha gradualmente superato le barriere con-
nesse alla condizione economica o allo status sociale per l’esercizio di
una cittadinanza attiva, intesa come partecipazione ai processi di for-
mazione della volontà politica. Ma lo stato detiene il potere sovrano che
traccia i confini tra chi appartiene allo stato e chi ne è escluso.
Vi è dunque una tensione interna e irrisolta tra la dimensione politicae quella sociale della cittadinanza, ma ora è avvenuto un rovesciamento
rispetto al sec. XIX: se nell’Ottocento la condizione di marginalità so-
ciale escludeva dalla cittadinanza, ora è invece, nel secolo XX e in quello
attuale, l’esclusione dall’appartenenza allo stato che può anche compor-
tare una condizione di deprivazione sociale.
In questa prospettiva la cittadinanza ci appare non solo uno status
giuridico, ma anche un «bene sociale» (soziales Gut), che rappresenta unatchiave di accesso alle possibilità di vita nelle società industriali20.
5. La società dei cittadini
Appare così evidente che nel concetto di cittadinanza sono racchiuse tre
dimensioni: quella della nazionalità, ossia dell’appartenenza alla comu-
nità nazionale; la dimensione, come afferma la dottrina tedesca, della
Staatsbürgerschaft, ossiat l’attiva partecipazione alla vita politica dello statoe, infine, la partecipazione alla vita della società civile21.
Secondo U.K. Preuss il concetto di Staatsbürger, letteralmente cittadi-rno-dello-stato, appartiene alla dottrina dello stato di diritto del sec. XIX
e corrisponde alla rappresentazione di un soggetto partecipe delle rela-
zioni all’interno della sfera statale, mentre l’odierna società-dei-cittadini
si riferisce ad individui che non operano isolati ma che, al contrario,
appartengono a specifiche realtà sociali, culturali, etniche, linguistiche,
religiose che postulano il loro reciproco riconoscimento.
In questa società-dei-cittadini l’idea di cittadino comporta la necessi-
tà di un fondamento diverso dalla nazionalità, ossia diverso dall’appar-
tenenza alla nazione dello stato e, dunque, un fondamento rappresenta-
to piuttosto dall’appartenenza alla società e alle molteplici comunità di
cui essa consta.
20 U.K. PREUSS, cit., p. 620.21 U.K. PREUSS, cit., p. 21
CITTADINANZA E DIRITTI 201
6. Cittadinanza e democrazia multiculturale
Ma come delineare questo nuovo fondamento di una cittadinanza non
più nazionalistica, bensì adeguata alla realtà pluralistica dell’attuale de-
mocrazia multiculturale composta da una molteplicità di culture, di et-
nie e di religioni?
Per tentare di fornire una risposta a questa domanda è necessario,
in primo luogo, riflettere sulle condizioni che consentono la coesistenza
di queste molteplici comunità culturali, ossia sul problema della loro
integrazione.
Alla realtà del multiculturalismo corrisponde, come sottolinea J. Ha-
bermas22, uno specifico modello di integrazione concepito su due livelli:
un’integrazione di tipo etico-culturale che consente ad ogni individuo di
vivere nel rispetto delle proprie tradizioni e di educarvi i propri figli; e
un’integrazione di tipo politico-costituzionale, che consiste nel porre al
fondamento di una democrazia multiculturale non l’idea di nazione et-
nicamente intesa, bensì l’idea di costituzione.In questa prospettiva la cittadinanza non sarà più interpretata come
appartenenza ad una nazione concepita in senso etnico, ossia legata da
origini di sangue, bensì come appartenenza ad una comunità di indivi-
dui che si riconoscono negli stessi valori della costituzione.
Questo possibile spostamento del fondamento della cittadinanza
dall’idea di nazione all’idea di costituzione corrisponde alle diverse pro-
spettive del nazionalismo e del repubblicanesimo e a due differenti conce-
zioni della democrazia.
Nelle rivoluzioni americana e francese furono posti come fondamen-
to della repubblica i diritti universali dell’uomo e non la volontà di unpopolo. Nella Dichiarazione francese del 1789 fu enunciata in primo
luogo l’inviolabilità dei diritti dell’uomo e ad essi fu finalizzata la so-
vranità dello stato23. Al contrario l’attribuzione ai soli cittadini di diritti
particolari è l’espressione di un’ideologia nazionalistica.
Nella prospettiva del repubblicanesimo, sono cittadini di una repub-
blica tutti i cittadini che si riconoscono in una costituzione repubblica-
22 J. HABERMAS, Lotte per il riconoscimento nello Stato democratico di diritto, in «Ragion Pra-
tica», 2 (1993) 3, pp. 157-158.23 Si veda l’art. 2: “Le but de toute association politique est la conservation des droits na-tturels et imprescriptibles de l’homme. Ces Droits sont la liberté, la propriété, la sureté,
et la résistance à l’oppression”.
202 GUSTAVO GOZZI
na. Il fondamento ideologico della repubblica, come ha affermato D.
Sternberger24, è il patriottismo costituzionale.Ad essa si oppone l’identità nazionale fondata, come ho preceden-
temente sottolineato, sull’idea di popolo come unità etnica e culturale,
un’idea che è sempre stata fonte di discriminazioni. Al contrario il pa-
triottismo costituzionale esprime la valorizzazione dei principi universa-
listici dei cittadini.
Alla tensione tra repubblicanesimo e nazionalismo corrisponde l’am-
bivalenza dell’idea di nazione, in quanto essa si compone, da una parte,
di cittadini liberi ed eguali ma, dall’altra, di membri di un popolo che
appartengono alla stessa comunità etnica con lo stesso linguaggio25, le
stesse origini, le stesse tradizioni.
7. Quale futuro dello Stato-nazione?
Le considerazioni precedentemente esposte hanno messo in luce la com-
plessità del rapporto tra «cittadinanza» e «nazione». Questa complessità è
dovuta al carattere bivalente di questa relazione.
In un saggio dedicato al futuro dello stato-nazione, J. Habermas ana-
lizza questa complessità osservando che il concetto di nazione ha due
facce: la nazione dei cittadini, che è la fonte della legittimazione democra-itica e che rappresenta una sorta di «comunità repubblicana» e la nazionedegli appartenenti etnici che provvede all’integrazione socialei 26.
Vi è un’evidente tensione tra l’universalismo di un’egualitaria comu-
nità giuridica e il particolarismo di una (etnica) «comunità storica del
destino», che è costitutiva dello stato nazionale.
Due fattori – uno interno e uno esterno – sono destinati ad influen-
zare questa tensione tra universalismo della comunità giuridica e il par-
ticolarismo della comunità etnica di destino.
In primo luogo, le odierne società pluralistiche e multiculturali si al-
lontanano sempre più dal vecchio modello di uno stato nazionale cul-
turalmente omogeneo. In secondo luogo, afferma Habermas, la globa-
lizzazione finisce per determinare, come stiamo osservando oramai da
anni, alti tassi di disoccupazione strutturale che contribuiscono a for-
24 D. STERNBERGER, Verfassungspatriotismus. Rede bei der 25-Jahr-Feier der «Akademie für Politische Bildung» (1982), in Verfassungspatriotismus, Insel, Frankfurt a.M., 1990, p. 17.25 J. HABERMAS, Die Normalität einer Berliner Republik, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1995,
p. 179.26 J. HABERMAS, Lo Stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinan-za, in ID., L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 1998, p. 128.
CITTADINANZA E DIRITTI 203
mare una «sottoclasse» suscettibile di dar vita a rivolte anarchiche e au-
todistruttive27.
Questa condizione è tale da produrre un’erosione della «comunità
repubblicana», mettendone in discussione le istanze solidaristiche e im-
pedendo l’integrazione politica della popolazione mediante la partecipa-
zione democratica.
Le conseguenze di questa disgregazione sono tali da rafforzare la «na-
zione degli appartenenti etnici» e, con essa, l’idea di una cittadinanza
come nazionalità, proprio nel momento in cui il carattere multiculturale
delle nostre società richiederebbe invece la formulazione di una nuova
idea di cittadinanza radicalmente disgiunta da ogni connotazione etnica.
È contro questa deriva dell’esclusione dell’«altro» che occorre formu-
lare con convinzione un pensiero fortemente critico.
Lo stato nazione vive, dunque, sia dell’universalismo di una comu-
nità giuridica egualitaria, espresso dai diritti fondamentali riconosciuti
costituzionalmente, sia del particolarismo di una comunità storica se-
gnata dallo stesso destino. Il repubblicanesimo potrà affermarsi, secon-
do Habermas, solo se viene superato il potenziale ambivalente del na-
zionalismo.
La globalizzazione rappresenta il fattore esterno che, da un lato, può
determinare – come abbiamo osservato – la fragilità della «comunità
repubblicana» ma, dall’altro, può favorire l’affermazione del repubblica-
nesimo a causa delle sfide che oggi fronteggiano lo stato nazionale. La
tendenza alla globalizzazione degli scambi e delle comunicazioni non
consente più che i problemi siano affrontati con la prospettiva dello sta-
to nazionale. Soprattutto sul piano dell’Unione Europea si impone la
necessità di una comune cultura politica che alimenti un’opinione pub-
blica europea e fondi la possibilità di una costituzione europea28.
8. La cittadinanza e l’Europa
Per il conseguimento di una democrazia pienamente realizzata l’idea di
cittadinanza dovrebbe dunque essere disgiunta dalle sue connotazioni
etniche.
Con una sentenza del 9 febbraio 1989 il BVERFG, alcuni mesi pri-
ma della caduta del muro di Berlino, si pronunciò su una legge dello
Schleswig-Holstein che aveva concesso il diritto di voto nelle elezioni
27 Ibi, p. 136.28 Ibi, p. 182.
204 GUSTAVO GOZZI
comunali e distrettuali a tutti gli stranieri di cittadinanza danese, irlan-
dese, olandese, norvegese, svedese, svizzera residenti da almeno 5 anni
nello Schleswig-Holstein in base ad un principio di reciprocità con quei
paesi.
La sentenza sul caso, che era stato portato davanti al Tribunale co-
stituzionale federale dalla CDU-CSU, affermò che gli articoli 20 e 28 del
GG, che stabiliscono che tutto il potere dello Stato deriva dal popolo, si
riferiscono al popolo tedesco del quale non fanno parte gli stranieri.
La legge elettorale dello Schleswig-Holstein si basava invece sul pre-
supposto che né il concetto di popolo, né la definizione di democrazia
precludessero il diritto degli stranieri di prendere parte alle elezioni.
Tuttavia la sentenza aggiunse anche che il popolo sovrano avrebbe
potuto, attraverso i propri rappresentanti, modificare il concetto di cit-
tadinanza. In breve, secondo questa prospettiva, il popolo è certamente
concepito come ethnos, ossia come comunità alla quale si appartiene
dalla nascita. Ma la sentenza ammise anche che il demos potesse modi-
ficare la propria definizione alterando i criteri per l’ammissione alla cit-
tadinanza. Tali processi si rendono necessari quando si è in presenza di
profonde trasformazioni nella composizione culturale, etnica, religiosa
della popolazione.
In breve: demos ed ethnos non coincidono e il demos può modificare
l’ethnos, ridefinendo i criteri dell’appartenenza democratica.
È stato osservato che questa sentenza rappresenta il «canto del ci-
gno» di una morente ideologia della nazione29. Pochi anni dopo infatti il
Trattato di Maastricht del 1992 ha istituito la cittadinanza europea, che
ha garantito il diritto di elettorato attivo e passivo a tutti i cittadini dei
paesi firmatari residenti nel territorio di altri Stati membri dell’Unione
Europea. In altri termini, la non identificazione di demos ed ethnos con-
sentirebbe di considerare coloro che vivono tra noi senza appartenere
all’ethnos, non come stranieri, bensì come «nostri concittadini di origine
straniera»30.
In questo orizzonte si è posta la nuova legge tedesca sulla cittadinan-
za approvata nel luglio 1999, mentre l’Italia sembra ancora attestata su
di un modello orientato contro l’integrazione.
Qualche ulteriore considerazione deve essere formulata. È assai dub-
bio che quando il GG tedesco del 1949, negli artt. 20 o 28, o la costi-
tuzione italiana, nell’art. 1, menzionano il «popolo» intendano il popolo
29 S. BENHABIB, I diritti degli altri, cit., p. 165.i30 Ibidem.
CITTADINANZA E DIRITTI 205
«tedesco»31 e il popolo «italiano» rispettivamente. Infatti l’art. 8 e l’art. 19
della costituzione italiana ammettono una non-omogeneità religiosa, l’art.
21 ammette una non-omogeneità culturale. In breve la nostra costituzione
consente una democrazia senza omogeneità, la cui realizzazione trova un
ostacolo insuperabile in un concetto di cittadinanza basato sul principio
della discendenza.
Esempi di società multiculturali, come quella americana, dimostrano
che «per avere una cultura politica tale che consenta ai principi costitu-
zionali di metter radici, non c’è bisogno di ricorrere ad un’origine etnica,
linguistica e culturale che sia comune a tutti i cittadini dello Stato. Una
cultura politica di stampo liberale rappresenta semplicemente il comune
punto di riferimento di un ‘patriottismo costituzionale’, che acuisce nel-
lo stesso tempo la sensibilità per la molteplicità e l’integrità delle diverse
‘forme di vita’ coesistenti dentro una società multiculturale»32.
9. La formazione di una cittadinanza duale: la cittadinanza tral’Unione Europea e lo stato nazionale
Concludo queste riflessioni con uno sguardo sull’Europa. In un’opera
del 1859, giunta alla quarta edizione nel 1861, intitolata D’un nuovo diritto europeo, Terenzio Mamiani osservava che «il principio della na-
zionalità, di cui tanto si ragiona oggi e in cui tentano alcuni scrittori di
riconoscere il fondamento primo del nuovo diritto europeo, debbe...
definir se medesimo...pronunziando che le congregazioni d’uomini le
quali pervengono a costituirsi una patria..., sono libere e incoercibili
interamente e assolutamente» e pertanto, concludeva Mamiani, «è de-
siderabile e talvolta giusto e doveroso sciogliere eziandio con le armi le
fittizie e violente unità politiche dove sono più Stati e più patrie»33. In
breve: secondo Mamiani il principio di nazionalità doveva essere il fon-
damento di un diritto europeo attraverso il riconoscimento delle distinte
individualità degli Stati nazionali.
L’attuale evoluzione dell’Unione Europea potrebbe invece lasciar in-
travedere oggi uno scenario diverso.
L’idea di «cittadinanza europea» introdotta con il Trattato di Maa-
stricht pone le basi per una «cittadinanza duale», nazionale ed europea,
di cui occorre definire il fondamento di legittimità. Essere cittadino di
31 Cfr. B.O. BRYDE, Die bundesrepublikanische Volksdemokratie als Irrweg der Demokratie-theorie, in «Staatswissenschaften und Staatspraxis», (1994) 3, p. 319.32 J. HABERMAS, Morale, Diritto, Politica, Einaudi, Torino 1992, p. 116.33 T. MAMIANI, D’un nuovo diritto europeo, Tipografia Scolastica, Torino 1861, p. 51.
206 GUSTAVO GOZZI
un ordine politico diverso dallo stato nazionale – e l’Unione Europea
non è certamente uno stato nazionale – sembra infatti contraddire gli
sviluppi del pensiero politico a partire dall’età moderna.
In realtà se si considera che il moderno concetto di cittadinanza ha
rappresentato una reazione alla relazione tra stato e individuo, ossia tra
stato e suddito, durante l’età dell’assolutismo, allora si tratta di com-
prendere se gli elementi di questa relazione, che si compone di diritti,idoveri e i partecipazione politica, si possano riconoscere anche nel nuovo
rapporto che si è andato instaurando tra i cittadini degli stati nazionali
e l’Unione Europea.
Attraverso i trattati istitutivi delle Comunità europee (del carbone e
dell’acciaio, economica e dell’energia atomica) gli stati nazionali hanno
trasferito dei poteri reali a livello europeo, con il risultato di creare un
livello addizionale di autorità pubblica al di sopra del livello degli stati
membri.
Questo livello di autorità pubblica esercita un potere reale che si
esprime attraverso atti normativi che incidono sulle vite dei cittadini
degli stati membri34.
Il trasferimento di poteri reali alla CE e successivamente, dopo l’en-
trata in vigore del trattato di Maastricht, all’UE ha creato necessaria-
mente una nuova relazione di cittadinanza tra le autorità pubbliche
dell’UE – Armin von Bogdandy ha definito questo livello istituzionale
europeo una tendenziale «federazione sovranazionale»35 – e i cittadini
degli stati membri.
Se un’autorità pubblica esercita un potere reale sui cittadini, deve
essere istituito un contro-potere sotto forma di diritti e di partecipazione
politica, ossia di ciò di cui consiste la cittadinanza36.
Se si concepisce la cittadinanza come relazione esclusiva tra il cittadi-
no e lo stato, allora essa può essere definita solo nei termini dell’appar-
tenenza alla comunità etno-culturale della nazione.
Ma una diversa concezione di pensiero politico – da H. Laski a T.H.
Marshall (ma si potrebbero aggiungere anche Santi Romano e, ora, A.
Sen) – rappresenta invece i cittadini come appartenenti a diverse comu-
nità che si sovrappongono; concepisce il potere politico come struttura-
to su diversi livelli di organizzazione sociale ed esclude pertanto che la
34 J. MONAR, A dual citizenship in the making: the citizenship of the European Union and itsreform, in M. LA TORRE (a cura di), European Citizenship. An Institutional Challenge, Klu-
wer Law, The Hague - London - Boston 1998, p. 171.35 A. VON BOGDANDY, I principi costituzionali dell’Unione Europea, in www.federalismi.it,
24 marzo 2005, p. 40.36 J. MONAR, A dual citizenship in the making, cit., p. 173.gg
CITTADINANZA E DIRITTI 207
cittadinanza possa essere ridotta alla sola relazione tra stato e nazione.
Uno studio degli anni Novanta del secolo scorso dello European Value System Study Group aveva fatto emergere che il 39% dei cittadini europei
ha un senso di appartenenza alla propria comunità locale, il 17% alla
regione e solo il 26% al loro paese37.
Così la cittadinanza, concepita come un insieme di diritti, doveri e
partecipazione politica, può essere rappresentata come un fenomeno plu-ralistico, che non può essere ridotto alla sola cittadinanza nazionale38.
Esistono infatti diversi gradi di cittadinanza che si riferiscono a diversi ilivelli di autorità politica, per cui appare pienamente plausibile avere una
cittadinanza dell’UE che coesista con la cittadinanza nazionale39.
Se si considera la cittadinanza come uno status basato sull’apparte-
nenza ad una comunità nazionale, allora – considerando che non esiste
né una «nazione dell’UE», né una «nazionalità dell’UE» – la risposta alla
domanda se possa esistere una «cittadinanza duale», nazionale ed eu-
ropea non può che essere negativa. Ma se si concepisce la cittadinanza
come una combinazione di diritti, doveri e partecipazione politica, allora
si può riscontrare che ciò si dà anche sul livello dell’UE.
L’art. 8 del trattato sull’Unione Europea riconosce infatti 5 diritti ai
cittadini dell’Unione: il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel
territorio degli stati membri (8A), il diritto di voto e di eleggibilità nelle
elezioni comunali dello stato membro in cui risiede (8B); il diritto alla
tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi stato
membro (8C); il diritto di petizione al Parlamento europeo (8D.1) e il
diritto di rivolgersi all’Ombudsman dell’Unione Europea (8D.2).
Il diritto di voto nelle elezioni amministrative di uno stato membro,
di cui non si sia cittadini, ha rappresentato una profonda irruzione nello
spazio della cittadinanza nazionale sul fondamento della cittadinanza
europea.
La costruzione è ancora largamente incompiuta, in quanto la garan-
zia di questi diritti è demandata alla sovranità degli stati nazionali e non
all’autorità dell’Unione Europea.
Quanto ai doveri, l’art. 8 si limita ad affermare che «i cittadini dell’U-
nione...sono soggetti ai doveri previsti dal presente trattato». Sicuramen-
te i cittadini dell’Unione sono soggetti a due doveri: sono tenuti ad ob-
bedire alla legislazione comunitaria e debbono versare parte delle loro
imposte a beneficio del budget comunitario.
37 Ibi, p. 175.i38 Ibidem.39 Ibidem.
208 GUSTAVO GOZZI
Infine la partecipazione politica avviene attraverso l’elezione del Par-
lamento europeo, cui sono riconosciuti poteri reali di controllo e di co-
decisione. Ad esso spetta infatti un ruolo decisivo nella nomina della
Commissione (art. 158, comma 2). Il Parlamento europeo rappresenta
pertanto un importante mezzo di partecipazione politica, che lega i cit-
tadini dell’Unione al livello politico dell’autorità dell’Unione.
Fino a quando esisterà una divisione costituzionale di poteri tra stati
membri e Unione Europea, la cittadinanza sarà una «cittadinanza dua-
le», che rifletterà il peso politico di entrambi i livelli politici, quello na-
zionale e quello europeo.
In realtà l’attuale crisi – economica, sociale, culturale e politica –
dell’Unione Europea rende difficile, se non impossibile, qualsiasi pre-
visione sulla futura evoluzione della cittadinanza europea e sul suo
rapporto con la cittadinanza nazionale, anche se sono stati posti con
chiarezza, livello dell’Unione, i criteri per un possibile superamento del
ristretto orizzonte del nazionalismo.
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 209-228
L’evoluzione della democraziaDallo Stato nazionale al cosmopolitismo
BARBARA PISCIOTTA
1. Premessa
Nel 1957 Giovanni Sartori affermava che una democrazia è essenzial-
mente due cose: un regime politico, inteso come un insieme di elementi
reali, quali istituzioni e procedure; un ideale, vale a dire un insieme di
elementi simbolici, valori e ideologie (Sartori, 1957). Questa distinzione
si è tradotta inizialmente nello sviluppo di due filoni fondamentali della
scienza politica: uno legato allo studio della stabilità delle procedure
democratiche e dei processi di democratizzazione; l’altro teso ad ap-
profondire l’analisi del tipo di democrazia effettivamente vigente in un
dato paese e, più specificamente, a determinare la qualità democratica
conseguita dai singoli casi empirici.
Mentre il primo filone ha potuto trascurare la dimensione ideale della
democrazia per concentrarsi esclusivamente sulla dimensione empirica
(o procedurale), il secondo filone, peraltro composto da molti studiosi
che precedentemente si erano soffermati sulla dimensione empirica1, ha
preso le mosse dalla dimensione procedurale per mettere a punto un
framework in grado di «misurare» la qualità democratica di ciascun paese.
A partire dagli anni ’90, si è aggiunto un terzo filone che ha iniziato
a mettere in discussione il modello minimale di democrazia attraverso
una serie di proposte volte a potenziare lo strumento partecipativo e a
sganciare la dimensione procedurale dai vincoli territoriali.
Lo scopo principale di questo lavoro è ricostruire l’evoluzione della
democrazia dalla culla (si legga Stato nazionale) alla tomba (come hanno
sostenuto i più critici, cioè superamento delle barriere territoriali) attra-
verso l’analisi di questi tre filoni della scienza politica. Come si vedrà nel
corso nei paragrafi successivi, uno degli aspetti fondamentali sul quale si
è lungamente soffermata l’indagine politologica è rappresentato proprio
dall’espansione della membership dei regimi democratici, ovvero della
cittadinanza, intesa prima in termini di acquisizione dei diritti civili e
1 Si pensi a Leonardo Morlino, Larry Diamond, Arendt Lijphart e allo stesso Robert A.
Dahl.
210 BARBARA PISCIOTTA
politici e di allargamento del suffragio (democrazia minima), poi di rico-
noscimento effettivo di questi diritti (qualità democratica) e, infine, di
potenziamento della partecipazione democratica a livello sovranazionale
(democrazia cosmopolitica).
2. La dimensione procedurale, ovvero la defi nizione minimadi democrazia
Per comprendere le strategie di analisi sottese a ciascuno dei filoni sopra
menzionati, è necessario innanzitutto chiarire gli obiettivi che questi si
sono proposti. Quando si parla di dimensione procedurale, ad esempio,
l’obiettivo della scienza politica è quasi sempre un obiettivo neutrale: si
definiscono le caratteristiche di un regime democratico e si individuano
i processi che hanno consentito alla democrazia di instaurarsi per la
prima volta e, eventualmente, di consolidarsi. In questo caso l’obiettivo
è spiegare come e perché gli Stati diventano democratici (Grilli di Cor-
tona, 2009), limitandosi ad individuare le condizioni (interne/interna-
zionali, politiche, economiche, sociali, culturali) che possono favorire
lo sviluppo democratico e ad analizzare i possibili esiti del processo di
trasformazione istituzionale (successo o fallimento della democrazia).
Lo scienziato, in sostanza, non è interessato a modificare lo status quo ma
si limita a indagare sul fenomeno oggetto di studio.
In merito alla dimensione procedurale, il punto di partenza è sen-
za dubbio la nota distinzione tra democrazia degli antichi e democra-
zia dei moderni, che a sua volta sottintende un’ulteriore bipartizione,
comunemente adottata dalla letteratura, che suddivide le democrazie
in dirette e rappresentative. La democrazia degli antichi, come è noto,
ha avuto nella polis ateniese del V secolo il suo massimo sviluppo. L’e-
sercizio della sovranità da parte dei cittadini risiedeva nella possibilità
di decidere direttamente tutte le questioni fondamentali riguardanti la
vita all’interno della comunità politica: deliberare sulla guerra e sulla
pace; concludere alleanze con altri stati; esaminare i bilanci; giudicare
l’operato dei magistrati; eleggere coloro che erano destinati ad esercitare
cariche pubbliche (magistrati, arconti, ecc.). Tale forma di democrazia
diretta, fondata su piccoli numeri, attribuiva solo ai cittadini il diritto
(o dovere) di partecipare alla vita pubblica della polis, escludendo tutti
coloro che non godevano della cittadinanza (schiavi; apolidi). Non c’era
distinzione tra sfera pubblica e sfera privata: gli stessi cittadini potevano
essere spogliati di tutti i loro diritti dalla volontà discrezionale del corpo
L’EVOLUZIONE DELLA DEMOCRAZIA 211
al quale appartenevano senza alcuna possibilità di difendersi (vedi pra-
tica dell’ostracismo).
La democrazia dei moderni, al contrario, è una democrazia rappre-isentativa fondata su grandi numeri. La partecipazione dei cittadini alla
gestione degli affari pubblici non è diretta ma delegata ai professioni-
sti della politica attraverso il processo elettorale. La specializzazione dei
compiti è il risultato di una lenta evoluzione che attraverso tre passaggi
storici cruciali – la filosofia cristiana che opera una distinzione tra potere
temporale e potere spirituale; il giusnaturalismo che riconosce all’uomo,
prescindendo dal proprio culto, la titolarità dei diritti naturali della per-
sona; la concezione del mercato degli economisti classici che opera una
separazione netta tra Stato e società civile – sancisce il riconoscimento
della sfera privata fondata sull’autonomia della società civile rispetto alla
sfera statale. La divisione del lavoro consente ai cittadini di svolgere le
proprie incombenze mentre i rappresentanti si dedicano alla gestione
delle attività pubbliche. La partecipazione dei moderni è molto diversa
della partecipazione degli antichi: la prima è indiretta, la seconda di-
retta; una mira a influenzare, l’altra a governare e co-decidere; una è
discreta, l’altra è totalizzante.
Se l’essenza della democrazia degli antichi risiedeva nella condivisio-
ne del potere tra gli appartenenti alla stessa comunità, l’essenza della de-
mocrazia rappresentativa moderna è la libertà individuale, la sicurezza
nei godimenti privati (Constant, 1819). Il concetto di libertà insito nelle
democrazie contemporanee non solo garantisce al singolo cittadino la
libertà di esercitare i propri diritti (esprimere la propria opinione; riunirsi icon altri individui; disporre della proprietà privata; professare un culto;
eleggere i propri rappresentanti), ma prevede una serie di libertà da, dal-
lo Stato, da qualsiasi fonte di autorità: diritto di essere sottoposto solo
alle leggi; di non poter essere arrestato, tenuto in carcere, condannato
o maltrattato a causa di una volontà arbitraria; di uscire e rientrare nel
paese senza chiedere permessi.
Nei sistemi rappresentativi, pertanto, la partecipazione dei cittadini
si esprime principalmente attraverso l’elezione dei rappresentanti che
competono per il voto popolare. L’evoluzione che ha condotto le demo-
crazie dell’Europa occidentale e del Nord America ad affermarsi per la
prima volta, tra i primi decenni dell’800 e la metà del ’900, come regimi
di «massa», è il risultato di due processi distinti: il primo processo fa ri-
ferimento all’istituzionalizzazione delle garanzie preposte alla tutela dei
diritti civili, come la libertà di associazione, riunione, pensiero, parola,
stampa; il secondo processo fa invece riferimento all’espansione dei di-
ritti politici, cioè alla concessione del suffragio universale (Dahl, 1971).
212 BARBARA PISCIOTTA
Questi due processi configurano dei percorsi all’interno dei quali è pos-
sibile collocare tutti i sistemi democratici e ricostruire il superamento
delle soglie che hanno separato progressivamente le forze di opposizione
dalla legittimazione della propria esistenza fino alla conquista del potere
esecutivo (Rokkan, 1970). Il passaggio dalla politica di élite alla politica
di massa si caratterizza per la successiva organizzazione della società
in partiti, sindacati, gruppi di interesse. Queste istituzioni, definite ap-
punto strutture intermedie, hanno contribuito a gettare un ponte tra
la società civile e lo Stato e hanno consentito ai cittadini di partecipare
attivamente alla vita politica formulando domande su determinate que-
stioni che arrivano al governo tramite quelle stesse strutture.
Sulla base di queste premesse, sebbene non esista una definizione
di democrazia condivisa nella scienza politica, è stato tuttavia possibile
isolare la dimensione procedurale proprio sottolineando l’importanza
del processo elettorale e del ruolo svolto in particolare dai partiti. Pur
non identificandosi con una specifica corrente di pensiero politico, la
democrazia certamente ha maturato un debito ideologico nei confronti
del liberalismo (libertà individuali e diritti civili) e del socialismo (ugua-
glianza e partecipazione). Da questo punto di vista la democrazia rap-
presenta anche il prodotto dello sviluppo della civiltà occidentale (Hun-
tington, 1996), ma quanto più essa ha assunto un significato elogiativo
universalmente riconosciuto, tanto più ha subìto una evaporazione con-
cettuale che l’ha resa l’etichetta più indefinita del suo genere: non tutti
i sistemi politici si professano socialisti, populisti o nazionalisti, ma tutti
questi sistemi, in un modo o in un altro, oggi tentano di legittimarsi
come sistemi democratici (Sartori, 1987).
Proprio perché la democrazia contiene una carica ideale universale, il
dover-essere e l’essere sono strettamente connessi: una democrazia esiste,
è nella misura in cui i suoi valori si traducono in realtà. Se dunque è cor-
retto parlare di regimi effettivamente democratici in relazione alla demo-
crazia possibile, che oggi si è compiutamente realizzata nelle moderne
democrazie di massa, il riferimento alle procedure rimane cruciale. In
questi termini, la democrazia configura quel tipo di regime nel quale ai
diritti della tradizione liberale si sono aggiunte le concezioni democrati-
che della sovranità popolare e del suffragio universale maschile e femmi-
nile. La definizione proposta da Joseph Schumpeter (1954) sottolineava
proprio il carattere procedurale della democrazia: «Il metodo democra-
tico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in
base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso
una competizione che ha per oggetto il voto popolare». Qualche anno
dopo, Sartori (1957) ribadiva l’essenza della democrazia quale «sistema
L’EVOLUZIONE DELLA DEMOCRAZIA 213
etico-politico nel quale l’influenza della maggioranza è affidata al potere
di minoranze concorrenti che l’assicurano».
Entrambe le definizioni individuano delle procedure, o forme, che ga-
rantiscono che determinate decisioni, o sostanze, siano prese nel rispetto
di quelle stesse procedure (Kelsen, 1981). Questo non significa, tutta-
via, che qualsiasi contenuto decisionale possa essere assunto attraver-
so regole formalizzate: come ha sottolineato Norberto Bobbio (1983),
quelle procedure escludono le decisioni che potrebbero rendere vane
una o più regole del gioco. Non a caso, la moderna democrazia rappre-
sentativa è stata definita anche come quel «regime politico caratterizzato
dalla presenza di un’assemblea (intesa come istituzione permanente),
eletta su basi competitive, che include stabilmente accanto alla maggio-
ranza un’opposizione, talché ne deriva quello specifico tipo di controllo
politico che è assicurato dall’interazione tra maggioranza e opposizione»
(Fisichella, 2011).
Muovendoci nell’ambito di una prospettiva analitica, possiamo con-
statare come la dimensione procedurale della democrazia sia indisso-
lubilmente legata alla cosiddetta «definizione minima»: certezza delle
procedure e incertezza degli esiti catturano il significato di democrazia
e lo ancorano ad una serie di condizioni empiriche che consentono di
stabilire se e quando un regime politico può essere definito democratico.
Tale definizione individua quattro criteri immediatamente controllabili
ed empiricamente essenziali, che consentono di stabilire una soglia al di
sotto della quale un regime non può più essere considerato democratico:
a) suffragio universale maschile e femminile; b) elezioni libere, ricor-
renti, corrette e competitive; c) pluralismo politico; d) fonti alternative
d’informazione (Morlino, 2003). L’assenza totale o parziale di uno solo
di questi criteri determina, pertanto, l’esclusione dal genus democratico
del paese in questione.
Se dunque fissare un criterio di demarcazione netto tra democrazie e
non democrazie, nonostante le difficoltà riscontrate sul piano empirico,
rimane ancora oggi uno degli obiettivi principali della scienza politica,
ne consegue che proprio grazie alla fissazione di tali criteri è stato pos-
sibile elaborare delle teorie di medio raggio (o «locali», come preferi-
sce qualcuno) in grado di ricostruire le fasi che hanno caratterizzato la
prima ondata di democratizzazione (1828-1926) e, successivamente, la
seconda (1943-1962) e la terza (1974-...: Huntington, 1991).
Uno sguardo complessivo agli esiti di questi processi, senza adden-
trarci nell’ampio dibattito sulla democratizzazione, ci viene fornito pro-
prio dal numero e dalla percentuale di paesi che, attualmente, possono
essere considerati al di sopra della soglia democratica. Su scala naziona-
214 BARBARA PISCIOTTA
le, la diffusione della democrazia, come si vede nella tab. 1, ancora oggi
continua a riguardare prevalentemente i paesi occidentali in Europa,
Nord America, Australia e Nuova Zelanda, interessando una porzione
di cittadinanza nettamente inferiore a quella che, al contrario, vive nelle
aree ancora non democratiche.
Tabella 1 - Diffusione della democrazia nel mondo
Continenti Paesi liberi Popolazione complessivaAfrica sub-sahariana (49 paesi)
America (35 paesi)
Asia e Pacifico (39 paesi)
Eurasia (12 paesi)
Europa (42 paesi)
Medio Oriente e Nord Africa (18 paesi)
10 (20%)
24 (68%)
16 (41%)
0
37 (88%)
2 (11%)
957 milioni
966 milioni
3.9 miliardi
285 milioni
616 milioni
410 milioni
Fonte: Freedom House 2015
L’ultimo rapporto di Freedom House segnala, su un totale di 195 paesi,
solo 89 paesi liberi, tutti gli altri vengono considerati al di sotto della soglia
democratica e classificati come non liberi (51) o parzialmente liberi (55).
3. La dimensione ideale della democrazia: verso una defi nizione massima?
Studiare la qualità democratica significa invece coniugare due aspetti,
procedure e ideali, e analizzare in che modo il corretto funzionamento di
determinate procedure possa favorire la concreta realizzazione di valori
come la libertà e l’uguaglianza che rappresentano, o dovrebbero rappre-
sentare, la spinta ideale di ogni sistema democratico.
In questa prospettiva, l’obiettivo della scienza politica non è più
semplicemente quello di comprendere i fenomeni politici (Panebianco,
1989), ad esempio limitandosi a spiegare perché le democrazie del Nord
Europa sono più efficienti dell’Italia, ma diventa quello più ambizioso di
individuare un mezzo per massimizzare un fi ne. Lo scienziato politico, in
questo caso, si propone di migliorare il rendimento delle singole demo-
crazie attraverso l’elaborazione di criteri in grado di massimizzare la di-
mensione reale della democrazia (l’essere) per avvicinarla il più possibile
alla dimensione ideale (il dover essere).Leonardo Morlino ha giustamente rilevato che:
La definizione minima implicherebbe logicamente che vi possa essere
una defi nizione massima. Se si ricorda che «democrazia» ha la caratteri-
stica di essere contemporaneamente un termine descrittivo e un termine
L’EVOLUZIONE DELLA DEMOCRAZIA 215
prescrittivo, la definizione massima deve partire necessariamente dagli
ideali o dai principi, piuttosto che dalle istituzioni concrete come fa la
definizione minima. Una tale definizione, se bene articolata, sarebbe par-
ticolarmente utile proprio per l’analisi qui svolta che vede un’ulteriore
fase del processo di democratizzazione nella crescita della qualità demo-
cratica. Infatti, sulla base di tale definizione, opportunamente operazio-
nalizzata empiricamente, si potrebbe capire sia la distanza delle singole
democrazie reali dalla democrazia ideale, sia il grado di democraticità dei
regimi che abbiano superato la soglia minima sopra indicata.
(L. MORLINO, Democrazie e democratizzazioni, Il Mulino, Bologna 2003,ip. 26).
Sebbene una definizione massima di democrazia non esista, come ha
ricordato lo stesso Morlino, già dagli anni ’70 la scienza politica aveva
cercato di individuare i possibili percorsi verso una democrazia ideale
definendo quest’ultima come un regime caratterizzato dalla «continua
capacità di risposta del governo alle preferenze dei suoi cittadini, con-
siderati politicamente eguali» (Dahl, 1971) o come un regime fondato
sulla «necessaria corrispondenza tra gli atti di governo e i desideri di
coloro che ne sono toccati» (May, 1978).
La difficoltà di fissare le dimensioni di questo percorso presuppone
la messa a fuoco di una serie di problemi metodologici che non hanno
mancato di sollevare perplessità e critiche (Diamond e Morlino, 2005).
Fin dal 1957 Sartori aveva posto il problema del trade-off tra libertà efuguaglianza insito nella nozione ideale di democrazia, aggiungendo che
la nozione di uguaglianza di opportunità sottintende due concetti diver-
si: eguale accesso (= eguale riconoscimento per eguale merito); eguale par-tenza (= eguali condizioni iniziali). Il secondo significato, come è noto,
nella sua versione più avanzata si riferisce esplicitamente all’uguaglianza
economica e non ha mancato di sollevare un acceso dibattito sulla de-
licata questione dei criteri tramite i quali misurare la qualità democra-
tica, mettendo in evidenza il rischio di un possibile (quanto inevitabile)
coinvolgimento personale dello scienziato nella scelta dei criteri stessi.
Una serie di problematiche concrete, dalla percentuale di rappresentan-
za femminile nei vari livelli di governo ai matrimoni tra persone dello
stesso sesso, possono costituire degli utili indicatori per misurare la qua-
lità democratica di un paese ma è chiaro che pongono il ricercatore di
fronte a una scelta.
La minaccia terroristica che incombe sullo scenario politico internazio-
nale attuale, del resto, ripropone continuamente la fondatezza della que-
stione, sollevando il noto trade-off tra libertà e sicurezza, destinate a cresce-fre in modo inversamente proporzionale al sopra di una determinata soglia:
216 BARBARA PISCIOTTA
quale democrazia massimizza la qualità, quella nella quale i cittadini sono
tutti ugualmente liberi (e sicuri perché liberi) o quella nella quale i cittadini
si sentono tutti ugualmente sicuri (e liberi perché sicuri)? E soprattutto, di
quali cittadini parliamo? Di tutti i cittadini o solo di quelli che apparten-
gono alla cultura/etnia/religione maggioritaria? Se la massimizzazione del-
la sicurezza di un’ampia porzione di cittadini coincide con la limitazione
delle libertà individuali di una minoranza di essi, quella democrazia può
essere definita di alta qualità? Chi lo stabilisce, i cittadini stessi?
Nonostante le critiche, il gruppo di lavoro che si raccoglie intorno al
«Journal of Democracy», fondato nel 1990 da Larry Diamond e Marc
F. Plattner, ha suggerito degli interessanti spunti di riflessione. Lo stesso
Plattner (2005), in occasione della conferenza sulla qualità democratica
che si tenne all’Università di Stanford nell’ottobre del 2003, ha ribadito
queste perplessità sottolineando innanzitutto due elementi di contraddi-
zione insiti nel concetto stesso di democrazia: la tensione tra la nozione di
democrazia liberale e quella di democrazia partecipativa, laddove il mante-
nimento dell’una rischia di far venire meno l’altra; il conflitto tra l’esigenza
di ampliare i diritti dei cittadini (democraticità) e l’esigenza di assicurare
l’efficacia decisionale dei governi (governabilità). Le riforme in grado di
garantire la prima potrebbero limitare la seconda o viceversa, come si è già
visto a proposito della relazione tra libertà e sicurezza.
Le proposte più interessanti sono andate in una duplice direzione. Da
un alto, la letteratura ha fornito una definizione di qualità democratica in
grado di delimitare il campo di analisi e concentrare l’attenzione solo un
numero limitato di casi (democrazie avanzate). Dall’altro lato, è stato af-
frontato il problema della misurazione della qualità democratica attraverso
l’individuazione di una serie di indicatori empirici finalizzati a comparare
i diversi livelli di qualità democratica realizzati dalle democrazie avanzate.
Premesso che una democrazia avanzata è tale quando il superamento
della soglia minima garantisce la stabilizzazione del paese nell’ambito del
genus democratico ed esclude eventuali involuzioni autoritarie, la misura-
zione della sua qualità rappresenta il percorso che è stato compiuto (o che àsi deve ancora compiere) per raggiungere la piena realizzazione dei due
ideali fondamentali: libertà e uguaglianza. Di conseguenza, una democra-
zia di qualità è pertanto una buona democrazia quando è presente
quell’assetto istituzionale stabile che attraverso istituzioni e meccanismi
correttamente funzionanti realizza libertà e uguaglianza dei cittadini
(L. MORLINO, Democrazie e democratizzazioni, Il Mulino, Bologna 2003).i
Secondo Morlino (2003; 2013), la valutazione della qualità democratica
deve essere espressa rispetto al risultato, al contenuto e alla procedura.
L’EVOLUZIONE DELLA DEMOCRAZIA 217
Una democrazia di buona qualità è: 1) un regime ampiamente legittima-
to, stabile, del quale i suoi cittadini sono pienamente soddisfatti (qualità rispetto al risultato); 2) un regime nel quale i suoi cittadini, le associazioni, i
gruppi che ne fanno parte godono in misura superiore ai minimi di libertà
e di uguaglianza garantiti normalmente da un regime democratico (qualità rispetto al contenuto); 3) un regime nel quale i valori e i principi democra-
tici sono realizzati attraverso il pieno rispetto delle norme vigenti (qualità rispetto alla procedura).
Il problema della misurazione della qualità democratica è stato risolto
innanzitutto evidenziando le singole dimensioni, relative alla procedura, al
risultato e al contenuto, che determinano la presenza o meno di una buona
democrazia. In questa prospettiva, gli indicatori devono essere funzionali
alla verifica delle seguenti dimensioni: rule of law (rispetto della legge) e waccountability verticale (elettore/eletto) e orizzontale (governo/opposizione)
in merito alla procedura; responsiveness (capacità di risposta dei governi alle
domande dei cittadini) in merito al risultato; ampliamento delle libertà e
progressiva realizzazione di una maggiore uguaglianza politica, economica
e sociale in merito al contenuto.
Tabella 2 - Indicatori della qualità democratica
Dimensioni IndicatoriRisultato
Contenuto
Procedura
- livello di competizione (= quota di voti ricevuta da tutti i
partiti eccetto il primo);
- livello di partecipazione (= percentuale di cittadini che si
recano alle urne);
- livelli di soddisfazione dei cittadini per la democrazia;
- politiche per la famiglia;
- rapporto ricchezza/povertà;
- percentuali di rappresentanza femminile e di altre categorie
svantaggiate (parlamentare e governativa);
- alternanza;
- stabilità dei governi;
- applicazione erga omnes di un sistema legale;
- livelli di corruzione;
- assenza di aree dominate da organizzazioni criminali;
- presenza di una burocrazia efficiente, competente e
responsabile in caso di errore;
- presenza di forze di polizia efficienti e rispettose dei diritti
dei cittadini;
- facilità di accesso dei cittadini alla giustizia in caso di
contenzioso tra privati o tra privati ed enti pubblici;
- ragionevole durata dei processi;
- completa indipendenza del giudice e del collegio giudicante
dal potere politico.
Fonti: Morlino (2003; 2013); Vanhanen (1990); Lijphart (1999). Dati rielaborati dall’autore.
218 BARBARA PISCIOTTA
La scelta degli indicatori che ne è conseguita, rielaborando le varie pro-
poste avanzate dalla letteratura, può essere riassunta in alcuni punti es-
senziali (tab. 2). Per quanto interessanti e relativamente condivisi dai
vari studiosi, questi indicatori non riescono a risolvere un altro aspetto
problematico che rischia di diventare insormontabile. Infatti, le riforme
che per un paese possono essere giudicate come un incremento della sua
qualità democratica da parte dei cittadini, non è detto che siano valutate
allo stesso modo da altri paesi, senza contare che uno stesso paese, in
periodi differenti, potrebbe modificare l’ordine delle proprie preferenze.
Se dunque permangono le perplessità già evidenziate in tema di applica-
bilità dei criteri di misurazione della qualità democratica, confermando
la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità, di elaborare una serie di
indicatori valida per tutti i casi, è anche vero che lo sforzo di avvicinare
le democrazie reali al modello ideale ha sicuramente consentito di in-
dividuare, e talvolta di colmare, le lacune specifiche di un determinato
paese in termini di livelli di democraticità.
Certamente, sotto questo profilo, la strada è ancora lunga. Per fare
ulteriori esempi, i tentativi di incidere sui contenuti stessi della demo-
crazia, potenziando partecipazione e uguaglianza, sono emersi in riferi-
mento all’adozione del sistema delle primarie, con l’obiettivo di raffor-
zare la capacità di influenza dei cittadini sulla scelta delle candidature,
sottraendole al controllo partitico. Un altro aspetto importante, sebbene
controverso, è legato alla nozione di «cittadinanza politica» e all’even-
tuale estensione dei diritti civili e politici a tutti gli adulti residenti in un
determinato territorio, garantendo la tutela degli immigrati più recenti.
Prescindendo da qualsiasi valutazione normativa, va detto, a conclu-
sione di questa seconda parte del discorso, che tanto le primarie quanto
lo jus soli si mantengono nell’ambito dell’obiettivo di partenza del filone idi studi sulla qualità democratica. In sostanza, ogni tentativo di miglio-
ramento dello status quo democratico e di estensione dei diritti della
cittadinanza rimane vincolato al principio «no state, no democracy». Un
discorso completamente diverso, come vedremo, va fatto per l’espansio-
ne del modello democratico a livello sovranazionale.
4. La dimensione sovranazionale della democrazia e le sfi de al modello minimalista
A partire dagli anni ’90, alcuni studiosi hanno iniziato a mettere in di-
scussione la definizione minimalista di democrazia contrapponendo ad
essa visioni diverse che completano e rafforzano i più tradizionali canali
L’EVOLUZIONE DELLA DEMOCRAZIA 219
rappresentativi sia sul versante dell’input che dell’output, sia in fase de-
cisionale che di implementazione delle policy. Talvolta sovrapponendosi
o, più spesso, superando i modelli proposti dagli altri due filoni, questi
studi non si limitano a spiegare l’evoluzione della democrazia e la sua
affermazione nel mondo, né a individuare i mezzi idonei per rafforzare le
potenzialità insite nei suoi meccanismi procedurali. Al contrario, mirano
a proporre un nuovo modello che superi la fredda nozione di democra-
zia minimalista. In altre parole, il loro obiettivo è individuare un fi ne.Gli aggettivi che di volta in volta sostituiscono la versione minimalista
sono molteplici, a volte sovrapponibili. I contributi più importanti han-
no messo in evidenza quattro modelli di democrazia destinati a sfidare,
se non a sostituire, il modello procedurale minimalista. Si è parlato, in
particolare, di democrazia partecipativa, democrazia deliberativa, democra-zia associativa e, infine, di democrazia cosmopolitica. Dal momento che
quest’ultima, postulando il superamento dei confini nazionali, rappre-
senta la sfida più radicale alla democrazia minimalista, verrà trattata più
approfonditamente. Per quanto concerne le altre tre versioni citate, in
questa sede è sufficiente accennare la natura e l’entità della loro sfida al
modello procedurale in termini di estensione dei diritti della cittadinan-
za.
La democrazia partecipativa, la cui nozione aveva iniziato a circolare
già negli anni ’70 per effetto della crisi delle ideologie e della diffusione
di istanze post-materialiste, negli ultimi decenni è stata rispolverata e
rinominata e-democracy allo scopo di sottolineare l’indissolubile collega-
mento che tale modello ha assunto rispetto all’evoluzione dei mezzi di
comunicazione di massa. Originariamente il suo significato esprimeva il
tentativo di proporre un’alternativa al modello rappresentativo tramite
il ricorso sistematico a strumenti in grado di ampliare le occasioni di
partecipazione dei cittadini alla vita politica (Arnstein, 1969; Pateman,
1970; Barber, 1984). L’introduzione di strumenti di democrazia diretta,
come referendum, iniziative popolari, giurie di cittadini, bilanci parteci-
pativi, oggi enormemente semplificati dal progresso tecnologico, avreb-
be dovuto ridurre gli effetti perversi dei grandi numeri e assicurare alla
cittadinanza attiva una maggiore possibilità di influenzare gli esiti del
processo decisionale.
Il più recente modello deliberativo si fonda invece sul principio della
trasformazione delle preferenze individuali attraverso il dibattito, allo
scopo di prendere in considerazione il punto di vista dell’altro e co-
struire in pubblico una nozione di bene comune (Cohen, 1989; Miller,
1993; Habermas, 1996; Dryzek, 2000). Il processo decisionale collettivo
ha lo scopo di costruire a posteriori una decisione, maturata tramite lai
220 BARBARA PISCIOTTA
partecipazione di tutti coloro che sono toccati dalla decisione (o dei
loro rappresentanti) e il dialogo continuo e libero tra i partecipanti nel
rispetto dei valori di razionalità e imparzialità (Elster, 1998). Forme di
democrazia deliberativa in piccolo, a livello locale (Bobbio, 2002), o ten-
tativi più ambiziosi di trasferire il meccanismo deliberativo nell’arena
parlamentare (Curini, 2004), dovrebbero contribuire ad aumentare la
percezione dei cittadini del loro costante coinvolgimento nella vita poli-
tica e a garantire una maggiore capacità di risposta della classe politica
nei confronti della società civile.
La democrazia associativa, infine, propone un modello istituzionale de-
centrato, basato sul trasferimento del processo decisionale dal modello
top/down a quello bottom/up, potenziando la partecipazione dei cittadini
attraverso un sistema di governance economico e sociale che attribuisca
loro un potere effettivo tramite associazioni volontarie autogestite che
si affiancano allo Stato nella gestione dei servizi collettivi (Hirst, 1994).
Il concetto di democrazia cosmopolitica, introdotto all’inizio degli anni
’90 da un gruppo di studiosi europei, tra i quali David Held, propone
un’estensione delle procedure democratiche mediante un trasferimento
di competenze dal livello statale a quello globale/internazionale. I due
termini, nonostante la derivazione millenaria (demos/kratos, cosmos/polis), sono stati associati solo recentemente per effetto di due eventi di portata
mondiale, strettamente connessi tra loro: il crollo del Muro di Berlino,
con il conseguente successo dei regimi democratici occidentali e l’e-
spansione del modello democratico su scala mondiale; l’intensificazione
dei processi di interdipendenza economica tra gli Stati, con l’affermazio-
ne della globalizzazione e lo sviluppo dell’integrazione regionale.
Uno dei motivi che spiega il ritardo con il quale si introduce l’asso-
ciazione tra democrazia e cosmopolitismo è indubbiamente legato alla
eterogeneità concettuale dei due termini: la democrazia nasce nell’ambi-
to di comunità politiche territorialmente delimitate, relativamente omo-
genee, dove si prendono decisioni concrete; il cosmopolitismo si riferisce
ad una dimensione a-territoriale (etimologicamente l’universo), priva di
confini, che rappresenta una condizione ideale, e non reale, per i singoli
individui. Il significato intrinseco della democrazia cosmopolitica, come
ha affermato Daniele Archibugi (2005), è quello di globalizzare non solo
il sistema economico che si afferma definitivamente dopo il 1989, ma
anche quello politico attraverso il modello democratico.
Per capire come possa essere empiricamente possibile realizzare tale
progetto, è necessario rispondere innanzitutto ai seguenti interrogativi:
1) cosa si intende effettivamente per democrazia cosmopolitica; 2) quali
paesi dovrebbero entrare a far parte di questo progetto; 3) se e quanto la
L’EVOLUZIONE DELLA DEMOCRAZIA 221
letteratura è stata in grado di fornire strumenti idonei per la realizzazio-
ne dell’obiettivo. Come è facile intuire, la complessità dell’oggetto della
ricerca e la natura normativa della maggior parte dei contributi focaliz-
zati su questo tema, hanno sollevato più critiche che consensi nell’ambi-
to del mondo accademico.
Secondo Held (1995; 1997), l’affermazione di una nuova politica
globale dopo il crollo del Muro di Berlino ha creato una struttura entro
la quale diritti e obblighi, potere e capacità degli Stati, devono essere
ridefiniti. Alla base della sua concezione di democrazia cosmopolitica
l’autore pone quattro discordanze:
1. economia mondiale: l’azione delle multinazionali, gli sviluppi tecnolo-
gici nel settore delle comunicazioni e dei trasporti, i problemi ecolo-
gici, l’intensificazione dei rapporti economici (e politici) tra gli Stati,
creano una discordanza tra la concezione tradizionale di sovranità
statale e le caratteristiche dell’economia mondiale. Il risultato è una
progressiva diminuzione dell’autonomia dei singoli Stati nazionali;
2. organizzazioni internazionali: lo sviluppo di organizzazioni e regimi
internazionali per la gestione di aree di attività transnazionali (com-
mercio, ambiente, spazio) crea una seconda discordanza con la teoria
della sovranità degli Stati: il FMI e l’UE possono concedere prestiti ad
un governo a patto che questo rispetti determinati parametri taglian-
do la spesa pubblica, svalutando la moneta o riducendo i programmi
di finanziamento statale. Se in un paese del terzo mondo questo può
condurre anche al collasso del regime, ne consegue una crescente
tensione tra la sovranità statale e la natura del processo decisionale a
livello internazionale;
3. diritto internazionale: la concezione del diritto internazionale come
insieme di norme che regola esclusivamente i rapporti tra Stati è sta-
ta superata da una nuova concezione che, ad esempio in materia di
tutela dei diritti civili, consente al singolo cittadino di ricorrere ai
tribunali internazionali;
4. potenze egemoniche: le alleanze militari come la Nato e, precedente-
mente, il Patto di Varsavia, hanno posto pesanti vincoli al processo
decisionale degli stati per tutta la durata della guerra fredda.
Queste discordanze, secondo Held, non possono che ribadire l’esigen-
za di costruire un nuovo ordine mondiale fondato sulle procedure de-
mocratiche. Nella sua ottica la democrazia cosmopolitica dovrebbe in-
nanzitutto estendere quelle procedure ai rapporti tra Stati e tra Stati e
organizzazioni internazionali. Sulla scia di Held, Archibugi (2009) ha
ribadito come il progetto della democrazia cosmopolitica si fondi sull’i-
222 BARBARA PISCIOTTA
dea che anche le relazioni tra gli Stati e al di sopra degli Stati possano
essere contrassegnate da regole e procedure democratiche. In questa
prospettiva la democrazia non è solo universale, cioè realizzata all’inter-
no di ciascuno Stato, ma è anche globale perché applica quelle procedure
interne ai rapporti e alle politiche internazionali. L’obiettivo è sempre
quello di estendere la democrazia al di là dei confini nazionali: il modello
cosmopolitico rappresenta una cornice istituzionale unica per collegare
quello che finora cittadini e movimenti globali stanno faticosamente re-
alizzando nell’ambito di singole aree di policy.
La qualificazione di democrazia cosmopolitica piuttosto che di demo-crazia internazionale viene preferita perché la seconda evoca una forma
organizzativa con due stadi di rappresentanza: la formazione di un go-
verno all’interno dei singoli Stati al primo livello e, al secondo livello,
la creazione di una società internazionale della quale ciascun governo è
membro. La democrazia cosmopolitica, al contrario, rimarca la necessi-
tà di aggiungere un livello di governance a quelli già esistenti attribuendo
un ruolo attivo non solo ai governi ma soprattutto ai cittadini, che svol-
gerebbero una duplice funzione: quella di cittadini dello Stato al quale
appartengono e quella di cittadini del mondo (Falk, 1998; Habermas,
1999; Carter, 2001; Heater, 2002). Archibugi tende infatti a concettua-
lizare la democrazia cosmopolitica come un insieme di livelli di gover-nance legati tra loro da relazioni funzionali e non da rapporti gerarchici,
che si sviluppano lungo cinque dimensioni: locale, statale, inter-statale,
regionale e globale.
L’articolazione su diversi livelli di governance è uno dei punti sui quali
la letteratura ha insistito di più per cercare di ovviare alle critiche che
hanno spesso ravvisato il rischio di concentrare un potere senza prece-
denti nell’ambito di una singola sede istituzionale (Dower e Williams,
2002). La democrazia cosmopolitica, per i suoi fautori, non si configura
come un progetto per un governo mondiale, che necessariamente do-
vrebbe fondarsi sull’accentramento del potere in una sola istituzione,
bensì come una lega volontaria e revocabile d’istituzioni governative
e meta-governative, con la disponibilità del potere coercitivo d’ultima
istanza distribuito tra i diversi attori e sottoposto al controllo giudiziario
delle istituzioni internazionali già esistenti e opportunamente riformate.
Il problema della membership è stato generalmente risolto – sul pun-
to la letteratura è compatta – riservando ai soli Stati democratici l’ac-
cesso al Parlamento mondiale e, di conseguenza, al potere decisionale.
Più complessa si è rivelata la questione dell’estensione delle procedu-
re democratiche nelle relazioni interstatali. A tale proposito, Archibugi
(2005) afferma espressamente che il progetto della democrazia cosmo-
L’EVOLUZIONE DELLA DEMOCRAZIA 223
politica dovrebbe essere esteso a tutti gli Stati, anche a quelli non demo-
cratici, sulla base del presupposto che l’integrazione, una volta posta in
essere, costituisca un propellente formidabile per la democratizzazione
interna.
Sul piano concreto, le difficoltà che si incontrano nella realizzazione
di questo progetto sono essenzialmente due: l’ampliamento dei confini
territoriali della rappresentanza; la messa a punto di una nuova struttura
sociale internazionale articolata in agenzie, associazioni e organizzazioni
che si collocano a livello internazionale. Held (2010) propone la risolu-
zione di questi problemi mediante quattro riforme fondamentali:
1. la valorizzazione dei parlamenti regionali (in particolare il Parlamen-
to Europeo);
2. il ricorso a forme di democrazia diretta attraverso referenda generali;
3. la democratizzazione degli istituti funzionali internazionali;
4. la creazione di un’Assemblea Generale delle Nazioni Unite formata
da tutti gli Stati democratici e dotata di poteri decisionali effettivi.
La maggior parte degli autori non considera l’Unione Europea un
modello da imitare su scala globale ma ritiene, al contrario, che la sua
natura intergovernativa rappresenti un limite per la costruzione della
democrazia cosmopolitica. In definitiva, la realizzazione di una cittadi-
nanza globale passerebbe esclusivamente attraverso una riforma radica-
le dell’ONU e dei Tribunali internazionali e la conseguente formazione di
un parlamento mondiale (Falk e Strauss, 2001; Heater, 2002), istituzio-
ne che permetterebbe di verificare quale porzione dell’opinione pubbli-
ca mondiale è effettivamente rappresentata e in che misura quest’ultima
condivide le posizioni politiche dei movimenti globali.
5. Conclusioni
La proposta di creare una cittadinanza globale, che garantisca a tutti
gli individui uguali diritti civili e politici, ha stimolato un folto dibattito.
Tra i vantaggi che deriverebbero dalla costruzione di una democrazia
cosmopolitica vi è sicuramente il tentativo di rendere efficace l’azione
delle istituzioni internazionali, in particolare del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU. Tale rafforzamento, nella visione dei suoi fautori, dovrebbe
rendere più difficile per ciascun attore del sistema internazionale, Stati
Uniti compresi, l’impunità dinanzi a situazioni di palese violazione
della legalità internazionale. La certezza di poter sanzionare qualsiasi
comportamento in contrasto con le norme che regolano la società dentro
224 BARBARA PISCIOTTA
e fuori gli Stati darebbe vita, per la prima volta nella storia, ad un sistema
di gestione delle minacce fondato sulla «sicurezza collettiva», nel quale
tutti gli attori del sistema internazionale – Stati, individui, organizzazioni
internazionali – sarebbero sottoposti alle stesse norme e trattati in modo
uguale. Uno dei tanti nodi da sciogliere, tuttavia, riguarda proprio la
membership del modello cosmopolitico: se ad accedervi sono solo gli
Stati democratici, questo significa che le norme che regolano l’accesso al
potere decisionale rischiano di entrare in contrasto con quelle destinate
a garantire l’uguale trattamento, lasciando irrisolto uno dei dilemmi
fondamentali della politica internazionale attuale, ovvero l’esclusività
del riconoscimento internazionale ai soli Stati democratici (Colombo,
2006).
Non sorprende che lo scetticismo che ha animato il dibattito abbia
avuto tra i suoi sostenitori studiosi piuttosto autorevoli: Ralph Dahren-
dorf (2001) ha dichiarato che chi propone la democrazia globale rischia
di abbaiare alla luna; Robert A. Dahl (1999) ha previsto che il sistema
internazionale sarà ancora destinato a rimanere al di sotto di qualunque
ragionevole soglia di democrazia; la maggior parte degli autori realisti ha
obiettato che la struttura anarchica del sistema internazionale, il potere
e gli interessi degli Stati rappresentano i principali fattori che regolano i
rapporti internazionali, con la conseguenza che la forza militare rimane
uno strumento legittimo di interazione nella politica internazionale (Me-
arsheimer, 2001).
Certamente il passaggio dalla democrazia procedurale alla democra-
zia cosmopolitica non può essere indolore. Alla luce di quanto detto
finora, è evidente che qualsiasi tentativo di realizzare un fine ambizioso
come quello di costruire una cittadinanza globale passi necessariamente
attraverso due processi: la diffusione del modello democratico (proce-
durale) in tutte le aree del mondo e l’estinzione dello Stato nazionale.
L’idea che il venir meno della sovranità statale possa ugualmente ga-
rantire la realizzazione di un ordine mondiale democratico, laddove la
democrazia è il frutto dell’evoluzione dello stato moderno occidentale
(Poggi, 1992; Portinaro, 1999), va di pari passo con la convinzione che
le norme internazionali possano essere rispettate anche in assenza di un
potere coercitivo di ultima istanza. Il passaggio dall’antagonismo all’a-
gonismo o, addirittura, all’amicizia tra Stati, possibile solo modificando
la struttura delle preferenze e degli interessi degli attori politici interna-
zionali (Galtung, 1996; Wendt, 1999), garantirebbe forse una maggiore
condivisione e, conseguentemente, un maggiore rispetto delle norme
internazionali.
L’EVOLUZIONE DELLA DEMOCRAZIA 225
Anche ammesso, e non concesso, che gli Stati nazionali decidano
di delegare la propria sicurezza a un organo internazionale super partes, rinunciando alla prerogativa che garantisce la propria sovranità, di fat-
to estinguendosi, rimane ancora aperto l’altro dilemma. Condivisione
e rispetto di regole comuni presuppongono omogeneità culturale e co-
munanza di interessi politici ed economici, e la democrazia, procedu-
rale, occidentale o liberale che sia, è uno di questi. Ritenere che la sua
costruzione, nel medio e nel lungo periodo, possa essere nelle intenzioni
di chi finora l’ha esclusa, significa sottovalutare non solo i condiziona-
menti strutturali, ma soprattutto l’efficacia di un richiamo identitario
e culturale anti-occidentale e, dunque, potenzialmente anti-democratico,
che caratterizza molte aree del mondo. Se alla democrazia procedurale
è stato imputato il limite di funzionare anche con il consenso passivo dei
cittadini, che adeguano i loro comportamenti alle norme senza una ge-
nuina attitudine democratica, alla democrazia cosmopolitica può essere
forse imputato il limite di non porsi affatto il problema del consenso.
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Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 229-264
«Homo democraticus»Note per un ripensamento del rapporto tra
cittadinanza e democraziaDAMIANO PALANO
1. Il volto dell’homo democraticus.
Al di là di ogni considerazione sul suo valore artistico, la cinematografia
di Frank Capra può essere senza dubbio considerata come uno dei più
nitidi esempi delle strategie con cui l’industria di Hollywood contribuì
a plasmare il mito dell’american dream negli anni della Grande Depres-
sione e della Seconda Guerra Mondiale. Le pellicole del regista italo-
americano – con l’immancabile happy end, che Capra riteneva addiritturadun elemento «necessario alla nostra visione del mondo»1 – riproponevano
infatti con indiscutibile efficacia i motivi della cultura politica americana
che la crisi degli anni Trenta aveva in parte offuscato. Se nel pieno dello
sforzo bellico i suoi documentari propagandistici Why We Fight avevanotofferto alla società americana buone motivazioni per combattere, i suoi
film procedevano in fondo nella medesima direzione, perché profilavano
uno stile di vita e un modo di intendere le relazioni sociali diametral-
mente opposti a quelli proposti dalla Germania nazionalsocialista. E da
questo punto di vista soprattutto il suo film più famoso, It’s a Wonderful Life (1945), una sorta di compendio del mondo di Capra, può essere
considerato come davvero emblematico. Nella figura di George Bailey,
e nel volto rassicurante di James Stewart, si può infatti ritrovare quasi
il paradigma dell’homo democraticus americano. Perché la sagoma dello
sfortunato protagonista di It’s a Wonderful Life, che nella notte di Natale
decideva di togliersi la vita, esibiva effettivamente tutte le qualità di quel
tipo umano che molti scienziati sociali nord-americani avrebbero consi-
derato da quel momento come il più solido baluardo dei regimi demo-
cratici, e cioè lo spirito di iniziativa, l’ottimismo, l’intensa partecipazione
alla vita comunitaria, la disponibilità ad aiutare i concittadini, oltre che
naturalmente il rispetto per l’autorità.
1 F. CAPRA, Il nome sopra il titolo. La vita meravigliosa di un maestro del cinema, Minimum
Fax, Roma 2016 (ed. or. The Name Above. The Title An Autobiography, MacMillan, New
York 1971).
230 DAMIANO PALANO
Se i protagonisti dei film di Capra erano stati quasi sempre «uomini
qualunque» non molto diversi da George Bailey, in realtà It’s a Wonder-ful Life venne però a sancire una cesura nella cinematografia del regista
italo-americano. Proprio nel momento in cui – prima con l’ingresso nella
Seconda guerra mondiale e poi con il profilarsi della Guerra fredda – la
causa della democrazia veniva a saldarsi con l’idea che gli Stati Uniti
dovessero assumere il ruolo di baluardo del mondo libero contro ogni
totalitarismo, il cinema di Capra sembrava infatti smarrire molto del suo
realismo2. La precedente filmografia di Capra aveva infatti delineato un
quadro ben più fosco di quanto la soluzione consolatoria potesse far ri-
tenere, e soprattutto le pellicole della seconda metà degli anni Trenta
avevano fornito una raffigurazione molto inquietante e molto critica della
società americana. Film come Mr. Deeds Goes To Town (1936), Mr SmithGoes to Washington (1939) e Meet John Doe (1941) avevano in particola-
re riproposto molti dei classici motivi della vecchia tradizione populista,
perché per esempio avevano raffigurato le oligarchie economiche come
una fatale insidia per le istituzioni democratiche e la classe politica come
una vorace casta di professionisti corrotti, o perché avevano contrapposto
la piccola cittadina di provincia, custode degli autentici valori democrati-
ci, alla metropoli tentacolare, nella quale si concentravano vizi e ricchez-
ze3. Ma era soprattutto in Meet John Doe che le vecchie critiche si sposa-
vano con un cupo pessimismo e col presentimento – non esorcizzabile
neppure con l’happy end – che la battaglia dell’«eroe populista» contro la dferrea logica del sistema fosse destinata alla sconfitta4. Dopo la guerra,
2 In corrispondenza con It’s a Wonderful Life, come è stato scritto, sembra addirittura che
la fine della guerra recida «quel cordone ombelicale esistente tra il regista e le zone più
profonde e più radicate della società» (V. ZAGARRIO, Frank Capra. Il cinema americano trasogno e incubo, Marsilio, Venezia 2009, p. 131).3 Cfr. per esempio G.A. PHELPS, The «Populist» Films of Frank Capra, in «Journal of Amer-
ican Studies», (1979) 3, pp. 377-392, e M.P. ROGIN - K. MORAN, Mr. Capra Goes toWashington, in «Representations», (2003) 1, pp. 213-248.4 Questo film infatti, come è stato scritto, «non solo non riesce a conciliare un’ormai
inconcepibile dicotomia, ma mostra un ben più fosco specchio di società, popolato di
zombie alla mercé di un sistema aberrante», tanto che «il sogno americano tipico di tutti
i film di Capra assume in Meet John Doe i connotati di un incubo». Come nota nitida-
mente Zangarrio: «Non è solo lo spettacolo della guerra che si agita in Europa, ma anche
il crollo inconsapevole dell’impalcatura ottimistica del suo discorso, l’esplodere di più
vaste, lancinanti contraddizioni che stanno dentro il sistema – quanto a meccanismi di
controllo di massa, sistemi di manipolazione dell’informazione, forme della stratificazio-
ne sociale – nordamericano. Nella storia di John Doe, che vive né più né meno la stessa
favola ricorrente (quella della “signora per un giorno”, della felicità per un attimo), l’A-merican Dream si trasforma in American Nightmare, un brutto sogno agitato di fantasmi.
I fantasmi di quel “fascismo” dello spirito di cui parlavano Nolte e Fromm; un fascismo
«HOMO DEMOCRATICUS» 231
questi motivi sarebbero tornati nuovamente anche in It’s a Wonderful Life,e d’altronde la piccola cittadina di Bedford Falls non era altro che il gran-
de teatro in cui si svolgeva la battaglia tra l’entusiasmo di George Bailey
e la potenza corruttrice del denaro simboleggiata dal perfido Potter. In
questo film (e non solo per la conclusione) le ombre che aleggiavano
nei precedenti film «populisti» tendevano però a sfumarsi, fino a perdere
qualsiasi riferimento con la realtà della società americana e a diventare
raffigurazioni metastoriche della malvagità umana. E così l’«eroe popu-
lista», che nei film precedenti era stato impegnato in una guerra senza
quartiere (e in Meet John Doe perfino senza speranza) contro un sistema
politico corrotto, contro le logiche di un’informazione senza scrupoli e
contro l’onnipotenza del denaro, assumeva tratti molto più rassicuranti:
non tanto perché la vicenda si concludesse positivamente, con l’intera
cittadina stretta intorno al protagonista, ma perché la battaglia di George
Bailey appariva come ormai quasi totalmente destoricizzata e depoliticiz-zata.
Se nella cinematografia di Frank Capra la fine della guerra segnò una
svolta nel rapporto con la realtà, e dunque nel modo di raffigurare quel-
l’«uomo della strada» che il regista italo-americano aveva eletto a prota-
gonista delle proprie pellicole, l’impegno bellico e poi la conquista di un
ruolo di superpotenza globale da parte di Washington comportarono anche
una significativa trasformazione dell’immaginario americano. Come no-
tava molti anni fa Henry Steele Commager, l’esperienza della Seconda
guerra mondiale modificò notevolmente il «carattere americano», renden-
do l’opinione pubblica e gli intellettuali molto più conformisti di quanto
non fossero stati in passato5. E in quegli anni mutò anche il modo in
cui la democrazia, i suoi obiettivi e le sue istituzioni venivano concepiti.
Nella sua polemica indagine sulle origini del «totalitarismo rovesciato»,
Sheldon Wolin ha ritrovato proprio negli anni in cui gli Stati Uniti furono
impegnati nella Seconda guerra mondiale il momento in cui cominciò
a prendere forma un nuovo «immaginario americano, incentrato sulla
proiezione di un potere nazionale senza precedenti»6. Il nuovo immagina-
rio, secondo la lettura di Wolin, si sarebbe poi consolidato con la Guerra
dai molti volti, un desiderio di morte, un bisogno di fuggire dalla libertà che apparenta i
modi in cui i singoli e la folla sono raffigurati, in questo film, ai meccanismi di massa del
nazionalsocialismo» (V. ZAGARRIO, Frank Capra, cit., pp. 127-128).5 Cfr. H.S. COMMAGER, The American Mind. An Interpretation of American Thought and Character Since the 1880’s, Yale University Press, New Haven 1950.6 S. WOLIN, Democrazia S.p.A. Stati Uniti: una vocazione totalitaria?, Fazi, Roma 2011, p.
30 (ed. or. Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Specter of Inverted Totali-tarianism, Princeton University Press, Princeton 2008).
232 DAMIANO PALANO
fredda, e proprio in quella fase la «democrazia», con i suoi valori e le sue
istituzioni, sarebbe andata a coincidere pienamente con la difesa della
sicurezza nazionale e dunque con quella lotta contro il nemico (esterno
ed interno) verso cui andavano indirizzate tutte le energie del Paese (an-
che a scapito del rispetto del pluralismo e della libertà di espressione).
E probabilmente – per quanto la lettura di Wolin possa apparire segnata
da un eccesso polemico – fu proprio in quella fase cruciale che anche la
fisionomia dell’homo democraticus iniziò a modificarsi. In quella stagione
prese forma infatti – grazie alle riflessioni di John Plamenatz, Giovanni
Sartori, William Kornhauser, David Truman e Robert Dahl – l’«elitismo
democratico» che Peter Bachrach avrebbe biasimato energicamente sul
finire degli anni Sessanta7. E, più o meno contemporaneamente, inco-
minciò a delinearsi anche una linea di ricerca volta non solo a portare
alla luce i rapporti problematici tra cultura e democrazia, ma soprattutto
a chiarire quali fossero le caratteristiche non tanto dell’ideale cittadino
democratico, quanto del cittadino capace di rendere più stabile il gover-
no della democrazia e di costituire così un baluardo contro le seduzioni
dei totalitarismi.
La convinzione di fondo della discussione intorno alla fisionomia
dell’homo democraticus condotta dopo la fine del conflitto e soprattutto
negli anni Cinquanta era naturalmente che la «cultura» di un popolo –
l’insieme dei suoi atteggiamenti, delle sue opinioni e, persino, quello che
un tempo veniva definito come lo «spirito» o il «carattere nazionale» – fosse
un aspetto decisivo per determinare la stabilità delle istituzioni democra-
tiche e per consentire un’equilibrata dinamica fra le diverse componenti
del sistema politico. Se le radici più profonde di questa lettura potevano
essere naturalmente ritrovate nelle pagine di Tocqueville e in altri grandi
classici del pensiero politico, nel campo degli studi politologici la sua
7 P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, Guida, Napoli 1974 (ed. or. The Theory of Democratic Elitism: A Critique, Boston, Little Brown and Company, 1967). I pilastri
dell’«elitismo democratico», o meglio della nuova teoria realistica della democrazia che
si delineò a partire dagli anni Quaranta, erano soprattutto J.A. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, Milano 2001 (ed. or. Capitalism, Socialism and Democra-cy, George Allen & Unwin, London 1954; I ed. 1942); R.A. DAHL, Prefazione alla teo-ria democratica, Ed. di Comunità, Milano 1994 (ed. or. A Preface to Democratic Theory,
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«HOMO DEMOCRATICUS» 233
formulazione più coerente e fortunata fu probabilmente proposta dalle
ipotesi teoriche e dalle ricerche empiriche di Gabriel A. Almond, uno dei
padri della «rivoluzione comportamentista» e, soprattutto, uno dei più in-
fluenti artefici della ‘rinascita’ della political science post-bellica8. Nel suo
classico The Civic Culture, pubblicato insieme a Sidney Verba nel 1963,
Almond introdusse infatti in modo estremamente convincente e autore-
vole la nozione di «cultura politica» nel dibattito del periodo, ottenendo,
insieme a critiche talvolta piuttosto severe, un successo tale da orientare
una cospicua mole di ricerche empiriche per circa due decenni9. L’idea
di base di Almond e Verba – poi ripresa da un intero filone di studi – non
consisteva soltanto nella tesi secondo cui la «cultura politica» è un ele-
mento che consente di spiegare le modalità di partecipazione politica e
la struttura dei conflitti in un determinato paese. La tesi di fondo, ben
più ambiziosa, consisteva proprio nell’idea secondo cui il «buon gover-
no» non dipende tanto dall’assetto formale delle istituzioni, quanto da
una serie di presupposti ‘culturali’, principalmente ereditati dalla storia
e dalle tradizioni di un popolo. E, più precisamente, per Almond e Verba
la stabilità e l’efficienza della democrazia dipendevano dall’esistenza di
quel tessuto culturale che identificavano con l’espressione civic culture, e
cioè un tipo specifico di cultura politica che riproponeva molti – se non
proprio tutti – i tratti che Capra aveva assegnato a George Bailey10.
8 Cfr. G.A. ALMOND - S. VERBA, Civic culture. Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton University Press, Princeton, 1963; una parziale traduzione italiana è
stata pubblicata, con il titolo La cultura civica, in G. URBANI (a cura di), La politica com-parata, Il Mulino, Bologna, 1973, pp. 89-104.9 Si vedano per esempio G.A. ALMOND - J.S. COLEMAN (eds.), The Politics of Developing Areas, Princeton University Press, Princeton 1960; G.A. ALMOND - G.B. POWELL, Poli-tica comparata, Il Mulino, Bologna 1970 (ed. or. Comparative Politics. A Developmental Approach, Little, Brown and Co., Boston 1966); G.A. ALMOND (ed.), Comparative PoliticsToday, Little, Brown and Co., Boston 1974; G.A. ALMOND - G.B. POWELL, Politica com-parata. Sistemi, processi e politiche, Il Mulino, Bologna 1988 (ed. or. Comparative Politics. Systems, Process and Policy, Little, Brown and Co, Boston 1978); ID. (eds.), Comparative Politic Today. A World View, Little, Brown and Co, Boston 1980; G.A. ALMOND - S. VERBA
(eds.), The civic culture rivisited, Little, Brown and Co, Boston 1980. Per una sintesi, cfr.dG. SANI, Cultura politica, in N. BOBBIO - N. MATTEUCCI - G. PASQUINO (a cura di), Dizio-nario di politica, Utet, Torino 1986, pp. 275-277.10 Per un’utile rilettura che mette in luce come la ricerca sulla civic culture fosse in-
fluenzata dal clima della Guerra fredda, cfr. I. OREN, Is Culture Independent of National Security? How America’s National Security Concerns Shaped ‘Political Culture’ Research,
in «European Journal of International Relations», 6 (2000) 4, pp. 543-573, e ID., Our Enemies and Us. America’s Rivalries and the Making of Political Science, Cornell University
Press, Ithaca 2003.
234 DAMIANO PALANO
Nel corso dei decenni, gli studi sulla cultura politica hanno attraver-
sato naturalmente fasi differenti, e si sono così modificati sensibilmente
tanto gli strumenti analitici, quanto molte delle ipotesi di fondo. A par-
tire dagli anni Settanta, anche Almond e i suoi collaboratori accettarono
inoltre, almeno in parte, i numerosi rilievi avanzati nei confronti della
loro proposta. Abbandonando i presupposti forti che le avevano sostenu-
te soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, le indagini sulla cultura
politica si sono così indirizzate verso obiettivi meno ambiziosi e si sono
concentrate, per esempio, sull’impatto della «rivoluzione silenziosa» del
post-materialismo, sulle trasformazioni della partecipazione politica e
sulla relazione tra cultura politica e rendimento delle istituzioni. Proprio
su quest’ultimo terreno, l’ipotesi al cuore delle vecchie indagini di Al-
mond e Verba sulla civic culture ha conosciuto però una nuova fortuna, le-
gata soprattutto alle ricerche dedicate da Robert Putnam alla «tradizione
civica» delle regioni italiane11. Naturalmente gli strumenti e gli obiettivi
di Putnam sono molto diversi da quelli che indirizzavano i vecchi studi
sulla cultura politica, ma non è certo difficile ritrovare al fondo di en-
trambe le operazioni alcuni presupposti in comune, costituti innanzitutto
dall’idea che il «civismo» di un popolo sia principalmente una dotazione
(più o meno cospicua) ereditata dal passato e, inoltre, dalla convinzio-
ne secondo la quale un determinato tipo di «cultura» – sostanzialmente
indipendente dalla configurazione istituzionale e dal livello di sviluppo
economico – può favorire l’efficienza e la vitalità di una democrazia. E
sono invece proprio questi i presupposti comuni che le prossime pagine
intendono discutere criticamente, pur riconoscendo il merito che le ri-
cerche sulla civicness avevano (e hanno ancora) nell’indicare il nesso tra il
tessuto culturale di un paese e la realtà di un regime democratico.
Partendo da una rilettura della discussione condotta intorno alla civic culture, queste brevi note si propongono infatti di sviluppare una critica
dell’immagine dell’homo democraticus su cui (più o meno implicitamen-
te) quelle vecchie ipotesi si reggevano, e così di fornire un contributo al
ripensamento della relazione tra democrazia e cultura. Più in particolare,
in vista di una ridefinizione ‘culturale’ della teoria democratica, queste
note puntano a riesaminare la visione della relazione fra un determinato
tipo di cultura politica e il regime democratico che Almond e Verba assu-
11 Cfr. R.D. PUTNAM, La tradizione civica nelle regioni italiane, con R. LEONARDI e R.Y.
NANETTI, Mondadori, Milano 1993 (ed. or. Making Democracy Work, Princeton Univer-
sity Press, Princeton 1993), ma, per uno sviluppo ulteriore, relativo al caso americano, si
veda naturalmente anche ID., Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Com-munity, Simon & Schuster, New York 2000, e T.H. SANDER - R.D.R PUTNAM Still Bowling Alone? The post-9/11 Split, in «Journal of Democracy», (2010) 1, pp. 9-16.t
«HOMO DEMOCRATICUS» 235
mevano come presupposto all’interno della loro indagine. La convinzio-
ne è infatti che in quella idea del rapporto fra cultura e struttura si celas-
sero implicitamente alcune distorsioni che neutralizzavano l’obiettivo di
un’analisi culturale della politica12.
2. Una cultura «civica»?
L’idea che la «cultura» di un popolo influisca sulle sue istituzioni non
venne naturalmente formulata per la prima volta negli anni Cinquanta
e Sessanta dai politologi americani, e d’altronde lo stesso Almond, rico-
struendo la storia intellettuale della nozione di «cultura politica», si spinse
a ritrovarne le più lontane radici nel pensiero di Platone e Aristotele13. Gli
esempi più influenti che indirizzarono le ipotesi sulla civic culture furono
probabilmente rappresentati dallo Spirito delle leggi di Montesquieu e,
in modo ancora più evidente, dalla Democrazia in America di Tocque-
ville. Mentre ricercava le cause che potevano spiegare la varietà delle
istituzioni politiche e delle forme di governo, Montesquieu considerava
infatti – oltre a fattori come l’ambiente geografico, i rapporti fra i diversi
gruppi sociali, le caratteristiche della struttura economica – l’influenza
determinante dello «spirito generale» di una nazione, e, più in partico-
lare, individuava una corrispondenza tra forme di governo e sentimen-
ti politici dominanti. Ma era soprattutto Tocqueville a mettere in luce
l’importanza dei «costumi» per comprendere l’eccezionalità, oltre che il
successo, dell’esperimento politico degli Stati Uniti. Secondo la lettura
avanzata dall’intellettuale francese, a contrassegnare la peculiarità del si-
stema americano era infatti soprattutto l’identificazione del cittadino con
la patria e con le sue istituzioni di governo, nelle quali il singolo vedeva
12 Le note sviluppate in queste pagine sintetizzano un percorso di rilettura svolto negli
ultimi anni in alcuni testi cui, per un’articolazione più completa delle tesi qui esposte,
mi permetto di rinviare: D. PALANO, La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria reali-stica, Mimesis, Milano 2012; ID., Capitalismo, crisi, democrazia. Appunti sulla «distruzione creatrice» contemporanea, in A. SIMONCINI (a cura di), Una rivoluzione dall’alto. A partire dalla crisi globale, Mimesis, Milano 2012, pp. 269-307; ID., La democrazia senza qualità. Le «promesse non mantenute» della teoria democratica, Mimesis, Milano 2015 (II edizione);
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«Quaderni di Scienza Politica», 2015, n. 2, pp. 173-234.13 Cfr. G.A. ALMOND, La cultura politica: storia intellettuale del concetto, in «Rivista Italiana
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236 DAMIANO PALANO
rispecchiata la forza della legge14. Oltre agli esempi di Montesquieu e
Tocqueville, le ricerche sulla civic culture recepivano anche molte solleci-
tazioni provenienti dalla sociologia politica europea dei primi decenni del
Novecento, dalla psico-antropologia, dalla psicologia sociale degli anni
Quaranta e Cinquanta15, oltre che soprattutto dalle ipotesi avanzate da
Freud in opere come Totem e Tabù e Psicologia di massa e analisi dell’io,
o da testi come Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich e Fuga dalla libertà di Erich Fromm, nei quali le idee di fondo alla base della psi-
coanalisi erano state estese in direzione di un’interpretazione delle gran-
di dinamiche storico-sociali16. A cavallo della Seconda guerra mondiale,
diverse indagini antropologiche e politologiche avevano d’altronde già
preso le mosse dalle ipotesi freudiane, per spiegare per esempio la genesi
degli autoritarismi a partire dalle inclinazioni psicologiche delle differenti
popolazioni occidentali17. E lo sviluppo della psicologia sociale contri-
14 Ed era proprio questa base di fiducia che spiegava il successo dell’esperienza ameri-
cana: «L’abitante si sente legato ad ognuno degli interessi del suo paese come ai propri.
Si gloria della gloria della nazione; nei successi di questa crede di riconoscere la propria
opera e se ne esalta; gode del benessere generale da cui trae profitto. L’americano nutre
per la sua patria un sentimento analogo a quello che prova per la sua famiglia, e, per una
sorta di egoismo, si interessa dello Stato» (A. TOCQUEVILLE, La Democrazia in America, a
cura di N. Matteucci, Utet, Torino 1968, p. 118)15 Almond sottolineava in effetti l’influenza di tre differenti ma collegate correnti teo-
riche come il marxismo, la sociologia di Max Weber e la riflessione di Talcott Parsons:
cfr. G.A. ALMOND, La cultura politica: storia intellettuale di un concetto, cit., pp. 412-413.16 Cfr. S. FREUD, Totem e tabù. Alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei ne-vrotici, Milano, Mondadori 1993 (ed. or.i Totem und Tabu. Einige Übereinstimmungen imSeelenleben der Wilden und der Neurotiker, Heller, Leipzig - Wien 1913);r ID, Psicologia della masse e analisi dell’io (1921), in ID., Opere. 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, Boringhie-
ri, Torino 1977, pp. 257-330 (ed. or. Massenpsychologie und Ich-AnalyseInternationaler
Psychoalytischer Verlag,, Leipzig - Wien - Zürich 1921); W. REICH, Psicologia di massa del fascismo, Einaudi, Torino 2002 (ed. or. Die Massepsychologie des Faschismus, Kopenaghen
- Prag - Zürich 1933); E. FROMM, Fuga dalla libertà, Mondadori, Milano 1994 (ed. or.
Escape from Freedom, Farrar & Rinehart, New York 1941).17 Cfr. per esempio B. SCHAFFNER, Fatherland. A Study of Authoritaranism in the German Family, Columbia University Press, New York 1948, e M. MEAD, Soviet Attitudes Toward Authority, McGraw Hill, New York 1951. Le ipotesi di Freud avevano d’altronde eser-
citato un’influenza profonda sulle scienze sociali degli anni Venti e Trenta, in particolare
sulla ridefinizione dell’antropologia struttural-funzionalista di Bronislaw Malinowski e
sulla ricerca psico-culturale condotta da studiosi coome Margaret Mead, Ruth Benedict
e Harold Lasswell: cfr. B. MALINOWSKI, Sex and Repression in Savage Society, Harcourt,
New York 1927; M, MEAD, Coming of Age in Samoa, Morrow, New York 1928; R. BENE-
DICT, Patterns of Culture, Houghton Mifflin, Boston 1934; H. LASSWELL, Psychopathology and Politics, University of Chicago Press, Chicago 1930. Sul punto si vedano le anno-
tazioni di G.A. ALMOND, La cultura politica: storia intellettuale di un concetto, cit., p. 414.
«HOMO DEMOCRATICUS» 237
buì inoltre a dissodare notevolmente il terreno in seguito coltivato dagli
studi sulla cultura politica, per esempio con alcune importanti ricerche
sperimentali sul morale delle forze armate, sugli atteggiamenti politici
e, in special modo, sulla genesi e sulle caratteristiche della «personalità
autoritaria»18.
Per effetto di queste influenze intellettuali, le scienze sociali americane
si trovarono a recepire un’immagine delle «masse» probabilmente molto
meno ottimistica di quella coltivata a lungo dall’immaginario democra-
tico del Nuovo Mondo. Gli studi sulla cultura politica erano d’altronde
anche il riflesso di una sorta di disillusione intellettuale nei confronti
di una concezione ‘illuminista’ dello sviluppo politico, secondo la quale
la democratizzazione doveva scaturire ‘spontaneamente’ dallo sviluppo
economico e dalla modernizzazione. Dopo la crisi degli anni Trenta e
l’avvento dei regimi autoritari e totalitari, le scienze sociali statunitensi
avevano cioè iniziato a prendere atto del fatto di la «cultura politica» non
si limitasse a registrare i mutamenti nella struttura sociale e nello svilup-
po economico, ma fosse una sorta di sedimento capace di resistere nel
tempo, anche dinanzi a profonde trasformazioni istituzionali. Le prime
tracce di questo ripensamento possono essere rinvenute già all’inizio del
Novecento, nella psicologia sociale di William McDougall19, oppure nel
classico studio di Walter Lipmann sull’Opinione pubblica20, ma un esempio
ancor più significativo delle indagini che partivano da questa disillusione
era probabilmente costituito dalla Folla solitaria, nelle cui pagine David
Riesman e i suoi collaboratori si soffermavano sul nesso tra le dinamiche
politiche e il carattere sociale, per mostrare come nella società americana
fosse in atto una transizione dall’«autodirezione» all’«eterodirezione»21.
18 Particolarmente importanti erano stati, in questo campo, le ricerche di.W. ADORNO,
The Autoritarian Personality, Harper, New York 1950, e S.A. STOUFFLER, The American Soldier, Princeton University Press, Princeton 1949.r19 Cfr. per esempio W. MC DOUGALL, The Group Mind, Cambridge University Press, dCambridge 1920. Sul punto si veda anche J. ALLETT, Crowd Psychology and the Theory od Democratic Elitism: The Contribution of William McDougall, in «Political Psychology», 17 l(1996) 2, pp. 213-227.20 Cfr. W. LIPPMANN, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma 1999 (ed. or. Public Opinion,
Harcourt - Brace, New York 1922); ID., The Phantom Public, Macmillan, New York
1925. Per un inquadramento generale, si vedano gli interventi di G. DESSÌ, Il giovane
Lippmann e l’età progressista, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», 2003, pp. 13-
51, e ID., Opinione pubblica e democrazia: il contributo di Walter Lippmann, in F. RIMOLI
- G.M. SALERNO (a cura di), Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza, Roma,
Carocci 2006, pp. 27-48.21 Più precisamente, Riesman individuava tre «tipi» sociali: un carattere diretto dalla
tradizione, un carattere «auto-diretto» (proprio delle persone che hanno maturato un
238 DAMIANO PALANO
Proprio a partire da queste premesse teoriche – cui si aggiunsero anche
delle significative innovazioni metodologiche, dovute dall’affinamento di
nuove tecniche di indagine empirica22 – la nozione di «cultura politica»
iniziò a essere utilizzata da Almond già alla metà degli anni Cinquanta,
in un lavoro che si prefiggeva l’obiettivo di una macro-comparazione dei
sistemi politici23. A dispetto di un’ambizione tanto elevata, il modello che
Almond costruiva era estremamente semplice, per molti versi addirittu-
ra schematico. Il cuore dell’analisi era però già qui occupato, oltre che
dalla «cultura politica», dal rendimento che essa garantiva all’interno di
un sistema politico. In altre parole, ciò che caratterizzava la sua proposta
era l’idea della «cultura politica», definita come «l’orientamento all’azione
politica», che, seguendo Parsons e Shils, era «suddivisa in tre compo-
nenti: 1) la percezione (cognition); 2) la preferenza o affetto (cathexis); 3) la valutazione, ossia la scelta mediante l’applicazione di standard di
valori alle componenti affettive e cognitive»24. In relazione alla nozione
di «cultura politica», Almond precisava inoltre che essa non coincideva
con il sistema politico e neppure con la cultura in generale, perché ne
rappresentava piuttosto una specificazione, dotata di una certa autono-
mia. D’altronde, l’adozione della nozione di cultura politica non aveva
finalità puramente descrittive, ma si proponeva un obiettivo molto più
ambizioso, e cioè dimostrare che, da un lato, «gli Stati Uniti, l’Inghilterra,
e diversi dei paesi del Commonwealth hanno una cultura politica comu-
ne», pur in presenza di differenti tipi di sistema politico, e che, dall’altro,
«i tipici paesi dell’Europa Occidentale continentale, mentre costituiscono
sistemi politici individuali, includono svariate culture politiche differenti
che si estendono oltre i loro confini», e sono dunque «sistemi politici con
complesso di fini interiorizzato) e infine un carattere «etero-diretto» (proprio di chi viene
essere influenzato dalle opinioni altrui): cfr. D. RIESMAN - N. GLAZER - R. DENNEY, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 1956 (ed. or. The Lonely Crowd. A Study of the Changing American Character, Yale University Press, New Haven, 1950).r22 Come osserva Almond, riferendosi proprio a questo aspetto, «era allora divenuto pos-
sibile stabilire se esistevano veramente ‘segni’ distintivi per ogni nazione, e caratteri na-
zionali», «se e sotto quali aspetti e in quale grado le nazioni fossero divise in sotto-culture
caratteristiche», «se le classi sociali, i gruppi funzionali e determinate élites avessero par-
ticolari orientamenti nei confronti della politica, in generale, e della politica governativa,
e quale ruolo fosse giocato, e da quali agenti di socializzazione, nello sviluppo di queste
tendenze» (G.A. ALMOND, La cultura politica: storia intellettuale di un concetto, cit., p. 416).23 Cfr. G.A. ALMOND, Comparative Political Systems, in «Journal of Politics», 18 (1956), pp.
391-409. Oltre che in G.A. ALMOND - S. VERBA, The Civic Culture, cit., le ipotesi erano ul-
teriormente rafforzate anche nell’articolo di G.A. ALMOND, Political Systems and Political Change, in «The American Behavioral Sciences», 6 (1963), pp. 3-10.24 Cfr. G.A. ALMOND, Comparative Political Systems, cit., p. 396.
«HOMO DEMOCRATICUS» 239
culture politiche frammentate»25. Almond costruiva così una tipologia dei
sistemi politici centrata su quattro voci: sistemi politici anglo-americani;
sistemi politici pre-industriali; sistemi totalitari; sistemi europei conti-
nentali (con esclusione della Scandinavia e dei Paesi Bassi, rientranti con
qualche eccezione fra i sistemi anglo-americani). Ma, a dispetto di uno
spettro analitico così ampio, il focus del discorso era rivolto a una com-
parazione tra i sistemi anglo-americani e quelli i europei continentali. Era in-
fatti a proposito della comparazione fra questi due differenti sistemi che
Almond aveva modo di esplicitare l’ipotesi che, già allora, stava al fondo
del suo progetto. Secondo il politologo, i sistemi politici anglo-americani
erano infatti contrassegnati da una cultura politica secolarizzata, prag-
matica, ma omogenea rispetto ai valori e agli orientamenti politici fon-
damentali: in questi paesi, la differenziazione dei ruoli politici di governo
e amministrativi era diffusa e consolidata, il sistema politico assumeva la
fisionomia della democrazia anglosassone, e la competizione politica si
svolgeva nell’atmosfera di un «gioco», il cui esito non poneva a rischio il
rispetto delle regole. Al contrario, i sistemi politici europei continentali
– tra cui erano inseriti Francia, Germania e Italia – risultavano caratte-
rizzati da una cultura politica frammentata: in questi Paesi rimanevano
infatti sopravvivenze del passato preindustriale, mentre esistevano anche
elementi culturali secolarizzati e tendenze prodotte dal processo di indu-
strializzazione. Tali subculture avevano prospettive e valori mutuamente
esclusivi e il mercato politico risultava in tal modo caratterizzato da una
«generale alienazione». E il punto chiave era che la cultura politica non
risultava adeguata al sistema politico. Per quanto avessero sistemi elettivi
e avessero introdotto assemblee rappresentative, tali paesi non erano ade-
guatamente orientati alle istituzioni democratiche perché la loro cultura
politica, frammentata e divisa sui valori di fondo, non consentiva che la
competizione avvenisse in modo davvero pacifico. Proprio per questo, la
dinamica democratica non poteva acquistare quella sorta di fluidità che
invece contrassegnava i sistemi anglo-americani. E questi caratteri favo-
rivano allora, da un lato, le soluzioni ‘cesaristiche’, in grado di superare
la situazione di stallo, o, dall’altro, le pratiche trasformistiche, capaci di
surrogare – a livello di élite politica – l’assenza di mobilità fra i blocchi
subculturali26.
25 Ibi, p. 397.i26 Come scriveva Almond: «gli attori politici non vengono al mercato politico per scam-
biare, per giungere a compressi, e adattarsi, ma per pregare, esortare, convertire, e tra-
sformare il sistema politico in qualcosa d’altro che un agenzia di contrattazione» (ibi, pp. i398). Dato che la cultura politica risultava stabilmente strutturata in subculture recipro-
camente antagoniste, e dato che il mercato elettorale non poteva che risultare bloccato,
240 DAMIANO PALANO
Com’è noto, le ipotesi formulate nel 1956 da Almond furono in se-
guito sviluppate nell’importante progetto di ricerca sulla «cultura civi-
ca», condotto fra il 1958 e il 1963 in collaborazione con Sidney Verba27.
In questa indagine, in cui venivano esaminati cinque paesi (USA, Gran
Bretagna, Italia, Germania e Messico), l’obiettivo di fondo era, anco-
ra una volta, comprendere perché in alcuni paesi il regime democratico
avesse dato risultati migliori, in termini di stabilità, efficacia, rendimento.
E la convinzione era, naturalmente, che la spiegazione dovesse essere
rinvenuta nel tipo di «cultura politica» di ciascun paese. In particolare,
Almond e Verba definivano la «cultura politica» come l’insieme degli at-teggiamenti, delle credenze, degli orientamenti nei confronti della politicaicaratteristici di un sistema politico in un determinato periodo. In questa
direzione formulavano inoltre la nota classificazione di tre tipi di cultura
politica (provinciale, suddita e partecipante), ognuno dei quali identifi-
cava diversi atteggiamenti da parte dei cittadini nei confronti del sistema
politico. Secondo Almond e Verba, la cultura politica di una determinata
società era allora definita dalla distribuzione tra la popolazione dei tre tipi
di orientamento. In un paese con prevalente orientamento al localismo,
la cultura politica si sarebbe presentata come frammentata e i cittadini
non avrebbero mostrato atteggiamenti partecipativi, se invece risultavano
prevalenti gli orientamenti sudditi (propri dei paesi in via di sviluppo, ma
anche dell’Antico Regime), allora i cittadini avrebbero intrattenuto un
rapporto di tipo passivo con le istituzioni (temendo sanzioni o confidan-
do in aiuti o favori), mentre in caso di orientamento prevalente alla par-
tecipazione, i cittadini avrebbero ritenuto di detenere un ruolo rilevante
all’interno del sistema, riconoscendone dunque i valori ma mobilitandosi
anche per farlo funzionare28.
Dal punto di vista operativo, la ricerca prevedeva che, in ognuno dei
cinque paesi considerati, fosse somministrato un questionario a un cam-
pione stratificato di mille individui, che doveva riflettere la composizione
le possibili conseguenze rimanevano principalmente due: da un lato, il ricorso a pratiche
trasformistiche da parte delle élite, con la conseguente sostituibilità dei ruoli politici e
spostamento del ‘centro di gravità’ della dinamica politica non verso le istituzioni legali,
ma verso le strutture di ruolo radicate nelle sub-culture; dall’altro lato, era sempre pre-
sente il rischio di una rottura ‘cesaristica’, in grado di giungere a una soluzione (provvi-
soria) della polarizzazione mediante una trasformazione in senso autoritario del regime.27 Cfr. G.A. ALMOND - S. VERBA, The Civic culture, cit.28 All’interno di un paese, si potevano inoltre individuare delle sub-culture, ossia la pre-
senza di gruppi con orientamenti particolari spesso concorrenti o incompatibili tra loro:
tali sub-culture possono essere classificate, in primo luogo, in base all’accettazione/ri-
fiuto delle strutture politiche esistenti, e, in secondo luogo, sulla base dell’attenzione
prevalente agli inputs o agli outputs.
«HOMO DEMOCRATICUS» 241
della popolazione29. I risultati affermavano che l’istruzione e una posizio-
ne vantaggiosa in un’economia moderna risultavano legate alla compe-
tenza e alla partecipazione civica; ma, al tempo stesso, che l’istruzione
non produceva necessariamente le componenti affettive e valutative di
una cultura politica: in altri termini, apparivano ben più importanti fat-
tori come l’appartenenza di gruppo e l’esperienza nazionale. In partico-
lare, l’Italia risultava contrassegnata dalla presenza di due sub-culture,
la prima proiettata verso l’input e la seconda contraddistinta invece da
sottomissione e localismo, e dunque predisposta quasi esclusivamente
alla fase degli output. In Gran Bretagna e negli USA, invece, la situazio-
ne risultava differente, non tanto perché questi paesi non presentassero
divisioni subculturali, quanto per i caratteri di queste subculture, che
consentivano che la competizione politica assumesse i caratteri di un
«gioco»30. Ma un ruolo chiave, nella ricerca di Almond e Verba, aveva so-
prattutto quella che veniva definita come civic culture. L’ipotesi principale
era infatti che esistesse una correlazione strettissima fra la stabilità di un
regime democratico e la presenza di «cultura civica». Un simile legame di-
pendeva da motivazioni psicologiche, ossia dalle caratteristiche di quella
che Lasswell, grazie alle sollecitazioni della psicoanalisi, aveva identifica-
to come «personalità democratica»: una personalità caratterizzata da un
«ego aperto», da un’attitudine inclusiva nei confronti degli altri, dalla ca-
29 Molto importante era la scelta del metodo, perché, come osservarono diversi ani più
tardi Renato Mannheimer e Giacomo Sani, «gli autori decisero infatti di ricorrere alla
tecnica del sondaggio multiplo, o parallelo, che viene designato forse un po’ enfatica-
mente col termine di “cross-cultural survey”. In sostanza venne deciso di intervistare in
ciascuno dei cinque paesi un campione il più possibile rappresentativo della popolazione
adulta, ponendo a tutti gli intervistati le stesse domande indipendentemente dal loro
contesto nazionale. Il questionario predisposto dai due ricercatori e tradotto con gli op-
portuni aggiustamenti nelle altre tre lingue, era costituito in massima parte da domande
con risposta bloccata (o meglio, con alternative di risposta pre-costituite). La sommini-
strazione del questionario venne affidata a istituti specializzati nello studio dell’opinione
pubblica in ciascuno dei cinque paesi e circa mille interviste, della durata media di circa
un’ora, vennero condotte in quattro dei cinque paesi nell’estate del 1959 e negli Stati
Uniti nella primavera del 1960». Cfr. R. MANNHEIMER - G. SANI, Cultura politica e identi-fi cazione di partito, in «Il Politico», 53 (1988) 2, p. 203.30 In altre parole, come ha sintetizzato Sola, in questi due contesti ci si trova di fronte
a «una cultura politica le cui sub-culture non mettono in discussione la struttura e il
tipo di regime esistente, in quanto la differenza destra-sinistra riguarderebbe solo una
diversa valutazione delle questioni di indirizzo politico ed esprimerebbe solo una diversa
valutazione delle questioni di indirizzo politico ed esprimerebbe una divergenza nelle
preferenze per questo o quel gruppo di leader politici, senza mettere in discussione il
sistema nel suo complesso (G. SOLA, I paradigmi della scienza politica, Il Mulino, Bologna
2005, p. 273).
242 DAMIANO PALANO
pacità di condividere i propri valori, da un orientamento multi-valoriale
piuttosto che monovaloriale, da una significativa fiducia nell’ambiente
umano e, infine, da una relativa libertà dell’ansia31. Ma in realtà Almond
e Verba si concentravano sull’analisi delle attitudini esistenti nei sistemi
politici contemporanei.
Fin dalle prime pagine del libro, la civic culture era identificata come
«una cultura politica che combina modernità e tradizione», e la sua esem-
plificazione principale era fornita dalla Gran Bretagna, in cui l’incontro
fra modernizzazione e tradizionalismo si era realizzato in un lungo perio-
do di tempo, in modo tale da evitare gli effetti della disintegrazione o della
polarizzazione. In altri termini, la secolarizzazione politica era avvenuta
gradualmente, dapprima grazie al riconoscimento della tolleranza reli-
giosa e in seguito mediante la fusione di classe mercantile e aristocrazia.
Da questo insieme di fattori storici era emerso un tipo peculiare di cultu-
ra politica, una cultura né tradizionale, né moderna, ma che combinava
elementi di entrambe: una cultura pluralistica, basata su comunicazione e
persuasione, una cultura del consenso e della diversità, capace di consentire
il mutamento moderandolo32. Questo tipo di cultura si era esteso nei pae-
si del Commonwealth, e soprattutto negli USA, dove aveva avuto modo di
svilupparsi senza l’ostacolo delle istituzioni tradizionali. Un punto fonda-
mentale nella raffigurazione che Almond e Verba fornivano della civic cul-ture consisteva però nel ruolo che assegnavano alla passività dei cittadini.
La civic culture non coincideva infatti con quella che definivano come
«cultura partecipante», perché si trattava piuttosto di una cultura politica
mista, in virtù della quale, accanto a cittadini effettivamente orientati alla
partecipazione, si trovava una consistente quota di popolazione passiva
e apatica, che però risultava fortemente attaccata ai valori di fondo del
sistema e che nutriva una marcata fiducia nelle istituzioni e nella leader-
ship. E proprio per questo la figura dell’homo democraticus finiva con l’al-
lontanarsi dall’immagine di un cittadino attivamente partecipe della vita
politica del proprio paese, per diventare almeno in parte simile a quella
di un individuo politicamente apatico, passivamente sottoposto all’auto-
rità costituita, che Tocqueville aveva dipinto nelle profetiche pagine della
31 Cfr. G.A. ALMOND - S. VERBA, The Civic Culture, cit., pp. 10-11. Il riferimento era, in
particolare, a H.D. LASSWELL, Democratic Character, in r ID., The Political Writings of Harold D. Lasswell, The Free Press, Glencoe, 1951, pp. 465-525, e a l ID., Power and Personality,
Norton, New York, 1948. Per una discussione del concetto, cfr. F.I. GREENSTEIN, Harold D. Lasswell’s Concept of Democratic Character, in «r The Journal of Politics», 30 (1968) 3, pp.
696-709.32 G.A. ALMOND - S. VERBA, The Civic Culture, cit., p. 6.
«HOMO DEMOCRATICUS» 243
Democrazia in America in cui aveva prefigurato l’avvento di un inedito
dispotismo democratico.
3. Quale cultura «politica»?
Negli anni Sessanta e Settanta gli esponenti della protesta «anti-elitista»
che attraversò fuggevolmente la scienza politica nord-americana non
mancarono di ravvisare nelle riflessioni sulla civic culture il tentativo di
legittimare l’apatia politica in cui viveva una buona parte della popo-
lazione33. E proprio in questo senso Carol Pateman definì per esempio
The Civic Culture come un’opera dalla forte connotazione ideologica, che
puntava a fondare teoricamente un’idea elitistica della democrazia, ri-
nunciando invece alle grandi ambizioni che avevano contrassegnato nel
passato il pensiero democratico34. Per quanto individuasse molti dei limiti
che gravavano sull’impostazione dell’«elitismo democratico» e sull’imma-
gine della civic culture, in realtà il fronte della critica «anti-elitista» non
33 Cfr. per esempio C. BAY, Politics and Pseudopolitics: A Critical Evaluation of Some Behav-ioral Literature, in «American Political Science Review», 54 (1965) 1, pp. 39-51; P. GREEN
- S. LEVINSON (eds.), Power in Community. Dissenting Essays in Political Science, Random
House, New York 1970; C.A. MCCOY - J. PLAYFORD (eds.), Apolitical Politics. A Critique of Behavioralism, Thomas Y. Crowell, New York 1967; M. SURKIN - A. WOLFE, The Polit-ical Dimension of Political Science, in «Acta politica», 1969, pp. 43-61; ID. (eds.), An End to Political Science. The Caucus Papers, Basic Books, New York 1970; W.E. CONNOLLY,
Political Science and Ideology, Atherion Press, New York 1967; L. LIPSITZ, Vulture, Mantis, and Seal: Proposals for Political Scientists, in «Polity», 3 (1970) 1, pp. 3-21; J.L. WALKER,
A Critique of the Elitist Theory of Democracy, in «American Political Science Review», vol.
60, 1966, pp. 285-295; L. DAVIS, The Cost of Realism: Contemporary Restatements of De-mocracy, in «Western Political Quarterly», 17 (1964), pp. 37-46; G. DUNCAN - S. LUKES,
The New Democracy, in «Political Studies», 11 (1963), pp. 156-177; S.W. ROUSSEAS - J.
FARGANIS, American Politics and the End Ideology, in «British Journal of Sociology», 14
(1963), pp. 347-362; M.L. GOLDSCHMIDT, Democratic Theory and Contemporary Political Science, in «Western Political Quarterly», 19 (1966), pp. 5-12; H.S. KARIEL, The Decline of American Pluralism, Stanford University Press, Stanford 1961; ID., The Promise of Politics,Prentice-Hall, Engelwood Cliffs 1966; J.C. LIVINGSTON - R.G. THOMPSON, Il consenso dei governati, Giuffrè, Milano 1971 (ed. or. i The Consent of the Governed, MacMillan, New dYork, 1966). Per un esame del dibattito, cfr. Mario STOPPINO, Elites, democrazia e parte-cipazione politica, in P. BACHRACH, La teoria dell’elitismo democratico, cit., pp. VII-XXXII,
ma, per una ridiscussione dei nodi al centro della protesta «anti-elitista», rimando anche
a D. PALANO, La democrazia dei pochi, cit.i34 Cfr. C. PATEMAN, Political Culture, Political Structure and Political Change, in «British
Journal of Political Science», 1971, pp. 291-305, e ID., The Civic Culture: A Philisophical Critique, in Gabriel ALMOND - Sidney VERBA (eds.), The Civic Culture Revisited, cit., pp. d57-102.
244 DAMIANO PALANO
riuscì però a mettere davvero in luce come proprio i principi della «rivo-
luzione comportamentista» – che la political science degli anni Cinquanta
e Sessanta aveva entusiasticamente adottato – producessero una fatale
distorsione nel modo in cui veniva concettualizzata la relazione tra demo-crazia e cultura, e dunque nel modo in cui veniva pensata la fisionomia
dell’homo democraticus35.
Il principale problema, che passò in gran parte inosservato agli «anti-
elitisti», era infatti che le ricerche sulla cultura politica degli anni Cin-
quanta e Sessanta (e lo stesso framework teorico dello struttural-funzio-
nalismo politologico, di cui Almond fu probabilmente il principale soste-
nitore) tendevano a produrre una sostanziale distorsione della nozione
di «cultura».
Innanzitutto, quelle ricerche operavano una sorta di ‘individualiz-
zazione’ e persino una ‘sterilizzazione’ della cultura politica. L’‘indivi-
dualizzazione’ scaturiva dalla convinzione che la cultura potesse essere
davvero ricostruita solo utilizzando i dati raccolti mediante interviste e
questionari36. Ma una simile ‘individualizzazione’ si legava anche a una
sorta di ‘sterilizzazione’ della cultura politica, perché l’interesse per il
comportamento ‘osservabile’ dei singoli individui finiva col neutralizza-
re la stessa nozione di «cultura». Se nelle ricerche antropologiche e so-
ciologiche degli anni Cinquanta, l’elemento ‘culturale’ era stato inteso
in termini estremamente ampi, «come un tutto organico e coerente, un
insieme integrato, cioè un tessuto che non può venire scomposto nelle
sue diverse parti senza perdere la propria identità»37, nella proposta di
Almond e Verba – come in molte delle indagini successive – fatalmente
si smarriva invece la complessità ‘culturale’ del fenomeno politico. La
35 Per una illustrazione del principi di fondo della «rivoluzione comportamentista», cfr.
D. EASTON, The Current Meaning of «Behavioralism» in Political Science, in «The Annals
of The American Academy of Political Science», 1962, pp. 1-25, e ID., Passato e presente della scienza politica negli Stati Uniti, in «Teoria politica», 1 (1985), 1, pp. 95-114. Ma sul ipunto si vedano anche J. FARR, Remembering the Revolution: Behavioralism in AmericanPolitical Science, in J.S. DRYZEK - J.K FARR - S.T.R LEONARD (eds.), Political Science in History.Research Programs and Political Traditions, Cambridge University Press, New York 1995,
pp. 198-224, e G. SOLA, Storia della scienza politica. Teorie, ricerche e paradigmi contempo-ranei, Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, pp. 61-115.i36 Come osservava in questo senso Giorgio FEDEL, «i sondaggi hanno un’attendibilità
limitata al tempo della loro attuazione e si prestano poco a catturare gli elementi du-
revoli della cultura politica», ossia proprio quegli elementi «che occorrono per rendere
plausibili le generalizzazioni empiriche». Cfr. G. FEDEL, Cultura e simboli politici, in A.
PANEBIANCO (a cura di), L’analisi della politica. Tradizioni di ricerca, modelli, teorie, Bologna,
Il Mulino 1989, p. 376.37 R. MANNHEIMER - G. SANI, Cultura politica e identifi cazione di partito, cit., p. 200.
«HOMO DEMOCRATICUS» 245
distinzione fra la cultura in generale e un suo determinato aspetto – che,
nel caso della proposta di Almond e Verba, era quello ‘politico’ – dove-
va cioè configurare un’operazione di implicita distorsione dell’orizzonte
culturale e simbolico specifico di ogni società. In altre parole, riducendo
la «cultura politica» all’insieme degli atteggiamenti e degli orientamenti
dei singoli individui, Almond e Verba dimenticavano la complessità del
fenomeno culturale, che non poteva essere semplicemente ‘sezionato’,
isolando la dimensione ‘politica’ dalle altre dimensioni, senza che fosse al
tempo stesso reciso il nesso costitutivo con l’intero contesto38.
In secondo luogo, Almond e Verba sembravano presupporre che la
cultura politica fosse sostanzialmente omogenea al proprio interno e co-
stante nel tempo. Interrogandosi solo sulla cultura dei cittadini, intesi
nella loro totalità, Almond e i suoi collaboratori finivano così con l’esclu-
dere sia che le culture delle singole élite (politiche, economiche, sociali)
potessero avere un ruolo significativo nella spiegazione della stabilità o
dell’instabilità dei regimi democratici39, sia che la cultura stessa potesse
essere ‘prodotta’, o parzialmente ridefinita, dalla struttura politica (ossia
dai diversi elementi istituzionali e organizzativi)40. D’altronde proprio la
continuità nel corso del tempo rappresentava uno dei presupposti di base
del progetto di comparazione concepito da Almond, perché solo ipotiz-
zando che la cultura politica fosse sostanzialmente invariante (e dunque
38 «Il fattore culturale non può essere separato da altre determinazioni materiali e sociali
che contribuiscono a formare il sistema politico», ha scritto in questo senso Mario Ca-
ciagli, e per questo motivo «la cultura politica non è un mero oggetto da descrivere e da
quantificare, ma una struttura di significazione della realtà», «non è solo un ventaglio di
credenze, ma un codice simbolico che acquista senso in un contesto e fornisce identità
ai soggetti individuali e collettivi», e, dunque, «non è solo manifestazione di opinioni e
di atteggiamenti, ma si sostanzia di idee e di valori, di simboli e di norme, di miti e di
riti, di comportamenti concreti e iterati, di strutture, infine, che non solo elaborano e
trasmettono messaggi ma riproducono la cultura stessa e condizionano individui e ge-
nerazioni». Cfr. M. CACIAGLI, Approssimazione alle culture politiche locali. Problemi di analisi ed esperienze di ricerca, in «Il Politico», 53 (1988), 2, p. 273.39 In particolare, è stato Arend Lijphart a concentrarsi sulla rilevanza della variabile in-
termedia (il comportamento delle élite di governo), trascurata da Almond almeno nelle
prime ricerche. Cfr. A. LJIPHART, The Structure of Inference, in G. ALMOND - S. VERBA
(eds.), The Civic Culture Revisited, cit., pp. 37-56d40 Al contrario, come nota Mario Caciagli, «bisogna tenere conto delle istituzioni politi-
che date, di forme organizzative politiche e prepolitiche, dei retaggi concreti del contesto
storico, e poi dell’ambiente economico-sociale, e perfino geografico, per comprendere
le peculiarità delle singole culture politiche, sia nel loro modello genetico, sia nella loro
capacità di persistere» (M. CACIAGLI, Approssimazione alle culture politiche locali, cit., pp. i272-273). Ma critiche analoghe, intorno all’unidirezionalità del rapporto fra cultura e
struttura, erano avanzate anche da C. PATEMAN, The Civic Culture, cit.
246 DAMIANO PALANO
capace di sopravvivere anche a mutamenti nelle istituzioni), quell’ele-
mento poteva diventare la variabile indipendente in grado di spiegare la
stabilità del regime democratico. Ma questo assunto finiva col suggerire
una raffigurazione della cultura politica come una sorta di ‘essenza’, cri-
stallizzata nel ‘carattere nazionale’ e dunque immutabile.
Una serie di problemi altrettanto significativi discendeva però soprat-
tutto dal modo in cui era rappresentato lo stesso rapporto fra la culturae la struttura, ossia dalla convinzione – davvero alla base del programma
di Almond e Verba – che fosse possibile considerare la cultura e la strut-tura come due dimensioni tra loro distinte, oltre che del tutto autono-
me. Da questo punto di vista, l’idea che i «valori» rivestissero un ruolo
determinante per la stabilità di un regime democratico non era peraltro
davvero fondata sulla dimostrazione del modo in cui i valori influiscono
effettivamente sulla percezione e sulla valutazione del sistema politico: a
ben vedere, infatti, Almond e Verba non dimostravano che gli elementi
in grado di spiegare la stabilità del regime democratico fossero davvero
determinati valori41, e che invece non avessero alcun peso i processi di
intermediazione (politica, simbolica, economica) svolti dai livelli orga-
nizzativi e istituzionali42. Ma, soprattutto, la cultura politica – almeno la
cultura politica ricostruita grazie al metodo del sondaggio – non poteva
che collocarsi anche su un piano differente rispetto a quello della strut-
tura: nel modello teorico di Almond, la struttura (ossia quell’insieme re-
41 Questo nodo non era affatto stato sciolto dalle ricerche empiriche, come riconosceva
retrospettivamente lo stesso Verba: «I nostri dati riguardavano credenze a livello indivi-
duale. Questi dati potevano essere aggregati ricavandone le credenze dell’intero elettora-
to, ma il legame tra queste configurazioni di atteggiamenti e ciò che stavamo cercando di
spiegare – perché alcune nazioni avessero delle democrazie relativamente stabili ed altre
no – era assai tenue». Cfr. S. VERBA, On Revisiting the Civic Culture: A Personal Postscript,tin in G. ALMOND - S. VERBA (eds.), The Civic Culture Revisited, cit., p. 404.d42 Cfr. per esempio da B. BARRY, Sociologist, economist and democracy, Macmillan, London
1970, pp. 93-98. Sulla stessa linea, anche se in termini ancora più radicale, si muoveva
la critica di R. ROGOWSKY, A Rational Theory of Legitimacy, Princeton University Press,
Princeton 1974. Puntando proprio su questo aspetto, Mannheimer e Sani notavano:
«Pensare che gli atteggiamenti di massa abbiano sempre implicazioni sistemiche ci pare
un grosso equivoco. Le conoscenze sugli atteggiamenti delle grandi masse dei cittadini
sono utili quando si tratta di capire comportamenti individuali quali il coinvolgimento
in varie forme di partecipazione politica, la preferenza per questo o quel partito, ed altre.
Nel caso di molte caratteristiche sistemiche la rilevanza degli atteggiamenti di massa ci
pare assai più dubbia. Sono tutti casi nei quali le caratteristiche sistemiche dipendono
principalmente e in alcuni casi esclusivamente da atteggiamenti e comportamenti di
settori relativamente limitati della società, sottogruppi particolari, élites politiche, mino-
ranze locali e visibili, gruppi di interesse» (R. MANNHEIMER - G. SANI, Cultura politica e identifi cazione di partito, cit., p. 206).
«HOMO DEMOCRATICUS» 247
lativamente stabile di comportamenti, ruoli, istituzioni) apparteneva in-
fatti alla dimensione della «realtà», mentre gli atteggiamenti e le opinioni
si collocavano nella sfera delle «rappresentazioni della realtà», una sfera
certo importante, ma solo per ricostruire i moventi di un soggetto e per
comprendere dunque la logica del suo atteggiamento nei confronti della
struttura politica. Nella stessa concezione della cultura politica, ridotta
agli orientamenti individuali, non poteva dunque che annidarsi una sorta
di circolo vizioso, «perché la struttura, come explicandum» doveva rimane-
re sempre «un dato esterno agli atteggiamenti», mentre, al tempo stesso,
«in quanto oggetto di atteggiamenti», diventava «una componente interna
della stessa variabile attitudinale»43.
I limiti che derivavano dall’assenza di una chiara illustrazione del nes-
so fra cultura e struttura affioravano però, in modo paradigmatico, proprio
a proposito del rapporto ‘virtuoso’ fra «cultura civica» e democrazia. Dal
momento che nel ragionamento di Almond proprio la cultura politica
era considerata come la variabile indipendente in grado di spiegare la
maggiore o minore stabilità dei regimi democratici, era infatti piuttosto
evidente che il politologo non aveva mai davvero dimostrato che la «cul-
tura civica» assicurasse una maggiora stabilità e un maggiore rendimento
del sistema politico, in presenza di un regime democratico. Più semplice-
mente, Almond e Verba aveva esplicitato l’idea che un determinato tipo
di cultura (la «cultura civica») massimizzasse la stabilità del regime de-
mocratico (così come definito da una particolare teoria classica della de-
mocrazia), procedendo in seguito solo alla misurazione della maggiore o
minore vicinanza al modello idealtipico della cultura civica delle culture
politiche rilevate empiricamente44.
I limiti andavano però ben oltre lo studio della democrazia, perché si
coinvolgevano la stessa strumentazione teorica e lessicale adottata dalla
political science. Le ricerche sulla civic culture – e più in generale sul rap-
porto fra cultura politica e regime democratico – si dovevano inserire in-
43 G. FEDEL, Cultura e simboli politici, cit., p. 377. Proprio per questo, «non chiarendo il
locus della struttura in rapporto agli atteggiamenti (se esterno o interno a questi), Al-
mond e Verba rischiano sempre di confondere tra loro un rapporto logico, possibile nel
caso in cui la struttura sia una componente degli atteggiamenti, e un rapporto causale,
possibile solo se si ammette che la struttura sia indipendente dagli (e quindi esterna agli)
atteggiamenti».44 Cfr. G.M. PATRICK, Political culture, in G. SARTORI (a cura di), Social sciences concepts,Sage, London 1984, pp. 305-310. In tal modo, dunque, Almond si limitava ad «accer-
tare non la congruenza tra la cultura e la struttura, ma la congruenza tra la cultura
rilevata e quella idealtipica», con la conseguenza che la causazione veniva attribuita «alla
congruenza tra modello ideale e modello reale di cultura politica, non a quella [...] tra
cultura politica e struttura» (G. FEDEL, Cultura e simboli politici, cit., p. 375).
248 DAMIANO PALANO
fatti all’interno di quello schema generale di interpretazione dei fenome-
ni politici fornita dalla declinazione politologica dello struttural-funzio-
nalismo: una declinazione cui diedero avvio studiosi come David Easton
e Karl Deutsch, ma che conobbe la riformulazione al tempo stesso più
ambiziosa, affascinante e influente nella proposta dello stesso Almond45.
Così, se Almond formulò inizialmente le proprie ipotesi riferendosi solo
in modo generico alla prospettiva sistemica, in seguito – proprio men-
tre precisava i contorni del framework struttural-funzionalista di analisi
della politica comparata – precisò ulteriormente le ipotesi di fondo già
enunciate in The Civic Culture. Nel modello struttural-funzionalista di
Almond, la cultura politica era infatti considerata come un tassello fon-
damentale anche rispetto al problema del rendimento complessivo del
sistema politico, e cioè in ordine alle capacità del sistema politico (estrat-
tiva, regolativa, simbolica, distributiva e ricettiva). In questo senso, la sua
convinzione era che lo strumento della cultura politica fosse utile non
soltanto perché metteva in luce la dimensione psicologica degli atteggia-
menti politici, ma anche perché essa costituiva il nesso fra la dimensione
‘micro’ dell’analisi politica (analisi dei comportamenti individuali) e la
dimensione ‘macro’ (osservazione del sistema politico nel suo complesso
e delle interrelazioni che lo caratterizzano). E il punto più importante
su cui si soffermava, a questo proposito, era l’idea di una congruenza
fra tipo di cultura politica preminente e struttura politica, secondo uno
schema che stabiliva una convergenza fra ognuno dei tre tipi di cultura
politica individuati e una specifica configurazione della struttura politica.
Benché la proposta fosse senza dubbio affascinante, il risultato era
però una definizione meta-storica delle forme concrete di organizzazione
politica che, neppure troppo implicitamente, finiva con l’obliterare defi-
nitivamente qualsiasi riferimento alla cultura, proprio nella misura in cui
quest’ultima risultava individualizzata, decontestualizzata e destoricizza-
ta. Il problema scaturiva evidentemente proprio dalla convinzione che
fosse possibile, e legittimo sotto il profilo scientifico, distinguere la strut-tura dalla cultura. Proprio nel momento in cui venivano nettamente di-
stinte l’una dall’altra la struttura e la cultura, venivano infatti recise anche
le radici ‘culturali’ della struttura, e veniva cioè disconosciuto il fatto che
la struttura è in larga parte – se non del tutto – un ‘prodotto culturale’,
e cioè una realtà che assume la propria consistenza in virtù di significati
culturali definiti (e costantemente ridefiniti) nel confronto tra i diversi
attori politici. Mentre ipotizzavano (almeno a livello di strumenti anali-
tici) una netta distinzione fra cultura e struttura, Almond e i politologi
45 G.A. ALMOND - G.B. POWELL, Politica comparata, cit., pp. 55-89.
«HOMO DEMOCRATICUS» 249
comportamentisti costruivano invece una definizione della struttura che
escludeva in termini programmatici ogni condizionamento culturale. Ma
questa operazione non poteva che condurre a inevitabili distorsioni, per-
ché il ‘condizionamento culturale’ dei concetti doveva fatalmente riemer-
gere in forma surrettizia – a dispetto della convinzione comportamentista
che fosse possibile disancorare i concetti politici dalle loro radici storiche
e, in senso lato, ‘culturali’ – nello stesso concetto di «democrazia».
Anche la ricerca di una definizione «realistica» della democrazia si era
infatti incanalata, a partire dagli anni Cinquanta, sui binari indicati dalla
lezione comportamentista, perché le energie si erano volte verso una defi-
nizione capace di ‘depurare’ la nozione scientifica della democrazia dalle
molte dottrine filosofiche della democrazia, oltre che da tutte le più o
meno nitide raffigurazioni ideologiche del governo del popolo. L’imma-
gine teorica della democrazia competitiva puntava pertanto a presentarsi
come una raffigurazione esclusivamente ‘descrittiva’ e, dunque, in grado
di discernere la democrazia dalle altre forme di regime, escludendo qual-
siasi riferimento a quelle componenti normative così radicate nel pensie-
ro democratico. Con l’obiettivo di costruire una definizione ‘realistica’ –
e dunque non ‘ideologica’ o ‘filosofica’ – della democrazia, veniva fissato
allora un netto discrimine tra l’insieme dei valori, delle aspirazioni e delle
immagini dottrinarie della democrazia, da un lato, e, dall’altro, la realtà
delle democrazie. Era ovviamente proprio verso questa operazione che
gli anti-elitisti rivolgevano la loro foga polemica. Ma, in realtà, il punto
critico non era tanto (o soltanto) la rinuncia ai più ambiziosi ed esigenti
ideali democratici, in nome di una semplice legittimazione dell’apatia e
dello status quo, quanto che quel modo di ‘descrivere’ la democrazia ri-
muoveva teoricamente il fatto che la «democrazia», i suoi valori di fondo,
i suoi ideali, i suoi rituali, la sua stessa definizione ‘scientifica’, fossero in
realtà sempre prodotti culturali. E anche sotto questo profilo, l’operazio-
ne finiva con l’innescare implicazioni formidabili.
In primo luogo, dato che cultura e struttura venivano considerati come
due momenti analiticamente distinguibili, poteva essere esclusa l’idea
che valori, simboli, identità e rituali, più che costituire la ‘base politica’
della democrazia, definiscono i confini e le stesse regole di funzionamen-
to di un regime democratico. In secondo luogo, dato che forniva una
rappresentazione della cultura come una sorta di ‘essenza’, ossia come
un insieme di attitudini consolidate e addirittura ‘cristallizzate’, quella
visione si soffermava solo su alcuni aspetti della cultura, meno soggetti
ai mutamenti, e ne trascurava del tutto altri, assai più soggetti al muta-
mento, come per esempio gli schemi cognitivi con cui gli individui orga-
nizzano la loro esperienza personale, interpretano l’azione dei loro simili,
250 DAMIANO PALANO
costruiscono strategie d’azione e plasmano la loro specifica identità. Infi-
ne, proprio perché cultura e struttura risultavano logicamente distinte, la
definizione ‘scientifica’ della democrazia poteva espellere – almeno appa-
rentemente – i significati ‘culturali’ costruiti (e ridefiniti costantemente)
all’interno della dinamica sociale e politica. Ma, infine, la conseguenza
forse principale riguardava proprio la definizione della democrazia: in
questo modo si finiva infatti col ‘cristallizzare’ del tutto la definizione
della democrazia, sia perché si procedeva a identificare la democrazia con
l’assetto specifico delle istituzioni politiche in un determinato momento,
sia, soprattutto, perché si sottraeva la possibilità stessa che la democrazia
potesse essere modificata dalle trasformazioni nella cultura (e dunque
dai conflitti di potere).
4. Quale cittadino? E quale democrazia?
Quelle ombre che aleggiavano nei vecchi film «populisti» di Frank Capra,
e che il deus ex machina dell’happy end riusciva magicamente a neutra-
lizzare, negli ultimi vent’anni (e soprattutto dopo l’esplosione della crisi
economica globale) sono nuovamente ricomparse nel cielo della «tarda
democrazia» occidentale46. E molti osservatori hanno infatti iniziato a ri-
conoscere nelle trasformazioni contemporanee uno ‘svuotamento’ del-
le istituzioni democratiche, se non addirittura una vera e propria «crisi»
della democrazia (o quantomeno della democrazia inaugurata dall’«era
americana»)47. Nel dibattito odierno sul «disagio» della democrazia, non
46 Traggo l’espressione da L. ORNAGHI, Nell’età della tarda democrazia. Scritti sullo Stato, le istituzioni, la politica, Vita e Pensiero, Milano 2013.47 Nello sterminato dibattito sul «malessere» della democrazia, si vedano, per esempio
(senza alcuna pretesa di completezza), M. BOVERO, Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Roma - Bari 2000; A. BURGIO, Senza democrazia.Per un’analisi della crisi, Derive Approdi, Roma 2009;i R.J. DALTON, Democratic Challenges, Democratic Choices. The Erosion of Political Support in Advanced Industrial Democracies,Oxford University Press, Oxford 2004; S. MACEDO, Democracy at Risk. How Political Choices Undermine Citizen Partecipation and What We Can Do About It, Brookings Insti-ttution Press, Washington Dc 2005; P. MAIR, Governare il vuoto. La fi ne della democrazia dei partiti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016 (ed. or. i Ruling the Void. The Hollowing of Western Democracy, Verso, London - New York 2013); G. NEVOLA, Il malessere della demo-crazia contemporanea e la sfi da dell’«incantesimo democratico», in «Il Politico», 72 (2007), 1,
pp. 165-199; J. NYE - P. ZELIKOW - D. KING, Why American Mistrust Government, Harvard tUniversity Press, Cambridge (Ma) 1997; S.J. PHARR - R.D. R PUTNAM (eds.), Disaffected Democracy. What’s Troubling the Trilateral Countries?, Princeton University Press, Prince-
ton (NJ) 2000; P.C. SCHMITTER - A.H. TRESCHEL, The Future of Democracy. Trends, Analy-ses and Reforms, Council of Europe, Strasbourg 2004; T. SKOCPOL - M.P. FIORINA (eds.),
«HOMO DEMOCRATICUS» 251
si può però ritrovare soltanto una nuova rivisitazione della vecchia pole-
mica contro il ‘tradimento’ della democrazia, e cioè contro l’abbandono
dei valori che contrassegnano l’aspirazione alla democrazia. A ben gua-
dare, infatti, al fondo di quella discussione, e soprattutto alla base delle
differenti letture che il «disagio» alimenta, si trova un dissenso sostanzia-
le intorno all’immagine dell’homo democraticus, ossia intorno all’idea dei
comportamenti, delle aspettative, delle attitudini che dovrebbe avere il
«cittadino» all’interno di una democrazia48. E al «disagio» vengono allo-
ra date risposte ben diverse, non semplicemente perché la lettura delle
trasformazioni in atto sia differente, quanto perché la stessa concezione
della «democrazia» – di quali siano i suoi obiettivi, i suoi fondamenti e i
suoi caratteri distintivi – risulta tutt’altro che riconducibile a un modello
unanimemente condiviso.
Alle spalle delle posizioni che affollano il dibattito contemporaneo
sullo stato della democrazia non è infatti difficile riconoscere quella
divaricazione di fondo tra il «paradigma democratico» e il «paradigma
postdemocratico» evidenziata da Alfio Mastropaolo: una divaricazione
che – prima ancora che sulla descrizione dei processi reali – affiora nella
concezione stessa di cosa ‘dovrebbe essere’ una democrazia (e dunque
nella valutazione di quali sono le sue odierne mancanze), oltre che nel
ruolo che viene assegnato al cittadino49. Il «paradigma democratico», che
secondo Mastropaolo può essere fatto risalire almeno agli Venti e Trenta
del Novecento, e in particolare agli scritti di Hans Kelsen sulla democra-
Civic Engagement in American Democracy, Brookings Institution Press, Washington D.C.
1999; T. SKOCPOL, Diminished Democracy. From Membership to Management in AmericanCivic Life, University of Oklahoma Press, Norman 2003; ID., Voice and Inequality: TheTransformation of American Civic Democracy, in «Perspective on Politics», (2004) 1, pp.
3-20; G. STOKER, Perché la politica è importante. Come far funzionare la democrazia, Vita e
Pensiero, Milano 2008 (ed. or. Why Politics Matters. Making Democracy Work, Palgrave,
London 2006).48 In particolare, è Carlo Galli a definire «disagio della democrazia» la condizione in cui si
trova oggi l’Occidente rispetto all’ideale della democrazia e alle istituzioni democratiche.
Si tratta, secondo Galli, di un disagio duplice, che, per un verso, «si manifesta con una
disaffezione, con un’indifferenza quotidiana per la democrazia che equivale a una sua
accettazione passiva e acritica, al rifiuto implicito dei suoi presupposti più complessi e
impegnativi», mentre dall’altro scaturisce «dall’inadeguatezza della democrazia, dei suoi
istituti, a mantenere le proprie promesse, a essere all’altezza del proprio obiettivo umani-
stico, a dare a ciascuno uguale libertà, uguali diritti, uguale dignità» (C. GALLI, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011, p. 4).49 Cfr. A. MASTROPAOLO, Democrazia, neodemocrazia, postdemocrazia: tre paradigmi a con-fronto, in «Diritto pubblico comparato ed europeo», 4 (2001), pp. 1612-1635, ma soprat-
tutto ID., La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta, Bollati
Boringhieri, Torino 2011.
252 DAMIANO PALANO
zia, presuppone una concezione ampia della cittadinanza: una concezio-
ne in cui – come nella celebre lezione di Thomas Humphrey Marshall
su Citizenship and Social Class – diritti civili, politici e sociali risultano
strettamente legati, e in cui soprattutto l’aspirazione a una piena ugua-
glianza sociale viene integralmente a far parte del progetto democratico,
proprio nella misura in cui vengono inseriti «i diritti sociali nello statusdella cittadinanza»50. Il «paradigma postdemocratico» – la cui fisionomia
di fondo può essere individuata già nelle pagine di Capitalism, Socialism and Democracy di Joseph A. Schumpeter – assegna invece al cittadino un
ruolo tutto sommato marginale e limitato sostanzialmente al momento
della scelta elettorale, mentre la partecipazione attiva alla vita politica
nazionale da parte di organizzazioni e cittadini è un elemento del tutto
secondario, se non addirittura potenzialmente negativo. Se per un verso
definiva infatti il metodo democratico come «lo strumento istituzionale
per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui otten-
gono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per ogget-
to il voto popolare»51, per l’altro Schumpeter non poteva che assegnare
al cittadino-elettore semplicemente il ruolo del ‘consumatore’ politico,
che detiene soltanto il potere di decidere a quale dei ‘prodotti’ accorda-
re il proprio consenso, senza avere ulteriori possibilità di incidere sulla
determinazione degli obiettivi della vita del paese e sulle modalità con
cui conseguirli. E a questo proposito Schumpeter, sottolineando come il
buon funzionamento di un sistema politico richiedesse un livello elevato
di «autocontrollo democratico» e un «grado notevole di tolleranza» aveva
per esempio osservato come fosse necessaria una certa misura di passivi-
tà da parte dei cittadini:
Gli elettori devono rispettare la divisione del lavoro fra sé e gli uomini
politici che eleggono. Non devono ritirare troppo facilmente la propria
fiducia nell’intervallo fra un’elezione e l’altra, e devono capire che, dal
momento in cui hanno eletto qualcuno, l’azione politica spetta a lui, non
a loro. Ciò significa che devono astenersi dall’istruirlo sul da farsi [...].
L’importante è riconoscere che una prassi democratica efficiente in socie-
tà numerose e complesse è sempre stata ostile a pressioni dal basso, – al
punto di risolversi in una diplomazia segreta e in una sistematica menzo-
50 Cfr. T.H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma - Bari 2002, p. 50
(ed. or. Citizenship and Social Class, ora in ID., Citizenship and Social Class, Pluto Press,
London 1992; I ed. 1950).51 J.A. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo e democrazia, cit., p. 257.
«HOMO DEMOCRATICUS» 253
gna circa le intenzioni e gli impegni presi, – e l’astenersi da queste pres-
sioni richiede da parte del cittadino una buona prova di autocontrollo52.
Nel dibattito odierno, i tratti del «paradigma democratico» si ritrovano per
esempio in tutte quelle posizioni che sostengono che la trasformazione
dei partiti, la mediatizzazione della politica e i processi di globalizzazione
procedono a ‘svuotare’ le istituzioni democratiche, concentrando il pote-
re decisionale nelle mani di ristrette élite e riducendo invece il cittadino
a semplice spettatore passivo53. In un testo ormai divenuto punto di rife-
rimento della discussione, Colin Crouch ha per esempio sostenuto che i
sistemi politici occidentali sono stabilmente indirizzati verso un assetto
«postdemocratico»: un assetto in cui, «anche se le elezioni continuano a
svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo
saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti
nelle tecniche di persuasione», in cui comunque «la politica viene decisa
in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano
quasi esclusivamente interessi economici», e in cui il cittadino «svolge un
ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai se-
52 Ibi, p. 304. Insieme all’«autocontrollo», anche la «tolleranza» era inoltre indispensabile iper garantire la competitività interna del confronto politico. Benché tale tolleranza non
potesse essere assoluta, essa doveva però essere sufficientemente ampia per garantire,
a ogni legittimo candidato a una carica politica, di esprimere liberamente le proprie
convinzioni, senza per questo temere reazioni violente da parte del pubblico. Una simi-
le situazione, osservava Schumpeter, era ovviamente possibile solo in presenza di «un
profondo rispetto delle opinioni altrui» e di «una buona disposizione a mettere a tacere
le proprie convinzioni» (ibi, p. 305). Inoltre, segnalava come questo tipo di tolleranza iaffondasse le radici, a sua volta, nel «carattere nazionale» di società omogenee e prive
di forti antagonismi interni: «anche il minimo necessario di autocontrollo democratico
esige un carattere nazionale e abitudini nazionali di un certo tipo, che non potevano
svilupparsi dovunque né possono nascere in virtù del metodo democratico preso a sé. E
questo autocontrollo non reggerà mai ad un vaglio eccessivamente severo. In realtà, ba-
sta riflettere alla situazione presente per convincersi che il governo democratico funziona
in modo soddisfacente solo se tutti gli interessi importanti sono praticamente unanimi
nell’attaccamento non soltanto al paese, ma anche ai princìpi strutturali della società.
Ogni qualvolta tali princìpi sono revocati in dubbio o sorgono problemi da cui la nazione
è divisa in campi ostili, la democrazia funziona in svantaggio. E può addirittura cessar
di funzionare quando siano in gioco interessi e ideali intorno a cui il popolo rifiuta di
scendere a patti» (ibidem).53 Per una sintesi dei processi, ‘strutturali’ e ‘culturali’, che favoriscono il «declino» e la
trasformazione dei partiti di massa in tutte le democrazie occidentali, rinvio alle conside-
razioni svolte in alcuni contributi recenti: D. PALANO, Il partito oltre il «secolo breve»: tracce per un ripensamento, in «Spazio filosofico», (2014) 9, pp. 369-384, ID., Il defi cit simbolico del partiti post-moderni, in «Vita e Pensiero», (2014) 1, pp. 98-102,i ID., L’ombra lunga del partito. Critica, crisi, metamorfosi, in «Nuova Informazione Bibliografica», (2015) 1, pp.i39-68, ID., La democrazia senza partiti, Vita e Pensiero, Milano 2015.i
254 DAMIANO PALANO
gnali che riceve»54. In altre parole, in queste letture – che possono essere
agevolmente ricondotte a una concezione della cittadinanza democratica
in cui diritti civili, politici e sociali si stringono l’uno all’altro come ele-
menti necessari alla realizzazione di un progetto egualitario – i due tasselli
che ritornano invariabilmente sono, per un verso, una progressiva separa-
zione tra élite e masse e, per l’altro, una latente ‘depoliticizzazione’ della
cittadinanza, che finisce col minare alla base un tratto caratterizzante
della dinamica democratica. Così i sistemi politici occidentali, abbando-
nando sempre più chiaramente l’obiettivo di un’eguaglianza sostanziale,
sembrano assumere la fisionomia di «governi a legittimazione popolare
passiva»55, di «autocrazie elettive»56, di «democrazie plebiscitarie»57, e cioè
di un assetto in cui il cittadino – al di là della specificità delle diverse in-
terpretazioni – risulta comunque ‘depoliticizzato’, apatico, estraneo, oltre
54 C. CROUCH, Postdemocrazia, Roma - Bari, Laterza 2003, p. 6 (ed. or. Post-Democracy,
Cambridge, Polity Press 2003). Il termine «postdemocrazia» è stato utilizzato, peraltro
con significati non sempre coincidenti, anche da altri autori: cfr. per esempio R. CHAR-
VIN, Vers la post-democratie?, Le temps de cerises, Pantin 2006; C. FORMENTI, Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, Raffaello Cortina, Milano 2008; J. RANCIÈRE, Il disaccordo. Politica e fi losofi a, Meltemi, Roma 2007 (ed. or. La Mésentente. Politique et Phi-losophie, Galiliée, Paris 1995). All’interno di una discussione molto diversa, l’idea di una
«post-democrazia» era stata sviluppata, alla fine degli anni Settanta, anche da V. HÁVEL, Il potere dei senza potere, Roma, Castelvecchi 2013 (ed. or. Moc bezmocnych, 1978).55 M.L. SALVADORI, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma - Bari 2009, p. XI. Ma
di Salvadori si veda anche l’importante Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà,
Donzelli, Roma 2015.56 Prendendo le mosse dall’immagine della democrazia delineata da Norberto Bobbio,
Michelangelo Bovero ha rilevato per esempio che oggi «è chiaramente riconoscibile un
processo di degenerazione che tende a far assumere alla democrazia i connotati di una
forma di governo diversa». In questa nuova forma di governo – che Bovero chiamava
«autocrazia elettiva» – la logica è naturalmente solo all’apparenza simile a quella de-
mocratica: «Applicando scorrettamente o alterando le regole del gioco, l’istituto delle
elezioni viene ridotto a un metodo per l’investitura personale di un ‘capo’, sempre meno
dipendente dagli organi rappresentativi e sempre meno condizionato da vincoli e con-
trolli» (M. BOVERO, Democrazia al crepuscolo?, in M. BOVERO - V. PAZÉ (a cura di), La democrazia in nove lezioni, Laterza, Roma - Bari 2010, p. 12).i57 Cfr. F. TUCCARI, Democrazie acefale e dispotismo postdemocratico, in «Storia del pensiero
politico», (2012) 1, pp. 105-142; ID., Plebiscitaria ma soprattutto acefala. La democrazia nell’era post-democratica, in «il Mulino», (2014) 6, pp. 881-895; N. URBINATI, Democrazia in diretta. Le nuove sfi de alla rappresentanza, Milano, Feltrinelli 2013, e ID., Democrazia sfi gurata. Il popolo fra opinione e verità, Università Bocconi Editore, Milano 2014 (ed.
or. Democracy Disfi gured. Opinion, Truth, and the People, Harvard University Press, Cam-
bridge - Massachusetts 2014).
«HOMO DEMOCRATICUS» 255
che spesso manipolato dallo spettacolo comunicativo58. E la stessa parola
«cittadinanza» finisce così col perdere la propria dimensione politica59.
Adottando una chiave di lettura meno pessimista, altri osservatori ri-
conoscono la realtà di alcune trasformazioni, ma non ritengono né che
la fisionomia distintiva della democrazia – ossia l’esistenza di alcune fon-
damentali procedure – venga colpita in modo rilevante, né che il venir
meno di alcuni diritti (in particolar modo dei diritti sociali) configuri
qualcosa di più che il semplice riflesso di un mutamento ideologico. Ma
ciò non significa che gli studiosi riconducibili al «paradigma postdemo-
cratico» sottovalutino o addirittura neghino la portata delle sfide che oggi
sono poste ai sistemi democratici. Il punto è però che spesso delineano
una lettura dell’odierno «disagio» che – si dirige in una direzione oppo-
sta a quella avanzata dal «paradigma democratico». In altre parole, in
questo caso l’accento è posto direttamente sul «cittadino», ma non per
lamentare la sua marginalizzazione politica, bensì per sottolineare come
il suo comportamento, le sue richieste, i suoi valori di fondo tendano a
discostarsi dal modello virtuoso dell’homo democraticus, ossia, per molti
versi, da quei tratti che Schumpeter aveva considerato come necessa-
rio per il buon funzionamento delle istituzioni di governo. All’interno
di questo quadro interpretativo – in cui evidentemente rimane davvero
paradigmatico il vecchio rapporto di Crozier, Hiuntington e Watanuki60
– le tendenze ‘degenerative’ segnalate da Crouch non sono considerate
come particolarmente significative, ma ciò non significa che non vengano
ravvisati segnali critici. A innescare la «crisi» è invece proprio il riconosci-
58 In questo senso, Wendy Brown e Charles Tilly hanno per esempio utilizzato il termine
«de-democrtizzazione» (seppur in un significato differente); cfr. W. BROWN, Neoliberalism and the End of Democracy (2003); in ID., Edgework. Critical Essays on Knowledge and Poli-tics, Princeton University Press, Princeton - Oxford 2005; ID., American Nightmare. Ne-oliberalism, Neoconservatism, and De-Democratization, in «Political Theory», (2006) 6, pp.
690-714; ID., Oggi siamo tutti democratici..., in G. AGAMBEN, In che stato è la democrazia?,Roma, Nottetempo 2010, pp. 71-93; C. TILLY, Democracy, Cambridge University Press,
Cambridge 2007, trad. it. La democrazia, Bologna, Il Mulino 2009.59 Come scrive Valentina Pazé a questo proposito: «la società civile è popolata non da ci-toyen, ma da bourgeois: individui atomizzati, isolati l’uno dall’altro, dediti essenzialmente
alla ricerca del proprio utile. Allo slittamento di significato subìto dalla parola cittadino
corrispondono sul piano empirico, per un verso, la sfiducia, il disinteresse, il disgusto
sempre più diffusi nei confronti della politica; per altro verso la crescente autoreferen-
zialità e autosufficienza di chi della politica ha fatto una professione» (V. PAZÉ, , Cittadini senza politica. Politica senza cittadini Edizioni Gruppo Abele, Torino 2016, p. 16).60 M.J. CROZIER - S.P. HUNTINGTON - J. WATANUKI, La crisi della democrazia. Rapporto sullagovernabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Franco Angeli, Milano 1977
(ed. or. The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, 1975).
256 DAMIANO PALANO
mento nell’odierno homo democraticus di quei tratti – persino antropolo-
gici – che rendono più difficoltoso che in passato l’esercizio dell’attività
di governo. Per molti versi, queste lettura fornisce una nuova rivisitazio-
ne di quell’antico atteggiamento che Jacques Rancière ha causticamente
definito come «odio per la democrazia», ossia di un atteggiamento che
imputa all’homo democraticus – alla sua avidità insaziabile, al suo disinte-
resse per il bene pubblico, alla sua insofferenza per il sapere delle élite – la
crisi della democrazia contemporanea61. Per alcune caratteristiche, l’ho-mo democraticus tende così ad avvicinarsi all’«ultimo uomo» evocato da
Nietzsche, le cui inclinazioni individualiste, secondo Francis Fukuyama,
dinanzi alla «fine della Storia» erano destinate a minare le più solide radici
proprio del sistema democratico62. Ma il punto è che proprio nell’attitu-
dine critica del cittadino delle democrazie contemporanee si possono tro-
vare, per esempio, le radici della dissoluzione della trascendenza politica
che rende possibile la convivenza comune63, le origini della dilatazione
di quell’attitudine alla critica e alla sorveglianza che Pierre Rosanvallon
61 Cfr. J. RANCIERE, L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli 2007 (ed. or. La haine de la démocratie, La fabriques, Paris 2005).62 Questa tesi era già annunciata nel suo testo più famoso, quando Fukuyama indivi-
duava i segnali del declino della vita comunitaria negli Stati Uniti, «un declino che si
è verificato non nonostante i princìpi liberali, ma a causa di essi» (F. FUKUYAMA, La fi ne della Storia e l’ultimo uomo, cit., p. 339), ma è stata ripresa in seguito anche in ID., La grande distruzione, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2001 (ed. or. The Great Distruption.Human Nature and the Reconstitution of Social Order, Free Press, New York 1999). Daruna prospetttiva radicalmene diversa, Mario Tronti ha invece evidenziato il legame fra
le due figure dell’homo democraticus e dell’«ultimo uomo» per sostenere che l’esito prin-
cipale del successo della democrazia occidentale sui suoi avversari è consistito in fondo
nella ‘depoliticizzazione’ del cittadino, e dunque nella vittoria di un «uomo massa» privo
di qualsiasi autonomia politica: «L’homo democraticus, l’individuo isolato e massificato,
quanto più globalizzato tanto più ‘particularizzato’, guidato dall’esterno e dall’alto fin
mentre coltiva il proprio giardino, il singolo nel gregge, l’ultimo uomo, descritto, prima
che da Nietzsche, da Goethe, come soggetto del tempo che vedeva arrivare, ‘l’era delle
facilità’ [...].Tra metà novecento e fine novecento, è facile vedere il realizzarsi del dram-
ma della democrazia. Ma è qui che la democrazia che si è definitivamente piegata a fun-
zione pubblica dell’homo oeconomicus. Democrazia degli interessi: questo il suo ultimo
nome» (M. TRONTI, La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998, pp. 199-200). Ma per
un’ulteriore articolazione di questa tesi, cfr. anche ID., Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, il Saggiatore, Milano 2015.63 D. SCHNAPPER, La democrazia provvidenziale. Saggio sull’eguaglianza nella società con-temporanea, Vita e Pensiero, Milano 2004 (ed. or. La démocratie provvidentielle. Essai sur l’égalité contemporaine, Gallimard, Paris 2002). Ma cfr. anche R. SIMONE, Come la demo-crazia fallisce, Garzanti, Milano 2015.
«HOMO DEMOCRATICUS» 257
definisce «contro-democrazia»64, o persino una delle spinte che secondo
Moisés Naím hanno innescato la «fine del potere»65.
Per quanto le diverse letture del «disagio» della democrazia forniscano
elementi spesso utili per decifrare le trasformazioni contemporanee, è
però piuttosto evidente come la discussione tenda costantemente a ri-
proporre una contrapposizione – peraltro tutt’altro che inedita – fra le
ambizioni più radicali di una democrazia partecipativa e una visione ‘mi-
nima’ della democrazia competitiva, e cioè proprio una contrapposizione
tra due modelli normativi ben distinti (se non proprio opposti) di ciò
che ‘dovrebbe essere’ una democrazia e del ruolo che dovrebbe avere in
questo quadro l’homo democraticus. Gli alfieri del «paradigma postdemo-
cratico» non hanno infatti difficoltà a riconoscere nella ‘realtà’ il rispetto
delle condizioni minime della democrazia, ma al tempo stesso possono
lamentare come i cittadini tendano ad allontanarsi dal modello virtuo-
so dell’homo democraticus, con conseguenze deleterie per l’efficienza e
per la stabilità delle istituzioni di governo. All’opposto, i difensori del
«paradigma democratico» – che considerano essenziale per un’autentica
democrazia l’impegno a raggiungere un’effettiva eguaglianza e la più am-
pia partecipazione al processo decisionale da parte dei cittadini e delle
loro organizzazioni giungono invece a conclusioni diametralmente op-
poste, sostenendo la tesi di un «tradimento» dei valori democratici, di
una transizione verso la «postdemocrazia», o di una vera e propria «crisi
della democrazia». Ma, proprio dal momento che il contrasto scaturisce
da un disaccordo valoriale sul contenuto ‘minimo’ della democrazia, la
contrapposizione fra «democrazia» e «postdemocrazia» non può che ri-
sultare irresolubile (e soprattutto non può trovare una soluzione a livello
empirico).
Con ogni probabilità, il confronto tra il «paradigma democratico» e
quello «postdemocratico» è destinato ad accompagnarci a lungo, e così è
altrettanto probabile che il richiamo ai grandi ideali democratici di ugua-
glianza e partecipazione continuerà per molto tempo a scontrarsi con
64 Cfr. P. ROSANVALLON, La politica nell’età della sfi ducia, Città Aperta, Roma 2009 (ed. or.
La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défi ance, Seuil, Paris 2006).65 Il quadro dipinto da Naím è più articolato, ma quella che definisce come la «Rivoluzio-
ne della Mentalità» ha comunque un ruolo decisivo: «La combinazione tra valori globali
emergenti e aumento delle ambizioni costituisce la minaccia più forte alla base morale
del potere: aiuta a diffondere l’idea che le cose non devono necessariamente essere come
sono sempre state, che in qualche modo e da qualche parte si può sempre migliorare,
[...] alimenta lo scetticismo e la sfiducia verso qualsiasi autorità e la riluttanza a dare
per scontata qualsiasi distribuzione del potere» (M. NAÍM, La fi ne del potere, Mondadori,
Milano 2013, p. 101).
258 DAMIANO PALANO
l’appello al realismo. Non è però da escludere che una soluzione a que-
sta discussione possa giungere da una radicale revisione dei presupposti
stessi su cui essa si fonda. L’aspetto principale su cui iniziare riflette-
re è allora forse rappresentato dalla necessità di un modello teorico in
grado di registrare e comprendere – in modo effettivamente ‘realistico’
– i mutamenti della democrazia contemporanea. Per quanto si possano
infatti contrapporre fra loro visioni differenti (e forse antitetiche) della
democrazia, centrate su un’idea più o meno esigente della cittadinanza
(e dunque dei diritti), è scontato che il ricorso all’uno o all’altro modello
può solo aiutare a fissare i contorni di una realtà determinata, non certo a
coglierne la dinamica. E, inoltre, opporre il modello ideale (più esigente)
della democrazia a quello ‘realistico’, costruito sulla scia di Schumpe-
ter, non può che risultare del tutto improduttivo, se non fuorviante, sia
perché le definizioni ‘realistiche’ nascondono implicitamente una scelta
ideale (e una posizione ideologica), sia perché in questo modo non si
comprende che il mutamento più rilevante è – oltre che nella realtà poli-
tica – nella definizione stessa della democrazia e dei suoi principi. La via
d’uscita potrebbe allora risiedere nella riformulazione, in senso ‘cultura-
le’ della «teoria realistica» della democrazia elaborata a partire dagli anni
Quaranta del XX secolo sulla scorta delle indicazioni di Schumpeter. Un
rovesciamento che riconosca finalmente alla base di ogni regime demo-
cratico (e dunque di ogni definizione realistica della democrazia) ciò che
possiamo definire come uno specifico ethos, e cioè un insieme di valori
e identità collettive, che sostengono quelle procedure che contraddistin-
guono la democrazia liberale. Ma proprio per procedere in questa dire-
zione, diventa probabilmente necessario rimettere al centro la relazione
tra cultura e democrazia, tornando dunque ad affrontare quel nodo che
gli studi sulla civic culture aveva individuato, ma, al tempo stesso, ripen-
sando i termini in cui quel rapporto veniva concepito, e dunque ridefi-
nendo la stessa sagoma dell’homo democraticus che i politologi degli anni
Cinquanta e Sessanta avevano contribuito a ‘cristallizzare’.
5. Per una teoria ‘culturale’ della democrazia
Quasi trent’anni fa, Percy Allum, indicando la strada che lo studio del-
la cultura politica avrebbe dovuto imboccare, forniva una serie di indi-
cazioni cruciali anche per una revisione in senso ‘culturale’ della teoria
democratica. «Se la nozione di significato è davvero centrale nel concetto
di cultura (e quindi per estensione anche in quello di cultura politica)»,
scriveva Allum riferendosi alle vecchie ricerche sulla civic culture, «non
«HOMO DEMOCRATICUS» 259
è possibile utilizzarlo in termini di distribuzione all’interno di una data
società: sarebbe un vero controsenso», perché in realtà «i significati at-
tribuiti, in una data società, alle attività (politiche e non) sono attributi
collettivi di quella società», e perché «il senso è elemento costitutivo della
prassi sociale», dal momento che «senza senso non esiste prassi sociale»66.
Ma dato che la ricerca del «senso» implicava «comprensione e interpre-
tazione», per studiare realmente la rilevanza politica della cultura, nella
sua estrema complessità, diventava indispensabile seguire una strada ben
diversa da quella percorsa dalla politologia comportamentista, perché di-
ventava necessario distinguere nettamente tra la «cultura politica» in sen-
so proprio, relativa ai «significati inter-soggettivi», e l’«opinione pubblica»,
attinente ai «significati soggettivi». La differenza fra le due dimensioni
era infatti netta. Ciò che Almond e Verba avevano definito come «cultura
politica» era soltanto – secondo questa lettura critica – una raffigurazione
dell’«opinione pubblica», ossia l’insieme aggregato delle valutazioni dei
singoli in ordine a determinati eventi o aspetti della politica, ma non
identificava certo quell’ambito – assai più complesso – che coinvolgeva
i «significati intersoggettivi». Al contrario, la «cultura politica», intesa in
senso critico, doveva corrispondere «un codice simbolico», capace di de-
finire «la gamma di possibili alternative, entro cui, in una data società, un
gruppo o un individuo possono, a certe condizioni, scegliere una linea di
azione», pur senza costituire «il fattore cruciale nella decisione di agire»67.
E, anche per questo, dunque, la ricerca sulla cultura politica si doveva
orientare verso una sorta di analisi «semiologica», un’analisi dei significati
politici e del loro mutamento, in un’ampia prospettiva storica68.
66 P. ALLUM, Cultura o opinioni? Su alcuni dubbi epistemologici, in «Il Politico», 53 (1988) i2, p. 263.67 Ibi, p. 264.i68 Come scriveva Allum, sintetizzando il contenuto della propria proposta, ancora oggi
ricca di sollecitazioni per l’indagine politologica: «la cultura politica così come è da noi
definita – cioè costruita sulla base della problematica del significato – richiede tutt’altra
epistemologia, quella che oggi va sotto il nome di ‘ermeneutica’. E questo per la sempli-
ce ragione che almeno nel caso dei ‘significati intersoggettivi’, la lingua e il vocabolario
che descrivono le prassi sociali sono parte integrante della prassi sociale stessa (in qual-
che modo la costituiscono), così che essi non possono essere appresi indipendentemente
dalle loro descrizioni: esiste, così, un margine o uno spazio per interpretazioni diverse
(ed anche contestazioni) dei loro significati»; mentre «nel caso dei ‘significati soggettivi’,
invece, trattandosi di reazioni degli individui (così come dei loro commenti) alle prassi
sociali, sono in qualche misura slegati dalla prassi sociale, in modo che possono essere
letti (per quanto grossolanamente) indipendentemente, cioè attraverso riposte dirette
del singolo individuo (ad un questionario, per esempio)» (ibi, p. 263). Per questo mo-itivo, concludeva Allum, la ricerca sulla cultura politica «deve essere effettuata in chiave
260 DAMIANO PALANO
La proposta formulata allora da Allum ha trovato in più di due de-
cenni molti sviluppi, soprattutto in studi dedicati alle trasformazioni dei
sistemi politici locali e ai mutamenti delle zone subculturali69. Probabil-
mente, però, le indicazioni al cuore di quella proposta potrebbero rive-
larsi capaci di sviluppare, in una nuova direzione, anche la revisione della
teoria ‘realistica’ della democrazia, perché proprio svolgendo fino in fon-
do le implicazioni della ‘svolta culturale’ si possono forse evitare le secche
in cui si arenò la vecchia contrapposizione sull’elitismo democratico (e
in cui tende ad arenarsi oggi la discussione sulla «postdemocrazia»)70. Da
un certo punto di vista, ciò implica semplicemente riconoscere che la
democrazia non è una ‘cosa’, una ‘struttura’ sempre uguale a se stessa
e indipendente dai significati che le sono attribuiti, dai rituali che la co-
stituiscono, dai simboli in cui viene ‘condensata’, e che l’immagine della
democrazia, con i suoi scopi e i suoi fondamenti, è sempre il prodotto
di un confronto culturale e politico. Per molti versi – come ha sostenuto
Chantal Mouffe, richiamando l’importanza della lezione di Wittgenstein
– per la teoria democratica non è sufficiente soffermarsi sugli elementi
procedurali, perché ogni procedura si basa sempre su un ethos condiviso.
«Democrazia», ha scritto, non è soltanto «un modo con cui stabilire le
procedure giuste indipendentemente dalle pratiche», ma, al contrario, «le
semiologica, e in una prospettiva largamente storica, così da restituire il senso che gli
interessati attribuiscono alle prassi sociali da loro prodotte», con l’obiettivo specifico di
«individuare i momenti specifici in cui i significati politici di una società cambiano o
nuovi sensi emergono e chiarirne le ragioni e le conseguenze»69 In una vasta bibliografia, meritano quantomeno una menzione alcune ricerche pro-
prio di Allum: cfr. P. ALLUM, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino 1975
(ed. or. Politics and Society in post-war Naples, Cambridge University Press, Cambridge
1973); ID., Il potere a Napoli. Fine di un lungo dopoguerra, L’Ancora del Mediterraneo,
Napoli 2001, e ID., Napoli punto e a capo. Partiti, politica e clientelismo: un consuntivo,
L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2003. Sulle sollecitazioni di questo percorso rinvio
alle note svolte in D. PALANO, Napoli ‘oltre’ la modernizzazione, in «Teoria politica», 20
(2004) 2. Per una rassegna degli studi condotti in Italia, fino alla fine degli anni Ottanta,
si veda G. SANI La cultura politica, in L. MORLINO (a cura di), La scienza politica in Italia,
Fondazione Agnelli, Torino 1989, pp. 89-104; mentre per la ricerca più recente si ve-
dano M. ALMAGISTI - M. AGNOLIN, L’erosione delle culture politiche, in M. ALMAGISTI - L.
LANZALACO - L. VERZICHELLI (a cura di), La transizione politica italiana. Da Tangentopoli a oggi, Carocci, Roma 2014, pp. 27-54; i M. ALMAGISTI, Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma 2016.70 Per un approfondimento di quali siano alcune delle implicazioni della «svolta cultu-
rale» per gli studi politici, rimando alle considerazioni svolte in D. PALANO, Questione di cultura. Una proposta post-comportamentista per lo studio della «mafi a» (recensione a M.
SANTORO, La voce del padrino. Mafi a, cultura, politica, Ombre Corte, Verona 2008), in
«Teoria politica», (2009) 1, pp. 206-220.
«HOMO DEMOCRATICUS» 261
procedure coinvolgono sempre impegni etici sostanziali», «per la ragione
che esse non possono operare propriamente se non sono supportate da
una forma specifica di ethos»71. Ma, d’altra parte, non si tratta di concepi-
re un simile ethos come una dimensione che afferisce a una moralità su-
periore, o a una serie di prescrizioni etiche universali, o a una dotazione
culturale cristallizata, come in gran parte facevano i politologi degli anni
Cinquanta, quando evocavano la civic culture o quando stigmatizzavano
le conseguenze deleterie dell’ethos del «familismo amorale»72. Più sem-
plicemente si tratta di considerare l’ethos come un insieme di identità
e valori storicamente prodotti da conflitti egemonici, da scontri interni
alla comunità politica e, soprattutto, da esclusioni che registrano l’esito
di quelle contrapposizioni. Ciò non significa naturalmente che, come ha
scritto Mouffe, non sia indispensabile che vi sia «consenso sulle istituzio-
ni costitutive della democrazia sui valori ‘etico-politici’ che informano
l’associazione politica», ma piuttosto che «ci sarà sempre disaccordo a
proposito del loro significato e del modo in cui devono essere attuati»73.
Riconoscere il fatto che la democrazia è una costruzione ‘culturale’
non equivale a riabilitare uno schema idealista di interpretazione dei fe-
nomeni sociali, in virtù del quale è la cultura a costituire il ‘motore’ del
mutamento politico. Piuttosto, implica che la democrazia va concepita
come un «oggetto culturale» e come «un significato condiviso incorporato
in una forma», e che – come tutti gli oggetti culturali – non è cristallizzato
e sempre uguale a se stesso, bensì costantemente ridefinito da una molte-
plicità di attori. Per questo il concetto di «democrazia», in un determinato
71 C. MOUFFE, The Democratic Paradox, Verso, London 2000, pp. 68-69. Questo punto,
secondo Mouffe, è estremamente importante perché «il modello liberale dominante è
incapace di riconoscere [...] che una concezione liberaldemocratica della giustizia e del-
le istituzioni liberaldemocratiche richiede un ethos democratico al fine di funzionare
efficacemente e di conservarsi» (ibi, p. 69). Per una lettura più approfondita (non priva idi appunti critici) del lavoro di Mouffe, romando però a D. PALANO, Il «politico» nell’«era postpolitica». Appunti sulla proposta teorica di Chantal Mouffe, in «Teoria politica», (2008)
3, pp. 89-133, ora raccolto, in una versione modificata e più estesa in ID., Fino alla fi ne del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea, Liguori, Napoli
2020, pp. 35-108, e ID., La democrazia e il ‘politico’. I limiti dell’«agonismo democratico», in
«Rivista di Politica», 2, pp. 87-113, ora in ID., La democrazia e il nemico, cit., pp. 63-105.72 Il riferimento in questo caso è alle ipotesi di E.C. BANFIELD, Le basi morali di una so-cietà arretrata, Bologna, Il Mulino 2006 (ed. or. The Moral Basis of a Backward Society,
The Free Press, Glencoe - Ill. 1958). Per una rilettura critica di questo lavoro, rinvio a
D. PALANO, La trappola di Banfi eld. L’ethos democratico oltre il mito del «familismo amorale»,in «Notizie di Politeia», 29 (2013) 112, pp. 3-17, ora in ID., La democrazia senza qualità,
cit., pp. 187-204.73 C. MOUFFE, Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei confl itti, Bruno Mondadori, iMilano 2007, p. 35 (ed. or. On the Political, Routledge, London 2005).l
262 DAMIANO PALANO
contesto storico e politico, va inteso anche come il riflesso dei conflitti
che si svolgono nella società, sia all’interno che all’esterno dell’area stret-
tamente istituzionale, per la ‘politicizzazione’ o la ‘depoliticizzazione’ di
determinate questioni, per la dilatazione o il restringimento dell’area del-
le «non decisioni», per la definizione del campo stesso del ‘dicibile’, ossia
del confine che stabilisce quali posizioni possano essere legittimamente
portate sulla scena del confronto pubblico. E, ovviamente, ciò richiede
che si debba intendere il concetto di democrazia anche – seppur non in
modo esclusivo – come il risultato della competizione e talvolta dello
scontro fra intellettuali e tra visioni opposte intorno a ciò che costituisce
il cuore fondante di un regime democratico.
Una simile teoria ‘culturale’ della democrazia rimane naturalmente
ancora tutta da costruire, e per molti versi non rappresenta altro che
un’ipotesi di discussione. Da un certo punto di vista, si tratta però di
una proposta che si limita ad adottare – sul terreno della teoria della
democrazia – il vecchio ammonimento di Max Weber, che, mentre con-
testava l’idea che le scienze della cultura potessero ridurre a «leggi» i dati
empirici, osservava che «non si può concepire una conoscenza di processi
culturali se non sul fondamento del significato che ha per noi la realtà
della vita, sempre configurata in forma individuale, in determinate re-
lazioni particolari»ii 74. E, dunque, questa proposta non tenta altro che di
registrare un fatto in fondo evidente per chiunque osservi la trasforma-
zione dei nostri sistemi politici, ossia che – come ha scritto lucidamente
Alfio Mastropaolo – «istituzioni e norme sono riscritte, o reinterpreta-
te, perché cambia, in maniera relativamente autonoma, il modo d’in-
tendere, raccontare e interpretare la democrazia stessa», e cioè «perché
nuovi punti di vista s’impongono in sede di senso comune, a loro volta
sollecitati dal riorientarsi della riflessione teorica e del discorso ‘colto’
sulla democrazia»75. Non si tratta dunque semplicemente di ‘allargare’
o di ‘restringere’ le procedure che consideriamo come costitutive della
democrazia, perché la questione non consiste nell’estendere, sulla base
di una valutazione ‘soggettiva’ del ricercatore, il ‘contenuto minimo’ della
democrazia – ciò che le democrazie sono nella realtà – fino a ricomprendere
una serie di elementi che – in base a una determinata visione di ciò che le democrazie dovrebbero essere – vanno intesi come indispensabili per poter
effettivamente parlare di un regime democratico. Al contrario, si tratta di
74 M. WEBER, L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904), in
ID., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 2003, p. 47.i75 A. MASTROPAOLO, Democrazia, neodemocrazia, postdemocrazia: tre paradigmi a confronto,
cit., p. 1612.
«HOMO DEMOCRATICUS» 263
mettere in discussione la stessa distinzione fra essere e dover essere, e di ri-
conoscere che i valori – ossia le visioni normative della democrazia adot-itate dagli attori sociali – non possono essere analiticamente distinti dalla
struttura democratica in cui essi operano e dall’insieme delle istituzioni
in cui si svolge il gioco politico. Così persino le procedure, all’apparenza
riducibili a semplici regole, e dunque alla dimensione di vincoli formali
sottratti al gioco politico, possono rivelarsi come niente affatto immuni
da un’azione di ridefinizione culturale, perché vengono di fatto estese o
ridotte, arricchite o impoverite, grazie a modificazioni del significato che
ad esse viene socialmente attributo in un determinato contesto storico e
politico. Tanto che, per esempio, persino senza un mutamento formale
dei vincoli procedurali possono modificarsi sostanzialmente la visione
dei requisiti indispensabili per accedere alla cittadinanza politica, o l’idea
delle condizioni che garantiscono una reale ‘competizione’ democratica,
o la convinzione che determinate forze costituiscano una minaccia (per
la sicurezza nazionale, per l’ordine pubblico, per il comune senso del pu-
dore) e vadano dunque legittimamente private del diritto di partecipare
al confronto politico.
Il sentiero che conduce verso una ridefinizione in chiave culturale del-
la teoria democratica non è affatto privo di incognite e di insidie. Forse
è però proprio seguendo queste intuizioni che si può evitare di tornare
a replicare, ancora una volta, una controversia sul contenuto ‘autentico’
di una teoria ‘realmente’ democratica e così di riattivare una contrappo-
sizione, per le stesse basi da cui scaturisce, in fondo insolubile. Ma forse
proprio lungo un simile sentiero teorico, diventa possibile anche evitare
di rinchiudere la sagoma dell’homo democraticus all’interno di una visione
cristallizzata, che non può che occultare quel paradosso costitutivo della
democrazia in virtù del quale l’istituzione della cittadinanza è sempre
destinata a rimanere problematica76.
76 In questo senso sono davvero utili le indicazioni di Étienne Balibar, che, adottando
l’idea del «paradosso democratico» proposta da Chantal Mouffe, scrive: «è l’antinomia
situata al centro delle relazioni tra cittadinanza e democrazia che costituisce, nella suc-
cessione delle figure, il motore delle trasformazioni dell’istituzione politica. Per questo,
l’espressione “cittadinanza democratica” può, storicamente, definire soltanto un pro-
blema ricorrente, un insieme di conflitti e di definizioni antitetiche, un enigma senza
soluzione definitiva, anche se accade periodicamente, nel contesto di una invenzione
decisiva che si proclami la soluzione “finalmente trovata” (Marx), un “tesoro perduto”
da ritrovare o da riconquistare (Arendt)» (É. BALIBAR, Cittadinanza, Bollati Boringhieri,
Torino 2012, p. 14).
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 265-278
Cittadinanza e diritti sociali tra dimensione nazionale e prospettiva europea
STEFANO PETRUCCIANI
1. Un paradosso del presente
Nella vastità del tema che è oggetto del nostro incontro, le brevi ri-
flessioni che intendo proporre sono focalizzate attorno a una questione
molto specifica, cioè quella della cittadinanza sociale e dei diritti sociali,
con l’obiettivo si svolgere qualche considerazione su come il tema debba
essere affrontato all’interno della teoria democratica e su come esso si
ponga oggi nel rapporto tra costituzioni nazionali e dimensione europea.
Prima di entrare brevemente in argomento vorrei però sottolineare
un paradosso che a me sembra caratterizzare (se la guardiamo dal punto
di vista del filosofo politico, cioè dal punto di vista che io faccio mio),
la situazione odierna: mentre la filosofia politica, a partire per esem-
pio da John Rawls e Amartya Sen, ha sviluppato concezioni sempre più
avanzate degli obiettivi di inclusione sociale che devono caratterizzare
una società giusta, gli sviluppi politici effettivi sembrano andare in una
direzione esattamente opposta, cioè verso una riduzione più o meno
drastica di molte delle garanzie sociali (pur limitate) che si erano andate
affermando nei decenni del secondo dopoguerra. È dunque anche a par-
tire da questa situazione complessa che svolgerò il mio ragionamento.
2. Cittadinanza sociale e democrazia.
Per cominciare vorrei mettere a fuoco il modo in cui, nelle filosofie po-
litiche più accreditate, la questione della cittadinanza sociale viene im-
postata. Prendo le mosse innanzitutto un autore sul quale mi sono più
volte soffermato, e cioè Jürgen Habermas. Nella prospettiva haberma-
siana di Fatti e norme, la cittadinanza democratica è caratterizzata, come
è noto, attraverso cinque categorie o tipi di diritti, che i cittadini devono
reciprocamente auto-attribuirsi per dar vita a una comunità politica de-
mocratica legittima:
1. diritti che definiscono lo status di membro associato, cioè che indivi-
duano chi fa parte del demos e a che titolo;
266 STEFANO PETRUCCIANI
2. diritti che tutelano le pari libertà individuali;
3. diritti a partecipare ai processi discorsivi di creazione del diritto, cioè
a esercitare l’autonomia politica;
4. diritti ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti;
5. diritti di ripartizione sociale, cioè diritti a godere di condizioni di vita
che consentano di utilizzare con pari opportunità tutti i diritti di cui
si è titolari1.
Nella visione habermasiana i diritti di ripartizione sociale, o più sem-
plicemente i “diritti sociali”2 costituiscono dunque un aspetto impre-
scindibile della moderna cittadinanza democratica. Questo assunto è
accompagnato però da una precisazione che mi interessa mettere in di-
scussione: nella prospettiva dello studioso tedesco, i diritti sociali vengo-
no concepiti come diritti «solo relativamente fondati»ii 3, in quanto egli li in-
tende come diritti che non devono essere garantiti in quanto tali, ovvero iper il valore intrinseco che ad essi appartiene, ma solo come condizioni
per assicurare ai cittadini il pieno godimento di tutti gli altri diritti che a
loro competono. In buona sostanza si può dire dunque che in Habermas
(come accade anche in autori appartenenti ad altre tradizioni tra i quali,
per esempio, Jack M. Barbalet4) troviamo una visione strumentale dei
diritti sociali che vengono intesi come condizioni per la partecipazione ialla cittadinanza anziché come elementi costitutivi di essa.
Condizioni di vita dignitosa devono essere assicurate a tutti i cittadini
(non è ora il caso di stabilire con quali strumenti) perché altrimenti essi
verrebbero di fatto esclusi dal pieno godimento degli altri diritti, e cioè
dall’esercizio effettivo della loro autonomia privata e della loro autono-
mia pubblica. Se la tesi di Habermas afferma in sostanza che i diritti so-
ciali devono essere previsti in quanto sono condizioni di effettività degli
altri diritti, una prospettiva un po’ diversa (nel quadro teorico, ma forse
non negli esiti che se ne ricavano) è quella che è stata proposta da un
nostro autorevole filosofo politico, Michelangelo Bovero: i diritti sociali,
sostiene lo studioso, sono richiesti non perché siano inclusi nella nozio-
ne o nella definizione di democrazia (come invece accade in Habermas,
che ve li include, anche se in posizione subordinata), ma perché costi-
1 J. HABERMAS, Fatti e norme, Laterza, Roma - Bari 2013, pp. 148-49; ho liberamente
riordinato e semplificato l’elenco habermasiano per servirmene nello sviluppo del mio
discorso.2 Sul tema si veda la efficace presentazione di TH. CASADEI, I diritti sociali. Un percorso fi losofi co-giuridico, Firenze University Press, Firenze 2012.3 J. HABERMAS, Fatti e norme, cit., p. 149.4 Cfr. TH. CASADEI, cit., p. 43.
CITTADINANZA E DIRITTI SOCIALI 267
tuiscono pre-condizioni della democrazia, nel senso che in mancanza di
essi la democrazia rischierebbe di ridursi a una democrazia apparente5;
per dirla con le parole di Bovero
senza il soddisfacimento dei diritti sociali fondamentali che sono statiirivendicati dai movimenti socialisti le libertà individuali restano vuote,
i diritti fondamentali di libertà si trasformano di fatto in privilegi per
pochi [...]6.
Una concettualizzazione ancora più avanzata e più radicale è quella che
invece è stata proposta, nei suoi importanti lavori sulla democrazia, da
Luigi Ferrajoli, il quale rileva7, differenziandosi in parte dalla riflessio-
ne di Bovero e del suo maestro Bobbio, che se i diritti sociali sono una
conditio sine qua non della democrazia devono essere integrati nella sua
definizione e ne fanno strutturalmente parte. La conseguenza che ne di-
scende però, e che Ferrajoli giustamente evidenzia, è che la democrazia
deve a questo punto essere concepita come formale-sostanziale: la Co-
stituzione democratica, nel senso pieno al quale Ferrajoli fa riferimento,
prevede insieme procedure e contenuti, e perciò la democrazia non è mai ipuramente procedurale, ma procedurale-sostanziale.
Pur ritenendo che si possano accogliere senz’altro gli esiti cui una
riflessione come quella di Ferrajoli perviene, io penso che sia necessario
un supplemento di indagine dal punto di vista filosofico-politico per
chiarire più a fondo come la condizione di relativa minorità o subordi-
nazione o strumentalità dei diritti sociali rispetto agli altri diritti debba
essere ormai definitivamente superata. E se è evidente che storicamen-
te questa terza dimensione sociale della cittadinanza, come fu mostrato
classicamente da Thomas H. Marshall8, segue a quelle che vengono ac-
quisite più precocemente, cioè alla cittadinanza civile e alla cittadinanza
politica, c’è da chiedersi se anche logicamente e teoricamente questa
terza dimensione debba restare confinata in un rango non paritario ri-
spetto a quelle che la precedono.
Se si vuole argomentare fino in fondo la piena parità di rango tra le
diverse dimensioni della cittadinanza è necessario a mio avviso risalire
5 M. BOVERO, Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza,
Roma - Bari 2000, p. 41.6 Ibi, p. 40, corsivo dell’autore.i7 L. FERRAJOLI, La democrazia costituzionale e la sua crisi odierna, in «Parole chiave», 43
(2010), pp. 25-59: p. 27n.
Ma si veda anche, il volume L. FERRAJOLI, La democrazia attraverso i diritti, Laterza, iRoma - Bari 2013.8 Cfr. T.H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma - Bari 2002.
268 STEFANO PETRUCCIANI
criticamente alle radici del pensiero politico moderno, ai grandi classi-
ci della tradizione contrattualista, che a mio avviso restano comunque
fondanti per la nostra riflessione di taglio normativo sulla politica. Alle
origini del paradigma politico della modernità (pensiamo per esempio a
Thomas Hobbes e più ancora a John Locke) vi è infatti una assunzione
non dichiarata ma tanto più forte e indiscussa: e cioè la tesi che il compi-
to fondamentale della comunità politica sia quello di garantire la sicura
e pacifica convivenza tra individui estranei e potenzialmente ostili, men-
tre i problemi che riguardano la vita materiale, il lavoro, la soddisfazione
dei bisogni e la ripartizione dei beni non devono essere risolti attraverso
il meccanismo del patto sociale: anzi esso, da questo punto di vista, deve
lasciare le cose come stanno, e permettere semplicemente che ognuno
provveda da sé a procacciarsi tutto ciò che gli è necessario alla vita o
anche di più se ne è capace. Questo punto è perfettamente messo in
rilievo anche in Hobbes che, pur non potendosi definire, a differenza di
Locke, un filosofo liberale, chiarisce nitidamente, nel capitolo ventune-
simo del Leviatano, che anche sotto il sovrano assoluto vi saranno una
serie di ambiti nei quali i sudditi potranno (e dovranno) autonomamen-
te provvedere a se stessi, godendo di tutte quelle libertà che sono a ciò
funzionali:
la libertà di comprare e vendere, e di fare un qualunque contratto con
altri, e di scegliere la propria abitazione, il proprio modo di vivere; di
istruire i propri figli come a ciascuno piace e simili9.
Questo modo di impostare la questione del patto sociale, che ha con-
dizionato fortemente la politica moderna, fino a poter apparire quasi
ovvio, in realtà non è affatto scontato. Esso infatti non solo rovescia tutta
una più antica tradizione di riflessione sulla politica, dove l’unione tra gli
uomini è vista (basti pensare alla Repubblica di Platone), come un modo
per vivere meglio e per soddisfare meglio i propri bisogni. Inoltre, esso
appare fortemente condizionato dalla prospettiva di quello che si può
ben definire “individualismo proprietario”, nel senso che sottrae la vita
materiale e la ripartizione di costi e benefici della cooperazione sociale
alla presa del patto tra i cittadini, consegnandole al libero dispiegarsi
dell’iniziativa individuale. Ma si tratta palesemente di un pregiudizio
che non ha alcuna giustificazione razionale: non si capisce infatti perché
mai, al momento di stipulare il patto sociale, gli individui dovrebbero
preoccuparsi solo di costruire le istituzioni della sicurezza, e non anche
quelle del comune benessere.
9 Cfr. T. HOBBES, Leviatano, Laterza, Roma - Bari 1974, p. 188.
CITTADINANZA E DIRITTI SOCIALI 269
Proviamo ad esplicitare un po’ meglio questo punto. Se si ragiona
sulle regole fondamentali della convivenza sociale seguendo uno schema
contrattualista (cioè partendo dalla domanda: quali principi di base ver-
rebbero scelti da individui ragionevoli che si disponessero a dar vita a una
convivenza regolata?) si può, a mio modo di vedere, argomentare molto
plausibilmente come segue: gli ipotetici sottoscrittori di un patto sociale
originario si preoccuperebbero certamente di darsi istituzioni che tute-
lino la loro sicurezza fisica e la protezione dalla violenza e dall’arbitrio
(e su questo Hobbes aveva perfettamente ragione); si preoccuperebbero
altresì di determinare regole per la gestione del potere nell’associazione
(che non potrebbero essere che di tipo democratico, come ha insegnato
una volta per tutte Rousseau). Ma si preoccuperebbero al tempo stesso
di proteggersi dai problemi che non nascono dalla violenza fisica ma da
tutti gli altri fattori che possono minacciare la nostra esistenza (fame,
povertà, malattia ecc.). Come abbiamo già detto, non vi è nessuna buo-
na ragione per la quale la cooperazione sociale debba essere finalizzata
solo alla protezione dalle violenze e non anche alla tutela da altri rischi
che minacciano le precarie vite umane.
Contro la linea dominante del pensiero liberale, solo il pensiero so-
cialista (che però è stato sempre assai meno articolato teoricamente e
dunque è rimasto intellettualmente subalterno) ha tematizzato il patto
sociale non tanto come convivenza pacifica di estranei sotto regole co-
muni, ma anche e soprattutto come cooperazione produttiva per una
soddisfacente garanzia della vita di tutti, e infatti ha posto come primo
diritto non quello alla libertà ma quello al lavoro e conseguentemente
al godimento di una esistenza soddisfacente. Ma il pensiero socialista
è rimasto sempre indietro sul piano teorico, sebbene i suoi contenuti
abbiano determinato in modo notevolissimo l’evoluzione delle società
europee verso un più ampio concetto di cittadinanza sociale.
Va rilevato inoltre che, proprio a seguito di questa evoluzione, anche
il più avanzato pensiero liberale ha finito per superare le più antiche im-
postazioni proprietariste: il che è accaduto soprattutto, a mio avviso, con
il primo Rawls, l’autore della Teoria della giustizia: egli infatti, in quest’o-
pera il cui contributo resta fondamentale per pensare una moderna cit-
tadinanza sociale, ha posto chiaramente alla base del patto sociale non
uno ma due principi: al primo che concerne la garanzia delle libertà ne ha
affiancato un secondo che regola la ripartizione di costi e benefici della
cooperazione ovvero la giustizia sociale e l’accesso ai beni principali10.
Sebbene anche in Rawls permanga ancora una certa subordinazione del
10 Cfr. J. RAWLS, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 66-69.
270 STEFANO PETRUCCIANI
secondo principio rispetto al primo (che conserva un certo margine di
primato gerarchico) a me sembra evidente che dopo Rawls, e più ancora
con le riflessioni che si sono sviluppate successivamente, da parte ad
esempio di Amartya Sen e Martha Nussbaum, la cittadinanza democra-
tica debba essere pensata come includente a pieno titolo la dimensio-
ne sostanziale-materiale, che ovviamente può essere poi tematizzata in
molti modi diversi: per esempio come accesso ai beni sociali principali
(Rawls), o come diritto a sviluppare al meglio i propri funzionamenti e le
proprie capacità (Sen). In ciò dunque il miglior pensiero liberale (ma si
potrebbe anche dire liberal-socialista) converge con le più avanzate Co-
stituzioni europee del secondo dopoguerra, profondamente influenzate
dal pensiero socialista: come ad esempio quella italiana che rivendica il
“pieno sviluppo della persona umana” (art. 3), o quella socialdemocra-
tica svedese del 1974 la quale afferma che “il benessere personale, eco-
nomico e culturale dell’individuo costituisce l’obiettivo fondamentale
dell’attività pubblica” e stabilisce il diritto “al lavoro, alla casa, all’edu-
cazione” e la promozione della salute, della sicurezza sociale e di un sano
ambiente di vita (art. 2).
3. Diritti sociali e Unione Europea
Ma se questo è l’orizzonte teorico che a me sembra, tutto sommato, ben
argomentato e convincente, le cose si fanno assai più complicate quan-
do si scende nella dimensione della storia e della politica concreta, in
particolare degli ultimi anni. Assistiamo infatti, come dicevo all’inizio, al
paradosso per cui alla maturazione di una filosofia politica sempre più
avanzata sui temi della cittadinanza sociale e dello sviluppo umano non
corrisponde affatto una uguale crescita sul piano delle politiche effettive,
dove anzi pare si manifestino non pochi aspetti di regressione.
Se si guarda alla questione, come oggi è inevitabile fare, tenendo pre-
sente non solo la prospettiva nazionale, ma soprattutto quella europea,
anche senza voler essere troppo pessimisti, emerge un quadro fortemen-
te contraddittorio: per un verso l’Europa si è dotata di una Carta dei
diritti fondamentali dove vengono accolti alcuni principi essenziali di
cittadinanza sociale. Ma per altro verso le politiche che l’Unione Euro-
pea ha messo in atto per fronteggiare la crisi economica si sono orientate
proprio verso la riduzione o il ridimensionamento di alcuni aspetti es-
senziali delle tutele sociali che si erano lentamente affermate nei decenni
CITTADINANZA E DIRITTI SOCIALI 271
del dopoguerra11: si pensi ad esempio al ridimensionamento dei sistemi
pensionistici o (questione ancora più rilevante, perché meno giustificata
da ragioni contabili), alla riduzione dei diritti dei lavoratori, che le “ri-
forme” continuamente richieste espongono più direttamente agli incerti
del mercato del lavoro. Volendo insistere su questo punto potremmo dire
che ci si trova quindi di fronte a una sorta di schizofrenia tra i “valori
indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’eguaglian-
za e della solidarietà”, proclamati nel Preambolo della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea e le politiche concretamente perse-
guite, che sono apparse nettamente in contraddizione con i valori forte-
mente proclamati, ma non altrettanto decisamente implementati. Una
contraddizione, del resto, che non appare facile da sanare, perché non
si capisce bene come si possano mettere insieme l’adesione ad alcuni
assunti fondamentali del neoliberismo, la fiducia salvifica nella bontà
della concorrenza e i draconiani limiti di bilancio imposti agli Stati con
l’attaccamento ai totalmente differenti valori di eguaglianza e solidarie-
tà. È questa, a mio modo di vedere, una delle grandi contraddizioni che
travagliano oggi il percorso dell’Unione Europea, e con la quale i popoli
del vecchio continente dovranno fare i conti se vogliono mantenere in
piedi il progetto europeo al di là delle politiche di austerità che lo hanno
11 Si legga quanto ha scritto efficacemente Gaetano Azzariti, nell’articolo I diritti sociali eil futuro dell’Europa, in «Eticaeconomia», 15 dicembre 2014 (http://www.eticaeconomia.
it/i-diritti-sociali-e-il-futuro-delleuropa/.): «[...] proprio quando sembrava che finalmen-
te tutti i diritti fondamentali inscritti nella Carta avessero ottenuto il massimo del rico-
noscimento da parte degli Stati (e dunque della politica) grazie al Trattato di Lisbona
che li ha inclusi con il medesimo valore giuridico dei Trattati, ecco che è cominciata la
rotta del diritto, che ha dovuto cedere il passo ai sacrifici imposti dalla congiuntura eco-
nomica avversa. Lo riconoscono con chiara e delusa coerenza gli stessi maggiori soste-
nitori della Carta, quando, con realismo, rilevano si debba ormai prendere atto di come
nell’Unione Europea sia stata “capovolta” quella linea di riforma “costituzionale” per
sostituire ad essa una sorta di “contro-costituzione”; quando denunciano l’abbandono
dei diritti (di quelli sociali in particolare) da parte di tutte le istituzioni europee, ormai
preoccupate esclusivamente del risanamento dei bilanci e dimentichi di quel che pure è
scritto nel Preambolo e fatto proprio dall’Europa: “l’Unione pone la persona al centro
della sua azione”; e poi ancora: essa “si fonda sui valori indivisibili e universali della
dignità umana, della libertà, dell’eguaglianza e della solidarietà”. Principi e parole che è
difficile scorgere tra le priorità imposte alle politiche europee, ma anche a quelle nazio-
nali, negli ultimi anni; politiche semmai indirizzate a limitare la portata dei diritti, ovvero
a subordinane l’estensione alle ragioni degli equilibri finanziari. Il Fiscal compact europeo t(assieme alle Patto Euro plus e Six Pack del 2011, al Two Pack del 2013), ma anche la sua
traduzione nazionale che ha portato ad una tanto rapida quanto improvvida modifica
del nostro testo costituzionale (degli articoli 81, 97 e 119) sono lì a dimostrarlo».
272 STEFANO PETRUCCIANI
messo pesantemente in crisi, e che hanno determinato la disaffezione
rispetto ad esso di grandi masse di cittadini.
Ma il problema, a mio parere, non si riduce a quello, pur drammati-
co, del contrasto tra l’ottemperanza agli imperativi del mercato globale e
i valori di eguaglianza e solidarietà. Infatti, anche sul modo in cui la Car-
ta europea imposta la questioni dei diritti fondamentali è lecito nutrire
qualche perplessità. Proviamo perciò a dedicare a questo tema qualche
sintetica riflessione.
Un primo aspetto che merita senz’altro di essere sottolineato e che,
muovendo da quanto abbiamo fin qui osservato, dovrebbe essere valu-
tato positivamente, è che nella Carta europea dei diritti fondamentali
non viene propriamente ripresa quella tradizionale gerarchizzazione in
forza della quale i diritti sociali vengono “dopo” i diritti di libertà indivi-
duale e quelli di partecipazione politica. Nella Carta europea dei diritti
fondamentali, invece, i diritti vengono organizzati in modo originale e
innovativo, attorno a sei categorie così determinate: dignità (Titolo I:
artt. 1-5), libertà (Titolo II: artt. 6-19), uguaglianza (Titolo III: artt. 20
-26), solidarietà (Titolo IV: artt. 27-38), cittadinanza (Titolo V: artt. 39-
46) e giustizia (Titolo VI: artt. 47-50).
Gli effetti di questa riorganizzazione sono molteplici. Innanzitutto
non si può non rilevare che la classificazione dei diritti che viene qui
proposta non è priva di qualche bizzarria o di qualche concessione a
mode o tendenze del momento. Per esempio, sotto il capitolo Dignità, là
dove si fa riferimento alle questioni attinenti alle cure mediche, si san-
cisce in pompa magna il principio che le cure devono essere precedute
dal “consenso libero e informato della persona interessata”. Principio
giustissimo, per carità, ma che di fatto si traduce per lo più in una in-
controllata proliferazione di firme apposte su moduli che nessuno legge.
Simili osservazioni si potrebbero fare per quanto riguarda il rango attri-
buito al diritto alla riservatezza dei dati nel capitolo Libertà; l’attenzione,
in linea di principio lodevole, per questo e altri diritti di “terza genera-
zione” finisce spesso per generare nella pratica regolamenti complicati
e obblighi burocratici ipertrofici, senza apportare nessun miglioramento
sostanziale alla vita dei cittadini.
A parte queste osservazioni marginali, appare chiaro che l’articola-
zione in sei categorie su cui si basa la Carta europea ha l’effetto di disag-
gregare gli eventuali diritti sociali e di frammentarli rendendoli talvol-
ta anche poco chiari. Assumiamo, coerentemente con quanto abbiamo
detto fin qui, che i diritti sociali abbiano come scopo quello di garantire
a ciascuno la fruizione dei benefici della cooperazione sociale metten-
dolo in condizione di soddisfare alcune esigenze fondamentali, storica-
CITTADINANZA E DIRITTI SOCIALI 273
mente maturate, come ad esempio: cure mediche, istruzione, abitazione,
servizi essenziali, reddito anche in caso di malattia, invalidità o vecchia-
ia, inclusione nel mondo del lavoro. Come vengono affrontate queste
problematiche nelle pur ambiziose categorie che la Carta europea dei
diritti appronta?
Per quanto riguarda quello che si potrebbe definire come diritto alla
salute o alle cure mediche, esso trova nella Carta europea una chiara
enunciazione, sotto la rubrica Solidarietà. L’articolo 35 della Carta (sot-
to il titolo: “Protezione della salute”) stabilisce infatti che “ogni indivi-
duo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure
mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali”; e
prevede altresì che “nella definizione e nell’attuazione di tutte le poli-
tiche e attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione
della salute umana”. Pur con l’inevitabile rimando alla specificità delle
legislazioni nazionali, il diritto alla salute è dunque enunciato in modo
sostanzialmente soddisfacente.
Per quanto riguarda la questione delle tutele sociali, di tipo assisten-
ziale o pensionistico, la Carta europea risulta in linea con le politiche
perseguite in generale dagli Stati del vecchio continente: è previsto un
“diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale”, e con esso la
protezione nei casi di maternità, malattia, non autosufficienza, vecchia-
ia, perdita del lavoro. La Carta pone inoltre come obiettivo da perse-
guire quello di lottare contro “l’esclusione sociale e la povertà”, con
prestazioni di assistenza sociale e anche di “assistenza abitativa”. Tutto
ciò con le modalità stabilite dal diritto comunitario e dalle legislazioni e
prassi nazionali. A parte questo riferimento all’abitazione, non vi è però
la previsione di un diritto alla casa.
Sempre sotto il capitolo Solidarietà, troviamo un’articolata specifi-
cazione dei diritti del lavoratore, che includono quelli all’informazione,
alla consultazione, alla contrattazione collettiva, a condizioni di lavoro
“sane, sicure e dignitose” (art. 31), a poter accedere a servizi di collo-
camento gratuiti e alla tutela contro i licenziamenti ingiustificati. Da
questo punto di vista, come è stato giustamente sottolineato, la Carta
costituisce un progresso anche rispetto a Costituzioni avanzate come
quella italiana, perché traspone su un piano “fondamentale” diritti la
cui formulazione è, in molti Paesi, rimessa alla legislazione ordinaria; e
aggiunge nuovi diritti come quelli all’informazione e alla consultazione
274 STEFANO PETRUCCIANI
dei lavoratori nell’ambito dell’impresa12. Diversa è la questione del dirit-
to “al” lavoro sulla quale ci soffermeremo tra breve.
Per quanto riguarda le tematiche fin qui menzionate, dunque, mi
sembra si possa confermare l’idea che ci troviamo di fronte a una situa-
zione per qualche aspetto “schizofrenica” o comunque contraddittoria:
mentre si ispira a principi sicuramente avanzati e inclusivi, l’Unione Eu-
ropea promuove di fatto, come discutibilissima risposta alla crisi eco-
nomica, politiche che determinano un notevole arretramento su fronti
importanti come ad esempio quello dei diritti pensionistici o delle tutele
del lavoratore.
Più complessa è invece la questione per quanto riguarda altre temati-
che che possono rientrare nel pacchetto dei diritti sociali. Il diritto all’i-
struzione è enunciato come tale sotto il capitolo Libertà, ma la sua porta-
ta risulta piuttosto limitata dal fatto che la gratuità viene richiamata solo
per quanto riguarda il livello dell’istruzione obbligatoria (art. 14). Siamo
quindi più indietro rispetto alla Costituzione italiana la quale, dopo aver
previsto la gratuità dell’istruzione obbligatoria, aggiunge che “i capaci e
meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi
più alti degli studi” (art. 34).
Inoltre, se si assume come riferimento la Costituzione della nostra
Repubblica, risulta evidente come, anche per altri versi, le indicazioni
della Carta europea, elaborata, non dimentichiamolo, diversi decenni
dopo, risultino meno “forti” di quelle che furono stabilite dai nostri co-
stituenti. Lo si vede soprattutto se ci si sofferma sul tema del diritto
al lavoro. Nella nostra Costituzione esso non viene incluso nella parte
relativa ai Rapporti economici (artt. 35 sgg.) ma addirittura tra i i Principi fondamentali, con l’art. 4 che recita: “La Repubblica riconosce a tutti i icittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effetti-
vo questo diritto”. Molto diversamente stanno le cose nella Carta euro-
pea. Il lavoro è richiamato sotto il capitolo Libertà, nell’art. 15 intitolato
Libertà professionale e diritto di lavorare, e la formulazione contenuta nel
primo comma è la seguente: “Ogni individuo ha il diritto di lavorare e
di esercitare una professione liberamente scelta o accettata”. Il rovescia-
mento di prospettiva sembra qui davvero significativo: mentre il diritto
al lavoro è sempre stato una rivendicazione dei movimenti socialisti e
popolari (basti ricordare i dibattiti e le lotte che suscitò già nel 1848 in
12 Per una convinta valorizzazione di questi aspetti si vedano i molti lavori di Giuseppe
Bronzini, ad esempio: G. BRONZINI, Diritto dei lavoratori all’informazione e alla consulta-zione nell’ambito dell’impresa: un diritto fondamentale di matrice europea, in G. BRONZINI - F.
GUARRIELLO - V. PICCONE (a cura di), Le scommesse dell’Europa. Diritti, istituzioni, politiche,Ediesse, Roma 2009 pp. 147-162.
CITTADINANZA E DIRITTI SOCIALI 275
Francia), il diritto di lavorare sembra semplicemente l’innegabile diritto
individuale a svolgere un’attività o una professione13; e a ciò risponde
perfettamente la rubrica nella quale esso compare, dove viene accomu-
nato ad altre attività che sono esercizio della libertà personale, come il
diritto di sposarsi o di professare una religione. Esso sembra perdere la
sua caratterizzazione di diritto sociale perché non viene evidenziata una
responsabilità delle pubbliche istituzioni nell’organizzare l’inclusione
di ciascuno nell’ambito della vita lavorativa e dunque delle attività che
consentono di procacciarsi un reddito. Il diritto al lavoro, in sintesi, non
appare come diritto sociale ma come diritto alla libertà personale in una
specifica sfera.
Una simile riflessione critica si potrebbe svolgere, come è stato fat-
to da più parti, per quanto riguarda il tema dell’eguaglianza; un tema
complicato quant’altri mai, ma che, in ogni caso, fa parte dei principi
che sono stati recepiti dalle Costituzioni moderne nate dalle rivoluzio-
ni americana e francese. Nella Carta europea dei diritti l’eguaglianza è
innanzitutto definita nel significato “liberale” e molto limitato di egua-
glianza “davanti alla legge” (art. 20). E, per quanto riguarda le ulterio-
ri specificazioni, viene svolta soprattutto in due direzioni: l’eguaglianza
come proibizione di qualsiasi forma di discriminazione (di sesso, razza,
colore della pelle, tendenze sessuali ecc.), che è una esplicitazione del
principio secondo il quale “la legge è uguale per tutti”, e la parità di ge-
nere. Qui si va effettivamente oltre il principio dell’eguaglianza di fronte
alla legge, perché si specifica non solo che essa deve essere assicurata in
tutti i campi (tra i quali occupazione, lavoro, retribuzione) ma si pre-
vedono anche azioni positive volte a realizzare effettivamente la parità,
andando dunque oltre il principio della mera eguaglianza legale. Peccato
però che una simile proiezione in avanti sia limitata al tema della parità
di genere, e non investa altre dimensioni della ineguaglianza sociale.
Proprio sul punto dell’eguaglianza, infatti, sono state sollevate, mo-
tivatamente, non poche perplessità. Da più parti si è fatto rilevare che
nella Carta europea non si ravvisa quel raccordo tra il principio di egua-
glianza formale e quello di eguaglianza sostanziale che invece è presente
nelle più avanzate Costituzioni degli Stati membri14.
13 Una visione non negativa del passaggio dal “diritto al lavoro” al “diritto di lavorare”
è invece sostenuta da G. Bronzini; si veda ad esempio il volume G. BRONZINI, I diritti del popolo mondo, Manifestolibri, Roma 2003, pp. 179 e 188.14 Cfr. ad esempio quanto scrive S. GAMBINO, Diritti e cittadinanza (sociale) nelle Costitu-zioni nazionali e nell’Unione, in «La cittadinanza europea», 2 (2013), pp. 5-39: 30-31: “Il
quadro normativo comunitario in materia di diritti sociali – e con esso la stessa effetti-
vità della cittadinanza sociale a livello europeo – solleva molteplici perplessità, sia per
276 STEFANO PETRUCCIANI
Ovviamente non è facile determinare con precisione teorica a cosa
ci si riferisce quando si parla di “eguaglianza sostanziale”. Ma in sintesi
si potrebbe dire, tenendo presenti le formulazioni nella nostra Costitu-
zione e le considerazioni che abbiamo svolto nella prima parte di questa
riflessione, che ad essa si può dare un duplice significato: uno di tipo più
“strumentale”, dove l’eguaglianza in dimensioni materiali o sostanziali è
vista come “condizione” per un pieno godimento dei diritti o della citta-
dinanza; oppure una che potremmo dire di tipo “autofinalistico”, dove
l’eguaglianza si traduce, come nella nostra Costituzione, nell’idea che le
istituzioni sociali abbiano come proprio fine quello di operare affinché
ciascuno possa conseguire “il pieno sviluppo della persona umana” (art.
3); ovvero nell’idea che “l’obiettivo fondamentale dell’attività pubblica”
debba essere il “benessere personale, economico e culturale” di tutti gli
individui (art. 2 della svedese Legge fondamentale sulla forma di governo).
Nessuna delle due accezioni, però, sembra ritrovarsi nella Carta
europea, e questa omissione pare coerente con una certa filosofia di
fondo che la caratterizza. In sostanza si potrebbe affermare che ci tro-
viamo di fronte a una prospettiva che cerca in qualche modo di conci-
liare elementi provenienti dalla tradizione socialdemocratica o welfarista
con aspetti di liberalismo e di neo-liberismo. In questa combinazione,
(qualcosa di simile, forse, a ciò che Maurizio Ferrera ha definito “neo-
welfarismo liberale”) l’elemento più forte è sicuramente quello che fa
riferimento alla tradizione delle “libertà negative”. Rafforzate da una
quanto riguarda la disciplina positiva di tali peculiari situazioni giuridiche dalla natura
pretensiva, sia per quanto concerne l’estensione agli stessi della medesima natura di di-
ritti inviolabili e pertanto di principi supremi costitutivi dell’ordinamento democratico,
sia, ed infine, per quanto riguarda l’effettiva loro ‘giustiziabilità’. Ma prima ancora, tale
quadro solleva la centrale questione della natura e dei corrispondenti contenuti norma-
tivi dei princìpi fondamentali cui lo stesso s’ispira. All’interno di tale quadro, si pone
l’interrogativo sull’esistenza di un raccordo fra principio di eguaglianza formale e prin-
cipio di eguaglianza sostanziale, come avviene all’interno delle tradizioni costituzionali
comuni più avanzate degli Stati membri dell’UE. Si pone, parimenti, il quesito se i diritti
sociali comunitari, (soprattutto) per come riconosciuti nella Carta dei diritti e delle
libertà fondamentali dell’UE, si limitino a far proprio e a dare attuazione al principio di
eguaglianza, inteso nel senso originario di divieto di discriminazione fra i soggetti o se,
piuttosto, non accolgano anche quello di eguaglianza sostanziale posto a base del costi-
tuzionalismo europeo del secondo dopoguerra, coinvolgendo in tal senso la questione
della copertura della spesa e pertanto dell’esistenza in capo alla UE di una competenza
in materia che non risulti lesiva della competenza costituzionale di ogni singolo Stato
membro”. Sul tema dell’eguaglianza si veda anche il saggio di G. AZZARITI, Uguaglianza e solidarietà nella Carta dei diritti di Nizza, in M. SICLARI (a cura di), Contributi allo studiodella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Giappichelli editore, Torino 2003,
pp. 61-80, cui Gambino rinvia.
CITTADINANZA E DIRITTI SOCIALI 277
vigorosa sottolineatura del principio di non discriminazione, esse diven-
tano generatrici di “nuovi tipi di diritti civili che possiedono rilevanti
implicazioni sociali (ad esempio, il matrimonio omosessuale; le quote di
genere; i diritti al ‘riconoscimento’ delle minoranze; opzioni pro scelta
riguardo ai temi eticamente sensibili)”15. Insomma, mentre non manca
una vigile attenzione per ciò che riguarda temi come i diritti civili, la non
discriminazione, la parità di genere, per quanto riguarda la cittadinanza
sociale ci troviamo di fronte, come abbiamo visto, ad un approccio piut-
tosto peculiare. Per questo aspetto, infatti, l’impostazione che sembra
caratterizzare la Carta europea è quella di una notevole attenzione per
le condizioni di deprivazione, difficoltà, bisogni: come abbiamo visto, si
parla di lotta contro la povertà e l’esclusione, di tutela delle condizio-
ni critiche come maternità, vecchiaia, malattia, handicap; vi è dunque
una forte presenza del tema della “solidarietà”. È un punto sicuramente
molto importante, ma bisogna anche chiedersi a quale concezione della
cittadinanza sociale esso risponda, a quale “filosofia” si ispiri. A mio av-
viso, la si potrebbe riassumere così: lasciamo che la dinamica economica
e sociale sia retta sostanzialmente da principi di competizione e di con-
correnza, e che questi dispieghino i loro effetti; facciamo in modo che le
persone si attrezzino per questa competizione; e infine interveniamo per
garantire una rete di sicurezza (purtroppo a maglie sempre meno fitte)
a chi per vari motivi non può giocare appieno il suo ruolo nell’agone
competitivo. Una rete di protezione, inoltre, che si cerca di spogliare
dai suoi aspetti presuntivamente deresponsabilizzanti, chiedendo ai sog-
getti un coinvolgimento attivo e un impegno anche ad auto-sostenersi
(caratteristica questa, in particolare, di quel modello di “neowelfarismo
liberale” di cui ha scritto Ferrera). Tutto bene, dunque? A mio avviso
non proprio.
Il limite di una siffatta prospettazione della cittadinanza si può a mio
parere individuare come segue. Il richiamo al valore della solidarietà è
senza alcun dubbio fondamentale, soprattutto in una fase in cui le po-
litiche pubbliche tendono a ridimensionare gli interventi solidaristici e
quelli a sostegno della fasce più deboli. Ciò detto va anche rilevato, però,
che vi è una notevole differenza tra un approccio solidaristico, inteso a
“rimediare” a condizioni di debolezza o di vulnerabilità, e un approccio
di tipo diverso: ovvero un approccio che muova dall’idea che la finalità
di una moderna comunità democratica sia quella di promuovere lo svi-
luppo economico, sociale e culturale di tutti i cittadini. È proprio questa
15 Cfr. M. FERRERA, Neowelfarismo liberale: nuove prospettive per lo stato sociale in Europa, in
«Stato e mercato», 97, aprile 2013, pp. 3-35: 22.
278 STEFANO PETRUCCIANI
dimensione finalistica, presente nelle più avanzate Costituzioni contem-
poranee, non solo in quella italiana, che non trova rispondenza nella
Carta europea. E questa considerazione converge in sostanza con quelle
di quanti (molti) hanno rilevato la presenza di una lettura del principio
di eguaglianza incapace di superare alcuni limiti dell’approccio liberale.
Per queste ragioni, mi sembra che la via europea verso una piena citta-
dinanza sociale resti ancora in buona parte da percorrere.
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 279-298
Quale identità per l’Unione Europea?Per la costruzione di una cultura politica
e di una politica culturale comuneMARINA CALLONI
1. Introduzione di parte
Una delle questioni che ha maggiormente caratterizzato il dibattito na-
zionale e sovra-nazionale degli ultimi anni, non è stata tanto la riflessio-
ne sullo sviluppo dell’Unione Europea (UE), bensì la constatazione della
crisi di un progetto politico mai davvero compiuto, che si scontra con gli
esiti infausti di crisi economiche, con il riaccendersi di nazionalismi pro-
tezionistici, con il tragico scenario di nuove guerre e con gli assetti stra-
tegici della geo-politica. L’Unione Europea si misura così con la real tà
di Paesi membri che viaggiano a velocità diverse e che su questioni che
dovrebbero essere di interesse comune vengono piuttosto a sostenere
posizioni conflittuali, se non opposte.
Tale complessa situazione ci induce a riflettere non solo sul signifi-
cato politico ed economico, bensì sul valore culturale e simbolico che
l’idea e la pratica di una comune cittadinanza europea hanno o possono
avere per ogni singolo individuo appartenente, piuttosto che per ogni
Stato membro nel suo complesso. Tale riflessione è tanto più urgente,
quanto più cresce la disaffezione e diminuisce la fiducia dei cittadini nei
confronti del progetto UE.
Quali sono state allora le cause che hanno indotto governanti e cit-
tadini a un cambiamento di rotta rispetto al passato, quando lo “spiri-
to” europeo sembrava soverchiare diffidenze nazionali? I motivi sono
indubbiamente molteplici: sono dovuti tanto a questioni strutturali di
governance, quanto a contingenze internazionali. Problemi reali sono
però enfatizzati mediante ragioni strumentali, determinate sia da inte-
ressi politici locali che da strategie globali per il controllo di nuove aree
di influenza.
Tuttavia, l’attuale fragilità del sistema europeo non va analizzata solo
ricorrendo a determinazioni istituzionali ed economiche. Le cause della
crisi vanno infatti, a mio parere, anche ricercate nelle carenze e nelle
aporie delle dimensioni culturali e comunicative, proprio perché i sin-
280 MARINA CALLONI
goli individui non si sentono ancora o non si percepiscono più come
“cittadini europei”. L’aspetto “simbolico”, spesso trascurato, è invece
sostanziale sia per comprendere i deficit di legittimazione politica, sia
per valutare le potenzialità che tale costrutto potrebbe avere per il rilan-
cio del laboratorio europeo.
Del resto, l’attuale crisi dell’UE è conforme alla storia alquanto tor-
mentata e non certo lineare del continente europeo, caratterizzata da
grandi slanci e da cesure, da processi di civilizzazione e da conflitti bel-
lici, dall’umanesimo e dal colonialismo, dalla pretesa dei diritti estesi
all’intera umanità al totalitarismo annichilente.
Al fine di mettere in luce ambivalenze e potenzialità dell’UE, cercherò
di focalizzare i miei argomenti attorno a tre principali questioni:
1. Esiste un’“identità” europea, capace di agire da collante contro la
crisi incipiente, tale da scongiurare un progressivo smembramento
dell’Unione, che sembra andare in controtendenza rispetto allo “spi-
rito” estensivo che l’aveva connotata all’inizio del Millennio con l’in-
clusione dei Paesi post-socialisti?
2. Quali sono le principali ragioni che hanno determinato la cre-
scente indifferenza/delusione/avversione dei cittadini nei confronti
dell’Unio ne Europea?
3. Possiamo o meno continuare a pensare all’Unione Europea, come a
uno spazio di opportunità, fondato sul principio di giustizia sociale e
sul rispetto della dignità umana, partendo dall’esercizio consapevole
di una cittadinanza comune?
A tali quesiti si può rispondere solo se si comprendono le ragioni per le
quali i cittadini dell’UE, nonostante continuino a beneficiare di politiche
sociali, si sentono tuttavia marginali e sempre più estranei rispetto al
centro del decision-making, governato da ristrette élite al potere.
Il punto di vista che assumerò in tale analisi, sarà quello di un’Euro-
peista critica ma costruttiva, avendo beneficiato nella mia vita professio-
nale e personale delle opportunità offerte da una cittadinanza comune.
Nello stesso tempo, la prospettiva che assumerò sarà quella di una do-
cente che da anni insegna questioni relative alla comunicazione, ai diritti
e alla cittadinanza europea, a fronte di un pubblico di studenti spesso
euroscettici, che non riescono a figurarsi come poter essere europei, no-
nostante siano tali nei fatti e nei modi di vita.
QUALE IDENTITÀ PER L’UNIONE EUROPEA? 281
2. La controversa costruzione di un’identità per l’Unione Europea
Esiste uno “spirito” o cosa si può intendere per “identità” europea? Ini-
zio volutamente la mia argomentazione con due costrutti controversi: da
una parte il termine un po’ obsoleto di spirito (inteso qui nell’accezione
post-hegeliana di Zeitgesit, ovvero di spirito del tempo che caratterizza tscelte e guida comportamenti) e dall’altra il concetto polivalente e am-
biguo di identità (che contiene elementi di continua variabilità e molte-
plicità).
Per “spirito” dell’Unione Europea, mi riferisco innanzitutto agli esiti
di quel documento fondativo che viene ormai unanimemente conside-
rato come il simbolo del federalismo europeo. Si tratta del testo “Per un’Europa libera e unita”, meglio conosciuto come il Manifesto di Vento-tene.
Il manoscritto fu iniziato in modo rocambolesco nell’agosto 1941 da
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann
– provenienti da diverse tradizioni politiche: comunista, liberale e so-
cialista – mentre si trovavano confinati sull’isola pontina di Ventotene
a causa delle loro attività antifasciste. Il documento fu a lungo discusso
e rivisto in diverse edizioni, finché fu pubblicato e diffuso clandesti-
namente nel 1944, quando l’Italia era stata parzialmente liberata. Ma,
mentre Spinelli, Rossi e Hirschmann riuscirono a sopravvivere alla guer-
ra, Colorni fu ucciso nel 1944, a pochi giorni dalla liberazione di Roma.
Il Manifesto diventò ben presto un punto di riferimento – seppur alquan-
to osteggiato – nell’Italia postbellica, allora caratterizzata da conflitti po-
litico-ideologici, dalla difficile transizione alla democrazia repubblicana
e dall’urgenza economica della ricostruzione. Il Manifesto aveva obiettivi
ambiziosi: non si trattava tanto di progettare la rinascita degli Stati na-
zionali, bensì di “superarli” nella loro forma politica tradizionale, nella
prospezione di un’Europa federale.
L’incipit delt Manifesto riguarda l’analisi di quelle specifiche contrad-
dizioni che erano state in Europa la causa di guerre, devastazioni e stra-
gi, dovute all’aggressività degli Stati nazionali. Se la modernità illumini-
sta era nata grazie al riconoscimento di diritti e di libertà inalienabili per
ogni singolo individuo, la volontà di potenza militare aveva annullato di
fatto tali conquiste, avocando a sé ogni potere. Come scrivono gli autori
all’inizio del Manifesto:
La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della
libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento al-
trui, ma un autonomo centro di vita.” Tale principio è pienamente scon-
fessato dagli interessi nazionalisti. La convinzione è che “lo stato, da tu-
282 MARINA CALLONI
telatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi,
tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l’efficienza bel-
lica. (...) Le libertà individuali si riducono a nulla dal momento che tutti
sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar servizio militare; le
guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l’impiego,
gli averi ed a sacrificare la vita stessa per obiettivi di cui nessuno capisce
veramente il valore, ed in poche giornate distruggono i risultati di decen-
ni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo.
(Spinelli, Rossi, Hirschmann, Contorni, 1944)
Il totalitarismo è dunque la radicale conseguenza di un nazionalismo
militarista che rende schiavi i cittadini, quando dovrebbe essere lo Stato
a tutelare i diritti fondamentali di cui gli individui dovrebbero piena-
mente godere. Nel promuovere le guerre, gli Stati nazionali sono i primi
a violare le libertà che dovrebbe proteggere. Per questo, la loro forma
politica va “superata”, grazie ad un’organizzazione federalista, capace
di oltrepassare antagonismi ed egoismi locali. L’idea e lo “spirito” di
un’Europa unita nascono dunque dalla constatazione dei limiti e dei
pericoli insiti nelle politiche aggressive dei singoli Stati nazionali, per cui
solo un’alleanza fra popoli e cittadini (e non fra Stati, in competizione
fra di loro) potrebbe garantire una pace duratura e un benessere collet-
tivo.
Per spirito europeo – come indicato nel Manifesto – non si deve dun-
que solo intendere l’aspirazione iniziale a lottare contro l’oppressione,
considerata l’esperienza di illibertà, bensì il progetto politico racchiuso
nelle pagine del documento, che si è venuto a sostanziare nel corso degli
anni, anche se in modo diverso da come l’avevano concepito gli autori.
Il progetto per un’Europa unita si è infatti venuto a rappresentare
come un esperimento in continua evoluzione e trasformazione, che pro-
cede attraverso crisi, riassestamenti e ampliamenti, senza che ci sia alcun
modello prefissato da seguire. Si muove a fasi alterne e passa attraverso
momenti tanto espansivi, quanto statici, se non regressivi: dal raggiun-
gimento di 28 Stati membri (con l’inclusione di 11 Paesi post-socialisti
negli anni 2004, 2007 e 2013) fino all’uscita del Regno Unito nel 2016.
Fino ad ora, l’UE si era ampliata verso Est, con l’interesse di ritrova-
re comunanze e riallacciare contatti economici, politici e culturali con
un più vasto continente europeo, rimasto ideologicamente diviso per
oltre quarant’anni. I prossimi progetti di allargamento continuano a ri-
guardare l’area orientale, con l’inclusione di Paesi balcanici, candidatesi
all’UE. Nonostante le crisi ricorrenti, il progetto UE rimane in ogni caso
QUALE IDENTITÀ PER L’UNIONE EUROPEA? 283
il più grande laboratorio politico contemporaneo sovra-nazionale, che
conta oltre 500 milioni di cittadini.
Si tratta di un’esperienza non riscontrabile in altre aree del mondo
e di un esperimento continuamente in bilico, iniziato con il Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nel 1951,
poi proseguito col Trattato che istituisce la Comunità economica europea,
firmato a Roma nel 1957, insieme al Trattato EURATOM e continuato con
tanti altri documenti fondativi. La storia dell’UE è infatti costellata dalla
firma, così come dalla bocciatura di trattati, intesi come accordi inter-
statali, vincolanti.
L’adesione di nuovi Stati, così come la ripresa dei legami culturali
e politici fra Paesi rimasti separati dalla cortina di ferro dalla fine del
secondo conflitto bellico fino ad anni recenti, pone tuttavia un’ulteriore
domanda, ovvero: al di là di leggi comuni, quali sono gli elementi che
possono contribuire a consolidare l’unione fra Stati dalle diverse tra-
dizioni politiche, culturali e religiose? Si devono fondare su una previa
eredità comune, oppure basta la condivisione di principi che si rafforze-
ranno nel tempo?
Tale questione ha dato origine a innumerevoli dibattiti, nel tentativo
di mettere a fuoco quali siano le comunanze sulle quali si possa basare
l’unione fra Stati diversi, grazie al riconoscimento di valori condivisi
e alla condivisione di scelte comuni. Si tratta di ragioni ideali, di meri
interessi economici, di una commistione fra motivazioni normative e
giustificazioni strategiche, oppure di una responsabilità verso il futuro?
Tale domanda ci porta al dibattito su cosa significhi “lascito” per
l’Europa, così come teorizzato da Hans-Georg Gadamer nella raccolta
di scritti, risalenti agli anni Ottanta, dal titolo L’eredità dell’Europa (Ga-
damer, 1991).
A partire da un approccio di fenomenologia ermeneutica, l’autore si
chiede quale possa essere il ruolo della riflessione filosofica nel tema-
tizzare ed elaborare temi in relazione a problemi e compiti dell’Europa
unita. Gadamer ritrova tale possibilità nella tradizione che connette la
filosofia con l’umanesimo, al fine di valorizzare, conservare ed elaborare
un patrimonio culturale, capace di creare orizzonti comuni che possano
rendere possibile la coesistenza e l’arricchimento reciproco delle diverse
identità culturali. La filosofia diventa antropologia interpretativa come
“discorso sull’alterità”, così come la cultura – intesa come Bildung, ov-
vero come un continuo processo di formazione – diventa “conoscenza
dell’alterità” che viene a foggiare la nostra stessa vita. Infatti, bisogna
rielaborare una diversa “coscienza storica”, poiché «è probabilmente un
privilegio dell’Europa il fatto di aver saputo e dovuto imparare, più di
284 MARINA CALLONI
altri paesi, a convivere con la diversità». (Gadamer, 1991: 22) Diventa
pertanto un compito etico e insieme politico tanto per individui, quanto
per comunità l’«imparare a rispettare l’altro e l’alterità», ovvero «vivere
con l’altro, vivere come l’altro dell’altro». (ibidem). La questione europea
ha a che fare «col futuro stesso dell’umanità nel suo insieme» (ibidem),
alla ricerca di un benessere comune.
Le riflessioni di Gadamer sul “destino” dell’Europa nel rapporto fra
eredità, attualità e futuro vengono tuttavia a porre una domanda più
generale sul significato e sul processo di formazione dell’identità perso-
nale e collettiva. Infatti, l’identità può essere un elemento cementante
quando riferisce la propria genesi a comuni tradizioni accumulatesi nel
passato, ma può anche nel contempo diventare un elemento esclusivisti-
co, quando viene preclusa ad altri, aventi origini diverse. L’identità può
però essere anche intesa come un processo dinamico che viene a conso-
lidarsi interattivamente, nella prospettiva di principi condivisi.
La questione di cosa sia o di cosa si intenda per “identità” europea è
stata in effetti al centro di innumerevoli e controversi dibattiti a livello
istituzionale e culturale. L’Unione Europea è, infatti, composta da varie-
gate popolazioni, cittadini e Stati nazionali dalle differenti tradizioni; è il
prodotto di una secolare sovrapposizione di diversità culturali, politiche
e religiose, cause di conflitti bellici, ma anche di affinità e convergenze.
Uno dei più famosi dibattiti su tale tema è stato senza ombra di dub-
bio la discussione sul riconoscimento delle comuni radici giudaico-cristianedell’Unione Europea, che aveva caratterizzato il processo di redazione
del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa. Tale documento
era stato inteso come quella carta fondativa, ovvero costituzionale, che
avrebbe dovuto stabilire principi e norme, rivedendo i precedenti tratta-
ti, al quale tutti gli Stati membri avrebbero dovuto attenersi.
Dopo 17 mesi di lavoro, grazie all’organismo della Convenzione Eu-
ropea, venne presentato agli organi competenti nel luglio 2013 il te-
sto del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, che mirava a
formare un’entità politica. Mancava solo quella, dopo aver conseguito
l’unione economica e il riconoscimento della cittadinanza comune nel
1992, la fondazione della Banca centrale europea nel 1998, l’approva-
zione di una moneta unica, l’euro nel 1999 (ora utilizzato in 19 Paesi,
cioè da 338,6 milioni di cittadini, ad eccezione di Bulgaria, Croazia,
Danimarca, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia
e Ungheria), la promozione di direttive sociali e l’affermazione della
centralità dei diritti umani nella Carta dei diritti fondamentali dell’UnioneEuropea. Questi erano stati prima inclusi nel Trattato di Nizza del 2000
e successivamente integrati nel Trattato di Lisbona (firmato nel 2007 ed
QUALE IDENTITÀ PER L’UNIONE EUROPEA? 285
entrato in vigore nel 2009), come vincolanti per tutti gli Stati membri
presenti o futuri, al fine di rafforzare il sistema democratico comunitario.
Era dunque cruciale redigere una costituzione che sancisse una reale
unione politica.
Il processo di redazione del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa fu alquanto complesso, controverso, ma anche condiviso fra le
parti interessate. Erano stati, infatti, invitati a partecipare al dibattito co-
stituzionale anche associazioni della società civile e diversi stakeholders.Fra le varie discussioni, una problematica su tutte aveva polarizzato
e contrapposto le parti in campo. Si trattava della proposta di ricono-
scere e inserire nel Trattato un riferimento alle comuni radici giudaico-
cristiane. Dopo innumerevoli interventi pubblici e dibattiti in seno alla
Convenzione Europea preposta alla redazione, si decise alla fine di non
far riferimento a tali origini storiche per non pregiudicare i rapporti
con altri fedi religiose e la possibile inclusione di Paesi con tradizioni
culturali diverse. Fu dunque eliminato qualsiasi accenno a una religione
specifica, per rispetto di tutte le differenze spirituali e con la convinzione
che l’Unione Europea avrebbe dovuto essere fondata su principi secola-
rizzati condivisi, ovvero su valori, quali “il pluralismo, la non discrimina-
zione, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà e l’uguaglianza tra donne
e uomini”. Tali principi furono poi riaffermati nel Preambolo. Si era cioè
preferito dare un’interpretazione di identità come un processo in fi eri, ipiuttosto che come un’eredità storico-culturale proveniente dal passato,
in quanto percepita come esclusivistica.
Nella versione definitiva del voluminoso Trattato (oltre 200 pagine),
si decise allora di articolare il rapporto fra l’Unione e le diverse religioni,
come segue:
Articolo 51: Status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali.
1. L’Unione rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni
nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati
membri. 2. L’Unione rispetta ugualmente lo status delle organizzazioni
filosofiche e non confessionali. 3. L’Unione mantiene un dialogo aperto,
trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni, riconoscendone
l’identità e il contributo specifico.
(Unione Europea, 2003)
Il Trattato fu adottato per consenso dalla Convenzione Europea a Bru-
xelles il 13 giugno 2003 e dunque trasmesso al Presidente del Consiglio
europeo a Roma 18 luglio 2003. Il processo di ratifica da parte di ogni
Stato avrebbe dovuto concludersi entro due anni e il Trattato avrebbe
dovuto entrate in vigore entro il 1° novembre 2006.
286 MARINA CALLONI
La cose non andarono però come previsto. L’esperienza costituzio-
nale europea non ebbe infatti buon esito. La “Costituzione” dell’UE,
così come formulata nel Trattato, non entrò mai in vigore. La ragione
è che i trattati fondamentali dell’UE devono essere ratificati dai singoli
Stati membri, secondo le rispettive norme costituzionali, cioè mediante
ratifica del Parlamento o tramite referendum popolare. Le modalità di
approvazione sono dunque diverse per ogni nazione.
Ad esempio, la Costituzione italiana prevede all’Articolo 80 che «Le
Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali» e
ammette all’Articolo 75 solo referendum popolari di tipo abrogativo,
escludendo dunque qualsiasi referendum «di autorizzazione a ratificare
trattati internazionali». In altri Paesi, si fa invece ricorso al referendum.
E fu così che dopo anni di discussione, delibere e compromessi, fra
il 2004 e il 2006 solo 18 paesi (tra cui l’Italia) su 27 Stati membri giun-
sero a piena ratifica del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Euro-pa. Alcuni Stati non completarono il processo, mentre altri si opposero
all’entrata in vigore del Trattato. In particolare, fecero piuttosto scalpore
gli esiti dei referendum indetti in Francia e nei Paesi Bassi nel 2005, che
dettero esito negativo.
I motivi di tale sconfitta avevano cause e origini diverse. Fra le mol-
teplici motivazioni, una poteva essere attribuita ai governi nazionali che
ascrivevano la colpa dei propri errori alle scelte operate a Bruxelles,
mentre l’altra aveva a che fare con le evidenti carenze comunicative e il
generale impianto strutturale degli organismi dell’UE.
Nello specifico, la prima causa poteva essere in parte rinvenuta, come
accennato, nelle ambivalenze dei politici locali, ovvero nell’essere euro-
peisti per convenienza ed anti-europeisti per non perdere il consenso
nazionale. Infatti, la crisi economica allora in corso, era principalmente
addossata alle politiche restrittive comunitarie, venendo così a rinfoco-
lare interessi protettivi nazionali, quando la decadenza dei sistemi dei
welfare state locali aveva ragioni ben più complesse, connesse alla glo-
balizzazione finanziaria e al nuovo ordine mondiale, e come tale non era
semplicemente dovuta agli interventi dell’UE.
La seconda ragione era invece rinvenibile nel senso di lontananza che
i cittadini percepivano nei confronti sia del Trattato che degli organismi
dell’UE, sempre più individuati come una nuova casta del potere politi-
co. I cittadini comuni non sapevano bene di cosa realmente si trattasse,
quali conseguenze la costituzione avrebbe avuto sulle loro vite, cosa si-
gnificasse essere cittadini europei. Ovvero, non erano stati sufficiente-
mente coinvolti nel dibattito politico e nelle deliberazioni pubbliche. Il
deficit principale era dunque riscontrabile nella mancata comunicazio-
QUALE IDENTITÀ PER L’UNIONE EUROPEA? 287
ne istituzionale, ma anche nello scarso processo culturale del dibattito,
che avrebbe dovuto piuttosto articolarsi in una più ampia sfera pubblica
trans-nazionale.
Conseguì da parte degli organismi UE un lungo processo di rifles-
sione sugli errori commessi, sulle evidenti carenze culturali e sule defi-
citarie politiche comunicative, che non erano state in grado di sprona-
re la partecipazione popolare. Fu allora che, spinta da tali problemi, la
Commissione Europea pubblicò nel 2006 un Libro bianco su una politi-ca europea di comunicazione, che riconosceva la necessità di “Discutere
sull’Europa, coinvolgere i cittadini”, riducendo le distanze:
Negli ultimi due decenni, l’Unione europea si è trasformata. Ha dovuto
affrontare una gran varietà di compiti che toccano da vicino, sia pure in
modi molto diversi, le vite dei cittadini. Ma la comunicazione dell’Eu-
ropa con i suoi cittadini non è riuscita a stare al passo. Che vi sia una
grande distanza tra l’Unione europea e i suoi cittadini è un fatto ampia-
mente riconosciuto. Nei sondaggi di opinione Eurobarometro realizzati
negli ultimi anni, molti degli interpellati hanno affermato di sapere poco
sull’UE e di avere la sensazione di avere scarsa influenza sui suoi processi
decisionali. La comunicazione, che è un processo a due sensi, è fonda-
mentale in una democrazia sana. La democrazia può prosperare solo se i
cittadini sanno cosa sta succedendo e possono parteciparvi attivamente.”
(Commissione delle Comunità europee, 2006)
Il libro bianco si concludeva con l’affermazione, secondo cui:
L’Unione europea è un progetto comune condiviso da tutti i livelli di
governo, da tutti i tipi di organizzazioni e da tutti i cittadini. I cittadini
hanno il diritto di essere informati sull’Europa e i suoi progetti concreti,
di esprimere le proprie idee sull’Europa e di essere ascoltati. La sfida
della comunicazione consiste proprio nell’agevolare questo scambio, il
processo di apprendimento e il dialogo.
(Ibidem)
Tuttavia, anche oggigiorno continua il senso di lontananza dei cittadini
rispetto alle istituzioni UE.
Nel frattempo, si è cercato di colmare il vacuum della costituzione
europea, grazie al Trattato di Lisbona che riforma i trattati precedenti. Si-
glato alla fine del 2007 dai rappresentanti dei 28 Stati membri, il trattato
era entrato in vigore nel 2009, con l’intento di riformare la struttura ge-
stionale, il funzionamento istituzionale e il processo decisionale dell’UE,
rafforzando la democrazia, il ruolo del Parlamento europeo e il diritto
d’iniziativa dei cittadini, affinché diventino parte attiva nella costruzio-
288 MARINA CALLONI
ne dell’Europa. Lo spazio europeo viene dunque concepito come luogo
di libertà, sicurezza, giustizia, di sostegno alla ricerca e allo sviluppo,
nell’affermazione della priorità dei diritti fondamentali. L’Articolo 1bis
riprende parte del Trattato precedente affermando che:
L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della li-
bertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del ri-
spetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a
minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società
caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza,
dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.
(Unione Europea, 2007)
Anche nel nuovo trattato, viene tralasciato il riferimento alle comuni ra-
dici ebraico-cristiane, prima proposto come collante per la costruzione
e il rafforzamento di un’Europa politicamente unita. È piuttosto riaffer-
mata la priorità di principi fondamentali comunemente condivisi, come
base di partenza per l’unione. Si opta dunque per una concezione di-
namica e post-nazionale dell’identità personale e collettiva, secondo cui
un’unione politica non si fonda necessariamente su un comune fondo
sostanziale determinato dal passato (che in Europa significa però anche
guerre e l’olocausto) o da una specifica tradizione religiosa, bensì si basa
sui «valori universali di dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e
della solidarietà» (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ora
inclusa nel Trattato di Lisbona).
L’accordo fra Stati viene qui conseguito secondo forme di consenso
per sovrapposizione (overlapping consensus) che tralasciano elementi di
insanabile disaccordo, come teorizzato nel liberalismo politico secondo
John Rawls (Rawls, 2012), al fine di conseguire un’intesa ragionevole.
L’identità culturale e politica è dunque concepita non come base onto-
logica impermeabile, ma come un processo continuo e fluido di trasfor-
mazione, nella libertà di mutare la propria identità politica, quale senso
di appartenenza, indipendentemente dalla precedente origine nazionale,
etnica o religiosa, così come sostiene anche Seyla Benhabib (Benhabib,
2005). Lo slogan finale dell’UE simboleggia tale processo costitutivo:
Unity in Diversity, che significa compatibilità fra culture multiple, nel
rispetto reciproco e nel senso di una comune appartenenza da creare
insieme.
La costruzione dell’identità culturale e politica è tuttavia un costrutto
dialettico dalle due facce. È infatti determinata da un duplice processo
che da una parte significa inclusione/riconoscimento dell’essere parte
QUALE IDENTITÀ PER L’UNIONE EUROPEA? 289
di, mentre dall’altra implica differenziazione/esclusione dei non-appar-
tenenti.
Se l’identità europea si basa sulla compatibilità tra diversità culturali
e sulla condivisione di principi normativi condivisi, come possiamo al-
lora confrontarci e dialogare alla pari con “alterità”, ovvero con popoli e
cittadini non-UE, nel momento in cui ci si trova a definire ciò che i cit-
tadini europei sono e quali siano i loro punti in comune, tali da renderli
cogenti e contraddistinguibili dagli altri? Come possiamo sfuggire alla
retorica di definire “la nostra identità europea come diversa da altre cul-
ture”? Come possiamo evitare il pericolo di definire “noi europei” come
diversi o migliori rispetto agli “altri”, magari non-occidentali, dalle di-
verse culture e religioni? Sono queste le sfide principali che dobbiamo
affrontare insieme, ancora una volta, se vogliamo vivere in un’Europa
intesa come spazio inclusivo delle opportunità e non come una fortezza
esclusivista.
Tuttavia, se queste sono riflessioni di principio, molti sono i proble-
mi che ancora rimangono nella difficile costruzione della cittadinanza
europea, in senso culturale e politico. Infatti, le principali questioni che
erano emerse in nuce attraverso i risultati negativi conseguiti nei due
referendum popolari per la costituzione europea – ovvero, le costrizio-
ni economiche imposte dalle élite al governo comunitario e la distanza
dei cittadini rispetto ai luoghi del potere – piuttosto che attenuarsi nel
corso degli anni sono invece andate sempre più accentuandosi a ragione
o a torto. Si sono infatti aggravate al punto da portare a una crisi tanto
grave, così da pregiudicare l’intero progetto dell’UE, soprattutto per via
dei profondi disaccordi fra governi nazionali su principi che dovrebbero
piuttosto regolare politiche comuni.
Le divergenze sulle politiche dei confini e dell’accoglienza di profu-
ghi ne sono la prova più lampante e insieme più temibile per il futuro
dell’Unione Europea, ora messa in crisi dal decrescimento dei suoi Stati
membri. Col referendum popolare del 23 Giugno 2016, i cittadini del
Regno Unito hanno infatti deciso l’uscita dalla UE (di cui faceva par-
te fin dal 1° gennaio 1973), ovvero la Brexit, con la vittoria delt Leaveal 51,9%. Tale risultato è un segno inequivocabile della disaffezione di
gran parte dei cittadini britannici verso un progetto politico in corso, in-
dipendentemente dalle motivazioni di fondo che hanno determinato la
decisione (dalla retorica populista a carenze informative) e nell’assenza
di certezze verso quelle che potrebbero essere le rischiose conseguenze
recessive che tale scelta comporta, tanto per la popolazione britannica,
quanto per i cittadini UE.
290 MARINA CALLONI
3. La crescente critica dei cittadini verso l’Unione Europea
La costruzione politica dell’Unione Europea si è dunque inceppata, così
come la costruzione di una comune identità culturale sembra aver su-
bito una battuta d’arresto, a fronte della rinascita di nazionalismi e di-
saccordi. I cittadini sembrano nutrire una crescente indifferenza se non
astio nei confronti dell’UE, della quale non accettano politiche econo-
miche di austerità, decisioni sull’immigrazione e le frontiere, accentra-
mento del potere in mano a poche élite, senso di lontananza periferica
dai luoghi decisionali della politica comunitaria. E tali sentimenti critici
sono spesso nutriti e rinfocolati da governi locali per interessi di voto e
di supremazia nazionalista. Problemi reali si assommano dunque senza
soluzione di continuità a posizioni ideologicamente strumentali.
Eppure, da oltre due decenni godiamo di una comune cittadinanza
e di politiche sociali comunitarie che hanno avuto un impatto tale sulla
nostra vita, tanto da non accorgercene quasi più. Si tratta di un’insi-
ta contraddizione fra l’essere nei fatti cittadini europei, ma nello stesso
tempo esserne dubbiosi.
La cittadinanza dell’Unione risale al 1992. Grazie al Trattato di Maa-stricht, godiamo di una serie di diritti:t
Articolo 8.1. È istituita una cittadinanza dell’Unione. È cittadino dell’U-
nione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. 2. I cittadini
dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti dal pre-
sente trattato.
Articolo 8 A.1. Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le li-
mitazioni e le condizioni previste dal presente trattato e dalle disposizioni
adottate in applicazione dello stesso (...).
Articolo 8 B.1. Ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato mem-
bro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni
comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei
cittadini di detto Stato. (...)
Articolo 8 C. Ogni cittadino dell’Unione gode, nel territorio di un paese
terzo nel quale lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è rappre-
sentato, della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di
qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato.
(Unione Europea, 1992)
La cittadinanza UE si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la so-
stituisce. Essa integra e amplia dunque i diritti già tutelati dagli Stati di
QUALE IDENTITÀ PER L’UNIONE EUROPEA? 291
appartenenza, anche grazie allo ius domicilii, che garantisce diritti anche
di voto nei luoghi in cui si è domiciliati. Oltre a tali garanzie, il cittadino
UE può appellarsi a istituzioni comunitarie, come ad esempio presentare
petizioni al Parlamento europeo, informare il mediatore europeo di casi
di cattiva amministrazione, scrivere a qualsiasi istituzione UE e parteci-
pare a concorsi pubblici per incarichi in uffici UE.
Il Trattato di Lisbona integra il Trattato di Maastricht, riconoscendo – a
causa del fallimento del trattato sulla costituzione europea – una speci-
fica modalità di partecipazione attiva, ovvero l’“iniziativa dei cittadini”.
Un milione di cittadini, appartenenti a «un numero significativo» di Stati
membri, possono infatti chiedere alla Commissione di presentare pro-
poste di legge in settori comunitari.
La definizione di cittadinanza europea ha dunque sancito il passaggio
da un’idea di appartenenza a un singolo Stato a una determinazione po-
litica sovra-nazionale, che da una parte implica una cessione di sovranità
da parte degli Stati membri, mentre dall’altra precede un ampliamento
dell’area di diritti e di opportunità per i singoli cittadini appartenenti.
Ma non solo. Le “facilitazioni” dovute a un’estensione dei diritti civili e
politici, nella riaffermazione della centralità delle libertà fondamentali,
hanno creato comunanze di politiche sociali e di modalità di vita, grazie
alle quali ci si sente sempre meno “stranieri” o estranei rispetto a un
tempo, quando si va a visitare o a vivere al di fuori del proprio paese
d’origine.
Eppure tali comunanze politiche, culturali ed esistenziali non sem-
brano essere riuscite a scongiurare le vedute particolaristiche di molte
nazioni, così come la disaffezione di molti cittadini nei confronti del
progetto dell’UE, anche causa dei problemi reali, sopra menzionati.
Di fatto, la nostra vita quotidiana fruisce continuamente dell’attua-
zione di decisioni comunitarie che ci passano perlopiù inosservate. I
modi di vita sono ormai strettamente legati a scelte comunitarie votate e
prese dal Parlamento, Commissione e Consiglio UE, ma ciò passa spes-
so inosservato: dal cibo che mangiamo, a procedure che seguiamo, alla
tutela di pazienti e consumatori, al fermarci o al transitare su strade con
rotatorie, e così via. Si tratta di notizie e fatti che giornalisti spesso rele-
gano a piccole notizie di cronaca, pubblicate erroneamente sulle pagine
di politica internazionale, alla stregua di ciò che riguarda Paesi dell’A-
merica, dell’Africa o dell’Asia. E il linguaggio gergale, spesso enfatizzato
dai media, non ci aiuta a ben rappresentare la cittadinanza comune,
come quando ad esempio si afferma: “andare in Europa”, “Bruxelles
ha deciso” e così via. Nello stesso modo, il “gergo europeo” tecnicistico,
292 MARINA CALLONI
utilizzato da politici e funzionari comunitari, non aiuta certo ad avvici-
nare i cittadini alle istituzioni comunitarie.
Un’ulteriore influenza esercitata dall’Unione Europea, ma spesso ce-
lata nel dibattito pubblico italiano, riguarda la legislazione comunitaria.
Il Parlamento deve infatti sempre ratificare le direttive UE e dunque
promuovere leggi ad esse compatibili. Il governo deve poi applicarle.
I cittadini percepiscono dunque le leggi votate e le conseguenze delle
loro attuazioni come provenienti principalmente da decisioni nazionali,
quando derivano piuttosto da quanto deliberato dal Parlamento, Consi-
glio e Commissione UE.
Il recepimento di direttive UE è infatti obbligatorio, sulla base dei
trattati firmati, per cui il diritto comunitario è “superiore” a quello na-
zionale. Ad esempio, nel 2013-14 l’82% dei decreti legislativi del gover-
no hanno riguardato l’attuazione di direttive UE. In particolare, dal 15
marzo 2013 alla fine 2014, dei 125 provvedimenti deliberati dal Consi-
glio dei ministri ben 57 hanno riguardato ratifiche di trattati, accordi e
convenzioni internazionali. Inoltre, le commissioni della Camera hanno
dedicato ben 182 sedute ad attività connesse alla promozione di politi-
che europee. Camera e Senato dedicano dunque una parte consistente
delle loro attività a questioni UE, non solo in senso “ricettivo”, ma anche
attraverso audizioni, incontri, commissioni ecc., in modo da poi armo-
nizzare la nuova norma con l’impianto legislativo italiano.
Ci troviamo dunque di fronte ad una sorta di paradosso: le politiche
sociali connesse a direttive UE continuano a essere ratificate, attuate e a
influenzare le nostre vite, a fronte di critiche crescenti rispetto alla co-
siddetta troika che avrebbe rimosso lo spirito etico e sociale costituente
dell’Europa.
L’accrescimento della disaffezione dei cittadini nei confronti del la-
boratorio dell’Unione Europea è anche dovuto alla svolta tecnocrati-
ca ed economicistica, impressa negli ultimi anni dalle élite europee al
potere, che hanno allontanato sempre più i cittadini dall’idea di una
sostanziale appartenenza all’Unione Europea, e che hanno creato nuove
politiche dei “muri”, per far fronte all’arrivo di profughi che scappano
da guerre, non lontane da noi.
Inoltre, con la Brexit, lo spirito del processo estensivo dell’UnionetEuropea con la creazione di un ampio spazio politico comune, subisce
un duro colpo. Era iniziato nel 1992 col Trattato di Maastricht, poco tdopo il collasso dei sistemi socialisti e l’inizio della transizione demo-
cratica, e a un anno dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, che aveva
indotto un radicale riassetto geo-politico del continente e delle zone di
influenza, determinando un doppio e opposto processo costitutivo. Da
QUALE IDENTITÀ PER L’UNIONE EUROPEA? 293
una parte vi era la formazione di nuovi Stati nazionali in Europa (dalla
Repubblica Ceca e la Slovacchia, alla Slovenia, fino alla Lituania, Letto-
nia ed Estonia), dall’altra vi era un processo incrementale di allargamen-
to dell’Unione Europea verso Est, che nel 2004, 2007 e 2013 è riuscita
a comprendere 11 diversi Paesi, fra cui repubbliche ex-sovietiche, Stati
vincolati al Patto di Varsavia e nazioni riferentesi alla coalizione di Paesi
non-allineati.
Non va tuttavia dimenticato che la crisi del progetto UE non è solo
determinata da cause interne, fin qui accennate, bensì anche da contin-
genze internazionali connesse alla globalizzazione finanziaria e al terro-
rismo internazionale che hanno inasprito problemi giù esistenti.
Ne è emerso un crogiolo di problematiche che hanno portato allo
scontro fra Paesi membri, accentuando ineguaglianze di influenza.
I. Austerità. La politica di austerità è stata imposta a Paesi indebitati
e con scarsa crescita, come nel caso della Grecia, sulla base di rigidi pa-
rametri, che hanno aggravato l’impauperimento dell’intera popolazione.
In tal caso, è venuta alla luce un’Europa a doppia velocità con Stati
più potenti (come la Germania) che determinano specifiche logiche di
bilancio e di sviluppo. Con ciò è divenuto sempre più visibile un pro-
blema strutturale e insieme politico-culturale: senza una vera coesione
sociale e un’unione politica della UE, la priorità di politiche economiche
e monetarie non condivise non fanno altro che danneggiare il senso di
appartenenza all’Unione da parte dei Paesi coinvolti.
II. Confi ni. Il conflitto sui confini, a seguito dell’aumento di immigra-
ti (economici e forzati), che cercavano di raggiungere Paesi UE attraver-
so l’area balcanica e mediterranea, è stato un altro motivo di profondo
conflitto fra Stati UE. Alcuni Paesi hanno eretto muri contro quella che
considerano una “invasione” del suolo nazionale, non facendo alcuna
distinzione fra immigrati economici (il cui ingresso è regolato da leggi
nazionali) e richiedenti asilo (protetti dalle Nazioni Unite, secondo la
Convenzione di Ginevra sullo status del rifugiato). Tale situazione è ag-
gravata tanto più dal fatto che non esiste una legge comune sull’immi-
grazione economica, mentre le regolamentazioni UE sul diritto d’asilo si
riferiscono principalmente al Regolamento di Dublino II (che prevede laIrichiesta d’asilo nel primo Stato di accoglienza). Tale normativa ha però
mostrato i suoi limiti, poiché – a causa della posizione geografica – al-
cuni Paesi sono maggiormente interessati all’arrivo di migranti che altri
(Calloni, Marras, Serughetti, 2012). Le proposte per la suddivisione di
richiedenti asilo fra i vari Paesi, la costituzione di hotspot e una diversa tpolitica di cooperazione/ intervento internazionale non sembrano però
aver ottenuto l’approvazione dei più.
294 MARINA CALLONI
III. Diritti fondamentali. Negli ultimi anni sono state ravvisate infra-
zioni rispetto ai diritti fondamentali, a partire da quelli di stampa e di
libera espressione, ritenuti vincolanti per tutti gli Stati dell’UE. Si è fatto
dunque ricorso – nel caso dell’Ungheria e della Polonia – al meccanismo
per la tutela dello Stato di diritto nei Paesi membri, che può implicare
la sospensione del diritto di voto del Paese interessato nel Consiglio
Europeo. La fragilità dell’UE si è tuttavia dimostrata nel non aver saputo
contrastare possibili abusi e derive illiberali, con l’introduzione di det-
tami potenzialmente autoritari in alcune costituzioni nazionali, come il
respingimento di profughi alle frontiere e l’erezione di muri ai confini.
IV. Sicurezza. La questione dei confini è divenuta una delle principali
cause di contrasto fra i Paesi membri, su cui si giocherà il futuro stesso
dell’UE. Ma il problema della sicurezza non è soltanto connessa all’ac-
coglienza o al respingimento dei profughi via terra e per mare, bensì
soprattutto al contrasto del terrorismo jihadista, a causa degli attentati
commessi in vari Paesi UE. La questione della sicurezza interna ed ester-
na ha dunque sollevato il problema della necessità di riformulare una
più unitaria politica estera e la formazione di una polizia comunitaria.
Su tale sfida si gioca anche la necessità di non trasformare l’UE in una
fortezza, quando il Mar Mediterraneo UE è diventato il più pericoloso
confine al mondo, con oltre 3800 morti nel 2016 di cui si ha notizia, ai
quali si aggiungono coloro la cui scomparsa non è stata denunciata o di
cui non si avrà più notizia, sepolti in fondo al mare.
V. Disunifi cazione. È il processo iniziato con la Brexit che si teme pos-
sa essere seguito da altri Stati membri.
L’Unione Europea si trova dunque ad affrontare innumerevoli problemi
sia interni che esterni, nel tentativo di ripensare una nuova fondazione.
Sarà allora cruciale mettere all’opera anche facoltà creative, al fine di
ripensare nuove forme di politica e di cultura, a partire da un maggior
coinvolgimento dei cittadini, di fatto e non solo in teoria. Il cambiamen-
to politico deve dunque essere culturale, se si vuole ripensare l’idea di
“egemonia” europea (in senso gramsciano), come ad un processo ca-
pace di creare benessere e pace attraverso il rispetto dei diritti umani,
l’innovazione, l’inclusione e la coesione sociale. La solidarietà sociale si
forma su un comune senso di appartenenza culturale e politica, dove lo
sviluppo economico e le politiche sociali siano compatibili con le libertà
fondamentali e lo sviluppo delle capacità umane.
Proprio per questo vanno seriamente prese in considerazione le criti-
che costruttive, mosse da più parti contro l’inflessibile tecnocrazia della
burocrazia e dei governanti UE.
QUALE IDENTITÀ PER L’UNIONE EUROPEA? 295
Ad esempio, negli ultimi anni, economisti come Amartya Sen e filo-
sofi come Jürgen Habermas hanno messo in luce i limiti di legittima-
zione della democrazia UE e la necessità di far “buon uso della ragion
pubblica”.
Amartya Sen ha spesso espresso riflessioni e preoccupazioni sull’UE
non solo per motivi professionali, bensì anche per ragioni squisitamen-
te familiari, avendo sposato in prime nozze Eva Colorni (deceduta nel
1985), figlia di Eugenio e Ursula Hirschmann (che sposerà poi Altiero
Spinelli), per cui molte furono le discussioni avute con Spinelli sul dise-
gno federalista.
La questione del deficit democratico dell’UE è ben presentata da Sen
in un intervento su “I serpenti e le scale d’Europa” “(The snakes and ladders of Europe). Il titolo riprende il nome di un gioco indiano, al fine
di raffigurare i pericoli (i serpenti) e le opportunità (le scale) che l’UE
si trova ad affrontare nell’età della recessione globale e nella crisi delle
politiche interne. Il gioco indiano, simile a quello dell’oca, prevede che
siano tirati dadi con l’intento di raggiungere una serie di scale sparse
lungo il percorso, evitando di precipitare e di farsi ingoiare dai serpenti.
La metafora è evidente: l’UE deve cercare di non cadere in bocca al ser-
pente, facendosi distruggere.
Evitare il campanilismo e far buon uso della ragione pubblica sono que-
stioni centrali, se si vogliono risolvere molti dei più difficili problemi che
attanagliano oggi il mondo. E tale necessità è particolarmente forte in
Europea, proprio in questo momento. Tale sfida è tanto più applicabile
all’Europa, considerata l’urgenza della crisi economica che si trova oggi
a dover affrontare. Non da meno vi è però la forte necessità di fare un
uso non parrocchiale della ragione pubblica, al fine di affrontare altre
gravi avversità, quali le minacce allo sviluppo sostenibile, l’integrità am-
bientale, che provengono da cambiamenti economici e sociali, che sono
attualmente in corso a livello mondiale. (...) Ciò che è necessario è un
maggior processo di “ragion pubblica” (public reasoning) su ciò che è
fattibile, su ciò che ha senso a livello economico, e ciò che è eticamente
e politicamente accettabile. Questo deve iniziare col contenimento im-
mediato del potere unilaterale esercitato dai capi (top-dogs) finanziari che
detengono l’attuale leadership economica dell’Europa, che ha così gra-
vemente emarginato la democrazia europea.
(Sen, 2012)
Mettendo al centro la forza del public reasoning per una rinascita del
progetto europeo, Sen ribadisce la necessità di un “governo attraverso
la discussione” (government by discussion(( ) contro le visioni dogmatiche e
nazionalistiche. Ma tale azione implica però «un’economia dalle ampie
296 MARINA CALLONI
visioni e una politica democratica capace (“both broad minded econo-
mics and capacious democratic politics”)» (Sen, 2012).
Come Sen, anche Habermas si è più volte espresso – in numerosi
studi e interventi nel dibattito pubblico – contro la tecnocrazia e le po-
litiche economiche dell’UE che precludono la partecipazione attiva dei
cittadini, accentuando le differenze socio-economiche fra le popolazioni
europee.
Fra le varie dispute iniziate da Habermas, si ricorda l’Europa-Streit,tuna polemica iniziata contro certi intellettuali di sinistra che a parere
dell’autore rimarrebbero nostalgicamente legati a ideologie nazionaliste,
che furono alla base delle ragioni che sostennero l’inizio della prima
guerra mondiale.
La polemica parte dal libro di Wolfgang Streeck su Gekaufte Zeit(Tempo comprato), dove il sociologo sostiene la tesi secondo cui la Ue
è la principale fautrice del radicalismo neoliberale, che ha ingannato
anche gli euro-idealisti di sinistra, che continuano a credere al sogno
dell’unità europea, quando la realtà è diversa. A parere di Habermas,
bisogna piuttosto rilanciare un processo democratico per l’Europa, la
cui legittimazione provenga dal basso:
Questo blocco può essere forzato se i partiti europeisti si trovano insieme
al di là dei confini nazionali per lanciare campagne contro questa falsa
trasposizione di problemi sociali in problemi nazionali. L’osservazione di
Ralf Dahrendorf, secondo cui i problemi tedeschi sono sempre stati pro-
blemi nazionali e non problemi sociali, acquista oggi una inattesa attuali-
tà. La tesi che “nell’Europa occidentale di oggi il nazionalismo non è più il
maggior pericolo, e meno che mai quello tedesco” (256) la considero po-
liticamente una stoltezza. Che in tutte le nostre sfere pubbliche nazionali
manchino scontri di opinione su alternative politiche poste correttamente
posso spiegarmelo solo con i timori dei partiti democratici nei confronti
dei potenziali politici di destra. Le controversie polarizzanti sulla politica
dell’Europa possono essere chiarificatrici piuttosto che sobillatrici solo
se tutte le parti in causa ammettono che non ci sono alternative prive di
rischi e nemmeno alternative gratuite [11]. Invece di aprire falsi fronti
lungo i confini nazionali sarebbe compito di questi partiti distinguere per-
denti e vincenti della crisi per gruppi sociali che, indipendentemente dallaloro nazionalità, risultano di volta in volta più o meno colpiti.
(Habermas, 2013)
Nelle diverse raccolte pubblicate negli ultimi anni – Ach, Europa. Kleine politische Schriften XI (2008), I Zur Verfassung Europas. Ein Essay (2011),
Im Sog der Technokratie. Kleine politische Schriften XII (2013) – accanto I
QUALE IDENTITÀ PER L’UNIONE EUROPEA? 297
a critiche radicali Habermas cerca anche di una diversa immaginazione
politica e procedura democratica, nell’intento di prospettare un più soli-
do progetto europeo che sembra ora andare in frantumi.
Nella traduzione italiana del testo del 2011, pubblicata col titolo di
Questa Europa è in crisi, Habermas ritiene che:
L’Unione Europea potrà stabilizzarsi a lungo termine soltanto se sotto la
coazione degli imperativi economici farà i passi ormai indispensabili per
coordinare le politiche essenziali non nello stile burocratico-gabinettisti-
co sinora consueto, ma percorrendo la via di una sufficiente ratificazione
giuridica democratica.
(Habermas, 202: 51)
Sul problema della crisi del potere legislativo e della fuoriuscita dalla
democrazia in Europa si pronunciano anche Dardot e Laval, afferman-
do che:
Si tratta in atri termini di fare dell’Europa un vero politico. Un tale com-
pito impone di invertire la logica dell’espertocrazia che ha prevalso trop-
po a lungo in materia di costruzione europea (basta ricordarsi la moda
del’governo tecnico’). Al contrario, il comune politico presuppone il pri-
vilegio del punto di vista dell’utente su quello dell’esperto e del tecnico.
(Dardot e Laval, 2015: 58-59)
Del resto, la UE è come un Giano bifronte, dalle due facce, tesa fra
capitalismo e democrazia, come suggerisce Hauke Brunkhrst nel libro
omonimo (Brunkhorst, 2014). Ma prima che gli interessi di mercato, le
carenze legislative, le crisi di legittimazione e gli influssi esterni dei global players aprano le porte a incontrollabili poteri politici ed economici di
tipo liberistico e autoritario, bisogna dunque ripensare per motivi ideali
e materiali a quello che non è un sogno, bensì una realtà che sta nelle
nostre facoltà, ovvero di concretizzare una Unione Europea democrati-
ca, libera e prospera.
4. Conclusioni in bilico.
Nel nuovo quadro globale, è però evidente che l’Unione Europea, come
istituzione trans-nazionale sempre in fieri e in bilico, non potrà conti-
nuare a esistere come tale, se non sarà capace di ripensare la propria
struttura/funzione/missione tanto all’interno, quanto nell’ambito di più
ampie relazioni internazionali, rivedendo il nesso e la priorità fra poli-
tica ed economia che hanno evidenziato palesi limiti di legittimazione
298 MARINA CALLONI
democratica. Dovrà anche saper coniugare la sicurezza e il rispetto delle
libertà fondamentali degli appartenenti con i diritti umani di chi cerca
di scappare dalla violenza dei propri Paesi. Anche l’avanzata di strategie
populiste e di tendenze tecnocratiche – che corrono il rischio di sfociare
in derive autoritarie, difficilmente controllabili – dovranno essere affron-
tati con nuovi processi di inclusione e di partecipazione dei cittadini.
La coesione sociale e la solidarietà verso l’interno così come verso
l’esterno non possono essere concepite e praticate senza che ci sia una
solida base comune di principi e di valori, ma soprattutto senza che ci
sia una cultura politica e sociale condivisa. Ciò può avvenire solo grazie
ad una costante discussione comune – ovvero a un continuo public re-asoning – in grado di creare e cementare una cittadinanza attiva, dove i –partecipanti sono uniti nella diversità e nel rispetto reciproco.
Si tratta della prospettiva di “un’Europa libera e unita” (e solidale),
come recitava il Manifesto di Ventotene, secondo il quale lo Stato nazio-
nale è il luogo di forme di politica protezionistica e insieme aggressiva
che va superata, se si vogliono evitare nuovi conflitti. Il Manifesto non
era però per gli autori un sogno, ma un progetto politico da costruire,
ben consapevoli delle rovine da partivano, delle sconfitte che si sareb-
bero inevitabilmente avute, ma anche delle potenzialità intrinseche che
tale visione conteneva e che spingevano alla realizzazione, credendoci.
Noi siamo intanto (diventati) cittadini dell’Unione Europea: più che
crederci, dobbiamo ora continuare ad esserlo, praticando le libertà, co-
struendo le opportunità, includendo le alterità, contrastando ogni forma
di autocrazia e autoritarismo.
Argomentando
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 301-328
Cosimo I. Dalla ragion di stato all’assolutismo
ANNA RITA GABELLONE
1. L’ascesa di Cosimo I
Questo studio intende ripercorrere il rilevante progetto politico realizza-
to nel Cinquecento da Cosimo I de’ Medici, attraverso le categorie poste
in essere da Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes. Prima di rintrac-
ciare un denominatore comune tra questi autori, è doveroso ricordare
che su tale argomento vi sono già pregevoli studi, ma chi scrive ritiene
che le categorie utilizzare dagli autori sopra citati siano oggi importanti
non solo sul piano teorico, ma anche sul piano della prassi, in ordine al
superamento della crisi che la politica sta attraversando in gran parte del
mondo contemporaneo.
È difficile riuscire ad approfondire il pensiero e l’azione politica di un
uomo di Stato se non si tiene conto adeguatamente del contesto in cui si
trova ad operare. Lo studio sul pensiero politico di Cosimo I racchiude
tutte le categorie più importanti dello Stato moderno: dalla ragion di Stato che comprende il pensiero di Machiavelli e Bodin fino alla realiz-
zazione dell’assolutismo monarchico teorizzato solo successivamente da
Hobbes. Il cambiamento di governo da repubblica a principato intra-
preso da Cosimo I per la città di Firenze è sicuramente la testimonianza
più diretta della realizzazione pratica delle dottrine che hanno fondato
lo Stato moderno.
Durante il regno di Cosimo, ossia dal 1537 al 1574, furono realizza-
te riforme così notevoli da cambiare il volto e il ruolo di Firenze. A tal
proposito, è stata decisiva la linea che il futuro principe ha seguito in
politica estera soprattutto per la stabilità del principato. Egli ha cercato
di riconquistare l’indipendenza dalle potenze esterne: uno degli obiettivi
più importanti che ha realizzato è stato quello di raggiungere l’autono-
mia dall’impero ispano-asburgico, sia attraverso l’appoggio della Fran-
cia, sia riconoscendo, sin dall’inizio, il predominio imperiale; condizioni,
queste, che lo avrebbero portato ad attuare, sia pure gradualmente, una
politica indipendente.
A tal proposito, Francesco Sansovino ricorda che Cosimo eresse nel-
la città sontuose e importanti costruzioni, arricchite di spazi con antiche
302 ANNA RITA GABELLONE
statue. Questo momento di splendore artistico fiorentino corrisponde
all’espansione e alla legittimazione politica di Cosimo in Europa anche
e soprattutto dopo il suo matrimonio con Eleonora Toledo.
La trasformazione civica servì, tra l’altro, a promuovere Firenze come
uno dei più importanti centri di potere nel sedicesimo secolo in Italia.
E non è un caso, infatti, se in tutti i ritratti Cosimo è raffigurato come il
fondatore di una dinastia e il capitano di un popolo.
In questo regno si sviluppò una corte politicamente attiva attraverso
il riconoscimento ufficiale della religione e un contesto socio-culturale
di prim’ordine. Il governatore, da subito, si presenta come uomo tenace,
decisivo, implacabile, ambizioso e determinato ad instaurare la pace so-
prattutto attraverso un’attenta politica di alleanze. Sotto questo aspetto,
si può dire che Cosimo I abbia realizzato non solo le «virtù» politiche del
Principe di Machiavelli, ma abbia posto altresì le basi dell’assolutismo
di Hobbes, proprio attraverso la realizzazione della sua azione politica,
come si vedrà meglio in seguito.
Pace, prosperità ed espansione territoriale caratterizzano il regno di
Cosimo I, e per questo egli è considerato come uno dei principi più
importanti d’Italia, al punto da essere addirittura paragonato a gran-
di personaggi storici o mitici, come Augusto, Apollo, Ercole, Mosè. La
fastosità e la regalità della sua corte ne dimostrano la potenza e il con-
trollo assoluto del potere regio e ne spiegano, al tempo stesso anche
la relativa durata, dal momento che la dinastia fondata da Cosimo ed
Eleonora durerà fino al 1737. In termini storici, la ricchezza dei Medici
era precaria dal 1530, Cosimo riesce a legittimare il suo potere attraver-
so la concezione della sacralità del re, come avviene nella conquista di
Siena del 1560. Il 5 marzo 1570 Cosimo I viene incoronato Granduca
di Toscana e questo momento segnerà per lui la più grande attestazione
del suo potere, a cui seguirà il tentativo di estendere la sua autorità ben
oltre Firenze.
2. Il ruolo di Maria Salviati nella formazione e nel governo di Cosimo I
La moderna storiografia considera la sua politica estera un grande suc-
cesso e una notevole conquista sul piano politico e diplomatico, poiché
Cosimo, come s’è già accennato, seppe ottenere, nonostante la domina-
zione spagnola, una forte autonomia che gli consentì scelte politiche in-
dipendenti e, inoltre, seppe assicurarsi l’estensione del proprio dominio.
In ragione di ciò, la scelta di unirsi ad Eleonora Toledo è stata veramente
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 303
importante, così come aveva previsto sua madre Maria Salviati. A tal
proposito chi scrive ha ritenuto importante evidenziare il ruolo che que-
sta donna ha avuto per l’ascesa di Cosimo I al comando di Firenze. È
sicuramente arrivato il momento di affidare il giusto posto nella storia a
questa donna, la cui figura è stata per lungo tempo trascurata dagli studi
sulla politica medicea nei primi anni del Cinquecento.
La parola Rinascimento può indicare la grande renovatio culturale e
civile,
quel rifiorire, dell’arte e del pensiero; quel rigoglioso sviluppo di ogni at-
tività dello spirito; quella concezione del vivere tutta incentrata nel con-
cetto di umanità intesa come libertà, pensosa dell’interiorità ove l’uomo
celebra veramente se stesso; quella brama ansiosa di una vita piena e
santa nella sua libera esplicazione1.
Quello del Rinascimento è un mito che ha generato progettualità, un
mito ottocentesco usato come strumento storiografico e ideologico. Re-
stituire le donne alla storia significa certamente riformulare in modo
profondo l’intera immagine di un periodo importante.
Da un’idea di tempo legato al meccanismo delle successioni dinasti-
che si è passati ad un’immagine della storia attenta soprattutto all’affer-
marsi e all’evolversi di processi diversi: sociali, culturali, religiosi, econo-
mici e così via. Se vogliamo comprendere la complessità di un periodo
dovremmo abituarci a considerare tutti i ruoli. La visione globale risul-
terà meno nitida ma certamente più ricca.2
Chi era Maria Salviati e qual è stato il suo apporto concreto alla sto-
ria del pensiero politico moderno? Questa donna è conosciuta perché
moglie di Giovanni de’ Medici, noto come Giovanni dalla Bande Nere,
e madre di Cosimo I, il patriarca del ramo granducale dei Medici. Il suo
matrimonio, 15 novembre 1516, fu particolarmente importante, perché
per suo tramite si riunirono il ramo principale e quello popolano o cadet-
to della famiglia de’ Medici: per questo motivo, ma non solo, Cosimo è
stato chiamato a guidare Firenze dopo la scomparsa del Duca Alessan-
dro de’ Medici, dando così vita al ramo granducale della dinastia.
Il rapporto tra Cosimo I e Maria Salviati va oltre il legame che s’in-
staura naturalmente tra madre e figlio, in quanto sono diverse le testi-
monianze in cui si evince che Maria Salviati, rimasta vedova quando il
proprio figlio aveva solo sette anni, è riuscita ad essere una guida morale,
culturale, spirituale e, soprattutto, politica per il futuro princeps di Firen-
1 E. GARIN, Il Rinascimento italiano, Bologna, Il Mulino 1980, p. 11.2 Cfr. R. VON ALBERTINI, Firenze dalla Repubblica al Principato. Storia e coscienza politica, prefazione di F. CHABOD, Einaudi, Torino 1955.
304 ANNA RITA GABELLONE
ze. A tal proposito, ricordiamo in particolare il ritratto più antico, quello
con il piccolo Cosimo, commissionato dallo stesso nel 1537, quando era
già salito al potere. L’opera rappresenta proprio la legittimazione politi-
ca del Granduca di Toscana: infatti Cosimo è rappresentato con un raf-
finato gioco di mani che lo intrecciavano alla madre, ponendo l’accento
su quanto il loro legame sia stato rilevante proprio nel momento del
suo più grande riconoscimento politico3. A parere di chi scrive bisogna
rintracciare nel percorso programmato da Maria Salviati per suo figlio
un progetto politico ben determinato su vari fronti, tanto da riuscire ad
attuare il «buon governo» mediceo instaurato proprio da Cosimo I.
Una delle armi vicenti di Maria Salviati è essere stata in grado di
coniugare, per l’ascesa in Firenze del figlio, i sottili rapporti che inter-
corrono tra politica e religione. Infatti, uno dei mezzi fondamentali di
espressione mentale e fisica per una donna della prima età moderna è
senza dubbio la vita religiosa nelle sue varie forme4. Non bisogna dimen-
ticare che questa donna appartiene ad una famiglia importante compo-
sta da diversi cardinali e vescovi, di conseguenza, ha potuto trarre tutti
i benefici economici e di sostegno politico che la Chiesa ha dato nella
politica di Cosimo I. Non è tutto5.
A tal proposito è importante esaminare quanto Maria Salviati sia ri-
uscita non solo a salvare il suo matrimonio ma anche le sue economie,
spesso messe a repentaglio dal marito, attraverso scelte fondamentali
che l’hanno portata ad avere appoggi politici importanti della società del
suo tempo, fino al grande sostegno che le ha dimostrato il papa Leone
X, che era suo cugino.
Lei era saggia, tenera, cauta amministratrice di un matrimonio non
immenso, cercava il benessere borghese, desiderava un figlio che pos-
sibilmente riuscisse soprattutto ad emergere nel suo contesto politico
anche attraverso l’amore per l’istruzione. I fatti le hanno dato ragione. È
utile riportare tra tante lettere che Maria inviava al marito una in parti-
colare, datata 22 settembre 1520, da cui emerge chiaramente il predo-
minio della donna nelle decisioni di politica familiare ed economica. In
una lettera, Giovanni domanda del figlio e Maria risponde:
3 Cfr. M. VANNUCCI, Le donne di casa Medici, Newton Compton Editori, Roma 1999;iCESARE MARCHI, Giovanni dalle Bande Nere, Rizzoli, Milano 1981.4 Cfr. G. GINZBURG, Premessa giustifi cativa, in «Quaderni storici», 14 (1979) 41, p. 397.5 Cfr. C. MARCHI, Giovanni Dalle Bande Nere. Giovanni de Medici: il più celebre capitano di ventura di tutti i tempi, Rizzoli, Milano 1982. i
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 305
Voi lo amate ancor meno di quanto amate me mentre io vi amo molto
più di quanto mi amiate, è questa la mia sventura. Sarete causa che io
con le proprie mani vi occiderò6.
Il 5 dicembre 1523, Maria Salviati scrisse a Niccolò Ridolfi, cugino di
Maria e arcivescovo di Firenze, e chiese:
non le sia grave levare el mio signor da tanti interessi et depositi quanti si
trova addosso, ad ciò che non li mangino interamente quello poco che li
è restato. Come liberare Giovanni dai debiti?7
Maria scrisse al papa Leone X per suggerire una soluzione alla sua si-
tuazione economica, disastrata dallo stile di vita del marito, attraverso
«una rendita direttamente collegata all’entrate pontificie». Il prestigio di
Maria Salviati è testimoniato proprio da questi scritti che fanno com-
prendere appieno quanto questa donna sia stata capace nel condurre il
proprio figlio ad un ruolo di così grande potere.
Il 9 marzo 1524, da Roma, Maria manda una buona notizia al marito
sono stata due volte dal papa mi ha rassicurato che non cessa mai di
pensare a voi, e allo stato che un giorno o l’altro vi darà, in Lombardia
o in qualche altra regione. Abbiamo parlato anche dei vostri debiti, che
secondo Clemente ammontano a seimila ducati. Niente paura, li pagherà
tutti lui contento?8.
Questa è l’ennesima prova di quanto Maria Salviati abbia assunto un
ruolo fondamentale non solo nelle relazioni familiari ma anche e soprat-
tutto in quelle politiche e culturali. In questo modo è stata in grado di
tessere rapporti determinanti per il futuro di suo figlio, ha saputo eli-
minare i guai che suo marito ha procurato e che inevitabilmente, senza
l’apporto di Maria, sarebbero stati gravosi per la futura attività politica
del figlio.
Dopo la morte di Giovanni, 30 novembre 1526, le «bande nere» si
sciolsero, alcuni di loro chiesero a Maria se avesse potuto educare il
figlio alla vita delle bande, Maria rispose di no perché ha sempre ripo-
sto in Cosimo ogni speranza per un vita da protagonista e quindi aveva
in serbo altre aspettative ben più importanti da raggiungere attraverso
l’istruzione e l’arte della politica9. I meriti di Maria Salviati sono stati
celebrati da Benedetto Varchi nell’Orazione Funebre che recitò in oc-
casione della sua morte, nell’Accademia Fiorentina; da questo scritto
6 Ibi, p. 104.7 Ibi, p. 157.8 Ibidem.9 Cfr. L. CANTINI, Vita di Cosimo De Medici, Stamperia Albizziana, Firenze 1805.
306 ANNA RITA GABELLONE
traspare chiaramente che fin dalla giovane Cosimo I è stato educato
alla cultura e alla politica. Per questo Maria Salviati con il figlio si tra-
sferirono a Roma presso Iacopo Salviati suo padre, pensatore liberale e
seguace della Repubblica, per ricevere un’istruzione adeguata ai grandi,
dove il Papa faceva educare Caterina ed Alessandro de’ Medici. Una
volta a Firenze, Cosimo I, sempre per volontà della madre, si avviò allo
studio delle lettere sotto la direzione del prete Pier Francesco Ricci suo
precettore (Pier Francesco, figlio di Clemente di Nese Ricci era nativo
di Prato, e da giovane si è dedicato allo studio dello Stato ecclesiastico.
Ebbe molta familiarità con Clemente VII e il Canonico). L’obiettivo del-
la donna è stato sempre quello di riprendere la politica e il prestigio di
Casa Medici.
In questo momento, la Salviati pensa all’educazione del figlio attra-
verso le arti filosofiche e letterarie per formargli uno spirito che non
mancasse agli ornamenti che sono desiderabili in tutti gli uomini, ma
soprattutto agli imperatori. Maria Salviati introdusse nella sua casa di-
versi uomini meritevoli per il loro virtuoso tenore di vita.
Nel diario di Maria Salviati si legge:
tutti i Medici e tutti i fautori del papa Clemente ebbero molto che fare
nel Governo che fu cosa molto utile solamente il sig. Cosimo visse pri-
vato perché era piccolo e badava a studi, la sua Casa la signora Maria
l’aveva fatta una radunanza dei più dotti e buoni uomini secolari e frati
della città10.
Da queste frasi si rileva con quanto impegno questa donna educava il
figlio Cosimo, tanto da elevare il futuro principato all’ammirazione di
tutta Europa per le sue grandi idee ed azioni.
Secondo lo storico Adriani, Maria Salviati, donna saggia, non soltan-
to ha procurato a Cosimo tutti precettori importanti e virtuosi, ma ella
stessa è stata un grande esempio di vita. Il 27 aprile 1532 è eletto nuovo
principe Duca Alessandro, per organizzare il nuovo governo monarchico
viene limitata l’autorità che conveniva ad un principe, la cui volontà nel
governo non era libera ma soggetta all’approvazione dei Magistrati11.
10 Ibi, p. 127.11 Questo sistema di governo è in gran parte simile a quello stabilito a Roma, quando
da Giulio Cesare dato il tracollo alla libertà di quella potente repubblica, fu introdotto
il principato, ove restò al senato la scelta, ed elezione de Preconsoli Direttori delle pro-
vince e degli altri magistrati, ed Ufficiali, necessari al buon ordine, il Pubblico Erario, la
facoltà di mettere imposte, il diritto di fare nuove leggi ed amministrare la giustizia. Ed
è rimarcabile, che gli stessi imperatori, conoscendo di avere una sola parte della Potestà,
non sdegnarono d’accettare la dignità consolare che era il maggiore onore, con cui la
repubblica romana decorasse un suo cittadino. Ed un tale sistema è stato anche usato
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 307
Nonostante questo limitato potere del Duca Alessandro, la sua as-
sunzione al principato di Firenze fu molto favorevole a tutti gli aderenti
della casa dei Medici, e ancor di più ai suoi parenti di sangue. Fra questi
vi era il nostro Cosimo, il quale fu in ogni occasione riguardato dal nuo-
vo principe con particolare dilezione.
Nel 1533, Cosimo rimase per un periodo senza la madre, perché
essa dovette in settembre trasferirsi in Francia incaricata da Clemente
VII per una missione diplomatica. Alcuni scrittori raccontano che Maria
Salviati in Francia ricevette dal re Francesco particolari distinzioni, non
tanto riguardo la sua illustre condizione, quanto ancora per essere la ve-
dova di un generale, che i francesi avevano molto apprezzato e che forse
fin da allora non aveva avuto eguale. Si dice che quel monarca si dimo-
strasse ad essa desideroso di avere alla sua corte lei e il figlio Cosimo di
cui aveva sentito molto parlare. Ma questo desiderio il re non lo espose
mai chiaramente a Maria Salviati per timore di un rifiuto.
La donna torna a Firenze nel dicembre dello stesso anno e subito si
applicò alle cure domestiche riuscendo a sgravare il figlio, in poco tem-
po, da tanti debiti ereditati dalle questioni del padre a causa delle sue
grandiosi spese.
Oltre alle scienze, alla musica e alle arti filosofiche, il nostro Cosimo
si esercitò in quelli ornamenti che fanno distinguere un uomo nato no-
bile e si esercitò nel maneggio delle armi.
Maria Salviati è stata una madre devota del figlio e ha partecipato al
periodo di grande fortuna di Firenze soprattutto grazie ai suoi legami
verso il papa Leone X. Tra le varie testimonianze, ne abbiamo scelta una
che sembra più significativa: il 3 maggio 1531, Maria Salviati scrive:
non appena l’anima benedetta del mio signore marito era partito, in
quell’istante ho deciso di vivere per sempre con mio figlio per molte
ragioni che sarebbe troppo lungo da raccontare per lettera; e per un
considerazione molto speciale che mio figlio, essendo nato soprattutto
di quegli antenati fortunati, non doveva essere abbandonato da me, dal
momento che sarà molto più utile a lui di restare con lui piuttosto che lo
lasci, lo stesso scopo ho tenuto fino a questo momento12.
L’auspicio di Maria Salviati divenne realtà, Cosimo salì al potere nel
1537 all’età di diciassette anni e divenne il degno successore di Alessan-
dro de’ Medici. La presenza e il ruolo della madre primeggia non solo
in Inghilterra, in conseguenza della celebre costituzione della Magna Carta, pubblicata
sotto il governo del re Giovanni, detto Senza Terra, che gli inglesi riguardarono come il
palladio della loro libertà. Cfr. R. VON ALBERTINI, Firenze, cit., p. 89.12 Cfr. C. MARCHI, Giovanni dalle Bande, cit., p. 38.
308 ANNA RITA GABELLONE
nel garantire l’ascesa del figlio ma anche durante i suoi primi anni da
governatore. A tal proposito è determinante la scelta di Maria Salviati
nel far convolare a nozze suo figlio con Eleonora Toledo.
Sebbene Maria morirà dopo solo sei anni di regno del figlio, l’im-
portanza delle scelte politiche effettuate dalla donna è comprovata non
soltanto dai carteggi privati ma anche dai numerosi ritratti del Vasari. La
strategia politica intrapresa da Maria coincide con il periodo più florido
dei Medici e con il consolidarsi del principato.
La relazione tra la madre e il figlio è anche confermata da alcuni studi
contemporanei della storiografia ufficiale. Cosimo ha avuto un ruolo
importante nella politica fiorentina e molto è stato svolto proprio dalla
guida materna, come si evince chiaramente da una frase in cui è detto:
«le tue parole madre per me sono leggi». Grazie agli ottimi rapporti che
Maria Salviati ha saputo instaurare con il papa, suo figlio si ritrova a ri-
coprire un ruolo importante nell’ambiente politico fiorentino che conta.
Il papa ha vegliato sul futuro di Cosimo I fin dai primissimi anni proprio
per volontà della madre: ha saputo guidare i suoi affari politici dandone
lustro e prestigio. Sicuramente abbiamo tutti gli elementi per conferma-
re che Maria è stata la fautrice del buon governo di Cosimo13.
La corte di Cosimo I de’ Medici nel XVI secolo in Firenze rappresen-
tava il ruolo assolutista del monarca, nel senso che aveva un protocollo
rigido, ma allo stesso tempo si presentava come un fiorente centro per
le arti. La politica di quest’uomo è stata sicuramente il risultato di più
fattori: un’importante dinastia, il ruolo assunto da Maria Salviati non
solo per essere riuscita a intrattenere rapporti fondamentali per l’ascesa
del figlio nella politica, ma anche perché ha saputo costruire in Cosimo
il futuro princeps di Firenze attraverso l’amore per l’istruzione. Inoltre,
la donna ha stabilito per il figlio anche il matrimonio contratto con Ele-
onora di Toledo per costituire un programma stabile a legittimare il pre-
stigio mediceo anche in Europea.
Maria era consapevole probabilmente di rappresentare per la socie-
tà la principessa di Firenze; questo si evince anche dal suo ritratto del
1551, quando promuove l’unione tra il figlio Cosimo ed Eleonora di
Toledo per un buon tornaconto alla politica fiorentina.
La Salviati dai suoi ritratti appare come una donna, raffigurata con
tanti ornamenti, che rappresenta simbolicamente un’importante dina-
stia e riesce a garantire la gloria di un impero, una donna che sottende in
profondità un comportamento e impegno politico esemplare per il suo
13 Cfr. G. LANGDON, Medici Women. Portraits of Power, Love, and Betrayal, University To-
ronto press, Toronto 2007.
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 309
tempo, è stata, quindi, una figura dalle mille risorse politiche tra alleanze
e pianificazioni. Per questo motivo, il ruolo di questa donna nel processo
politico di Cosimo I non può essere trascurato.
3. La ragion di stato e la politica di Cosimo I
In politica interna Cosimo attua chiaramente la ragion di Stato, poiché
sfrutta i conflitti interni della città per assicurarsi il potere, cerca di im-
porre la pace e di affermare la propria autorità mediante severi controlli
e una giustizia altrettanto rigorosa. Cosimo introduce l’eguaglianza di
tutti i sudditi di fronte alla legge, ponendo se stesso al di sopra di tutti
come simbolo dell’autorità statale. Si crea così «una maggiore unione ed
omogeneità all’interno dello Stato, al di là delle autonomie locali che il
medioevo demandava all’età moderna»14. A tal proposito è opportuno
soffermarci a trattare di una delle categorie più importanti dell’umane-
simo politico, ossia la ragion di Stato, per riuscire meglio a comprendere
il percorso politico intrapreso da Cosimo I in Toscana.
La trattatistica della ragion di Stato, per il periodo preso in esame,
è costituita da un numero considerevole di studi che presentano modi
differenti di intendere la conservazione e le prescrizioni idonee all’ap-
plicazione dei codici tecnici conservativi; in effetti, come è stato giusta-
mente osservato, esistono molte ragion di Stato15. È proprio in vista di
quest’enorme produzione scientifica su tale argomento che si è scelto di
analizzare i classici del pensiero politico che hanno teorizzato la ragion di Stato più vicina al modus operandi di Cosimo I de’ Medici.
Tra il Cinquecento e il Seicento la ragion di Stato è servita per supera-
re la crisi europea in atto, rivelandosi in grado di dimostrare le capacità
di garantire le decisioni politiche, di organizzare l’esercizio della forza e,
soprattutto, di produrre una valida disciplina per soggetti e corpi per-
corsi dalle novità e dalle veloci trasformazioni dei ruoli e dei poteri fino
a quel momento sedimentati. È proprio seguendo queste direttive che
il granduca di Toscana riesce a diventare principe facendo cambiare la
forma di governo a Firenze e imponendosi nelle relazioni internazionali.
Nella storia europea, a partire dal Cinquecento, i processi di concen-
trazione del comando politico riassumono nella locuzione ragion di Stato
14 A. ANZILOTTI, La costituzione interna, Lumachi, Firenze 1910, p. 56.15 Questa caratteristica è stata attribuita agli autori della ragion di Stato da R. DE MATTEI,
in Propaggini di platonismo e trionfo dell’aristotelismo nel pensiero politico italiano del Seicento,
in «Maia», 3 (1950), 2, pp. 106-112.
310 ANNA RITA GABELLONE
l’insieme dei percorsi che contribuiscono decisamente alla produzione
di ordine politico e di sicurezza sociale per tutti i secoli successivi.
Il primo importante riferimento storico per questa elaborazione teo-
rico-politica di ragion di Stato è quello relativo alle condizioni specifiche
degli Stati italiani impegnati, già a metà Cinquecento, nell’opera di ri-
conversione conservativa dell’accumulo economico-finanziario, del pa-
trimonio artistico e della cultura politica di provenienza rinascimentale:
a tale proposito la trattatistica della ragion di Stato deve essere a monte
collegata agli scritti di storia e di politica di Francesco Guicciardini e
Niccolò Machiavelli16.
Inoltre, è doveroso richiamare l’importanza del pensiero di Botero
nella sua opera Della ragion di Stato17, in cui si cerca principalmente di
determinare quali popoli si possono sottomettere volentieri ai principi
ed anche a spiegare le motivazioni per cui gli uomini affidano il governo
di se stessi ad altri; l’esperienza e il dato conoscitivo della notizia costi-
tuiscono il punto di partenza della costruzione boteriana per il maneggiodel governo e ancora la prudenza esalta la via conoscitiva dell’esperienza.
Prudenza politica è arts pratica: il principe deve vivere direttamente
l’azione politica e deve contare sull’approfondita notizia delle cose e del-
le pratiche di governo. La conoscenza per via d’esperienza sembra allora
indicare che la notizia di tutti i tempi utili è davvero la condizione prima
attraverso cui il principe cerca di interpretare e di fissare in codici cono-
scitivi i tempi individuali dell’esperienza umana.
Botero, con la nozione di prudentia politica, assume il complesso del-
le trasformazioni semantiche addotte dagli autori rinascimentali, certa-
mente in particolare da parte di Machiavelli e Guicciardini.
La vicinanza di Botero a Machiavelli è costituita dal fatto che non
solo la categoria di prudenza politica viene ormai utilizzata come unico
riferimento alle condizioni tecniche dell’agire politico ma soprattutto
16 L’altro decisivo contesto cui riferire i primi passi dell’argomentazione autonoma per
ragion di Stato è quello della storia interna alla chiesa di Roma a fine Cinquecento. Si
tratta delle specifiche ragion della Chiesa: locuzione attraverso la quale si vuole operare
un riferimento diretto e circoscritto alle vicende della curia romana degli ultimi decenni
del Cinquecento, da una parte, impegnata nei difficili passaggi relativi all’accentramento
crescente del potere papale, alla ristrutturazione delle gerarchie interne, quindi alle ma-
novre della Congregazione del Sant’Ufficio nei confronti della giurisdizione episcopale
e degli ordini religiosi; dall’altra, attenta a salvaguardare la propria autorità sul piano
dei rapporti tra gli Stati, pure contraddetta dai conflitti interni tra le parti filospagnole e
quelle filofrancesi. Cfr. G. BORRELLI, Attualità conservativa della “ragion di Stato”: tra crisi della decisione sovrana e razionalità governamentale, in «Archivio della Ragion di Stato»,
7-8, Bollettino ARS, 1999-2000, pp. 114-160.17 G. BOTERO, Della ragion di Stato, Gioiti, Venezia 1598; ed. L. Firpo, Torino 1948.
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 311
per quelli aspetti secondo i quali l’uomo di governo deve esercitarsi ad
intervenire con modalità e tempi appropriati nell’applicazione dei dispo-
sitivi prudenziali, inclusi i messi di dissimulazione/simulazione; di qui la
necessità della codificazione dei dispositivi tecnici, dei capi di pruden-
za.18 Ad eccezione di una sola occasione, nell’opera De regia sapientia, Botero non fa mai esplicito riferimento al segretario fiorentino, tuttavia
il confronto con il modo machiavelliano di concepire e praticare la poli-
tica è permanente. Si può anzi con serenità sostenere che il suo impegno
principale sarà quello di offrire una curvatura determinata, quella pro-
priamente conservativa al complesso progetto machiavelliano.
L’uomo di governo deve esercitarsi ad intervenire con modalità e
tempi appropriati nell’applicazione delle necessarie tecniche, incluse
quelle dissimulative; di qui la necessità della codificazione dei dispositivi
tecnici, dei cosiddetti capi di prudenza19.
Per poter conseguire tale capacità decisionale tramite prudenza poli-
tica, il principe deve contribuire a produrre ogni sorta di quei saperi utili
al comando; di questi saperi governamentali. Botero offre un impor-
tantissimo saggio nelle Relazioni universali, opera che ebbe un successo
enorme in tutta Europa e che deve essere immediatamente affiancata
al libro Della ragion di Stato, per poter intendere il complesso progetto
boteriano. Quest’ultimo consiste nel rilevare le funzioni poste in essere
dalla prudenza politica: questa è l’elemento essenziale e propulsivo della
politica, attività che tende a rendersi autonoma da tutte le altre sfere del
principe.
Il soggetto di comando riconosce che gli antagonismi sono perma-
nenti e nel complesso irrimediabili: insieme, la principale attività della
conservazione politica, del non fare novità, risulta quella di riconvertire
in termini di pace e di stabilità la guerra permanente, gli antagonismi
originari nei diversi contesti in cui essa viene applicandosi20.
La ragion di Stato è un complesso dispositivo di produzione del rap-
porto di comando/obbedienza: da una parte, sui periodi brevi, il prin-
cipe interviene con le tecniche determinate della decisione politica a
seconda delle circostanze particolari e nei tempi idonei all’applicazione.
In tempi lunghi, lo stesso soggetto del comando deve porre in esecu-
zione tutti i dispositivi efficaci a produrre ordine e disciplina, partendo
dall’assicurazione materiale della vita dei sudditi, grazie ai divertimenti
18 Cfr. G. BOTERO, Della ragion di Stato, cit., pp. 104-112.19 Cfr. G. BOTERO, Della Ragion di Stato, cit., II, VI.20 Cfr. A.E. BALDINI, Il dibattito politico nell’Italia della Controriforma: Ragion di Stato, taci-tismo, machiavellismo, utopia, in «Il Pensiero Politico», 30 (1997), 3, pp. 393-439.
312 ANNA RITA GABELLONE
del popolo attraverso giochi e premi, fino alla cura della interiore salvez-
za spirituale.
La dinamica conservatrice richiede allora preliminarmente capacità
di autodisciplina da parte di chi governa, ma anche da parte dei soggetti/
corpi governati: essa deve garantire la produzione di poteri alle parti di-
verse nelle comunità. Questa produzione consensuale dei poteri richiede
libertà d’azione per quanti vi partecipano; nei casi estremi di difficoltà, il
soggetto di comando che vedrà impedita la fluidità del congegno di pro-
duzione di comando/obbedienza applicherà per necessità la forza: que-
sta deve rimanere sempre pronta, strutturata ed esibita normalmente21.
Si cerca di superare i limiti della letteratura critica che ancora riferiva
in modo diretto le novità introdotte dagli scrittori di ragion di Stato alle
teorie di Machiavelli. In questo senso si pensa agli studi di Firpo, Pro-
cacci e Cesare Vasoli che dedica esclusivamente al tema dei rapporti tra
Machiavelli e la ragion di Stato, focalizzando le differenze tra queste due
forme di interpretare e praticare la politica alle soglie della modernità22.
Vasoli sottolinea la sostanziale differenza tra due contesti storici che
comportano significative diversità sul piano del progetto politico e si
sofferma in particolare sulle radicali divergenze nel modo di considerare
la religione e l’uso politico di questa23.
La ragion di Stato è ora studiata come il complesso delle pratiche e
delle scritture proprie di un autonomo paradigma di conservazione po-
litica che viene a costituire il punto di avvio dei processi di modernizza-
zione che si affermano in Europa a partire dalla metà del Cinquecento24.
Da parte del principe viene messa in atto una produzione di saperi
governamentali che ha come fine la produzione di un efficace rapporto
21 Cfr. G. BORRELLI, Bibliografi a saggistica sulla letteratura della ragion di Stato, in «Bolletti-
no dell’Archivio della Ragion di Stato», 1 (1993), pp. 15-92; AA.VV., Botero e la Ragiondi Stato, atti del Convegno, A.E. BALDINI (a cura di), Olschki, Firenze 1992.22 Cfr. G. BORRELLI, Machiavelli e la Ragion di Stato: Segnare con cura le differenze, inAA.VV., Stato Nazione Cittadinanza. Studi di pensiero politico in onore di Leonardo La Puma, R. BUFANO (a cura di), Micella, Lecce 2016, pp. 51-64.23 Cfr. G. BORRELLI, Ragion di Stato e Leviatano. Conservazione e scambio alle origini della modernità politica, Il Mulino, Bologna 1993.24 In seguito al Convegno svoltosi in Tübingen sulla Ragion di Stato nel 1974 in modo
unanime si è espresso il congedo definitivo dall’interpretazione dell’idea di Ragion di Stato offerta negli anni venti del Novecento da Friedrich Meinecke: nel suo contributo
al convegno, Michael Stolleis sostiene che bisogna interpretare la sovranità come uno
stato territoriale, e non più, alla maniera di Meinecke concettuale opposizione di étos e
kràtos, di morale e politica; rifiuto quindi di ridurre teorie e pratiche di ragion di Stato al
genio di Machiavelli, considerato da Meinecke inventore non dell’espressione, ma degli
stesi fondamenti teorici di Ragion di Stato.
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 313
di comando/obbedienza tra principe e popolo; il popolo diventa popola-
zione, perdendo le caratteristiche attive del vivere libero e civile di Ma-
chiavelli, in quanto oggetto da curare e da energizzare per l’incremento
della potenza dello Stato; il principe assume la forma della concentra-
zione di un potere di comando soggettivo lontano dal popolo e opera
con le tecniche separate di una strategia del tutto autonoma.
È doveroso sottolineare, secondo i pregevoli studi di Borrelli, le dif-
ferenze tra Machiavelli e la ragion di Stato soprattutto considerando i
tempi della politica. La finalità della politica per il Segretario fiorentino
entra in stretta relazione tra il mantenimento e innovazione del potere
politico, è importante l’innovazione finalizzata al vivere libero e civile.
Nelle condizioni di crisi o di corruzione dello Stato il principato o il
governo repubblicano intervengono con modalità specifiche per intro-
durre dispositivi idonei a garantire e a rafforzare la libertà civile.
Secondo Machiavelli esistono due forme positive di governo, e cioè
principato e repubblica, che si alternano per la migliore efficacia del
vivere politico, altrimenti si va incontro alle degenerazioni dello stato
tirannico o dello stato licenzioso. La qualità dei tempi decide allora de-
gli scarti che pure bisogna introdurre nell’azione politica per fondare o
rifondare il governo repubblicano: salire al principato o scendere alla
repubblica.
Nelle scritture e nelle pratiche di ragion di Stato, gli autori si soffer-
mano a descrivere nei dettagli i tempi indeterminati, discreti e continui
della conservazione politica: il principe deve essere in grado di introdurre
dinamicamente aggiornamenti negli equilibri dei poteri, tenendo ferma
la distanza tra governanti e governati.
Bisogna razionalizzare e orientare le condotte dei soggetti interessati
a conservare la situazione dei poteri esistenti; su di un altro versante, il
principe deve combattere il malcontento e le guerre civili.
Il principe istruisce allora una gerarchia differenziata di poteri, co-
stituita dai corpi aristocratici e da alcuni strati del popolo. La ragion di Stato prudenziale provvede a creare nella società un’articolazione dei
corpi costituiti sulla base di interessi mezzani.Per discorsi e pratiche di ragion di Stato non risulta significativa la for-
ma di governo: flessibilità istituzionale e adattamento a situazioni diver-
se di produzione di poteri possono operare con forma di governo diverse
per perseguire il fine della necessaria conservazione politica25.
25 Scrive Ludovico Settala che la ragion di Stato è divenuta ormai «cosa comune a tutti
li governi, e a tutte le specie di Repubbliche», strumento di governo per coprire ogni ge-
314 ANNA RITA GABELLONE
Gli scrittori di ragion di Stato utilizzano la geniale concezione ma-
chiavelliana relativa al carattere funzionale dei conflitti: bisogna ricono-
scere tensioni e contrasti presenti e, quindi, riconvertire ogni forma di
antagonismi sul piano politico, anche attraverso esternazioni fortemente
simboliche; il principe diventa soggetto di concentrazione del comando
e di mediazione tra i poteri, la sua persona deve apparire assolutamente
come l’unico efficace soggetto risolutore dei conflitti.
Secondo Machiavelli, il vivere politico può affermarsi solo grazie al
governo di sé esercitato dalla parte popolare, la vera guardia della libertà; la contentezza dei cittadini, che vive delle più forti ambizioni e che riesce
tuttavia a contenere gli impulsi eccessivi, dovrebbe offrire misura civile
e limite pubblico ai conflitti, garantendo insieme sviluppo ed espansione
della comunità.
Il vivere politico costituisce un modo di vivere attraverso il quale si
esprime al meglio la soggettività dei cittadini poiché consente ai singoli
di trasformare se stessi avendo a riferimento la cura di sé e il bene comu-
ne della città. La politica deve essere in grado di inventare dispositivi ef-
ficaci e di lunga durata per il governo: in particolare, essa deve garantire
la funzione di mantenimento degli ordini, a condizione che questi siano
sottoposti di continuo a innovazione e adattamenti.
Machiavelli introduce quella nota di ripigliar lo stato proprio nelle
Istorie fi orentine (VII, 1) e ricorda che questo è quanto si trovò a realizza-
re Cosimo de’ Medici in uno dei momenti più gravi della crisi di Firen-
ze: egli poteva scegliere tra il rinviare il problema oppure intervenire con
forza per sciogliere i conflitti vissuti dalla città26. Il Segretario fiorentino
riferisce anche che tale strumento venne felicemente utilizzato in Fi-
renze dal 1434 al 1494, grazie pure alle capacità dei Medici. Il ritorno
ai principi come riattivazione necessaria delle eccedenze di libertà e dei
buoni costumi che hanno costituito il fondamento della città rende evi-
dente come la rappresentanza istituzionale e impersonale della politica
possa realizzarsi attraverso i mezzi della produzione specificatamente
artificiale della politica.
Ripigliar lo Stato è l’elemento di maggiore anticipazione da parte di
Machiavelli della civilizzazione politica della modernità; l’esigenza della
verifica periodica e sistemica della costituzione dello Stato prende avvio
nere di interesse e di utile anche quelle disonesti. Cfr. L. SETTALA, Della ragion di Stato,presso Giò battista Bidelli, Milano 1627, pp. 15-16.26 Non dobbiamo mai dimenticare che Machiavelli scrive il Principe proprio quando
vuole riconquistare il suo ruolo politica nella società del periodo, di conseguenza si pone
con un atteggiamento di riverenza verso la famiglia Medici. Come abbiamo detto sopra,
non bisogna mai staccare i personaggi dal contesto storico-politico.
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 315
da Sieyès per attraversare in permanenza teorie e pratiche del costitu-
zionalismo moderno27. La straordinaria importanza di questo approdo
machiavelliano del ritorno ai principi grazie al ripigliar lo stato può essere
così riassunta: Machiavelli vuole ribadire che le pratiche del vivere politi-co, debbono inevitabilmente assumere forme istituzionali, impersonali e
artificiali; in più, nell’argomentazione machiavelliana, risulta evidente la
convinzione degli ordini civili, altrimenti ogni tentativo di cambiamento
resta riduttivamente legato agli interessi egoistici delle parti in conflitto.
In tal senso, il termine Stato non significa la concentrazione separata
di potere specificatamente politico ma significa il complesso delle fun-
zioni politico-istituzionali che danno rappresentazione sul piano pubbli-
co agli scorrimenti di vita della comunità.
La funzione di ripigliar lo stato rinnova pratiche di libertà ed energia
collettiva per cui, sia nel governo del principato che in quello repubbli-
cano, i cittadini ben regolati possono pretendere di assumere il primato
nell’esercizio ordinato della cosa pubblica e del bene comune, possono
praticare il governo di sé e, insieme con gli altri, l’autogoverno politico
come indirizza Machiavelli a Leone X nei Discorsi28ii .
Secondo Machiavelli, il principe civile, figura di riferimento per gli
autori di ragion di Stato, deve fondare il proprio potere sul sostegno delle
parti popolari, con la precisazione che questa forma di governo è da
praticare solamente in campo vi siano contrasti di difficilissima soluzio-
ne. In questo ritroviamo completamente il modus operandi di Cosimo I
che ha saputo contornarsi della gente popolana di cui si poteva fidare,
a scapito dell’aristocrazia ormai corrotta e poco interessata alla stabilità
del suo governo.
La ragion di Stato non privilegia alcuna forma di governo: piuttosto
nei diversi contesti le politiche conservative possono essere attivate at-
traverso l’applicazione dei dispositivi specifici.
Al fine di conseguire il vivere libero e civile, Machiavelli pensa a una
politica fatta, volta a volta, di innovazione e di mantenimento, di pru-
denza e di scarti significativi: sempre caratterizzata dall’intervento im-
provviso e inevitabile di tumulti e rivolte. Le politiche di ragion di Statonon ammettono stasi, interruzioni, nei processi di produzione di rela-
zioni positive di comando/obbedienza: finalità principale conservativa è
27 J.E. SIEYÈS, Opere, G. TROISI SPAGNOLI (a cura di), Milano 1993, tomo I, pp. 811-835.28 «Ordinare lo stato in modo che per se medesimo si amministri [...]; [...] fare in modo
che gli ordini della città per loro medesimi possino stare fermi; e staranno sempre fermi
quando ciascheduno vi averà sopra le mani; e quando ciascuno saperà quello ch’egli abbi
a fare, e in che gli abbi a confidare; e che nessun grado di cittadino, o per paura di sé o
per ambizione, abbia a desiderare innovazione», N. MACHIAVELLI, Discorsi, p. 31.i
316 ANNA RITA GABELLONE
quella di garantire permanenti legami tra funzione politica decisionale
e processi di disciplinamento sociale che sui tempi lunghi pongono in
relazione passato e futuro, tradizione e innovazione, con l’obiettivo par-
ticolare di evitare ad ogni costo vuoti di comando, di potere politico.
Le pratiche di ragion di Stato richiedono al principe, lavoratore in-
stancabile come Cosimo I, capacità tecniche e di decisione e, contem-
poraneamente, presenza ininterrotta nella vita quotidiana dei sudditi.
Dal vivere politico di Machiavelli si passa decisamente sul piano della
scienza politica della modernità: cioè, gestione amministrativa della po-
polazione, partecipazione diretta del principe alla formazione di saperi,
professioni, ideologie, controllo della devozione religiosa.
Ancora sulla scia teorica del Machiavelli, per la difesa verso l’esterno
e per il consolidamento interno, Cosimo I organizza la milizia istituita
già da Alessandro nel 1534-3529. La grande idea del Machiavelli viene
così attuata nel principato di Cosimo I anche attraverso la realizzazione
della milizia dove si possono sostituire le truppe mercenarie, costose e
poco fidate, e ottenere nel contempo un’unità più salda del suo terri-
torio. Il principe fonda inoltre, nel 1561, l’ordine dei cavalieri di Santo
Stefano, con sede a Pisa, che deve collaborare alla difesa della costa e
dare ai giovani aristocratici la possibilità di intraprendere una carriera
degna del loro lignaggio e di partecipare al rafforzamento esterno e in-
terno dello Stato.
A Cosimo I si deve certamente una nuova fioritura o almeno una
ripresa consolidata; l’Italia e in particolare Firenze hanno dovuto com-
petere nell’antico primato della lavorazione delle stoffe con la concor-
renza estera, specialmente inglese. Non è tutto. Il duca ha sostenuto i
provvedimenti per proteggere il proletariato dallo sfruttamento, per non
fare cadere i salari reali e per non svalutare la moneta.
Gli scrittori politici nello Stato di Cosimo I riprendono la tradizione
della letteratura precettistica medievale e dei trattati umanistici De prin-cipe (Pontano, Sacchi-Platina, Patrizi). Si rappresenta il buon principe e
si discutono le regole di condotta che devono ispirare il suo governo che
si distingue nettamente dal tiranno e viene innalzato al punto di acco-
gliere in sé tutte le virtù e di viverle in modo esemplare.
Tutto gravita ora intorno alla figura del principe. Questi, nella stessa
misura in cui accentra in sé ogni potere dello Stato, diventa anche il pro-
29 Cosimo I, secondo un disegno sistematico commisurato alle particolari condizioni
dello Stato Toscano esposto ai frequenti passaggi di truppe e, minacciato di dentro dal
banditismo e dai fuoriusciti fiorentini, avviò una sorprendente attività edilizio-militare: icfr. J. FERRETTI, L’organizzazione militare in toscana durante il governo di Alessandro e Cosi-mo I de’ Medici, in «Rivista Storica degli Archivi Toscani», 1929.
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 317
tagonista di ogni pensiero politico. Si discutono il suo carattere, i suoi
compiti e le linee della sua politica e ci si muove sempre entro il concetto
dello Stato patrimoniale.
Di fronte alla persona del principe diminuisce l’importanza dello
Stato e del potere monarchico come tale. Il principato è ancora giovane,
una burocrazia autonoma e indipendente del principe è appena in via di
formazione e il territorio è inoltre relativamente piccolo.
L’origine del potere statale, in particolare di quello monarchico, sta
nella necessità e nel naturale bisogno di designare un uomo responsabile
che abbia cura del bene comune. Solo il principe consapevole di tale
compito e che eserciti il potere monarchico per il bene della comunità
può essere riconosciuto un buon principe30. Spesso al potere del prin-
cipe viene accostato al concetto di popolo, che non si intende qualcosa
di socialmente definibile e nemmeno un’entità politica, com’era nella
coscienza repubblicana, bensì la popolazione nel suo insieme, i sudditi
del principe.
Principe e popolo stanno l’uno di fronte all’altro: il principe provvede
alla sicurezza del popolo, che dal canto suo è tenuto all’obbedienza. Non
ci sono più cittadini che esercitano insieme la sovranità e formano libe-
ramente il governo, ma sudditi sottomessi al potere del principe.
Come nella Controriforma, la difesa della Chiesa e della fede catto-
lica ammette un procedere «machiavellico» e lascia in ombra il diritto e
la coscienza dell’individuo, così il principe, fin dai primi tempi dell’as-
solutismo, può giustificare il proprio prepotente e amorale con la cura
per il bene comune.
I trattati sulla ragion di Stato costituiscono, non a caso, il più impor-
tante contributo italiano al pensiero politico europeo nel tardo Cinque-
cento. Una conseguenza che ne deriva è un’accettazione più consapevo-
le e matura dell’ordine costituito. La preoccupazione del principe per il
pubblico bene si manifesta in gran parte nel prolungare e nel far rispet-
tare le regole. La legge costituisce il legame tra la volontà del principe e
il popolo. Anche qui rivive un’antica tradizione del pensiero politico che
procede per vie non ancora battute e cerca di tenere conto delle esigenze
del nuovo Stato, il principato31. La legislazione mira al pubblico bene.
30 Cfr. L.P. ROSELLO, Il Trattato del vero governo del principe dal’essempio vivo del Gran Co-simo de’ Medici, per Giovan Maria Bonelli, Venezia 1552 (Bozza, p. 33);i G.B. GUALANDI,
De optimo principe e De liberali institutione, apud Laurentium Torrentinum, Firenze 1561
(Bozza, pp. 37-38). Inoltre le orazioni commemorative di Piero Vettori e di G.B. Adriani
per la morte di Cosimo, ambedue Firenze 1547.31 Cfr. C. CURCIO, Dal Rinascimento alla Controriforma. Contributo alla storia del pensiero politico italiano da Guicciardini a Botero, Colombo, Roma 1934.
318 ANNA RITA GABELLONE
A questa dottrina del principe si contrappone il pensiero del Lottini
che si rifiuta di accettare la nostra proposizione per cui la volontà del
principe è legge. Le leggi devono essere concepite all’interno dei sudditi
e non possono essere l’espressione di una volontà individuale: «il princi-
pe non ha la volontà di fare ciò che gli piace ma di fare ciò che conviene
al ben essere di coloro che gli son dati in governo»32.
Un altro importante tema che emerge dalla storiografia del tempo è
la giustizia: il principe, in quanto amministratore di giustizia, ha il com-
pito di far sì che essa sia equa e di pretenderlo dai magistrati. È questo
il momento di diffusione dei trattati sull’optimus princeps. Da queste ri-
flessioni emerge chiaramente il nesso profondo con lo spirito e la sensi-
bilità del tempo che ci permette di capire affondo l’operato di Cosimo I,
pioniere del primo assolutismo monarchico che fiorirà in tutta Europa.
Nel pensiero utopico questa diventerà l’idea fondamentale di tutto
il sistema; per ora non si tratta che di spunti e di richieste nell’ambito
di una cornice tradizionale, dove però già la politica del principato vie-
ne giustificata e teorizzata. Dall’altra parte qui si gettano le basi, nella
coscienza e nelle aspirazioni dei sudditi, per il programma di Cosimo:
trattando tutti i sudditi alla stessa stregua si può esercitare la giustizia
nel senso dell’egualità.
Ci sono due modi di procedere: la maniera forte e la maniera blanda.
Il popolo tema l’autorità e sia soddisfatto della sua sorte. Non sarà da vedere
se un atto sia buono o crudele, ma se abbia sulla coscienza del popolo le
ripercussioni attese.
Il periodo in cui si trova ad operare Machiavelli corrisponde al massi-
mo dell’agitazione della penisola italiana, provocata dai tentativi francesi
compiuti tra il 1493 e il 1525.
Dal 1469 al 1527, cioè durante la vita del Machiavelli, Firenze ha
quindi conosciuto governi ben differenti: un regime repubblicano, cor-
rispondente alle sue fondamentali istituzioni, ma costantemente violato
e sussistente solo a brevi intervalli; un regime personale, sia ereditario
e aristocratico come quello dei Medici, sia legale sotto il Sederini, sia
corrispondente ai sentimenti popolari e demagogico col Savonarola. In
quarant’anni la costituzione è mutata sei volte, vi è un’atmosfera di in-
sicurezza.
Le soluzioni in politica nascono dalle difficoltà concrete incontrate
nel corso dei secoli, di fronte a quello o a questo avvenimento. Primun vivere, deinde philosophari. Questa sentenza ci può spiegare la posizione
32 O. LOTTINI, cit., p. 26.
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 319
di un teorico della politica nell’Italia del secolo XVI, e le sue preoccupa-
zioni primarie. Siamo in un secolo di forte instabilità.
Machiavelli esamina una forma di governo in cui l’instabilità assume
un aspetto esasperato. Gli Stati in cui la successione al trono è regolare
e stabilita non possono infatti attrarre la sua attenzione. L’oggetto della
trattazione sarà il passaggio dall’instabilità alla stabilità, da nuovo al pie-
namente realizzato, dal potere usurpato al riconosciuto.
Il Machiavelli riduce a quattro i diversi metodi per giungere al potere:
ci sono coloro che hanno conquistato principati nuovi con le armi e la
virtù propria, coloro che li hanno acquistati con la fortuna e con le armi
d’altri; coloro che li devono alle scelleratezze; coloro infine che sono stati
elevati al trono dei sudditi.
Son portati al potere dal favore dei concittadini; il Machiavelli non
può credere alla spontaneità di tale fenomeno. Il principato civile, come
egli lo chiama, necessita d’altrettanta abilità personale:
ma venendo all’altra parte, quando uno privo cittadino, non per scel-
leratezza o altra intollerabile violenza, ma con il favore degli altri suoi
cittadini diventa principe della sua patria dico che si ascende a questo
principato o con il favore del populo o con quello de’ grandi33.
Il principato civile sarà dunque l’opera del più astuto, e poiché l’astu-
zia non può rientrare nelle categorie della fortuna né della virtù, anche
per questo caso è stato necessario stabilire una quarta via d’accesso. Il
favore dei concittadini è quindi una manifestazione di machiavellismo,
l’espressione di una tattica identica e fondamentale per la conquista del
potere. Questa tattica si riveste del termine «virtù» per farsi accettare.
Non restano che i due primi mezzi di stabilire il proprio potere: l’a-
zione personale del principe che conquista lo Stato con le armi o con
l’astuzia; le circostanze propizie che lo rivestono, senza intervento attivo,
di questa o di quella sovranità.
Il principe sostenuto unicamente dalla fortuna sarà presto da essa ab-
bandonato, quello che dovrà il potere a un’azione meditata e concertata,
quello che avrà appreso a non soggiacere al variare degli avvenimenti lo
manterrà molto meglio.
La conquista personale del potere con la forza delle armi e con l’in-
ganno, col dominio delle volontà o la capacità neutrale di conquistare
il favore del popolo, permette, invece, di porsi felicemente in sella e di
intraprendere una sicura cavalcata.
Lo scopo principale del principe è quello di mantenersi:
33 N. MACHIAVELLI, Il Principe, cap. IX, p. 20.
320 ANNA RITA GABELLONE
perché uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti
possano o debbano offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto,
togliendo loro ogni via da nuocerti, o con beneficiarli in modo, che non
sia ragionevole ch’eglino abbiano a desiderare di mutare fortuna34.
Naturalmente Cosimo personifica l’optimus princips. In questa corte, un
ruolo centrale era assunto dalle donne che ne diventano l’espressione
regale più importante, pur riconoscendo formalmente il ruolo di pater familias a Cosimo. A concorrere al suo potere non possiamo di certo
trascurare le sue riforme politiche e religiose e le alleanze internazionali
politiche.
4. Il precursore dell’assolutismo.
Nel governo di Cosimo I si attua una nuova organizzazione del potere
statale. Formalmente rimane in vita la costituzione del 1532 e perfino
la provvisione del 153735. Ogni potere è ormai concentrato nelle mani
del principe. Lavoratore instancabile, Cosimo sbriga da solo tutti gli
affari dello Stato, s’immischia dappertutto e impartisce ordini che non
ammettono obiezioni. Dai vari ambasciatori, commissari e segretari si
fa consegnare rapporti in base ai quali, poi, lui solo giudica e provvede.
Al di fuori della sua volontà e senza la sua approvazione non vi è alcuna
decisione di qualche importanza36.
È significativo che le cariche più ambite del governo non vengano
affidate agli aristocratici, bensì ai rappresentanti della campagna e di
origine modesta. Il principato preferisce queste personalità altamente
qualificate, versate sia nell’amministrazione che nella politica, legate to-
talmente al principe e perciò docili strumenti nelle sue mani. Non più
gli «amici» vengono presi in considerazione, o i vincoli di parentela ma le
capacità politiche e amministrative della gente «comune».
34 N. MACHIAVELLI, Discorsi, lib. II, cap. XXIII, p. 175.35 I quattro consiglieri con il vicario del principe, il Consiglio dei Quarantotto e il Consi-
glio dei Duecento non vengono aboliti. Ma se in origine erano i Quarantotto a detenere
il vero potere nello Stato, ora di questo a loro non rimane neppure l’ombra. È compito
dei consiglieri emanare le norme di applicazione ed esercitare quindi una funzione me-
ramente esecutiva. Questa magistratura è ora del tutto al servizio del duca.36 Cfr. AA.VV., Thomas Hobbes. Le ragioni del moderno tra teologia e politica, G. BORRELLI
(a cura di), in «Archivio di storia della cultura», 4 (1990), Morano, Napoli, pp. 147-164.
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 321
Il Principe è la fonte della legge, l’arbitrio dei destini dello Stato, il mode-
ratore delle parti politiche, delle lotte sociali, dei piccoli e grandi interessi
in conflitto37.
Occorre precisare che la sua politica si rivolgeva in massima parte a co-
loro che ponevano in discussione la sua autorità, e quindi non il popolo,
ma quei nobili e ricchi borghesi fiorentini che non tolleravano la sua
supremazia e il suo potere.
Inoltre, al primo segretario vengono affiancati nuovi funzionari, chia-
mati auditori, preposti alle singole magistrature. L’«auditore delle Rifor-
magioni» ha il compito di sostenere nelle magistrature il punto di vista
del principe, di costituire un anello di congiunzione tra i Quarantotto e
Cosimo e di pervenire ogni velleità d’indipendenza.
Con l’aiuto di tali auditori Cosimo organizza il potere centrale; può
compiere così un altro passo verso l’uguaglianza giuridica dei ceti socia-
li. La posizione di privilegio dell’aristocrazia viene limitata, la parzialità
della giustizia a favore degli aristocratici viene combattuta. In ragione
di ciò, appoggiando i ceti inferiori e riaffermando l’eguaglianza di tutti
di fronte alla legge, si dovrebbe ottenere forzatamente la tanta deside-
rata fine dei contrasti sociali e politici, che ha rappresentato una co-
stante della città-stato repubblicana giunta ora nella sua parabola di-
scendente, si tratta in effetti di un «vero Consiglio di Stato in servizio
dell’assolutismo»38.
Nel 1560 la repubblica cittadina di Firenze apparterrà a un passato
ormai lontano. Cosimo ha saputo operare in breve tempo una radicale
trasformazione in un moderno stato territoriale di tipo assolutista.
Se l’aristocrazia al tempo di Cosimo perde il suo potere politico, essa
mantiene però le proprie posizione economiche e sociali. In questo sen-
so essa è indubbiamente dominante verso tutto il Cinquecento.
Si iniziano a intravedere nelle opere del tempo dei sinceri tentativi di
inserirsi nel rapporto tra principe e «pubblico bene» e di ridurre il potere
del principe entro i limiti della legalità e di porre dei freni al principa-
to assoluto inteso come governo tirannico. L’ordine giuridico si rivolge
proprio contro gli elementi asociali e la «fortezza moderata» della legge
ha la sua ragion d’essere.
Sotto l’amministrazione di Cosimo, la Toscana fu uno stato al passo
coi tempi. Esautorò da ogni carica, anche formale, la maggior parte delle
importanti famiglie fiorentine, non fidandosi dei loro componenti. Scel-
se piuttosto funzionari di umili origini. Rinnovò l’amministrazione della
37 Ibidem.38 Ibi, Vol. III, p. 92.i
322 ANNA RITA GABELLONE
giustizia, facendo emanare un nuovo codice criminale. Rese efficienti i
magistrati e la polizia, le sue carceri erano tra le più temute d’Italia.
Il parlamento aveva suscitato l’interesse dello stesso Machiavelli che
rimasto subordinato al principe ma, sostanzialmente si presenta come
un’istituzione indipendente, gli appariva la migliore garanzia che le de-
cisioni del monarca fossero espressione non dell’arbitrio ma di un vero
e proprio potere che emanava dallo Stato39.
In tal modo il principe viene ulteriormente sgravato da ogni respon-
sabilità e appare ancor più il simbolo dell’uguaglianza dei sudditi.
Oltre la giustizia un altro tema trattato è la libertà; a tal proposito si
esprime Battista Guarini nel Trattato della politica libertà, proponendo un
tentativo di accordare la libertà con il principato, creando le premesse
per una libertà autentica e duratura. Il Guarini distingue quattro tipi di
libertà: naturale, morale, politica e religiosa, che in ultima analisi vanno
ricondotti tutti a un comune denominatore, alla volontà di essere liberi.
La libertà politica è la possibilità di poter disporre liberamente della
propria sfera privata. Tutto fuorché politica libera se con essa s’intende
partecipazione allo stato. Siamo di fronte a un concetto assolutistico che
vede, nella libertà, la protezione dell’esistenza privata, protezione degli
attacchi altrui, presenza di una giustizia e un forte potere statale fondato
sulla legge.
Soltanto sotto gli imperatori di Roma si instaurò la pace. Con simili
conclusioni, non si fa che allontanarsi dalla tradizione umanistica e re-
pubblicana, fino a rinnegarla del tutto. Scegliendo a modello il periodo
imperiale, e rifiutando inoltre la forma istituzionale sia delle città te-
desche che nelle repubbliche cittadine italiane, il Guarini rompe riso-
lutamente con l’umanesimo di tradizione comunale e con la coscienza
politica fiorentina del primo Cinquecento.
È proprio in questo modo che il principato di Cosimo I ha donato a
Firenze la tranquillità interna, la stabilità e la pace.
Il principato di Cosimo cerca stabilità ed equilibrio, il principe Cosi-
mo si fa garante di questo e colloca la giustizia al di sopra delle fazioni
aspirando all’egualità. Lo Stato non è libera associazione di diritti, ma
un’organizzazione superiore personificata dal principe. La legge assegna
a ciascuno il suo posto e dall’altra gli garantisce l’esistenza privata. La li-
bertà non significa più partecipazione alla vita pubblica, bensì protezio-
ne da parte dello Stato, non più il diritto di essere sovrani e di legiferare
ma di essere soggetti alla legge.
39 N. MACHIAVELLI, Discorsi, I, 16, I, 19, III, I.i
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 323
Il principe diventa il modello di tutte le virtù civili e private; egli supe-
ra i sudditi per saggezza e autocontrollo, respinge gli adulatori, accetta il
consiglio dei fidati collaboratori, è generoso senza vuotare le casse dello
Stato, è tollerante verso i nemici, ma sa anche essere severo al momento
opportuno. Soprattutto si preoccupa dell’educazione dei suoi figli e si
appassiona alle scienze e alle arti, in particolare alla storia che gli può
suggerire le regole fondamentali del buon governo.
5. Cosimo I precursore dell’assolutismo politico
Rispetto a tutte queste categorie politiche non possiamo di certo negare
che Cosimo I sia stato un vero precursore dell’assolutismo teorizzato
successivamente da Thomas Hobbes.
Nel De Cive si legge: «ad societatem homo aptus non natura, sed
disciplina». Questo può ricostruire i termini del percorso attraverso il
quale Hobbes tematizza la disciplina in relazione alla teoria dell’obbli-
gazione morale e quella dell’obbedienza politica.
Per intendere bene la posizione di Hobbes nei confronti della ca-
tegoria prudentia politica, categoria attuata da Cosimo I e fondante le
argomentazioni a sostegno della ragion di Stato, è necessario che ci sof-
fermiamo prima sui termini essenziali della diversificazione e della spe-
cificazione semantica che il concetto tardo-rinascimentale di prudentia assume tra Cinquecento e Seicento: da un lato assistiamo alla costitu-
zione dell’ambito semantico proprio della prudentia politica, mentre si
verifica al contempo l’autonomizzazione di un campo specifico di signi-
ficato per il concetto di saggezza40.
Nella trattatistica della ratio status e della teologia politica del primo
Seicento, prudentia diventa categoria specificatamente politica. La co-
mune finalità è quella della conservazione politica, i trattati della ragion di Stato procedono attraverso la minuta elencazione dei dispositivi di
nascondimento e di inganni: la normalità delle pratiche di trasgressioni,
di deroghe, di deviazioni.
La ragion di Stato non può contare sullo strumento dell’intervento ec-
cezionale: deve piuttosto garantire continuità allo svolgimento dei pro-
cessi decisionali, perseguendo la puntualizzazione dei tempi nei singoli
ambiti d’intervento e realizzando una specie di funzionale separatezza
tra questi tempi.
40 Cfr. V. DINI - G. STABILE, Saggezza e prudenza. Studi per la ricostruzione di un’antro-
pologia in prima età moderna, Liguori, Napoli 1983.
324 ANNA RITA GABELLONE
Il principe tenta di realizzare la conservazione del proprio potere.
Questa si fonda su di un sapere cumulativo, accrescitivo, da utilizzare
in esperienze pratiche operative. In tal modo ad emergenze diverse cor-
rispondono precise possibilità di imporre ai sudditi diverse prospettive
di ordine, per sottoporli a rinnovati dispositivi di controllo e correzione.
La ragion di Stato tende nei fatti a diventare machina, a porre cioè
in opera i mezzi idonei al progetto conservativo in maniera meccanica.
Nella trattatistica italiana della ratio status, questo limite viene denuncia-
to nell’opera di Virgilio Malvezzi: questi pone sotto accusa quei pensato-
ri empirici e meccanici, che hanno reso la politica un’arte sterile.
L’incapacità crescente di interpretare trasformazione e novità di lin-
guaggi e comportamenti. Egli propone qualcosa di diverso: bisogna inci-
dere sulle attioni degli uomini, convincendo però i sudditi della necessità
di un atteggiamento attivo di obbedienza verso l’autorità; il principe
deve possedere allora la conoscenza dei fondamenti che strutturano la
condotta umana al fine di intervenire produttivamente nei tempi inte-
riori dei comportamenti e realizzare in questo modo quella che viene
definita una corte politica disciplinata41.
Il tema della saggezza tende allora a costituirsi come nucleo di una
morale autonoma e nuova: realizzare l’auto conservazione ed insieme
una stabilità di vita, rifiutare il coinvolgimento delle passioni, produrre
disciplina e controllo delle coscienze attraverso l’insegnamento e il con-
senso42.
La categoria di prudentia politica si risolve, per Hobbes, in tecniche di
forza e di frode. Force and fraud: con questa sintetica espressione l’autore
riferisce della ragion di Stato i congegni della prudentia politica. È il caso
di richiamare il valore positivo utilizzato da Hobbes con l’espressione
Reason of City, volendo con essa intendere l’autonomia e il potere positi-
vo della civil Law nell’ambito sovrano di ciascuno Stato43.
Nel Leviatano rimane qualche traccia di una considerazione positiva
delle tecniche prudenziali quando queste siano riferite alla funzione del-
la conservazione e della difesa del dominio statale contro nemici esterni.
41 Cfr. V. MALVEZZI, Il ritratto del privato politico cristiano, Sellerio, Milano 1635, pp. 22-
23 e 61 ss.42 Cfr. M. VEGETTI, La saggezza dell’attore. Problemi dell’etica stoica, in «Aut Aut», 32
(1983) 195-196, pp. 22-23.43 Ci sono diversi interventi che ribadiscono la convinzione che il passaggio al paradigma
politico moderno sia segnato dal confronto tra ratio status e Leviathan: K.R. MINOGUE,
Remarks on the Relation between social contract and reason of state in Machiavelli and Hob-bes?, on R. SCHNUR (a cura di),R Staatsrason, Dunker and Humblot 1975, pp. 241-265 e
267-273.
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 325
Il giudizio definitivo di Hobbes nel Leviatano è però chiaro: le ar-
gomentazioni e le tecniche della prudenza politica sono da rigettare in
quanto costituiscono una delle cause principali della dissoluzione dello
Stato: coloro che pretendono alla prudenza politica si arrogano la libertà di disputare contro il potere assoluto.
L’incapacità della prudenza politica per Hobbes è il segno dell’esau-
rimento completo della funzione di rapraesentatio auctoritatis in quegli
Stati dove potere temporale e potere spirituale hanno operato ed opera-
no ancora in modo confuso.
Non si può motivare e realizzare obbedienza: in breve non si può
produrre disciplina.
Interessante è comprendere l’atteggiamento di Hobbes rispetto alla
saggezza; essa mette insieme prudentia e sapientia come capacità cono-
scitiva: «abilità di trarre congetture dal presente, o sul passato, o sul
prendere ed attuare ciò che conduce al bene e al governo del popolo».
Nel Leviatano la saggezza diventa ragione pratica e operativa dello
svolgimento delle funzioni dell’ingegno naturale, nel De Nomine la sag-
gezza richiama l’uomo a riconoscere e praticare il bene morale naturale
dell’auto-conservazione. Riconoscendo la diversità delle passioni, la sag-
gezza opera nel senso di limitare i danni indotti dalle passioni distruttive;
i saggi sanno consultarsi ed evitano l’opera malvagia all’astuzia.
La saggezza può contribuire a conservare e ad accrescere, a condi-
zione di disciplinare la forza irrefrenabile, e negativa, della cupiditas e
insieme di indirizzare l’utilizzo positivo della forza pulsionale delle pas-
sioni. Grazie all’autodisciplina, i saggi possono perseguire l’ambizione
di ottenere cariche e pubblici impieghi, che valgano ad attestare l’onore
della propria saggezza.
Gli individui possono esattamente misurare vantaggi e svantaggi re-
lativi alla possibilità dell’affermazione, o meno, del contratto politico.
Bisogna verificare la validità di due condizioni: sia l’esistenza di un soli-
do strumento di potere in grado di provvedere alla sicurezza del popolo,
intesa non solo come nuda preservazione della vita ma anche come sal-
vaguardia di «tutte le soddisfazioni della vita che ogni uomo acquisirà
a se stesso con una industria legittima»44, sia la garanzia che il criterio
di giustizia operante nei comandi del sovrano renda possibile il perse-
guimento individuale dei beni artificiali e conservi la finalità del bene
morale naturale.
In tal modo Hobbes esplicita il nesso inscindibile tra calcolo degli
interessi, processo di autorizzazione e rappresentanza politica. Il punto
44 T. HOBBES, Leviatano, p. 376.
326 ANNA RITA GABELLONE
decisivo è che il positivo soddisfacimento degli interessi richiede il rico-
noscimento dell’autorità politica: gli interessi possono costituirsi in una
sfera provata a condizione che essi assumano identità pubblica, politica,
attraverso la rappresentanza sovrana.
La sovranità può dunque costituire una specie di rappresentanza as-
soluta degli interessi, in quanto per ogni comando espresso il sovrano
si trova nella situazione di potere rispettare il fine morale naturale della
conservazione per ciascun suddito.
La categoria hobbesiana di sovranità intende proporre un modo
completamente nuovo di collegamento tra fine generale dell’assicura-
zione della vita e fini particolari relativi all’acquisizione di beni artificiali;
difatti, l’interesse privato della sovranità viene a coincidere con il bene
pubblico comune e rende possibile l’integrazione tra legge civile e legge
naturale.
Sempre in conseguenza allo stretto rapporto di autorizzazione, la
rappresentanza politica dello scambio protezione-obbedienza vincola i
cittadini al riconoscimento del potere assoluto sovrano, cui non può né
deve essere opposta alcun tipo di resistenza.
L’obbligo politico della disciplina verrebbe quasi automaticamente e
circolarmente a confermare e a rafforzare l’autodisciplina dei comporta-
menti da parte del suddito.
La saggezza vive nell’individuo come presenza costante dell’autodi-
sciplina dei comportamenti, nel riferimento a leggi etiche naturali: essa
opera a garanzia dell’autonomo svolgimento di uno spazio interiore, che
deve rimanere immune da contaminazioni e violenze, provenienti dall’e-
sterno.
Auto-conservazione politica risulta essere la condizione che Hobbes
indica come necessaria ai sudditi e che risulta imprescindibile per la
sovranità stessa.
La categoria hobbesiana di sovranità esprime in sostanza quel du-
plice percorso che rimane bene innervato nel processo di affermazione
della ragione politica occidentale: la disciplina degli interessi, attraver-
so la forma della rappresentanza politica, favorirà in epoca moderna la
cooperazione razionale ed il pluralismo delle scelte; eppure la costitu-
zione dell’ordine politico mostra di vivere dell’insopprimibile continua
esigenza di realizzare una più diffusa introiezione della norma, di dovere
comunque estendere l’interiorizzazione del comando nella sfera privata
dell’individuo.
COSIMO I. DALLA RAGION DI STATO ALL’ASSOLUTISMO 327
Paul Janet afferma: «Il machiavellismo non è solamente la politica
tortuosa e infetta delle monarchie corrotte, è anche la politica violenta
delle democrazie sanguinarie»45.
L’uomo di Stato potrà tracciarsi la via e assicurare alla sua condotta
una certa continuità e una relativa stabilità alla sua impresa.
Il principe dovrà inoltre cercare di acquistare la migliore reputazione
possibile. Tanto meglio sarà per lui di essere considerato buono, cle-
mente, liberale, ma non deve compromettere la sicurezza con la pratica
effettiva di tali qualità.
Cosimo de’ Medici seppe assicurarsi a poco a poco il potere: «perché
intra tutte le altre qualità che lo fecino principe nella sua patria, fu lo
essere, sopra tutti gli altri uomini, liberale e magnifico»46. Il sovrano che
vuole essere giudicato munifico opprime i sudditi allo scopo di mante-
nere il suo altro tenore di vita e lo splendore della corte.
È meglio per il principe essere temuto o amato? Il Machiavelli vi ri-
sponde con la consueta sottigliezza: «Rispondesi che si vorrebbe essere
l’uno o l’altro; ma perché egli è difficile accozzarli insieme, è molto più
sicuro essere temuto che amato»47.
Il principe deve essere crudele solo in caso di necessità e bisogna che
si astenga da ogni violenza inutile e nociva. L’opinione pubblica alla
lunga si volge dalla parte del principe fortunato e saldamente al potere:
la popolarità dei capi vittoriosi, dei governi che assicurano la prosperità
ed capi vittoriosi, dei governi che assicurano la prosperità ed anche i
dittatori severi.
Il principe deve tenere solo per sé il privilegio della stabilità.
Il principe deve dominare i consiglieri e mantenere gelosamente l’ini-
ziativa delle deliberazioni comunali.
Senza le milizie non c’è sicurezza, alcuna vera stabilità, essendo
ugualmente temibili le truppe mercenarie e le ausiliarie. Non si può fare
quindi politica estera fondata sul solo uso accorto del denaro: ma anche
qui una forza reale e sicura è assolutamente necessaria.
Il principe non è quindi tenuto a mantenere la parola; un trattato
firmato di suo pugno vale fintanto che è vantaggioso, e quando a lui
piaccia diventa un semplice pezzo di carta.
Dall’analisi delle categorie politiche fin qui riportate, fondanti lo sta-
to moderno, si può sostenere che l’importanza della politica di Cosimo
45 P. JANET, Histoire de la philosophie morale et politique, Librairie philosophique de La-
drange, Paris 1858, vol. I, p. 469.46 N. MACHIAVELLI, Il Principe, cap. XIX, p. 38.47 N. MACHIAVELLI, Il Principe, cap. XVII, p. 33.
328 ANNA RITA GABELLONE
I non rientra solo della sua grandezza imperiale nell’essere riuscito a
trasformare un territorio da repubblica a principato ma ci induce a esa-
minare quanto sia importante considerare l’alternanza tra prassi e teoria
politica in ogni momento storico al fine di raggiungere la stabilità politi-
ca e il benessere dei cives. Il percorso ricostruito da Cosimo I che segue
la ragion di Stato fino ad essere un decisivo sostenitore dell’assolutismo
monarchico ci dimostra quanto questo uomo sia riuscito a fare non solo
per il suo populo ma anche per i posteri.
Scritti scelti
Annali di Storia moderna e contemporanea 3 (2015) 331-334
Scritti sceltiARTURO COLOMBO
Leopold von Ranke; Restaurazione; Riformismo; Rivoluzione; Carlo e
Nello Rosselli; Francesco Ruffini; Claude-Henri de Sain-Simon; Gaetano
Salvemini; Sansimonismo; Joseph Schumpeter; Sinistra; Socialdemocrazia;
Socialismo; Georges Sorel; Oswald Spengler; Luigi Sturzo; Tacitismo; To-
ralitarismo; Filippo Turati, in Grande Dizionario Enciclopedico Utet, voll. IX-tXII, 1958-1961.
Condizioni della stampa italiana, in AA.VV., Il paese come se, Ed. Lerici, Mi-
lano 1961, pp. 153-171.
Rapporto sull’università italiana, Ed. di Comunità, Milano 1962.
Idee politiche e società, Guido Miano Editore, Milano 1963.
Metodologia e storia nelle dottrine politiche. (Ricerche e problemi), Giuffrè, Mi-
lano 1963.
Stato, popolo e partito nell’ideologia politica sovietica, in AA.VV., Stato, popolo e nazione nelle culture extra-europee, Ed. di Comunità, Milano 1965, pp. 237-
295.
Razzismo, in AA.VV., Novissimo Digesto Italiano, Utet, Torino 1967.
La dinamica storica dei partiti politici, Istituto editoriale cisalpino, Milano - iVarese 1970.
La problematica della guerra nel pensiero politico cristiano (dal I al V secolo),
Giuffrè, Milano 1970.
Teorie politiche e dialettica democratica, Istituto editoriale cisalpino, Milano -
Varese 1974.
Lenin e la rivoluzione, Le Monnier, Firenze 1974.
Introduzione, in Il Caffè (riedizione a cura di E. CAMURANI), Arnaldo Forni
editore, Bologna 1976.
Giacobinismo, in AA.VV. (a cura di N. BOBBIO - N. MATTEUCCI), Dizionario di Politica, Utet, Torino 1976, pp. 431-432.
Prefazione, in M. TESORO, I repubblicani nell’età giolittiana, Le Monnier, Fi-
renze 1978, pp. VII-XV.
332 ARTURO COLOMBO: SCRITTI SCELTI
Partiti e ideologie del movimento antifascista. 1914-1948, in AA.VV., Storia d’I-talia. Dalla civiltà latina alla nostra Repubblica, v. VIII, De Agostini, Novara
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Riccardo Bauer e le radici ideologiche dell’antifascismo democratico, Arnaldo
Forni editore, Bologna 1979.
Della giustizia e della libertà, in AA.VV. (a cura di B. RANGONI MACHIAVELLI),
Socialismo liberale, liberalismo sociale. Esperienze e prospettive in Europa, Arnal-
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Carlo Cattaneo e il Politecnico. Scienza, cultura e modernità (a cura di A. CO-
LOMBO - C. MONTALEONE), Franco Angeli, Milano 1993.
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Un maestro in Valtellina. Il mondo di Bruno Credaro (a cura di A. COLOMBO),
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La guerra civile spagnola tra politica e letteratura (a cura di A. COLOMBO -
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F. DELLA PERUTA - C.G. LACAITA (a cura di A. COLOMBO), Carlo Cattaneo. I temi e le sfi de, Casagrande, Lugano 2004.
A Antonella Griziotti il Premio Simpatia Caffè dell’Arte 2004 (con 4 G. CALCHI
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I Garibaldi dopo Garibaldi. La tradizione famigliare e l’eredità politica (a cura
di A. COLOMBO - Z. CIUFFOLETTI - A. GARIBALDI JANNET), Piero Lacaita edi-
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Eretici e dissidenti. Protagonisti del XIX e XX secolo fra politica e cultura (a cura
di A. COLOMBO - G. ANGELINI), Franco Angeli, Milano 2006.
Presentazione, in G. SOLARO (a cura di), Il mondo di Piero. Un ritratto a più voci di Piero Malvezzi, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 7-10.i
Voci e volti dell’Europa. Idee, Identità, Unifi cazione, Franco Angeli, Milano
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Presentazione, in G. DRAGHI, Ragioni di una forza in Simone Weil, Raccolto lEdizioni, Milano 2010.
334 ARTURO COLOMBO: SCRITTI SCELTI
Presentazione, in R. BAUER (a cura di M.L. GHEZZI), Educare alla Democrazia e alla Pace. Scritti scelti 1949-1982, Raccolto Edizioni, Milano 2010, pp. 17-
21.
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Voci del ’900. Protagonisti e testimoni del lungo “secolo breve”, Mursia, Milano
2012.
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ISSN 1124 - 0296