Post on 17-Feb-2015
Adriano Sofri.
LO SPECCHIO DI SARAJEVO.
Sellerio editore, Palermo 1997.
"Fine secolo" - Collana diretta da Adriano Sofri.
INDICE.
Non ci sono più notti normali per chi ha visto Sarajevo: p. 6.
Sarajevo, via della luna: p. 15.
Le uova di Sarajevo: p. 22.
Itinerario per un viaggio nella città ferita: p. 30.
Diario minimo dall'altro mondo: p. 36.
Se Sarajevo cadesse: p. 41.
Le donne fanno risorgere Sarajevo: p. 46.
Mille giorni del Gulag Sarajevo: p. 51.
E' finita l'ora d'aria di Sarajevo: p. 59.
Sarajevo spera nello scontro in campo aperto: p. 64.
Evviva la pioggia: acceca i cecchini: p. 71.
Strage nei quartieri musulmani: p. 76.
La vita rubata alla guerra: p. 79.
Qui l'Onu è una slot-machine: p. 84.
Il mio giorno da cani: p. 91.
In tre anni d'assedio la vita è diventata molto più preziosa: p. 95.
Battaglia a Sarajevo sulla Collina grassa: p. 98.
L'incubo dell'arma chimica paralizzava la città.
Ora è arrivato il terrore: p. 102.
Un passo avanti o una foglia di fico?: p. 105.
Il luogo comune della nostra neutralità: p. 108.
Dai nostri visitatori dell'inferno: p. 113.
Assassini con metodo: p. 121.
Per Sarajevo: p. 124.
Noi? Guardiamo: p. 128.
Jogging sotto le granate serbe: p. 131.
Telecamere scomode: p. 135.
Davanti al mattatoio Ghali se la squaglia: p. 138.
Sotto le bombe col cuore stretto: p. 141.
Un funerale sotto le stelle: p. 146.
Segnali di fumo dal tunnel: p. 150.
L'occhio di Guernica e My Lai: p. 155.
A Sarajevo musulmani e ebrei si confondono: p. 159.
Quanti alibi sento in giro: p. 163.
Complici dei serbi, nove volte maledetti: p. 169.
L'incendio contagioso dei Balcani: p. 175.
Le tre verità di Sarajevo: p. 180.
Sognando ananas, a nove anni: p. 186.
Scontro ai vertici di Sarajevo: p. 189.
Ci si può fidare di Tudjman e del suo esercito?: p. 194.
L'Europa liberi subito Sarajevo: p. 199.
In ex-Jugoslavia la paura muove tutto: p. 202.
I disegni di Tudjman: p. 206.
Baratto su Gorazde: p. 211.
E sulla spiaggia si leggono solo i necrologi: p. 214.
Ormai solo fotografi tra le statue cadute dell'antica Dubrovnik: p.
220.
L'estate prossima: p. 226.
Belve che sbranano le prede: p. 231.
Si poteva, si doveva: p. 236.
Da Sarajevo nessuna notizia: p. 242.
Un anno fa l'orrore di Srebrenica: p. 249.
Appendice.
Le grandi paure della già-sinistra: p. 254.
Diciamo no con un digiuno: p. 262.
Non vogliamo mangiare più guerra: p. 265.
Lettera aperta ai pacifisti italiani: p. 268.
Stanno ammazzando Useppe a Sarajevo: p. 282.
La primavera di Sarajevo: p. 291.
Sul buon uso della telecamera: p. 302.
Lettrici e lettori decideranno se valesse la pena di raccogliere in libro
questi scritti.
Io ero incerto, e aspettavo di dar loro un senso migliore con un paio di
aggiunte.
Una, per ricostruire la lacerante divergenza col pacifismo ideologico, e
provare a trarne la lezione, alla luce dei fatti.
La seconda, per raccontare, tornando un 'ultima volta a Sarajevo, come
fossero cambiati i visi delle persone e le facciate delle case.
Non ho fatto né l'una cosa né l'altra, e adesso non ho più voglia
dell'una, e devo rinunciare all'altra.
Pubblico questi articoli così com'erano.
Non cambio neanche i titoli, benché non fossero miei, e spesso non mi
piacessero.
Non occorre che lo dedichi, questo libro.
Basta leggerlo, per capire a chi sia dedicato, e con quanta nostalgia.
1997
NON CI SONO PIU' NOTTI NORMALI PER CHI HA VISTO SARAJEVO (L'Unità, 27
aprile 1994)
Ho trascorso a Sarajevo in tutto due mesi dall'inizio dell'anno, e
l'impressione che ne avevo ricevuto, subito netta e sconvolgente, è
diventata via via più opaca e tetra, benché ne resti una sostanza ovvia:
che non sia possibile vita normale a chi sia passato per Sarajevo o per
un'altra delle città mattatoio della Bosnia.
Dirò alcune cose sparse che mi sembrano avvicinarsi alla verità su
Sarajevo che non si lascia dire ordinatamente.
La prima ha a che fare con la primavera precoce e ingannatrice che ha
intiepidito la città, e fatto smettere i soprabiti pesanti.
I ragazzini miei amici, che abbraccio e bacio all'arrivo e alla partenza,
e che hanno facce a prima vista rotonde e illese che gli adulti,
sbarazzati dei loro giacconi fuori misura si fanno sentire ossuti e
fragili come uccelli.
Ragazzini uomini e bambine donne, con il sogno d'uno swatch e un paio di
scarpe da tennis, con una pistola nella cintola e una gran voglia di
carezze.
Bambini che stanno in strada e ascoltano le notizie di Gorazde, dove
hanno il padre o il fratello.
Bambini che vanno a dormire al buio non c'è luce nelle loro case - e
ascoltano al buio le raffiche di mitragliatrice e gli schianti delle
granate.
Se li conoscete, quei bambini, e li immaginate, uno per uno, nel buio
freddo delle loro stanzette senza protezione, non potete più avere
notti normali, notti vostre.
E soprattutto terribile, di quei bambini che diventano vostri amici, la
vera premura protettiva che li anima verso di voi, come se la vostra età
adulta e il privilegio che vi portate addosso, di poter andare e venire,
fossero una ragione di vulnerabilità e di apprensione: come se sapessero
che non potete capire né guardarvi dal pericolo.
A volte penso che la telecamera, mezzo per me ancora nuovo ed
entusiasmante, riesce ad afferrare la verità di questa vita più
direttamente ed efficacemente: benché la telecamera debba anch'essa
chiudersi di fronte a certi sguardi troppo inermi ed esposti, a certi
gesti troppo denudati.
Soprattutto non può, la telecamera, raccogliere l'odore di Sarajevo, un
odore misto di milioni di cattive sigarette, di immondizie putrefatte e,
peggio, malamente incendiate, di surrogati miserabili di saponi e
detersivi e profumi e talchi che chiudono la gola, un miasma che ristagna
sulla città come su un malato a morte.
La cosmesi ha un posto primario a Sarajevo, e celebra insieme la propria
dignità civile e la propria impotenza di fronte all'assedio della
barbarie.
Tinture per capelli, shampoo, bistro e belletti e rossetti e lacche
troppo cariche truccano i visi delle donne, come per una recita teatrale,
con l'effetto di far risaltare il pallore delle fronti, la cavità delle
guance, l'infossatura grigia delle orbite, i vuoti plateali nei denti.
Cosmesi di guerra, come c'è una chirurgia di guerra, altrettanto
essenziale.
Le persone hanno le fotografie a portata di mano, nei portafogli e nelle
borsette, e vi invitano a casa per farvi un caffè e mostrarvi i loro
album delle foto.
Hanno da farvi vedere i loro cari morti ammazzati: i loro padri e madri,
i loro mariti e mogli, fratelli e sorelle, figlie e figli.
Ma vogliono anche mostrarvi, più cautamente, più pudicamente, le proprie
stesse fotografie di due anni fa, un anno fa appena, perché vediate come
sono davvero, prima di perdere capelli e denti e chili, prima di quel
trucco artificiale e greve imposto dall'assedio, prima, insomma.
Provano a rimediare così alla pazzia vergognosa che li ha contraffatti, e
all'equivoco per cui voi li conoscete diversi da quelli che sono davvero:
vi danno la loro amicizia, e però vorrebbero che sapeste che loro non
sono così, che ancora poco fa erano altri, che forse un giorno lo saranno
ancora e allora potrete riconoscerli.
Più probabilmente, pensano in realtà, non lo saranno mai più.
La dimestichezza con la morte di questi due anni ha prodotto in loro
anche un altro cambiamento: che non pensano più soltanto a un mondo di
vivi e morti, di già morti e ancora vivi, e sentono invece di sé come
creature un po' morte.
Quasi morte, mi ha detto una ragazza.
Sentono che è avvenuto, e che è irreparabile.
Qualcuno vi si abbandona, come si smette di nuotare contro una corrente.
Li vedete per strada, quelli che si sono lasciati andare: e non sono
sempre i più deboli, o i più anziani.
Ma in loro vedete anche una specie di distacco, di trascuratezza e di
sollievo.
Negli altri invece una fatica terribile e fatale, di cui vi vergognate.
A Sarajevo, città di saliscendi e di scalinate, da due anni e passa
persone spossate dalla denutrizione trascinano piccoli e grandi fardelli,
pezzi di legno scovati chissà dove, brandelli di lamiera, taniche di
acqua riempite alla coda delle fontanelle, batterie smontate dalle
carcasse di automobili.
Spingono slittini e carriole di fortuna.
Si fermano ansimanti ogni po' di metri, con lo sguardo spento e il petto
rotto.
Salgono, vecchi o invalidi, ai loro piani di abitazione, il decimo piano,
o il quindicesimo, col piccolo peso del pacco umanitario conquistato dopo
ore di coda, negli edifici squarciati in cui l'ascensore è un patetico
ricordo.
Questa fatica è essa stessa una malattia, e i sarajevesi sembrano
riconoscervisi come i pazienti di uno stesso reparto d'ospedale.
Sembra che, non tanto una caduta di solidarietà e una brutalità, ma una
convenzione tacitamente ammessa e una elementare necessità di economia
delle forze abbiano cancellato da Sarajevo l'aiuto reciproco e l'impulso
a darsi una mano.
Nessuno aiuta la vecchietta che tira stremata la sua soma inciampata in
una buca della strada, e se l'aiutate la vecchietta sarà la prima a
meravigliarsene: come se fosse inteso che ognuno debba fare da sé.
Al tempo stesso, tutti fanno uno sforzo sovrumano per fare come se la
vita continuasse, come se nella paura e nella follia si potesse ricavare
ogni momento di nuovo una normalità.
Normale, parola altrove derisa, è il motto eroico iscritto sulla decorosa
bandiera dei sarajevesi.
Devono sapere, i sarajevesi, che ciò che è toccato loro ha devastato per
sempre la vita normale, e li ha fatti impazzire, li ha feriti nel
profondo del cuore e della mente.
Lo sanno, ma non rinunciano al proprio buon diritto e alla propria
coscienza dignitosa.
Hanno visto i loro nemici vicini e lontani, i briganti fanatizzati
reclutati nelle campagne della Serbia o del Montenegro e scagliati contro
le città bosniache, o i loro vicini di ieri indemoniati da una voglia di
sangue e di ferocia contro i propri stessi membri di famiglia: l'hanno
visto, non hanno voluto crederci e insieme si sono detti di averlo sempre
saputo possibile.
Si sono guardati da quella follia, l'hanno disprezzata, hanno rivendicato
la propria civiltà socievole e il proprio amore per la città contro la
barbarie primitiva, urbicida, infoiata di passione per la forza e le armi
e di smania razzista e sterminatrice.
Hanno rivendicato, con più determinazione e precisione sotto la bufera
che li massacrava e li umiliava, la propria appartenenza al mondo della
civiltà e dei diritti, della libertà e del rispetto per la vita e del
piacere delle differenze: al mondo dell'Europa e delle sue capitali,
delle Nazioni Unite e delle loro sacre carte.
Questo mondo li ha ripagati dichiarando che l'aggressione
nazionalcomunista che essi subivano era una guerra civile - quanti ancora
pronunciano questa infame menzogna, per ignoranza, o per cinismo, o per
la carezzevole nobiltà di una posizione apparentemente neutrale.
Questo mondo ha attivamente impedito che la Bosnia, Stato sovrano e
riconosciuto, potesse procurarsi le armi per la propria difesa contro la
schiacciante supremazia militare degli aggressori.
Questo mondo ha ipocritamente dichiarato sotto la propria protezione le
città e i paesi lasciati in realtà in balia dei massacri sistematici.
Negli scorsi dieci giorni, fra i 65 e gli 80 mila bosniaci abitanti o
rifugiati a Gorazde, una delle città dichiarate protette dalle Nazioni
Unite, sono stati lasciati alla mercé del mattatoio annunciato e
perpetrato dai nazionalcomunisti di Mladic e Karadzic, mentre i cialtroni
che rappresentano la legalità internazionale proclamavano prima che a
Gorazde non c'è alcun pericolo, poi, mentre il sangue correva nelle
strade, che la situazione è fluida, infine che l'Unprofor è lì a
difendere se stessa e non le città.
E a massacro avanzato, dopo un altro ultimatum imbelle, e una sequela di
umiliazioni subite per mano dei banditi serbi, l'Unprofor è alla fine
arrivata tra le macerie di Gorazde a evacuare i superstiti: cioè, a
soccorrere tardivamente gli scampati, ma anche, nella brutale sostanza, a
finir l'opera della pulizia etnica.
Negli stessi giorni, a Sarajevo, gli "snajper" ricominciavano a tirare al
bersaglio dei passanti, agli incroci di strada e sul tram: e si
risentivano le granate.
Così i cittadini scoprivano - ma anche questo, l'avevano sempre saputo...
- che la tregua e la fine delle sparatorie sulla città sono una
capricciosa concessione degli assedianti, e che la protezione
dell'Unprofor è un bluff destinato a durare quanto il capriccio dei capi
serbi.
Ai cittadini di Sarajevo accettare questa verità, pur dopo due anni e
mezzo di conferme sanguinose, costa moralmente e intellettualmente mille
volte di più che aver dovuto scoprire di che cosa erano capaci i capi e
gli scherani serbonazionalisti.
I cittadini di Sarajevo non sanno spiegarsi come ciò possa avvenire in un
mondo vicino, in cui hanno tanti amici personali, di cui conoscono le
lingue, di cui vengono a sapere, sia pure attraverso la cortina di
silenzio che li avvolge, che un film sul genocidio nazista degli ebrei ha
un successo trascinante.
I cittadini di Sarajevo ripetono all'Europa che il fascismo è tornato nei
panni del nazionalcomunismo grande serbo e dei suoi alleati nella Russia
di Zhirinovskji, che gli stermini razzisti perpetrati in Bosnia
Erzegovina e nella ex-Jugoslavia minacciano l'Europa e il mondo delle
democrazie come negli anni Trenta le prove generali della guerra di
Spagna e poi le invasioni naziste.
I cittadini di Sarajevo, nei loro appelli, pronunciano ancora le parole
fascismo internazionale come se fossero autoevidenti: ingenui.
I cittadini di Sarajevo si chiedono come sia possibile che i pacifisti e
le persone di buona volontà, gli stessi di cui hanno più volte
sperimentato la solidarietà e la dedizione, non manifestino per approvare
e anzi sollecitare e imporre l'intervento armato internazionale, e
addirittura facciano l'opposto: o non muovano un dito e non dicano una
parola, come tutti gli altri, mentre a Gorazde - o altrove, ieri e domani
- si macella lentamente una popolazione di inermi.
Le persone di Sarajevo si chiedono quanti anni, e quanti milioni di altre
vittime, ci separano dal giorno in cui nomi come Gorazde saranno
celebrati come Guernica o Marzabotto, e si faranno grandi film sul loro
martirio.
E' soprattutto per questo che i cittadini di Sarajevo sono impazziti.
Si può essere assediati, decimati, torturati, vilipesi: ma bisogna sapere
che, di là dai nidi degli sparatori e dai fili spinati, di là dalle
barriere della città assediata e devastata, c'è una comunità di persone
libere che sentono e pensano come noi, che sentono e pensano a noi.
Perciò, nei gesti e negli sguardi dei sarajevesi mi è sembrato di vedere,
negli ultimi quindici giorni, benché non ci siano stati bombardamenti né
stragi nella città, passare un'amarezza disperata e finale.
Un po' com'era successo con la primavera precoce, anche per la tregua e
la promessa di una normalizzazione è arrivata la gelata.
A Sarajevo primule e pervinche sono fiorite, dapprima di nascosto, sulla
terra fresca dei cimiteri, poi nei giardini.
Gli spazi di terra non vengono più inseguiti, palmo a palmo, dalle nuove
tombe, e all'opposto vi si moltiplicano gli orticelli di guerra,
meticolosamente recintati con ramoscelli, cordicelle, avanzi di lamiere e
di plastiche.
Il tram si è fermato per mezza giornata, dopo che i cecchini hanno
sparato su quattro passeggeri, poi è ripartito, e anzi ha ripristinato il
percorso intero, fino al cuore della città vecchia.
Il semaforo funziona, e lo si rispetta con grande legalitarismo.
Uno stipendio mensile è ancora di due marchi o tre.
Un chilo di caffè costa ancora ottanta o cento marchi.
Al semaforo, la gente corre per evitare i tiri degli "snajper", ma si
ferma lo stesso al rosso.
Gente normale, in una città normale.
Ecco perché fate bene a non andare a Sarajevo.
Potreste star male.
Potrebbero venirvi dei pensieri, sul caffè e sui semafori, sul fascismo
internazionale e sull'Europa, sui cosmetici e sui danni del fumo.
E sulla canzone che i passeri di tutto il mondo continuano a cantare, ma
a Sarajevo si capisce più distintamente: E' uno scherzo, uno scherzo, è
tutto uno scherzo.
SARAJEVO, VIA DELLA LUNA (Cuore, 7 maggio 1994)
Vorrei spiegarvi l'impressione della prima sera in cui percorsi al buio
le strade di Sarajevo, su un'auto che correva a fari spenti, slittando
sul ghiaccio, per eludere il tiro dei cecchini.
Il guidatore - poi è diventato mio amico, lo chiamano avantreno, perché
una volta una granata centrò la parte posteriore della sua macchina, e
lui proseguì di corsa su due sole ruote, fino a ripararsi dietro un muro
accendeva ogni tanto per un momento i fari, e in quella luce breve e
spettrale scoprivo una folla di pedoni che marciavano ai bordi della
strada, e anzi schizzavano via al passaggio dell'auto in un modo patetico
e buffo, come pesci davanti alla prua di una barca a motore, o come
ranocchi in un ruscello.
Quella moltitudine di figurine rapide e solitarie svelate come in
un'impresa clandestina dal bagliore di un faro, che si affrettavano
ciascuna a una propria meta, mi fecero sentire davvero come un visitatore
all'inferno.
La sera dopo, benché avessi ricevuto raccomandazioni di stare in guardia
dai cattivi incontri, dai ladri e dai banditi, non vidi l'ora che facesse
buio - veniva presto, era ancora inverno pieno - per aggirarmi nelle
strade, uno fra tanti, sconosciuto e irriconoscibile, appena illuminato
ogni tanto dal passaggio rischioso di un'auto o da una lama di pila
balenata dalla mano di un pedone o di un ciclista.
Nessuna città permette così presto di appartenerle come la Sarajevo delle
notti tenebrose e svelte, subito prima dell'ora del coprifuoco.
Mi era bastato un giorno per essere uno fra gli altri, che sapeva dove
andare, e come conciliare il passo agli intralci della strada.
Il fondo delle strade di Sarajevo è disseminato di rosoni di granate,
grumi di pozzanghere più larghe al centro, via via più piccole ai bordi,
e il piede deve imparare ad aderire a quel suolo bucherellato.
Che si sia in tanti, ad andare a passo svelto nella notte, quando la
notte è nera e senza luna, lo si sente più che vederlo, nel silenzio
strano e attraversato continuamente da respiri un po' affannati, ed è una
misteriosa abilità che fa sì che ci si sfiori senza urtarsi.
A volte passa un ubriaco, chissà di cosa, e sventola la sua piletta
accesa dal basso all'alto, e allora decine di voci basse e imperiose lo
avvertono che spenga il suo fanale e vada in malora.
C'è, in questo muoversi fugace e occulto, simile forse a certe visite
notturne in angiporti di malavita antica, di figure di puttane e di
borseggiatori che scivolano fuori da androni e vicoli, piuttosto che
un'apprensione e una minaccia, un senso di comunanza e di sicurezza
complice: nessuno è nessuno, tutti hanno un nemico comune, e una
protettrice comune, la notte.
Io infatti vado a piedi, e la notte, oltre a tenermi al suo riparo, mi
impedisce di passare per straniero: o tramuta tutti allo stesso modo in
stranieri.
Di giorno, a Sarajevo, si è guardati subito da tutti come stranieri; per
quanto si traversi in lungo e in largo la città trascinando borse e
pacchi di cose da consegnare, in ciò simili alla gran maggioranza dei
sarajevesi, che trascinano fardelli in ogni direzione, e anche in questo
c'è un'aria di girone dantesco.
Tuttavia basta ai sarajevesi uno sguardo per dichiararvi stranieri:
forse, temo, per una floridezza delle vostre guance, o per un dettaglio
del vostro abbigliamento, o, chissà, per il vostro stesso sguardo, perché
gli manca qualcosa, un'ombra che sta in tutti gli altri.
La confidenza che i sarajevesi hanno preso con la morte può trarre in
inganno.
E' un fatto che la loro graduatoria dei rischi è diversa e spesso
incomprensibile per chi viene dall'altro mondo.
Questa modificazione è avvenuta in loro in modo inavvertito, cosicché
quando ve ne meravigliate con loro - per esempio, quando se ne stanno
distrattamente e indolentemente in un punto esposto ai tiri ricorrono,
più per cortesia che per effettiva convinzione, all'argomento del banale
fatalismo.
Quando sarà venuto il mio momento, vi dicono, non importerà dove mi
troverò, o come mi comporterò.
Io credo, vi dicono, che ciascuno di noi abbia il proprio destino.
Una donna intelligente, cui avevo obiettato che questo banale fatalismo
rischia di tramutare in un imperscrutabile disegno del destino l'infamia
e la ferocia dell'aggressione, mi ha risposto quasi risentita.
Lo so, lo sappiamo meglio di chiunque, mi ha detto.
Lo sappiamo che questa non è la nostra morte, che questo macello
all'ingrosso non è il nostro destino.
Al contrario, che ci deruba del nostro destino, della nostra morte
personale.
Noi abbiamo paura di ammetterlo verso i tanti nostri cari che sono morti,
come se ne svalutassimo la morte, ma in verità tiriamo avanti con un
unico obiettivo: scampare a questa falcidie anonima, brutale quanto
gratuita.
Noi non abbiamo voglia di vivere, di sopravvivere: al contrario, io credo
che nei più fra noi un desiderio triste ed esausto di morire si sia
insediato come una malattia.
Soltanto, vogliamo tirare avanti fino a tornare a una normalità, a
un'esistenza in cui a ciascuno sia restituita, più che la sua vita, la
sua morte personale.
In cui ciascuno possa andare incontro alla propria morte, e sfuggire al
destino anonimo e di massa di un intero popolo, che altri hanno
condannato.
Solo a questo noi miriamo davvero, noi adulti: a durare un minuto di più
di questa mostruosità.
A guadagnarci una data e una causa di morte tutta per noi: la nostra
morte personale, non quella di un popolo, di una cittadinanza, di una
guerra o di una pestilenza.
Voi non potete capirlo.
Alla vigilia dell'ultimatum che preparò una tregua pur precaria arrivò a
Sarajevo anche un anticipo di primavera.
Così, in una notte di luna, potei uscire nelle strade della città per una
vera passeggiata, in compagnia di un giovane uomo, uno scultore, con cui
ho fatto amicizia, benché lui non parli altre lingue, e io sappia poche
parole in bosniaco.
Lui, in realtà, ha uno strano repertorio di parole forestiere, tratto da
qualche catalogo di vendita e da qualche didascalia televisiva, con
improvvise infiltrazioni di parole difficili - bombastic, per esempio -
usate chissà a che sproposito, ma con un fervore febbrile: per esempio, a
bombastic prolece, una primavera bombastica, come diceva indicando lo
splendore della luna sulla Miljacka, e facendomi dubitare che quel
trasognato bombastic fosse nella sua immaginazione legato alle bombe che
piovevano dall'altro versante del fiume.
Mi ha segnalato, a un certo punto della passeggiata, che avremmo dovuto
deviare per andare in qualche posto che sapeva lui.
Lo seguii così, sempre con un'andatura piacevole da passeggiata, verso un
quartiere di case asburgiche, palazzi grigi dalle decorazioni ondulate.
Lui accendeva ogni tanto una piccola pila, più per mostrarmi qualche
cimelio della strada che per illuminare il cammino: un cumulo di scatole
di latta vuote e rosse di corned beef, un'auto bruciata e sforacchiata
dentro la quale, da un avanzo di sedile, è cresciuto un ramoscello di
chissà che albero.
In un punto si è diretto più speditamente verso un palazzo, e mi ha
indicato il portone sovrastato da due telamoni affaticati sotto il peso
di una balconata.
Una delle due statue aveva perso il braccio destro, l'altra la gamba
sinistra, il buco enorme di una granata si apriva nel bel mezzo del
balcone.
Pensai che avesse voluto mostrarmi quei due invalidi complementari, ma si
infilò deciso, e con una certa eccitazione, nel portone.
Attraversammo un andito dal quale partiva una scala, e poi sbucammo in un
gran cortile.
Era uno di quei palazzi di qualche piano, costruiti attorno a un cortile
interno, con due portoni, scale e gruppi di appartamenti su ciascun lato.
Il cortile doveva essere stato decoroso e quasi monumentale, benché
adesso fosse ingombro di carcasse e detriti.
Distinsi, aiutato dal cielo chiaro e dalla pila del mio amico, un
campetto da pallacanestro col cerchio di ferro sospeso sbilenco, senza
più tabellone; una fontana di pietra asciutta e sbrecciata; dei fili
stesi qua e là con su qualche straccio di bucato, e due grossi platani
dai rami alti troncati, e scorticati in basso come se ne avessero
raschiato via con le unghie schegge da fare il fuoco.
Attorno ai platani c'era qualche avanzo di panchina di pietra bianca
spezzata.
Il mio amico mi mostrò le pareti sul cortile, costellate di fori di
granate - come se si fossero tirate centinaia di palle di fango, capaci
di bucare e schizzare per metri attorno le loro schegge.
Poi mi indicò con insistenza i relitti di panchine attorno ai platani, e
con un buffo girotondo mimato mi spiegò che lì giocavano bambini e
bambine, e poi che bambini e bambine si sedevano per la merenda sulle
panche.
Poi mi mostrò i rami dei platani nel punto in cui erano troncati, mimò la
parabola della granata, l'inciampo fra i rami, la caduta rimbalzante
lungo il tronco, e l'esplosione poco sopra il suolo.
Aprì nove dita delle mani - nove bambini.
Poi tirò fuori un suo portafoglio, e una piccola fotografia, che illuminò
da vicino con la pila, mentre sedevamo sulla panchina rotta.
Era il viso di una bambina, coi capelli lunghi e lisci, e un'aria seria
seria.
My son disse, mia piccola.
Non disse altro, né io.
Poco dopo uscimmo dal cortile dal portone opposto, e ricominciammo la
nostra passeggiata notturna.
La luna era così chiara da lasciar vedere le ultime strisce di neve sul
monte Trebevic.
Stille nacht disse il mio amico in quel suo esperanto, bombastic moon.
LE UOVA DI SARAJEVO (Cuore, 23 luglio 1994)
Per una volta, posso raccontare una Sarajevo attraversata da un
provvisorio buonumore.
Due mesi sono bastati a portare grandi cambiamenti.
L'estate, intanto, calda anche qui, e appena mitigata dai temporali che
ogni pomeriggio scendono dai monti occupati.
I ragazzini sguazzano nella Miljacka, si tuffano con un'aria spavalda, da
marana romana.
In mutande, lasciano pesare il recupero sulla magrezza da guerra.
Ci sono ancora costole che sporgono, ma come per una dimenticanza.
Il miglior colpo d'occhio viene dai fruttivendoli, zeppi di banane,
pomodori bellissimi, peperoni, perfino angurie.
Sulle banane è scritto: 2DM.
Ne compro per dieci marchi, convinto che costino due marchi l'una (due
mesi fa costavano il doppio): me ne danno cinque chili.
Ci sono bucce di banana in terra - un nuovo pericolo.
Si trovano arance, ciliegie, perfino lamponi e fragole - a cinque marchi.
Prezzi ancora minacciosi per la generalità delle famiglie, ma è un altro
vedere.
La frutta viene dall'Erzegovina.
Gigio mi dice che c'è gente che ingrassa a vista d'occhio.
Persone preoccupate fanno jogging in giro per la città.
Mangiano soprattutto uova, i sarajevesi.
Per due anni e mezzo non se n'erano più viste.
L'umor nero di Sarajevo domandava: E' morto prima l'uovo o la gallina?.
Ora ci sono uova dovunque, piramidi di uova, cinquanta al prezzo di un
uovo di due mesi fa.
E la gente, in cambio di quel solo uovo che due mesi fa non poteva
permettersi, ora ne mangia cinquanta.
Gli faranno male, tutte queste uova.
Li si vede incrociarsi per le strade col cartone di uova in bilico sulla
mano, come in un numero di equilibrismo.
Questa fine repentina del mercato nero - è bastato riaprire una strada, e
neanche asfaltata - deve aver dato un dispiacere a parecchi.
Chissà in che cosa investono ora le fortune di guerra.
D'altra parte i più sono ancora poverissimi, perché i pomodori (nome
locale: "paradais" - era quello il frutto proibito) costano solo due
marchi e mezzo al chilo, ma due marchi e mezzo sono più dello stipendio
di un mese, per i lavoratori pubblici.
Tutti i bar sono aperti: nessuna città del mondo ha tanti bar.
Molti sono vuoti.
Da tutti viene fuori una musica, così innumerevoli canzoni si mescolano
nell'aria estiva di Sarajevo, e il vento le porta in giro.
Vestita leggera, la gente è allegra.
Il punto più debole sono le scarpe.
Di notte si spara ancora, raffiche, improvvise e arbitrarie, colpi
singoli, mortai, granate.
Nessuno ci fa caso.
Ogni tanto qualche palla fischia anche di giorno sulla testa dei
cittadini indifferenti.
Mediamente si conta un morto e un paio di feriti da cecchini al giorno,
ma non fa notizia.
La prima notte sono restato al buio - infatti, c'era l'elettricità - ad
ascoltare gli spari, e ricordarmi di quelli dei tempi peggiori.
Poi è venuto un gran temporale, e sono restato al buio a sentire i tuoni.
La pioggia benedice gli innumerevoli orti di fortuna (di sfortuna,
insomma) che sono comici e rigogliosi, qualche centimetro quadrato di
ogni ortaggio, come in un dizionario di verdure.
Pomodori e fagiolini decorano i davanzali.
Nelle case c'è l'acqua, un paio d'ore al giorno, e la luce un giorno su
tre, più o meno.
Nel centro artistico di Skenderjia si è inaugurata una mostra di
ingegneria, o ingegnosità, di guerra: le stufe, stufette, cucine,
surrogati di candele, batterie a pedale di biciclo, indumenti ricavati
dai teli di plastica dell'Onu, slittini e carriole di pezzi scombinati,
con cui la gente si è arrangiata per più di due anni.
Speriamo che, fatta la mostra, l'uso sia finito.
E' comunque il caso di un rapporto fra uso vivente e museo, fra
espediente d'emergenza e folklore che non aspetta neanche dieci minuti di
intervallo, ma li rende contemporanei e vicendevoli.
Metti il generatore domestico in mostra in galleria.
Ecco, così.
E adesso ritiralo fuori, perché hanno ricominciato.
Ora scrivo, è un'altra notte, la luce è accesa, prima un bambino ha
strillato a lungo, poi hanno cominciato ad abbaiare i cani - anche loro
si sono rincuorati - e adesso sono partite le sparatorie.
Raffiche di kalashnikov, e qualche colpo più forte e rotolante, che si
rispondono e si propagano come gli ululati dei cani.
C'è un cielo stellato e una falce di luna.
Sparano, si direbbe, perché non ne possono più di sentire la notte
disturbata dai bambini che piangono e dai cani che abbaiano.
Vorrebbero dormire, chissà.
Gigio mi ha presentato sua nonna, ha 89 anni, ha già visto tre guerre, ha
detto Gigio: la Prima Guerra, la Seconda Guerra e Questa.
Questa infatti non ha un nome suo - neanche un suo territorio: è la
guerra nella ex-Jugoslavia, in un posto che non c'è più.
Non è la Terza Guerra, se non per la nonna di Gigio.
Dal modo in cui lo ha detto: Ha già visto tre guerre, si capisce che è
stato attento a non escludere che ne possa vedere altre, se Dio le darà
salute.
Gigio somiglia a un Depardieu asciutto, era direttore del casinò, ora
aspetta, ed è nervoso.
Può capitare che, per dare una mano, stia seduto in macchina quando
parcheggiamo, come antifurto.
A volte mi viene paura che rubino l'auto con Gigio dentro.
Nel cortile del ginnasio domenica scorsa c'era un concorso canino, e
anche questo è un formidabile segno dei tempi.
Più dei cani qui erano interessanti i padroni, apprensivi e responsabili.
Spingevano i loro cani a sorridere alla mia telecamera più di quanto
facesse Anna Magnani con la sua ragazzina.
Poi ha ricominciato a piovere.
Mi hanno raccontato la storiella di quello che viene a Sarajevo, e piove.
Passano dieci anni, torna a Sarajevo, e piove, gli chiedono: Com'è
Sarajevo?.
E lui: Non male, ma piove da dieci anni.
Naturalmente viene da sostituire pioggia: Sparano da anni.
Trovo Fadil, è sempre magrissimo, ha intrapreso pochi minuti fa una
carriera di contrabbandiere di sigarette.
Mi spiega tutto: ha preso in prestito cento marchi dal cugino, ha
comprato dieci stecche di Drina, le ha pagate dieci, le rivende a undici
e mezzo, se riesce a venderne una quindicina di pacchetti al giorno in
una settimana ci guadagna quindici marchi.
Intanto arrivano due poliziotti.
Lui sparisce e mi dà un borsone con le sigarette: Di' che è tuo dice.
Così sono diventato complice di contrabbando.
Fadil non mi sembra tagliato per il business.
Rimpiange i giorni del mercato nero, cui del resto non ha preso parte: è
un infelice pescecane mancato.
A scuola è stato promosso, ha quattordici anni - l'età giusta, dice.
Non dice per che cosa: sottintende che le altre età sono ingiuste e forse
è vero.
Si guardano le partite.
Dopo che la Bulgaria ha eliminato la Germania, i cetnici si danno a gran
sparatorie di festeggiamento per i fratelli ortodossi bulgari
(fratellanza scoperta molto di recente, e del tutto pretestuosamente) e
per l'umiliazione degli odiati tedeschi.
Ragione in più, a Sarajevo, per tifare Italia contro la Bulgaria.
I ragazzini giocano a pallone in tutti gli angoli della città, e recitano
i nomi dei loro eroi.
Anche nelle partitelle di Sarajevo c'è un bambino più piccolo, agile e
gracile che viene messo ai bordi, e adibito a raccattare la palla.
Lo fa con malinconia e dedizione.
Si butta giù dai muriccioli, si tuffa nel fiume per ripescarla.
Gli altri sono impazienti, si irritano se, riportandola, la trattiene
troppo, o addirittura si attarda a palleggiarla.
Il raccattapalle aspetta il giorno in cui finalmente lo faranno giocare,
magari in porta, perché gli altri non vogliono stare in porta.
Ha scarpe più lunghe di due numeri, e slabbrate.
Cova in lui una grandezza non solo calcistica.
Fa un tifo appassionato, fra sé e sé.
Nel suo tifo gli italiani vanno più forte di tutti, con quei nomi rimati
che si possono canticchiare come una filastrocca:
"Dino Baggio Roberto Baggio Gian Luca Pagliuca"
La finale la vedo con Gigio.
Lui adora tutto dell'Italia, dalle magliette al taglio dei capelli di
Massaro.
Ci rimane più male di me.
I rigori non sono sportivi, dice.
Sono come la roulette.
La roulette era il suo mestiere.
I cetnici sparano una dose normale.
Dev'essere venuto sonno anche a loro.
Ai tempi dell'umor nero, il fotografo di Sarajevo voleva scrivere sulla
sua insegna: Fatevi la foto, subito! Stasera potreste essere morti.
Ora fa una quantità di scatti Polaroid da passaporto.
Infatti sta ridiventando faticosamente possibile uscire dalla città, e la
gente fa la coda per avere i permessi.
Quattro pose, dieci marchi.
I rollini mancano ancora, e le foto private sono un lusso.
Una signora molto anziana e dolce mi ferma e mi chiede timidamente se
potrei fargliene una, e farla avere ai suoi figli e nipotini, che sono in
Italia, e non si vedono da quasi tre anni.
Se sapesse com'era bella Sarajevo!, dice.
Tutti dicono così: com'era bella Sarajevo! Com'era dolce la vita di
Sarajevo! E' questa, oltre al dolore e all'umiliazione, l'esperienza più
profonda dei sarajevesi: che la vita di prima era dolce e preziosa e che
qualcuno, per stupidità e cattiveria, l'ha potuta d'un tratto rovinare e
distruggere.
Provano a spiegarci la lezione della vita di prima, ma diffidano di
riuscirci.
Loro stessi non l'avrebbero capito, prima.
Così, si dedicano con ogni cura ai pomodori sulla finestra e ai tumuli
dei cimiteri, che ora sono fioriti di malva rosa e scarlatta e di
violaciocche.
Girano fra le tombe, donne bambini e cani, con la dimestichezza
tranquilla con cui si sta in un giardino pubblico.Questa naturalezza
consolante non fa che segnalare più penosamente lo scandalo che si è
consumato: che fra quelli che poco fa appartenevano allo stesso
caseggiato, alla stessa classe di scuola, alla stessa squadra di calcio,
alla stessa coda a una fontana, allo stesso gruppo di passeggeri di un
tram, o di passanti di un marciapiede, alcuni sono sottoterra, altri,
vivi, vanno per le loro strade, a casa, a vedere la partita, al bar, a
fare il bagno nel fiume.
Doveva essere così, un tempo, con le pestilenze.
Tuttavia questo succede altrove, di là dall'Adriatico, in un altro mondo.
Quando ho riattraversato l'Adriatico e sono sceso, l'altro giorno,
dall'aereo canadese dell'Onu che porta da Sarajevo a Falconara, ho
trovato l'aeroporto pieno di bambini e ragazzi.
Avevano facce belle, bionde e accaldate.
Erano trattenuti lì da qualche ora per delle irregolarità formali nella
compilazione del visto d'ingresso, benché fossero ospiti invitati nel
nostro paese.
Erano bambini di Chernobyl.
ITINERARIO PER UN VIAGGIO NELLA CITTA' FERITA (L Unità, 18 agosto 1994)
Se fossi papa - diceva Cecco Angiolieri, che era di cattivo umore allora
sì che sarei contento, e tormenterei tutti i cristiani.
Se fossi stato il papa sarei andato a Sarajevo.
Anche il papa, se fosse stato in me, ci sarebbe andato.
E' stato più volte evidente, infatti, che ne aveva un gran desiderio.
Questo significa, semplicemente, che il papa è meno libero di noialtri.
Il paradosso del viaggio del papa a Sarajevo è proprio questo: che il
viaggio è importante perché a farlo è il papa, e che il fatto che sia il
papa gli impedirà, più ancora di altre volte, di fare il viaggio che
vorrebbe.
Ho letto qualche anno fa un libro del cardinale Ratzinger.
Si apriva citando vivacemente alcune scritte sui muri delle strade di
Roma.
Mi piacque quell'esordio, che dava un piglio vivace e quotidiano a pagine
di dottrina.
Poi pensai malinconicamente che Ratzinger doveva aver carpito e annotato
le futili scritte sui muri - sui laziali bastardi, o su Antonio che ama
Elvira - in qualche passaggio veloce, dal finestrino della sua auto nera,
con le tendine magari, come un prigioniero fa tesoro delle figure dei
suoni e degli odori del mondo avvertiti durante un trasferimento (anche
lì, attraverso una grata).
Naturalmente, la letteratura conosce da secoli l'immaginazione del papa
che passa, dissimulato, nel mondo e ne fa la stupefacente scoperta.
Sarebbe facile addebitare alla misconoscenza del mondo - non una
conoscenza falsa, ma una mezzo vera, dunque più rischiosa, com'è sempre
quella filtrata dalla presenza del papa - ciò che meno ci piace delle
opinioni di Giovanni Paolo secondo: e in particolare le sue sempre più
perentoriamente ribadite sulla sessualità o sulla maternità.
E' un fatto che nessuna autorità mondana ha pronunciato la protesta, il
dolore e lo scandalo per quello che si consumava nella exJugoslavia come
questo papa.
Nessuno ha dato altrettanto vigore e nettezza alla proclamazione cruciale
del diritto e del dovere dell'ingerenza umanitaria (consacrato bensì in
leggi internazionali, ma restato lettera semivuota).
Sono in molti a non volere - a non aver voluto finora - Giovanni Paolo
secondo a Sarajevo.
I primi sono i nazionalisti serbi e, fra i serbi, la loro gerarchia
ortodossa, in prima fila nell'ignobiltà etnica.
Nella chiesa cattolica croata - e dei croati di Bosnia - tentazioni
nazionalistiche non sono mancate, ma non si può dire che il papa le abbia
fomentate, e neanche che se ne sia lasciato pregiudicare.
Fra gli esponenti religiosi musulmani di Bosnia ci sono, com'è
comprensibile, di fronte all'eventualità di un pellegrinaggio papale,
sentimenti contrastanti di accoglienza e di gelosia: soverchiati dal
desiderio unanime dei musulmani comuni di ricevere il papa.
Un desiderio di quelle persone infelici e dignitose, dalla lunga
disillusione.
Infine, tra le potenze degli stati e dell'Onu, il viaggio del papa è
sentito per lo più come un'interferenza, una concorrenza, una gran
seccatura.
Quanto all'entourage più stretto del papa, è ragionevole che senta delle
preoccupazioni.
Così ragioni di stato e di religione e private cospirano a impedire il
pellegrinaggio del papa.
Nei giorni scorsi, quando sembrava che fosse un fatto compiuto, qualcuno
ha pregato che il papa circoscrivesse la visita a una breve discesa
all'aeroporto di Sarajevo.
Benché non sottovaluti il valore simbolico delle cose, soprattutto
trattandosi di papi, mi si è stretto il cuore.
L'aeroporto di Sarajevo è un campo cintato distante dalla città e dalle
persone che non siano militari dell'Unprofor, ufficiali e soldati
spaesati o, per mascherare lo spaesamento, bruschi e scostanti.
Se il papa scendesse lì, i sarajevesi ne sentirebbero tutt'al più parlare
come di un evento remoto e aeronautico.
Il papa scenderebbe, un mulinello di polvere rossastra gli sporcherebbe
il vestito bianco, dei militari cortesi ma fermi lo tirerebbero via in
fretta mentre cerca di chinarsi a baciare la terra, per paura degli
"snajper".
Sarebbe risospinto su un aereo, senza vedere più di qualche cocuzzolo di
colle tra i cui boschi è passato un pettine di ferro - e il titolo dei
giornali e t.g.: Il papa a Sarajevo.
Nemmeno questo, probabilmente, gli sarà permesso fare.
Peccato.
Ma il papa, forse, perderà la pazienza.
Successe perfino a Gesù.
Perderà la pazienza e farà di testa sua.
Oppure, più mitemente, pregherà molto e diventerà, per qualche ora,
invisibile, o visibile in altre fattezze.
Libero.
All'aeroporto, com'è per tutti, il suo viaggio comincerà, anziché finire.
Lungo il tragitto guarderà le case sventrate, le lenzuola e i teli di
plastica stesi per rendere, pateticamente, le persone invisibili ai
cecchini.
Scenderà in centro, starà attento a dove mettere i piedi sull'asfalto
bucato dalle granate come da schizzi di pozzanghera.
Imparerà a conoscere la città lasciandosi portare dal caso, e dagli
incontri.
Incontrerà, forse, la mia amica Iseta - è facile riconoscerla, dai cani
randagi che l'accompagnano e dalle scatole di cartone che si porta
dietro, oltre che dal gesto con cui si aggiusta il fazzoletto quando
qualcuno, raramente, si sofferma a guardarla.
La prima volta mi aveva detto, Iseta: Tanti saluti al papa, in tedesco.
Era ingenua, pensava che io potessi incontrare il papa, e che il papa
potesse ricevere i saluti della gente.
L'ultima volta che l'ho incontrata Iseta era in forma.
Lei è musulmana e usa sempre un intercalare che al papa potrebbe piacere:
grazie a Dio.
Non ho più nessuno, dice, né la casa, ma grazie a Dio sono viva.Il papa,
naturalmente, vorrà entrare nella sua cattedrale: è lì, a pochi metri dal
mercato del più famoso massacro, tutti i sarajevesi ci passano e ci
ripassano davanti nella passeggiata della dolce serata estiva.
L'abside della cattedrale è coperta da una grande vetrata a colori.
Al centro c'è naturalmente la crocifissione, e i proiettili si vedono
bene i buchi dall'esterno - l'hanno colpita in modo tale da spezzare la
lastra che formava il torace di Cristo.
Così, per un caso singolare, il Cristo in croce ha un vuoto bianco al
posto del petto il papa forse vorrà leggervi qualcos'altro che il caso, e
in ogni modo è un'immagine suggestiva.
Il papa visiterà poi invisibilmente i cimiteri: non occorrerà che li
visiti, ci si passa continuamente attraverso, a Sarajevo, perché i
cimiteri erano già tanti, di tante devozioni, e ora anche i giardini
pubblici e privati sono diventati camposanti.
Se l'8 settembre sarà una bella giornata - perché non dovrebbe, un giorno
così speciale? - il papa potrà andare a guardare i tuffi e le nuotate dei
ragazzini nella Miljacka, e, con l'aria di giocare con i sassolini del
greto, li benedirà.
Di lì, dalla Biblioteca Moresca, potrà salire su un tram.
I tram di Sarajevo - i più antichi d'Europa - sono rossi, salvo uno, il
prediletto dei bambini, che è giallo e azzurro.
L'anima di Sarajevo è nei suoi tram.
Per questo i cecchini si accaniscono tanto sui passeggeri.
Il papa farà tutto il lungo itinerario del Viale dei Cecchini - l'ultimo
tratto libero prima di tornare all'aeroporto.
Avrà così l'agio di guardare il viso, gli occhi, i polsi e le scarpe dei
suoi compagni di viaggio, e di dedurne le storie di questi due anni e
mezzo.
A un certo punto il papa si sentirà guardato a sua volta con insistenza
da una vecchina magra e con gli occhi scuri.
La vecchina gli dirà, in una lingua strana ma misteriosamente
comprensibile a un papa polacco: Lei non è un passeggero.
E con l'aria di armeggiare con la sua borsa di rete lo benedirà.
DIARIO MINIMO DALL'ALTRO MONDO (L'Unità, 20 novembre 1994)
C'è sempre un tocco amaro in più nelle storie terribili di Sarajevo.
Si sarebbe tentati di chiamarlo destino; ma non bisogna togliere agli
assassini neanche una briciola del loro merito.
Parecchie persone di Sarajevo avevano cercato riparo dall'assedio a
Zagabria, o a Belgrado, se la lotteria etnica glielo permetteva, e se
avevano parenti.
La bambina di tredici anni ammazzata da un cecchino mentre era in casa,
qualche giorno fa, era rimasta con sua madre a Belgrado fino a poco
prima.
Poi avevano deciso di rientrare e ricongiungersi col padre.Il cecchino
aspettava.
Ieri, lì vicino, hanno ammazzato un bambino di sette anni.
Alla tempia, un tiro magistrale .
E' facile equivocare su come vanno le cose a Sarajevo.
E' il 19 novembre, e continua una luminosa estate di San Martino, estate
dei poveri la chiamano qui.
Un supplemento di grazia: è anche una luce ideale per la mira degli
"snajper".
C'è la luna piena, e anche le notti, nonostante il buio delle case, sono
chiare. L'umor nero della città è l'unico a rifiorire con l'inverno e
l'ambiguità è il suo pane.
Per esempio: i sarajevesi non vedono l'ora di uscire dalla città, e
quelli che hanno potuto farlo, spesso dopo aver provato l'esilio, non
vedono l'ora di tornare.
Gira una storiella sul tunnel, il cunicolo scavato nella terra per un
chilometro che collega Sarajevo - nel fango, carponi - al resto del
mondo.
A metà del tunnel si incontrano due sarajevesi, uno che va, l'altro che
viene, e tutti e due dicono sbalorditi: Ma sei matto ad andare là?.
Enis, che si è fatto il suo mese all'estero, e vi ha rifocillato il suo
umor nero, racconta: Tutti sanno che a Sarajevo non si sopravvive senza
fumare, però in tre anni di assedio ho contato tre persone in tutto che
mi abbiano fermato per chiedermi da fumare.
A Milano un mucchio di persone mi hanno chiesto una sigaretta.
Uno per strada mi ha perfino chiesto dei soldi.
Quando gli ho spiegato che mi dispiaceva, ma venivo appena da Sarajevo,
gli è venuto un grande spavento ed è scappato.
Sul fumo, gira un'altra freddura.
Dei ragazzi attraversano il ponte di Vrbania, quando lo "snajper"
comincia a sparare.
Scappano, ma un colpo porta via un'orecchia a uno.
Quello torna indietro e si mette a frugare.
Gli altri gli gridano: Ma sei pazzo? Corri! Lascia stare l'orecchio. E
lui: Chi se ne frega dell'orecchio.
Mi è caduta la sigaretta.
Non so se qualcuno raccolga le storielle di guerra.
I pacchetti di sigarette scadenti si vendono per strada al grido di: Tre
per dieci marchi.
Una anziana signora va dal dentista e chiede quanto le costerà rifarsi un
dente.
Quattro marchi, dice il dentista.
Facciamo tre per dieci marchi? dice la signora.
La barzelletta non è granché, ma batte dove il dente duole.
I denti scompaiono e compaiono nelle bocche dei sarajevesi, e non solo di
quelli anziani, seguendo l'altalena dell'assedio.
Nella breve e fervida tregua estiva, quando la strada blu si era aperta,
in tanti erano corsi, se potevano permetterselo, a riempire i buchi che i
due anni e passa di assedio avevano aperto nei loro sorrisi.
Ora, è di nuovo il contrario.
Tutta la città è sforacchiata, ma i buchi improvvisi nei sorrisi delle
persone sono quelli che turbano di più.
Una donna giovane, e del resto molto bella, raccontava l'altra sera della
vita sessuale propria, e dei sarajevesi.
La donna si chiama Mersiha, che vuole dire - spiega - porto, approdo: ma
nessuna nave è in vista da tanto, dice.
Il fatto è, secondo lei, che l'amore ha bisogno di un po' di attesa e a
Sarajevo nessuno adesso se la sente di aver cura di un altro per più di
qualche momento.
Lei dice che succede
con l'amore come con lo scatolame di cui i sarajevesi nauseati si cibano
da tre anni.
Apri la scatola, e devi mangiarla tutta subito, se no va a male.
E chi può prendere gusto a una cosa del genere? Le conversazioni così
sono usuali a Sarajevo, e hanno un tono insieme affabile ed esasperato.
La giovane Mersiha mi era stata presentata sì e no cinque minuti prima.
Se dovessi dire qual è la cosa più significativa dei rapporti umani nella
città derelitta, sceglierei questa intimità assoluta ed effimera, questa
confidenza senza passato né futuro.
L'ha provata forse, da noi, chi ha frequentato i rifugi sotto i
bombardamenti.
Ma non parlo dei rifugi di qui, posti fortunosi e desolati, bensì della
penombra dei caffè, o delle stanze di case in cui scende la sera, e si
resta a parlare al buio, o a lume di candela, e le persone si muovono
lentamente e a piedi nudi. Tutto si può dire per una volta sola.
Questo forse somiglia all'amore, e lo sostituisce.
L'argomento cui inevitabilmente si torna, da qualunque avvio, è la
normalità.
Siamo ancora esseri normali, noi? - si chiedono le persone - e se sì,
come è possibile? E se noi lo siamo, che cosa sono gli altri? E l'Europa?
L'Europa è infatti l'altro capo del viavai di domande sulla normalità.
I sarajevesi, dice uno, sono tutti pazzi, ma non lo sanno ancora.
Un altro racconta la storiella dell'équipe di psicologi dell'Unprofor (le
forze di protezione delle Nazioni Unite) che chiede al primo sarajevese
quanto fa tre più tre.
Martedì, risponde quello.
Il secondo: Ventiduemila.
Il terzo: Sei.
Entusiasti di averne trovato uno normale, gli psicologi chiedono: E come
hai fatto?.
Semplice.
Ho moltiplicato martedì per ventiduemila.
Enis, che è un po' matto, ma lo sa, conclude la discussione così: A
Sarajevo siamo normali, ma di una normalità, per così dire, al quadrato.
Del resto l'altro ieri sono cadute quattro granate sulla Presidenza della
Repubblica, ieri un paio, e mentre scrivo ho perso il conto dei botti: e
questo altrove non sarebbe ritenuto normale.
L'interlocutore esterno, che legge negli occhi dell'ospite sarajevese la
domanda - Vi sembriamo ancora normali? ha voglia di rimandarla a sua
volta, come allo specchio.
Per fortuna c'è subito qualcuno che alleggerisce l'aria con un nuovo
quiz: E' enorme, blu, e non serve a niente: che cos'è?.
La risposta è: l'Unprofor.
Ieri sera ho invitato a cena un po' di amici, in un ristorante scelto a
caso.
Abbiamo mangiato bene, per i tempi che corrono, e serviti da un signore
premuroso.
Durante la cena i miei commensali sarajevesi si davano di gomito.
All'uscita me l'hanno spiegato.
Al tempo delle Olimpiadi della neve dieci anni fa, Kirk Douglas era
andato a cena là, e quel signore gentile gli aveva presentato un conto di
5000 dollari.
La polizia lo arrestò e gli ritirò la licenza per cinque anni.
Il mio conto è stato ragionevole.
C'è perfino un televisore acceso, con lo schermo a strisce, ma un audio
passabile.
Certo, dove sono le nevi di un tempo? Smetto.
C'è di nuovo bel tempo, e vado in giro.
Le storie vi vengono incontro, basta uscire per strada.
Se nessuna vi ha fatto ridere, non importa.
Non fanno ridere nemmeno qui.
SE SARAJEVO CADESSE (L'Unità, 1 dicembre 1994)
La sera di lunedì anche a Sarajevo erano arrivate le cattive notizie: la
stretta su Bihac, e le dichiarazioni delle autorità internazionali
secondo cui i cetnici sono vincitori sul campo, ed esse se ne lavano le
mani.
Se dovessi dire come hanno reagito i sarajevesi, sarei in imbarazzo.
Semplicemente, non hanno reagito.
Hanno altro da fare.
Si sono scaldati la loro cena di fagioli umanitari, senza gas e corrente
elettrica, nel focherello di una stufa.
Si sono aguzzati la vista studiando una lingua straniera, a lume di
candela.
I pochi che escono ancora prima del coprifuoco delle dieci, per
incontrarsi al caffè e parlare d'altro, si sono forse lavati i capelli
con l'acqua gelata conservata in una bottiglia di plastica.
Una ragazza di vent'anni, che studia pianoforte e si esercita in una
stanza di scantinato, ha continuato a esercitarsi.
Sono passato e, come ogni volta, l'ho ascoltata dalla strada.
Il suo piano è un po' scordato, e ha il mogano bucato da una scheggia di
granata.
In compenso, suonare per tante ore al buio migliora la memoria e la
sensibilità della ragazza.
Lunedì sera suonava Chopin.
Qualche Chopin, qui o in esilio, prepara forse una musica degna della
caduta di Sarajevo.
La caduta di Sarajevo è infatti diventata possibile, benché resti
impensabile.
Questo volevano dire le notizie arrivate lunedì da Parigi o da Bruxelles.
Prima di tutto, la caduta di Sarajevo è impensabile.
A meno di immaginare una grande città, una capitale, in cui vivono ancora
poco meno di trecentomila persone, messa a ferro e fuoco da branchi di
armati sadici e ubriachi.
Le persone di Sarajevo verrebbero sgozzate nelle strade col coltello da
macellaio.
Le autorità internazionali ribadirebbero di essersi dovute rassegnare
all'impotenza.
Le catene internazionali trasmetterebbero il massacro in mondovisione.
Se per giunta l'inverno sarà un po' più inoltrato, lo spettacolo della
neve e del sangue sarà formidabile.
Ciò è impensabile per una mente che conservi un affetto umano.
Ebbene: tutto quello che era impensabile si è finora compiuto, nella
exJugoslavia e nella Bosnia-Erzegovina.
Dunque la caduta di Sarajevo è possibile, e bisogna parlarne subito.
Qui nessuna epopea accompagna l'orrore, nessun eroismo militare cadrebbe
virilmente con Sarajevo.
Per altre ragioni questa città è martire e testimone di ciò che vi è di
più alto nel nostro tempo.
I suoi cittadini non hanno compiuto gesta di valore combattente, ma gesti
minori, quotidiani, pazienti di resistenza umana.
Non il campo di battaglia, ma la resistenza oltre ogni limite nel campo
di prigionia è la sua gloria.
Gli inni, le medaglie, le frasi nobilmente retoriche non le competono: ma
la fatica ingegnosa degli espedienti per sopravvivere, l'attenzione
riservata alla dignità esteriore anche nella desolazione, i sorrisi di
cui restano capaci bocche sdentate.
Perfino il valor militare, sui fronti della Sarajevo assediata, ha
qualcosa di domestico e di carcerario.
Panni poveri, scarpe di gomma slabbrate, ragazzi che stanno due giorni e
due notti in trincee di fango e di gelo, e poi, se è andata bene,
rientrano per due giorni e due notti a casa, o sui banchi di scuola.
I capi bosniaci si erano forse illusi, nel corso della tregua estiva, di
avere riorganizzato le proprie file, e messo insieme un armamento meno
fortunoso.
La stampa internazionale ha anche lei intitolato alla irresistibile
controffensiva musulmana.
Non era così, e non poteva essere così.
La tragicommedia di Bihac, dove i raid virtuali della Nato hanno cantato
il coretto ai bombardamenti cetnici, in barba al solenne impegno di
protezione delle Nazioni Unite, ha riportato i rapporti di forza al punto
di prima.
Come al tempo di Gorazde, i controllori dell'Unprofor sono finiti
controllati a vista dai militari cetnici.
Senza cedere a polemiche troppo facili nei confronti dell'Unprofor, è un
fatto che nei tempi meno disastrosi essa si occupa prevalentemente del
proprio (lauto) sostentamento, e nei tempi peggiori della propria
particolare sicurezza.
Col passare del tempo, le rivalità fra organismi internazionali, governi,
ed emissari in loco, sono cresciute a dismisura, fino a provocare la
paralisi quando non il sabotaggio reciproco.
Tutto questo, lungi dall'impensierire Karadzic, gli ha spianato la
strada.
Gli ha permesso di giocare col mondo come il gatto col topo, lui, l'ex-
psichiatra affetto da cattiva vena poetica e da enuresi notturna - un
tratto umano, finalmente.
Fatto compiuto dietro fatto compiuto, Karadzic si è assicurato come in un
laboratorio senza rischi l'impunità.
Ogni cedimento internazionale è diventato un suo nuovo nullaosta.
Intanto sono passati tre anni, e contro un tribunale per i crimini di
guerra messo su avaramente, stanno i défilé di Karadzic a Ginevra e i
pellegrinaggi dei potenti a Pale.
Questa fenomenale sedicente "realpolitik" non ha solo ottenuto di
deridere la legalità internazionale e di calpestare i diritti umani
primari, ma di insediare ai bordi dell'Adriatico i russi, oggi di Eltsin,
domani di uno Zhirinovskji qualunque. (Se va bene Karadzic, infatti,
perché non Zhirinovskji?).
Ciò non era mai avvenuto, neanche quando per impedirlo ci voleva davvero
del fegato, come nel dopoguerra di Tito.
Così stando le cose, lo scacco matto alla civile Sarajevo non aspetterà
più molte mosse.
Vedrete che, nell'attesa e per rendere digeribile fra poco ciò che è
ancora impensabile, si moltiplicheranno le dichiarazioni roboanti sulla
tutela internazionale di Sarajevo, e i progetti più strampalati sulla sua
ricreazione.
Poi verrà la fine.
Sarajevo sarà bombardata fino a farla stramazzare.
I grandi del mondo si troveranno in qualche palazzo belga e si
confesseranno, con aria triste, impotenti.
I cetnici barbuti metteranno in scena il loro programma in bianco e
rosso.
L'Unprofor sarà impegnatissima nell'evacuazione di se stessa.
Si parli dunque della possibile caduta di Sarajevo e con essa della
catastrofe della nostra civiltà in questa fine di secolo.
Si smetta di concedere alibi al cinismo e alla viltà.
Infiniti sono gli alibi.
Quel malinteso amor di pace che suscita di quando in quando mirabili
opere di infermeria ma non disturba i macellatori.
L'equidistanza, ipocrita spesso, illusoria sempre: motivata dal pretesto
che i bosniaci sarebbero pronti a fare come i loro nemici, se ne avessero
la forza.
Intanto, non ne hanno la forza, e la differenza non è da poco.
Poi, per riconoscere l'aggressore, non si richiede un certificato di
illibatezza dell'aggredito.
Infine, la repubblica di Bosnia-Erzegovina e il suo governo sono
legittimamente sovrani e come tali riconosciuti dalle Nazioni Unite.
L'Italia, paese beato di chiacchiere e di avvisi di garanzia, avrebbe
potuto far tesoro dei pochi giorni terribili passati dalla gente dei
paesi alluvionati, delle notti del freddo, della mortificazione, del lume
di candela, per figurarsi più concretamente i quasi mille giorni
trascorsi dalla gente di Sarajevo in una condizione simile - salvo che,
in Italia, agli scampati non si sparava addosso.
Non so come se ne sia parlato.
So che qui tanti mi hanno chiesto dell'Italia, della sua terribile
alluvione.
Non sapevo come fare a raccontar loro dell'insufficienza dei soccorsi.
LE DONNE FANNO RISORGERE SARAJEVO (L'Unità, 12 dicembre 1994)
La Cattedrale di Sarajevo è un posto di appuntamenti.
Ci vediamo alla cattedrale, si dice, da qualunque religione si venga.
Ieri mattina, domenica, l'appuntamento era speciale: la prima messa da
cardinale dell'arcivescovo Vinko Pulijc.
Solennità e confidenza insieme, qualità delle chiese dove sono in
minoranza, hanno cercato di avere la meglio sul gelo dell'inverno e dei
marmi.
Di tutte le promozioni, quella cattolica al cardinalato è forse la più
sontuosa: e il contrasto fra la prostrazione, il freddo e il buio di
Sarajevo e l'elevazione alla porpora che si è guadagnata è davvero
spettacoloso.
Un onore - l'unico forse - tributato dal mondo a un uomo degno e per il
suo tramite alla sofferenza e al supplizio di una città.
Esso avviene nel momento in cui tutte le potenze temporali del mondo
sembrano mettersi in combutta per abbandonare definitivamente la Bosnia e
Sarajevo.
Di questo contrasto è vissuta la cerimonia di domenica, e quelle che
l'hanno preceduta.
Nella messa di domenica, che commemorava anche i settecentocinquanta anni
dalla fondazione della prima cattedrale a Sarajevo, sono risonati
soprattutto gli appelli alla pace e al perdono, al ritorno in sé.
Sabato sera il nuovo cardinale aveva parlato una lingua franca.
Oggi, aveva detto, si celebra la giornata internazionale dei diritti
dell'uomo: ebbene, a Bihac, a Sarajevo, alla Bosnia, non è accordata
neanche una piccola parte delle attenzioni e della protezione che il
mondo sviluppato riserva ai suoi animali domestici.
Prima di quelle parole secche attori avevano recitato, musicisti avevano
suonato, contralto musulmane e tenori di Zagabria avevano cantato.
Autorità di tutte le confessioni avevano applaudito forte per la
commozione, e per scaldarsi.
I soliti contrasti forti di Sarajevo, la città che ha ora un cardinale,
titolare della chiesa romana di Santa Clara - ogni cardinale ha infatti
il titolo di una delle chiese cardine di Roma e domiciliato in un
appartamentino a tre metri dal quale una granata ha sfondato il muro.
Il cardinale ha ringraziato tutti: in particolare, ha detto, i bambini.
Non erano tanti, nella cattedrale: solerti però a sventolare bandierine
vaticane e cuori rossi di cartone, come certi lecca lecca dei paesi
ricchi.
Tra i fedeli, di fronte alla moltitudine di concelebranti maschi attorno
all'altare, le persone più commoventi e commosse erano le donne anziane,
e le suore di tutte le età.
La gioia delle suore è davvero speciale, devota com'è ai successi altrui.
Casalinghe di Dio e dei suoi ministri, sfaccendano nella fredda
cattedrale lavando il pavimento con le maniche rimboccate, mettono in
riga i bambini, passano il dorso della mano sui paramenti per stirarli.
La loro felicitazione è riservata e assoluta.
Una di loro è sorella del nuovo cardinale: due volte.
In questi giorni, si è sentito dire che il papa ha parlato di una
speranza legata alle donne, e di un fallimento di cui gli uomini devono
ormai prendere atto.
In nessun posto è vero come qui.
Ora la percentuale di donne di Sarajevo che aspettano bambini è due volte
più alta di quanto fosse tre anni fa, prima di questo inferno.
Molti temettero che la visita mancata del papa preludesse all'abbandono
di Sarajevo.
Sta avvenendo, compresi i propositi di diserzione delle Nazioni Unite,
che riparerebbero così alla meschinità della loro presenza.
La Bosnia sarà preda di una nuova spartizione, una Polonia minore e senza
protettori, da cancellare dalla carta geografica.
Solo il papa ha fatto di Sarajevo una frontiera decisiva dell'epoca.
Qui i cattolici sono una minoranza e non esiste una questione cattolica.
Esiste una questione musulmana, e il cinismo internazionale si spiega
anche così.
Ma l'errore è qui micidiale: i bosniaci non sono musulmani senza
petrolio, il loro non è un capitolo della generale questione islamica, se
non in misura per ora secondaria.
L'eccezione dell'islamismo bosniaco - in una popolazione slava come i
suoi vicini, che parla la loro stessa lingua - sta soprattutto nella sua
storia di minoranza, da quando l'impero turco si è ritirato da queste
regioni.
Nella cultura islamica bosniaca la mescolanza e l'apertura hanno avuto
uno spazio maggiore.
Nel loro stile di vita, di Sarajevo soprattutto, un cosmopolitismo di
provincia, e un'attenzione verso le grandi capitali europee, hanno avuto
una parte determinante.
L'odio accanito che i razzisti serbi e croati riservano ai bosniaci
(diverso da quello che nutrono gli uni per gli altri, dedito alla mutua
sopraffazione) è la conferma di una legge dei razzismi profondi: che il
loro furore non è acceso dalla differenza ma dalla somiglianza.
Non da una diversità troppo radicale - un altro colore della pelle, un
costume - ma da una somiglianza così stretta da insinuare una
frustrazione e un'invidia impaurita.
Al bosniaco dal nome musulmano non si può neanche inventare il naso
adunco, né un suo libro sacro in cui esiliarsi - il Corano non lo è.
E' spesso laborioso, ha inclinazioni intellettuali e artistiche, è alieno
dalla burocrazia e dalla carriera militare.
E' un musulmano più diverso dai musulmani dei paesi dell'Islam che dai
cristiani e dagli ebrei della sua terra e dell'Europa.
E' questa singolarità che si vuole sopprimere.
Essa assimila davvero antisemitismo (e antiarmenismo) e furore
antibosniaco; al tempo stesso rende indiretta e condizionata la
solidarietà di alcuni stati islamici, e fornisce una spiegazione
terribile, benché forse non del tutto consapevole a loro stessi, del
cinismo dei governi e degli uomini di cultura liberale.
Un papa, e la chiesa cattolica bosniaca, hanno fatto eccezione alla
regola universale dell'ignoranza, della brutalità e del realismo.
Questa è la piccola buona notizia dell'arcivescovo di Sarajevo diventato
cardinale.
Alla fine della messa, i cetnici hanno festeggiato a loro volta con un
congruo lancio di granate sul centro.
L'Unprofor le avrà contate meticolosamente.
Si avvicina Natale, è l'altra buona notizia.
Un presepio qui è pronto.
La neve arriva, gli alberi sono rosicchiati fino alle radici, candele
poche, le donne sono incinte, i falegnami disoccupati, e dappertutto ci
sono angeli: al buio non si vedono, ma si sente il battito freddo che
fanno le loro ali.
MILLE GIORNI DEL GULAG SARAJEVO (L'Unità, 30 dicembre 1994)
Cominciato il 6 aprile del 1992, il tormento di Sarajevo compie i suoi
mille giorni il 31 dicembre.
La coincidenza ha un'amara intelligenza, poiché ogni giorno ha la sua
notte, e ogni notte di Sarajevo rimbomba di colpi: i nostri fuochi
d'artificio coincideranno con le mille e una notte di Sarajevo.
La sua Sheherzada (si chiama così in bosniaco) continuerà il racconto
infinito per dilazionare la condanna della città.
Mutata, nei nostri titoli di giornale, da luogo reale in evocazione
infernale, Sarajevo resta ancora penosamente sconosciuta.
Per descriverla, i suoi viaggiatori hanno fatto ricorso a ogni
espediente.
Hanno mostrato i buchi nei muri delle case, le rose delle granate fiorite
ad ogni passo sull'asfalto delle vie, le bocche sdentate.
A Sarajevo le madri affiderebbero i propri figli bambini a qualunque
visitatore di passaggio, col pensiero di non rivederli mai più, pur di
mandarli lontano da quegli spari e da quella tosse.
E' strano che questo non sia diventato un rovello insostenibile per le
nostre notti.
I viaggiatori a Sarajevo ne sono presi fino al furore, e insieme resi
reticenti.
Quell'inferno non ha bisogno di chi vi discenda per dargli voce.
E' pieno di voci, fioche o alte, capaci di dire di sé e ansiose di farlo.
Della singolarità della nostra reazione fa parte anche la riluttanza ad
ascoltare le voci dei sarajevesi, dei passanti e dei poeti, degli
scrittori e dei venditori di tabacco agli angoli di strada.
Che da noi Sarajevo sia raccontata solo dal montaggio cruento dei
telegiornali o dai pezzi degli inviati speciali, e che tanto poco spazio
si sia fatto alla traduzione, fa parte del nostro disagio, e del
desiderio di tenere i fatti dell'ex-Jugoslavia alla distanza rassicurante
dell'esotismo.
Dopotutto Bihac è a poco più di un'ora d'auto da Trieste, e Sarajevo a
neanche un'ora di volo umanitario da Falconara.
Troppo vicino per non voltare la faccia da un'altra parte.
Dopo un certo tempo, il viaggiatore a Sarajevo trova il proprio posto,
grazie allo spaesamento stesso che finora lo metteva a disagio come ogni
sano e robusto in visita in un sanatorio.
Gli succede di ricordare i propri anziani genitori nella coppia di
coniugi in abiti dignitosamente lisi che escono, sostenendosi l'un
l'altra, dall'androne di un palazzo bombardato in cui si distribuisce un
chilo di farina e mezza bottiglia di olio, di vedere il proprio
professore di liceo nel signore avvilito che offre libri vecchi, una
penna stilografica, un cappello, a un angolo di mercatino.
Di vedere una propria giovane amica nella ragazza bella dai capelli
maltinti che serve ai tavoli di un bar a lume di candela.
Il viaggiatore smette allora, con un leggero capogiro, di vedere nella
città straniera assediata e umiliata i suoi abitanti segnati da mille
giorni e notti, per riconoscere in loro le fisionomie note e care dei
propri concittadini e amici e parenti.
Poiché un volo di neanche un'ora gli basta a tornare, il viaggiatore a
Sarajevo non ha avuto il tempo di sgombrare gli occhi e la mente da
quello scambio di figure, ed ecco che lo scambio reciproco gli si fa
incontro.
Le coppie che passeggiano ben vestite e affabilmente sicure di sé, il
professore ben rasato che sfoglia compiaciuto gli ultimi volumi
scambiando frasi superflue coi commessi di libreria, la bella ragazza dai
bei capelli, diventano sotto il suo sguardo, distorto come da una
malignità radiografica, i loro corrispondenti sarajevesi, dal passo
malfermo, dallo sguardo mortificato, dagli occhiali rotti e tenuti
insieme con un pezzo di carta adesiva, dai capelli colorati con qualche
intruglio di fortuna.
Nelle vetrine natalizie traboccanti il viaggiatore cercherà il riflesso
della propria faccia, spaventato di scoprirla illividita e sdentata e
grigia come in un vetro rotto di Sarajevo.
Così, dopo tanto tempo e tante andate e ritorni, il viaggiatore a
Sarajevo ha finalmente una propria malattia a cui badare.
Aveva rinunciato, dopo averci provato, a diventare sarajevese: non
bastava infatti andare lì, rischiare le stesse granate, sentire lo stesso
freddo.
Per essere sarajevese occorre non poter entrare né uscire nella città da
mille giorni; occorre esservi esposti al tiro a segno, alla fame, al
freddo, all'umiliazione senza averlo scelto, né avervi avuto alcuna
parte, né averlo potuto neanche immaginare; e occorre comunque essere
stati sarajevesi prima, quando la vita era vita.
E d'altra parte il viaggiatore a Sarajevo non è più semplicemente la
persona di prima, né riesce più ad appartenere in pieno al proprio mondo
- all'acqua calda della propria casa, al proprio negozio di alimentari e
al proprio programma televisivo, al linguaggio privato e pubblico della
propria nazione e della propria vacanza all'estero.
In un certo senso, si è perduto.
Le cose che cerca di dire da lì passano inosservate, o ascoltate
distrattamente, solo per una benignità nei confronti suoi e della sua
passeggera mania.
Si è perduto, per così dire, nello specchio che la Bosnia e l'Italia
costituiscono l'una per l'altra.
Di questa esperienza del viaggiatore a Sarajevo possiamo tranquillamente
fare a meno, o addirittura deplorarne un tono querulo e magari
narcisistico, a condizione di non rispondere a qualche domanda.
Per esempio, alla domanda su che cosa sarebbe avvenuto mezzo secolo fa se
fosse stato possibile ai viaggiatori andare su e giù al ghetto di
Varsavia, o ad Auschwitz, o in Siberia.
O a una variante di questa domanda (che, naturalmente, non ha bisogno di
stabilire un'eguaglianza stretta, e tanto meno una gerarchia morale, fra
gli inferni che ragionevolmente paragona): cioè, che cosa avremmo fatto,
ciascuno di noi, se avessimo saputo e visto in tempo il ghetto di
Varsavia e Auschwitz e la Siberia.
O ancora, la domanda sull'eventualità che l'incendio divampato di là
dall'Adriatico non sia davvero così remoto e impensabile ed estraneo ai
fuochi su cui si soffia qui da noi, un po' per gioco, un po' per
imparare.
E poi la domanda sulla disgrazia sulla frattura che può irrompere nella
nostra civiltà irreparabile e brutale, come nelle nostre esistenze
personali: e travolgerne le fondamenta, quello che ci siamo abituati a
considerare guadagnato una volta per tutte.
E anche la nostra idea della Storia, e la sistemazione che ci siamo
illusi di compierne per il passato della nostra parte di mondo e del
nostro secolo.
Insomma, per la nostra vita e la nostra morte.
Questa canzone canta la Sheherzada sarajevese nella millesima e una notte
dell'assedio.
Nessuno va a Sarajevo senza pensare un po' più da vicino alla propria
morte.
Ma per i sarajevesi la vita e la morte sono diventate un'altra cosa, dopo
tre anni così.
Ci abbiamo fatto l'abitudine, dicono.
Ma non dev'essere vero.
Si fanno delle abitudini, per effetto della necessità, o della
ripetizione, a modi di emergenza di provvedere ai morti, non si fa
l'abitudine alla morte.
L'anno scorso i cetnici presero a bersaglio una sepoltura, e uccisero fra
gli altri due fratelli del sepolto.
Benché le cerimonie funebri siano diventate tanto frequenti e sbrigative,
e ci sia sempre meno tempo e spazio da riservare ai morti che fanno la
fila, e spesso i funerali abbiano dovuto compiersi furtivamente e nella
penombra, nonostante tutto ciò la presenza dei morti attraversa Sarajevo.
Pagati con un soldo troppo povero e svelto, i morti si aggirano nei
luoghi degli ancora vivi con l'ansia del creditore imbrogliato.
I cimiteri islamici sono sparpagliati un po' dappertutto.
Ci sono quelli antichi e monumentali, quelli raccolti attorno alle
moschee, quelli ricavati nei parchi pubblici e nei giardini, e infine in
tutti i pezzi di terreno sgombro.
Le persone non vanno al cimitero, gli passano continuamente accanto.
Si fermano brevemente, tengono le mani aperte davanti al petto, recitano
una preghiera e riprendono la strada.
Le persone di Sarajevo passano più volte al giorno dal luogo in cui giace
il loro figlio, la loro madre, il loro marito, la loro sorella, e si
fermano a pregare e ricordarli.
Questo è molto diverso dai nostri cimiteri suburbani, in cui andiamo di
tanto in tanto, e di proposito, così lontano e a parte.
I visi delle persone che si fermano a salutare debitamente i morti a
Sarajevo, sembrano provare un disagio, come se non riuscissero a spiegare
al morto e a se stessi il loro continuare a muoversi e andare.
Il posto in cui il morto si è fermato è un vero posto, e la strada che i
vivi fanno è faticosa e ingiustificata.
Questo vale soprattutto per i vecchi, che sono più lenti e provati,
cosicché fare una sosta lungo il cammino è per loro naturale: ma del
tutto innaturale è il paragone fra la loro età e quella dei sepolti che
si fermano a commemorare.
Sempre più spesso i morti sono più giovani di una, due, tre generazioni.
I figli e i nipoti e i bisnipoti li hanno preceduti nella morte, e i
vecchi non sanno sopportare questo peso.
E' che alla morte nelle nostre società longeve si associa una pazienza, e
invece qui l'ha presa una frettolosità capricciosa e sleale.
I cristiani del Mediterraneo non possono immaginare funerali senza donne,
donne nere, piangenti e chiuse nel dolore: si muore per loro, sono loro
ad accompagnare chi muore.
Nei funerali musulmani tradizionali le donne sono assenti.
Restano a casa, a pregare.
Non devono piangere, devono farsi forza.
Gli uomini vanno a seppellire i morti nei loro cimiteri di pietre, anche
quando i morti sono donne, o figli e figlie bambine.
I musulmani tradizionali dicono: è stato un funerale davvero distinto,
non c'era neanche una donna.
E' facile vedervi una conferma del confinamento domestico delle donne.
Le donne giovani e indipendenti non si uniformano a quell'uso.
Si insiste molto sul destino, e sulla consolazione che deriva ai vivi dal
sapere che si è compiuta la volontà divina.
A parte il fanatismo della guerra santa e del martirio per la fede, che è
qui del tutto assente, questo fatalismo è davvero un tratto profondo.
Si rimanda alla fatalità perfino di fronte a una brutalità criminale e
inconsulta come questa guerra.
La morte ha dato a ciascuno il suo appuntamento.
Ma l'attenzione che i sarajevesi mettono al destino è anche un modo per
riscattare il diritto alla morte singolare, personale contro l'arbitrio
anonimo della morte di massa, della mietitura all'ingrosso.
Già nel 1966 il municipio aveva proibito ogni ulteriore impiego dei
cimiteri antichi: se avessero immaginato! Ora, quando i cimiteri
s'ingrossano delle loro annate d'eccezione, quando le generazioni sono
accomunate non dall'anno di nascita ma dall'anno di morte, diventa più
forte il desiderio, se sopravvivere non si potrà, di acquistarsi una
morte tutta per sé.
Non è vero infatti che la morte sia la grande uguagliatrice: e il
livellamento delle persone nella morte è altrettanto odioso che quello in
vita.
Così sentono forse i sarajevesi.
La nozione di morte naturale è stata travolta.
Tutti i dati sulla mortalità perinatale e infantile, su quella tra gli
adulti e tra gli anziani, mostrano una correzione sconvolgente.
Chi è passato attraverso questi mille giorni ha comunque perduto una
parte ingente della propria promessa di vita.
Si muore di cecchini e di bombe, e di stenti e di crepacuore.
Fra gli scampati comincia a insinuarsi un disagio, l'impressione penosa
che siano i peggiori a sopravvivere.
Del resto, non è un caso che la Shehrezada bosniaca rinnovi all'infinito
le sue storie: i sarajevesi girano con il proprio necrologio nel
taschino.
Buon anno.
E' FINITA L'ORA D'ARIA DI SARAJEVO (L'Unità, 3 maggio 1995)
Che cosa sarà di Sarajevo e della sua gente? In apparenza, Si recita il
consumato viavai di tutti gli ultimatum: la spola inutile e irrisa di
Akashi fra Sarajevo e Pale, le riunioni del Gruppo di contatto in qualche
capitale lontana, le facce abbronzate degli alti ufficiali dell'Onu che
ripetono frasi di bronzo.
Ma a Sarajevo si parla d'altro: del ritorno della guerra in Croazia,
della battaglia finale, dell'occupazione dell'aeroporto, del
bombardamento della città.
Corrono cifre, non so da chi e come da prima calcolate, ma poi ripetute
con la rapidità con cui l'ansia diffonde i suoi cerchi in un luogo chiuso
e soffocato: diecimila, dodicimila morti nel conto dei giorni che
verranno.
Nella città le sirene suonano prima e dopo la pioggia di granate, senza
lasciar capire se annuncino l'allarme, o la sua interruzione.
Le persone sbrigano in fretta le loro incombenze, le spese, i saluti
scambiati in strada senza fermarsi, e tornano a rinchiudersi nelle case.
Il silenzio e l'attesa svuotano la città.
La tregua, violata mille volte, è scaduta ufficialmente il 30 aprile,
domenica.
C'era una gran primavera, e per qualche ora ragazze e ragazzi sono
tornati nelle strade.
Sono stato a guardare sulle facce i segni di un altro inverno finito.
Segni promettenti, a prima vista: capigliature più curate, trucchi
femminili meno forzati, fisionomie rincuorate.
La gran differenza sta nel ritorno, da un paio di mesi, di elettricità,
sia pure razionata, e acqua e gas, sia pure per qualche ora.
Fare il bucato a macchina, cucinare, riscaldarsi, usare perfino degli
ascensori: è una risalita dal precipizio che non può intendere chi non
l'abbia provata.
Anche la vita povera si riempie così di lussi: l'acqua calda qualche
mattina, un libro letto di notte non più al lume di candela.
Al loro terzo anno di assedio e reclusione, gli abitanti di Sarajevo sono
stati restituiti a una specie di prigione dura - e coi carcerieri che
giocano al tiro a segno sulla loro ora d'aria - dalla buia e fetida cella
di tortura in cui erano stati gettati.
Questo solleva i corpi, indebolisce gli spiriti.
Sento dire: Appena tre mesi fa avere la luce e l'acqua mi sarebbe
sembrato un sogno: ora le ho, e sono avvilita.
Si sono riallacciati cavi e condutture (perfino per la corrente elettrica
è il tunnel a fare da tramite: anche la luce viene da quel cunicolo
angusto) ma non si sono riannodati i capi della speranza.
Sarajevo ha continuato a vivere alla giornata, e il 30 aprile si è
rifatta la domanda degli altri giorni: che cosa sarà domani.
Per un'ironia amara, il primo giorno dopo la fine della tregua è stato il
Primo maggio.
I sarajevesi hanno avuto il cuore stretto dal ricordo dei Primi maggio
trascorsi fuori città, al mare della Dalmazia, o sui monti che sono,
stavo per dire, a un tiro di schioppo.Non si entra e non si esce ora
nella città assediata, e i monti sono brulli dei boschi devastati e fitti
di tiratori ubriachi assassini.
Dei Primi maggio passati viene in mente l'altra faccia, le orrende parate
militari, celebrazioni, in teoria, della guerra partigiana e
dell'indipendenza jugoslava, annunciazioni, a rivederle ora, della tetra
macchina da guerra che si sarebbe di lì a poco scatenata.
Domenica, appena scoccata la mezzanotte, i cetnici della montagna
l'avevano salutata puntualmente con la stura dei loro mortai e cannoni
sulla città: un brindisi fragoroso alla fine ufficiale della tregua.
Nessuno qui sa dire cosa succederà, ma tutti hanno paura di cose
orribili.
Che la guerra combattuta divampi, che Sarajevo (e le città minori, a
cominciare dalle più esposte, Gorazde, Srebrenica) ne sia comunque
l'ostaggio.
Che una nuova trattativa, una nuova dilazione, ammesso che vengano,
esigano il prezzo di una strage mai toccata.
Ospedali e cimiteri sono preparati da giorni: spazi sgombrati, turni di
emergenza, appelli straordinari.
Domenica sera la televisione bosniaca ha trasmesso "Radio Days" di Woody
Allen.
Nessuna allusione alle ore che correvano.
Se non, involontaria, in una pista da ballo che si svuotava: Ma "chi" è
Pearl Harbour?.
Lunedì sera, invece, è andato in onda uno special sulle Nazioni Unite.
Il dato che ha fatto più impressione ai sarajevesi è stato il costo annuo
della carta igienica: un milione di dollari.
La carta igienica è fra i generi che più scarseggiano, qui, nonostante
l'Unprofor.
Oggi, martedì, mentre cade la dose regolarmente progressiva di granate, i
sarajevesi hanno appreso che sette granate hanno colpito Zagabria.
Lo scenario più probabile è quello di una guerra guerreggiata che vada
dai due fronti croato-serbi, della Krajina e di Vukovar, a Bihac, alla
Bosnia centrale, dove i bosniaci hanno riconquistato alture importanti
sopra Banja Luka, ai dintorni di Sarajevo, dove sognano da tempo un
controassedio.
Ma la sproporzione di armamenti rimane.
Per la prima volta, in un passaggio così cruciale, i giornalisti mancano.
Forse le giornate cruciali sono state troppe, e non fanno più notizia.
Del resto è troppo difficile arrivare a Sarajevo.
L'aeroporto è fuori uso, e i serbo-bosniaci lo pretendono brutalmente per
sé.
Dal monte Igman, unica via d'accesso, si viene con un altissimo rischio,
sotto il fuoco costante di mitragliatrici pesanti e addirittura di
granate.
Pochi si avventurano.
Il 30 aprile un giovane autista del governo è stato ammazzato, il primo
maggio una donna ha avuto le gambe tranciate di netto.
Avevo fatto l'Igman in pieno inverno.
Quando l'ho rifatto, pochi giorni fa, ai bordi della strada restava solo
qualche chiazza di neve, e invece ciuffi dorati di primule e tappeti di
crochi violetti.
Era un giorno di sole e cielo azzurro, maledettamente limpido: luce da
cecchini.
Nella mia auto, una giovane, medico sarajevese, ha detto, seria: Ora, chi
ha un Dio lo preghi con tutte le sue forze.
Domenica poi ho chiesto al cardinale Vinko Pulijc - un altro dei lussi
sarajevesi, il cardinale della città umiliata - di questa ennesima
condizione della città "in extremis".
Preghiamo e speriamo mi ha detto: come deve dire un cardinale.
Gli dèi erano di casa a Sarajevo, ma forse se ne sono andati.
Anche quell'ultima fra loro, la speranza, che nella lingua di qui si
dice: Nada.
Come in spagnolo per dire: Niente.
SARAJEVO SPERA NELLO SCONTRO IN CAMPO APERTO (L'Unità, 5 maggio 1995)
Il linguaggio ufficiale bosniaco non ha esitazioni: la chiama Guerra
di aggressione.
Ha le migliori ragioni, e del resto tutti hanno sempre chiamato
aggressioni le guerre altrui, e difeso le proprie.
Sono particolarmente interessato piuttosto al modo in cui la chiama la
gente.
Ebbene, la gente non le ha ancora trovato un nome.
La gente dice: Prima della guerra, o: Quando la guerra finirà.
La nomina più propriamente solo quando è costretta dal contesto.
Per esempio, quando parla di una persona vecchia, che ha visto la prima
guerra, la seconda guerra, e questa.
Questa è la terza nella vita delle persone più anziane, e tuttavia non ha
il diritto di essere nominata così perché non ce l'ha fatta a diventare
mondiale.
Così, come in una parabola orientale, il calendario sarajevese le enumera
così: la prima guerra, la seconda guerra, e questa guerra.
La guerra nella ex-Jugoslavia sta cambiando natura.
Per dirlo, occorre tuttavia mettersi d'accordo su che specie di guerra
sia stata finora, e se addirittura sia stata una guerra.
Da noi, la formula: guerra civile, ormai fin troppo consolidata rispetto
alla storia della nostra Resistenza, ha accontentato rapidamente i più.
Autorizzava l'idea (e l'ignoranza) corrente sui Balcani come groviglio
inestricabile di stirpi e tribù, e culla instancabile di macelli
bellicosi.
Ma quella facile etichetta di guerra civile ignorava due realtà decisive.
La prima, la responsabilità dell'aggressione e della violenza, raramente
così distinta, come qui nel nazionalismo grande serbo e etnico.
All'altro capo, la libertà e l'esistenza stessa della Bosnia-Erzegovina
sono state la posta accanita del doppio nazionalismo serbo e croato -
com'è evidente, per il secondo, in quel macabro monumento al mondo
spaccato in due secondo la legge del più forte e del più brutale che è
Mostar, nonostante la postuma e sforzata ricucitura.
La seconda realtà ignorata dalla nozione di guerra civile è che essa è
fin dalle sue radici guerra contro i civili, contro le popolazioni civili
e inermi, e più peculiarmente contro donne e bambini, con un'intenzione
che mescola la brutalità sessuale col genocidio.
La caratteristica che rende tutta la guerra moderna la violenza contro i
civili (così ben espressa in quella formula umanistica: mine antiuomo) -
qui è culminata fino a un'attitudine militare vile ed ebbra e insieme
impiegatizia che ama colpire da lontano e impunemente.
La metodica, monotonamente puntuale pioggia di granate e di tiri di
cecchino (o di proiettili di antiaerea prodigati, in mancanza di aerei,
contro i pedoni delle strade urbane) che si rovescia da anni su Sarajevo
e su Gorazde o su Bihac, ecco la guerra cui questi strateghi pensano, e
che ammette le battaglie e i confronti fra militari solo come incidenti
di percorso.
Le granate di Zagabria hanno mostrato al mondo questa squisita anima
terroristica della guerra contemporanea, con le immagini così simili sia
quando la morte arrivi da un cestino di rifiuti della metropolitana o
dalla cantina di un grattacielo, oppure da una rampa di missili oltre
qualche proclamato confine sovrano.
La morte del terrorismo militare insegue con intelligenza le sue vittime,
si può ben dire: nel centro di Zagabria è stata colpita e ammazzata - una
crocetta - una donna che era riuscita a fuggire fin lì da Sarajevo.
E' questa situazione che probabilmente sta cambiando in modo radicale,
per effetto di un migliore armamento dell'esercito bosniaco in primo
luogo, e di un'insofferenza verso una tortura delle città durata troppo a
lungo per dare ancora voce alle speranze o agli avvisi moderati.
Così, nell'estinzione di ogni formale cessate il fuoco, e nello
svuotamento penoso della presenza militare dell'Onu - le cui guarnigioni
vengono "ipso facto" messe sotto sequestro dai cetnici a ogni annuncio di
crisi - avanza la prospettiva di una guerra guerreggiata e regolare, con
armi e armati che si fronteggino in campo aperto.
Questa è, almeno, l'apparenza.
Perché? Intanto, perché il migliorato armamento dei bosniaci - quelli che
con una convenzione indebita la stampa chiama musulmani, trattandosi
dell'esercito legale, e ancora in qualche misura multietnico, di una
repubblica indipendente e come tale riconosciuta dall'Onu - è di dubbia
portata, e comunque molto al di sotto della potenza di fuoco pesante dei
serbobosniaci.
L'esercito bosniaco conta oggi, con una certa sicurezza di sé, su un
miglior equipaggiamento, sul numero, e soprattutto su una combattività
superiore.
A suo svantaggio giocano i calcoli delle potenze, Usa e Russia comprese,
per le quali la Bosnia è una pedina nelle reciproche trattative, nel
migliore dei casi, e nelle faccende elettorali interne, nel caso più
consueto.
In suo favore, la moltiplicazione dei fronti.
Nel corso degli ultimi mesi la situazione militare si è messa in
movimento sotto la coperta corta della tregua.
La Croazia punta a riprendersi la Krajina a Sud-ovest, e la Slavonia a
Est.
L'operazione dei giorni scorsi su Jasenovac, che ha suscitato il
bombardamento di Zagabria, è stata decisiva per restituire ai croati il
controllo dell'autostrada che porta dalla capitale al confine.
In Bosnia, il successo più importante dei governativi, militarmente e
simbolicamente, è stato la riconquista del monte Vlasic: sull'antenna di
un ripetitore, preso sanguinosamente dai cetnici all'inizio del
conflitto, hanno messo a sventolare una bandiera bosniaca di venti metri.
Dal Vlasic i bosniaci hanno il controllo di Banja Luka.
Altri confronti si sono preparati in punti cruciali come il corridoio di
Brcko e la seconda cerchia delle alture attorno a Sarajevo, dal lato di
Visoko e da quello di Trnovo.
L'intera geografia militare si gioca sull'antico rapporto fra l'alto e il
basso, fra monte e valle.
Conquistare le quote, tagliare i passaggi a valle: questa è la posta.
Ma il confronto fra l'alto e il basso agisce anche, alla rovescia, nelle
situazioni in cui sono i cetnici a occupare cime e pendii, e castigare da
lì, come nella storia del lupo e dell'agnello, le città che intorbidano
la loro acqua: Sarajevo in primo luogo.
Sarajevo è in fondo a una vera conca.
Il viandante che deve guardarsi dai cecchini non trova mai un punto del
suo cammino in cui levando gli occhi non veda un punto della montagna
occupato: cioè un punto dal quale non sia inquadrato dagli "snajper".
Armi di ogni genere sono puntate sulla città: e quelle messe in teoria
sotto il controllo dell'Onu tornano in mano ai cetnici senza che questi
debbano colpo ferire, e senza le proteste dei caschi blu.
Essere imbelli è la loro condanna, anche quando sono loro gli ammazzati o
i mortificati.
Così, il progetto, o il sogno, di una guerra via via più regolare che
conduca a una battaglia campale e alla liberazione finale di Sarajevo, è
costretto a mettere nel conto una distruzione terribile e vendicativa
della capitale.
Dopo più di tre anni di orrore, e centinaia di migliaia di morti e
milioni di deportati, e ore e minuti trascorsi ancora ogni giorno nella
paura e nell'infelicità, e dopo che è stata provata oltre ogni dubbio
l'inerzia o la viltà del governo del mondo, nessuna voce politica in
Bosnia può più permettersi di sostenere che il bombardamento delle città,
l'urbicidio moltiplicato, sia un rischio troppo alto per la scelta di
battersi.
Nessuna alternativa politica è stata formulata.
Possono levarsi voci diverse, voci di minoranza religiosa, voci di
persone comuni che guardino i propri figli chiusi in casa, ma sono ora
senza ascolto.
Gravissimo, pesa sui bosniaci un altro pericolo, che ad alcuni fra loro
può sembrare un acquisto: la tentazione di valersi dei punti conquistati
per rivolgere a loro volta le armi sulle popolazioni civili nemiche.
Questa tentazione è poco meno che irresistibile.
Ha dalla sua tutto: la giustificazione della storia, l'argomento della
rappresaglia come legittima difesa.
La ripugnanza per un nemico, come il governo di Belgrado, che ha
scatenato, fomentato e sostenuto una guerra di cui nella sua capitale non
è arrivata neanche l'eco delle esplosioni e dei pianti.
Occorrerà ai bosniaci uno speciale eroismo per rinunciare a fare come gli
altri, per mostrare di non essere stati diversi dagli altri solo quando
non ne hanno avuto l'occasione e la forza.
Fra tutti i contendenti, la Croazia è la più sensibile alle pressioni
internazionali, e la più tentata dall'opportunità di guadagnare quello
che è possibile, tirandosi poi fuori e lasciando la Bosnia alla sua
deriva.
Sacri egoismi di ogni genere verranno invocati per arginare i conflitti e
per sancire la vittoria del più forte.
La Bosnia non è in grado di vincere: forse può tirare fuori da sé una
forza bastante a impedire la propria liquidazione e la spartizione delle
spoglie.
Allora, nessuno può dire fin dove arriverà il contagio di questa peste, e
gli egoismi si riveleranno un'ennesima volta, oltre che immorali e
sacrileghi, miopi e suicidi.
L'Europa, che continua a guardare così dall'alto le bassezze dell'inferno
bosniaco, avrà allora il più brutto dei risvegli.
Oppure no.
Oppure tutto sarà destinato ai bosniaci: un piccolo orzaiolo nell'occhio
lungimirante della storia.
EVVIVA LA PIOGGIA: ACCECA I CECCHINI (L'Unità, 7 maggio 1995)
Venerdì a Sarajevo è venuto un temporale.
Che notizia è questa? si dirà.
Beh, lo è: basta confrontare il rombo amichevole del tuono con quello
delle granate.
Quando piove i cecchini si bagnano, e non vedono niente.
I ragazzi mi cantano qui una filastrocca che dice: Quando c'è la pioggia
- non c'è la guerra.
Giovedì, uccidendo un ragazzo di 15 anni nel sobborgo di Sredrenik, il
cecchino di Spicasta Stijena ha assicurato alla sua postazione il record
di cento persone ammazzate dall'inizio della guerra.
Immagino che abbia sportivamente brindato, ieri notte.
Giovedì era anche il quindicesimo anniversario della morte di Tito.
Nelle pagine dei necrologi di Oslobodjenje - le più lette un lungo elenco
di firme autorevoli lo ha commemorato.
Di fatto la Bosnia è l'unica nazione della ex-Jugoslavia in cui la
memoria di Tito è ancora viva e grata, e i suoi ritratti non sono stati
rimossi.
I giudizi politici sono i più diversi, ma tutti pensano che Tito sapesse
che questo avrebbe potuto succedere, e si è adoperato per impedirlo: per
dilazionarlo almeno.
Così la rovina di ora ha definitivamente proiettato Tito nel vecchio
mondo perduto, e un'aria di rimpianto, asburgico, che gli sarebbe
piaciuta, accompagna il suo nome.
D'altra parte anche altrove le cose devono essere più tortuose di quanto
le storie ufficiali rifatte dai nuovi stati lascino intendere.
Ero a Zagabria un mese fa, alla ricerca di un passaggio per Sarajevo, e
sono entrato in un cinema in cui davano "Gospà" - La signora - una
coproduzione croato-americana dedicata alle apparizioni di Medjugorje,
con Martin Sheen nella parte del francescano Joze e Michael York in
quella del suo avvocato difensore contro le persecuzioni comuniste.
Non so se il filmaccio sia arrivato in Italia, e in particolare a
Civitavecchia.
Nel cinema di Zagabria c'era un pubblico pomeridiano misto di giovani e
di anziani.
A un certo punto, il film mostrava una grottesca cerimonia di partito in
cui i malvagi burocrati arringavano altri ottusi burocrati, opponendola
alla fede sincera e povera dei pellegrini raccolti a Medjugorje.
Nella loro idolatria, i burocrati del regime cantavano l'inno a Tito:
Dragi Tito, mi ti se kunemo.
Caro Tito, noi ti giuriamo...
La rappresentazione grottesca di quel passato non ha impedito agli
anziani fra gli spettatori di Zagabria timorati, senz'altro, di Dio e
della nazione croata - di cedere per un momento al riflesso condizionato
di mettersi a canticchiare, come ai vecchi tempi, Dragi Tito....
Storielle.
Del resto si raccolgono storielle in questo universo estremo con una
premura da filatelici, o da medici legali.
Ci sono storielle, parole povere, gesti, che dicono molto più di venti
sedute del parlamento confederato.
Ieri sera per esempio ho commesso la leggerezza di dire a una bambina di
quattro anni, in mezzo a un gioco allegro ed eccitato: Vuoi che andiamo
al mare domani?.
E' diventata molto seria e ansiosa, e mi ha chiesto: E' una cosa vera, o
uno scherzo?.
Bisogna stare attenti agli scherzi distratti coi bambini reclusi.
E non solo coi bambini.
Una signora che conosco mi ha raccontato, con una malinconica ironia, che
resta sempre a guardare le partite di calcio riprese dalla televisione
italiana per poter vedere gli intermezzi pubblicitari, specialmente
quelli della biancheria e del caffè.
Suo marito è un famoso pittore, è malato e ha bisogno di cure che qui non
può ricevere.
Aspettano da molto tempo di partire per la Svezia.
Aspettiamo la Svezia dice lei ormai è un modo di dire.
Io non voglio vivere in Svezia mormora lui voglio morire a Sarajevo.
Le loro finestre danno sulla via principale, la Vase Miskina: a sinistra
è appena caduta una granata, a destra si alza un gran polverone bianco.
E' una squadra di muratori che lavora di lena a raschiare i muri d'angolo
di un vecchio negozio che sta per riaprire sotto la firma di Benetton.
Le ragazze passano e spiano nei locali in allestimento il poster che ne
promette di tutti i colori.
Benetton e i suoi colori hanno fatto un'ottima scommessa.
Un problema è caso mai di capire perché tanti altri non facciano lo
stesso.
Soprattutto, è francamente incomprensibile perché l'Italia, unico fra i
paesi europei, abbia a Sarajevo, invece che un'ambasciata, una
delegazione speciale.
Ed è sconcertante che non si sia finora sollevato il problema.
La delegazione è praticamente inabilitata alle funzioni essenziali, a
partire dalla concessione dei visti, ed è simbolicamente ciò che conta
ancora di più - una prova di avarizia.
Tanto più contraddittoria se si conosca la straordinaria simpatia in cui
tutto ciò che è italiano è tenuto a Sarajevo, già prima della guerra, e
assai più oggi, anche per il buon lavoro fatto dalla nostra
quasiambasciata.
Il governo italiano spiegherebbe forse l'anomalia come una forma di
prudenza: io userei una nozione meno benevola.
Queste, dunque, le ultime da Sarajevo, dove ieri è piovuto.
Oltre a ciò è mancata l'acqua, il gas e la luce.
In compenso, le sirene d'allarme sono suonate solo per una parte della
giornata.
Manca il latte per i bambini lattanti, mancano i medicinali specifici per
le donne incinte.
Ci sono, come sempre, mostre d'arte, spettacoli, anche sfilate di moda
locale.
Sono andato alla sinagoga sperando di vedere la celebre "Haggadah" di
Sarajevo, uno dei più splendidi codici miniati ebraici, opera spagnola
sefardita del quattordicesimo secolo, tesoro del Museo nazionale
bosniaco.
Qualche giorno fa il governo bosniaco aveva prestato il codice alla
comunità ebraica, ma non l'ho trovato.
Il prestito era durato solo un paio d'ore, il tempo di far sapere al
mondo che quella meraviglia non era stata, come si era insinuato,
venduta.
Ero attratto dalla bellezza delle miniature, ma anche dall'affinità del
racconto con la situazione di Sarajevo: le porte segnate per scampare
all'Angelo della Distruzione, i bambini tenuti svegli di notte,
l'appuntamento: L'anno prossimo a Gerusalemme, e soprattutto l'Esodo.
La storia di un mare che si apre ai fuggitivi ha un suono speciale in una
città prigioniera che, nell'Europa dei tunnel sotto la Manica, comunica
col mondo solo attraverso un angusto tunnel clandestino.
Per il rischio corso in quelle due sole ore di esposizione, il direttore
del museo sarajevese si era dimesso per protesta.
Nel 1941, il suo predecessore aveva ricevuto la visita di un ufficiale
della Wehrmacht che gli aveva intimato di consegnargli la "Haggadah".
Il direttore era stato così audace e pronto di spirito da rispondere di
averla appena data a ufficiali della Gestapo.
Poi il codice fu portato in salvo in montagna.
Ho trovato i capi della comunità ebraica piuttosto ottimisti.
Uno di loro, il vicepresidente, l'avevo visto preparare e guidare i
convogli che portavano via vecchi e malati di tutte le fedi dalla città
minacciata.
Lui è sempre qui.
Sulla parete c'è una foto dei suoi nonni, i ritratti dei rabbini, e anche
una foto di Tito.
STRAGE NEI QUARTIERI MUSULMANI (L'Unità, 8 maggio 1995)
I morti sono almeno nove: fra loro due fratelli.
I feriti almeno quindici per l'Onu, più di quaranta secondo radio
Sarajevo.
Abbastanza per sperare che sia questa la strage annunciata dalla scadenza
della tregua? Nessuno è così ottimista da pensarlo.
I quartieri di Butmir, che comprende l'aeroporto, e di Hrasnica, da cui
parte la strada del monte Igman, sono bersagliati da un bombardamento
metodico da molti giorni.
Una settimana fa, una bomba da aereo modificata di 250 chilogrammi è
stata lanciata su Hrasnica, ha fatto due morti, ha raso al suolo le due
case fra le quali è caduta.
Questi sobborghi - Butmir è a meno di 8 chilometri dal centro di
Sarajevo, la zona di sicurezza delle Nazioni Unite è ufficialmente di 20
chilometri - sono doppiamente strategici.
Per la vita quotidiana, perché sono il punto di arrivo finale delle merci
che vengono dalla strada di Spalato e Mostar, il polmone economico,
seppure strozzato, della Sarajevo assediata.
Lì le cose vengono comprate, trasportate a spalla nel tunnel clandestino
che corre sotto la pista dell'aeroporto, e rivendute a prezzi ovviamente
moltiplicati sui banchetti e nei negozi di Sarajevo, che si chiamano,
chissà perché, mercato nero, come se ce ne fosse uno bianco.
Oggi, nonostante la domenica, la gente si affollava ai mercatini di
Butmir.
A Butmir sbuca l'uscita verso il mondo libero del tunnel, che rende
perciò il sobborgo anche militarmente e civilmente decisivo.
Il fuoco di artiglieria dei serbo-bosniaci, da una distanza
ravvicinatissima, si accanisce su questo stretto spazio.
Sabato giorno e notte il bombardamento sulla strada del monte Igman era
stato eccezionalmente intenso, costringendo i bosniaci a interrompere il
già rado e spettrale traffico.
Domenica i serbo-bosniaci da Gavrica Brdo hanno colpito Butmir con cinque
granate poco dopo le 13.
Le telecamere della tedesca A.T.P. sono state le prime ad arrivare fra i
corpi martoriati: se l'aspettavano. (Per i curiosi delle lottizzazioni
etniche, aggiungerò che almeno due degli uccisi hanno cognomi ortodossi).
Paradosso che aggrava la tragedia, in quei sobborghi non ci sono che
ospedali da campo, sicché i feriti devono risalire al contrario il tunnel
della libertà, trasportati nel cunicolo su barelle di fortuna da uomini
curvi.
I feriti più gravi sono stati ricoverati dopo quel viaggio infernale
negli ospedali di Sarajevo.
Mentre quella tragedia si consumava, il resto di Sarajevo si svuotava per
un ennesimo allarme, e riceveva la dose giornaliera di bombe.
Tre granate sono cadute sul vecchio centro alle cinque del pomeriggio.
Intanto, il rombo degli aerei Nato stringeva i suoi cerchi sul cielo di
Sarajevo: quel megalomane rumore è tutta la risposta che il mondo fa
sentire ai terroristi etnici.
La gente non alza neanche più la testa.
Il portavoce dell'Unprofor, puntualmente, ha detto in un primo tempo (ma
in serata si è corretto) che le Nazioni Unite non sono in grado di
accertare chi abbia sparato le granate su Butmir.
E' notevole che una persona adulta riceva uno stipendio per dire cose del
genere.
Le tragedie non mancano di un loro umorismo.
Non so se l'Unprofor si sia lavato le mani anche del sangue del vecchio
francescano invalido di Banja Luka.
Almeno i francescani e i loro antichi monasteri meriterebbero di
commuovere il cuore spaesato dell'Occidente.
Quanto a Sarajevo, occorre dire che sul bilancino da farmacia con cui le
istituzioni del mondo e i mezzi di comunicazione pesano i vivi e i morti,
i morti di Hrasnica e di Butmir, appena di là dalla cerchia degli
assedianti serbo-bosniaci, contano molto meno dei morti della Sarajevo
assediata; e del resto fra questi i morti della periferia contano molto
meno di quelli della Città Vecchia.
Così i pessimisti hanno probabilmente ragione.
Non è stata questa, la strage che si aspettava.
Ce ne vogliono altre, più grosse, e più centrali.
Le telecamere sono accese.
Ancora un po' di pazienza, prego.
Il primo ministro bosniaco ha detto: o l'Onu e la Nato intervengono, o
tocca a noi.
Non c'è una terza via, se non il genocidio e la complicità con il
genocidio.
E' seccante da ammettere, ma è vero.
Ha anche detto, a proposito dei 50 anni da che il fascismo è stato
sconfitto, che ha i suoi dubbi.
LA VITA RUBATA ALLA GUERRA (L'Unità, 11 maggio 1995)
Ricorre quest'anno il 10 maggio, per durare quattro giorni, la più
importante delle feste del calendario islamico bosniaco: il Kurban
Bajran, la festa del sacrificio.
Essa commemora il sacrificio ordinato a Abramo-Ibrahim del figlio (Isacco
nella tradizione biblica, Ismaele in quella coranica) e la sostituzione
in extremis di un montone al ragazzo quando già il coltello del padre è
pronto ad affondarsi.
Kurban è il nome dell'animale sacrificale.
Prima della guerra tutti quelli che potevano si procuravano un montone e
lo dividevano poi coi vicini e coi poveri.
Martedì, bellissimi e pazienti capri espiatori aspettavano legati davanti
a qualche luogo pubblico: rari, e guardati con invidia.
Costati ciascuno fra i 500 e i 1000 e fino a 2000 marchi, privilegio di
pochi ricchi o acquisto di collette: arrivati in città per la via
infernale e omerica del tunnel.
Bisogna figurarsi la colonna mista di montoni e di umani che sfila nel
cunicolo sotterraneo, urtandosi, belando e imprecando.
La mattina di mercoledì corna e pelli penzolavano qua e là, nella città a
sua volta mutata da anni in capro espiatorio di tradizioni deliranti.
Alle dieci e mezza di mattina una granata è caduta nella piazza di
Carsja, il cuore della vecchia città: come sarebbe a Roma in piazza
Navona il giorno dell'Epifania.
La granata è rimbalzata su una tettoia, e ha fatto solo quattro feriti.
Così la città ha vissuto l'inizio della sua grande festa fra le sirene
d'allarme, le granate, le raffiche di proiettili antiaerei adattati e i
tiri dei cecchini agli incroci.
La visita tradizionale ai cimiteri, che portava una fiumana di persone di
ogni fede a Bare, su un pendio a poche centinaia di metri dalla linea di
fuoco, è stata tentata solo da pochissimi avventurosi, vecchi i più.
Martedì c'erano stati invece i funerali delle vittime della strage di
Butmir, diventate intanto undici.
Sono andato al vecchio camposanto del colle di Kovac: c'erano tre
funerali contemporanei, ciascuno con una folla dolente.
Allo stadio è stato sepolto il giovane ortodosso Zdravko: i suoi
correligionari hanno guardato dalle colline le centinaia di persone che
nonostante il rischio si sono radunate per salutarlo.
In questa vicenda c'è un aspetto strettamente sarajevese: il padre del
giovane era morto a sua volta nel massacro al mercato di Sarajevo, nel
febbraio dell'anno scorso.
In queste cerimonie funebri c'è un dettaglio decisivo: le persone
accovacciate e strette fra loro a pregare e lamentare il morto, sanno di
essere, più che in ogni altro luogo, in posa davanti all'obiettivo del
cecchino e dell'artigliere.
La distanza fra i vivi e i morti viene così deformata e accorciata: la
morte compiuta e quella incombente si mescolano nel dolore e
nell'abbandono.
Nessun gesto si mostra per questo più forzato, nessun lamento accelerato.
Avevo spiegato, giorni fa, il peso relativo delle stragi: via via più
basso man mano che dal centro di Sarajevo si vada verso la periferia, e
poi i sobborghi oltre la linea dell'assedio.
Non meravigli, dunque, che il massacro compiuto da una granata serbo-
bosniaca nella cittadina di Zepa, benché dichiarata anch'essa zona
protetta dall'Onu, pur avendo totalizzato undici morti in un solo botto
non abbia neanche fatto battere ciglio all'Unprofor e ai mezzi di
comunicazione.
In magazzino: un altro piccolo mucchio che si aggiunge alla grande
discarica.
Tutt'al più, il generale Rupert Smith dichiara che l'Unprofor in questi
giorni avrebbe chiesto alla Nato di intervenire, ma il responsabile Onu
Akashi ha rifiutato per paura delle conseguenze che l'intervento avrebbe
avuto sul personale dell'Unprofor.
Non potrebbe esservi logica più circolare.
In compenso, per un giorno e una notte gli aerei Nato hanno fatto un gran
rumore su Sarajevo: non piovve, ma tuonò formidabilmente.
A Sarajevo la vita riaffiora e sprofonda con una rapidità ormai
consumata, seguendo gli accidenti bellici come si scappa in vacanza dagli
acquazzoni estivi, e si torna al primo raggio di sole.
Martedì si inaugurava una nuova mostra del pittore Afan Ramic: bastava
evitare il ponte di Skenderija, e rasentare i muri del lungofiume, per
arrivarci felicemente.
C'era una gran folla quasi allegra; i quadri sembravano molto belli, ma è
andata via la luce.
Sono sfollati con calma, al lume di qualche fiammifero, ministri e
guardie del corpo, studenti e signore eleganti, ambasciatori di grandi
potenze e colonnelli della legione straniera.
Ho ricordato a Ramic, che era del resto imperturbabile, la fiaccola di
Guernica: noi accenderemo i nostri accendini.
Benché provi a dire le cose di qui come meglio posso, continuo a capire
che resto lontanissimo dal renderne l'idea.
Manca l'odore, il rumore, l'aria.
Sono solo istantanee: quella di un giovane senza una gamba, per esempio,
che risale lentamente e con calma la strada del cimitero urbano mentre
tirano i cecchini.
Manca il silenzio della notte.
Benché l'indecente fragore delle bombe e delle raffiche lo rompa
continuamente, il silenzio della notte di Sarajevo torna ogni volta a
richiudersi, come un mare calmo infastidito da qualche sassata.
Solo i cani si fanno sentire, dopo le esplosioni, e anzi a volte si ha
l'impressione che si mettano ad abbaiare prima, come se le presentissero.
O forse l'artiglieria pesante spara sui cani che abbaiano, capricciosa
com'è.
In una comune di queste notti di Sarajevo si contano almeno venti-trenta
esplosioni di granate e di bombe, di quelle che fanno tremare i vetri, se
ce ne sono ancora, e centinaia di raffiche di mitraglia: poi ci si
addormenta.
Noi forestieri abituati come siamo al rumore di fondo, e a figurarci il
silenzio solo come un vuoto e un'attesa, aspettiamo il frastuono: ma a
poco a poco il silenzio così pieno la vince sul fragoroso e miserabile
alfabeto Morse degli scoppi, delle raffiche e dei tiri.
Il cielo di Sarajevo poi, libero dallo smog da più di tre anni, è sempre
più splendido e vicino.
La notte dell'otto maggio c'era una perfetta mezza luna crescente.
Il telegiornale cetnico aveva dato, come ennesima notizia, un comunicato
sulla strage di Butmir: i musulmani bosniaci, aveva detto lo speaker,
hanno ammassato i corpi di soldati, morti o feriti sul fronte, nella
strada, e lì avevano fatto riprendere la messinscena.
Non ha aggiunto altro.
D'altra parte gli spettatori del suo lato avevano potuto vedere al
telegiornale bosniaco la macelleria dei corpi sanguinanti e denudati,
compresi quelli di donne anziane.
Anche per la strage di Markale i serbo-bosniaci di Karadzic avevano
sostenuto che i morti fossero comparse pagate, o salme riesumate.
Per la ragazza diciassettenne Maja Djokic, una delle più belle e amate di
Sarajevo, ammazzata da una granata un mese fa, hanno detto che l'avevano
uccisa i bosniaci dopo averla violentata, perché voleva passare dal lato
serbo.
Questo gbbelsismo primitivo e ripugnante è uno dei rumori quotidiani sui
quali ogni notte scende il silenzio, e brilla specialmente la luna di
Sarajevo.
QUI L'ONU E' UNA SLOT-MACHINE (L'Unità, 14 maggio 1995)
Mentre scrivo, nel primo pomeriggio, un bombardamento più forte sta
colpendo la parte nuova della città e il vecchio centro: granate sparate
a ripetizione, con un fragore rotolante, come nel finale dei fuochi
d'artificio.
Non so quale sarà il conto di questa pirotecnia.
Anche il lavoro degli "snajper" sulle strade della città si fa più
intenso e sbrigativo: all'incrocio del Parco della Presidenza ai tiri di
fucile si sono aggiunte le raffiche di mitraglia, contro la corsa
affannata dei passanti.
Si noti che il semaforo continua severamente a funzionare, con i suoi
divieti rossi e i suoi omini verdi che sembrano bersagli del tiro a
segno.
Il soldato francese ridotto in fin di vita giovedì era in un gruppo di
anticecchinaggio al solito punto mortale di Marindvor: in un mese, i
militari francesi morti a Sarajevo erano stati già cinque.
L'Holiday Inn, il grande albergo dei giornalisti che ha goduto per tre
anni di una triste pubblicità, e ne ha fatto un impiego tetro ed esoso -
250 marchi a stanza, senza bagno e con bombe - è ormai vuoto.
La tensione più alta è attorno al monte Igman e all'aeroporto chiuso da
più di un mese.
La strada dell'Igman e la zona dell'uscita dal tunnel sotterraneo sono
fittamente battute dal fuoco dei serbobosniaci, i quali hanno spinto
all'estremo le loro pretese sull'aeroporto e le vie d'accesso alla città.
Da giovedì, gli stessi mezzi dell'Onu non possono compiere alcun tragitto
senza chiederne l'autorizzazione con 24 ore di anticipo ai cetnici, senza
di che vengono colpiti.
Da una parte, è una prepotente e provocatoria intenzione di rinegoziare
tutti i termini (anche economici: c'è da tutte le parti una certa avidità
nei confronti dell'Onu, che, non servendo ad altro, può fare almeno da
slot-machine per gli opposti giocatori d'azzardo) degli accordi sulla
presenza dell'Unprofor e sullo status della capitale.
Dall'altra, è una stretta preventiva contro la possibile intenzione della
Bosnia, e soprattutto dei suoi responsabili militari, di forzare una via
di apertura per Sarajevo.
Qualcuno si aspetta una precipitazione nel giro di pochi giorni, altri in
tempi più lunghi.
Ma non si intravede nessuna nuova mediazione, come quella efficace per
metà e non priva di un lato ameno che, nello scorso dicembre, portò l'ex-
presidente Carter in una ex-Jugoslavia di cui aveva un'idea pallidissima.
Pressoché tutti pensano che ogni conclusione, più o meno provvisoria,
esiga ormai un costo di sangue capace di spostare l'equilibrio attuale
fra gli interessi di potenza e la commozione dell'opinione pubblica.
Si aggiunga che quasi nessuno a Sarajevo è incline a prendere sul serio
l'offensiva croata della scorsa settimana: la facilità con cui si è
compiuta e la sequenza dei fatti inducono tutti a vedervi una
combinazione teatrale fra Tudjman e Milosevic, che desse soddisfazione al
primo senza far perdere la faccia al secondo, e contentasse i partner
internazionali comuni.
Nemmeno le bombe spedite su Zagabria dal cetnico della Krajina Martic
intaccano la convinzione su questo scenario: e del resto a Sarajevo (o a
Gradacac dove le granate stanno facendo ogni giorno morti e feriti; o a
Zepa, a Tuzla, a Gorazde) qualche granata caduta su Zagabria non riesce a
sembrare granché.
La capitale è più chiusa che mai: né aerei né convogli la raggiungono; la
via dell'Igman bombardata; il tunnel preso di mira; gli scarsissimi
avventori minacciati all'aeroporto.
Un gruppo di sei italiani, volontari dei Beati i costruttori di pace,
compresi veterani di Sarajevo come don Albino Bizzotto e Liza Clark,
arrivati fortunosamente giovedì per la strada dell'Igman, sono stati
bloccati all'aeroporto per due giorni e due notti, con la minaccia di
essere presi di mira dalle postazioni serbo-bosniache, sia che avessero
tentato di procedere verso la città, sia che avessero provato a tornare
indietro.
Il pretesto per questo sequestro è un presunto rifiuto di consentire a
un'ispezione, di fatto non richiesta e non prevista.
Gli italiani stanno comunque bene e non hanno preoccupazioni per la
propria incolumità.
L'episodio è un altro segno della stretta soffocante su Sarajevo e i suoi
movimenti, che ha reso impraticabile, se non con il più alto azzardo,
qualunque scambio tra la città e il resto della Bosnia.
Esso coincide con notizie non ufficiali, ma certe, su battaglie
importanti nella seconda cerchia di alture attorno a Sarajevo, come a
Treskavica, con un costo alto di vite, e un esito sfavorevole ai
bosniaci.
Questi scontri hanno un andamento da prima guerra mondiale: i bosniaci
attaccano e riconquistano alcune quote, dopo di che i serbo-bosniaci
contrattaccano con una forte prevalenza di artiglieria, e i governativi
sono costretti a ritirarsi dopo aver lasciato sul terreno un gran numero
di caduti - ragazzi, per lo più, neanche ventenni.
Ferma ogni trattativa e derisa ogni allusione all'intervento
internazionale, la strada di un'azione di forza, più o meno lucida, più o
meno illusoria e disperata, è sempre meno una scelta per il governo
bosniaco, sempre più una conseguenza obbligata.
Questo significa, nel resto del mondo, una cosa sola, benché angosciosa,
per chi non voglia essere attivamente complice della sopraffazione armata
serba: revocare l'embargo sulle armi, permettere alla Bosnia di armarsi
adeguatamente.
Questa è la conseguenza inevitabile del fallimento, se non peggio, della
legalità internazionale sulla BosniaErzegovina, e della trasformazione,
dopo addirittura tre anni, di una molteplice e sostanziale aggressione in
una guerra più o meno regolare, ridotta però a una parodia dalla enorme
sproporzione di potenza materiale fra gli eserciti opposti.
Se non ci si commuove per lo stillicidio sarajevese, si ripristini almeno
una parvenza di libero mercato: qui la gente ha visto il grande
spettacolo dei Patriot e delle "Tempeste sul deserto", e fa molta fatica
a spiegarsi che le manchino i fiammiferi, e una qualche transenna che
oscuri almeno la vista di mamme e bambini che attraversano una strada.
Bisogna che dovunque (cioè, intanto, in Italia) si parli di questo, e si
costringa con ogni cortesia chi ha voce in capitolo a dichiarare la
propria posizione, e le ragioni che la sostengono.
Il redattore che riceve questo articolo può, se vuole, finirlo qui;
oppure continuarlo ancora un po' con una storia che c'entra solo alla
lontana.
Me l'ha raccontata ieri a un tavolo di bar un anziano intellettuale, un
uomo di formato, di madre ortodossa e padre cattolico, di cui sono
diventato amico.
Io ho abbandonato mi ha detto il mio duro materialismo, in questa guerra,
per effetto di una sola notte.
Gli ho offerto una birra sarajevese e un caffè.
Ecco la sua storia.
Ero amico di Vedran Smajlovic, il grande violoncellista, ora suona nella
Philarmonica di Londra.
E' ritratto in un poster famoso mentre suona in mezzo alla rovina della
Biblioteca distrutta.
Stavamo seduti a questo tavolo, ogni giorno, a fumare e a parlare, al
buio.
Vedran andava a suonare nelle strade, sotto le bombe.
Qualche giorno ero il solo a sentirlo.
Dopo la strage della Vase Miskina andò lì, e suonò l'"Adagio" di
Albinoni.
Era il tempo più duro.
La gente stava nei rifugi.
Mi buttavo nelle strade, come un randagio, in cerca di una sigaretta.
Una sera usciamo di qui, e andiamo fino a casa sua.
Eravamo fermi a salutarci, quando arriva una soldataglia decisa a far
saltare la saracinesca di un negozio per svuotarlo.
Ci spingono con le brutte nell'androne.
Mentre eravamo lì, esce un vicino, saluta Vedran con entusiasmo, e ci
invita nella cantina-rifugio della casa.
Gli era nata una bambina, lui aveva messo da parte per festeggiarla ogni
ben di Dio, così stemmo con gli altri nel rifugio a mangiare, bere,
cantare.
Si fece tardi, non potei tornare a casa.
Fu l'unica notte in cui non andai a dormire a casa mia in tutti i tre
anni.
Quella notte una granata ha distrutto due stanze del mio appartamento.
Ma non è questo.
La mattina dopo incontro un mio amico, un pittore, mi saluta con
animazione particolare, e mi dice: "Stanotte ho sognato tua madre, e mi
chiedeva ansiosamente: Dov'è Nikola? Dov'è stanotte Nikola?".
Capisci, l'aveva sognata proprio quell'unica notte che avevo trascorso
fuori casa.
Lui non conosceva neanche mia madre, l'aveva vista una volta in tutto, in
una circostanza speciale.
Lui era seriamente malato, in un semicoma; mia madre era ricoverata nello
stesso ospedale, e poi lì sarebbe morta.
Gli feci con lei una breve visita.
Lui si risvegliò brevemente, e in quella pausa vide me e mia madre, per
l'unica volta.
Questa è la storia.
Intanto sono stato zitto, se non per fargli portare una seconda birra
sarajevese.
Mi fa un'impressione mista, quest'uomo aitante e austero.
Gli dico: E ora, sei credente?.
Ci pensa per un po'.
Dice: Ora io non sento più secondo quel duro materialismo.
Non direi di essere un credente, non ho una fede: semplicemente, ho perso
il suo contrario, per così dire.
IL MIO GIORNO DA CANI (L'Unità, 17 maggio 1995)
Mille proiettili di artiglieria pesante nella sola mattinata, decine di
migliaia di colpi di mitraglia e di fucile.
Il finimondo è cominciato alle otto, con un fuoco di artiglieria
esasperato e raffiche ininterrotte dalle alture a nord-est, tenute dai
serbobosniaci, a poche centinaia di metri dai quartieri di Kovaci e di
Logavina, e dal vecchio centro del bazar.
Nel giro di tre quarti d'ora il fuoco si era contagiato a tutta la
cerchia di colli e monti attorno alla città, concentrandosi sul pendio
del cimitero ebraico e sul quartiere di Grbavica.
Qui la prima vittima è stata una bambina.
Suo fratello è moribondo all'ospedale di Kosevo.
L'ospedale stesso è stato colpito.
Nella mattina di sole, la pirotecnia è stata impressionante.
Per un paio d'ore è sembrato che tutti coloro che dispongono di qualche
bocca di fuoco, dai cannoni alle pistole, e sono tanti, abbiano deciso di
scaricarle all'ingrosso.
Le nuvole chiare delle granate e il fumo nero delle case incendiate si
sono levati verso un cielo fitto di voli di uccelli spaventati.
Così il martedì sarajevese è tornato ai vecchi tempi peggiori.
Le persone si sono affannate al telefono per dare e ricevere notizie dei
propri familiari da un capo all'altro della città, poi si sono chiuse
nelle cantine o, in mancanza, nei gabinetti o nei ripostigli domestici
lontani dalle pareti esterne.
Radio e televisione hanno ordinato di scendere nei rifugi con coperte e
vivande e di non uscire nelle strade.
In questi pazienti e penosi capannelli di reclusi si è discusso di che
cosa stesse succedendo: un'ordinaria mattinata da cani già: e dove si
rifugiano i cani sotto un simile temporale? o l'esordio dell'annunciata
battaglia per Sarajevo? Difficile rispondere, per ora.
I lettori degli scorsi giorni sanno che la tempesta era nell'aria, e che
gli assedianti cetnici hanno tentato di forzare in ogni modo uno scontro
che anche dalla parte della città asfissiata viene dato per inevitabile,
benché forse in tempi meno stretti.
E' certo che l'attacco di oggi è venuto dall'artiglieria serbo-bosniaca.
E' possibile che mirasse a sfondare le trincee a nord-est, difese solo da
soldati regolari armati di armi leggere, per l'impossibilità di piazzare
altre armi su un pendio brullo ed esposto alle postazioni cetniche
sovrastanti.
Qui - sulla collina di Grdonj e sull'abitato di Sredrenik - il fuoco è
stato intensissimo.
All'altro capo del mirabile anfiteatro naturale sarajevese, a Grbavica,
il bombardamento è venuto soprattutto dal promontorio di Debelo Brdo,
sulle falde occidentali del monte Trebevic; e lì si è anche concentrata
la sparatoria di risposta bosniaca.
Su quel picco sventola la bandiera di una piazzaforte che si dice tenuta
da un gruppo speciale di russi; secondo voci di cui non so controllare il
fondamento, i russi negli ultimi giorni hanno sostituito in gran parte il
cecchinaggio serbo dal punto più sanguinoso, l'antico cimitero ebraico.
Quest'ultimo - visto innumerevoli volte in televisione - fornisce da anni
con le sue meravigliose lapidi il riparo più sicuro dai cecchini, appena
a ridosso dello spiazzo di Marindvor.
Di fronte al meritorio ma incredibilmente tardivo sforzo di drizzare un
muro di container per difendere il traffico dei passanti e delle vetture
sul grande viale che va alla Città Nuova, progettato e in minima parte
compiuto dai militari dell'Onu, i cecchini si spostano qualche decina di
metri più su, in un boschetto risparmiato finora dalla distruzione.
Di lì tornano a dominare la strada e a seminare morte a piacere.
Le notizie sulla brigata di volontari russi vengono da più fonti,
compreso il racconto di sarajevesi serbo-bosniaci catturati, e la
testimonianza di volontari russi arresisi a soldati bosniaci regolari in
una sortita notturna.
A Grbavica, dove il cecchinaggio cetnico e la partecipazione venatoria
internazionale non vengono nascosti, ma anzi ostentati dalla televisione
di Karadzic anche quando i bersagli sono bambini (bersaglio più piccolo,
vanto più grande del tiratore), fra i cecchini c'è anche una squadra di
greci, decorati perciò pubblicamente da Karadzic, e il notevole caso di
un volontario giapponese.
Costui ha spiegato alla T.V. serbo-bosniaca di essere venuto per guarire
da un amore infelice; così la formula: si spara per una delusione amorosa
va appena corretta nel più altruistico: spara per una delusione amorosa.
Il nazista serbo Seselj è venuto a sua volta da Belgrado a fare il tiro a
segno a Sarajevo, e anche lui è stato mostrato in T.V.
mentre dà prova della sua mira: sotto il suo fucile è caduto nella via
Dinarska un passante.
Unico difetto dell'impresa: il morto ammazzato si chiamava Milo
Vasilievic, ed era un fornaio di origine serboortodossa, come lo sportivo
sparatore. La presenza indubbia, a parte il numero, di specialisti russi
fratelli di fede ortodossa e panslava, e insieme mercenari in valuta -
così inosservata fuori della Bosnia, è un'ulteriore ragione per
riflettere alla presunta sapienza geopolitica dell'Occidente che ha
accettato di sacrificare l'umanità e il diritto in Bosnia in nome del
realismo.
Quel realismo ha, per ora, portato sulle sponde dell'Adriatico la Russia
più inaffidabile della storia, impresa mancata all'impero degli zar e a
quello di Stalin.
In futuro, quel realismo potrà fare di più: regalarsi un conflitto assai
più vasto.
Intanto, è stata ancora Sarajevo a sperimentare un giorno di
bombardamento all'ingrosso, di paura - sacrosanta paura, di cui non
vergognarsi, da non nascondere - e di nausea.
Gli Awacs della Nato non hanno mai smesso di far sentire il loro monotono
rombo dall'alto dei cieli.
I loro celestiali congegni hanno visto tutto, registrato tutto, filmato
tutto.
Archiviato tutto.
IN TRE ANNI D'ASSEDIO LA VITA E' DIVENTATA MOLTO PIU' PREZIOSA (L'Unità,
18 maggio 1995)
Dopo il putiferio di martedì, Sarajevo aveva preso la mattina di ieri
quasi con sollievo: solo qualche decina di granate, oltre alla immodica
dose quotidiana di cecchini.
I venditori di sigarette erano tornati in strada, benedetti dai
sarajevesi, per i quali il fumo è davvero l'aria che respirano.
Meticolosi sismografi, i venditori di sigarette hanno alzato il prezzo
delle Drina da un marco al pacchetto a uno e mezzo: effetto del
bombardamento del giorno prima, che la inappuntabile contabilità
dell'Unprofor ha certificato a più di mille ordigni di artiglieria
pesante.
Dalle 13 di ieri, c'è stata la replica.
Occorre spiegare che le alture attorno a Sarajevo da cui si spara e in
cui, come a Grbavica, si combatte, stanno al centro cittadino come il
Gianicolo a Roma o piazzale Michelangelo a Firenze.
Sul pendio del cimitero ebraico, dove si è ripetuta per ore la battaglia
di ieri, i cetnici hanno martellato con tiri di tank le posizioni
bosniache.
Dalla casa in cui scrivo alle postazioni di artiglieria cetnica ci sono
appena 400 metri in linea d'aria: gli obici ci passano sopra avvitandosi
nell'aria con un sibilo di frusta, che improvvisamente tace prima del
rimbombo finale, riecheggiato a lungo dalla conca in cui si sdraia la
città.
Sono bombe teleguidate Maljnka, fabbricate in Russia, o V.B.R.,
jugoslave.
Del tutto ignaro di cose militari, resto convinto da quello che vedo e
sento che l'iniziativa di questa stretta è degli assedianti: che vogliono
anticipare lo scontro, chiamando allo scoperto l'esercito bosniaco dov'è
più debole e meno armato.
Non può che apparire miracolosa la sproporzione fra la violenza del
bombardamento e il numero limitato di vittime.
Resta sbalorditiva anche per me.
Penso ad almeno due spiegazioni.
La prima, che la gente si è fatta esperta e questo conta.
Ma c'è qualcosa che conta di più, in questo enorme e perverso laboratorio
di psicologia umana cui è forzata Sarajevo.
I pochi mesi trascorsi con l'elettricità, con le ore di acqua e di gas,
con il ritorno della buona stagione, hanno fatto risalire il prezzo della
vita.
I sarajevesi si sono riattaccati alle proprie esistenze, non azzardano
ora quello che facevano con un'alzata di spalle un anno fa, sono
sopravvissuti a tre anni troppo orribili per non rendere preziosa la vita
che ne è uscita.
Lentamente, sono venuti fuori da quella specie di abbandono che aveva
confuso davanti a loro la frontiera fra la vita e la morte, fra la
sopravvivenza e la vita.
Sono tornati a curarsi i denti, a riparare le finestre.
Risprofondare in quell'abbandono, è ora un incubo intollerabile.
Sono ridiventati pazienti, ragionevoli, seduti nelle case e nei rifugi.
Ma tutti sanno anche, che quando il bombardamento si riabbattesse sulla
città con tutta la potenza di fuoco di cui gli assedianti dispongono
Sarajevo diventerebbe un mattatoio.
Ora non si vede che cosa possa scongiurare il peggio.
Nuove mediazioni, Carter, iraniani e greci sono per ora fuori
dall'orizzonte visibile.
L'inerzia e la viltà delle Nazioni Unite non sono mai state così
plateali.
Esse ignorano risoluzioni, impegni solenni, ultimatum, promesse.
BATTAGLIA A SARAJEVO SULLA COLLINA GRASSA (L'Unità, 19 maggio 1995)
Benché non abbia fatto niente per cercarlo, uno "scoop" mi è venuto ieri
incontro attraverso un duplice caso.
Il primo, che un giovane studente di cui ero amico sia ora soldato, e
abbia combattuto nei due giorni scorsi nella battaglia sarajevese di
Debelo Brdo.
La seconda, che una sparatoria mi abbia fatto riparare nello stesso caffè
in cui lui e suoi compagni stavano godendosi il giorno di riposo.
Così ho avuto il racconto vivace e quasi allegro della prima battaglia
regolare condotta a Sarajevo.
Eccolo.
Erano convinti di prenderci di sorpresa.
Pensavano di sfondare le nostre linee, di prendere Debelo Brdo [la
Collina grassa] che è una chiave decisiva per il controllo della città, e
di arrivare fino a ridosso della base francese, a Skenderija cioè, in
pratica, fino all'altra riva del fiume, di fronte alla nostra Presidenza.
Hanno cominciato con un cannoneggiamento furioso, martedì mattina.
Tiri di carri armati, di mortaio da 62, da 82.
Ci hanno martellati per ore.
Noi siamo attestati su una serie successiva di linee.
Siamo rimasti in trincea, al coperto, rispondendo al fuoco con le armi
leggere e con i mortai mobili.
C'era solo da resistere, e aspettare.
Questa guerra è così, loro hanno tutta l'artiglieria che vogliono, ma per
guadagnare anche un metro di terreno, bisogna che vengano fuori gli
uomini, bisogna arrivare alle trincee.
I cannoni, da soli, non espugnano le trincee.
Una loro granata è caduta, chissà per quale combinazione sventurata,
proprio dentro una nostra trincea, e ha ucciso quattro dei nostri
soldati.
Ma è stato un caso, un colpo di fortuna per loro.
A un certo punto sono venuti all'attacco, urlavano, erano come ubriachi.
Credevano che avessimo abbandonato la nostra prima linea.
Li abbiamo falciati mentre venivano giù, poi siamo arrivati al vero corpo
a corpo.
Dei loro russi, abbiamo ammazzato il capo, che si faceva chiamare Bjelj
Vuk, Lupo Bianco.
Si sono trascinati il suo corpo dietro le loro linee, ma i cadaveri di
almeno altri tre russi sono rimasti in mano nostra, coi documenti e
tutto.
Alla fine noi abbiamo avuto dieci morti, i quattro della granata, due
uccisi dai cecchini, altri quattro nel combattimento.
Dei loro sono morti certo più di venti, forse una trentina e i feriti
sono centinaia.
Lui il soldato mi indica uno degli astanti, un giovanotto dall'aria
tranquilla ha ammazzato un cetnico spaccandogli la testa.
Un vero cetnico, di quelli belgradesi di Seselj, con la barba e tutto.
Una granata aveva spostato violentemente i sacchi di sabbia, lui era
rimasto quasi incastrato, con una spalla slogata; stava cercando di
tirarsene fuori.
Il cetnico gli si è buttato addosso, lui ha preso il fucile e gli ha
rotto la testa col calcio.
Ci sono stati scontri al coltello.
Alcuni si sono arresi, hanno alzato le mani, bestemmiavano contro quelli
che gli avevano detto che noi eravamo scappati e le trincee erano vuote.
Altri sono scappati.
I loro morti sono rimasti sul terreno.
I feriti erano moltissimi.
Hanno fatto un fuoco enorme per coprire il tentativo di avanzare a
recuperarli, ma non ci sono riusciti, né il primo giorno né il secondo.
[Ieri, giovedì, da parte bosniaca si era ordinato un cessate il fuoco
totale, salvi nuovi attacchi nemici, n.d.r.].
Il secondo giorno è stato più duro del primo continua.
Eravamo lì da due giorni e due notti, non avevamo più mangiato né bevuto,
il cannoneggiamento era fortissimo.
Ma il loro morale era crollato.
Il nostro era cresciuto.
A Grbavica i nostri erano riusciti a distruggere una "Praga", un blindato
col cannone che batteva micidialmente le nostre posizioni a Debelo Brdo.
Le posizioni sul terreno alla fine sono rimaste quelle che erano, ma sono
loro ad aver fallito.
Ieri sera, alle 10, siamo venuti via.
Per il cambio gli uomini non mancano dalla nostra parte, anzi ce n'è
d'avanzo.
Di norma facciamo turni di dodici ore al fronte, poi veniamo a casa; o di
due giorni per chi va più lontano e resta poi a casa altri due o quattro
giorni.
Ieri e l'altro ieri non c'è stato bisogno di nessuna mobilitazione
straordinaria.
Come va? chiedo all'altro giovanotto dall'aria tranquilla.
Sono diventato blu per quei maledetti sacchi di sabbia, scherza.
Poi aggiunge che anche il mio primo interlocutore ha ammazzato almeno uno
dei nemici, e che la cosa più fantastica è stata l'affare del francese.
I militari francesi dell'Onu hanno un posto d'osservazione vicinissimo al
terreno battuto dall'artiglieria serba, ed erano rimasti per ore in mezzo
al fuoco forsennato, in panico pieno e comprensibile: Così quando i
cetnici sono tornati indietro e siamo arrivati fino alla loro postazione,
un soldato francese mi si è buttato addosso e mi ha dato un bacio,
jebentj majka.
E' un'imprecazione, per altro usatissima anche nel resto della
conversazione; a volte ha anche un tono perplesso e benigno.
Ieri a Sarajevo la sarabanda dell'artiglieria non si è ripetuta.
E' stata sparata qualche decina di granate.
Una ha ammazzato un uomo - è un eufemismo: l'ha spappolato - e ferito
quattro persone in un mercato della Città Nuova.
Le granate vanno pazze per i mercati nelle ore di punta.
Accanto alla Presidenza, un signore sulla cinquantina stava guardando i
militari dell'Unprofor che sistemavano una parete protettiva di
container: lui guardava loro, il cecchino ha inquadrato lui e l'ha
buttato giù come un birillo.
Un altro uomo è stato ucciso da un cecchino.
Scaramucce sono scoppiate qua e là, anche fragorose, ma non sono arrivate
all'incendio.
L'INCUBO DELL'ARMA CHIMICA PARALIZZAVA LA CITTA'.
ORA E' ARRIVATO IL TERRORE (L'Unità, 25 maggio 1995)
Il bombardamento di ieri a Sarajevo ha replicato la tremenda giornata
dell'altro martedì.
La sola ripetizione di una tale quantità di fuoco è un incubo.
Per di più ieri la parte di bombe e proiettili che sono state indirizzate
sui luoghi di abitazione della città rispetto a quelli riservati alle
zone occupate dai combattenti è stata decisamente superiore.
Sono state impiegate dai serbo-bosniaci bombe di aereo adattate, di
dimensioni e potenza micidiali, proiettili chimici ai gas tossici e bombe
al fosforo: se i gas hanno un potere irritante paragonabile, fatte le
proporzioni, a quello dei lacrimogeni, il fosforo ha una drammatica
potenza e durata ustionante incendiaria.
Un'ulteriore scalata, dunque; del resto la voce minacciosa di un ricorso
ad armi chimiche girava da tempo, rendendo ancora più spaventosa l'attesa
della città.
Appena tornato da Sarajevo, ho provato l'effetto anestetizzante e
disperante che la breve distanza assicura alla notizia: Un'altra giornata
pesante per Sarajevo, dove si contano tre morti e sei feriti....
Il bilancio di un circoscritto accidente stradale.
A questo si riduce - inevitabilmente? forse - una giornata di
cannoneggiamenti ed esplosioni, di una granata ogni pochi secondi, di una
grande città colpita nelle sue case, nei negozi - il supermercato Robna
Kuca, in pieno centro - negli uffici pubblici, le scuole, l'ospedale, la
Presidenza...
Una grande città costretta a rintanarsi nei rifugi, negli scantinati e
negli sgabuzzini; costretta a odiare e temere le proprie stesse case,
balconi, finestre come luoghi fragili e fatali.
Strade deserte, se non di poveri poliziotti, di barboni spaventati o
noncuranti, di cani e di uccelli sbandati.
Tre granate sono cadute anche a poca distanza dall'ambasciata italiana,
sul cimitero monumentale bellissimo che incappuccia la collina di
Alfakovac.
Così i cetnici di Karadzic hanno festeggiato la marcia indietro di
Milosevic sulla questione del riconoscimento della Bosnia, strizzandosi
l'occhio: il vecchio Slobodan li ha fregati tutti un'altra volta.
Io non so come stiano le cose, e inclino piuttosto a pensare che il
vecchio Slobodan, in coda per il tribunale contro i crimini di guerra,
tenga il piede in due scarpe: la situazione permettendo, sarebbe pronto a
liquidare (magari a mano armata, la mano svelta, per esempio, di
specialisti come Arkan) Karadzic e gli altri dell'allegra brigata:
intanto, se l'opposizione belgradese alla Seselj, o quella del clero
ortodosso, gli sembrano troppo imbarazzanti, è ancora più pronto a far
ballare sulla sua corda i pellegrini diplomatici degli Usa e del resto
del mondo libero.
In particolare, è attaccatissimo al guinzaglio russo e i russi a loro
volta sono al momento più interessati a usare la Bosnia, la sua libertà e
le sue vite umane come una carta del gioco al rincaro con l'Occidente.
Mentre le autorità del mondo garantivano con enfasi per Milosevic, e
passava a Sarajevo qualche ora di tregua di fatto - cioè di qualche
decina di granate tutt'al più, qualche centinaio di tiri di "snajper", e
così via - le bande di Karadzic andavano scrupolosamente a riprendersi i
mortai pesanti, i cannoni e i tank posti sotto controllo delle Nazioni
Unite, i cui soldati si limitavano a scansarsi: li hanno custoditi per
qualche mese, ché nessuno li rubasse, e li hanno riconsegnati ben oliati
ai titolari.
Nei giorni scorsi, quando riferivo dello scetticismo sarajevese sulle
promesse americane a proposito della disponibilità di Milosevic, mi si
obiettava che, da lì, non avevo un quadro adeguato del contesto
internazionale.
Era vero.
Da lì, ero troppo assordato dal rumore dei botti.
Ora che sono tornato al calduccio, li sento già meno.
Ancora un paio di giorni e di notti senza bombe, senza facce di bambine,
e con la Mammì, e mi sarò riappropriato perfettamente del contesto
internazionale.
UN PASSO AVANTI O UNA FOGLIA DI FICO? (L'Unità, 26 maggio 1995)
Dunque l'Onu e per suo mandato la Nato, hanno formalmente attuato
l'impegno contenuto nell'ultimatum di ieri.
C'erano molti precedenti impegni solenni volgarmente elusi, dunque è un
passo avanti.
C'erano però anche precedenti di raid assai rumorosi, ma ridicoli per gli
effetti: un tank sgangherato colpito una volta, un paio di pozzanghere
aperte in una pista, e riparabili in mezza giornata, un'altra volta.
Il fatto che l'Onu abbia ribadito che si è trattato di un avvertimento e
che il governo bosniaco abbia auspicato che dalle azioni simboliche si
passi all'efficacia pratica, fanno dubitare che anche stavolta il fumo
abbia sostituito l'arrosto.
Un altro precedente c'è, che dopo il fumo degli aviogetti Nato era venuto
l'arrosto delle ritorsioni serbo-bosniache: assalti più spietati sulle
zone protette - fu così a Gorazde - e sequestri di militari Unprofor
trattati come ostaggi.
Nei giorni scorsi Karadzic, che non bada a spese quando annuncia le sue
intenzioni criminali, ha ripetuto che il personale delle Nazioni Unite
verrà trattato da nemico.
Il ministro degli Esteri spagnolo gli ha replicato, con linguaggio e
argomenti abbastanza inconsueti, che la Spagna (che ha in Bosnia un forte
contingente di militari Onu) avrebbe reagito con i suoi bombardamenti: è
un fatto che in Spagna è agli sgoccioli la campagna elettorale, ed è
certa la disfatta del governo.
In Francia, dove la campagna elettorale è finita, e il nuovo premier
Juppé ha titoli meno negativi dei suoi colleghi rispetto alla Bosnia, la
voglia di ritiro è cresciuta irresistibilmente, e ha spinto a una
formazione degli ultimatum decisamente stramba: O vi comportate bene, o
ce ne andiamo.
Grazie, prego, si accomodi.
Negli ultimi giorni, continuando in un'altalena ormai triennale che
spesso vale un gioco delle parti, gli Stati Uniti sono tornati ad alzare
la voce.
Così, dopo un lungo periodo di umiliante viltà dell'Unprofor, e
soprattutto del vice di Boutros Ghali per la exJugoslavia, Yasushi
Akashi, che si è preso la briga di mettere il veto a ogni richiesta di
far intervenire l'aviazione, in ottemperanza alle delibere dell'Onu, ora
i raid ci sono stati.
Le prossime ore mostreranno se si sarà trattato di una mezza misura
peggiore di ciò cui vuole porre riparo; e, che è il vero punto nevralgico
di questo momento, se sarà servita da premessa a quel ritiro della
presenza Unprofor che in tanti non vedono l'ora di decretare.
Se il ritiro non è ancora avvenuto, è solo perché il costo finanziario (e
umano) dell'operazione eccede quelli del tran tran corrente.
E' vero del resto che l'inerzia del tran tran è vicina alla fine.
Il rifiuto di abrogare l'embargo alle armi per i bosniaci, iniquo (e
peggio) dal momento che è coinciso con l'inadempienza dell'Onu alle sue
solenni garanzie, verrà forse abbandonato nel momento in cui qualunque
pretesto sembrerà buono alla comunità degli Stati pur di squagliarsela.
Questa tragica situazione è il frutto della finzione ipocrita che assegna
all'Onu una pretesa neutralità, e la confusione fra amor di pace e
complicità con l'aggressione.
Poiché non di guerra e pace si tratta, ma della polizia chiamata a
intervenire in un assalto di strada.
Sarebbe bene convincersene, alla buon'ora.
Tanto più in Italia, dove la storia della Prima Repubblica del quieto
vivere non è affatto finita, benché la geografia comprenda gli hangar di
Aviano e di Gioia del Colle.
IL LUOGO COMUNE DELLA NOSTRA NEUTRALITA' (L'Unità, 27 maggio 1995)
Più di tre anni non sono bastati, non dico a fare ciò che si doveva per
la Bosnia, ma a dire le cose come stanno e a costringere chiunque abbia
voce in capitolo a dichiararsi.
Viltà - seccante usare questa categoria, ma non ce n'è altre - e
ignoranza continuano a trincerarsi dietro gretti luoghi comuni (i Balcani
delle botte da orbi) o dietro sentimenti pieni di verande, gerani e doppi
servizi (l'Amore per la Pace) o dietro ricostruzioni pigre del passato
che, in nome della lotta di liberazione nazionale di mezzo secolo fa,
restano attaccate al suo rovescio cetnico, grande serbo e
nazionalcomunista di oggi.
Altre ovvietà - tutti hanno la loro parte di colpe, tutti hanno commesso
qualche atrocità - vengono evocate con grave tentennar di capi.
A sinistra questa confusione è particolarmente maledetta.
Una sinistra che stia dalla parte del pronto soccorso, del diritto e
della libertà dovrebbe incatenarsi nelle piazze, non per accettare, ma
per rivendicare l'impiego della forza Onu - e Nato - contro le bande
serbo-bosniache, a difesa dei cittadini bosniaci e della Repubblica di
Bosnia-Erzegovina.
Dovrebbe manifestare contro il governo russo e il suo cinico sostegno ai
criminali di guerra.
Dovrebbe imporre al proprio governo, e alle istituzioni internazionali,
la scelta netta fra tener fede agli impegni delle Nazioni Unite
attuandoli, o revocare un embargo sulle armi che serve solo a tener fermi
e inermi i bosniaci mentre i cetnici dilapidano sulle loro teste una
potenza di fuoco spropositata.
Ora la Nato ha compiuto dei raid su Pale.
Bisogna immaginare che sapesse quello che faceva.
Che sapesse che cosa sono i bar di Sarajevo o di Tuzla, appena la pioggia
di granate si fa più rada: la folla di ragazze e ragazzi stretti in
crocchi, che si scambiano sguardi, appuntamenti, ultimi motivi di canzoni
e complimenti per gli occhialini neri da sole di buona imitazione.
Il mucchio che attira irresistibilmente le bombe serbe, come quello dei
mercati, o dei cortili in cui giocano i bambini.
La ritorsione delle bande di Karadzic e Mladic è stata orrenda, e infame
è la rappresaglia contro i militari dell'Unprofor: ma era nel conto,
questa e molto più che questa.
L'Onu, e per suo mandato la Nato, è pronta a seguire le conseguenze della
sua scelta, e a soffocare, come può, il gioco al rincaro dei cetnici? O
si prepara a dichiarare di aver esaurito, per ora, i suoi propositi, e a
tornare negli hangar, lasciando ai cetnici una mano ancora più libera e
più pesante? C'è una finzione di fondo, nell'atteggiamento delle Nazioni
Unite verso la Bosnia, che ha consentito l'ipocrisia dell'Unprofor, il
dileggio della legalità internazionale, e il martirio distillato del
popolo bosniaco e delle sue legittime istituzioni.
Questa finzione è la neutralità, e il suo corredo di dichiarazioni
secondo cui l'Unprofor non è lì per fare la guerra.
Così un compito di polizia internazionale e di interposizione efficace
viene travestito da fini impropri, e perciò facili da rinnegare.
Com'è lontano il Kuwait! A ricordarglielo i conversatori del realismo
geopolitico ripiegano presto dietro argomenti naturalissimi: eh,
purtroppo la Bosnia è montuosa.
Lì c'era il deserto (e sotto il deserto, poi, il petrolio).
Pur in una situazione del tutto arbitraria e imprevedibile com'è stata
resa quella della exJugoslavia, dove una guerra internazionale non è
affatto l'ultima delle eventualità, io credo che esistano oggi solo due
possibilità opposte.
La prima è che, con la mera prosecuzione del cedimento internazionale,
magari in forma variata - compreso il ritiro del contingente Unprofor -
la Bosnia venga abbandonata al suo destino di genocidio politico e
fisico: ridotta in recinti da zoo, sfollata in concentramenti di
displaced persons, spedita in qualche drappello a cercarsi una sua
Israele fuori dai piedi dell'Europa.
La seconda è che l'Onu sia appena coerente con le proprie risoluzioni, e
con i progetti formulati dai gruppi internazionali delegati e riconosca
nella Bosnia, oltre che la vittima di un'aggressione, la titolare della
lotta per ripristinare una legalità e una normalità, e appoggi con la sua
forza questa lotta. (Agli sceicchi del Kuwait questo fantasmatico
riconoscimento venne concesso).
Non sarebbe, questa, una cobelligeranza: al contrario.
La Bosnia, in una situazione di forte isolamento e inferiorità materiale,
si batte per applicare in qualche misura, con il proprio diritto
all'esistenza, ciò che è deliberato e ordinato dalla comunità
internazionale, e che la tracotanza serbo-bosniaca ignora e deride.
Alle Nazioni Unite dovrebbe spettare di vigilare e garantire praticamente
che, fino a che l'azione bosniaca risponda ai criteri della legalità
internazionale e alle richieste dei suoi organi, la forza maggiore serbo-
bosniaca (e serba) non imponga la sua soperchieria.
Tutto il resto, neutralità, equidistanza, sono parole per ingannare.
Che una guerra più ampia sia impedita qui (e altrove, nei cento focolari
che covano nel mondo), può essere, credo, solo l'effetto di un impiego
giusto e netto della forza.
Barattare la sorte delle persone e la vita di un piccolo paese con il
presunto interesse generale, il sacro egoismo eccetera, non è solo un
calcolo cinico, è anche un calcolo sbagliato.
Probabilmente: dovrebbe bastare, comunque, il cinismo.
Giorni fa qualcuno è stato così gentile da interpellarmi fino a Sarajevo,
per chiedermi fra l'altro se stessi là per una fuga dalla politica
italiana.
Ci sono rimasto male, a parte il lapsus della fuga: infatti da tre anni,
e ogni giorno di più, io penso che la questione centrale della politica
italiana sia la Bosnia.
Penso che Sarajevo sia in Italia; che tutti dovrebbero fare come se
Sarajevo fosse in Italia: e non solo per altruismo.
Spero che non si attribuisca questa scrupolosa convinzione a un gusto per
i paradossi.
Pochi giorni fa sono uscito di casa, a Sarajevo, e sono sceso
canticchiando - sempre più spesso, quando sono solo, canticchio verso il
centro.
Le strade erano vuote.
A un certo punto ho superato una donna anziana che portava dei suoi
pacchi.
Mentre proseguivo, ho sentito i passi dietro di me farsi più rapidi e
vicini.
Poi sono tornato a distanziarla: a Sarajevo si va infatti di buon passo,
e magari a zigzag.
Ma ecco di nuovo quei passi di corsa alle mie spalle.
Alla terza volta, mi sono voltato e l'ho aspettata, e le ho chiesto se
volesse qualcosa.
Era affannata, povera, e mi ha detto, scusandosi: Ho sentito che
canticchiava, e mi sono spaventata, perché uno canticchia quando c'è
molto pericolo, per darsi coraggio: così cercavo di sbrigarmi a venirle
dietro.
Mi sono scusato a mia volta della mia distratta abitudine.
Abbiamo continuato con un passo deliberatamente calmo, e chiacchierando
del più e del meno.
Ma ora continuo a ricordarmi di quella gentile signora, e dell'allarmata
fiducia che aveva messo nel mio canticchiare.
Chissà perché, mi pare che abbia a che fare con la questione dei raid
della Nato, e dei bar di Tuzla e di Sarajevo.
DAI NOSTRI VISITATORI DELL'INFERNO (Vita, 17 giugno 1995)
Ho condiviso con Luigi Baldelli un avventuroso viaggio di andata e
ritorno a Sarajevo, e un soggiorno di un mese in una bella casa
all'antica sulla collina di Logavina, una casa piena di stanze, divani,
tappeti e cortili, coi buchi di proiettili sui muri e il lillà fiorito.
Baldelli è un giovane fotoreporter romano.
La differenza di età e di strumenti usati - la macchina fotografica lui,
che ferma le cose; io la penna e una telecamera portatile, che si muovono
dietro alle cose - ha reso la nostra coabitazione estremamente discreta.
Lui usciva di mattina presto, a cercarsi la luce migliore, credo.
Io stavo su di notte, ad ascoltare il silenzio assoluto che si stende
come un lago fra le raffiche e i tonfi delle granate.
Ora, al ritorno, ho fra le mani alcune delle sue fotografie, e così posso
ricostruire dove andava, alla ricerca di che cosa.
Ce n'è una con lo scaffale delle scarpe all'ingresso della moschea
grande.
Un'immagine usuale, in apparenza.
Ma a Sarajevo, dove si mette la più gran cura a simulare una esistenza
normale nonostante tutto, niente è usuale.
Così, se guardate in quegli scaffali, trovate un certo numero - un numero
spaventoso - di scarpe spaiate.
Del resto anche gli alberi superstiti, gli alti e svettanti pioppi
cipressini che affiancano la moschea ed emulano in slancio il minareto,
hanno una quantità di rami mutilati dalle granate: la primavera
rigogliosa copre ora col suo verde i moncherini che l'inverno esponeva.
In quegli scaffali, inoltre, l'usura media delle scarpe depositate per la
preghiera è altissima: i tre anni e passa di assedio e tormento di
Sarajevo si lasciano misurare a prima vista dall'imbarazzo delle bocche
sdentate e delle scarpe slabbrate.
Non sono le ciabatte infime che avevo visto nell'Iran dei mustazafin - i
senza scarpe, appunto versione moderna dei sansculottes esaltata dalla
demagogia khomeinista: quelle di Sarajevo sono spesso scarpe che furono
comode ed eleganti e che il tempo ha consumato e stremato come tutto
nella bella città derelitta.
Un dirimpettaio, mio e di Baldelli, ci aveva appena avvertiti: che non
lasciassimo in vista le nostre scarpe italiane al nostro rientro a casa,
perché sarebbero state una tentazione troppo forte per i ragazzi dei
dintorni.
A Sarajevo oggi ci sono dunque alcuni improvvisati ladri di scarpe,
dell'unico paio di scarpe forse, come i ladri di biciclette della nostra
storia antica.
Ho chiesto: nessuno ha comunque mai rubato una scarpa all'ingresso delle
moschee.
Se uno l'avesse fatto, forse, come con certi disperati ladri di
elemosine, l'unico Dio avrebbe chiuso un occhio.
C'è un'altra fotografia che amo.
E' una finestra, ha cinque ante, quattro sono coperte, come tutte le
finestre di Sarajevo, dalla plastica opaca dell'U.N.H.C.R., che rimpiazza
i vetri infranti.
La quinta è aperta, e ci si affaccia una vecchia donna.
Dirò ora perché amo questa immagine.
Le finestre a Sarajevo sono come occhi feriti e bendati.
Quando si spara, quando si bombarda, occorre tenersi lontano dalle
finestre.
Voragini spalancate sui muri fanno loro concorrenza.
Sui loro davanzali scatole di latta con il grottesco timbro dell'Onu
ospitano ortaggi e fiori, alla rinfusa: altrettanto necessari a
sopravvivere.
Dietro la plastica opaca si vedono muoversi figure spettrali.
Appena possono, le persone stanno alla finestra, e aspettano.
Aspettare è la vera vita di Sarajevo.
Si aspetta che qualcosa finisca, un'ora, un giorno, si aspetta la fine
della guerra.
Sono passati così tre anni e due mesi.
Stanno alla finestra, immobili, bambini e cani, persone adulte, ma
soprattutto i vecchi.
I vecchi aspettano anche altrove: a Sarajevo aspettano con la
disperazione di chi ha visto rovesciarsi la legge del tempo, di chi ha
visto morire o andar via figli e nipoti.
Di questa foto mi piace molto l'ombra scura, in basso, su un muro
scarabocchiato di scritte, della testa del fotografo: mi piace che, sia
pure in questo modo umbratile e discreto, Luigi Baldelli abbia desiderato
entrare anche lui a far parte della figura che ritraeva, dell'attesa
della signora alla finestra e della Sarajevo assediata.
Infine, amo questa foto perché c'ero anch'io quando è stata scattata,
quando Luigi ha chiesto a cenni alla signora se le sarebbe dispiaciuto
che lui la fotografasse, quando lei ha assentito, e quando alla fine lo
ha ringraziato raccomandandolo a Dio e dicendogli: Fa' attenzione, abbi
cura di te.
A Sarajevo vi dicono: Abbi cura di te, e non è un modo di dire cortese.
Sono premurosi e apprensivi: è come se, a loro modo, pensassero che la
vostra vita di estranei sia più preziosa e degna di riguardo della loro.
Anche voi, in fondo, pensate qualcosa del genere, sebbene ve ne
vergogniate, e cerchiate di essere come loro.
Siete visitatori dell'inferno, con tanto di accredito: agli altri
l'inferno appartiene, ed essi gli appartengono.
Anche quella signora così anziana e premurosa.
E' un ostaggio con altri trecento, quattrocentomila di un'aggressione
spietata e criminale.
Ma il mondo non è preparato a pensare così.
Il mondo chiama ostaggi solo i caschi blu, e non si scandalizza più tanto
neanche per loro.
C'è una fotografia in cui si vede una strada, un telone che penzola da un
filo, una figura di uomo che cammina.
Ho un attaccamento particolare per questa immagine.
Quei teli sbrindellati, patchwork d'emergenza cuciti assieme e appesi
chissà da chi per il bene comune, sono lo scudo che una popolazione alla
fine del ventesimo secolo oppone al tiro a segno degli assassini.
Sono, a loro modo, bandiere di una resistenza, séparé dietro cui la vita
cerca riparo, finché un colpo di vento la metta allo scoperto.
L'uomo nella foto cammina calmo, benché passi da un punto fatale: forse
ha addirittura le mani nelle tasche.
Forse, perché la sua figura è mossa nella foto in una maniera misteriosa,
che lo rende quasi mutilato, e lo sorprende come a metà fra l'affiorare e
il venire cancellato.
Un passante, alla lettera: un transeunte, come dicono gli spagnoli.
Uno che passa di lì - uno che deve morire? A Sarajevo la vita è stata
ricondotta ai suoi luoghi cruciali, alle stazioni di una passione: le
chiese, gli ospedali, i punti di distribuzione del pane, le fontane, i
cimiteri.
Ci si imbatte ogni giorno in funerali non dovuti, di morti bambini e
bambine, di morti soldati, di adulti e vecchi morti di morte innaturale.
A volte si aspetta che l'ora del giorno finisca, perché il funerale, e la
preghiera del commiato, si svolgono sotto il mirino dei cecchini e delle
artiglierie, pronte forse a completare l'opera.
Morituri seppelliscono i loro morti, a volte tesi come prede inseguite
dalla muta di caccia, più spesso incuranti o sfidanti, come chi nella
morte dei propri cari riconosca la fragilità della vita propria e rigetti
con disprezzo la minaccia vigliacca degli assassini.
La dimestichezza con la morte che la gente di Sarajevo ha imparato in
questi tre anni è come una malattia, forse: si ha l'impressione che nei
cimiteri i radunati non sentano la solidarietà forte e turbante che c'è
nei nostri funerali, la solidarietà di chi si scopre irresistibilmente
vivo, e invece si sentano sopravvissuti e quasi morti.
L'ultima foto.
Ho scelto una fotografia bella, ma insomma banale.
Il luogo è stato visto mille volte nei telegiornali.
E' il piazzale nel viale degli Snajper, quello falciato dalle raffiche e
dai tiri dei cecchini serbi annidati nel vecchio cimitero monumentale
ebraico.
Sulla destra della foto c'è il blocco tozzo dell'Holiday Inn, a sinistra
lo scorcio di un blindato con un soldato delle Nazioni Unite in piedi.
Al centro, la prospettiva dello stradone, l'arteria che porta dalla
vecchia alla nuova Sarajevo, segnata dai binari vuoti del tram.
A rendere struggente questa veduta dagli ingredienti scontati è proprio
quell'esercizio di prospettiva lineare a perdita d'occhio tracciato dai
binari inutilizzati, sottolineata dalla posa di spalle del soldato, che
guarda anche lui verso un orizzonte che sembra sconfinato, e che si
conosce chiuso: il punto in cui la città finisce amputata dall'assedio,
il punto oltre il quale la città prigioniera non può andare.
Il punto oltre il quale c'è il resto del mondo, il mondo in cui si può
muoversi, andare avanti e indietro, attraversare le strade senza essere
fucilati, entrare in un negozio a comprare una lampadina.
Quel punto fa un contrasto terribile col primo piano che è il luogo degli
appuntamenti quotidiani con la morte.
Di quel luogo, avete visto infinite fotografie e riprese con la gente che
corre, con la gente che arranca con le gambe spezzate, con la gente
ammazzata in una pozza di sangue.
Da anni fotografi e telecamere, perfino con postazioni fisse e
automatiche, per riprendere tutto sempre, come si lascia una rete da
pesca nel punto in cui ci sarà un passaggio, sono in agguato in
quell'angolo, come avvoltoi, forse, o forse solo per fare il loro
mestiere.
Lo spazio della morte e della tortura in questa fotografia di Baldelli è
lasciato vuoto: senza corpi di vittime o di scampati, senza il colore del
sangue.
Quel vuoto richiama l'orrore più delle altre foto, mi pare.
E le rotaie del tram, stilizzate come in uno studio di fuga prospettica,
sono la memoria più lancinante di una grande città umiliata, che era
fiera del suo tram elettrico, il primo che mai abbia attraversato le
città europee, più di cent'anni fa, il suo tram colorato e sforacchiato,
il suo tram restaurato fra le lacrime di gioia e di nuovo abbandonato
dopo troppi passeggeri e guidatori morti e feriti.
Per questo la fotografia di Baldelli mi piace tanto, col suo soldatino di
piombo e col suo triste Holiday Inn.
E' Sarajevo.
Tanti saluti da Sarajevo.
ASSASSINI CON METODO (L'Unità, 19 giugno 1995)
Un bel libro del montenegrino-sarajevese Marko Vesovic si intitola "La
morte è la maestra dei serbi".
Più esattamente, in quel maestra c'è anche il senso dell'abilità da
capomastro, del mestiere.
A questa maestria va ascritta la meticolosità idraulica degli assassini
cetnici che assediano Sarajevo.
Ieri una ennesima coda per l'acqua è stata centrata, trasformandosi in
un'ordinata fila di morti e di feriti.
Cecchini e artiglieri serbo-bosniaci possono infatti colpire una
fontanella, segnando una crocetta su una carta millimetrata.
Ma non è qui la bravura.
La bravura è nel metodo, nell'integralità del ciclo.
Si toglie l'acqua alla città, per qualche giorno: poi si tira fuori la
carta millimetrata, e si preme l'apposito pulsante.
Da tanti giorni Sarajevo è senza acqua e senza pane.
Si può tirare fuori, a piacere, la carta della fila per l'acqua, o quella
della fila per il pane.
In questi giorni non c'è pane, e non c'è fila.
Gli assassini devono contentarsi delle fontane.
Negli ultimi giorni, nell'ospedale maggiore di Sarajevo sono stati uccisi
alcuni ricoverati: ecco una conferma del metodo.
Ma anche qui la maestria e la professionalità vanno molto oltre.
Di quegli ammazzati infatti uno è stato finito da un cecchino dopo che un
altro cecchino lo aveva colpito per strada un paio di giorni prima; un
altro è stato finito da una granata sabato, dopo che un'altra granata gli
aveva spappolato una gamba il giorno prima.
E' questo il ciclo integrale, la rifinitura; la morte come capomastro.
Chiusa come una bara, affamata e assetata, Sarajevo se ne sta nelle
cantine e negli sgabuzzini, mandando fuori ogni tanto i suoi incursori a
cercare un po' d'acqua.
Ha ancora i telefoni.
Ho fatto il mio giro quotidiano di telefonate.
Ho saputo che sabato pomeriggio è venuto un acquazzone, e domenica ha
fatto piuttosto freddo, se si tiene conto della stagione.
Che la pioggia la manda Dio per lavare il sangue.
Che la gente aspetta oscuramente la rappresaglia sulla città.
Che Karadzic ha proclamato che dopo i suoi bombardamenti la sola cosa che
resterà al suo posto della Sarajevo di prima sarà il fiume, la Miljacka,
e che non una persona, non una casa rimarrà in piedi.
Che ogni palmo di terra, sull'Igman, sul Trebevic, costa battaglie
estenuanti e sanguinose.
Ma non sono queste le notizie.
La vera notizia, che tutti confermano, è che le persone di Sarajevo,
rintanate, affamate e assetate, sono attraversate da una specie di
allegria e di liberazione, da una specie di speranza, addirittura, se si
può chiamare così il sentimento di chi si getta incontro al pericolo
quando tutto è altrimenti perduto.
Forse la controffensiva tentata dai bosniaci non ce la farà; forse la
città sarà massacrata; ma non c'era altro, da tre anni e passa non c'è
stato altro che la coda alle fontane e la fila dei morti.
La controffensiva dei bosniaci non ce la farà, forse.
Forse dovrà interrompersi, perché troppo pesante è il divario nelle armi
e nelle munizioni.
I Sette e Otto Grandi l'hanno addirittura ammonita.
I pacifisti hanno ribadito che altra è la strada, e che se tutte le
opposizioni democratiche si dessero la mano, da Zagabria a Belgrado,
l'acqua tornerebbe limpida, e il lupo giacerebbe con l'agnello.
Intanto, le persone di Sarajevo stanno rannicchiate e benedicono quel
proprio esercito senza capomastri, erede povero e appiedato della
cavalleria polacca che galoppava contro i carri armati.
PER SARAJEVO (Il manifesto, 20 giugno 1995)
Cari amici, ho sulla Bosnia un'idea opposta alla vostra su due questioni
essenziali: il vostro rifiuto di riconoscere nei nazionalisti serbi gli
aggressori, e nei bosniaci gli aggrediti; il vostro rifiuto di ogni
ricorso delle Nazioni Unite alla forza appropriata all'attuazione degli
impegni assunti a difesa dell'umanità e della legalità.
Poiché su questo, che è il più grave dei fatti in cui la generazione
europea cui appartengo sia stata coinvolta, non c'è stata alcuna seria
discussione, ancora peggio sarebbe sostituirla con una polemica: perciò
non trovo da dire niente, anche quando vengo personalmente evocato sul
Manifesto con un tono sprezzante.
Ma ora c'è forse un nuovo scenario attorno a Sarajevo, e con esso la
necessità di pronunciarsi daccapo.
Se infatti è vero che il legittimo governo bosniaco abbia deciso di
gettare in campo la propria intera forza militare per tentare di spezzare
l'assedio di Sarajevo, dopo aver subito per oltre tre anni la
soverchiante violenza cetnica, e aver atteso invano il soccorso
internazionale, allora bisognerà che ciascuno decida da che parte stare -
o non stare.
Enormemente inferiori in armi, benché più numerosi e animosi per la
propria disperata buona ragione, i bosniaci si battono per la libertà
dopo aver misurato per eccesso di non poter fare affidamento sulle
Nazioni Unite o sull'Europa, cui avevano creduto di appartenere.
Si può essere angosciati per il costo di questa partecipazione - io lo
sono, fino al pianto: per i ragazzi che vanno a morire in un fango da
prima guerra mondiale, per le persone di Sarajevo tramutate ancor più in
ostaggi della rappresaglia serbobosniaca, e per le vittime dell'altra
parte.
Non si può far a meno di ritenerla inevitabile, giusta, mille volte
annunciata.
E, a me pare, non si può evitare di auspicarla vittoriosa.
Ciò che costringe a un punto ulteriore: se l'Onu, mentre garantiva
impegni di pace e di protezione che avrebbe regolarmente tradito nei
fatti, non avesse anche impedito l'armamento dei bosniaci aggrediti e
pressoché del tutto privi, all'inizio, di un esercito, la disparità di
forze non si sarebbe conservata così a lungo, e non renderebbe oggi tanto
disperato e sanguinoso il tentativo estremo degli assediati.
E non renderebbe vergognoso il monito dei Sette da Halifax perché
tacciano tutte le armi...
Io non mi illudo che i bosniaci vincano, e continuo a pregare che qualche
imprevedibile sviluppo fermi una carneficina: ma ammiro la loro
controffensiva quanto ho disprezzato la viltà comoda e assassina degli
aggressori.
Infatti finora non c'è stata guerra, né civile né regolare.
Dunque, ho letto con costante attenzione il vostro giornale.
Ed ecco che sabato, sotto un titolo quasi incoraggiante - "Il cerchio
spezzato" - leggo le seguenti parole: ...dopo un assedio voluto da tutte
le parti in conflitto.
Qui ho sobbalzato.
Era infatti una notizia bomba: anche gli assediati avevano voluto il
proprio assedio! Sono corso a cercare nelle pagine interne la motivazione
di quella notizia sconvolgente e non l'ho trovata. Allora mi sono
interrogato.
Il governo bosniaco (qualunque secondo fine si possa imputargli) ha
accettato le proposte internazionali rifiutate da Karadzic, anche quando
erano palesemente inique e ispirate al realismo che spalleggia il più
forte.
Mi sono spinto fino a dirmi che forse alludeste a una questione reale,
cioè ai limiti che il governo bosniaco ha frapposto alla libertà di
movimento dei cittadini di Sarajevo in questi anni orribili: ostacolando
l'uscita di giovani e adulti in età militare, o quella di persone che
svolgessero attività ritenute indispensabili.
Io ho odiato quelle limitazioni, sebbene sappia che nessun altro paese in
una simile condizione di guerra banditesca e di assedio abbia mai
conservato un tale grado di libertà relativa.
Ma di qui a dire che i bosniaci assediati hanno voluto il proprio
assedio, c'è un abisso, e sulla sua sponda si affaccia l'infamia.
Volevate forse dire che la Bosnia-Erzegovina, come già prima di lei la
Slovenia e la Croazia, aveva fatto male a volere l'indipendenza, e la
comunità europea a riconoscerla frettolosamente? Può darsi: ma ripetersi
questo argomento a tre anni e passa di distanza non può sostituire la
risposta al che fare per metter fine al martirio di un paese e con esso
dell'umanità e del diritto; e tanto meno può rovesciarsi nell'accusa di
aver voluto il proprio assedio.
Vi prego di essere pazienti, cosicché proviamo a dire e capire
reciprocamente che cosa pensiamo, e perché.
Leggendo quello che autorità, esperti e parti dicono di Sarajevo, io non
posso fare a meno di immaginare i loro nomi in calce ad articoli,
meditazioni e prese di posizione di più di cinquant'anni fa, a proposito
del ghetto di Varsavia, di immaginare saggi ammonimenti a non demonizzare
i tedeschi, a vedere l'inestricabile groviglio di responsabilità che
aveva portato fino a questo, a deplorare l'insinuarsi di un pericoloso
fondamentalismo ebraico fra i recintati, a denunciare una pericolosa
escalation delle armi nella loro rivolta così assurdamente condannata
alla sconfitta e allo sterminio.
E' un paragone forte, lo so.
Spero solo che sia abbastanza forte.
NOI? GUARDIAMO (L'Unità, 26 giugno 1995)
La notizia arriva tardi, e incerta: cinque morti, sette morti, nove
morti, forse più.
Nelle redazioni bisogna decidere che fare.
I morti sono parecchi, anche per Sarajevo, e poi i bambini: quattro
bambini, forse sei bambini, forse più.
Un titolo di testa, una foto, un commento indignato, o piuttosto un
commento commosso? D'altra parte le bambine le avevano ammazzate anche
ieri, e una dozzina di morti li avevano fatti anche l'altro ieri.
Santo Dio, si può aprire tutti i giorni con una strage da Sarajevo: per
tre anni e mezzo? Proprio ora che gli scudi umani dell'Unprofor sono
stati rilasciati, e la scelta del negoziato a ogni costo si è rivelata
vittoriosa? Infatti, le autorità dell'Onu e francesi hanno negoziato
sottobanco il rilascio degli ostaggi, rilasciando a propria volta quattro
aggressori assassini cetnici.
Tutto è bene quel che finisce bene: applausi.
Che Sarajevo conti trecentottantamila scudi umani - e poi quelli di
Tuzla, di Bihac di Gorazde, di Zepa... - è un dettaglio da guastafeste.
Che la cattura e l'esposizione in prima linea di scudi umani - il muro
vivente si chiama, in serbo - sia un'abitudine dei cetnici fin
dall'inizio di questa infame guerra, è cosa che non sta bene dire.
Un mesetto fa, le cose erano così gravi che l'Onu ha deciso di impiegare
i bombardieri.
Karadzic aveva avvertito che avrebbe preso i soldati dell'Onu in
ostaggio, e li avrebbe sgozzati: ha mancato alla parola solo per la
seconda parte, e c'è da rallegrarsene davvero.
Così, ora, la situazione è molto più grave: le stragi sono quotidiane, a
Sarajevo non c'è acqua né luce né gas, c'è un pezzo di pane ogni due
giorni o tre.
I convogli sono bloccati e saccheggiati dai cetnici.
In compenso, l'Onu ha garantito in segreto ai razzisti cetnici che non
ricorrerà più ai raid aerei, e alcuni media internazionali e autorità
varie hanno regalato a Milosevic e al suo capo dei servizi segreti,
organizzatore fervido di pulizie etniche, la patente di mediatori di
buona volontà.
Da noi si discute gravemente.
Non si può paragonare Sarajevo al ghetto di Varsavia, si ammonisce.
E' un paragone che aveva fatto, con una certa competenza, Marek Edelmann,
il quale poco più che ragazzo fu il vicecomandante dell'insurrezione del
ghetto, un eroe se mai ve ne furono, che a sentir parlare di eroismo va
in bestia.
Un rapporto ufficiale e ponderoso dell'Onu - opera di delegati olandese,
canadese, norvegese e senegalese con un presidente egiziano - ha
documentato la responsabilità primaria dei serbi di Milosevic e di
Karadzic nelle atrocità, e nella premeditazione e attuazione metodica
della pulizia etnica, ha affermato che i bosniaci sono restati estranei a
ogni proposito di pulizia etnica, ha dichiarato che non c'è alcuna base
concreta per sostenere che vi sia una equivalenza morale fra i
belligeranti.
Commissionato nell'ottobre 1992, secondo la Risoluzione 780 dell'Onu, il
rapporto è stato consegnato al Consiglio di Sicurezza, e dunque alle
diplomazie, nel maggio 1994: un anno e un mese fa! E' stato pubblicato in
sunto da Le Monde solo quattro giorni fa.
Adesso sono alla fine del commento, per questa volta.
Intanto i morti della strage saranno diventati nove, undici, quattordici?
E di loro, prego, quanti bambini? Bene: anche ieri, domenica, a Sarajevo,
dopo un mezzo sole la mattina, nel pomeriggio è tornata la pioggia, e ha
sciacquato il sangue.
La vita continua.
Ed ora, una breve interruzione pubblicitaria.
Non lasciateci.
A fra poco, per le altre notizie.
JOGGING SOTTO LE GRANATE SERBE (L'Unità, 27 giugno 1995)
E' stata una bella giornata d'estate, piena di bombardamenti e
sparatorie.
A mezzogiorno è stato bombardato il pieno centro, attorno al mercato,
alla Presidenza e al viale intitolato a Tito.
Fra i morti, sulla salita di Mejtas, accanto alla Banca Nazionale, c'è un
ragazzetto che aveva fatto la coda per tre giorni prima di attraversare
il tunnel e rientrare a Sarajevo.
Era arrivato oggi, in tempo per l'appuntamento con la propria granata.
Si chiamava Marko Lukic, aveva 13 anni.
Si noti, se si vuole, che il suo è un cognome serbo.
Sono arrivati a Sarajevo i primi 145 profughi da Zepa.
Sono anziani, feriti e bambini, persone scheletrite, che vivono una
tristezza terribile.
Sono stati tutti raccolti all'ospedale di Kosevo.
Hanno raccontato che i soldati sono attestati nei boschi a nord del
paese, e che il resto dei civili si è sparpagliato sulla montagna.
Nel loro gruppo, dicono, non hanno subito nessuna violenza dai serbi di
Mladic.
Invece l'Unprofor non li ha accompagnati, mancando ancora al proprio
impegno.
Nel pomeriggio, dalle 2 alle 3, una quantità di tiri di artiglieria e di
fucileria si è dilapidata sulla periferia a nord-est, ed è continuata
poi, un po' diradata, per il resto del pomeriggio.
La giornata di martedì, al contrario, era stata insolitamente tranquilla:
s'intenda secondo le misure locali.
La sera, al calare del coprifuoco, si commentava quella strana
tranquillità quando un boato colossale è esploso a ridosso di Sredrenik,
seguito da un'eco interminabile e gorgogliante lungo tutto l'anfiteatro
opposto del monte Trebevic.
Dopo alcuni minuti, l'esplosione spaventosa si è ripetuta nello stesso
punto.
Abbiamo pensato alle bombe di aereo adattate e spinte da razzi, che
sempre più spesso devastano la città.
Si è saputo poi che erano bidoni riempiti di tritolo che i cetnici
lasciano andare giù per il pendio, dall'altura micidiale di Spicasta
Stjena.
Anche questo succede, nella Sarajevo di fine secolo: botti esplosive
rotolanti, da due quintali l'una, con dentro un comando a tempo.
Era già successo sul versante del Trebevic.
Nella città i passanti sono stati ancora più radi del solito: pressoché
solo quelli che stanno in strada per professione, poliziotti - uno è
stato ferito gravemente nel giardino davanti al mercato -, poveri
venditori di cattive sigarette, rovistatori di immondizia, matti.
Ne ho incontrato uno geniale - non l'ho incontrato: mi aspetta al varco -
che conosco bene, e solo oggi ha deciso di comunicarmi in confidenza di
essere Jehova e di essere di professione designer industriale; del resto
il suo figlio prediletto, appunto, è stato carpentiere.
E' emaciato, ha capelli e barba nera e incolti, e nella sua faccia
spiritata e vilipesa c'è in effetti qualcosa di grandioso.
Lui non corre agli incroci, e si è convinto di essere invulnerabile.
Le poche persone comuni d'un tratto si mettono a correre all'impazzata, e
non si riesce a capire per quale paura - se non dopo, quando si fa il
conto dei caduti.
A queste estenuanti corse sarajevesi, si mescola, surreale e
imperterrito, il jogging dei funzionari dell'ambasciata americana, in
canottiera e calzoncini e cronometro al polso.
Corrono in gruppi di due, benignamente sudati e coi capelli a spazzola, e
ogni tanto si incontrano in certi angoli di strada, e senza smettere di
saltellare concordano il prossimo itinerario, e poi ripartono.
Così, un po' più in là, li si vede apparire e scomparire, meccanismi di
un moto perpetuo, misteriosi e superflui come i bianchi blindati
dell'Unprofor che solcano le vie della città.
Fellini, dice scuotendo la testa il mio amico Gigio.
I sarajevesi corrono, invece, in un modo ben più spiegabile e scomposto,
per giunta con vestiario disadatto, e some di taniche e pacchi pesanti
come il mondo.
Quando arrivano da qualche parte, e si lasciano andare seduti, riprendono
fiato e ridono di sé, e si raccontano i loro pensieri più grotteschi.
Da quando qualcuno ha avuto il coraggio di parlarne, tutta Sarajevo
scherza sulla preoccupazione universale di uscire di casa con la
biancheria in ordine e l'igiene personale passabile, per l'eventualità di
essere beccati da un cecchino e spogliati dai soccorritori - e, colmo dei
rischi, ripresi dalle telecamere coi vestiti a brandelli, e anche il
resto.
Umore sempre più nero, e sincero.
Sapeste, per esempio, quale altissima percentuale di automobili a
Sarajevo, delle poche che girano, ha un foro rotondo sul parabrezza
esattamente all'altezza della testa del guidatore: compresi i taxi su cui
salite, guardando il buco nel vetro e poi, d'istinto, la fronte del
tassista .
Ho incontrato anche un autorevole geologo.
Insegnava all'università.
Ora non ho niente da fare, dice, e anche se la guerra finisse non potrei
fare niente, perché le montagne sono così piene di mine che chissà per
quanti anni ancora non si potrà metterci piede.
Nelle telefonate-intervista dall'Italia, mi sento ancora fare la domanda:
ma a Sarajevo, la speranza è ancora viva? Si sa, non è facile il mestiere
dell'intervistatore.
Posso dire, tuttavia, che un gran numero di passeri ha fatto il nido nei
buchi dei proiettili sui muri delle case.
TELECAMERE SCOMODE (L'Unità, 29 giugno 1995)
Il défilé di Cannes fra i governanti europei deve aver fatto una grande
impressione ai delinquenti serbo-bosniaci, se questi hanno deciso di
replicare, oltre che con la routine della strage quotidiana (cinque
ammazzati, quaranta feriti, nelle case della Città Nuova a Sarajevo)
sventrando con i missili l'edificio della televisione.
Lì hanno fatto un morto e decine di feriti.
A Sarajevo, le telecamere sanno dove appostarsi per garantirsi il
torrente di sangue quotidiano da far scorrere sui nostri schermi, nella
dose e alle ore previste.
Questa volta hanno fatto da materia prima a se stesse: facce
insanguinate, monitor e banchi di montaggio infranti.
Il benemerito pool televisivo che manda in onda ogni giorno, con la
naturalezza di una rubrica meteorologica, il mattatoio di Sarajevo, ora
ha ripreso se stesso: episodio a suo modo culminante di una
partecipazione del mondo che si è ridotta allo sguardo distante.
Dall'altra parte, è il culmine di un gioco al rialzo dei gradassi cetnici
che è passato dalla gogna degli uomini delle Nazioni Unite, alla strage
nelle file per l'acqua, al massacro dei bambini sul sagrato della
cattedrale, al bombardamento sulle televisioni.
Tattica rozza, si direbbe: se non fosse che ha sempre fruttato loro il
punteggio pieno.
A volte con un'invadente golosità di "scoop" e di autopsie, più spesso
con un gran coraggio e il cuore stretto dalla pena, giornalisti e
operatori stanno a Sarajevo rischiando la pelle al minuto, registrando e
riferendo la verità, e sapendo che la verità, una volta spedita in giro
per il mondo, non cambierà neanche di un millimetro il destino dei
bambini di Sarajevo che giocano dietro la cattedrale, o dei vecchi che
attraversano un incrocio da cecchini.
Nel corso di tre anni e mezzo la distanza fra ciò che i testimoni hanno
visto e sanno di Sarajevo, e ciò che le autorità competenti ritengono di
saperne e pensarne a casa loro, non ha fatto che accrescersi.
Così, quelli che sono andati a Sarajevo sono diventati, con poche
eccezioni, molto tristi e un po' pazzi.
Dei sarajevesi non hanno la pazzia intera, lucida e disperata, e neanche
possono più essere come le autorità di casa, la cui tranquilla normalità
appare loro incomprensibile e davvero pazzesca.
Per questo, molti che vanno a Sarajevo sono tentati di rimanerci, e usano
la difficoltà a venirne via come un pretesto per dilazionare, e aspettare
là, come tutti gli altri: che passi questo bombardamento, questa nottata
senza luce, questa guerra orrenda.
Ne ho conosciuti così anche rintanati nel palazzo delle televisioni,
l'unico posto al mondo in cui le grandi reti si sono messe insieme in
pool, invece di farsi concorrenza: per ridurre i costi, compresi quelli
delle vite umane.
Una sera in albergo mi accorsi di aver finito le cassette della mia
handycam, e la mattina dopo ci sarebbe stato il convoglio organizzato
dagli ebrei per l'esodo dei vecchi e dei malati.
Dissi a Miran Hrovatin quanto fossi dispiaciuto di non poterlo
riprendere, lui mi diede appuntamento dopo mezzanotte, e andò, come ogni
sera, al palazzo delle televisioni: quando tornò, aveva con sé le
cassette, le aveva prese in regalo dai giovani della C.N.N.
Di questo mi sono ricordato ieri guardando i filmati della devastazione.
E a un'altra cosa ho pensato, poiché ieri era il giorno di San Vito, e le
stragi cetniche erano anche un modo devoto di commemorare il loro
patrono, e l'anniversario della sconfitta di Kossovo Polie (infatti i
nazionalisti serbi continuano a scavare nelle fosse di quella battaglia
perduta coi turchi seicentosei anni fa).
Toni Capuozzo mi ha descritto la cerimonia cui Karadzic, Mladic e gli
altri caporioni sono intervenuti a Bjelina, cittadina in cui la pulizia
etnica serba si era compiuta per intero, e senza neanche grandi effusioni
di sangue.
Nella piazza di Bjelina, dove sorgeva una moschea, meticolosamente
spianata, sorge ora un monumento ai caduti di Kossovo: piazza pulita,
sacro risarcimento.
Là erano i capi cetnici mentre a Sarajevo e a Tuzla i loro cannoni
facevano strage.
Benché mi guardi dagli effetti troppo facili, sono stato tentato di
sovrapporre l'immagine del rito celebrato nella Bjelina della moschea
cancellata con la cronaca recente su un rosario di espiazione romano.
DAVANTI AL MATTATOIO GHALI SE LA SQUAGLIA (L'Unità, 12 luglio 1995)
Dopo la caduta di Srebrenica la soluzione finale ha fatto un gran passo
avanti.
Finora le Nazioni Unite si erano limitate a lasciar bombardare e affamare
le città dichiarate solennemente sotto la loro protezione.
Ora le abbandonano alla rinfusa, insieme alle decine di migliaia di
profughi, non senza compiere, a cosa fatta, un paio di cialtroneschi raid
aerei.
Siamo allo spappolamento.
Karadzic e Mladic, sul cui capo pende - questione di giorni - un mandato
di cattura internazionale per crimini di guerra, danno il loro ultimatum
all'Unprofor, e, loro sì, lo fanno rispettare.
L'altro giorno ha parlato, in apertura del congresso del P.D.S., il
sindaco di Tuzla, Bezlagic, socialdemocratico, alla testa di una giunta
esemplare per il rifiuto delle anagrafi etniche.
Bel gesto.
Nell'occasione, coloro che fanno del Non Intervento in Bosnia una fervida
bandiera - mentre l'Onu se la squaglia davanti al mattatoio e alla
pulizia etnica, noi abbiamo fior di militanti del Non Intervento - hanno
presentato Bezlagic come un campione del pacifismo e dell'equidistanza
fra i nazionalismi contendenti.
Quel Bezlagic aveva mandato all'Europa e all'Onu, all'indomani della
strage di ragazzi a Tuzla, messaggi estremi in cui diceva: Voi avete
dichiarato Tuzla e altre città assediate aree protette.
Bambini e persone innocenti vengono uccisi senza sosta.
In nome di Dio e dell'umanità usate finalmente la forza.
E ancora: C'è una sola cosa che potete fare.
Dovete bombardare le postazioni di artiglieria sulle colline attorno a
Tuzla.
Voi dovete bombardare tutte le postazioni di armi pesanti dei fascisti
serbo-bosniaci in Bosnia.
Altrimenti, fra voi e gli assassini dei nostri bambini qui non ci sarà
alcuna differenza.
Me l'aveva detto, disperato, Alex Langer.
Oggi Bezlagic è a Strasburgo per ricordare quel suo grande amico.
Tutto è andato troppo oltre.
I caschi blu, per gran parte dei loro impieghi, non sono che ostaggi a
portata di fischio dei cetnici: senza toglierli da lì, nessuna azione
internazionale sarà possibile che non sia la mera autodifesa dell'Onu, e
neanche.
Né è pensabile, ora, un'interposizione efficace grazie allo spiegamento
molto maggiore e determinato di forze.
D'altra parte, si sta cercando solo il pretesto per squagliarsela.
A Sarajevo, un'operazione nemmeno di polizia, ma da vigili urbani, come
l'apertura di un effettivo accesso alla città non il viottolo sterrato
dell'Igman: una strada - ha bisogno di prevedere il rincaro banditesco di
Karadzic, e dunque di prevedere di prevenirlo, reprimerlo e castigarlo al
suo livello.
C'è qualcuno che voglia farlo? Chirac, certo, può ordinare qualche gioco
d'artificio per bilanciare un po' le sue smanie nucleari.
Poi, tutti a casa.
Mi auguro di sbagliare.
Mi auguro che la dannata mania di grandezza nucleare di Chirac lo
costringa, per salvare la faccia, a qualcosa di buono in Bosnia.
Posto della caduta di Srebrenica nella media dei telegiornali:
undicesimo.
C'è uno Chopin che prepara il suo concerto? Del resto gli esperimenti
sull'atollo di Sarajevo sono durati troppo e troppo al dettaglio, mortai,
fucili, cannoni.
Se Karadzic, lo psichiatra, avesse l'atomica: perché no? Eutanasia,
amici, eutanasia.
SOTTO LE BOMBE COL CUORE STRETTO (L'Unità, 20 luglio 1995)
Dirò quello che ho visto e sentito in un solo giorno.
Ho visto cadere la granata che ha ucciso un bambino di dodici anni nel
bagno della sua casa.
Ho visto un uomo grande e grosso caricare i corpi dei morti e dei feriti
su un'auto, sul lungofiume e poi entrare in un bar, pieno di sangue, e
mettersi a piangere.
Ho sentito le bombe cadere dappertutto sulla città, al Ponte Latino,
intorno alla Presidenza, sulla Città Nuova.
Ho ascoltato le istruzioni per il nuovo soggiorno.
Tenere un rubinetto spalancato, per svegliarsi di colpo se arrivasse
l'acqua - non è arrivata da più di un mese.
Dormire nel corridoio interno.
Raccogliere l'acqua piovana con un tubo derivato dalla grondaia (per
fortuna, ci sono dei temporali pomeridiani).
Risparmiare le candele: ora costano il doppio.
Non uscire di casa, se non è necessario: nessun punto della città è più
risparmiato dai bombardamenti.
Di fatto, il bombardamento indiscriminato di Sarajevo è cominciato.
Soprattutto, stare alla larga dai luoghi frequentati dai bambini, gli
asili, i cortili dei giochi, l'ansa del fiume a Bentbasa: è lì che
bombardano di più.
Usare l'acqua piovana per lavare i vestiti.
Con l'acqua risciacquata, lavare quel che si può del gabinetto e della
casa.
Pregare Dio quando si va, di notte, alle fontane, a caricare l'acqua.
Ricordarsi che non è potabile benché tutti la bevano.
Pensare col cuore stretto a quelle povere persone di Srebrenica.
Raccogliere cartoni, schegge di legno, stoffa vecchia per fare un po' di
fuoco in casa: per il caffè, almeno, o per il latte ai bambini piccoli.
Imparare a distinguere, anche se è sempre più difficile, il fragore dei
tuoni da quello delle bombe e da quello degli aerei della Nato.
Ricordarsi della vita di prima, per provare a resistere alla pazzia.
Continuare a dirsi, senza rallentare il passo: Come sta?, Bene, grazie, e
lei come sta?; e senza scrutare in ogni passante che si incrocia il
proprio imminente compagno di morte.
Procurarsi della verdura, per le vitamine, e perché si può mangiare
cruda.
Non mangiare verdura cruda senza lavarla bene, perché le malattie
intestinali dilagano.
Del resto, dove procurarsi l'acqua, e dove la verdura? Inoltre, anche gli
infarti dilagano.
Non si potrà dire più, a Sarajevo: di morte naturale.
Sebbene stiano al chiuso più che possono e per strada corrano, e si siano
fatte esperte di guerra ai civili, le persone di Sarajevo sono braccate
dalla morte.
Alle nove c'è il coprifuoco.
Quando è sceso il buio completo, la conversazione nella casa si è fatta
rada.
Uno mi ha detto: Dovevi aspettare ancora un po' a venire, dovevi
aspettare venerdì.
Venerdì a Londra si riuniscono.
Poi nessuno ha più parlato.
Si sentiva solo il frastuono delle granate, e un pianto di bambino.
Le persone stanno zitte, e immaginano una sera d'estate in cui sia venuta
la pace, e si ritrovino vive, piene di allegria, calma e affetto.
Dura da tanto tempo che questo pensiero è diventato raro e doloroso.Rende
deboli.
I bambini dai quattro anni in giù, a Sarajevo non sanno che possa
esistere una sera senza bombe, e forse è meglio che non lo sappiano.
Stamattina ho visto anche Mirza.
La prima volta era un bambino, ora è quindicenne ed è alto un metro e 97.
Gli avevo detto di imparare a giocare a basket, che gli avrebbe potuto
servire per trovare un posto all'estero.
Ha montato un tabellone in un piccolo scantinato, passa ore ad allenarsi
da solo; ma ormai è alto quasi fino al soffitto.
Avrà dei problemi, con un campo regolamentare.
Avranno tutti dei problemi.
Venerdì a Londra si discuterà se passare al ricorso internazionale alla
forza o permettere ai bosniaci di armarsi.
Fino a qualche tempo fa era un'alternativa: ora non lo è più.
Ora è indispensabile decidere ambedue le cose.
Non si deciderà né l'una né l'altra, vero? Il governo italiano è stato il
più svelto a farlo intendere.
Forse si deciderà di aprire la strada blu per Sarajevo? O è troppo, anche
questa misura di polizia stradale? Ecco come sono arrivato io, martedì.
L'unica via, il sentiero sterrato del monte Igman, era chiusa.
I militari bosniaci hanno lasciato passare la nostra auto, perché avevamo
caricato delle borse frigorifere con l'occorrente per operazioni urgenti
all'ospedale di Sarajevo.
Abbiamo risalito l'Igman, io, Zlatko Dizdarevic, e Edo Smajc, in una
solitudine irreale.
L'Igman era un bellissimo monte fiorito, se non per le troppe cime di
abete mutilate dai proiettili.
Quando ci siamo avventurati nella discesa, negli ultimi chilometri da
fare allo scoperto sotto il tiro dei carri armati e dell'artiglieria
serba, l'auto, troppo pesante, ha sbattuto sul fondo sconnesso e ha rotto
la leva del cambio.
Avevamo un'utilitaria: chi viene a Sarajevo a sue spese, e anzi a portare
denaro, non può permettersi le auto blindate.
Ci hanno tirato addosso con la mitragliatrice, centinaia di colpi, a
raffiche così fitte che la strada davanti a noi ribolliva come di una
grandinata.
Edo ha buttato l'auto a precipizio, senza marce, saltando sulle pietre e
sui tornanti, fino al riparo in fondo dove siamo arrivati con un rottame,
e i soldati bosniaci non sapevano se ridere o piangere.
Edo ne ha tratto una conferma al fatalismo locale: come Dio vuole.
Un'ora più tardi, dopo il tunnel, siamo arrivati al check-point di
Dobrinja mentre portavano via un morto e i feriti di una granata appena
caduta.
Questo ho visto e sentito.
Mentre scrivo, non sono passate 24 ore dal mio arrivo.
Magari questo racconto servisse a inquadrare meglio la questione della
strada blu.
Comunque, di qui a venerdì c'è ancora tanto tempo.
Un po' mi vergogno di una penna che descriva questo senza che, un minuto
dopo, gli aerei del mondo libero si alzino in volo.
Ma in realtà l'hanno fatto, sono qui sulla nostra testa, ne sento il
rombo o è il tuono? o il mortaio? No, è il loro, è il rumore del sorvolo
d'ordinanza, in cerchi sempre più stretti, come quelli degli uccelli da
carogna sulla città che muore.
UN FUNERALE SOTTO LE STELLE (L'Unità, 22 luglio 1995)
Il funerale del tredicenne Adnan Hadzic si era svolto giovedì sera, al
buio, nel cimitero di Logavina, sotto l'edificio bellissimo che si chiama
la Casa dei Dervisci.
Si è aspettata la notte, ben oltre il coprifuoco, e non solo l'imbrunire,
per paura di altre bombe.
Ormai ho visto tanti di questi funerali notturni, l'abbandono stremato
dei famigliari, la calca spaventata ma dignitosa dei vicini e degli
amici, la salmodia funebre cantata a bassa voce.
La notte di giovedì era senza luna, il buio pieno, e il rumore delle
zolle sulla cassa di legno, opprimente.
C'erano gli amici di Adnan, ragazzetti dall'aria svelta ma imbarazzati
dei loro mazzi di fiori.
Venerdì mattina hanno bussato a casa mia: erano tre di loro.
Potevo dare loro delle vitamine? -, hanno chiesto.
Sono per il cane di Adnan, mi hanno spiegato.
Li ho fatti entrare, si chiamano Amer, Huko e Kenan.
Parlano un po' per uno, ecco che cosa mi hanno raccontato.
Eravamo amici da sempre, prima della guerra, andavamo alla stessa scuola,
giocavamo a pallone insieme.
Quando tutto cominciò, nel '92, Adnan e sua sorella, che ora ha 19 anni,
furono mandati dai genitori in Germania, da certi cugini.
Più tardi ebbero degli screzi, e andarono in un posto per profughi.
Stettero in Germania tre anni, ma erano sempre più tristi, Adnan
piangeva, scriveva che voleva tornare a Sarajevo, a casa sua.
Alla fine sono tornati, nel maggio scorso.
Adnan non sapeva niente, lo portammo a vedere come era diventata la
città, gli mostrammo dove cadono le bombe, come bisogna regolarsi.
E' durato meno di tre mesi.
Un giorno ha trovato un cagnetto per strada, e l'ha tenuto.
E' stato ferito anche lui dalla granata, l'abbiamo portato dal dottore,
ha perduto una zampa, non si sa se sopravviverà.
Ha bisogno di molte vitamine: per questo siamo venuti.
Vuol sapere come è successo? Adnan era quello che aveva più paura delle
granate, perché non era abituato.
Eravamo nel rifugio, due granate sono cadute sulla fabbrica di vestiti
accanto alla casa.
Poi per un po' niente, così abbiamo pensato di andare a prendere l'acqua.
Ma hanno ricominciato a cadere molte granate, sulla Città Vecchia, e così
siamo tornati al rifugio.
Ma la sorella di Adnan non stava bene, e lui voleva andare in casa a
farle bere un tè.
Gli abbiamo detto di no, ma è salito.
Era in bagno, una scheggia ha attraversato il muro e due porte e gli ha
trapassato il collo.
Così è stato.
Sua madre gli diceva sempre di stare in casa.
Ora è come una pazza.
Noi stiamo in strada, e grazie a Dio non ci è successo niente.
Adnan era buono, non diceva bugie, non rubava, non aveva nessuna colpa.
Proprio così mi hanno detto i ragazzini: non aveva colpa.Chissà a quali
colpe pensano.
Sono andati via, seri seri con alcune bustine di sali minerali e un
pacchetto di aspirine per il loro cane in eredità.
Le granate hanno continuato a piovere, tanti ragazzini a morire o a
restare squartati.
Era il giorno di Londra.
Non ho saputo niente fino a sera, né mi aspettavo molto.
Ho passato la giornata a portare lettere in giro, lettere di figli a
madri e padri, di mogli a mariti, di sorelle a fratelli.
E' un lavoro delicato.
Le persone ti accolgono, insistono perché ti sieda e accetti qualcosa,
vorrebbero trattenerti a Sarajevo: tutti vogliono trattenere per un poco
lo straniero che passa.
Ma intanto non vedono l'ora di aprire le lettere, guardare le fotografie,
contare i soldi, quando ci sono, e finalmente piangere, da soli.
Così si chiede scusa, si spiega che ci sono tante altre lettere da dare,
si promette di tornare e si va via in fretta.
E' anche un lavoro un po' faticoso.
Alcune persone abitano al dodicesimo piano, al quindicesimo.
Non c'è ascensore, non c'è luce, né vetri e ringhiere sui pianerottoli:
non c'è niente.
Loro lo fanno, su e giù, trascinando taniche di acqua.
Vecchi, malati, zoppicanti.
In questi piani più alti ci si attarda un po' di più, per approfittare
della vista.
E' strano come guardare le persone dall'alto in basso, nel loro
impicciolito daffare, riporta la superbia alla distanza e accresce
solidarietà e compassione.
Si vede, in basso, una donna che tira su piano da un pozzo di fontana
dell'acqua, e la versa in un bidone, asciugandosi la fronte col dorso
della mano.
Si vede un uomo che lavora già per ricoprire con un telo rosso lo
squarcio fatto sul suo tetto da una granata del giorno prima.
Si vedono le persone piegate sugli orticelli di guerra.
Si vedono un ragazzo e una ragazza, in un cortile, che giocano a ping-
pong, e tornano dentro quando arrivano di nuovo le granate.
Tra le persone che non ho trovato più, uno ce n'è che voglio ricordare,
perché era un famoso e bravissimo pittore, e un grandissimo uomo.
Si chiamava Ibrahim Ljubovic.
Aveva perduto il suo studio a Grbavica, e tutti i quadri di una vita.
Aveva saputo poi che alcuni dei suoi quadri più amati giravano a
Belgrado.
Abitava ora nel centro, sulla via Titova, dipingeva, daccapo, e stava
male.
Era un uomo bello e trasparente, come le candele alla cui luce continuava
i suoi disegni meticolosi.
Da poco il governo svedese lo aveva premiato, e l'aveva invitato ad
andare a curarsi lì.
Sua moglie si affannava a fare tutte le pratiche.
Lui mi aveva detto: Io non voglio vivere in Svezia, voglio morire a
Sarajevo.
C'è riuscito.
SEGNALI DI FUMO DAL TUNNEL (L'Unità, 23 luglio 1995)
Poiché non si erano fatti illusioni, i sarajevesi non sono stati molto
delusi dal vertice londinese sulla Bosnia.
Per la verità dato che non c'è corrente elettrica, e le batterie della
radio sono scariche, la maggior parte dei sarajevesi non ha neanche
saputo della riunione di Londra, e si è occupata d'altro.
C'è una comunicazione orale che, nonostante il recinto dell'assedio,
sostituisce l'altra e porta notizie fresche di tunnel - come le uova, che
per garantirne la freschezza qualcuno è tornato a vendere col cartellino:
Uova di tunnel.
Notizie rotolate giù da Srebrenica, che parlano di migliaia di persone
caricate sui camion e disfatte in fosse chimiche in una vecchia fabbrica
di alluminio a Milice, vicino a Zvornik.
Notizie su Zepa pericolante, e sulla nuova colonna di profughi che anche
da lì arriverebbe a Zenica e, passando per il fuoco, a Sarajevo.
Si commenta la frase del presidente Izetbegovic, che aveva parlato della
necessità di evacuare Zepa dai civili, e all'obiezione di un
intervistatore - ma così non finiamo noi stessi per collaborare alla
pulizia etnica? aveva risposto: Meglio vivi a Sarajevo che morti a Zepa.
Una frase che deve essere costata al presidente, uno che sente su sé la
responsabilità della sopravvivenza di una repubblica, e che in altri
momenti si è rassegnato a pensare che le dovesse essere sacrificata
l'esistenza di una generazione.
In verità, quale alternativa è stata concessa ai bosniaci? Neanche quella
fra arrendersi o morire: morire, piuttosto che disperdersi in una
diaspora senza una terra promessa.
Non è incredibile che in questa condizione qualcuno si aspetti o auspichi
l'emergere di una opposizione in Bosnia? Una opposizione che proponga che
cosa, se arrendersi o morire è l'unica offerta dei nemici e del cinismo
universale? Si riparla, come da mesi, del riconoscimento dei confini
della Bosnia da parte di Milosevic: allora? Milosevic trarrebbe una
ulteriore taglia dalla così comprensiva comunità internazionale, nel
momento in cui intensifica, come tutto il mondo sa, l'invio di armi e
armati agli aggressori serbo-bosniaci.
E la Bosnia-Erzegovina, che cosa ha da guadagnarne? Una quantità di
diversivi e di falsi obiettivi viene evocata, per girare alla larga dal
dilemma reale.
Che è uno solo: una radicale inversione dei rapporti di forza militare, o
la cancellazione sanguinosa della Bosnia.
La grancassa battuta un mese fa dalla stampa internazionale sulla
controffensiva musulmana eludeva una verità ovvia per chiunque volesse
vederla: che non esiste né esisterà la possibilità per i bosniaci di
avere ragione dell'aggressione serba, negli attuali rapporti di forza
militare e politica.
Io penso che, a questo punto, la stessa revoca del vergognoso embargo
sulle armi non cambierebbe questa verità.
Troppo lunga e troppo grave è stata la complicità e l'inerzia dell'Europa
e degli Stati Uniti di fronte alla legge del più forte e violento.
D'altro canto, il sostegno che al delirio della Grande Serbia è
assicurato dalla Russia vale cento volte più dei programmi di solidarietà
islamica alla Bosnia, tradotti in pochissimi fatti.
La Bosnia è davvero sola.
Che Srebrenica sia stata presa col gesso, per dirla con Machiavelli, cioè
con quattro carri armati, per dirla con gli imbelli protettori dell'Onu
che ne portavano la responsabilità, non è un segno univoco della
situazione militare.
Solennemente garantita dall'Onu, priva di un retroterra, la difesa di
Srebrenica non era questione dell'esercito bosniaco. (Non avrebbe dovuto
esserlo, in teoria, neanche quella di Zepa).
Secondo qualcuno, la forzatura ulteriore dell'invasione delle aree
protette da parte dei cetnici mirava anche ad attirarvi una parte delle
truppe bosniache, alleggerendone la pressione sul tentato controassedio
di Sarajevo.
Di quest'ultimo si sa che ha ottenuto qualche successo di rilievo lungo
la linea che dovrebbe chiudersi a sud-est e soprattutto sull'enclave di
Treskavica, mentre si è arrestato a sud-ovest, e negli immediati dintorni
della città.
Qui la quantità di fortificazioni e di mine rende impossibili avanzate
ingenti, e viceversa costringe a spostamenti combattuti metro per metro,
con un costo tremendo di vite.
L'andamento delle cose fa pensare che il governo bosniaco abbia rifiutato
di scambiare la propria enorme inferiorità di mezzi pesanti con la
propria superiorità numerica, mandando allo sbaraglio la fanteria.
Speriamo che sia così.
D'altra parte si infittiscono le voci su una ripresa imminente della
guerra guerreggiata attorno a Sarajevo.
Per ora, ogni giorno divampano improvvise e clamorose battaglie di pochi
minuti, altrettanto improvvisamente spente: scaramucce, imprese di
ubriachi, magari.
In questi giorni, la proporzione delle bombe impiegate fra le linee è
assai inferiore al bombardamento sulla città, e il calibro medio si è
alzato spaventosamente.
Ieri è piovuta una decina di V.B.R. di 205 millimetri, di fabbricazione
jugoslava, incomparabilmente più micidiali delle granate di mortaio.
La vita cittadina è annichilita.
Dei morti e feriti perché parlare? Aspettiamo il giorno in cui non ce ne
saranno, per dare la notizia.
E' importante ricordare che il tempo lavora per gli aggressori.
Essi hanno un armamento colossale (la Serbia, mentre si piange vittima
dell'embargo, ha continuato addirittura ad esportare armi ad altri paesi
in tutto questo tempo).
Possono decidere, impuniti, le proprie mosse: prendere Srebrenica, e,
presto, Gorazde, aspettare che sia sbollita l'emozione internazionale e
svaporate le parole grosse dei convitati di Londra.
Possono martellare e fucilare Sarajevo con la cieca regolarità delle
estrazioni del lotto.
Belgrado è al sicuro e perfino il teatrino di Pale lo è.
All'opposto, la gente della Bosnia non ce la fa più.
Pensare a un altro inverno nelle condizioni attuali di Sarajevo fa
impazzire.
Voglio dirvi, perché ormai non è più un segreto per nessuno, che il
leggendario tunnel, il cunicolo disperato che lega Sarajevo al mondo,
l'intestino infernale da cui entrano i portatori di cibo per la città ed
escono i fuggiaschi, quotidianamente bombardato, corre il pericolo di
essere inondato e distrutto da un controtunnel scavato dai cetnici, anzi
fatto scavare dai prigionieri.
Quanto al resto del mondo, il mondo del tunnel sotto la Manica, dei carri
armati bianchi e dei caschi blu, non si è preso la briga, in tre anni e
mezzo, di costruire neanche una normale galleria per una capitale mutata
in lager.
Mentre un popolo di topi fa la fila davanti a un cunicolo scavato a mano,
la diplomazia svedese strappa a Milosevic chissà, forse - il
riconoscimento dei confini della Bosnia: quanto alla proprietà terriera,
ci penseranno i suoi cannoni.
L'OCCHIO DI GUERNICA E MY LAI (L'Unità, 24 luglio 1995)
Se potete, guardate una cartina della Bosnia.
Avevo accennato, ieri, all'infittirsi di voci su una ripresa imminente
della battaglia attorno a Sarajevo.
In realtà ero in ritardo di alcune ore.
Sebbene nessuna informazione ufficiale sia finora venuta, ho saputo che
un vasto e accanito combattimento si è riacceso su più fronti fin dalla
sera di venerdì, alla conclusione dell'incontro di Londra.
L'iniziativa è stata probabilmente bosniaca; e la virulenza dei
bombardamenti cetnici su Sarajevo, specialmente nella notte fra sabato e
domenica, e gli attacchi contro le basi francesi e danesi dell'Unprofor e
il convoglio scortato dai francesi, appaiono come un rincaro della
ritorsione serbo-bosniaca.
Nel conto di ogni iniziativa della resistenza bosniaca sta la scalata
della distruzione terrorista di Sarajevo.
Lo sanno i sarajevesi bombardati: e sanno anche che non c'è alternativa.
Secondo le notizie che ho raccolto, le forze bosniache hanno completato
la conquista di Trnovo, una ventina di chilometri esattamente a sud di
Sarajevo.
Trnovo è strategicamente importante, perché dà accesso da sud a Lukavica
e alle postazioni di Gavrice Brdo, da cui si bombarda l'Igman, e perché è
situato sulla strada principale che da Foca (una cittadina di 35 mila
abitanti, al 70% musulmani, teatro nell'aprile del '92 di una orrenda
pulizia etnica serba) porta a Gorazde.
A sud-ovest di Trnovo c'è la montagna di Treskavica, sulla quale i
soldati bosniaci hanno riportato nel giugno scorso, dopo più di sei mesi
di battaglie, la più importante e costosa vittoria.
A est e a nord di Trnovo ci sono le alture di Jahorina e, subito a
ridosso della capitale, del Trebevic.
Un altro scontro cruciale divampa sulle pendici del monte Igman, dove i
bosniaci mirano a tagliare la strada secondaria che mette in
comunicazione la grande caserma serba di Lukavica, un sobborgo di
Sarajevo, con la sedicente capitale di Pale.
Ancora, si combatte per il controllo di Vogosca, a 6-7 chilometri dal
centro di Sarajevo, a nord-ovest: centro decisivo per la produzione di
granate e altri armamenti, e per i depositi militari.
Subito oltre, i bosniaci mirano a tagliare fuori e chiudere in una sacca
il quartiere di Ilidza, piazzaforte dei serbi che da lì controllano
l'aeroporto e, dalla exscuola forestale austriaca, bombardano
ininterrottamente la strada sterrata del monte Igman e l'entrata del
tunnel: cioè l'unico, avventato e penoso accesso a Sarajevo.
Un'altra battaglia si combatte a nord, oltre Doboj, sulla strada
principale che portava da Sarajevo a Zagabria.
Da Sarajevo a Doboj, passando per Zenica, ci sono circa 150 chilometri
sotto controllo bosniaco.
Da Doboj a Bozanski Brod, passando per Derventa, c'è una settantina di
chilometri in mano cetnica: la liberazione di questa strada
ricongiungerebbe Sarajevo con Slavonski Brod, cioè con la Croazia.
Dunque un quadro in forte movimento, oltre ai luoghi ufficialmente citati
in cui la guerra guerreggiata è più aspra, soprattutto Bihac, dove
l'intenzione di un intervento massiccio croato verrà messa al più presto
alla prova.
Queste le notizie, che non posso né verificare né valutare con esattezza,
profano come sono di affari militari.
E' un fatto del resto che la ostinata renitenza di noi spettatori esteri
a chinarci anche solo per qualche minuto su una carta geografica
jugoslava è stata un ulteriore sintomo dell'indurimento delle nostre
arterie e dei nostri cuori.
Di quella generazione, soprattutto, che si era fatta le ossa tanto tempo
fa ispezionando nelle sue stanze di scolara mappe della sierra cubana,
cartine del fiume Ussuri, carte del Delta del Mekong, e imparando a
memoria i nomi di città e villaggi martoriati.
Se oggi, dopo quattro anni di orrore, non sappiamo ancora dov'è Vukovar,
e dove Tuzla, e Mostar est, non è per aver chiuso l'occhio della
geografia, bensì quello della pietà e della ribellione, l'occhio di
Guernica e di My Lai.
La posta delle battaglie in corso è molto minore della liberazione di
Sarajevo: è appena il tentativo di allargare le maglie dell'assedio che
soffoca la capitale.
Per fare questo, i bosniaci devono mettere la stradaccia dell'Igman al
riparo del cannoneggiamento e della mitraglia cetnica.
Un'ambizione maggiore, come quella di aprire e proteggere la strada di
fondovalle che fa da uscita naturale da Sarajevo verso l'occidente,
l'Erzegovina e il mare - compito che spettava da sempre all'Unprofor - è
oggi fuori portata, data l'ampiezza del territorio tenuto dai cetnici ai
due lati della strada.
Ma il rischio dell'impresa, anche solo di una assicurazione meno precaria
dell'Igman, è mortale: la distruzione spietata di Sarajevo, una strage
inaudita dei suoi cittadini.
Su questo filo di lama si svolge una partita che, lo diciamo ancora, non
ha alternative.
Il calcolo tragico che le forze bosniache possono fare è uno solo:
arrivare a esercitare a loro volta una pressione militare su centri
importanti occupati dai cetnici, così da bilanciare la violenza
terroristica su Sarajevo con una minaccia, se non equivalente, almeno
temibile.
A meno che dalle mani dei governanti del mondo ricco e potente (e ottuso
e spaventato) non vengano azioni forti come le parole pronunciate da un
vecchio papa.
Ieri, domenica, alla messa nella cattedrale non c'era il cardinale di
Sarajevo: era a Tesanj, in zona di guerra, e ha parlato ancora della
Bosnia, di tutti i popoli e di tutte le fedi e della vergogna del mondo.
Comunque sia, tutti devono sapere quello che ogni sarajevese sa: che la
devastazione della città e il massacro dei suoi abitanti è l'evenienza
meno improbabile del prossimo futuro.
A SARAJEVO MUSULMANI E EBREI SI CONFONDONO (L'Unità, 25 luglio 1995)
La sera di domenica, la radio di Sarajevo aveva fatto un'indigestione di
notizie.
Per scusarsene aveva annunciato che il giorno trascorso era stato zeppo
di eventi.
Gli ascoltatori erano rimasti a loro volta un po' travolti, fra
un'intervista a Hussein di Giordania che vuole venire a combattere per la
Bosnia, e un'altra al generale Corcione, così ampiamente riportata e così
severamente ammonitrice da farmi pensare a un errore di traduzione.
Ma un'emozione vera è passata sul viso degli ascoltatori quando la radio
ha detto della solidarietà israeliana, e di una sottoscrizione congiunta
per la Bosnia di israeliani e palestinesi.
Il fatto è che i sarajevesi soffrono soprattutto, nel loro inferno
materiale, la pena dell'abbandono.
Per tre anni e mezzo, come una scialuppa di naufraghi alla deriva, la
Bosnia ha avvistato navi luccicanti e ha agitato braccia e stracci al
loro incontro: ma è restata loro invisibile e sola.
Forse, se l'inclinazione religiosa è cresciuta nel cuore di Sarajevo - e
non nella sua piccola caricatura, la mobilitazione islamista - questa
sensazione di abbandono ne è la sostanza più intima.
Abbandonati da tutto il mondo - di più: traditi, tante volte i sarajevesi
di nome islamico non sono stati abbandonati dal loro Dio: piuttosto, si
sono persuasi che il mondo abbia misteriosamente abbandonato alla deriva,
come loro, anche il loro Dio.
A Sarajevo il paragone fra la propria condizione e quella degli ebrei è
diventata, in questi anni, un luogo comune.
Singolarità ulteriore, questa: un'isola di popolazione musulmana che si
dice affine agli ebrei nella persecuzione.
Così, la notizia degli israeliani e dei palestinesi era di quelle
destinate a scaldare i cuori.
Il giorno prima, il papa aveva pronunciato le più esplicite fra tutte le
sue parole.
Così, Sarajevo si è concessa per un momento di sentirsi meno sola: per un
momento, perché tante proclamazioni di amicizia rendono ancora più
inspiegabile ed esasperante l'abbandono materiale.
Questo avveniva in una notte limpida, senza elettricità, striata da voli
di lucciole e da stelle cadenti - è il loro tempo - sopraffatti subito,
di nuovo, come ogni notte, dalla pirotecnia dei traccianti e dei razzi e
delle bombe.
Lunedì mattina sono andato alla Sinagoga, all'ora in cui si prepara la
mensa e i bisognosi della Città Vecchia cominciano già a raggrupparsi.
La comunità ebraica di Sarajevo conta oggi 560 persone: ne annoverava
1200 quando tutto è cominciato, nella primavera del '92.
Ben più della metà sono andati via, se si tiene conto dei nuovi ebrei,
quelli che sotto il regime comunista evitavano di dichiararsi come membri
della comunità.
Andati via in una diaspora disordinata, negli Stati Uniti, in Canada, in
Australia, in Israele, altrove ancora, guidati soprattutto dai legami di
parentela.
Ma è la cifra dei rimasti che fa più impressione, poiché gli ebrei di
Sarajevo come tiene a sottolineare il presidente della comunità,
avrebbero potuto tutti andar via.
Hanno scelto di restare, perché sono ebrei e sarajevesi, membri di una
comunità e cittadini da cinque secoli.
Fino al febbraio 1994, la Benevolencija, l'associazione umanitaria
ebraica, ha organizzato convogli che hanno portato via da Sarajevo
vecchi, malati e altri esuli: solo in parte minore ebrei dato che in
tutto hanno potuto lasciare così Sarajevo circa 3000 persone.
L'ultimo convoglio partì nel febbraio del 1994.
Lo ricordo bene, una fila di corriere mal ridotte, le famiglie separate,
l'attesa nella strada in una mattinata tetra che sarebbe finita, di lì a
un paio d'ore, nel massacro nella piazza del mercato.
Fino ad allora non c'era altro modo di lasciare il carcere di Sarajevo.
Ora la comunità è fatta soprattutto di anziani e adulti.
C'è una trentina di giovani sotto i vent'anni, nella comunità funziona
anche una scuola, ma da due mesi è chiusa.
E' diventata troppo pericolosa, come ogni altra attività e movimento.
La Sinagoga, sul lungofiume, non è mai stata colpita, ma poco tempo fa
una granata è caduta sul tetto dell'edificio adiacente in cui si trova la
comunità: è successo, si noti il riguardo, di sabato.
La segretaria si chiama Dragica Levi, e mi illustra l'attività svolta da
un gruppo volontario di una sessantina di persone.
Il presidente si chiama Ivica Ceresnjes, spiega che la solidarietà
israeliana non ha aspettato ieri per manifestarsi: e aggiunge anche che
non è sempre stata la benvenuta per le autorità bosniache.
Cibo e medicinali inviati da Israele scomparsi in Croazia nel '92; un
ospedale da campo offerto e rifiutato.
In Israele, nel kibbutz di Deth Orem, vive da tempo un gruppo di 100
profughi bosniaci.
Unita nell'impegno umanitario, la comunità non ha né vuole avere una
unità politica: c'è chi sente più forte un impegno patriottico bosniaco,
e chi preferisce il compito di tenere in vita la comunità, e di
conservarne l'indipendenza e relazioni aperte.
Abbiamo duemila anni di esperienza, dice amaro il presidente, ma vogliamo
anche mostrare di non essere solo vittime o bersagli, che possiamo anche
star saldi e aiutare gli altri.
La Benevolencija ha sostegni non solo ebraici e gruppi di amici di
Benevolencija in molti paesi europei e in Canada.
Non in Italia, dove gli aiuti sono individuali.
Il presidente vuole citare il nome di un padovano, Gideon Czaczkez, che
per tutto questo tempo è venuto ogni due settimane a Spalato a portare
aiuti.
Gli chiedo se ha l'impressione che nelle comunità in Italia e altrove si
sia capito davvero che cosa succede qui.
Non sono solo gli ebrei, ma tutti gli stranieri a non avere ancora avuto
una sensazione adeguata di che cosa succede da noi, dice.
Gli ebrei, piuttosto, sono più in grado di capirlo, e devono essere più
pronti a sapere di che cosa c'è bisogno davvero.
QUANTI ALIBI SENTO IN GIRO (L'Unità, 28 luglio 1995)
Penso che nella discussione italiana ci siano ancora una quantità di
confusioni e di falsi problemi.
Eccone alcuni. 1) Quello che sarebbe necessario.
Sarebbe necessario, ribadiva in una discussione radiofonica uno studioso
di ex-Jugoslavia, che le Nazioni Unite mettessero in campo ottocentomila-
un milione di uomini, autorizzati a una capillare operazione di polizia,
che sequestrassero tutte le armi - fino ai coltelli di cucina -
ricorrendo, se costretti, alla forza.
Ora, poiché né io, né lo studioso suddetto, né alcun altro al mondo,
pensiamo che una cosa del genere possa avvenire, dopo aver dichiarato il
nostro comune dispiacere, sarebbe bene che tornassimo ad altro, e cioè a
ciò che può, forse, avvenire, anche per i nostri sforzi. 2) Gli
interventi militari, dice lo stesso studioso, e altri con lui, non fanno
che rinfocolare lo spirito vittimista e cospiratorio dei serbi, e la loro
ossessione grande-serba.
Trovo in questo una preoccupazione, caratteristica di molti, che hanno
frequentato e studiato la Jugoslavia prima degli ultimi anni, che non si
tenga conto di quella antica e profonda cultura, mista di esaltazione
guerresca e lugubre e di paura paranoica della congiura universale, che
dà alla ferocia serba una sua sincerità.
Ma questo è stato vero, a suo modo, anche per l'hitlerismo. (Vorrei qui,
fra parentesi, menzionare il "boom" attuale dei cosiddetti Protocolli di
Sion a Belgrado).
Il delirio serbista e la ferocia vigliacca con cui si esercita
impunemente non consentono ora terapie diverse dalla camicia di forza.
Quanto al rischio di incattivirli, vi prego, non c'è: non ne hanno
bisogno.
Sono pronti a tutto il male possibile.
Quello che hanno già fatto, immane, è solo un prodromo di quello che si
accingono a fare se nessuno li fermerà, con le cattive. 3) C'è in molti,
che hanno un rimpianto jugoslavista (ancora fra parentesi, l'unica terra
che non abbia rinnegato Tito è oggi la Bosnia) e una biografia di
sinistra, una riluttanza nonostante l'orrore del nazionalcomunismo di
Milosevic, ad abbandonare del tutto l'idea di una Serbia antifascista.
Pensano, chissà perché, che la richiesta di fermare l'aggressione serba
celi una inclinazione ad altri nazionalismi rivali, quello attuale
croato, o quello potenziale islamico-bosniaco.
Nella discussione costoro evocano polemicamente Tuzla contro altre città
bosniache, perché Tuzla ha un sindaco socialdemocratico, Bezlagic, e una
municipalità fieramente ostile agli integralismi etnici.
Ma per fortuna anche altrove, e in primo luogo a Sarajevo, l'etnicismo è
ben lontano dal prevalere.
E soprattutto costoro omettono di dire che Bezlagic chiede, anzi
scongiura l'Europa e l'Occidente e gli amici della Bosnia pacifica e
conviviale di "bombardare le postazioni, i depositi, le retrovie dei
comandi degli aggressori cetnici e serbi".
Questa omissione è imperdonabile, e serve solo a confondere il pubblico.
In Bosnia non si sta combattendo una guerra parallela fra opposizione e
governo, e le tendenze islamiste e intolleranti, che ci sono, sono
rafforzate solo dall'inerzia militare dell'Europa e delle Nazioni Unite.
Inoltre, fra gli studiosi della Jugoslavia, ci si aspetterebbe che
spiegassero che, dei nazionalismi che hanno abbrutito questa terra,
quello ustascia e quello cetnico soprattutto, un nazionalismo bosniaco-
musulmano è stato storicamente irrilevante.
Che la Bosnia ha avuto una parte decisiva nella resistenza antinazista.
Che il genocidio antimusulmano è stato una tentazione ricorrente dei
nazionalismi maggiori, ed è tentato per la terza volta in questo secolo.
Per riconoscere e divulgare queste verità non occorre avere alcuna
simpatia islamista, anzi.
Io personalmente non ne ho, e penso all'integralismo islamista come
all'ideologia più minacciosamente aggressiva di questa fine secolo.
Questa è semmai una ragione supplementare di simpatia e solidarietà con
la società sarajevese e bosniaca, che si vuole cancellare dalla terra e
condannare a un esilio di disperazione e di rancore. 4) Qualunque
intervento internazionale, si dice, deve essere legittimato da una chiara
scelta antinazionalista.
Sono perfettamente d'accordo.
A condizione che non sia una bella frase per eludere l'imperativo più
urgente ed essenziale: il soccorso alle vittime di un metodico mattatoio.
Non intendo la preziosa opera degli infermieri e degli impartitori di
benedizioni estreme ai bordi del campo.
Intendo la cessazione del massacro, il suo arginamento.
Subito, ora.
Tutti quelli che criticano, in nome di qualunque scelta - il realismo, o
gli ideali politici, o le idiosincrasie personali - la richiesta
impellente di un'azione internazionale anche e soprattutto armata, devono
dire che cosa a loro volta propongono per rispondere a chi sta morendo,
soffrendo, scappando, a chi sta perdendosi d'animo.
Se no, non hanno che da tacere.
Non si può non vedere come un efficace soccorso, un vero sforzo di
restaurazione del diritto e dell'umanità violata, è l'unico antidoto al
trionfo dei nazionalismi e dei razzismi.
Questo vale anche per quanti paventano la trasformazione dei perseguitati
di oggi in persecutori di domani.
Stare dalla parte del diritto e delle vittime è la condizione per chieder
loro, per pregarle - quanto a esigere, chi potrà più credersi autorizzato
a esigere qualcosa dopo tutto ciò? - di non cedere allo spirito della
vendetta.
Quanto a questo, e senza abbellire il quadro, voi conoscete molti popoli
che, dopo quattro anni di una simile persecuzione, traditi nella loro
fiducia e tenuti con le mani legate, non avrebbero fatto ricorso al
terrorismo internazionale? 5) Vorrei menzionare un altro luogo comune,
quello delle responsabilità storiche del nazismo tedesco e del fascismo
italiano, che impedirebbero ai due paesi di metter piede con la forza
internazionale nella ex-Jugoslavia.
Anch'esso è diventato un alibi per le coscienze pigre.
Le ragioni migliori della memoria storica dei nostri paesi spingono
all'impegno più pieno ed efficace.
E solo l'ipocrisia può far distinguere, a questo punto, fra prestare una
pista d'aviazione o calcare una strada sul monte Igman.
L'Italia è la vicina della Bosnia martoriata: e, evangelicamente, alla
lettera il suo prossimo.
La Germania è il paese più importante dell'Europa che non c'è, di quella
che potrebbe esserci.
Nella Jugoslavia titoista circolava una eccellente barzelletta su due
fraterni compagni di lotta partigiana, Mirko e Branko.
I due fanno una sortita temeraria a una postazione nazista, strisciando
nella notte.
Quando sono vicini al nemico, Mirko sta per essere sopraffatto da uno
sternuto.
Branko gli stringe la bocca con la mano sibilando: Zitto, che svegli i
tedeschi!.
Passa qualche decina d'anni, Mirko è un affermato professionista e va per
un convegno nella città di Branko, che non ha mai più visto, e che è
diventato un ricco albergatore turistico.
Mirko è così ansioso che arriva di mattina presto nell'albergo di Branko,
lo vede alla reception, e sta per gridargli: Branko!, quando l'altro gli
copre la bocca con la mano sussurrando: Zitto, che risvegli i tedeschi!.
Ecco.
Era lo stesso humour ex-jugoslavo ad aver risolto la questione.
Ora hanno svegliato tutti, anche i tedeschi. 6) Resto sorpreso che ogni
volta di nuovo si tiri fuori la questione dell'affrettato riconoscimento
di Slovenia, Croazia e poi BosniaErzegovina.
Il dubbio è forse infondato? Nient'affatto.
Ma sono passati anni, e la recriminazione polemica e la ricostruzione
storica non aiutano di un millimetro ad affrontare la realtà attuale, e a
volte sono un modo per non affrontarla.
Sul punto io ho un'opinione, ma sono davvero pronto a cambiarla con
un'altra che si dimostri più persuasiva.
La mia opinione è che l'Europa avrebbe dovuto affrontare non alla
rinfusa, e tantomeno con rivalità bottegaie, il riconoscimento delle
nuove nazioni, e richiedere le migliori condizioni di democrazia, di
libertà di opinione e di organizzazione, di tutela delle minoranze.
Ciò non toglie che l'indipendenza nazionale di quei nuovi Stati fosse
inevitabile.
Io penso anzi che anche la politica più lungimirante e comune non avrebbe
potuto prevenire la guerra: arginarla e limitarne orrori e durata, questo
sì.
Ripeto che non tengo moltissimo a questa opinione.
Posso cambiarla.
Ma non riesco ad ammettere che quando si discute del macello che avviene
sotto i nostri occhi, la scolastica ripetizione della lezioncina sulla
Germania e il Vaticano ingordi di riconoscere Slovenia e Croazia sia
presa sul serio.
Interessante, signori: ma non c'entra niente.
COMPLICI DEI SERBI, NOVE VOLTE MALEDETTI (L'Espresso, 28 luglio 1995)
Vorrei formulare un ultimatum anch'io.
Con quale autorità? Nessuna, purtroppo.
Ma gli ultimatum delle massime autorità del mondo si sono fatti deridere
da un manipolo di criminali.
Io non espongo allo scacco e al ludibrio altri che me.
Inoltre, il mio ultimatum è già scaduto.
Tre anni fa, un anno fa, ieri.
1.
Intimerei alle autorità che in Europa hanno sostenuto l'illiceità o
l'impossibilità dell'impiego di una forza internazionale a tutela delle
vite e del diritto nella Bosnia-Erzegovina di astenersi d'ora in poi da
ogni visita ai santuari degli stermini del secolo, alle città armene, ai
lager, ai gulag, alle foibe.
2 .
Chiederei a coloro che si sono messi in coda per imbarcarsi sulla nave di
Greenpeace - chi di noi non si arruolerebbe? Io, certo, di corsa - di
fare domanda per azioni altrettanto esemplari e spettacolari in un punto
qualunque della Bosnia.
In subordine, inviterei ciascuno di loro a chiedersi in coscienza se
ricorda il nome di Gabriele Moreno Locatelli.
Mai sentito, vero? Era un ragazzo cattolico e pacifista che, con altri
due, ebbe l'idea (malaugurata idea, si fosse potuto sventarla!) di
camminare a piedi, con uno straccio bianco in mano, sul ponte di Sarajevo
che separa gli assediati.
Compiuti i prevedibili pochi passi, i cetnici lo fucilarono.
Ripeto il nome: Gabriele Moreno Locatelli.
Le iscrizioni sono aperte.
I servizi segreti della ragion di Stato francese (non parliamo
dell'italiana) sono infatti pronti ad assassinare un innocente in
Polinesia.
Perfino i camerieri dell'ambasciata di Palazzo Farnese possono rivelarsi
un po' maneschi.
Ma in Bosnia essere trucidati all'ingrosso è il minimo garantito, ed è
spesso il male minore.
Dunque, prego: doppia tessera.
O, in cambio, un po' di imbarazzo.
3.
Intimerei agli scopritori tardivi della geopolitica, trasformata da
criterio di valutazione delle forze reali in valore normativo, da
intenzione realistica in cinismo compiaciuto, di mettere in epigrafe
sulla loro abbondante produzione scritta e orale la rivalutazione dello
spazio vitale nazionalsocialista e del realistico atteggiamento franco-
inglese di Monaco 1938.
Intimerei loro, in nome della stabilità dei Balcani, vitale per il sacro
egoismo di noi italiani, di smettere con le mezze frasi e le mezze
misure, e di esigere il bombardamento internazionale delle città
bosniache che ancora resistono all'assedio, e la traduzione rapida degli
scampati fuori dall'Europa.
Non c'è un'Israele per loro? Ci sarà un futuro da lavavetri, o da
mendicanti col cartello: Ero di Sarajevo.
4.
Chiederei a quanti hanno aspettato la grande scena estiva dei deportati
da Srebrenica e da Zepa girata e trasmessa dagli stessi deportatori, per
inclinare a un qualche uso internazionale della forza - ma, mi
raccomando, circoscritto! ma, mi raccomando, non troppo rumoroso! - di
non essere ora stupidi quanto sono stati finora ipocriti.
Qualunque impiego della forza, anche solo lo sgombero di un tratto di
strada verso Sarajevo, è costretto a prevedere - anzi, a ritenere più che
probabile - una ritorsione cetnica spropositata; del resto, l'hanno
detto.
L'hanno sempre detto: non si vergognano, loro, né mancano di parola.
E allora, di fronte alla strage dei civili deportati, o al bombardamento
a tappeto delle città, o allo sgozzamento in diretta dei soldatini
dell'Onu, che cosa dovrebbero
fare gli sgomberatori del tratto di strada (mi raccomando: un piccolo
tratto!)? O ancora, i cento o duecento o trecentomila militari dell'Onu
in servizio di interposizione pacifica, che i pacifisti riveduti in
extremis continuano ad auspicare (e di cui tutti sappiamo che non
arriveranno mai: ma all'ipocrisia non c'è fine), che cosa farebbero
quando, mezz'ora prima del loro arrivo, venissero fatti segno alla
cattura, alla gogna, alla violenza e alla brutalità dei cetnici?
Intimerei ai sostenitori di queste posizioni di estenderle al tema della
criminalità comune e organizzata: si dicano contrari, nel caso di una
vile aggressione stradale contro un inerme, non solo a intervenire in sua
difesa ma anche a telefonare al 113.
Si dicano contrari, nel caso di Capaci e di via D'Amelio, a ogni impiego
della forza.
Si dicano favorevoli al negoziato.
Al più alto livello, con Totò Riina.
5.
Esigerei dai ragazzi - anche coi ragazzi bisogna per una volta essere
esigenti - i quali, per amore della ribellione e della sinistra, si
trovano a seguire e perfino ad ammirare leader che proclamano con fatua
tranquillità la propria equidistanza fra il nazionalcomunismo serbo e la
legittima e martoriata Repubblica bosniaca, di studiare, viaggiare,
pensare molto, e infine scegliere con indipendenza intellettuale e morale
a che causa devolvere la propria voglia di ribellione.
6.
Chiederei ai cattedratici d'opinione e di morale che sono riusciti a
tenere per tre anni e tre mesi un mirabile silenzio sul genocidio
metodicamente perseguito della Bosnia, di restare ancora in silenzio.
Grazie.
7.
Pretenderei dalla generalità dei direttori di giornale - ci sono
eccezioni? Sì, pochissime - che licenzino la generalità dei loro inviati
in Bosnia, o almeno rinuncino ai loro servizi.
Infatti, qualunque fosse la testata per cui scrivevano, qualunque fosse
l'opinione politica d'origine, qualunque la differenza d'età, di stile e
di temperamento, nel corso del tempo la stragrande maggioranza di chi ha
visto le cose coi propri occhi e le ha raccontate con la propria voce ha
saputo e detto senza esitazione chi erano gli aggressori e chi gli
aggrediti, e quale atteggiamento internazionale fosse giusto e
necessario.
I direttori, e la generalità dei loro opinionisti, hanno taciuto, o detto
cose opposte, con tono tanto più solenne e autorevole quanto meno
competente e autorizzato.
Bella lezione, anche questa.
Intimerei di licenziare i loro corrispondenti troppo appassionati
soprattutto a quei numerosi direttori che, non fregandogliene niente di
Sarajevo, hanno proclamato per tre anni e passa nelle riunioni di
redazione: Di Sarajevo non gliene frega niente a nessuno.
8.
Esigerei da tutti coloro che si pronunciano con la gratuità più
demagogica e irresponsabile sulla Bosnia, ripetendo aneddoti del '44,
alludendo con aria grave al groviglio balcanico e alla ferocia atavica di
quelle esotiche tribù (come con la mafia fino a poco fa: che si ammazzino
fra loro, quanto a noi, quieto vivere), omettendo con cura di andare mai
a guardare una cartina geografica, così, per avere un'idea su dov'è
Tuzla, e quanto sia vicina Sarajevo, esigerei dunque da tutti costoro che
ammettano che le loro saccenti e ignobili esternazioni non sono affatto
gratuite, ma sono degli atti di guerra.
La cosiddetta guerra di Bosnia non può essere infatti combattuta, e tanto
meno vinta, dai bosniaci, smisuratamente più deboli di fronte alla
potenza militarista serba, e per giunta tenuti disarmati dalla comunità
internazionale, in cambio delle promesse di protezione di cui abbiamo
visto l'effetto.
La guerra di Bosnia si combatte, si perde o si vince qua, un po' come la
guerra del Vietnam fu davvero perduta dagli Stati Uniti negli Stati
Uniti.
Ammettere che Sarajevo è in Italia e in Francia, in Olanda, in Norvegia -
non è solo moralmente consigliabile: è praticamente decisivo.
9.
Non avrei niente da chiedere al papa, unica grande autorità ad aver
cercato e a volte trovato parole e accenti che si commisurassero con
l'orrore bosniaco e i suoi responsabili.
Il papa del resto si è rassegnato a vivere a Roma, e non a morire a
Sarajevo.
Dunque: a vivere per Roma, e a non morire per Sarajevo.
Ma quest'ultima cosa non si può chiedere a nessuno, e nemmeno a un papa.
Mi fermo qui.
Ogni megalomania deve arrestarsi prima del numero Dieci.
Ako Bogda, dicono a Sarajevo, se Dio lo concede.
In effetti, forse non resta altro.
L'INCENDIO CONTAGIOSO DEI BALCANI (L Unità, 1 agosto 1995)
Con l'avanzata croata che negli ultimi giorni ha praticamente tagliato
fuori la Krajina di Knin, e reso possibile un ricongiungimento con gli
assediati di Bihac, lo scenario della guerra è cambiato.
La prima domanda è se, nonostante l'espansione di fronti, uomini e mezzi
coinvolti, gli scontri resteranno circoscritti o se i fronti diversi si
salderanno in un unico e contagioso incendio, coinvolgendo ufficialmente,
e non solo di fatto, come già robustamente avviene, gli Stati croato e
serbo-montenegrino.
La prima ipotesi è la più conveniente per Tudjman e per lo stesso
Milosevic, ma non è detto che essi possano e sappiano controllare le
pressioni di un processo che può prendere loro la mano.
Comunque sia, la situazione è già esplosiva.
Attorno a Bihac sono impegnate una serie di forze regolari serbi in
quantità elevata, forse 25-30 mila uomini, serbi della Krajina, musulmani
di Abdic da una parte, dall'altra bosniaci musulmani e croati che si
aggirano sui 100 mila combattenti, evocando le battaglie campali di altri
tempi.
Ai confini con la Slavonia, forze croate e regolari serbe si ammassano.
Nella Bosnia orientale, le milizie di Karadzic sono mescolate ad almeno
6-7 mila regolari serbi.
Scontri sono in corso nell'intera cerchia di montagne a largo di
Sarajevo, e poi nella Bosnia centrale.
La conquista di Donji Vakuf e Jajce da parte dei croato-bosniaci, che
sembra imminente, stringe ulteriormente il cerchio di Knin, e apre la
strada verso Banja Luka.
Tutto questo movimento offre già un quadro assai più vicino a una guerra
regolare fra Stati ed eserciti, di per sé allarmante, e destinato
oltretutto a ingoiare e zittire nel tuono dei suoi cannoni il
bombardamento e la sparatoria sui civili.
Le istituzioni internazionali, che hanno camuffato la propria rinuncia a
un'azione di polizia come una lungimirante avversione alla guerra, si
troveranno sempre più di fronte a una vera guerra, arginabile con un
costo umano e materiale via via più alto.
A essere ottimisti a oltranza, e a divertirsi a scherzare col fuoco, si
può sperare che il surriscaldamento delle azioni militari ridimensioni la
protervia serbo-bosniaca e prepari una qualche forma di compromesso fra
Tudjman e Milosevic.
Del capo di Belgrado si può pensare che sia disposto a buttare a mare
Karadzic quando ritenga di poterlo fare rinsaldando il proprio potere, e
senza essere insidiato dai suoi rivali interni, che sono soprattutto
nella nomenklatura militare e nella gerarchia ortodossa.
Inoltre, è difficile pensare che la comune popolazione serba (e,
reciprocamente, quella croata) sia particolarmente incline a un fervore
di solidarietà bellicista al fianco degli scalmanati serbobosniaci.
E' anche vero però che le furbizie dei capi hanno il fiato corto, che
finora le ribalderie di Karadzic sono sempre riuscite a forzare la mano,
oltre che ad obbedirle, di Milosevic, e che i russi, i quali minacciano
di riarmare i serbi se cadesse l'embargo sulle armi ai bosniaci, hanno
già generosamente seminato di missili la Serbia e la sua dipendenza
serbo-bosniaca.
La situazione non è mai stata così grave.
D'altra parte, nessun negoziato è immaginabile senza una modificazione
dei rapporti di forza sul campo, e questa avrebbe potuto venire o per
volontà e iniziativa internazionale, o attraverso un'espansione guerresca
fra i contendenti locali.
Chi spera in un negoziato - così come si spera in una pioggia, guardando
in alto in un cielo senza promesse, al colmo di una siccità - teme anche
che il mandato di cattura internazionale contro Karadzic e Mladic ne
esasperi l'isolamento, togliendo loro ogni via di ritirata.
Ma la furia era già scatenata, e d'altra parte le autorità del mondo
civile hanno dato sufficiente prova di essere disposte a mettersi a un
tavolo, e a tavola, con qualunque caporione criminale.
Piuttosto, il mandato internazionale può far pensare che qualunque
negoziato resti del tutto improbabile senza una liquidazione dei capi
cetnici.
Tutto è molto complicato e terribile dunque, sul campo di battaglia come
sui divani della diplomazia.
Militarmente, il blitz croato non è sufficiente a chiarire la
prospettiva.
Costretto a rinnovarsi e riorganizzarsi, l'esercito croato sembra
diventato più efficiente, e capace di far perno sulla specializzazione e
sulla mobilità.
Sull'altro fronte, i serbi restano fedeli allo stile militare incentrato
su una gran massa di manovra umana, sostenuta da un'altrettanto massiccia
potenza di artiglieria.
Quanto ai bosniaci, come mi è stato detto spiritosamente, loro avrebbero
la stessa tattica, solo che non hanno l'artiglieria.
La sostituiscono con una variante turca: l'esercito massiccio e anonimo,
più l'arditismo individuale dei suoi eroi.
Se le Nazioni Unite continueranno, come è prevedibile, a stare a
guardare, la revoca americana dell'embargo (se e quando verrà) non
cambierà ancora le cose, se non si tradurrà in un effettivo impegno
americano per fornire praticamente le armi.
Senza di ciò, revoca dell'embargo e prosecuzione della presenza franco-
inglese potranno durare ancora.
Ma gli errori di calcolo e gli incidenti di strada, su una scacchiera
diventata così gremita, sono infinitamente possibili.
Fino a poco fa, la difesa effettiva delle aree protette (Srebrenica e
Bihac comprese) e l'apertura di Sarajevo erano stati gli obblighi minimi
delle Nazioni Unite, e insieme la condizione per una reimposizione di
negoziati.
Ora siamo molto oltre, Srebrenica è stata un campo memorabile di massacri
e deportazioni, Zepa è stata rasa al suolo, Gorazde e Sarajevo sono la
posta di ritorsioni devastanti, e nessuna città della Bosnia e della
stessa Dalmazia può sentirsi al riparo.
Ecco perché, dagli stessi bosniaci, gli episodi militari ultimi sono
guardati con un sentimento misto di speranza e di angoscia.
Un desiderio ormai sopraffà ogni altro pensiero: andare via di qua, il
più lontano possibile, mandare via almeno i più inermi, i bambini, le
donne.
Questa è la vera questione lacerante della democrazia e dei diritti umani
nella Bosnia: molto di più dell'avanzata pretesa del fondamentalismo, o
delle tentazioni alle prepotenze tecniche reciproche negli impieghi
pubblici e negli usi privati.
E' la questione cruciale della libertà e dell'umanità in una condizione
estrema: di questo parleremo la prossima volta.
LE TRE VERITA' DI SARAJEVO (L'Unità, 2 agosto 1995)
La verità esterna di Sarajevo è questa: uomini sparano sui bambini, ogni
giorno, da più di tre anni.
Oggi voglio parlare di tre verità essenziali interne a Sarajevo.
La prima è il dolore per la separazione delle famiglie.
In un numero grande di case è entrata la morte.
In un numero molto più grande è arrivata la separazione degli affetti
familiari, la sofferenza e l'offesa che Natalia Ginzburg sentiva come la
più terribile, parlando del destino di una sola bambina.
Uomini separati dalle donne, genitori separati dai figli, fratelli e
sorelle dai fratelli e dalle sorelle, nonne dai nipoti.
Nel colmo dell'orrore, come a Srebrenica, la divisione delle famiglie
avviene come nelle selezioni naziste: vecchi, donne e bambine da una
parte, uomini e ragazzi dall'altra, da uccidere o da deportare.
Da Sarajevo sono partiti mogli figli e fratelli, spesso ciascuno per un
paese diverso, per una città diversa.
Per anni, per mesi, non si vedono.
Si sentono con difficoltà, non c'è la posta se non grazie ai volontari,
al telefono stentano a parlare perché sono sopraffatti dai singhiozzi.
Il posto telefonico, che non ha cabine chiuse, esibisce questo tormento:
la domanda ansiosa sul costo degli scatti, il tentativo di tenere una
voce normale mentre si dice: Qui va tutto bene.
Una signora mi ha mostrato la lettera del suo figlio undicenne che vive a
Innsbruck, da più di due anni, e le racconta di essere stato il primo
della classe, anche in tedesco, ma gli dicono lo stesso: straniero, e
anzi: Bosniaco.
In una condizione simile, le dico per confortarla, può diventare un uomo
molto bravo.
Sì, dice lei, ma intanto ha undici anni, e non ha la spalla di sua madre
su cui piangere: non dice niente del bisogno che prova la sua spalla.
Una signora molto anziana - tanti vecchi sono rimasti soli nelle case
dopo avermi mostrato i vecchi album di fotografie di figli e nipoti
profughi in diversi paesi del mondo, mi ha detto: E' durato troppo, non
li vedo da più di due anni, e vorrei almeno avere delle fotografie nuove
per quando ho bisogno di piangere.
La seconda verità di Sarajevo dal di dentro è in gran parte il risvolto
della prima, poiché le case di famiglia sono il luogo degli affetti ma
anche delle insofferenze e delle violenze.
La seconda verità è che la gran maggioranza delle persone combatte una
seconda o una terza guerra privata.
Le violenze domestiche non cessano di fronte a quella colossale esterna.
Mogli continuano a essere picchiate o insultate dai mariti, e a sognare
una liberazione diventata cento volte più impossibile.
Malati, disabili, devono essere curati in una condizione eroica:
immaginate una persona in carrozzella che abiti a un piano alto in una
città senza corrente elettrica.
Tutte le abitudini rozze e i modi brutali del tempo di pace sono
potenziate smisuratamente nella città assediata: pregiudizi virilisti,
impazienza verso i deboli e i lenti, si deve fare economia delle premure
e delle attenzioni agli altri.
Genitori tengono a bada bambini reclusi.
Ci si sfoga.
La terza verità interna di Sarajevo è che i suoi cittadini non sono
liberi di muoversi, e non hanno mai desiderato tanto di fuggire, e almeno
di mettere in salvo i propri cari più inermi.
Penso che questo sia il problema cruciale per la democrazia della
repubblica bosniaca, sottoposta ad una prova così tremenda.
Naturalmente la libertà è negata ai cittadini di Sarajevo (e di altre
città bosniache) da un assedio brutale e sanguinoso, che ha fatto di una
capitale europea una grande galera.
E' negata anche dalle Nazioni Unite e dai grandi del mondo, che non hanno
saputo e voluto realizzare il proprio impegno di aprire l'accesso alla
città.
Materialmente la sortita da Sarajevo è l'affare di un cunicolo
sotterraneo e clandestino, proprio come un tunnel da evasi, e poi un
percorso tra le bombe e le fucilate.
Tutto questo spiega a quale punto feroce sia violentata dall'esterno la
libertà dei sarajevesi.
Ma essa è anche limitata dall'interno.
Agli uomini in età militare - cioè i ragazzi di 15 anni fino agli adulti
di 55 - è impossibile lasciare il paese, così come alle persone che
svolgono un'attività ritenuta necessaria socialmente: e questo è penoso,
ma comprensibile.
Ma difficoltà più o meno severe, spesso insuperabili, sono opposte anche
alle altre categorie di persone: a volte semplicemente il muro
dell'inerzia burocratica.
Le carte sono un sogno tormentoso dei sarajevesi.
Le autorità bosniache non mancano di ragioni serie, da quelle militari -
una città assediata non è in grado di resistere senza la mobilitazione
della sua anima civile - a quella più netta e forte: che se si
consentisse un esodo senza vincoli Sarajevo ne sarebbe svuotata, e il
proposito infame degli assedianti, la pulizia etnica, la piazza pulita,
sarebbe realizzato nella rassegnazione delle stesse vittime.
Queste ragioni, ripeto, sono forti.Ma non abbastanza, sono convinto, da
prevalere sull'altra ragione: che i diritti personali fondamentali non
possono essere negati né sospesi, nemmeno e vorrei direi tantomeno in una
condizione di emergenza la più strenua.
Sarajevo ha già perduto in questi anni un numero incalcolato, e comunque
altissimo, oltre ai morti, di suoi antichi cittadini, più di centomila, e
spesso il fiore della sua intelligenza, della sua gioventù, della sua
socievolezza.
In gran parte, l'esodo è stato rimpiazzato dal nuovo arrivo di profughi
dalle provincie della Bosnia, persone di origine più umile e meno urbana,
accolte con preoccupazione, come una minaccia alla fisionomia liberamente
cittadina, ma spesso diventate accaniti difensori della loro nuova
dimora, come coloni spediti alla frontiera.
Sarajevo è già un'altra città, cambiata dai nemici di fuori e dal viavai
di dentro.
La stretta nelle condizioni dell'assedio e nello sforzo di una risposta
militare ha ora irrigidito gli ostacoli alla libertà di movimento.
Ma questo avviene mentre i sarajevesi sono più estenuati, mentre temono
di più la distruzione della città, mentre paventano un inverno più
terribile dei tre terribili che l'hanno preceduto.
A camminare per le strade di Sarajevo oggi, non ci si sente chiedere
magari silenziosamente, discretamente - un soccorso qualunque, ci si
sente implorare un aiuto a fare uscire donne e bambini.
Questo è il fondo di tutto.
Padri e madri chiedono di portar via comunque i loro figli, pur di
allontanarli da questa minaccia.
Gli spettatori di "Schindler's List", i sottili commentatori delle
affinità e differenze con altri ghetti e altri assedi, sappiano che siamo
a questo punto.
Ci sono ancora molti che non vorrebbero a nessun costo lasciare Sarajevo:
ma pochissimi che non stiano pensando alla necessità di mandare in salvo
i loro figli.
Un vero, enorme pericolo incombe sulla città.
Le autorità hanno una scelta terribile da compiere.
Non ci si aspetta da loro né che organizzino l'evacuazione della propria
capitale, tuttora viva e piena di dignità; né che, all'opposto, vedano
anch'esse nei propri concittadini gli ostaggi di una intenzione sia pure
nobile e coraggiosa.
Ma che, nei limiti imposti da una condizione forsennata, riconoscano ai
propri cittadini la libertà di movimento, è anche una condizione per
ridurre la discriminazione fra ricchi e poveri, fra raccomandati e
abbandonati.
Considero questo punto come il più importante ben più di quel
fondamentalismo così rincorso dagli osservatori a un tanto al metro, più
di questioni come la corruzione indotta dall'economia di guerra, o le
piccole e medie epurazioni reciproche indotte dalla lottizzazione etnica.
Io credo che la difesa armata dei bosniaci sia sacrosanta e mi auguro che
sia forte.
Questo non mi rende meno solidale con un obiettore, un disertore, un
fuggiasco da quello come da qualunque altro esercito.
Ma chiunque deve concordare su ciò: che la popolazione civile deve poter
fuggire se non ne può più, se ha paura.
Quando sarà in salvo, comincerà per lei un altro dolore, un altro
calvario.
Ci sarà una Sarajevo nei loro cuori: forse altrettanto necessaria, quando
verrà il giorno della ricostruzione.
SOGNANDO ANANAS, A NOVE ANNI (L'Espresso, 4 agosto 1995)
Sono andato a portare alcune cose a una signora, cardiologa.
Un po' di soldi, batterie per la radio, sali minerali, un numero di una
rivista femminile italiana, cibi in scatola, un pacco di candele,
assorbenti igienici, un po' di Lego a pezzetti, qualche indumento.
Ci sono andato alle sei di mattina, appena finito il coprifuoco, perché
mi aveva detto che era l'ora meno pericolosa, e in altre ore sarebbero
state in cantina, o non avrebbero aperto la porta.
La mia amica ha una bambina che ha nove anni, è bellissima e magrissima,
non vuole mangiare: dice di aver voglia solo di ananas.
Ho portato anche alcune scatole di ananas, comprate per sette marchi
l'una al mercato coperto della Città Vecchia.
Il mercato all'aperto di Markale, quello della strage del febbraio del
'94, non lavora più.
La mia amica e la sua bambina abitano al 14 piano.
Si deve fare una corsa nel tratto di strada davanti all'ingresso, perché
là gli "snajper" sparano molto.
Poi si sale.
Naturalmente non c'è corrente, e bisogna salire e scendere a piedi.
Fino al 3 terzo piano arriva un po' della luce della strada, poi è buio
pesto.
Si tiene una mano sulla ringhiera, sperando che non ne manchi un pezzo.
Quando due persone si incontrano lungo le scale se ne accorgono dal
rumore dei passi e si avvisano.
Chi sale tiene la parte interna.
La poetessa Ferida Durakovic, che abita a un 12 piano, ha raccontato di
sua madre che aveva legato uno spago alla ringhiera per riconoscere il
suo piano.
Per una signora anziana fare per sbaglio un piano in più oltre il 12 è
duro.
Al mio 14 piano mi hanno aperto madre e figlia, così contente che anch'io
sono stato straordinariamente contento.
Di fronte alle loro finestre c'è un grande cimitero, un viadotto, e delle
palazzine a schiera.
Il posto è bombardato quasi tutti i giorni e tutte le notti.
Quando non scendono in cantina, di notte loro fanno una barricata con
divani, poltrone e altri mobili contro le stanze dei due lati esposti
della casa.
Di mattina, poiché sono molto ordinate, rimettono tutto a posto.
Hanno uno sgabuzzino, a sinistra dell'ingresso, che era un ripostiglio
delle scarpe.
Adesso la bambina dorme lì, un po' rannicchiata perché, pur essendo
magra, è già alta.
La madre dorme su un tappeto, sul pavimento davanti alla porta.
Quando non dormono e i bombardamenti sono più paurosi, madre e figlia
stanno accovacciate a fianco nello sgabuzzino.
La bambina è molto docile e aggraziata, solo ogni tanto ha un improvviso
gesto di insofferenza.
Le piace soprattutto leggere, e da un po' di tempo si è messa a imparare
a memoria poesie, che ripete a mezza voce quando resta al buio.
La madre va all'ospedale un giorno sì e un giorno no.
Nell'ultimo pezzo di strada deve aspettare il blindato dell'Unprofor che
si muove a passo d'uomo, con i pedoni che gli camminano chini accanto.
Per tutto il tempo lei è in pena per la bambina e per se stessa: infatti
la bambina resterebbe sola. Una sorella di lei veniva ogni tanto a fare
compagnia alla bambina.
Ma la famiglia di sua sorella abitava al 5 piano di un edificio in cui le
granate cetniche hanno distrutto un piano alla volta partendo dall'alto.
Nell'ultimo mese, quando è stato sventrato il 6 piano, la famiglia, pur
angosciata di lasciare la casa, ha deciso di trasferirsi dalla nonna,
all'altro capo della città.
Così ora la bambina resta sola, aspetta e forse dice poesie.
SCONTRO AI VERTICI DI SARAJEVO (L'Unità, 5 agosto 1995)
Il primo ministro di un paese, nel punto più critico di una guerra, che
si dimette, in aperta rottura col partito di maggioranza cui appartiene:
la notizia è di quelle sorprendenti.
La mia sorpresa, almeno, è stata forte.
Ha un'attenuante: nel modo improvviso e impulsivo in cui Silajdzic ha
preso la sua decisione.
L'uomo è noto per il suo nervosismo cui ha ceduto questa volta più
clamorosamente.
Ma la divisione interna all'S.D.A., il partito a base etnica musulmano, è
di lunga data, e oppone Silajdzic alla parte più rigida e neofita e
all'entourage di Izetbegovic.
L'occasione immediata della crisi è stata duplice, ed è dipesa da una
forzatura dell'ala più integralista dell'S.D.A.
Il punto chiave è un affare stretto di denaro e di potere: il controllo
delle donazioni estere alla Bosnia, diventate determinanti per le finanze
della repubblica.
Silajdzic vuole mettere questo flusso di denaro sotto il controllo del
governo, i suoi rivali vogliono assicurarlo al partito.
Il secondo punto è la questione della presidenza, che Izetbegovic e i
suoi, forzando la norma costituzionale sul carattere elettivo e
collegiale, vogliono assegnare in esclusiva a un membro del partito
musulmano.
Le posizioni più oltranziste sono state imposte all'interno del partito
alla vigilia della riunione del parlamento bosniaco, aperta giovedì a
Zenica.
Silajdzic ha protestato che il governo non era stato neanche interpellato
sui due temi cruciali, né messo al corrente dell'ordine del giorno.
Di qui la sua protesta fragorosa.
Nel parlamento, la reazione dei suoi oppositori è stata da principio
imbarazzata e grossolana.
La questione sarà discussa in un'altra sessione, ha dichiarato il
presidente dei deputati.
E il segretario ha liquidato la richiesta di rendere nota a tutti i
deputati la lettera di Silajdzic, secondo l'intenzione espressa del
premier, dicendo che simili servizi non erano affar suo.
Tuttavia il parlamento è molto più indocile delle sezioni di partito, e
venerdì un numero notevole di voci di tutti i gruppi si sono levate in
appoggio a Silajdzic.
Fuori dal parlamento poi, Silajdzic gode di una grande popolarità e
stima, anche nell'opposizione.
Fra molte persone comuni, un conflitto fra Izetbegovic e Silajdzic è
sentito con un vero dolore, essendosi tenacemente coltivata l'idea di un
legame da padre a figlio, fra il patriarca della Bosnia musulmana e il
giovane, brillante e pragmatico capo del governo.
Con la drastica differenza di contesto, viene in mente una minacciosa
similitudine con l'Iran di Khomeini e del suo figlio prediletto, il
realista Ghobzadeh, che finì giustiziato al cospetto impassibile del
vecchio ayatollah.
Silajdzic ha anche lui una genealogia islamica rigorosa, figlio di un
religioso, e per anni segretario del "reis" di allora: ciò che fece a
lungo sospettare in lui, insieme al suo carattere brusco, una
inclinazione integralista.
In realtà, fin dallo scoppio della tragedia bosniaca, quando si trovava
all'estero, Silajdzic è stato l'artefice della diplomazia bosniaca, il
più efficace assertore della causa bosniaca presso le istituzioni e
l'opinione pubblica internazionali.
E' stato ministro degli Esteri e primo ministro per volontà dello stesso
Izetbegovic.
La distanza fra i due è stata fisicamente visibile a Zenica nelle cinque
sedie vuote che li hanno separati.
Fra i punti di contrasto di cui si è parlato ci sarebbe stata anche
l'intenzione del premier di assegnare il ministero degli Esteri, dopo la
morte di Lubjiankic, un uomo abbastanza grigio, ammazzato su un
elicottero abbattuto dai cetnici, a un quarantenne esponente del partito
socialdemocratico - gli ex-comunisti, più o meno - un professore di
informatica ferito seriamente da una granata all'inizio della guerra.
Insomma, se all'origine delle dimissioni di Silajdzic c'è un'offensiva
dei suoi avversari nell'S.D.A., la partita è tutt'altro che giocata.
A quanto pare, lo stesso comandante del Quinto Corpo bosniaco, generale
Dudakovic, ha fortunosamente cercato un contatto telefonico con Silajdzic
la mattina di venerdì; oggetto ufficiale della conversazione è stata la
situazione di Bihac, di cui Dudakovic è responsabile, e alla quale
Silajdzic ha dedicato negli ultimi giorni il suo principale impegno
internazionale.
Una delle operazioni più importanti di venerdì è stata proprio la
convergenza fra esercito croato e Quinto Corpo nell'area di Bihac.
Ma il generale gli ha anche espresso il suo appoggio: si tratta
dell'appoggio più autorevole, e tutt'altro che isolato negli ambienti
militari.
Quanto a Izetbegovic, il suo discorso al parlamento giovedì è stato
giudicato da tutti sconcertantemente mediocre e affannato.
Il vecchio presidente, che non ha speso una parola sulle dimissioni
minacciate dal premier, ha sostenuto la sua tesi sul successore alla
presidenza con un racconto sulle centinaia di granate che hanno messo a
repentaglio la sua vita, al palazzo a Sarajevo, o sul monte Igman: ciò
che è vero, ma che è parso un modo meschino di giustificare la pretesa
del monopolio musulmano sulla carica, che esponenti autorevoli di tutti i
gruppi hanno definito anticostituzionale.
E' certo che una liquidazione di Silajdzic sarebbe vista con la più grave
preoccupazione da tutti i gruppi laici e ostili a un irrigidimento delle
basi etniciste dello Stato: soprattutto a Tuzla, dove l'S.D.A. è riuscito
a imporre un proprio esponente alla presidenza cantonale, ma la
municipalità resta attaccata al proprio carattere misto e antietnico.
Gli avvenimenti di queste ore, dalle notizie sulla guerra nei vari fronti
impegnati dai croati a quelle sulle divergenze interne in Bosnia, hanno
rinfocolato l'attenzione e la discussione della gente.
A Sarajevo, per una volta, gli assediati hanno affollato il posto
telefonico per chiamare Dubrovnik o Zadar, e sincerarsi che i parenti
fuorusciti stessero bene.
Un malcontento si esprime più diffusamente, su argomenti vecchi - i
profittatori, il nepotismo, il sospetto di calcoli oscuri in tragedie
come la caduta di Srebrenica, indifendibile, ma secondo molti troppo
indifesa, a danno dei profughi - le ingiustizie delle autorizzazioni
all'espatrio.
Tutto questo è salutare e minaccioso insieme, promette una discussione e
un'informazione più aperte e minaccia una demoralizzazione.
Alle cose che non piacciono la gente oppone la vita dannata dei soldati
sul Treskavica.
E non solo dei soldati.
Proprio da due soldati di rientro da quel monte leggendario di battaglie
e sofferenze ho ascoltato giovedì una notizia folgorante e
incommentabile: Adesso anche i cavalli si suicidano.
Quattro cavalli hanno spiegato poi testualmente stanchi di guerra si sono
buttati in un burrone sul Treskavica.
Loro giuravano di averli visti coi propri occhi.
CI SI PUO' FIDARE DI TUDJMAN E DEL SUO ESERCITO? (L'Unità, 6 agosto 1995)
Le cose cambiano, a suon di carri armati, e di messinscene politiche.
Il suono dei cannoni croati fa la musica, per ora: accolto, a Sarajevo,
con sentimenti diversi.
Il sentimento comune è la congratulazione.
Per la prima volta, i cetnici - compresa la parte militarmente più
fornita e agguerrita, la Krajina di Martic - si trovano di fronte un
esercito, e non delle città da bombardare e fucilare, e si dissolvono
miseramente.
Dunque, dicono i sarajevesi, non era così terribile, il lupo.
Non sarebbe stato così difficile per le Nazioni Unite o l'Europa fare da
tanto tempo quello che sta facendo dopo quattro anni a modo suo l'armata
croata.
Molti si compiacciono delle vittorie croate, si illudono che anticipino
un'azione comune anche in Bosnia, che alla fine la rottura dell'assedio -
la "deblokada", parola fatata dei sarajevesi che guardano le stelle
cadenti nelle notti di agosto - arrivi davvero.
In nome di questo desiderio sono anche disposti a dimenticare la guerra
croatomusulmana, la violenza di Mostar di ieri e l'arroganza di oggi, la
vocazione croata alla spartizione della Bosnia con Belgrado.
Per un momento, nell'esasperazione di Sarajevo, i croati diventano
fratelli.
Le persone più scettiche e ragionanti hanno sentimenti opposti.
Sanno che l'offensiva croata è l'effetto inevitabile dell'inerzia delle
Nazioni Unite, e dell'impunità concessa così a lungo e a oltranza alle
aggressioni serbe.
Vedono che i trionfi militari croati e il trionfalismo con cui sono
esaltati, rafforzano la leadership nazionalista nello Stato e nelle forze
armate croate.
Diffidano della tenuta di un'alleanza croato-musulmana all'indomani del
ripristino del controllo croato sul proprio territorio.
Temono che, con l'eccezione di Bihac, dove il beneficio ricevuto dagli
assediati è stato già enorme, la conseguenza delle vittorie croate sarà
l'afflusso nella Bosnia di una nuova massa di profughi serbi, duecento,
duecentocinquantamila, che muteranno ulteriormente la bilancia della
popolazione bosniaca a svantaggio dei musulmani; e anche l'afflusso delle
forze armate serbo-croate, che, dopo aver difeso poco o niente la
Krajina, potranno rivolgersi contro l'esercito bosniaco.Qualcuno
suggerisce che gli accordi di Spalato fra Tudjman e Izetbegovic
sottintendano una azione in due tempi, per cui parte degli armamenti
impiegati nei blitz croati passerebbero poi alle truppe bosniache.
A compensare la fragilità degli accordi fra croati e musulmani, si dice,
c'è la colla forte dei finanziamenti e delle forniture di petrolio
iraniane, di cui i bosniaci sarebbero diventati appaltatori verso la
Croazia.
Ma la domanda più insidiosa riguarda i rapporti fra Tudjman e Milosevic:
c'è fra i due una specie di accordo, o le cose possono sfuggire loro di
mano, e coinvolgerli direttamente in una guerra dalle dimensioni
spaventose? Il viavai di notizie sui movimenti alle frontiere della
Slavonia orientale tiene in sospeso la risposta.
Dall'altra parte, gli attacchi di Milosevic e dei suoi a Karadzic e
Martic (il capo dei serbi della Krajina, anche lui ricercato come
criminale di guerra) non sono mai stati così violenti e sprezzanti.
Karadzic è accusato di aver trascinato i suoi in un'avventura micidiale,
e di aver rifiutato di accontentarsi dei risultati raggiunti, e
ratificati dal Gruppo di contatto; di costringere la Serbia al malanno
delle sanzioni; di essere un piccolo megalomane.
Se non fosse il burattinaio primo di tutta questa tregenda a pronunciare
l'arringa, ci sarebbe da sottoscriverla.
Lo psichiatra cetnico ha risposto perfezionando il suo delirio
bonapartista: si è proclamato comandante in capo, e ha di fatto
destituito Mladic, nominandolo proprio consigliere militare.
Mladic, naturalmente, lo ha subito mandato a quel paese.
Che cosa possa fare un simile stratega, una volta che si senta braccato e
venduto: ecco una buona questione per le persone di Sarajevo.
Di vita o di morte.
A questo scenario così mosso, il regime bosniaco arriva zavorrato dalla
sua stessa crisi interna.
Silajdzic forse tiene ferme le dimissioni, forse viene mandato in qualche
località abbastanza di prestigio e abbastanza lontana: un'ambasciata alle
Nazioni Unite, o chissà che altro.
Può forse pensare a un proprio partito che metta insieme la costellazione
di gruppi minori che non hanno una base etnica.
Ma, benché Izetbegovic bilanci certi eccessi di paternalismo
con uno spirito paziente e moderato, la spinta etnicista è, nelle
condizioni create alla Bosnia, la più forte, e lo stesso protagonismo
croato è destinato a rafforzarla.
Una delle questioni più delicate è proprio la gestione della federazione
croato-musulmana.
La prevalenza di una mezzadria fra i due maggiori partiti etnici,
rispetto a un meccanismo di regole più istituzionali, crescerà
probabilmente ancora.
Tuttavia la gran maggioranza delle persone sa che non tornerà nessuna
pace senza che torni il vicinato e la mescolanza fra tutti quelli che
c'erano prima.
Di più: i bosniaci sanno che la fiammata improvvisa che ha fatto
divampare la ferocia nelle loro strade può spegnersi e altrettanto
improvvisamente, e gratuitamente, restaurare non l'amicizia, ma qualcosa
che la simula e superficialmente le si rassegna.
Certi sarajevesi amari pensano che potrà tornare di colpo un mondo, dei
cortili, dei caffè, in cui ci si inviti ai tavoli come se niente fosse
stato, e lo temono tanto quanto lo spirito della vendetta.
Questi sarajevesi hanno voglia di pace, di liberazione, di fine delle
bombe e dell'assedio e della mortificazione; e hanno anche voglia di una
più forte democrazia.
Non come di un lusso di domani, ma come una necessità di oggi.
La Sarajevo dai modi liberi cui pensano, e che rimpiangono, non può
essere rappresentata nella sua maggioranza da partiti etnici o
confessionali.
Che questa consapevolezza prevalga oggi, e riesca a ispirare la parte
migliore dei partiti di maggioranza etnici, sarebbe miracoloso.
Ma, ancora una volta, non è una responsabilità soprattutto bosniaca.
Prima finirà l'assedio di Sarajevo, più forte sarà lo spirito di
democrazia e di libertà cittadina.
Non si è voluto prendersi questo compito, e si è peccato così insieme di
omissione di soccorso e di un madornale errore politico.
Non si è voluto un intervento delle Nazioni Unite.
Non si è voluto che i bosniaci si armassero per difendersi.
Ora i carristi croati fanno piazza pulita, e quando smontano cantano inni
ustascia.
Qualcuno l'ha voluto, se non sbaglio.
Se l'offensiva croata scatenasse un conflitto più vasto, sanguinoso e
incontrollato, di chi sarebbe stata la responsabilità? Zagabria doveva
essere colpita di tanto in tanto a piacere, dai missili di Knin? E se
l'offensiva croata dovesse portare alla liberazione di Sarajevo, e
riportare il conflitto a una misura negoziale e politica, di chi sarebbe
stato il merito?
L'EUROPA LIBERI SUBITO SARAJEVO (L'Unità, 8 agosto 1995)
La mia domanda oggi è molto semplice.
Perché l'Europa non rompe l'assedio di Sarajevo, ora? L'attenzione
spostata sui fronti croati e su Bihac, e la riduzione del fuoco dei
cetnici sulla capitale non devono far dimenticare la sostanza.
La sostanza è che Sarajevo resta soffocata, che se ne esce venendo
sparati - con qualche tiro di punizione della Forza rapida che vi si
rientra curvandosi nel tunnel.
Ieri è stato il presidente Izetbegovic a tornare così nella sua città,
come ogni volta: il presidente legittimo di una repubblica membro
dell'Onu, un uomo anziano e dignitoso, che al tempo della Lega dei
comunisti andava in carcere per la sua fede religiosa, e oggi rientra
nella propria capitale scendendo fra le granate per una strada di
montagna, e poi immergendosi in un pozzo sotterraneo.
Un presidente di terza classe, una capitale e una repubblica di terza
classe.
Gente di terza classe.
C'è da meravigliarsi che, nel tentativo di spiegare questo sprezzante
declassamento, le persone di qui lo attribuiscano alla propria anagrafe
musulmana? Questa è la situazione che la commozione del mondo, i proclami
dei capi di Stato, e gli insediamenti delle forze rapide hanno saputo
garantire a Sarajevo.
Inoltre, la sostanza è che Sarajevo resta esposta a una violenza
devastante, dovesse anche essere la ritorsione impazzita e disperata dei
suoi assedianti.
In ogni caso, l'inerzia di oggi promette il disastro di domani.
Eppure lo scenario cambiato non può non riaprire subito la questione di
Sarajevo.
I serbo-bosniaci sono per la prima volta alle strette, per la sola
ragione che per la prima volta hanno dovuto fare i conti con un nemico
non inerme.
La sorte di Martic, il boss della Kraijna serba, è un segno di ciò che
aspetta inevitabilmente impostori come Karadzic, una volta che
l'autorizzazione a delinquere venga loro revocata.
Il presidente Scalfaro ebbe ragione quando evocò il destino che aspetta i
torturatori di popoli, e voglia il cielo che quel destino si compia qui
meno lentamente.
Ma sarà stato sempre troppo lentamente.
Di fronte a quel che avviene nella ex-Jugoslavia, gli Stati europei, una
volta di più, rinfocolano rivalità e gelosie, in ciò davvero riproducendo
la catastrofe dell'Europa attorno alla Sarajevo del 1914.
C'è un punto sul quale dovrebbe esserci un consenso pieno, immediato ed
efficiente: la riapertura di Sarajevo.
L'argomento, già spesso cinico e pretestuoso, del rischio troppo alto di
un intervento in soccorso della città agonizzante, è diventato ancora più
debole.
Uno scontro per Sarajevo non sarebbe né la scintilla di un incendio che
sta già divampando altrove, né una sfida ai mandanti serbi di Belgrado,
oggi a loro volta spinti alla liquidazione di Karadzic, e sia pure per la
mano non meno sanguinaria di Mladic.
A Sarajevo, l'Europa (e le Nazioni Unite, se ha ancora senso evocarle)
potrebbe ritrovare una sua dignità e una sua leale voce in capitolo, al
di là delle manovre o dei calcoli particolari.
C'è una questione sulla quale tutti dovremmo, subito, parlare con la
stessa voce: che Sarajevo torni città aperta, e davvero tutelata dalla
forza internazionale.
IN EX-JUGOSLAVIA LA PAURA MUOVE TUTTO (L'Unità, g agosto 1995)
Ai tavoli dei bar, sul lungomare di Split, fra le ragazze che allungano
pigramente le celebri gambe chiudendo gli occhi al sole, irrompe una
banda allarmante di giovani uomini in assetto militare.
Bombe a mano che pendono dalle bretelle, cartucciere, trofei di treccine
colorate, bende attorno alla testa, uniformi mimetiche, inzaccherate e
impolverate come le facce.
Ma le facce sono allegre, e le voci appena troppo alte, come quelle di
una scolaresca che stia celebrando la fine del corso con una bevuta
cameratesca.
Dagli zaini ammucchiati esce una quantità di targhe automobilistiche
bianche con la sigla: Knn, e loro le espongono quando una famigliola da
un altro tavolo viene a festeggiarli e fotografarli.
Mi siedo in mezzo a loro, e mi faccio raccontare la storia da uno con
occhialetti alla John Lennon e un'aria timida, che si chiama Nenad, detto
Reinick, ha 31 anni, e nell'altra vita è chimico tessile.
Siamo della Brigata Split, il numero è cambiato molte volte, ora si
chiama Quarta.
Saremo 1500 in tutto, alcuni professionali, la stragrande maggioranza
mobilitati.
Quando siamo partiti non sapevamo per dove, avevamo solo capito che
questa volta, dopo quattro anni, si trattava di farla finita con la
guerra.
O lasciarci la pelle, o ritornare alla pace.
Questa sensazione ha reso tutti combattivi, ma anche molto spaventati.
La paura è la spiegazione di tutto nella ex-Jugoslavia.
Qualcuno attacca per la paura, qualcun altro scappa per la paura.
Noi siamo andati ad attaccare la linea serba vicino a Drnis, a una
ventina di chilometri da Knin.
Eravamo solo noi della fanteria, fuori dalle strade, abbiamo camminato
per un giorno sulle rocce.
Ci siamo attestati di sera, la mattina saremmo andati all'attacco.
Non avevamo idea di chi sarebbe stato più forte, non abbiamo dormito,
scherzavamo e avevamo paura.
Ci conosciamo bene, molti di noi hanno combattuto insieme più volte in
questi anni, siamo tutti di Split.
All'alba ci siamo buttati all'assalto, e niente: il fronte non c'era più,
loro avevano avuto più paura ed erano scappati.
Non si può dire che uno sia più vigliacco o più coraggioso.
Per esempio, in posti come quello, senza unità e mezzi mobili, quando si
spezza la linea in un punto cede tutto il fronte.
Siamo andati avanti ripulendo, senza trovare resistenza, il problema
maggiore sono le mine; tra noi saranno morti due o tre, ma per incidente.
Nel primo paese che abbiamo occupato erano rimaste sì e no una settantina
di persone.
Lì ho corso il pericolo più grave, perché in una casa vuota a un tratto è
spuntata una donna vecchia, ed ero così teso che è mancato pochissimo che
le sparassi.
Mio nonno era un militare, mio padre è stato un alto ufficiale - non un
partigiano, un militare di carriera, nella nostra marina - e io non ho
mai avuto nessuna voglia di vita militare.
La mia famiglia era composta di croati, serbi, ungheresi.
Quando è cominciata qui, e sono andato ad arruolarmi come volontario, mio
padre è stato sbalordito; e mia madre, anche se sarebbe bastata una sua
parola per farmi rinunciare, quella parola non l'ha detta.
Avevo sempre quel problema: partecipare alla difesa, ma senza uccidere
nessuno.
Quando avevo fatto il soldato, nell'esercito federale, avevo trovato
amici che non potevo rinnegare.
Il mio migliore amico era del Montenegro, non lo vedo dal 1984, potevo
trovarmelo di fronte: nessuno dei due avrebbe sparato all'altro.
Così è questa guerra.
Ora ho un bambino di un anno e mezzo, stasera potrò tenerlo in braccio e
poi andare a dormire senza troppi pensieri, perché non ho ammazzato
nessuno.
E' stata una pura fortuna, però, perché quando ero lì ho sparato interi
caricatori.
E' una questione difficile.
Entravamo nelle case, trovavamo una quantità pazzesca di armi di ogni
genere, "full equipment" della vecchia Jna, bombe a mano, mitra, anche
mortai.
Nelle stesse case trovavamo i segni della vita normale della gente, le
fotografie, due bicchieri di plastica colorata da bambini, ho visto un
orsacchiotto posato sullo schienale di un divano esattamente come ce n'è
uno a casa mia.
Io non vorrei mai che la mia casa, i miei oggetti, le mie memorie,
fossero violate e perdute: e non posso volerlo per gli altri.
Questa è la cosa più dolorosa.
Poi ho finito anch'io col prendermi una targa di auto, come hanno fatto
tutti: forse perché è il trofeo più innocuo e più eloquente, una specie
di certificato.
Gli chiedo che cos'è la benda da pirati che hanno annodato sulla testa.
E' quella del pronto soccorso, dice.
Serve per il sudore, e a me per coprire la calvizie che comincia.
E poi a darci un'aria da conquistatori: fashion.
Un suo amico, dall'aspetto meno figlio dei fiori, ha scritto con un
pennarello sulla benda: Silvja.
Ha una cordialità invadente, mi offre da bere, fa il segno della vittoria
col pollice levato, vorrebbe addirittura regalarmi una graziosa bomba a
mano serba.
Mi schermisco, accetto delle banconote della Repubblica serba di Kraijna:
sono datate Knin 1992, e dicono che i falsificatori sono puniti dalla
legge.
Devono aver avuto davvero una fretta dannata, i fuggiaschi, per lasciarsi
dietro anche i soldi.
O forse sapevano che ormai era carta straccia? Spero che la spiegazione
non sia altra.
I soldati distribuiscono le banconote in giro fra i tavoli.
Intanto è arrivato un vero fotografo, e si mettono in posa.
Il mite Nenad e quello di Silvja mi sommergono in un abbraccio mimetico,
e io sorrido imbarazzato fra quei brigatisti della Split nel momento
della smobilitazione.
C'è il mare, il gelato, le ragazze dalle gambe leggendariamente lunghe:
Sarajevo è già lontanissima.
I DISEGNI DI TUDJMAN (L'Unità, 10 agosto 1995)
Non so se Tudjman alzi il gomito, e se lo faccia magari nelle trasferte
straniere, e se questo spieghi l'affare della cartina.
Tudjman avrebbe usato un biglietto d'invito a una festicciola in
Inghilterra per illustrare a un interlocutore locale il paesaggio di una
Jugoslavia spartita fra la sua Croazia e la Serbia di Milosevic, dal
quale paesaggio sarebbe cancellato il piccolo incidente dell'esistenza
della Bosnia.
Nello schizzo infantilmente ingordo di
Tudjman, la Croazia si mangerebbe Banja Luka mentre Tuzla, espressamente
citata - Tuzla, cioè il cuore pulsante della Bosnia andrebbe alla Serbia.
Qualche quotidiano croato ha pubblicato mercoledì il disegno, per
sostenerne l'inautenticità.
In attesa della perizia grafica, dobbiamo registrarne alcuni effetti
benefici.
Martedì Tudjman ha ricevuto in gran pompa la leadership bosniaca a
Zagabria, e i giornali hanno messo in prima pagina la foto di Izetbegovic
decorato dal capo croato.
Mercoledì, mentre si diffondeva la notizia-bomba di un vertice a Mosca
tra Tudjman e Milosevic, patrocinato da Eltsin, e si immaginavano già
altri gomiti alzati e torte in forma di Bosnia fatte a fettine e
divorate, Tudjman ha fatto sapere che non sarebbe andato se l'invito non
fosse stato esteso al suo alleato Izetbegovic.
Le prossime puntate di questo vorticoso giro di ballo aperto
dall'offensiva croata degli scorsi giorni sono affare di ore, e forse
segneranno davvero una svolta nella tragedia jugoslava.
Intanto, un'istantanea della situazione permette queste osservazioni.
1.
Bihac, per cominciare.
Dopo 1201 giorni, la città, i suoi quasi 200 mila abitanti, hanno visto
interrompersi la morsa dell'assedio.
Meno nota e amata di Sarajevo o di Mostar, e offuscata nel sentimento
comune dalla torbida storia dei musulmani secessionisti al seguito di
Fikret Abdic, Bihac ha vissuto un calvario terribile.
La rottura dell'assedio è la conseguenza più forte e finora l'unica
davvero grande per i bosniaci, dell'offensiva croata.
D'altra parte l'afflusso di ingenti forze di artiglieria dalla Serbia,
mentre fa apparire per adesso pure fanfaronate i proclami di Martic sulla
riconquista della Krajina, minaccia invece la possibilità che la
popolazione di Bihac ridiventi il bersaglio di un cannoneggiamento
sistematico e vendicativo.
2.
Milosevic, il presidente serbo, ha fronteggiato finora un'opposizione di
piazza irrilevante, e caricaturale: gli ultranazionalisti se la sono
presa con lui definendolo ustascia, e ciò dimostra che gli scherzi della
cronaca non hanno limiti.
Contemporaneamente, il Sinodo ortodosso e il patriarca Pavle lo hanno
insultato chiamandolo traditore e, per simmetria con l'epiteto di
ustascia, neocomunista.
La gerarchia ortodossa, di cui era noto l'oltranzismo fanatico, è già un
intralcio più serio degli squadristi di Seselj.
Se i dirigenti croati spingessero ora alla frontiera della Slavonia e
della Barania, dove il rumore di ferraglia dai due lati è già altissimo,
Milosevic non potrebbe continuare a fare l'indiano.
Ammesso anche che sia disposto a cedere Vukovar, la principale città
simbolo per i croati, o meglio le sue rovine, per tenersi il petrolio e
le altre ricchezze del circondario, non potrebbe certo farlo ora, a
ridosso delle passeggiate trionfali dell'esercito di Zagabria.
Ancora, la frontiera calata sulla massa dei profughi serbi dalla Krajina
non è fatta per aiutare l'immagine del duce di Belgrado.
Sul fronte cetnico, il suo proposito di liquidare Karadzic e di puntare
su Mladic è andato molto avanti.
Non so se si sia notato che la nomina di un avvocato difensore da parte
di Mladic per il Tribunale sui crimini di guerra dell'Aja è una forte
conferma del progetto di riciclare lo spappolatore di cervelli sarajevesi
- sono le parole con cui Mladic ordinava di bombardare i cittadini - e di
farne l'esponente militare rilegittimato della stabilizzazione di
Milosevic.
Basta pensare all'improbabilità che una notizia del genere, la nomina di
un avvocato, venisse da Karadzic.
Detto questo, la partita serbo-bosniaca resta tutta aperta, e resta
troppo probabile che sia giocata sulla pelle dei civili bosniaci.
3.
Un altro punto più chiaro dopo gli ultimi giorni è dato dall'iniziativa
americana.
D'improvviso, la questione del voto congressuale sull'embargo delle armi
ai bosniaci è diventata marginale, di fronte alla decisione con cui gli
Stati Uniti hanno condotto per mano l'offensiva militare croata.
Ora nessuno può imputare agli Usa l'indecisione, né di agire in modo
clandestino e insinuante, con generali pensionati e consiglieri
travestiti.
Gli aerei americani sono volati pubblicamente, e hanno lasciato una gran
scia di razzi di segnalazione delle loro intenzioni.
Gli Usa, e dietro loro la Germania, hanno dato l'imprimatur all'azione
croata, l'hanno trasformata in un'azione Unprofor per interposto
esercito, e le hanno ordinato di non farla troppo sporca.
E' pensabile che questo appoggio si arresti al ripristino del territorio
croato, e non preveda una seconda fase dedicata alla Bosnia? Con tutto il
pessimismo, mi sembra difficile.
Le cartine psicoanalitiche disegnate da Tudjman al bar di Londra hanno un
solo ostacolo reale, finora: il veto degli Stati Uniti e della Germania.
Fosse per lui, riaprirebbe al traffico Sarajevo con le targhe di
Zagabria.
In Bosnia si potrebbe formare, non so quanto esplicitamente, una
singolare combinazione di interessi che metta insieme i paesi arabi amici
degli Usa, quanto ai soldi (Arabia Saudita, Kuwait), l'islamismo non
arabo degli iraniani, e una promessa di protezione americana, mediata dal
nuovo, giovane ed efficiente ministro degli Esteri, Sacir Begovic, che
parla americano più scioltamente che bosniaco, ed è ricco di famiglia.
Non è un caso che la rivalità con lui sia la principale spina nel cuore
di Silajdzic, che finora era stato il protagonista nel legame con gli
Stati Uniti, e di cui nel potere bosniaco si dice sempre più spesso,
laconicamente, che è molto stanco.
4.
Ultimo punto, per ora: rientrati così bruscamente in campo gli americani,
rientranti, d'accordo o in concorrenza subalterna, i russi di Eltsin
(Kozyrev si incontra con Mladic e ignora a sua volta Karadzic), sono
stati messi fuori campo inglesi e francesi, cioè quelli che un mese fa
facevano la voce grossa, e gridavano: Tenetemi, sennò....
Con loro, ancora, è andata fuori gioco l'Europa, o almeno l'Europa che
non c'è e dovrebbe esserci.
Sono così lividi che rischiano di ridiventare scopertamente filo-serbi,
secondo le vecchie abitudini, o tornarsene a casa dicendo che non ci
giocano più.
L'unico teatro possibile di un loro ruolo ritrovato è la difesa effettiva
di Gorazde - che nei disegnini non è segnata, tanto è scontato che verrà
venduta - e l'apertura pubblica e leale di Sarajevo.
Ho visto la Forza rapida al lavoro.
Stava allargando il viottolo sulla cima dell'Igman.
E' già qualcosa.
BARATTO SU GORAZDE (L'Unità, 12 agosto 1995)
Niente di nuovo sotto il sole di questo agosto.
L'idea attribuita agli Stati Uniti di cedere Gorazde ai serbi in cambio
di un negoziato, era già stata prevista.
E' facile qui essere buoni profeti: basta prevedere il peggio.
Per chi non ha patriottismi da difendere, qualsiasi compromesso è
benedetto che restituisca un po' di sicurezza della vita e di libertà
alle persone.
Ma la Bosnia non è un feticcio, e Gorazde non è una cittadina come
un'altra, da sacrificare in questo immane trasloco reciproco.
Più volte Gorazde è stata il simbolo di una resistenza estrema, e il
pegno ancora non del tutto violato della legalità internazionale.
Fra le sei aree protette, Bihac è oggi ancora bombardata ma liberata
dall'assedio, solo grazie alla guerra di riconquista croata; Srebrenica è
caduta, e le forze dell'Onu hanno fatto da palo a una selezione da
sterminio; Zepa è stata distrutta.
Restano Tuzla, alla portata dei cannoni assassini ma non delle truppe,
Sarajevo, e appunto Gorazde, che di Sarajevo è, fisicamente e moralmente,
la porta di accesso.
L'idea degli americani di cedere Gorazde è la quintessenza del realismo.
Essa offre a Milosevic il regalo di cui ha bisogno per far passare
l'eventuale chiusura provvisoria dell'operazione, assieme alla promozione
di Mladic a capo militare di una Serbia, se non Grande, comunque
allargata.
Ma mette i dirigenti di Sarajevo in una trappola maledetta.
A Sarajevo, la gente ora non vuole che tornare a respirare e credere che
i propri bambini possano sopravvivere.
Ma la gente dirà anche - lo dice già: Se arriviamo a cedere anche
Gorazde, se accettiamo una mutilazione della Bosnia fino a questo punto,
allora perché i quattro anni di lutto e di follia? Per che cosa saranno
morti allora tanti innocenti e tanti combattenti?.
Se Izetbegovic sarà forzato ad accettare, si troverà contro i bosniaci;
se non lo farà, si prenderà il peso di un rifiuto che finora è stato solo
responsabilità dei suoi nemici.
Questo vuol dire il baratto su Gorazde.
E ancora: perché dichiarare internazionalmente protette città e regioni
che si è pronti a lasciare in balia degli aggressori, o a cedere a una
nuova carta geografica disegnata a Washington? E' certo che una pace
qualunque, se arriverà, non sarà il frutto di una giustizia, ma di
un'anestesia imposta con le buone o le cattive.
Ma un'anestesia troppo violenta può uccidere a sua volta il paziente.
Il Mladic che, reimbiancato dalla qualifica di militare e di imputato
all'Aja - non criminale, ma solo e ligio imputato - dovrebbe essere il
secondo negoziatore al lato di Milosevic, è colui che a Srebrenica ha
trattato di persona la selezione degli uomini maschi, la loro
liquidazione e le carezze televisive sulla testa dei bambini.
Brutto affare.
Ci sono molte cose evidenti che la diplomazia internazionale e anche
tanti volenterosi privati decidono di non vedere.
Che gli aerei Usa abbiano fotografato le probabili fosse comuni di
Srebrenica, dopo che per giorni le migliaia di desaparecidos di quella
ripulitura avevano cessato di far notizia, è ovviamente una replica alle
porcherie commesse nel corso dell'offensiva croata.Altrettanto ovvio è
che fra le malefatte croate e quelle serbe resta finora, ammesso che lo
si voglia valutare, una differenza di quantità e di qualità: se non
altro, confermata dal fatto che non un chilometro di territorio serbo è
stato toccato dalla guerra.
I profughi delle Krajine malmenati nel loro esodo croato e cacciati nelle
periferie di Belgrado, o inoltrati a far numero etnico nel Kossovo, sono
la miccia di nuove esplosioni.
Quanto ai bosniaci, su loro incombe ancora la morte e la cancellazione.
Quando non fosse più così, resterebbe loro una specie di spaventoso
diritto al rancore e alla vendetta, a un terrorismo dei pensieri e dei
sentimenti.
Ci pensino ancora, quelli che hanno la potenza, e sia pure a tempo
largamente scaduto.
E SULLA SPIAGGIA SI LEGGONO SOLO I NECROLOGI (L'Unità, 24 agosto 1995)
Ho attraversato, in un viaggio anfibio, un po' per terra un po' per mare,
la costa croata dall'Istria fino alle Bocche di Cattaro, appena
intraviste in una fortunosa escursione da Dubrovnik vuota e offesa.
Questo Adriatico bellissimo induce a un doppio confronto, con la sponda
sabbiosa italiana, e il suo pieno di vacanza, e con l'interno montagnoso
che gli sta a ridosso, come una minaccia brutale e chiusa.
Perché questa maledetta storia jugoslava ha rinfocolato l'ostilità fra la
montagna e il mare, così come fra i villaggi e la città: e lo sbocco al
mare che i grandi-serbi e panslavisti cercano da tanto tempo è un
desiderio ostile e pesante, svelato e ridicolizzato del resto dalla folla
dei nuovi russi sulle spiagge riminesi, di cui parlano le cronache
dell'altra sponda.
A Pola, davanti all'Arena, ho incontrato i giovani soldati tornati da
Plitvice, forse il più bello dei parchi naturali ex-jugoslavi.
I famosi laghi stanno bene.
La riserva non è stata minata, come invece si temeva, se non nella fascia
più esterna.
E' un caso fra molti in cui la sicurezza delle proprie posizioni e la
rapidità dell'attacco croato hanno impedito ai serbi di minare una zona.
Il dettaglio più inedito è che in realtà i primi ad arrivare a Plitvice
erano stati i bosniaci del famoso Quinto Corpo, che, dopo la rottura
dell'assedio di Bihac, marciavano per congiungersi con le forze croate.
Il comandante bosniaco, il generale Dudakovic, è apparso anzi tentato
dall'idea di tenere la posizione benché fosse oltre il confine croato.
C'è stato qualche momento di tensione, poi la cosa si è sciolta col
rientro dei bosniaci nella loro frontiera.
Un sintomo piccolo della rivalità fra i due eserciti, e del desiderio
bosniaco di ritagliarsi una parte nell'offensiva croata: alla quale
Dudakovic ha poi riconosciuto apertamente il merito della liberazione di
Bihac.
In questa zona le truppe mobilitate sono state impiegate di rincalzo, o
nei punti meno cruciali, mentre l'attacco è stato riservato agli
specialisti della Prima Brigata, le Tigri.
Un ufficiale di quelli consumati per anni in una guerra di posizione
micidiale, estenuante e povera, mi ha raccontato di essersi messo in
disparte con i suoi uomini e di aver assistito alla avanzata delle Tigri
come a un film americano a colori.
Da Fiume sono passato in fretta, il tempo di perdere un traghetto, e di
ripensare con imperturbata antipatia al dannunzianesimo, così a
sproposito rievocato ora contro chi vorrebbe che ai criminali di guerra
ex-jugoslavi qualche autorità preposta fischiasse dietro una
contravvenzione.
Dopo l'Istria e il Quarnaro, il traffico di auto lungo la strada
litoranea si dirada all'estremo.
Le auto straniere si contano sulle dita, e solo i convogli umanitari o
militari, anch'essi non frequenti, provocano code più o meno lunghe, in
quella strada formidabilmente panoramica, stretta e tortuosa.
Man mano che si scende verso sud, i segni di distruzione e di guerra si
moltiplicano, veri e finti, come i manici di legno infilati fra i sassi
sulle sommità dei monti a simulare batterie antiaeree, qualche volta
anche con i loro pupazzi.
Guerra da spaventapasseri, se non arrivassero poi d'improvviso batterie
vere e uomini veri.
In un paesaggio che, per le isole brulle e montagnose, i mari interni e
la quantità di attraversamenti in traghetto sembra norvegese, sono sceso
all'isola di Pag a Ferragosto, nel giorno dedicato alla Madonna.
La bella chiesa quattrocentesca era ancora piena, a sera tarda, di fedeli
di tutta l'isola che aspettavano pazientemente il proprio turno per
toccare una statua lignea della Madonna e del Bambino in trono,
accomodata per quel solo giorno sul pavimento della navata.
Donne anziane e corpulente, con il vestito della festa nero, arrivavano
davanti alla statua, toccavano la veste azzurra della Madonna per cercare
protezione e carezzavano con più confidenza il braccio del Bambino per
assicurargliela.
Era evidente che quest'anno alla Madonna si chiedesse qualcosa di
speciale.
All'indomani ho visto quelle donne anziane col vestito nero di tutti i
giorni e le maniche rimboccate su avambracci poderosi, lavorare al
tombolo i ricami per i quali Pag è famosa.
Nella periferia di Zara le case distrutte e le rose delle granate sono
più frequenti, benché non abbiano una forma sistematica, e facciano
pensare, come in altri punti della costa, a una sparatoria a casaccio,
fatta per spaventare e dissuadere dall'intenzione di una vita normale.
Il centro di Zara, con molti monumenti ancora coperti dai sacchi di
sabbia, aveva un'animazione particolare, come quello di una città che da
poche ore sapeva di essere stata liberata dall'incubo dei bombardamenti e
degli allarmi.
Nelle vetrine dei negozi era esposta l'immagine della Madonna: Regina
della Pace, prega per noi.
Intanto, la processione dei serbi di Krajina e quella dei croati dalla
Banja, portava ciascuno, fra pugni e sputi, verso la propria esclusiva
Madonna.
Solo in Bosnia ho imparato - perché ero molto ignorante delle cose di qui
- il nome di un poeta di Mostar, di famiglia serba, Aleksa Santic,
vissuto e morto giovane all'inizio di questo secolo.
Anzi ho imparato a memoria la più popolare delle sue canzoni dedicata a
una bellissima Emina figlia dell'imam, che non si accorge nemmeno
dell'amore di lui.
Santic scrisse una poesia altrettanto celebre, "Ostajte ovdje", Restate
qui - per scongiurare le persone a non abbandonare il luogo che era loro,
la terra scaldata da un sole di cui non avrebbero più ritrovato l'eguale.
Mi sono chiesto nei giorni scorsi se, non nella lingua anestetica delle
dichiarazioni ufficiali, ma con la lingua sincera del cuore, con quella
di un'autorità politica o di una fede, o ancora della poesia, qualcuno
avesse provato a dire davvero ai fuggiaschi della Krajina: Restate qui, o
almeno: Tornate qui un giorno.
Ma qui tutti, o quasi, sembrano essersi rassegnati a un paese per una
nazione sola, e anche per questo la Bosnia di Sarajevo resta un
fastidioso intralcio.
A Sebenico, Sibenik, mentre giravo sulle tracce di Niccolò Tommaseo, ho
trovato un gruppo di militari di mezza età, con le divise trasandate e i
kalashnikov che sembravano adattati secondo intenzioni personali; due o
tre di loro con i cani, cosicché parevano, e forse erano cacciatori.
Alla domanda se finalmente fosse finita, hanno risposto che era appena
cominciata, e che la ripulitura dei piccoli gruppi di serbi sbandati
sulle montagne sarebbe stata molto lenta e sanguinosa.
Se ho capito bene, prendevano con sé i propri cani per questo.
A Spalato, stazione di sosta per tutti i viaggiatori per Sarajevo, da
quando non ci sono più aerei, sicché riconosco ormai le pietre del
palazzo di Diocleziano e le ragazze del lungomare con la stessa
soggezione, niente avrebbe fatto pensare a una guerra se non la premura
accanita con la quale tutti leggono sui quotidiani le pagine dei
necrologi.
Questo avviene dovunque, e i tanti profughi e sfollati si passano di mano
in mano i giornali delle loro regioni.
Tutti sanno che le cifre ufficiali dei morti, dall'una e dall'altra
parte, sono politiche.
Da Spalato a sud il paesaggio si fa ancora più bello, e il traffico
ancora più rarefatto.
Chiusi gli alberghi sul mare, o aperti solo per ospitare famiglie di
profughi, riconoscibili dai bucati infiniti messi a sventolare sui
balconi, unica bandiera rimasta.
Fra la riviera di Makarska e la foce della Neretva fermi dietro un
convoglio di camion, abbiamo visto una baia turchese, e siamo scesi a
fare un bagno.
Lì, sotto il bosco di pini e di lecci, era già sdraiata una rumorosa
comitiva di giovani uomini, alcune decine, tutti con i capelli rasati,
come dei collegiali, e coi corpi tatuati, come dei carcerati.
Camion mimetici e jeep parcheggiate li rivelavano come soldati inglesi
della Forza rapida.
Decisamente muscolosi, non sembravano avere una gran dimestichezza col
mare, o almeno con le piacevolezze del Mediterraneo.
Due di loro avevano gonfiato due camere d'aria nere di camion, e
appiattati in quei salvagenti anni '40 sono venuti pigramente alla deriva
fino al punto del nostro bagno.
Così abbiamo chiacchierato.
Non erano stati a Sarajevo né sull'Igman, hanno detto, non ancora.
Non erano stati ancora da nessuna parte, se non nel loro quartiere di
Ploce.
Volevano forse prendere in prestito maschere e pinne? Sì, grazie.
Così il primo partì sbatacchiando i piedi e poi tirò fuori la testa, si
levò maschera e boccaglio e gridò entusiasta: Vedo i pesci.
L'altro che armeggiava ancora con delle pinne da donna, si scusò: E' la
prima volta.
Passò ancora un minuto, e il suo commilitone riemerse gridando
costernato: What is that black shit?.
Fu così che la Forza rapida fece la scoperta delle oloturie dette anche,
da noi, minchie di mare.
ORMAI SOLO FOTOGRAFI TRA LE STATUE CADUTE DELL'ANTICA DUBROVNIK (L'Unità,
26 agosto 1995)
Poco prima della foce della Neretva, dove si inoltra la strada per Mostar
e Sarajevo, c'è il porto di Ploce, base dell'Unprofor, e dello
smistamento dei trasporti umanitari per la Bosnia.
Subito prima, troviamo un incidente stradale.
Un camion dell'Onu ha portato via il paraurti e raschiato il fianco di
una corriera locale.
La strada è bloccata, e in mezzo discutono bruscamente i militari Onu e
l'autista e qualche passeggero del pullman.
A un certo punto uno di questi, in divisa, va a prendere il suo
kalashnikov e lo agita davanti al viso dei soldatini inglesi, i quali si
sbrigano a prendersi la colpa.
Appena un mese fa, non sarebbe successo.
A Ploce ho preso il traghetto per la lunga penisola di Peliesac, e da lì
quello per l'isola di Korcula.
D'improvviso la scena si è popolata di donne, bambini, e ragazzi.
Il fatto è che le famiglie di Dubrovnik che se lo potevano permettere
sono andate nelle loro magnifiche isole, a metà fra la fuga e la vacanza.
La stagione si era aperta col bombardamento della nuova pista
dell'aeroporto di Dubrovnik, poi delle sue periferie e delle spiagge.
Un bombardamento contro l'estate, per così dire, come quello della città
quattro anni prima lo era stato contro la dolcezza della vita.
Lo Stradùn di Dubrovnik indurrebbe qualunque marcia militare a
trasformarsi nella passeggiata e nel gioco degli sguardi.
Adesso lo Stradùn è semivuoto come tutta la Città Vecchia e le poche
persone rimaste sembrano essere state scelte a ricordare la città
com'era, e come tornerà ad essere: barbieri, suore, uomini che si
raccontano le novità al bar, belle ragazze, donne anziane che somigliano
alle loro cagnette, giovani che per il fatto di aver indosso un'uniforme
non hanno un'andatura meno scanzonata.
I giornalisti, sciamati a Dubrovnik per chissà quale segnale gregario,
sono quasi più numerosi, e certo più rumorosi e impazienti.
Le bombe non arrivano più sulla città monumentale, fuori non ci si può
muovere, sull'andamento delle operazioni a Trebinje c'è il segreto
militare.
La città sembra bensì aspettare anche lei una decisione, e intanto
piccole squadre di operai tornano a rizzare protezioni attorno alla
miriade di statue del patrono, San Biagio.
Ci si chiede se sia per scaramanzia, o per dare qualcosa da fare alle
telecamere.
D'altra parte, il "ferry" che ho preso da Korcula per Mljet e Dubrovnik,
tre ore e mezza di viaggio azzurrissimo, era vuoto di civili e carico di
militari specializzati nella difesa dalle armi chimiche, segno che non si
esclude davvero niente.
I monti a nord e a sud di Dubrovnik sono completamente devastati
dall'incendio provocato dalle granate al fosforo - per la seconda volta
in cinque anni.
Nella Città Vecchia, il tuono delle cannonate arriva attutito, e si
confonde con quello benedetto dei temporali pomeridiani che aiutano a
spegnere le fiamme.
I giornalisti visitano la città deserta e spalancata con un imbarazzato
privilegio, come svaligiatori estivi di bellezze.
Nelle segrete del camminamento lungo le mura i frantumi dei bombardamenti
del '91-92, già raccolti e numerati per il restauro, giacciono esposti
senza custodia: serpenti dalla lingua mozzata che sbucano da un fogliame
di marmo, angeli senza ali e col viso mutilato che protestano a braccia
conserte la loro offesa.
Dalla sommità di un muro a picco sul mare si alza in volo infastidita dal
mio passaggio, un'aquila, indolente e maestosa, spinta fin lì in mezzo ai
gabbiani petulanti da chissà quale montagna incendiata.
Al bar dell'Hotel Argentina, dove i giornalisti sono alloggiati,
riconosco una faccia di ragazzo americano perché l'ho vista appena pochi
giorni fa, a Sarajevo.
Anche lì in un bar: qualcuno aveva dato a Zlatko Dizdarevic una copia di
Time Magazine con un suo articolo; il ragazzo, che aveva un cappello da
baseball con la visiera lunga ed era solo a un tavolo davanti a una
birra, si era alzato e con un'aria strampalata si era accostato al nostro
gruppo.
Aveva chiesto di vedere un momento la pagina, poi aveva scosso la testa
ed era tornato via.
L'ho richiamato, e gli ho chiesto chi fosse.
Mi chiamo Robert King, ha detto, e sono io che ho fatto quella foto.
La fotografia al centro dell'articolo di Time era quella della bambina
Leyla in braccio a sua madre.
Così ho fatto amicizia con questo venticinquenne di Memphis, Tennessee,
carino e suonato come un Forrest Gump, "freelance", anzi arrivato fin qui
solo grazie a uno zio che gli ha prestato i soldi.
Ora, a Dubrovnik, il ragazzo racconta che continua a telefonare a
Memphis, Tennessee, ma lo zio non è ancora riuscito a vedere la foto: e
non sono molti lì, in famiglia e fuori, a sapere che cosa sia e dove sia
Sarajevo.
Mi racconta la sua storia, non è facile da capire, dice.
Mio padre mi dava da fumare marjuana, mia madre mi trovava e me le
suonava.
Ha cominciato con la fotografia da un paio d'anni, vive a New York, ha
una ragazza che lavora in una scuola di fotografia di moda, l'ha trovata
con Internet, dice.
E' stato in Ruanda, poi in Bosnia.
Non ne sapeva niente.
Oltre a quella di Leyla, ha piazzato una foto su News Week.
Ma ha dato le sue foto all'Ap, non sa bene quanto ne abbiano ricavato, né
che cosa tocchi a lui.
Gli hanno detto che in Italia Panorama ne ha fatto la copertina, vorrebbe
vederla.
Chiede con grande insistenza quanti soldi hanno dato a Leyla e alla sua
famiglia.
E' chiaro che è legato in un modo scosso alla ragazzina.
Gli racconto della campagna dell'Unità in Italia, dei giornali che usano
la sua foto come un manifesto.
Devi andare a Siena, gli dico, fare la più bella foto di Leyla dopo
l'operazione.
Dov'è Siena?, chiede.
Sostiene di avere una nonna di origine fiorentina, addirittura, ma che
non ha mai parlato una parola d'italiano.
A Dubrovnik non ha fotografato niente di interessante, solo statue, e una
famiglia che vive nell'acquario, al posto dei pesci.
Dice, testualmente: Prima sono andato a fotografare le statue, poi ci
sono tornato per vederle.
Programmi non ne ha, se non di tornare a New York, e poi da ottobre, per
quattro mesi, fare le foto di scena per la stagione operistica di
Memphis, Tennessee (città, per altro, di Elvis Presley e di Michael
Jackson).
Del cartellone sa solo che si aprirà col "Rigoletto", lui non ha mai
visto un'opera, intanto per prepararsi comprerà dei C.D.
Toni Capuozzo, appena arrivato a Dubrovnik dall'Italia, gli dice che
Leyla sta bene, e che è andata a vedere il Palio dell'Assunta.
Che cos'è il Palio?, chiede.
Una vecchia corsa di cavalli, dico, ma il mio inglese è equivoco.
Una corsa di vecchi cavalli, capisce lui, senza sorprendersi granché.
Il ragazzo Robert riparte per Split, Spalato, con una Panda a noleggio,
noi per Korcula con il traghetto che va a Fiume.
Chiedo a Gervasio Sanchez, un fotografo spagnolo che lavora per il País e
ha pubblicato un bel libro di foto di Sarajevo se conosce King.
Mi dice che una volta l'ha visto a Sarajevo fotografare, assorto come in
una lezione di anatomia, i resti umani di un'esplosione.
E' un tipo un po' strano, dice.
A Dubrovnik, anzi un po' più a sud, finisce l'Adriatico croato, e
comincia il mare del Montenegro.
Lo sbocco al mare, dunque, la Federazione jugoslava ce l'ha, e con un
porto efficiente come Bar.
In realtà l'alleanza serbo-montenegrina non è affatto così irresistibile,
e i conflitti esplosivi che covano nella regione, come nel Kosovo e in
Albania, potrebbero rimescolare le carte.
A Belgrado devono aver pensato davvero di prendersi, se non Dubrovnik, il
tratto di costa a sud, da Cavtat alle Bocche di Cattaro.
Resta il fatto che il bombardamento accanito di Dubrovnik non ebbe mai
alcuna giustificazione, nemmeno nella più pretestuosa trama geopolitica o
etnica, e che nonostante questo, in nome della forza maggiore, la buona
società europea si mostrò incline, allora, a salvare Dubrovnik facendone
una città-museo galleggiante.
A parte questo caso madornale, non è interessante che i real-filosofi del
fatto compiuto, i ratificatori indefessi della vittoria ormai acquisita
sul campo dai serbi di Milosevic e dai serbo-bosniaci di Karadzic,
continuino a pontificare come se niente fosse, se non addirittura a
scandalizzarsi contro il fatto compiuto dell'operazione Tempesta, e il
rovesciamento dei rapporti di forza sul campo nel volgere di pochi
giorni? Quante sono le realpolitik di questo mondo? Devo ricordarmi di
chiederlo, al prossimo incontro, al giovane Robert King, di Memphis,
Tennessee.
L'ESTATE PROSSIMA (28 agosto 1995)
Mi sono mancati i libri-guida, in questo improvvisato periplo adriatico.
Difficile comprarne di adatti, neanche quelli turistici: si sono
rarefatti in quattro anni di guerra, e soprattutto sono stati ritirati
dalla circolazione, in attesa che sia riscritta la storia e la geografia
del paese.
Avrei voluto avere nella borsa il "Breviario mediterraneo" di Matvejevic,
tanto più dopo che la compagnia di giro dei dibattiti sulla ex-Jugoslavia
mi ha fatto conoscere la lealtà dell'autore di quel repertorio
affascinante.
Su un giornale di Spalato ho letto il riassunto di un editoriale di
Veronese sulla Repubblica che metteva a contrasto l'estate delle due
sponde dell'Adriatico.
E' ora davvero "un altro mare", come nel titolo di uno svelto libro di
Magris di cui mi sono ricordato perché a Rovigno, in Istria, sono stato
ospite di una casa in cui Magris aveva soggiornato anni fa, mi hanno
raccontato i padroni, e il mare di Enrico Mreule, il suo protagonista,
era lì vicino.
Adesso gli equipaggi dei pescherecci sono richiamati alle armi, e il mare
è impoverito e infestato di piccoli ricci e di ostriche.
Un'epidemia aveva decimato da anni i dentici, e i branzini del fiordo di
Lemme sono diventati rarissimi: tuttavia il mare ha preso fiato nei
quattro anni di guerra.
A sud, nelle isole della regione di Dubrovnik, è tornato vivace come un
nostro mare degli anni '50, grazie a questo riposo ecologico forzato.
In Istria, dove il coinvolgimento nella guerra è stato più basso - gli
istriani, si dice, sono stati impiegati nelle retroguardie anche
nell'ultima operazione, per ragioni politiche - è più forte il malumore
economico per gli stranieri che non vengono, e se vengono spendono poco.
Ai mercati di frutta i bancarellari, contadine dell'interno e kossovari
trasferiti, vi assaltano per un acquisto da un chilo.
Altrove, man mano che si scende, lo scampato pericolo delle bombe e della
guerra a ridosso della costa vale di più della nuova stagione turistica
perduta.
Fa pena, lungo la strada costiera, la miriade di rassegnati che offrono
bei frutti, e soprattutto angurie.
Migliaia e migliaia di angurie di una stagione particolarmente
zuccherina, che nessuno mangerà.
Dovunque, dalla Slovenia fino alle soglie di Dubrovnik che aspetta di ora
in ora la sua liberazione, corre una parola magica, pronunciata a volte
con disprezzo, più spesso con una trasognatezza clandestina: la parola
privat.
La Croazia che si incontra sulla costa ha smaltito la dissepoltura
retorica del passato nazionale, e ha accolto con sollievo, ma senza
eccessi di zelo, la riconquista della Krajina.
Il ritorno della vita normale qui significa soprattutto l'estate
prossima, la possibilità di investimenti privati, di iniziative private,
di padroni privati di fuori o locali.
La liberazione dalla guerra e la libertà del mercato appaiono, con molte
ragioni e una foga di riscatto del tempo perduto, strettamente legate -
la libertà politica seguirà...
Questo dà alla fine dell'estate una spaesatezza: il sole è ancora caldo,
il mare invitante, ma superfluamente.
Albergoni orribili con piscina e incantevoli case dai giardini fitti di
oleandri, agrumi e pergolati, per una smania d'ombra, lasciano in vista i
cartelli: ZIMMER, CAMERE, SOBE e aspettano.
La gente non è venuta, le locandiere hanno l'aria di non sapere perché,
tutto era apparecchiato, e adesso si aspetta già la prossima estate.
Per i pochi che lo fanno, turisti controcorrente o profughi dall'inferno,
la vacanza è un po' abusiva.
A Korcula - la Curzola che pretende di aver dato i natali a Marco Polo -
si fa il birdwatching, invece che coi gabbiani e le sterne, con gli
elicotteri della Forza rapida, che vanno su e giù giorno e notte come
insetti impazziti, in un frastuono assurdo.
Costruiscono qualcosa in cima alle montagne a picco sul mare, ogni tanto
una nuvola li inghiotte e resta solo il rumore di trapano. Che cosa
facciano è un segreto militare.
I pescatori scuotono la testa.
L'altra mattina, due Lynx Z4 rientravano insieme verso Peljesac, uno ha
risalito il monte, l'altro è sceso dondolando come un ubriaco, e poi è
precipitato in mare.
I pescatori sono andati a dare una mano, in pochi minuti è arrivato un
finimondo di mezzi dal cielo e dal mare, i pescatori hanno scosso ancora
di più la testa.
Quattro militari inglesi sono morti, uno ha nuotato fino alla riva, e
quando è approdato era fuori di senno.
Era bel tempo, non si è sentita nessuna esplosione.
La versione tecnicamente più accreditata parla senza volere un linguaggio
di mitologia antica: il pilota è stato abbagliato dal mare che
rispecchiava il sole, e si è avvicinato troppo all'acqua.
E' stato un incidente sul lavoro.
Poco prima, c'era stato quell'incidente stradale degli americani
sull'Igman.
A Sarajevo sono addolorati per quei poveri morti, ma non possono fare a
meno di qualche battuta sarcastica sulla teoria dell'incidente stradale,
le mine, la fatalità.
A Sarajevo, chi non è diplomatico o qualche eccentricità del genere, se
passa l'Igman indenne deve poi calarsi nell'apnea del tunnel.
Finalmente, dopo giorni trascorsi nei paesi che erano fino a quattro
estati fa della loro villeggiatura, sono riuscito a prendere la linea dei
miei amici di Sarajevo.
Stanno tutti bene.
Dell'avvenire della città, non sanno niente.
Gli "snajper" sparano molto, e granate ne cadono parecchie, e così a
casaccio che nessun angolo è al riparo.
Due ne sono cadute vicino alla solita fila dell'acqua alla Pivara, la
Birreria, e un autista di un camion dell'Unprofor si è così spaventato
che ha sterzato contro il parapetto del ponte della Biblioteca Moresca,
ed è restato a penzolare a mezz'aria, e ci sono voluti due carri armati
per toglierlo da quell'imbarazzo.
La media dei morti è alterna, i bambini sono sempre i più colpiti.
Ne muoiono anche altri, per esempio il padre di Etela Pardo.
Lei era la più famosa attrice di Sarajevo, ora vive a Londra.
Aveva un figlio quindicenne che era la pupilla dei suoi occhi, e fece di
tutto per riuscire a portarlo fuori da Sarajevo.
Ci riuscì, e il ragazzo morì in un incidente stradale in Sudafrica.
Il nonno è rimasto a Sarajevo, e si è dedicato a un suo lavoro
linguistico, un lavoro preparatorio a un dizionario ebraico-bosniaco,
credo.
L'ha finito, e si è ammazzato.
Aveva 69 anni, era uno degli ultimi ebrei di antico ceppo sarajevese.
Non c'è luce, non c'è acqua, non c'è gas: come al solito.
Piove tutti i giorni, e l'autunno è arrivato.
Il prezzo della legna è già salito.
Qualcuno la compra, qualcun altro no, perché non ha i soldi, o perché
pensa che non valga la pena di buttarli via per un affare così
incredibile come la sopravvivenza in un altro inverno.
Tanto è lontano da Sarajevo questo bellissimo mare.
BELVE CHE SBRANANO LE PREDE (L'Unità, 29 agosto 1995)
Si fa così.
Si diradano le granate per qualche giorno, fino a farle mancare del
tutto, nella Città Vecchia, per due o tre giorni.
A questo punto i sarajevesi, benché sappiano che cosa li aspetta, sperano
di contare almeno su un altro giorno, forse due, e vengono fuori.
E' lunedì, ieri il mercato ha chiuso più presto, oggi comincia una nuova
settimana, vanno a fare la spesa: magari solo a comprare un cartoccio di
caffè da tostare, magari solo a vedere quanto costano oggi le patate, o
lo zucchero.
Quanto all'ora, si scelgano le undici di mattina, più o meno: non è
troppo presto, né troppo tardi.
E' l'ora di punta. Ci sono tutti: i venditori del mercato coperto - si
chiama così una serie di stanzoni coperti da una tettoia di mattoni, o di
tegole, ripiego al mercato aperto e interdetto dalla strage del febbraio
1994; le donne che vendono sigarette - Drina, o Bosna, o Marlboro cattive
da tre marchi e mezzo, e Marlboro buone da cinque marchi; gli uomini che
scambiano buoni-moneta bosniaci con marchi - kuponi, kuponi -, ragazze
che vendono cioccolata scadente, signori dignitosi che vendono pezzi di
casa, fioraie e fiorai - incredibile quanti fiorai; le contadine con le
zucche e le bacche, e, in certi giorni straordinari, una scatola di
pulcini; i banchetti di ferramenta, un rubinetto, due rocchetti di filo;
i barboni che aspettano che torni lo straniero benigno; le squadre di
bambini che vanno a guardare e commentare le scarpe da tennis; e la folla
degli spettatori e degli acquirenti, nessuno dei quali comprerà neanche
un pezzetto di burro domestico senza aver fatto il giro di tutti i banchi
e confrontato i prezzi: ci sono tutti.
Questo è il momento di tirare la prima cannonata: da 120 millimetri,
calibro grosso, è inutile tenere le mezze misure a questo punto.
Con la prima cannonata si centra in pieno lo spazio fra le rotaie del
tram, ormai superflue, sul quale la gente si attarda, o si sventra il
tetto e la parete del mercatino coperto in fondo alla piazzetta di
Markale.
Un bel po' di morti e feriti si sparpagliano già in giro come stracci al
vento.
Subito dopo, si spara la seconda cannonata, all'angolo della piazza.
La gente ha avuto appena il tempo di riparare ai bordi della strada, o di
precipitarsi al soccorso delle vittime: l'esplosione e le schegge
infieriscono tutto intorno.
Per la terza si può prenderla un po' più comoda: cadrà giusto dietro la
cattedrale, addosso all'edificio che una volta era un elegante bagno
pubblico, e adesso ospita un'appendice di mercatino.
Anche lì, si era già colpito tempo fa, non c'è neanche da aggiustare la
mira.
Poi si continua, a piacere: un'altra, altre due o tre bombe.
Agendo così, si è sicuri di fare almeno una trentina, forse una
quarantina di morti, e un centinaio di feriti, mutilati, spappolati.
Sarajevo è la città in cui perfino i medici non ce la fanno più a tenere
gli occhi aperti dentro lo scempio della carne umana.
Occorre metodo nelle cose.
I cetnici di Karadzic ce l'hanno.
Sanno assetare la preda e aspettarla poi al varco alla fontana.
Sanno stanarla alle undici di un lunedì mattina.
Fanno così, prima di tutto, per il piacere di farlo.
Solo in subordine per un calcolo politico: per esempio di boicottare un
negoziato.
Può perfino darsi che la loro impresa sanguinaria sia controproducente, e
si tramuti in una carta per i negoziatori.
Ma volete mettere il piacere dell'impresa? Nel febbraio del 1994 in
quella piazza vennero ammazzate 68 persone, e un gran numero di altre
squartate: ero lì quel giorno, e non dimenticherò quella scena, né i
soldati francesi dell'Unprofor che vennero poi, nella città cupamente
vuotata, a sciacquare la piazza con gli idranti e raccattare brandelli
umani in sacchi di plastica.
A fare piazza pulita.
Di quella granata restò solo una buchetta nel cemento, prima circondata
di fiori, poi pian piano inosservata: una pozzangheretta nei giorni di
pioggia, nient'altro.
Era stato un solo colpo: un colpo magistrale.
Qualcuno - dei francesi dell'Unprofor, anonimi, se non sbaglio, le cui
voci furono anonimamente raccolte e rilanciate dalla France Press -
insinuò poi che fossero stati i bosniaci stessi a massacrare con quella
granata la propria gente nel mercato, a mezzogiorno, per un calcolo
cinico.
I cetnici di Karadzic erano stati i primi a sostenere questa versione,
con il dileggio impudente che è loro proprio.
Trovai l'accusa così enorme che per molto tempo mi sforzai con ogni mezzo
di accertare se e quale fosse il fondamento di quel sospetto: non ne
trovai nessuno.
Gli stessi alti ufficiali francesi con cui mi capitò di parlare in
confidenza lo esclusero.
Ciò non impediva a persone e giornali di riecheggiare periodicamente
quella versione, perfino su Le Monde, perfino sull'ultimo numero della
rivista Limes.
Bene: questa volta i tiratori sul mercato all'ora di punta si sono
premurati di non lasciare margine al dubbio: hanno moltiplicato i colpi,
hanno ostentato la parabola dai loro covi.
Naturalmente questa specie di commemorazione "in corpore vivi" della
strage del febbraio 1994 è anche una retroattiva rivendicazione,
all'insegna dello stesso dileggio.
Un anno e mezzo dopo.
Noi forestieri, quando siamo a Sarajevo, la mattina passiamo dal mercato.
Naturalmente, non possiamo immaginare che qui le persone provino la
nostra stessa ansia.
Il fatto è che, sebbene sia una città grande, la Sarajevo assediata è
rimpicciolita e addomesticata come una galera, e dopo un po' si
riconoscono le facce delle persone che escono per strada, che vanno al
mercato, come in una prigione nell'ora d'aria.
Tante delle facce che ieri si vedevano in televisione mi erano note.
Ho guardato cinque telegiornali.
Non uno ha detto il nome giusto della piazza: Màrkale.
Non è così difficile.
Una conduttrice, senz'altro benintenzionata, mentre correva tutto quel
povero sangue, ha detto: Ormai questa è diventata una guerra di tutti
contro tutti. Di tutti, anche quelli che vanno a fare la spesa, o, se non
possono permetterselo, a guardare come vanno i prezzi oggi? Uno ha detto:
Il mercatale di market, voleva dire il mercato di Markale.
E' comprensibile che sia così: ma fa dispiacere.
Sono passati quasi quattro anni di orrore.
Qualcuno in Italia, certo con le migliori intenzioni, ha protestato per
le immagini crude messe in onda dai telegiornali in un'ora in cui i
bambini guardano la televisione.
Capisco la preoccupazione: ma i bambini si sono persuasi già da tempo che
i grandi si armano per ammazzarli e mutilarli.
Se non lo dicono, e fanno finta di niente, è solo per paura, o per
prudenza: ma portano dentro quel grande segreto, e sentono oscuramente
che non riguarda solo una città sconosciuta che si chiama Sarajevo.
SI POTEVA, SI DOVEVA (L'Unità, 31 agosto 1995)
Reduci da un lutto terribile, immersi nell'allarme, gli abitanti di
Sarajevo sono risaliti dalle cantine e dai sottoscala hanno spalancato le
finestre nella notte già autunnale, e hanno battuto le mani al rumore
degli aerei.
In qualche punto della città, mi hanno detto, sono perfino scesi in
strada, nonostante il lutto, l'allarme e il coprifuoco.
Per la prima volta, quel rumore non era a salve.
Per la prima volta, il mondo mostrava di tenere in qualche conto le loro
vite, e la propria solenne parola: per la prima volta dopo tre anni e
mezzo.
Il mio giudizio sull'azione delle Nazioni Unite è contenuto per intero in
questa fanciullesca notte brava sarajevese.
Chi ritenga di poter dare un giudizio diverso, che lo metta a distanza
dalla gioia così tardiva, rischiosa eppure piena, di un'intera città
decimata e offesa, peggio per lui.
I sarajevesi che gioiscono perché, per una volta, il mondo viene meno
alla decisione di abbandonarli, sanno bene come ognuno di noi come stanno
le cose.
Sanno che il mondo, i potenti del mondo, non sono improvvisamente
diventati buoni, non si sono commossi davanti alle povere vittime di una
strage dopo averne guardate senza batter ciglio altre mille.
Oltretutto, sono diventati grandi esperti di politica internazionale,
alla scuola pratica di questi anni.
Conoscono bene Boutros Ghali e Yasushi Akashi, sanno che problemi ha
Clinton col Congresso e con le elezioni, che cosa dicono i sondaggi della
popolarità di Chirac, quale dialogo si vada ritessendo fra Occidente e
Iran, che scambi si trattino sulla scacchiera dei rapporti con Mosca e
Belgrado.
Sanno che i potenti sono più facili degli altri a dimenticare e rinnegare
la parola data, a tornare sui propri passi, a lasciare le cose a mezzo e
tornarsene al sicuro.
Sanno che se ora le cose succedono è perché i rapporti di forza fra
Croazia e Serbia rendono possibile quella liquidazione di fatto della
BosniaErzegovina, e la trasformazione della Bosnia in una riserva
protetta per specie rare che è inscritta dall'inizio nella loro guerra.
Sentono già l'altro, abituale rumore delle granate che piovono,
incattivite sulle loro teste.
Sanno che niente è promesso, e che altre sofferenze penose sono
assicurate.
Tuttavia, per una volta, gli americani sono stati come i sarajevesi
immaginano che siano gli americani, e la Forza rapida come dovrebbe
essere una truppa dell'Europa, e l'Onu come sarebbe l'Onu, se ci fosse.
Sanno anche che le poche e risolute cose che sono state fatte nel giro di
qualche ora - accecare i radar degli assedianti, bombardare le postazioni
di artiglieria più micidiali, far saltare la fabbrica di munizioni di
Vogosca, mettere a tacere dall'Igman buona parte dell'antiaerea cetnica e
dell'artiglieria puntata sulla città - potevano e dovevano essere fatte
ieri, e l'altroieri, e così via, da tre anni e passa: e che non sono
state fatte, e anzi si è sostenuto che non fossero possibili, e che
sarebbero costate una terza guerra mondiale, o almeno un nuovo Vietnam.
Sappiamo tutti tutto.
Ma è questo che abbiamo sperato e chiesto fino alla disperazione, per
tanto tempo.
Non abbiamo chiesto che i potenti diventassero più buoni e più sensibili
ai bambini mutilati e meno alla ragion di Stato - benché anche questo
possa succedere, un po'.
Abbiamo voluto che nel calcolo delle convenienze dei potenti, cinico o
soltanto realistico, l'orrore e lo scandalo delle persone di buona
volontà contro la sopraffazione e il calvario della Bosnia pesassero a
loro volta.
Se nei calcoli elettorali o negli indici di gradimento dei potenti la
liberazione di Sarajevo dall'assedio si guadagna finalmente un posto,
ebbene questa è una vittoria della giustizia, dell'umanità, e del buon
diritto.
Che questo sia avvenuto così mostruosamente tardi, e a un tal costo, e
con una tale incertezza ulteriore, ecco la sconfitta di tutti noi, di cui
tutti noi abbiamo una responsabilità.
Che cosa succederà ora, non so, sebbene sia chiaro che una svolta è
avvenuta - con l'accordo croato-bosniaco, con l'offensiva croata
patrocinata dagli americani, e ora con l'azione Nato che non è una
ritorsione contro la strage del mercato, ma un'operazione militare
preliminare all'apertura di Sarajevo e al negoziato vero e proprio.
La Bosnia conviviale, cordiale, mite e socievole è già, temo, spacciata.
E non soltanto per la secessione cetnica e il brigantaggio dei suoi capi:
di fatto, la liberazione degli assediati di Sarajevo, quando verrà,
libererà anche i poveri rifugiati nelle cantine di Pale.
L'Erzegovina, in cui si annida il nazionalismo croato più virulento e
violento, e che ha nel suo record la distruzione della Mostar musulmana
di ieri e la discriminazione banditesca contro la Mostar musulmana oggi,
tanto più dopo il trionfo della riconquista croata, può conservare la
finzione formale dello stato bosniaco-erzegovese, ma è di fatto una
provincia della Croazia.
Dunque, nonostante l'eroismo della sua resistenza, la Bosnia sarà
un'enclave ritagliata e sottoposta a protettorati più o meno prepotenti.
Ma questo non riduce l'importanza delle poste ancora aperte.
La prima è la sorte della sua popolazione umana: quanto sangue e
mortificazione dovrà ancora costarle l'arrivo della fine.
La seconda è la misura della sua mutilazione territoriale e civile:
Gorazde, Banja Luka.
La terza è il vincolo col resto del mondo che questo processo finale le
assicurerà, e che sarà una caparra sulla qualità laica e mite, o
risentita e aggressiva della sua maggioranza islamica.
L'azione di ieri ha riequilibrato appena una bilancia precipitata: ma è
ancora un inizio, esposto a mille pericoli di percorso.
Così guardo, dalle mie finestre tranquille, ai voli attorno a Sarajevo,
dopo averne tanto ascoltato l'inutile rumore.
Me ne sento
corresponsabile, naturalmente.
Una polizia internazionale, se ci sarà, verrà per questa via, e non per
quelle di idilliche rifondazioni radicali dell'Onu e dell'Europa e di
ogni altro ente, in attesa delle quali i cecchini ubriachi continuino ad
ammazzare i bambini.
Penso che verrà un giorno, e non sarà troppo lontano, in cui le nostre
opposizioni e riluttanze all'intervento ci sembreranno un inspiegabile
oscuramento della ragione, e lo stesso lessico delle nostre liti,
l'interventismo e l'anti-interventismo, ci sembrerà grottesco - come
dichiarare interventista il passante che, di fronte a un assalto
stradale, chiami la polizia.
Se così non sarà, vorrà dire che il mondo intero, e non solo la piccola
Bosnia, sarà stato spacciato.
Vorrei permettermi, per fatto personale, alcune altre poche righe.
Ho letto cronache strampalate di un dibattito sulla Bosnia alla Festa
nazionale dell'Unità.
Per esempio, che ho comprato una casa a Sarajevo: la fonte sono io, per
aver detto che a Sarajevo fa più bene abitare in una casa comune che non
nell'orrendo albergo per giornalisti.
L'equivoco è futile, e mi fa rientrare eccentricamente nella strategica,
come vedo, discussione indigena su Affittopoli.
Non ho comprato case, naturalmente; ho fatto di tutto per essere di casa
a Sarajevo, e me ne congratulo come di un vero buon affare.
Quanto ai pacifisti coi quali avrei risse furibonde, nel caso di Reggio
Emilia erano pochi, abbastanza simpatici, e tutt'altro che pacifisti:
vecchi arnesi dell'estrema sinistra, quanto e più di me.
La stragrande maggioranza delle persone che erano lì, come altrove, erano
attente, intenzionate a capire qualcosa di più, esplicitamente persuase
che sostenere che non ci sia niente da fare davanti al massacro sia
immorale, e che addirittura mobilitarsi perché niente si faccia sia una
follia.
Degli affezionati sinceri alla pace, soprattutto quelli che ho incontrato
pellegrini a Sarajevo, pochi più sono disposti a venerare formule
astratte.
C'è anche, nel caso italiano, una specie di disastroso buon senso
pacifista, abbondantemente diffuso fra alti militari e governanti, che
somiglia a una filosofia da camerieri: cui i padroni lasciano
cortesemente, a volte, dire qualche loro frase buffa, per rimandarli poi
in cucina, a riordinarsi crestina e grembiule, e servire in tavola.
DA SARAJEVO NESSUNA NOTIZIA (L'Espresso, 10 dicembre 1995)
La C.N.N. ha trasmesso la scena, all'annuncio della firma: la bottiglia
di champagne stappata, i bicchieri dei sarajevesi levati in un brindisi
di festa.
Naturalmente, era una messinscena da albergo per giornalisti.
Figuratevi lo champagne nelle case dei sarajevesi, dove finalmente è
tornata l'acqua, addirittura potabile, per qualche ora la mattina.
Per colmo di ironia, anche la diretta della firma dell'accordo a Dayton
si è interrotta bruscamente nelle case di Sarajevo, perché è andata via
la luce, sicché i sarajevesi la loro pace se la sono vista in replay con
un giorno di ritardo.
Non c'era né champagne né voglia di brindare.
I sarajevesi sono tristi, mi ha detto uno, col tono obiettivo con cui
altrove vi sentireste dire che i napoletani sono allegri.
Ora sono forse persino più tristi, perché la tristezza stessa è un lusso
da tempi di armistizio, quando l'angoscia e la paura cedono il posto, e
si misurano i vuoti.
Sarajevo non aveva avuto una guerra, ma una sua truce parodia, fatta di
sopraffazione, di ferocia, di follia: e non ha avuto una pace, col suo
Giorno della Liberazione e le fanfare e le ragazze che gettano fiori al
rientro dei difensori.
Infame la guerra, sporca e incerta anche la pace.
Ma era l'unica possibile, dopo che per anni si erano lasciati infierire i
piccoli mostri del razzismo serbo.
Nei giorni e nelle ore in cui il negoziato di Dayton si dilazionava, e
circolavano voci sui dissensi irreparabili e le rotture probabili, ho
visto nelle case le persone dissezionare le notizie e discuterle
accanitamente.
A Dayton, Ohio - posto lunare visto da qui: di film e canzoni - si
giocava con la carta geografica come in un congresso di potenze
ottocentesco.
La Posavina bosniaca attorno a Brcko sarà serba; Gorazde avrà un
corridoio fra gli otto e i quindici chilometri; su Sarajevo è ancora
tutto incerto...
E gli occhi delle persone si gonfiavano di lacrime.
Perché i bosniaci hanno pensato mille volte che tutto fosse per loro
perduto, il loro passato e il paese e la vita; ma altrettante volte, in
modo misterioso, hanno ritrovato in sé la sensazione che l'aggressione
sarebbe stata un giorno riconosciuta in piena luce e castigata, che la
BosniaErzegovina sarebbe tornata quella di prima, resa anche più onorata
da una resistenza senza pari.
Le persone guardavano ora sullo schermo il presidente Alija Izetbegovic
seduto al tavolo americano con Slobodan Milosevic, e si vergognavano per
la sua vergogna.
Il telegiornale bosniaco tagliava maldestramente la stretta di mano fra i
due come se non volesse nascondere la censura, e solo risparmiare agli
spettatori una pena in più.
Le persone si torcevano le mani, fumavano, e scongiuravano Alija di non
firmare, in nome di tanti morti, di tanto dolore.
Poi si annunciava il rischio della rottura del negoziato, e le stesse
persone erano prese dalla paura del peggio.
Era comparso su qualche muro il ritornello: Potpise Alija, neka je ko
avlija - firma Alija, anche se la Bosnia è ridotta alle dimensioni di un
cortile domestico.
Ho sentito una sera una donna, di solito sobria e silenziosa maledire
rabbiosamente l'accordo che avrebbe messo il visto del mondo intero sulla
prepotenza razzista.
La mattina dopo, quella stessa donna mi ha confessato di non aver trovato
sonno al ricordo delle notti passate nel buio gelido della cantina, con i
bambini piccoli affamati, sotto la pioggia di granate: e di aver pregato
perché Alija firmasse. (Poi di nuovo, dopo la firma, quando a nessuna
rete è stato possibile omettere la stretta di mano fra i tre presidenti
sotto il sequestro americano, di nuovo, lei ha pianto quando ha sentito
il nome Srebrenica sulla bocca di Milosevic).
Così è questa pace.
Ingiusta, come era stata oscenamente ingiusta la guerra.
Non è una pace, forse, se non perché è la fine della guerra.
Ma è la fine.
L'hanno preparata per anni la sofferenza dei civili e il coraggio di
combattenti dalle scarpe rotte.
L'ha resa possibile un impegno internazionale che, dopo anni di errori,
complicità e cinismi, ha deciso di farla finita con la tracotanza
impunita dei farabutti di Pale.
Più esattamente, questa pace - l'unica possibile - è figlia dei raid
della Nato.
La guerra ha cominciato a finire quel giorno, com'era chiaro a chiunque
non fosse oscurato dal pregiudizio.
Così stando le cose, la domanda senza scampo che si rivolge non solo al
fanatismo pacifista e all'ipocrisia di sinistra, ma in primo luogo alle
autorità del nostro mondo, è una sola: perché così tardi? La risposta non
è una spiegazione, è una condanna.
Per tutti questi anni avevo sperato con tutto il cuore che finisse questo
macello di vite e di dignità umana.
L'avevo immaginata, la fine.
Avevo sognato qualcosa che somigliasse alla scena dei soldati della prima
guerra mondiale che balzavano fuori dalle trincee gettando via i fucili e
correvano ad abbracciarsi.
Sarebbero stati qui, forse, i civili, le popolazioni cacciate e
deportate, i parenti e i vicini separati a forza, a corrersi incontro
d'un tratto attraverso la terra di nessuno.
Sarebbero stati, nel cuore stesso di Sarajevo, gli abitanti di Grbavica
manomessa dai cetnici e quelli della città assediata a corrersi incontro,
come una doppia fiumana gonfia e inarrestabile, attraverso il ponte
intitolato amaramente alla Fratellanza e all'Unità.
Sarebbe stata la gente di Sarajevo a radunarsi per un accordo segreto in
un'alba, e rompendo blocchi e appostamenti avrebbe portato i suoi
bambini, per una strada davvero blu, a vedere per la prima volta il mare.
Così avrebbe potuto venire la pace.
Non è stato così.
Le macchine da presa della mondovisione hanno girato la scena alla
rovescia.
Popolazioni derelitte hanno preso strade opposte di fuga e di migrazione.
Fra i bambini di Sarajevo e il mare c'è un altro inverno, il quarto, che
le nevicate precoci e le bacche scarlatte dei sorbi scampati annunciano
rigido.
Tuttavia l'accordo di Dayton è, sulla carta, più favorevole alla Bosnia
di quanto chiunque osasse sperare appena due mesi fa.
Nei quartieri che l'accordo restituisce finalmente alla Sarajevo
bosniaca, ragazzi serbi fieri e aizzati marciano gridando che non
cederanno mai - cederanno presto.
Ero arrivato a Sarajevo con una corriera di linea, scortata da tre carri
armati francesi dell'Onu attraverso i quartieri occupati dai cetnici di
Hadzici e Ilidja.
Nervosismo fra i passeggeri e gli scortatori, cattivi ricordi - come
quello del vicepresidente bosniaco assassinato dai cetnici dentro un
blindato dell'Onu scortato da militari francesi...
Lungo il percorso, ragazzini salutano l'autobus, e rispondo agitando la
mano; finché non mi accorgo che hanno le tre dita alzate nel segno
ortodosso che ora suona scherno e minaccia, e resto con la mia mano
mortificata a mezz'aria.
Così viene questa pace.
Una volta fu un drappello di pacifisti italiani a decidere di
attraversare il ponte che spacca in due Sarajevo con le mani alzate e i
colori della pace: idea generosa e malauguratissima.
Uno fu ammazzato a mezza strada, si chiamava Gabriele Moreno Locatelli.
Alle colombe qui si spara; e ai bambini e agli inermi.
Ora non si spara.
Ieri sera, sulla collina di Kovaci, il cielo si è riempito di detonazioni
e di traccianti colorati.
Erano fuochi artificiali, veri
fuochi d'artificio sparati da un disgraziato che festeggiava il
matrimonio del figlio.
Forse, in quel terribile separarsi di popolazioni respinte ai quattro
angoli di questa terra martoriata, c'è, sotto l'infamia della violenza e
la propaganda della paura, una chimica saggia e rassegnata.
Una pazienza immemorabile, una consapevolezza di come si strappi alla
svelta la maglia, e come sia lento e difficile riprodurne la trama.
Così, piano piano, tornerà la vita normale.
Arrivano gli americani, anche donne incinte.
Nelle vetrine di Bascarsa i mazzetti di fiori da sposa sono una
meraviglia.
I tram hanno appena compiuto cento anni, e sono pieni e frequentissimi,
come per recuperare le corse perdute.
Le strade sono singolarmente vuote di belle ragazze: le belle ragazze non
torneranno più.
Prima della neve, la città era coperta di foglie secche.
Solo nel parco della Presidenza le spazzano e le raccolgono in mucchi,
che il vento scompiglia.
Gli spazzini sono uomini in tuta blu, troppo leggera, e donne con i
capelli radi e tinti di un henné rugginoso.
I venditori di libri vecchi vendono sempre gli stessi volumi.
Tutti i libri sono finiti nel fuoco? Dai fruttivendoli ci sono meloni
gialli e ananas freschi; e bacche di sambuco, con cui si fanno bevande
buone per tutto, specialmente per i reni.
Il traffico è appena più fitto, ma resta il coprifuoco, e il cielo
stellato è ancora splendido, e il silenzio della notte assoluto, con
quella strana assenza di spari.
Domenica sera, il conduttore ha introdotto il notiziario così: Voi non ci
crederete, ma praticamente non ci sono notizie.
Questo è un telegiornale del pianeta Marte.
E ha concluso: Dormite bene.
UN ANNO FA L'ORRORE DI SREBRENICA (L'Unità, 11 luglio 1996)
Dal moncherino del ponte i ragazzi di Mostar sono tornati a tuffarsi
nella Neretva verde ramarro, vedova del suo arco in cielo.
Nel centro di Sarajevo ogni giorno si aprono nuovi bar, e i ragazzi
rientrati dall'Italia ostentano le loro magliette firmate ai coetanei
rimasti dentro, con le camicie militari indosso, nonostante la
smobilitazione, per povertà: ma allegri e chiassosi, gli uni e gli altri.
E' la pace, questo? Il traffico stradale, la gente indaffarata, gli
stranieri in cerca di business e il chiasso un po' becero: è la pace?
Nessuno ci scommetterebbe, e molti sono pronti a deplorare la frettolosa
grossolanità dei tempi nuovi.
Dov'è la Bosnia delle granate e dei cecchini, dei giorni epici e delle
notti bucate dalle raffiche? E' dura, mi ha detto una venditrice di
sigarette e cioccolata all'angolo del mercato coperto.
Ma va meglio, ho osservato cautamente, e almeno non sparano.
Solo non sparano, ha detto lei.
Solo questo? Fosse anche così, che enorme differenza.
Non riesco a passare sopra questa differenza, quando vedo come il
tentativo di pace sia vulnerabile e insidiato.
Srebrenica è stata un anno fa.
Un anno fa, la città dell'argento e delle fosse comuni, la città protetta
solennemente dalle Nazioni Unite e violata spavaldamente dalle truppe
serbe, la città dei 60 mila fra
abitanti e rifugiati lasciata alla mercé del generale Mladic e delle sue
bande di sgozzatori.
Tremila uccisi, cinquemila scomparsi, cioè uccisi.
Uccisi gli uomini, dopo essere stati separati dalle loro donne e bambini;
ma uccise anche donne e bambini, braccati in una fuga angosciosa nei
boschi e sui monti.
Teste mozzate e impalate, un uomo forzato a ingoiare il fegato del
nipote, persone costrette a scavarsi la fossa e, per non essere riuscite
a restare immobili sul bordo, fucilate; gli altri, quelli rimasti
immobili, spinti dentro e sepolti vivi.
Era appena un anno fa.
I dettagli, adesso, ci sono tutti: sono trascritti negli atti del
Tribunale dell'Aja, che sta dando prova di una dirittura e di una tenacia
mirabili.
Un anno dopo, ruspe e badili scavano alla ricerca delle grandi fosse
comuni, archeologia contemporanea che ha ormai i suoi metodi e i suoi
esperti, da Buenos Aires all'Africa.
Per la prima volta, l'Ifor protegge con le sue truppe la fatica
meticolosa degli esumatori.
Un anno fa, i satelliti riprendevano le immagini degli uomini ritti sul
ciglio delle fosse, e poi quelle delle cataste di corpi: e le mettevano
da parte.
Un anno fa, i militari olandesi dell'Unprofor, ufficiali e soldati,
assistevano imbelli al massacro, quando non arrivarono a rassicurare e
consegnare di propria mano le vittime al mattatoio.
Com'è lungo, un anno, quando smettono i bombardamenti.
O piuttosto, è incredibile come corra veloce il tempo quando ogni giorno
porta la sua pioggia di granate e di spari.
A Srebrenica, tre anni erano volati sotto le bombe e nella fame e nel
freddo.
Poi vennero i tre o quattro giorni di Mladic.
Alcuni carnefici cetnici avevano indossato le divise dell'Onu, per
ingannare meglio le vittime: o piuttosto per perfezionare il proprio
divertimento.
I coltelli per sgozzare furono usati infaticabilmente, intanto che
convogli di camion scaricavano senza sosta i prigionieri: combinazione
formidabile di modernità e tradizione.
Stupri a volontà, naturalmente.
Il generale Mladic non si contentò di selezionare gli uomini da
assassinare e di spedirli al macello: li arringò pubblicamente.
Karadzic non c'era: se ci fosse stato, avrebbe letto ai morituri una
propria ode.
Nel nostro mondo, l'orrore e il pianto attraversarono gli animi.
Si veniva da discussioni che sarebbero suonate tragiche se non fossero
state scolastiche sulla comparabilità degli sterminii nei rotocalchi.
Qualcuno ritenne di dover dubitare che le notizie di Srebrenica fossero
vere, di non dover credere alla voce rotta e agli sguardi allucinati dei
fuggiaschi.
Di quelli, una donna ha vagato ancora fra rupi e foreste fino a qualche
giorno fa.
Del resto, lasciate che passi una ventina d'anni, e si troverà chi
sostenga che Srebrenica non è mai esistita, e ne riceva una cattedra in
premio.
Oggi, nell'anniversario, un aereo speciale parte da Vienna e porta a
Srebrenica la regina di Giordania, l'ambasciatrice americana in Austria,
la commissaria europea Emma Bonino, altre signore e inviati di
televisioni e giornali.
Incontreranno a Tuzia tremila profughe da Srebrenica e dagli altri gironi
infernali, le ascolteranno, parleranno loro.
Lasceranno doni.
Nel pomeriggio saranno già di ritorno.
Strana spedizione, come un corteo di re magi femminile, che segue, con un
po' più di ritardo che nell'Epifania, il luogo della strage degli
innocenti indicato dalla cometa dei satelliti spia e dalle foto aeree.
Nella strage di un anno fa, e nella fuga spaventosa fra boschi e pietraie
minate, molti dei perseguitati decisero di togliersi la vita.
Nelle testimonianze del Tribunale si ricordano decine di questi, che si
esita a chiamare suicidi.
Di una fra loro arrivò l'immagine fin sulle nostre pagine.
Era una giovane donna, qualcuno la fotografò impiccata a un albero.
Veniva da Srebrenica, era quasi in salvo, nei pressi di Tuzla.
Ma in salvo è un modo di dire.
Per lei la strada era finita lì.
Non sono riuscito a sapere come si chiamasse, e neanche chi fosse il suo
fotografo.
Un inviato del Messaggero, Valerio Pellizzari, era risoluto a
rintracciarli: non so se sia riuscito.
Non mi tolgo di mente quell'immagine.
Pochi giorni prima, a Firenze, si era appeso a un albero Alex Langer, uno
che si era messo in cammino per Tuzla tante volte, dalla parte opposta.
Storie diverse, s'intende.
Però si erano impiccati a piedi scalzi, Langer, e la ragazza di
Srebrenica della foto, e questo era commovente come una misteriosa
parentela.
E già passato più di un anno, ed è di nuovo estate.
APPENDICE.
LE GRANDI PAURE DELLA GIA'-SINISTRA (L'Unità, 6 febbraio 1993)
Ho letto l'irritante articolo di Enzo Bettiza sulla Stampa ("Una risata
seppellirà la sinistra").
Cose analogamente irritanti ha scritto spesso, sullo stesso giornale,
Barbara Spinelli. Mi sono chiesto se non avesse ragione.
Non nel tono, che mi sembra soddisfatto, né nella descrizione del regime
italiano come di un leninismo lottizzato, che è una battuta: piuttosto
nell'accusa al pensiero di sinistra - o: già di sinistra - di restare
paurosamente al di sotto dei problemi del tempo.
Questo mi sembra vero.
E non perché, come deplora Bettiza, a Gramsci sia succeduto Michele
Serra, o Serena Dandini. (Un giorno prima un fitto editoriale di Massimo
D'Alema sull'Unità si imperniava su una citazione gramsciana).
Forse sbaglio per ignoranza di buona parte della pubblicistica corrente,
che ho mancato di seguire, ma ho l'impressione che ci sia fra le persone
già di sinistra una reticenza, quando non una rinuncia intera, a
misurarsi con la novità e la portata di alcune questioni.
Non rimpiango forme globali di pensiero - pensieri forti, questi forse
sì: insomma pensieri proporzionati alle cose.
Inclinando a ritenere che la sinistra si sia impercettibilmente
trasformata in uno stato d'animo, e in ciò stia la sua dannazione e la
sua salvezza, oltre che una spiegazione del suo riparare in forme di
espressione lunatiche come la satira e il moralismo, credo che la
manifestazione più notevole della debolezza su cui Bettiza infierisce non
sia la pavidità o il silenzio degli intellettuali, bensì lo smarrimento
delle persone, pubbliche e comuni.
E' la stessa conversazione di sinistra - lasciatemi dire così - che si è
interrotta e spezzata.
Cadono iscrizioni e vite.
Il segretario organizzativo del P.D.S. emiliano, uomo illibato di 49
anni, che decide di tornare al suo mestiere di conducente di autobus:
ecco una figura chiave della sinistra.
Immagino con quanta invidia guardino a lui gli indagati per tangenti.
Il silenzio degli intellettuali sarebbe il male minore.
O un bene.
Se c'è una parola dalla quale bisognerebbe dimettersi, per ragioni
teoriche e soprattutto di stile, cioè supreme, è l'aggettivo organico.
(Il principale difetto del linguaggio politico di Leoluca Orlando e del
suo contagio è nella predilezione per due parole: "organico" e
"garante").
La questione non riguarda le sistemazioni intellettuali e i loro autori
di professione - e mi pare che Bettiza abbia gioco facile anche nel
deridere il ricorso feticistico a degni professori tedeschi, da
Dahrendorf a Nolte (quanto Nolte!) chiamati alla rinfusa a far da
supplenti ai loro colleghi italiani.
La questione riguarda argomenti essenziali e concreti che tuttavia non
entrano nell'ordine del giorno dell'attenzione e della riflessione
comune.
La guerra nella ex-Jugoslavia è il più grave di questi argomenti.
In nessuna sede, o quasi, si parla ad alta voce di ciò su cui a bassa
voce o dentro di sé ci si tormenta (non è vero infatti che ci sia
disinteresse o fatalismo di fronte alla Jugoslavia).
I giornali danno per significative le opinioni divergenti del ministro
Andò e del ministro Colombo.
Non risulta che altri, sopra o sotto di loro, se ne occupi.
La sinistra è solidale, preoccupata, ansiosa, ma resta impigliata dentro
una trama vischiosa di principii e slogan ereditati - la sovranità
statale, la non ingerenza, nei casi migliori il pacifismo.
La guerra del Golfo, invece di ravvicinare i termini dei problemi, ha
rinfocolato l'illusione di schieramenti dati una volta per tutte -
pacifisti e interventisti, quando non imperialisti e terzomondisti.
Il papa parla di diritto di ingerenza, e sembra tradire il pacifismo
assoluto della guerra del Golfo.
I pacifisti, beninteso, sono gli unici o quasi ad adoperarsi francamente,
a manifestare, a peregrinare temerariamente a Sarajevo, ad allestire
camion di provviste (anche in questo, con una differenza di efficacia fra
l'Italia e la Francia, per esempio, pari, e non per caso, alla differenza
del reciproco retaggio coloniale): e fanno male Bettiza, Panebianco e gli
altri che risollevano la denuncia contro un pacifismo suddito di Mosca e,
ora che Mosca è morta, suddito del suo fantasma.
Ma chi, di fronte agli stupri, all'assedio e all'agonia di una città (di
tante città), ai mutui massacri, ai campi di concentramento e ai disegni
di genocidio per volontà di espansione territoriale, di virilità
guerriera, di nazionalismo - chi non riesca a persuadersi che bisogna
sempre e comunque rinunciare all'impiego della forza, e desideri sapere
se e a quali condizioni l'uso della forza sia possibile: in quale nome,
con quali fini e bersagli, con quali costi chi sente così, cioè una gran
parte delle persone, che non siano militanti di qualche movimento
specializzato, non ha trovato alcuna sede per provare a rispondersi.
In un mondo provvisoriamente monopolare e multipolare, in cui è
definitivamente (e provvidenzialmente) caduto un sistema di azioni e
reazioni automatiche come quello delle due superpotenze, fatalmente
minacciato per mano umana così dai conflitti locali come dalla
consumazione planetaria, fin dove valgono ancora le nozioni tradizionali
di sovranità statale, o i diritti di veto nelle organizzazioni mondiali?
Il diritto all'ingerenza - "dovere" dell'ingerenza, così lo chiamavano a
proposito della fame i premi Nobel raccolti da Pannella già anni fa non
estende sul piano internazionale la necessità di una funzione di polizia
e di giustizia oggi incardinate su una base statale e presunta nazionale?
E quanto al rischio di un rinnovato colonialismo, esso non è già in larga
misura una realtà? E non è vero viceversa che l'intervento contro fame,
carestie e decimazioni politiche ha dovuto da tanto tempo, e sempre più,
coprirsi dietro il titolo nobile e derisorio di umanitario, e garantirsi
finzioni capaci di eludere le legittime quanto losche sovranità locali?
La stessa storia del colonialismo vecchio e nuovo, così continuando le
cose, verrà contesa ai difensori dei diritti, della tolleranza e delle
diversità da una destra sempre uguale, sempre persuasa della superiorità
di razza e di civiltà, i cui ritorni di fiamma non hanno una virtù
propria, ma la trovano fin troppo nell'insipienza della sinistra e dei
suoi esanimi diseredi.
Ecco che ogni situazione, ogni concreto problema costringe a fare una
scelta, a dare una concreta risposta: ciò che è molto più difficile e
arrischiato che non la divisione fra neutralisti e interventisti.
Bombardare o no le basi di artiglieria pesante che tengono sotto tiro
Sarajevo? Ecco una buona domanda per gli intellettuali e per le altre
persone, e non solo per gli ufficiali di stato maggiore, o per i ministri
Colombo e Andò.
Ho cercato con i mezzi che avevo di sapere e capire qualcosa di più su
quello che succede nella ex-Jugoslavia, e mi sono da tempo persuaso che
occorra intervenire in soccorso di Sarajevo; che la schiacciante
superiorità armata internazionale debba essere impiegata per aprire le
vie di accesso e di uscita da Sarajevo, per bombardare aeroporti e
installazioni di armi pesanti, e vie di comunicazione e di rifornimento
delle bande armate serbe; che ciò debba avvenire per iniziativa delle
Nazioni Unite e per mano, se possibile, della Nato, che comprende un
protagonista decisivo della trama balcanica come la Turchia.
Penso questo.
Forse sbaglio.
Purché si risponda al grido di soccorso che viene da popolazioni civili
minacciate di genocidio.
A questo punto sono le cose, e da tempo.
Prevenire una tragedia come questa sarebbe stato necessario.
Non è avvenuto.
Impedirne o ostacolarne e punirne seriamente la prosecuzione - da parte,
oggi, in Bosnia-Erzegovina, soprattutto delle bande serbe; benché
riemerga una mira croata alla spartizione del paese sulla pelle dei
musulmani e di ogni sacca residua di convivenza interetnica - è
necessario per sé; è necessario, ormai, per una dissuasione delle
sopraffazioni e delle guerre civili che covano nel Kosovo o nella
Vojvodina o nella Macedonia.
Nessun intervento militare potrà restituire pace e dignità civile alla
ex-Jugoslavia.
Potrà salvare vite, sventare stupri, ostacolare nuovi crimini
irreparabili.
La sinistra comunista (e non solo) di un tempo era intrisa di una
venerazione della forza armata: il sovietismo internazionale ne fu
guastato nell'anima.
Quando il P.C.I. volle completare il proprio distacco da quelle radici -
e da uno statalismo illiberale che era stato il corollario del culto
della forza - prima, in verità, del crollo dei comunismi al potere, non
pochi dei suoi sentirono che la conversione necessaria investiva
un'intera formazione culturale.
Venne allora un'attenzione inedita, di cui l'Unità stessa fu buona
ospite, alla non violenza, a volte dilettantesca, altre volte
profondamente coinvolta.
Gli avversari del P.C.I., e poi del P.D.S., ebbero il torto di ignorarlo
e di attribuire a un perenne pacifismo a senso unico, strumentale e
antioccidentale, l'inerzia e il disagio di persone che si misuravano con
una difficile conversione filosofica e perfino religiosa, e che si
attestavano, a scanso di errori (quando non di impopolarità, che è altro
affare) su un pacifismo astratto e di maniera.
Astratto, dico, e non di principio, perché un pacifismo di principio
fermamente professato e praticato, che non è questione di movimenti e di
organizzazioni, ha dalla propria una forza indiscutibile, e si nutre di
gesti audaci e sacrifici senza riserve che ne compensano la rinuncia a
un'efficacia diretta.
A sua volta il movimento ecologista - che del resto ha offerto un
ricambio cruciale al disarmo della sinistra comunista - ha dalle origini
fissato una coincidenza "a priori" fra ripristino di un rapporto non
distruttivo con le risorse naturali e il pacifismo nelle relazioni
internazionali.
Giustamente, perché nella comprensione della sventatezza brutale con cui
la nostra cultura si è abituata a manipolare la natura sta la radice di
una trasformazione non violenta.
Frettolosamente e superficialmente, quando l'ecopacifismo è diventato una
formula propagandistica, ha ereditato - ecco un altro paradosso - un
terzomondismo politico, distratto e a volte cieco di fronte alle violenze
e alle tirannidi indigene.
L'ecologismo, il pensiero che muove dalla consapevolezza della
distruzione del pianeta per l'opera "pacifica" dell'uomo, è il primo ad
avvertire la necessità fatale di un governo del mondo.
Le piogge acide portate in giro dal vento oltre le frontiere di Stati e
di sistemi, o la nave giapponese Akatsuki Maru che porta per acque non
territoriali la sua tonnellata e mezzo di plutonio, mettendo lei sola a
repentaglio la terra intera, sono esempi eloquenti dell'anacronismo
impotente o arrogante delle vecchie sovranità.
Ma l'arcipelago ecologista non può pensare che il pacifismo sia una
condizione statutaria capace di esentare dal ricorso alla forza, di
fronte a Varsavia e ad Auschwitz, e a ciò che prepara Varsavia e
Auschwitz e Sarajevo.
Senza di ciò, ad onta della dedizione e delle fatiche intelligenti di
tanti, ecologismo e pacifismo continueranno ad apparire alle vittime
lussi di chi può permetterseli.
E si potrebbe aggiungere che dal modo di misurarsi con il governo del
mondo dipende anche la prevenzione di quella sfrontata paura del
mondialismo che rianima il nazionalismo di destra e l'antisemitismo
manesco dei suoi giovani squadristi.
DICIAMO NO CON UN DIGIUNO (Cuore, 22 marzo 1993)
Non so più di quello che si legge sui giornali di questo generale
Morillon, comandante delle forze delle Nazioni Unite, che da qualche
giorno è trattenuto, o si è trattenuto, a Srebrenica, per sventare o
dilazionare un altro enorme massacro, e cercare di ottenere che passi
qualche camion di viveri e medicine, oltre che concordare il maledetto
flusso etnico fra Tuzla e Srebrenica.
Mi illudo che sia vero che Morillon abbia deciso di propria volontà di
restare lì.
Oppure che l'abbiano preso in ostaggio, e che questa violenza di vittime
disperate sia stata per lui (ne deve avere viste di cose, da quando è lì
con quel compito) la spinta, l'occasione di cui sentiva il bisogno per
forzare a sua volta l'impotenza della sua missione, per mettersi in carne
e ossa fra aggressori e aggrediti: interposizione, si chiama
tecnicamente.
Insomma, l'ho invidiato.
Niente nella storia europea dei nostri anni è paragonabile all'orrore
della guerra nella ex-Jugoslavia, nessuna vergogna e frustrazione è
paragonabile a quella che si prova ad assistervi di qua: senza neanche la
decenza di uno sforzo, di una discussione seria: abbiamo ben altri
problemi, noi...
Si vorrebbe essere papa, si vorrebbe essere generali francesi.
Ora la vostra decisione di dedicare un numero del giornale alla ex-
Jugoslavia ben venga.
Ma non è una di quelle occasioni in cui si può cercare di mettere a
frutto un seguito, una domanda, una disponibilità? Fate bene voi di Cuore
a ripetere che non siete un partito né una bandiera né il surrogato di un
partito e di una bandiera.
Gli stessi partiti, vecchi o aspiranti nuovi, farebbero bene anche sulle
questioni interne e ordinarie a non continuare a ritenersi titolari di
risposte uniche e disciplinari a problemi complicati che possono lasciare
le persone dubbiose o divise.
Sulla stessa ex-Jugoslavia una volta che si discutesse davvero verrebbero
fuori divergenze accanite, vere o gratuite.
Ma almeno su una cosa tutti quelli di buona volontà e che si torcono le
mani dovrebbero essere d'accordo: che c'è da tempo una situazione fatale
di legittima difesa, di grida di soccorso inascoltate, e che almeno
occorra testimoniare che quel grido è stato ascoltato e che viene ripreso
e ripetuto.
Molte persone lavorano, raccolgono denaro, viaggiano, si adoperano per
curare e salvare vite, accolgono profughi, esigono dalle autorità che
almeno tengano fede ai loro impegni proclamati.
Mi chiedo se non si può fare qualche altra cosa, la più inerme e la più
responsabile, e se voi non volete prendervi la briga di immaginarla.
Ho l'esperienza di un digiuno collettivo, ho visto quanta forza dà a chi
ne partecipa e quanta ne comunica agli altri.
Non si potrebbe farlo per la causa più grave e terribile che abbiamo di
fronte, per dire che siamo con tutte le vittime della guerra e delle
guerre statali e civili nella ex-Jugoslavia? Penso che molte, moltissime
persone potrebbero volerlo fare: che ne verrebbe una dimostrazione mai
vista finora di solidarietà, e un modo di far sentire a chi ne ha
l'autorità e i mezzi che questo strazio contagioso - contagioso nel
Kosovo, nella Macedonia, nei Balcani, "e da noi" deve essere fermato.
Che cosa ne pensate?
NON VOGLIAMO MANGIARE PIU' GUERRA (Cuore, 10 aprile 1993)
Un digiuno ha una forza enorme: esso migliora chi lo compie, parla un
linguaggio efficace e pulito agli altri, dispone alla condizione più
favorevole per perseguire scelte giuste, a cominciare dal sostegno alle
iniziative volontarie di solidarietà già attive, con qualunque
ispirazione ideale o religiosa.
Fra i promotori ci sono probabilmente opinioni e sentimenti diversi, né
si sono consultati su questo: alcuni vorrebbero che la legittima presenza
internazionale nelle regioni in guerra venisse dotata di una forza armata
adeguata a imporre la pace e punire gli aggressori; altri sono contrari o
diffidano di ogni impiego della forza armata.
Altri pensano che le cose siano andate troppo oltre per giustificare
queste divisioni, e che siano i fatti compiuti a imporre scelte che in
passato avrebbero potuto e dovuto essere prevenute.
Ancora, alcuni ritengono che vadano denunciate le diverse responsabilità
nelle aggressioni, nei massacri e nelle violenze; altri temono che la
denuncia delle responsabilità sia oziosa e rischi di essere strumentale.
Ma tutti sono d'accordo sulla necessità di una solidarietà che provi
almeno ad avvicinarsi all'eccezionalità della sofferenza umana e della
devastazione civile che ci avvengono accanto.
Ci piace l'idea che il digiuno possa essere offerto - come si sottoscrive
del denaro, o si inviano medicinali - alle persone e ai gruppi che nella
Bosnia martoriata e in tutti gli stati della exJugoslavia si adoperano
per far finire la guerra, per punire i criminali di guerra, per
riannodare i fili di una convivenza civile.
Sosteniamo chi lavora a una conferenza civica di quei rappresentanti
autorevoli o di base della ex-Jugoslavia che si oppongono alle
aggressioni, mirano a sventare nuove guerre, preparano la pace.
I loro obiettivi possono diventare i nostri, essi possono farsi forti del
nostro appoggio.
La scorsa settimana a Verona si è tenuto con questa intenzione un
incontro significativo fra ex-jugoslavi di tutte le provenienze, fra i
quali il presidente del parlamento bosniaco.
Intendiamo condurre il digiuno a termine, escludendo ogni oltranzismo, e
lasciando a ogni aderente di stabilire e comunicare la durata della
propria partecipazione (ci aspettiamo che ciascuno sia rigoroso con se
stesso: prendere sul serio il proprio digiuno serve a prendere sul serio
il problema che si affronta); e chiedere a tutte le persone di buona
volontà di unirsi al digiuno a turno, in modo da assicurargli una lunga
durata - che ne faccia un fuoco acceso, fino a che il martirio di quei
paesi non sia arrestato - e una partecipazione collettiva tale da colpire
e contagiare le coscienze.
Può sembrare che questa iniziativa sia intempestiva o debole di fronte al
rumoroso prevalere di problemi drammatici nel nostro paese, come in altri
dell'Europa occidentale: a noi sembra il contrario, che senza
sottovalutare la gravità dei nostri guai e l'impegno ad affrontarli, sia
tanto più necessario conservare il senso della misura delle ferite
inflitte all'umanità e anche il senso dello spirito migliore che da una
più pronta e forte solidarietà può venire alle nostre proprie cose.
LETTERA APERTA AI PACIFISTI ITALIANI (Mandata al Manifesto e non
pubblicata, gennaio 1993)
Care amiche e amici, da quando un intervento internazionale in Bosnia è
sembrato meno improbabile, avete moltiplicato le denunce e gli appelli
contro ogni forma di intervento armato.
Sono ansioso di sottoporvi alcune considerazioni.
Temo infatti che da un momento all'altro la solidarietà che cerchiamo
insieme di muovere con le vittime della guerra e della violenza nella ex-
Jugoslavia, pianticella ancora fragile, vada amaramente in pezzi.
Nei giorni scorsi, a proposito del digiuno collettivo, ho avuto più
occasioni di discutere con voi, e di mettere alla prova le cose che per
mio conto avevo pensato.
Avevo pensato questo.
Che le obiezioni, quando non gli attacchi più malevoli, al pacifismo,
ricorrenti sulla stampa italiana, sono per lo più pigre e stupide e
pretestuose.
Così, per esempio, l'obiezione di non essersi mobilitati contro la guerra
nella ex-Jugoslavia.
Il vero scandalo è la disattenzione e il silenzio sotto i quali è passata
la preziosa moltitudine di azioni compiute volontariamente da cittadini
amanti della pace, rispettosi degli altri e pietosi delle loro sofferenze
e mortificazioni, capaci di mettersi concretamente al soccorso di chi ne
ha bisogno.
Seimila italiani, si calcola, sono stati nella ex-Jugoslavia a questo
fine.
Un numero enorme e diffuso di persone, gruppi e movimenti di ogni
ispirazione si è dedicato alla raccolta e all'invio di aiuti materiali,
all'organizzazione di campi e ospitalità, all'accoglienza di feriti e
offesi, all'adozione a distanza di profughi, alla costruzione di ponti -
ponti radio, corrispondenze, fogli di informazione - fra persone separate
a forza e isolate, all'appoggio alle minoranze schiacciate perché
potessero riprendere la parola.
Questo enorme e quotidiano lavoro, di giovani e adulti, uomini e donne -
donne soprattutto, credo - reso possibile dalla vicinanza della ex-
Jugoslavia, ma non solo da quella, segna la vera differenza dal più
teatrale ma anche più parassitario scontro di schieramenti al tempo della
guerra del Golfo.
Allora tutti furono impotenti, e quasi tutti si persuasero, o vollero
persuadersi, che l'alternativa fra interventismo e pacifismo sia data una
volta per tutte, ed esaurisca una volta per tutte il problema.
Quell'equivoco, e la spettacolarità delle rotture che allora si
consumarono, si sono trascinati ancora a proposito della ex-Jugoslavia
nella sorpresa scandalizzata per il presunto voltafaccia di Giovanni
Paolo secondo, dopo il suo presunto pacifismo al tempo del Golfo.
Questa volta la vera divisione è passata fra chi ha avvertito la gravità
di quello che succedeva nella ex-Jugoslavia, ne ha sentito l'angoscia e
la minaccia, e ha provato a fare qualcosa, e chi ha preferito voltare la
testa dall'altra parte, compresi alcuni antipacifisti di professione.
La confusione e la reticenza nei confronti della catastrofe della
exJugoslavia sono state infatti impressionanti.
Partiti che continuano a ritenere, vecchi o nuovi che si professino, di
dover imporre disciplinarmente ai propri seguaci una fede in tema di
meccanismi elettorali o di ministeri dell'agricoltura si sono guardati,
non dico dal prendere una posizione, ma dal discutere francamente della
guerra dirimpetto.
Giornali che cavano sanguigni dibattiti dalle zucchette televisive della
sera prima si sono guardati, con rare e personalissime eccezioni, dal
mostrare che cosa fosse in ballo nella ex-Jugoslavia, e quali fossero le
scelte possibili: i più ardimentosi hanno scelto di tradurre dal francese
o dall'inglese, sicché abbiamo saputo prima o poi che cosa pensano che si
debba fare per Sarajevo Glucksmann e Popper, Brzezinski e Lévy - e ci
chiediamo ancora che cosa ne pensiamo noi.
Sopraffatta dalla recita angosciosa dei tempi del Golfo, e compiaciuta
dei propri guai così propri, così intestini tangentopoli, la rivoluzione
italiana - l'Italia ha ignorato la exJugoslavia, o l'ha trattata con una
scarsa combattività orribile.
Allo stesso tempo, "business as always", il meccanismo dell'informazione
andava avanti, e rovesciava nelle case la sua dose minima giornaliera di
passanti trafitti dai cecchini, di bambini scannati, di vecchie dalla
testa coperta e dal mento dignitosamente tremante.
Gran lezione.
E' penoso e deformante il ricorso ai paragoni senza il quale si direbbe
che non siamo capaci di designare l'orrore - Sarajevo come Varsavia, la
ex-Jugoslavia come la guerra di Spagna.
Ma quando a fare il confronto è un uomo come Marek Edelman, lo scontroso
vicecomandante dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, superstite di
un'epopea che non ebbe speranza, il quale, senza molte speranze, credo,
dice, guastando la celebrazione ufficiale del cinquantenario del ghetto,
che Varsavia si sta ripetendo a Sarajevo ancora una volta
nell'indifferenza del mondo, allora non si può fare a meno di
interrogarsi.
Perché dello sterminio degli ebrei l'Occidente e le sue autorità e la sua
gente comune protestarono a lungo di non aver saputo, di non aver visto
né potuto immaginare: ed era falso, e fuorviante.
Ecco che noi assistiamo quotidianamente allo spettacolo della brutalità e
della "pulizia etnica": non potremo dire - il papa l'ha appena ripetuto -
di non aver visto.
Dunque "non è questo, non è mai stato questo".
Il difetto d'informazione può ottenere lo stesso effetto che l'eccesso di
informazione.
C'è un modo di giustificare la rimozione, di volta in volta cinico le
ragioni della geopolitica, il sacro egoismo - o accorato - ah, la belva
umana che sempre torna a sollevare il capo! Questo modo si alimenta di
formule e pregiudizi allarmanti e consolanti: la feroce bellicosità
serba, e l'intrico balcanico e tutto ciò che serva ad allontanare e
confinare ciò che è insidiosamente vicino.
Sarajevo, i musulmani di Bosnia, diventano essi stessi figurine estranee
e antiche schiacciate su macerie d'altro mondo.
A leggere le lettere da Sarajevo, curate da Anna Cataldi, si resta
sgomenti: è così infatti, Sarajevo, così oltraggiosamente poliglotta, e
raffinata, e "occidentale" - e così stupefatta: "A noi sembra impossibile
che nessuno possa aiutarci, e non riusciamo a crederci".
Sarajevo, la città di Kusturica, prima che andasse a Hollywood, e dei
suoi film in cui il ragazzo della Lega dei comunisti cercava la propria
strada cantando "Con ventiquattromila baci".
E' vicina davvero la Jugoslavia, in questo senso: che è una leggera
pellicola quella che chiamiamo civiltà, e che siamo abituati a dare per
scontata, per una seconda natura: leggera, e premuta in tanti punti, e
pronta a lacerarsi, e allora niente di ciò che sappiamo sarà più in grado
di ripararla.
Che cosa di tutto il lavoro oscuro e formicolante del pacifismo fattivo e
delle associazioni umanitarie è in grado di fare i conti con la questione
di "metter fine alla guerra"? Questa domanda non può essere elusa.
Essa non offende l'efficacia del soccorso, o della premura silenziosa con
cui persone diffidenti dell'autorità costituita, degli stati maggiori,
della diplomazia degli Stati, si aggirano ai bordi del campo di battaglia
per dare sepoltura ai caduti.
Essa non ignora che la fatica di riannodare i fili spezzati, di rimettere
in comunicazione le persone della stessa famiglia e le persone delle
etnie diverse e nemiche, la fatica della diplomazia della gente, è
indispensabile alla prospettiva di una riconciliazione e una
pacificazione effettive.
Ma la questione resta, nuda e secca: "come metter fine alla guerra, ai
bombardamenti, ai cecchinaggi, agli stupri e alle deportazioni?" Il
pacifismo non può sottrarsi a questa domanda, perché nessuno può
sottrarvisi.
Questa domanda significa oggi una sola cosa: che cosa può e deve fare la
comunità internazionale, le sue istituzioni comuni, i suoi governi.
Mi sono trovato in questi giorni in una strana contraddizione.
Da una parte amici radicali sospettosi che l'iniziativa del digiuno
sacrificasse a un'unità senza principii la chiarezza nella denuncia della
responsabilità e l'affermazione di una pace secondo il diritto.
Dall'altra amici pacifisti preoccupati di prestarsi a una solidarietà
comune con persone inclini all'impiego di una forza armata per imporre la
pace e la legalità internazionale.
Mi è sembrato di riconoscere eredità passive di ostilità cadute.
E' caduta una motivazione dell'accusa di strumentalità mossa storicamente
al pacifismo, di essere al soldo del comunismo e dell'Unione Sovietica.
Il pacifismo a senso unico, la demonizzazione dell'Occidente eccetera:
tutte cose serie.
Ma l'Unione Sovietica non c'è più, e quel che ne resta non ha un soldo.
Certo l'Occidente c'è ancora, e la sua demonizzazione può resistere.
Ma si ammetta almeno che sia diventata più ardua.
D'altra parte sento da mesi sollevare l'allarme contro le mene delle
potenze e i disegni di intervento militare nella ex-Jugoslavia: mentre da
mesi, da anni presto, le potenze occidentali nel loro insieme e ciascuna
per sé, e perfino i loro stati maggiori si guardano con ogni mezzo
dall'impegnare un dito nel macello jugoslavo.
E' un fatto che i muri di pietra cadono più in fretta di quanto cadano i
muri interiori, dei pregiudizi e delle ideologie.
Una serie di mezze verità sono diventate il pretesto consolidato per
eludere la questione di una forza internazionale che mettesse fine alla
guerra: così, per esempio, la tesi che all'origine dell'esplosione di
violenza stia il precoce e maligno riconoscimento della Slovenia e della
Croazia da parte della Germania. (La Germania sta prendendo il posto
degli Stati Uniti nella paranoia superstiziosa di certi bravi cattolici e
di certa brava gente di sinistra).
E' possibile, e probabile, che quell'affrettato riconoscimento sia stato
un errore di miopia, di sottovalutazione - e magari, in qualcuno, un
calcolo malintenzionato.
E' assurdo che venga usato come l'alibi di una impotenza e di una viltà.
Oltretutto, nel caleidoscopio balcanico, si ritrovano gli stessi Stati e
gli stessi potentati degli armamenti e della droga dietro le parti più
insospettabilmente opposte.
I radicali, se ho capito, hanno ritenuto di distinguere alla radice fra
non violenza e pacifismo, tenendosi la prima e rigettando il secondo.
Di questa distinzione non riesco a persuadermi, se non sul piano
ristretto del giudizio sul pacifismo storico.
Su quello delle idee, trovo che non violenza e pacifismo siano, se non
sinonimi, termini contigui, e che per lo stesso Gandhi (contraddittorio
con se stesso, si sa, e noncurante di esserlo) il pacifismo fu nei
rapporti fra gli Stati quello che la non violenza era nei rapporti fra
gli individui.
Se così fosse, ai radicali direi che quel pacifismo storico ha perduto
gran parte delle sue radici, e dunque bisogna lavorare a superare una
divergenza accanita e dannosa.
D'altra parte il pacifismo corrente, più o meno alla buona, fa proprio un
ripudio morale del ricorso alla forza che lo trasforma ai propri occhi,
anche quando è laico e di sinistra e reduce recente da ideologie opposte,
in un movimento religioso.
Ora il pacifismo religioso, assoluto, quello disposto al sacrificio,
oltre che di sé, del proprio prossimo, per rifiuto e orrore di ogni
compromissione con la violenza, è rispettabile e venerabile a due
condizioni: che ci si senta davvero capaci e disposti a farlo proprio; e
che si ammetta che esso può essere una conversione personale, non una
connotazione collettiva, di un partito o di un movimento. (Se non fosse
così del resto non si spiegherebbe la comparsa, nei movimenti pacifisti,
degli stessi spiriti di gruppo, rivalità, gelosie, faziosità, che
affliggono le altre forme di politica organizzata).
Io non so fare questa scelta, non ne sono capace e non le sono disposto:
ammirerei bensì chi la incarnasse - così come ammiro Gandhi, compreso il
Gandhi che chiamava a rispondere al nazismo con la non violenza, ma mi
sarei opposto con ogni forza, spero, a quell'appello.
Del pacifismo vero, quello della vita e della storia ordinaria e non dei
quadretti edificanti, deve far parte la consapevolezza che in una
condizione in cui l'esplosione della violenza non è stata prevenuta, né
arginata, e ha avuto tempo e modo di dilagare, e di abbattersi sugli
inermi e gli innocenti, è la vita e l'umanità degli inermi e innocenti
che occorre prima di tutto salvare con ogni mezzo legittimo.
Ci sono altre abitudini che ostacolano questa ammissione.
La non ingerenza, per esempio, la non interferenza, il rispetto per la
sovranità nazionale...
Del diritto - e dovere - di ingerenza, la generalità del pubblico ha
ritenuto che si trattasse di una escogitazione del papa, che ne parlò a
proposito della Bosnia dalla sua finestra di piazza San Pietro.
Si trattava, al contrario, di un principio sancito da tempo nel diritto
internazionale.
Da tempo ci siamo accorti di vivere in un mondo diventato troppo piccolo
e troppo minacciato per arrestare il suo diritto alle frontiere delle
sovranità statali: si tratta di scegliere fra mondialismo di mera potenza
combinato con l'anarchia delle armi nucleari vendute al dettaglio alle
bancarelle di Samarcanda da una parte, e governo legittimo del mondo
assicurato dalle Nazioni Unite dall'altra.
Quest'ultimo deve essere dotato e autorizzato a una forza, esattamente
come, all'interno di uno Stato, una polizia.
Si dice: ma le Nazioni Unite così come sono non possono svolgere questa
funzione, occorre riformarle.
Certo.
Nel frattempo, mentre Srebrenica e Tuzla e Zepa cadono, si ricorra a
queste Nazioni Unite.
Si dice: accetteremmo un intervento delle Nazioni Unite, non uno degli
Usa, o della Cee, o della Nato.
Ma se gli Usa, o la Cee, o la Nato, intervenissero su mandato delle
Nazioni Unite, dov'è la differenza? Si protesta di meno quando le Nazioni
Unite si lasciano togliere dalle mani il vicepresidente musulmano della
Bosnia e assistono imbelli al suo sgozzamento, vergogna indicibile.
Si è detto lo stesso, e ancora lo si ripete pigramente, a proposito della
Somalia.
Passano inosservati i titoli come quello dell'altro giorno sull'Unità: I
marines se ne vanno, carestia e violenze sono pressoché finite...
Perché il punto, se non avessimo invertito pensieri e responsabilità, non
dovrebbe essere quale intervento, e con quale firma, noi bravi desiderosi
di pace siamo disposti a sopportare, ma quale intervento ci battiamo per
rivendicare.
Stiamo da tempo manifestando contro la minaccia di un intervento militare
che le vittime invocano e i militari non hanno nessuna voglia di
compiere! Perché "in Bosnia non c'è il petrolio"? Forse: ma anche questa
è una spiegazione troppo facile.
Perché in Bosnia le vittime sono musulmane? Questo è già più vero,
probabilmente, e sicuramente più importante.
I musulmani di Bosnia sono le vittime ideali, per l'Europa.
Islamici, e insieme slavi europei e simili agli altri slavi.
Cittadini come noi, solo dimezzati, come è bene che siano gli islamici.
Pregiudizio così disumano, così umano! E così accecante, anche, per
un'Europa confinante con la polveriera balcanica e con la polveriera
caucasica, sulle quali si allungano le ombre espansionistiche di Turchia
e Iran.
La Turchia fa parte della Nato, per giunta.
Noi alziamo le spalle, e tutt'al più bruciamo qualche famigliola turca
alla periferia di Amburgo.
I musulmani di Bosnia non sono meno feroci dei loro assalitori, quando
capita loro di tener il coltello dalla parte del manico, si dice.
Già, ma intanto non è capitato loro di avere il coltello dalla parte del
manico, e anzi il nostro accurato embargo ha seriamente funzionato
nell'escluderli dalla fornitura di armi, mentre gli altri ne erano pieni.
Inoltre, abbiamo smesso da tempo - per questo, col Vietnam è davvero
finita un'epoca - di immaginare che si debba stare dalla parte delle
vittime di oggi perché saranno gli uomini nuovi e giusti di domani.
I musulmani di Sarajevo non salveranno il mondo: semplicemente, il mondo
deve salvare i musulmani di Sarajevo.
Quanti pretesti tortuosi, quanti rigiri...
Attaccate i serbi, dice qualcuno, e forse i croati non hanno
responsabilità? Altro che se ne hanno: e allora? Hanno responsabilità i
dirigenti croati, nazionalisti e insofferenti a loro volta della
democrazia e dei diritti delle minoranze, e concorrenti con la Serbia a
liquidare la multietnica Bosnia-Erzegovina.
Ne hanno gli stessi dirigenti musulmani, che dispongono a volte della
loro gente come di ostaggi, tenendola sotto un sequestro non meno
inaccettabile per il fatto di ostacolare la pulizia etnica.
E allora? A che cosa serve questa universale chiamata di correità se non
a cancellare le differenze, le urgenze, e a giustificare un'inerzia
vigliacca? I mass media, si dice, agiscono unilateralmente in modo da
demonizzare una parte: è possibile.
Li si contrasti, con una informazione più imparziale e accurata: ma si
cominci col riferire quale spaventosa campagna di imbonimento è stata
condotta in Serbia dai mezzi di comunicazione assoggettati al potere
nazionalcomunista.
I bombardamenti delle postazioni serbo-bosniache, si dice, rischierebbero
di mietere vittime fra i civili.
Inoltre, rinfocolerebbero quella adesione popolare alla guerra che è già
fortissima, e fa tenere alla maggioranza della popolazione un conto assai
basso della propria stessa vita.
Ecco un argomento molto serio e concreto.
Non so se i bombardamenti aerei possano essere efficaci per interrompere
le linee di rifornimento degli assedianti, e per colpire i posti di
artiglieria pesante senza coinvolgere la gente.
Si propongano altre misure, credibili e più giuste oltre che efficaci:
così per l'eventualità che si stanzino in Bosnia (e anche, prima che sia
troppo tardi, in Kosovo, Vojvodina e Macedonia) forze così numerose ed
efficacemente armate da mettere di fatto fine alle sopraffazioni, da
garantire accessi ed esodi, da rendere effettiva la protezione e pronta
la dissuasione e la repressione.
Se questo è il punto, uniamoci per rivendicare con tutta la forza di cui
disponiamo che ciò avvenga.
Se il punto è un altro, cioè la denuncia di qualunque intervento, senza
alternative, non riesco a vedervi che una ipocrita o miope vocazione a
dire domani, di fronte ai costi o agli errori o ai cinismi di un
intervento (possibili, prevedibili): L'avevamo detto.
Mi pare all'opposto che per avere titolo a protestare e denunciare contro
ogni abuso e disprezzo delle vite umane occorra assumersi, in qualunque
forma, la responsabilità di ciò che voglia e possa mettere fine alla
guerra e all'aggressione.
Abbiamo detto, col nostro digiuno, di voler appoggiare la Conferenza
civica di pace che, dopo alcune riunioni negli scorsi mesi, dovrà tenersi
in forma più solenne e autorevole a Vienna i prossimi 11 e 12 giugno.
Questa scadenza, che non abbiamo intenzione di mitizzare e sopravvalutare
- la diplomazia della gente è infatti altrettanto faticosa e ardua che
quella dei diplomatici - è un tentativo di rianimare una collaborazione
civile senza la quale non è pensabile alcuna pace effettiva.
Per noi, con le nostre divisioni vere e capricciose, con le nostre
suscettibilità e luoghi comuni, essa costituisce un'occasione di umiltà,
di ancorare l'unità cui teniamo a un riferimento anch'esso precario, ma
più significativo che non la nostra semplice discussione, e cioè
l'accordo che strada facendo persone o gruppi reciprocamente rispettosi e
da noi rispettabili della ex-Jugoslavia saranno in grado di raggiungere.
Per loro più che per noi quell'accordo è sottoposto, ben più che agli
schieramenti dati, al confronto con una condizione tragicamente concreta.
Insomma, senza che nessuno di noi abdichi all'autonomia della propria
coscienza, perché non provare a misurarsi con quello che pensa e sente un
pacifista di Sarajevo, di tutto, compreso il pacifismo?
STANNO AMMAZZANDO USEPPE A SARAJEVO (Intervento al convegno pisano su
Elsa Morante, Vent'anni dopo 'La Storia', L'Unità, 24 gennaio 1994)
"Con la scrittura di un libro, gli aveva dichiarato, si può trasformare
la vita di tutta quanta l'umanità. (Poi subito dopo s'era quasi
vergognato di avergli fatto simile confidenza...)".
ELSA MORANTE, "La Storia", Torino, Einaudi, 1974, p. 410.
Al principio c'è uno stupro di guerra, uno dei tanti.
Nel 1941, un soldatino tedesco gira per una Roma che non gli vuol bene,
nostalgico della casa materna e del paese natio - una località qualunque,
Dachau, si chiama.
E' un ragazzo appena divezzato in divisa di adulto nazista; la storia,
per lui, è una maledizione - e anche la geografia.
Eppure egli appare alla donnetta che rincasa, Ida Ramundo vedova Mancuso,
come l'incarnazione da sempre paventata dell'orrore.
Ida è una maestra elementare, ebrea di madre, madre lei stessa di un
ragazzo, ma rimasta bambina in fondo al cuore, e capace, come
nell'idiozia misteriosa degli animali, di una "precognizione".
Dalla violenza impacciata e infantile dell'anonimo soldato di passaggio,
Ida riceve la sua seconda maternità: il bastardello incantato di nome
Useppe, minuscolo come un piccolissimo principe, capace di intendere la
lingua di cani e gatti e canarini.
Troppo piccolo e vivace per questo mondo, che fa strage di creature.
A Ida sembrerà che tutti gli adulti siano degli assassini.
E già il maldestro stupratore tedesco che invoca "meine mutter", e sarà
fra poco travolto nel mucchio informe e dimenticato degli uccisi, ha
compitato la sua rivelazione: La disgrazia è crescere.
Cacciati dal paradiso in cui tutti sono bambini o animali in un inferno
adulto che si chiama Storia, nei vagoni bestiame in cui oggi gli animali
segnati, domani gli umani segnati, andranno incontro al loro macello, per
colpa di esser nati.
Prima di finire la sua minuscola vita, il bambinello Useppe avrà visto
tutto questo.
Naturalmente, le domande ragionevoli e permalose non mancarono nel 1974,
quando il romanzo uscì, e si rinnovano ogni giorno, ancora più permalose.
Si può ridurre la Storia alla infima e flebile misura del bambino Useppe?
E i Grandi, i Supergrandi - e le loro responsabilità? A Sarajevo, dove
ogni bambino centrato vale dieci punti di più di un adulto nella
classifica dei cecchini, gli adulti affamati hanno organizzato la caccia
ai piccioni.
Alcuni bambini, pare, non ne hanno voluto sapere degli uccelli nei
piatti.
Bande di bambini si sono formate per difendere i piccioni.
E l'Onu, l'Unprofor, la Nato, Ginevra, e noi tutti? Si può scambiare la
gravità delle responsabilità di tutto ciò con la favola triste dei
piccioni e dei bambini? E, dopo aver tanto lavorato per ricostituire,
contro gli stupri etnici e i crimini di guerra, un Tribunale della
Storia, finire con l'incriminare per intero la Storia - "uno scandalo che
dura da diecimila anni?" Nel mondo di creature umane e di altri animali
che la Storia sovrasta e schiaccia, terza specie fra i ricchi che si
nutrono a spese dei poveri, e i poveri che tendono a pigliare il posto
dei ricchi, si stringono vincoli e affinità misteriose.
Il senso del sacro è in loro comune, e confuso negli altri sensi corporei
- intendendosi da loro, per sacro, il potere universale che può mangiarli
e annientarli, per la loro colpa di essere nati.
Il viavai fra umani e altri animali si svolge ininterrotto nelle pagine
del libro, spesso - decine di volte - legato dal più forte e semplice dei
tramiti di comparazione, l'avverbio "come".
"Brava come una leonessa e provvida come una formica.
Come una piccola volpe sanguinante.
Come un cucciolo orfano e randagio.
Come un gatto nottambulo.
Come gli animali del deserto.
Come un'ape verso un girasole.
Come certe anatre migratrici.
Come i cuccioli nel loro pelo.
Come cavallucci in una prateria.
Come una gatta di strada a orecchi bassi.
Come una lucertola alla ricerca del solleone.
Come un passero che riapre le ali.
Come certi cuccioli bastardi.
Come i cani e i gatti.
Come gli occhi dei cervi.
Come un cavalluccio impunito.
Come un'aquiletta fantastica.
Come uno sciame di tafani.
Come un cane di nessuno.
Come una passera malandata.
Come un fringuello.
Come una bestiola scacciata.
Come i cuccioli dopo una percossa.
Come certi animali senza padrone.
Come un povero cane altrui.
Come trattenesse un cavalluccio per la briglia.
Come una rondine migrante sorpresa dall'inverno.
Come la bocca dei gattini di un mese.
Come un cucciolo ingabbiato in una fiera.
Come una rondine fulminata in aria.
Come certi uccellini migranti.
Come certi animali quando preavvertono un sisma.
Come due pulcini.
Come i maschi cicala.
Come una povera bestiola d'aria o di terra..."
Oppure sono gli animali a somigliare fantasticamente agli umani:
"Blitz... s'intratteneva con cani di passaggio e randagi; e una volta, in
una di quelle sue corse nostalgiche alla casa di San Lorenzo, vi giunse
in compagnia d'un altro cane, bastardo come lui ma molto più secco e
d'aspetto ascetico, il quale somigliava al Mahatma Gandhi...".
"Useppe inventò la seguente poesia: Il sole è come un albero grande che
dentro tiene i nidi E suona come una cicala maschio e come il mare e con
l'ombra ci scherza come una gatta piccola".
Le tue poesie - gli aveva detto Davide Segre - parlano tutte di Dio! E
gli aveva spiegato:
"Tutte le poesie sono centrate su un come...
E questi come, uniti in un coro, vogliono dire: Dio! L'unico Dio reale si
riconosce attraverso la somiglianza di tutte le cose...
E così, di somiglianza in somiglianza, lungo la scalinata si risale a uno
solo".
...e la Storia continua...
Sono le ultime parole della "Storia", il più sconsolato epitaffio.
(Appena addolcito dalla citazione della Matricola n. 7047 della Casa
Penale di Turi: Tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so cosa
sia, ma che probabilmente è un fiore e non un'erbaccia).
Era il 1974: vent'anni fa, appunto.
Intanto, la storia ha preso un andamento mirabolante, ha dato per un
momento l'impressione di voler buttar via la sua ferocia e fare la pace,
è stata perfino dichiarata finita - e poi si è ributtata a capofitto
nella vecchia mischia.
Allora, in Italia, la parola progressiva si credeva ancora illesa, e anzi
si annunciavano sorti quasi magnifiche, invano insanguinate da stragi
vili, sorti certificate da referendum vinti, e poi amministrazioni rosse,
e, per i più esigenti, da orizzonti rivoluzionari.
Perciò il libro, che Elsa Morante aveva scritto particolarmente per farsi
amare dai giovani rivoluzionari, e salvarli dall'età adulta, li
indispettì almeno quanto li turbò, con la sua drastica svalutazione e
anzi incriminazione della Storia, e tuttavia con la sua forza
insopportabile di commozione.
Nelle premesse cronologiche ai capitoli, promemoria sugli eventi storici
del secolo, accurato quanto castigato, fin nel corpo tipografico ridotto
e servile, Elsa Morante aderiva sostanzialmente alla ricostruzione che
della storia dava la sinistra e specialmente la parte più libertaria e
adolescente della nuova sinistra: mettendoci certo il suo stile, e le sue
chiavi di volta, i ceti medi e la loro dolorosa incapacità di veri
ideali, lo hitlerismo invaso dalla morte, le moltitudini terrestri degli
oppressi condannate alla speranza nel comunismo reale.
Ma il romanzo, di quella storia faceva nient'altro che uno scandalo che
dura da diecimila anni, la congiura universale e misteriosa per offendere
e uccidere il bambinello Useppe.
C'era, a rendere più turbata l'irritazione dei militanti di allora, un
tono della scrittura e del pensiero di Elsa Morante che impediva di
sbarazzarsi alla leggera, dopo aver versato molte lacrime clandestine e
notturne di lettori, della commozione eccessiva del libro...
Questo freno al cinismo militante - cinismo largamente simulato, del
resto, e obbligato a superiori speranze - era, in una parola,
l'"autorità" di Elsa.
Questa autorità, senza riserve e inaudita, se non per il signore Iddio, e
insieme indiscussa e preliminare, data e non usurpata o pretesa o finta,
con la più piena naturalezza e senza bisogno di spiegazione, è quella di
una maternità senza figli.
Per ridetto che sia (un parto in pubblico, così Garboli ha chiamato la
storia di Ida e Useppe) questo mi sembra ancora più vero ed evidente
quando rileggo il romanzo vent'anni dopo.
Si sa che Elsa era insofferente delle dispute sulla scrittura maschile e
femminile, e delle stesse distinzioni terminologiche di genere: scrittore
e scrittrice, unica essendo la scrittura e la poesia e la sua eventuale
grandezza.
So troppo poco del gran lavoro svolto in questi anni da donne attorno
alla scrittura delle donne, e devo accontentarmi di vedere che una
differenza di genere è ovvia nella scrittura come in ogni altra
manifestazione, e che d'altro canto la qualità più profonda e inimitabile
di questa differenza è difficile da cogliere e ancora più da illustrare.
Elsa Morante, che non se ne faceva un problema, tanto meno si curava di
dissimularlo.
Nessuno scrittore uomo potrebbe permettersi i diminutivi e i
vezzeggiativi di Elsa, né la premura per la piccolezza, né l'adesione
misteriosa alla scala che unisce le madri bambine ai loro piccoli agli
animali e ai loro cuccioli, né la confidenza coi corpi e i loro bisogni,
né l'indulgenza materna e pietosa per gli assalti sessuali.
Nessuno scrittore uomo potrebbe, alla fine, permettersi di raccogliere
nel proprio grembo e fondere insieme le lingue di tutte le nenie delle
mamme ai loro pupetti, di tutti i dialetti delle filastrocche e delle
favole, di tutte le sfide dei pischelletti, di tutte le canzonette della
radio e le canzoni dei passeri e dei canarini e degli storni.
Quest'autorità assoluta appartiene a una madre che ha rinunciato a essere
singolarmente madre - o ne è stata impedita - che ha sottratto il proprio
corpo e che scrive come altri cura ferite, o seppellisce, o giudica senza
stimare la vendetta, o rende testimonianza, o canta una ninna nanna.
Non conosco romanzo che abbia un'ambizione paragonabile a questa se non
"Guerra e pace" - simmetrica, più che simile: e la stessa parola
ambizione è mal adatta, perché fa immaginare la possibilità di un
risultato raggiunto o mancato, mentre qui il proposito coincide con la
fine, l'arditezza dell'impresa con l'esito.
Ora, a distanza di vent'anni, due schermi filtrano soprattutto, mi pare,
la rilettura della "Storia".
Uno è la morte di Elsa, e, prima, lo sfregio irriparato di "Aracoeli".
Il mondo non sarà salvato dai ragazzini, non saprà salvare i ragazzini,
non troverà sollievo né in Mozart, né nella canzone degli uccelletti: E'
uno scherzo, tutto uno scherzo.... (Un giorno, nella sua clinica, mentre
i passeri venivano rumorosamente al balcone richiamati dalle briciole di
Lucia, dissi a Elsa che era quella la canzone, "E' tutto uno scherzo", e
lei fece uno sforzo penoso, come per ricordare qualcosa che aveva certo
già sentito, ma chissà quando e da chi...).
Un altro è Sarajevo, e a Sarajevo il ritorno del secolo atomico su se
stesso e sulla propria disinteressata ferocia.
L'assedio più lungo della storia era stato quello di Leningrado. 17 mesi,
fino al gennaio 1943; il record è oggi di Sarajevo.
A Sarajevo, dopo aver suonato le fanfare della caduta dei muri e
dell'assimilazione universale e del benessere immateriale, il nostro
secolo - e la nostra civiltà, la Storia - è tornato a riflettersi
nell'occhio del vitello rinchiuso nel carro bestiame, nel natale di una
donnetta stuprata e del suo bambinetto segnato, nella piccolezza del
cucciolo che svela a lui la verità del mondo ed eccita l'abilità dei
cecchini.
A Sarajevo, alla lettera, la Storia - e il suo corredo d'epoca di
diplomazie e ammaestramenti geopolitici e cronisti istantanei - è una
congiura universale per spaventare, scandalizzare, mutilare e uccidere il
bambino Useppe.
LA PRIMAVERA DI SARAJEVO (Testo del reportage per Mixer, maggio 1994)
C'è una vecchia donna nell'ufficio postale.
Parla al telefono: ..."Nada, per amor di Dio, dammi un segnale... non
posso...
Dove è lei? Dammi il segnale...
Tu sai...
Figlia mia, vieni da me... ho solo te... oh, Nada mia, mi chiedo... che
cosa è successo, figlia mia?...
Non ti sento...
Nada, figlia mia, vieni una volta a vedermi"....
Il telefono non è collegato.
All'altro capo, non c'è nessuno.
La primavera arriva anche durante gli assedi.
Anzi, a Sarajevo è già la terza.
Tutto cominciò infatti nell'aprile del 1992: era primavera anche allora.
Nessun assedio di grande città nell'epoca moderna era durato così a
lungo.
Questo è il racconto della primavera di Sarajevo.
Come tante cartoline illustrate: stiamo tutti bene, tanti saluti da
Sarajevo.
Infatti, la posta non funziona ancora.
La novità sono i fiori, il tram che va, e i cannoni e i cecchini che
hanno smesso di sparare - più o meno.
Così la gente raccoglie verdure selvatiche, e fiori.
Si conquista e si recinta alla buona ogni metro di terra: prima per
seppellire i cadaveri, ora per gli orti di fortuna.
Tutto cominciò dopo la strage nel mercato.
Il sangue schizzò più lontano del solito, il mondo fece la voce grossa,
si annunciò un ultimatum agli assedianti serbi: ritirare le postazioni, o
subire il bombardamento della Nato.
Era febbraio, c'era ancora neve.
Anzi, dopo qualche giorno tiepido, venne una gran gelata.
I sarajevesi si confermarono in ciò che già sapevano: che occorre
diffidare delle primavere precoci, e delle promesse di pace.
In Norvegia si aprirono le Olimpiadi invernali, dieci anni dopo quelle di
Sarajevo.
Bambini e grandi usarono la tregua per i loro giochi della neve.
L'ultimatum scadeva alla mezzanotte del 20 febbraio.
Una folla di giornalisti e troupes aveva preso posto, aspettandosi una
notte pirotecnica come quella di Bagdad.
Fu una giornata lunga e luminosa.
Le persone di Sarajevo si comportarono come sempre.
Da due anni, dicevano, viviamo alla giornata.
Non fosse stato per il rombo degli aviogetti, dell'ultimatum non ci si
sarebbe accorti.
A mezzogiorno molti andarono a teatro, a malincuore, perché era bello
restarsene al sole.
Al tramonto le strade diventarono di colpo vuote e silenziose, salvo quel
rombo di aviogetti.
C'è una mezza luna limpida e fredda.
Chissà che davvero una sera così, limpida e fredda, diventi la sera della
fine di una guerra.
La notte passò senza bombe.
L'Onu disse che i serbi avevano adempiuto alle condizioni dell'ultimatum:
non era vero, ma anche l'Onu a Sarajevo recita una parte.
Si recita la guerra e la pace: solo i morti sono veri.
Peter Arnett, il famoso reporter di guerra della C.N.N., ci restò male.
Si accontentò di qualche intervista per strada, mezzo fallita.
Nel resto del mondo, la voce che si diffonde è: la guerra è finita.
A Sarajevo dura l'assedio, che fa della città e dei suoi trecentomila
rimasti un enorme carcere in cui non si entra e non si esce.
Resta la fame, il freddo, l'umiliazione.
Ieri, la vigilia, la paura delle bombe, la speranza in una fine, è stato
un sabato del villaggio.
Oggi c'è una tetraggine da lunedì.
E l'idea che i cecchini sono ancora là, coi fucili, coi cannocchiali, e
solo hanno ricevuto l'ordine di non sparare.
Come un battaglione di cacciatori accaniti cui sia stato detto nel pieno
di una battuta che è stata sospesa la caccia, e sono rimasti lì, con le
doppiette in mano.
Magari l'Unprofor distribuirà delle macchine fotografiche e inviterà a un
safari fotografico, foto di schiena dei cittadini di Sarajevo, per un
concorso a premi a Belgrado.
La signora Kanita: Come vede, sono viva.
Non ho ancora trovato il mio cecchino - lui non ha trovato me.
Sono stata un po' delusa, dopo questa notte.
Aspettiamo tutti la pace, ma io non riesco a credere che questa sia
davvero la fine.
Continuo a sentirmi in prigione, dall'inizio di questa guerra mi sento
come un agnello che aspetta di essere sacrificato, e non sa per chi.
Zlatko Dizdarevic racconta un episodio della mattina.
Un blindato delle Nazioni Unite va a passo d'uomo nel centro, lasciando
cadere patate dal portello.
Qualcuno raccoglie le patate.
Una signora dice: Ecco, adesso siamo liberi.
Kanita: Lei non mi ha visto prima.
L'anno scorso, quando mio marito fu ucciso - ahimè, non l'anno scorso,
sono quasi due anni - io ho perduto i miei chili, ma adesso, anche se li
ho ripresi, non ho più niente negli occhi, nel viso.
Mi sento come una donna molto vecchia, anche se ho quarant'anni.
Non sono più bella, né carina - ammesso che lo fossi.
Quando guardo le fotografie, le nostre fotografie di famiglia, quelle
scattate da mio marito non tanto tempo fa, avevo un aspetto del tutto
differente.
Io non so che cosa è cambiato.Ho gli stessi vestiti, gli stessi
orecchini, gli stessi capelli - ma non è più lo stesso, non so come.
Posso metterci su del trucco, ma non migliora.
Incontro i miei amici ragazzini, andiamo al bar del Teatro da Camera.
Non li avevo più visti, dopo l'incontro mancato il pomeriggio della
strage nella piazza.
Mirza: I nostri genitori sono usciti da casa e hanno cominciato a
cercarci... ci hanno fatto tornare a casa.
Ramo: L'ho sentita la bomba, eravamo sulla strada, sulla strada....
Amira: Stavo nel cortile del mercato.
Giocavo.
Giocavo e quando ho sentito il fischio della granata ho pensato: Non
cadrà qui.
E poi quando è caduta mi sono buttata per terra e poi sono scappata in un
portone.
Naim: Dopo mezzo minuto si sono sentite le implorazioni della gente.
Amira: Dopo mezzo minuto abbiamo sentito le urla della gente e allora
abbiamo capito subito che era caduta sul mercato.
Mi regalano il loro tesoro di residuati bellici, bossoli, eliche di
razzi, schegge di granate.
All'aeroporto di Sarajevo me li hanno poi sequestrati.
Quanti marchi ha pagato per questi souvenir?, mi ha chiesto uno della
polizia militare dell'Onu, uno che la sa lunga.
La primavera è arrivata più impetuosa all'inizio di marzo.
Promessa di pace e vittoria del sole sulla neve si sono succedute così da
vicino da eccitare la città come una febbre leggera.
Come quando non si sa ancora se cambiare guardaroba.
Farà ancora freddo? Torneranno le granate e le raffiche dalla collina? Il
punto cruciale di questa voglia di ritorno alla vita di prima è il
semaforo dell'incrocio del centro, l'incrocio più battuto dai cecchini.
Per due giorni, il 7 e l'8 marzo, squadre di operai lavorano
accanitamente a rimuovere i container protettivi, a rimontare pali e
semafori.
Mercoledì ci sono sei nuovi semafori, e dove fino a qualche giorno fa si
attraversava correndo piegati e zigzagando, ora i passanti si preparano a
fermarsi al rosso.
Per strano che possa sembrare, dopo che ci si è chiesti come fosse
possibile fare l'abitudine alla guerra, ora ci si interroga sulla
facilità con cui in apparenza ci si riabitua alla pace.
L'8 marzo una manifestazione celebra la festa della donna, come ai vecchi
tempi.
La convocano associazioni cittadine, aiutano a organizzarla i Beati
costruttori di pace.
Non ci sono mimose, ma i bambini hanno i vestiti più colorati, i
volontari italiani hanno distribuito palloncini colorati.
C'è una voglia di gioia che è quasi gioia.
La sera al ristorante.
C'è Afan Ramic, Kemal Monteno, Ferida Durakovic, c'è Gigio Huric, Edo
Smajc, Federico Bugno, Gigi Riva.
Zlatko Dizdarevic racconta: Una sera a New York, c'era anche Susan
Sontag, Don De Lillo mi disse: "Susan vi ha rubato Sarajevo".
Già, gli ho detto, ma per rubare Sarajevo, bisogna venirci, a Sarajevo.
Ecco.
Si può dire che stava all'Holiday Inn, con le auto, le guardie del corpo,
ma lei ha fatto delle cose concrete. "En attendant Godot" di Susan Sontag
un giorno sarà storia.
E lo stesso è successo sai con chi? Con Joan Baez.
Kemal Monteno canta "Sarajevo ljubavi moja", e tutti si commuovono per la
millesima volta.
Dice poi Zlatko: Sono le parole che abbiamo sempre desiderato dire alle
ragazze, senza trovarle.
Afan Ramic è un pittore famoso.
Per tutta la vita ha dipinto il ponte di Mostar.
Ora dipinge il ponte di Mostar abbattuto.
Dentro di me avevo sempre temuto che lo distruggessero, dice.
Il ponte, l'arcobaleno, l'arco in cielo, l'amico di tutti.
Oggi c'è una bella luce di nord, dice.
La luce del nord è sempre la migliore.
Una luce da pittori, e da cecchini.
L'hanno cacciato da casa, gli hanno rubato i quadri, gli hanno ammazzato
il figlio.
Ramic sta preparando una mostra personale.
Ora che i cecchini riposano, si può passeggiare verso la collina, e
guardare il panorama della città dall'alto, come se fosse illesa.
E' il punto da cui la guardano, con l'occhio in un mirino, i suoi nemici:
gli odiatori della città, della sua mitezza, della sua confusione e
mescolanza, del suo piacere di vivere.
Anche al mercato la vita ha ripreso i suoi diritti.
Dapprincipio, gli scheletri metallici dei banchetti, coperti di neve,
sono restati recintati, metà sacrario, metà luogo del delitto.
Della bomba micidiale rimaneva, sull'asfalto, una minima pozzangheretta.
Poi la neve si sciolse, il mercato si riaffollò di cose e di persone, i
banchi in fondo restarono vuoti se non di fiori.
Giorno dopo giorno, le merci guadagnavano spazio alle reliquie, com'è
naturale.
Sarajevo è una città molto bella.
Lo è anche adesso, come nei visi delle sue persone, nelle facciate bucate
delle sue case, nelle statue mutilate, nelle decorazioni sfregiate.
Alcune di queste ferite sono fatali, altre guariranno.
Gli urbanisti pensano già alla sfida della ricostruzione.
Nelle persone c'è anche il desiderio di lasciare le cose così, la rovina
in vista.
La ricostruzione si farà, però, come dice Kanita del proprio viso, la
città si rifarà il trucco, ma la sua anima non sarà più la stessa, non
sarà più quella delle cartoline illustrate di prima.
Ci vogliono cinquantacinque minuti, per andare e tornare dall'altro mondo
- da Sarajevo a Falconara.
I militari dell'Unprofor stanno qui fra impotenza, se non complicità, e
soprassalti di dignità.
Dietro di loro, il cinismo, la stupidità, le rivalità, le avarizie delle
potenze mondiali.
Dovrebbero essere molto più numerosi, ed esercitare una vera dissuasione,
una vera interposizione; dovrebbero essere autorizzati a esercitare la
forza necessaria alla legittima difesa delle persone e della legalità.
Il loro comandante è inglese, si chiama Rose, è un generale, si illustrò
per capacità e durezza nella guerra delle Falkland.
Al momento della tregua simulò di interporre i suoi uomini fra linee
serbe e difese bosniache, e sostenne di aver messo sotto controllo le
batterie degli assedianti.
Era un bluff.
Il generale Rose trionfò, la regina lo fece baronetto.
Un mese dopo, il bluff è crollato.
I serbo-bosniaci hanno spostato su Gorazde le batterie, e hanno
bombardato settantamila persone ammassate senza riparo.
Gorazde era fra i cinque centri dichiarati solennemente protetti dalle
Nazioni Unite.
Quando i morti erano già centinaia, la Nato finse un paio di scaramucce.
Gli assedianti presero in ostaggio uomini dell'Unprofor a Gorazde e
attorno a Sarajevo.
Panico e viltà dilagarono.
Tutto sembrò precipitare: a Parigi, a Londra, c'era una gran tentazione
di riportarsi a casa armi e bagagli.
Poi arrivò un nuovo ultimatum della Nato.
I morti di Gorazde erano già più di 700.
La tragedia di Gorazde significava qui solo una cosa: oggi a Gorazde,
domani a Sarajevo. Le assicurazioni dell'Onu non valgono niente, la
promessa di pace è appesa al capriccio dei cetnici, Sarajevo è orfana.
Una manifestazione di solidarietà con Gorazde fu convocata, venne molta
gente, niente gioia stavolta, al contrario che l'8 marzo, e niente
speranza: uno spirito luttuoso ed estremo.
Un paio di file di giovani militanti dell'islamismo che noi chiamiamo
fondamentalista cercarono di introdurre nella manifestazione, e poi alla
sua conclusione, slogan come Vogliamo la guerra santa e Viva Saddam
Hussein; e bandiere verdi dell'Islam.
Restarono isolati.
Ma fino a quando? Fino a quando l'anima mite e metropolitana e laica ed
europea di Sarajevo, della stessa Sarajevo musulmana, resisterà a
un'Europa e a un mondo civile che la respinge e la abbandona? Gli
oratori: Voi, emissari delle Nazioni Unite, sappiate che se non li
fermate qui in Bosnia, li dovrete fermare da qualche parte in Europa, sul
Reno, sulla Senna, sul Tamigi.
L'Unprofor non difende più nessuno qui, nemmeno se stessa, perché i loro
soldati vengono catturati dai fascisti serbi come conigli, li chiudono
quando vogliono....
Alla fine parla Izetbegovic: Il mondo rispetta tutto, ma sembra che
rispetti sopra tutto la forza....
Benché il Museo Nazionale di Sarajevo sia molto importante, mai nessun
responsabile dei musei confratelli in Europa si è sforzato di venirgli in
aiuto, o anche solo di riceverne notizie.
Sono stato davvero imbarazzato quando il direttore mi ha chiesto con
apprensione se fosse vero che tempo fa una bomba aveva danneggiato gli
Uffizi a Firenze.
Da noi, disse poi senza ironia, sono cadute 400 granate il primo anno, e
dopo abbiamo smesso di contarle.
Il Museo ha una sezione naturalistica, una archeologica, e un orto
botanico.
C'era un giardino zoologico, ma gli animali morirono tutti presto, di
bombe o di fame.
L'ultimo fu il beniamino dei bambini, l'orso bruno soprannominato il
Taciturno.
Alla fine di aprile, un pomeriggio, i cecchini hanno avuto voglia di
sgranchirsi le mani.
Sparano dall'antico cimitero ebraico, in cui si sono da tempo appostati
per le loro imprese.
Le telecamere ricominciano, di malavoglia, a girare.
Le persone ricominciano, di malavoglia, a correre.
Che la tregua duri o no, è affare di un capriccio.
I cecchini hanno sparato sul tram, e hanno fatto quattro feriti, i tram
si sono fermati per qualche ora.
Poi hanno ripreso ad andare.
Tutto ricomincia ogni volta.
Solo, ogni volta più faticosamente.
Vedete, i semafori funzionano.
Le persone arrivano, aspettano ordinatamente il verde.
A volte il rosso le ferma a metà della traversata: allora restano là
guardando un po' verso la collina dei cecchini, un po' verso il semaforo.
Quando è verde, riprendono la corsa.
Tanti saluti da Sarajevo.
SUL BUON USO DELLA TELECAMERA (Immagine, dicembre 1995)
Per la prima volta nella mia vita, ho usato una telecamera - una Sony Hi8
- per filmare le cose che vedevo a Sarajevo.
L'inesperienza e la novità mi hanno spinto a uno zelo sorprendente per me
stesso, che sono poco incline agli strumenti tecnici, e per esempio sono
inetto anche nella fotografia.
Ma se ripenso ora a questa strana foga, ora che si è da tempo esaurita,
lasciando di nuovo il posto alla penna, capisco che la piccola telecamera
è stata per me un modo di tenere a bada l'emozione per la discesa
all'inferno sarajevese, così attesa, desiderata e temuta: un riparo allo
sguardo troppo diritto dentro quella desolazione.
Mi ha sempre ripugnato indossare il giubbotto antiproiettile o l'elmetto,
che i regolamenti delle Nazioni Unite volevano imporre ai giornalisti
accreditati: ma ho messo fin dal mio primo atterraggio a Sarajevo
l'occhio dietro la telecamera, come se fossi lì per un lavoro, e
piuttosto come se differissi la vista delle cose al ritorno, e le
mettessi intanto al sicuro dentro quei nastri così neutrali.
Così il mio resoconto, tanto più per una rivista specialistica, può
interessare solo e "contrario", per la mia inesperienza e inettitudine.
Da allora, il programma di Rai 2, Mixer, ha ospitato cinque documentari
di lunghezza diversa, dai venti ai cinquanta minuti, da me girati a
Sarajevo.
E' nota l'attenzione che Mixer ha dedicato al reportage svelto e sporco,
realizzato con mezzi non professionali, e soprattutto con la combinazione
in una sola persona di autore-reporter e operatore (e fonico, e troupe).
Il recente programma di Milena Gabanelli ha consacrato questa attenzione;
negli Stati Uniti, come si sa, esistono reti interamente affidate a
questa tecnica; in Italia piccole produzioni, come la Palomar, hanno
realizzato con le Hi8 programmi originali, affrancati sia dal grottesco
della candid camera che dalla fiction teatrale, come la serie di Davvero.
Grazie alla mia collaborazione e amicizia con la Palomar ho imparato
anche a servirmi del montaggio elettronico con il sistema Avid,
fantastica esperienza, per me ancora più inaspettata, che dà la
possibilità di fare tutto da sé, o quasi: dal girare, al redigere e dire
il testo, al montare le immagini secondo una caleidoscopica potenza
combinatoria.
Una specie di autosufficienza congiunta con la piccola dimensione, anche
se non con la piccola ambizione.
Ma prima di tornare su alcune caratteristiche tecniche di questo modo di
lavorare, voglio riassumerne una serie di presupposti di sostanza.
La prima cosa da decidere, in un posto come Sarajevo, è dove andare.
O piuttosto, dove non andare.
Allora, uno che è un amatore, e più esattamente un volontario, perfino
nel suo modo di giornalismo, smette presto di andare nei luoghi deputati
delle riprese televisive.
Intanto, perché quei luoghi sono fittamente coperti dalle televisioni
professionali, che per il fatto di essere professionali non sono meno
brave e, nel loro genere, imbattibili.
C'è un incrocio, sul viale dei Cecchini, di fronte all'orrendo hotel
Holiday Inn, dove pool di telecamere hanno stazionato in permanenza, per
anni.
Facevano bene.
Era, per così dire, la loro postazione venatoria: in alto, sulla collina,
appostati dietro le belle pietre antiche del cimitero monumentale
ebraico, i cecchini serbo-bosniaci (e ucraini, russi, e altri dilettanti
di passaggio); in basso, a ridosso di un muro, gli operatori della
C.N.N., o della A.B.C., o della Reuters.
In mezzo, fra i due fuochi, per così dire, i passanti.
Mediamente quel passo ha garantito alle televisioni internazionali un
morto e qualche ferito al giorno.
Si poteva lasciare le telecamere fisse accese e andarsene.
Cinismo e preziosa testimonianza dell'orrore si sono mescolati
inestricabilmente in quel passo, in quella sovrapposizione fra l'occhio
del cecchino assassino nel mirino del cannocchiale e l'occhio
dell'operatore nel mirino della Betacam.
Non occorre riparlarne.
I passanti dovevano guardarsi dal primo, ma a volte dedicavano
un'attenzione anche al secondo, un saluto o un gesto improvviso durante
la corsa, un'alzata di spalle o di cappello. (Ci sono stati eccellenti
operatori che non hanno esitato a buttar via la telecamera per andare al
soccorso dei colpiti).
Bene, in quel punto, e altri analoghi, ho smesso presto di andare, dopo
le prime ispezioni, e se ci sono andato è stato per riprendere con la mia
macchinetta i bravi operatori che riprendevano i candidati alla caduta
con le loro macchinone.
Ho nelle mie cassette la figura allampanata e temeraria di un fotografo
americano esposto a catturare una sparatoria fra cecchini e caschi blu
francesi, riflesso in una pozzanghera in mezzo alla strada micidiale.
Non c'è stato "scoop", l'acqua non si è arrossata, il fotografo americano
è tornato a ripararsi.
Grazie a Dio, come dicono soprattutto a Sarajevo.
Dicono: "Ako Bog da" - se Dio vuole e: "Bice bolje" - andrà meglio.
Con la Hi8, si va altrove.
Si va, soprattutto, senza meta.
Dunque non agli altri posti deputati: il pronto soccorso dell'ospedale in
primo luogo, l'obitorio.
E si va a piedi.
Non si va dove ci si aspetta di trovare qualcosa di interessante: si
trovano cose interessanti andando.
A questo modo di mettersi in cammino corrisponde forse un modo di
impiegare la telecamera, senza agitarsi troppo e senza troppo rincorrere
le immagini, neanche quelle in moto: si tiene la camera aperta, così come
si terrebbero gli occhi, e si lascia che le cose le succedano dentro, le
passino attraverso, la impressionino mentre resta ferma a guardare.
Dal punto di vista del risultato, la cosa somiglia meno a quello che
vedrebbe un inviato a Sarajevo, e più a quello che vedrebbe un
sarajevese, se nel suo sguardo allarmato e disperato fosse incamerata una
macchina da presa.
Non è una cosa demagogica quella che dico; non il facile proclama: Siamo
tutti sarajevesi (benché sia tuttavia un degno programma).
Oltretutto, non c'è ragione di rinunciare, in nome dell'identificazione
con la sofferenza altrui, al proprio occhio forestiero, e alle cose nuove
e straniate che esso può perciò registrare.
Ma dentro gli occhi dei sarajevesi, specialmente in certi periodi e in
certi giorni, trascorreva un sentimento sconvolgente che era altrettanto
importante da rendere del colore delle cose che si svolgevano fuori.
E non solo degli uomini sarajevesi.
Quando intitolai il mio primo reportage lungo ai "Cani di Sarajevo", non
usai solo un espediente consacrato nella storia della letteratura o del
cinema, dalla cavallina di Tolstoj in qua.
I cani di Sarajevo avevano davvero uno sguardo stravolto e stravolgente
sul mondo, su un mondo improvvisamente rovesciato e tradito.
I cani di Sarajevo erano stati abbandonati dai loro padroni, fuggiti, o
incapaci di nutrirli più, ed erano diventati inspiegabilmente ripudiati;
in più, qualcuno, compresi alcuni imbecilli delle Nazioni Unite, aveva
creduto di doverne fare strage per sventare chissà quali epidemie.
Cosicché ora i cani di Sarajevo si erano rassegnati a pensare di dover
vivere senza gli umani, pur dovendo aggirarsi fra gli umani per cercare
cibo e qualche po' di calore.
Rinnegati, li avevano rinnegati.
Di notte si riunivano in bande, e aggiungevano i loro latrati agli spari
e alle esplosioni; di giorno, si disperdevano nelle strade, passavano fra
le gambe delle persone senza mai alzare il muso verso le loro facce, le
loro voci o i loro odori, inosservati e a volte in concorrenza con gli
umani, nei rifiuti da rovistare.
A puntargli contro la telecamera, mettevano la coda tra le gambe,
tremavano e fuggivano, memori dei loro sparatori.
A volte, i più cuccioli, o i più sentimentali, si affiancavano per un po'
a qualche passante umano, simulando ancora di appartenergli, per
nostalgia della Sarajevo di prima, quando i padroni avevano i cani, e i
cani avevano un padrone: ma subito dopo tornavano alla loro sospettosa e
macilenta solitudine.
Per questo provai a camminare per la città martoriata tenendo la
telecamera accesa all'altezza presumibile di un muso di cane - alla
cieca, in verità, e su un ghiaccio insidioso - senza sapere che cosa ne
sarebbe venuto fuori: ne venne, come vidi poi, un pasticcio, una ridda di
immagini scomposte, ma anche una scena toccante di gambe povere e spesso
mutilate, di scarpe scalcagnate, di passi frettolosi e reciprocamente
estranei.
So che altri, fotografi, poeti, furono indotti come me a vedere
quell'abisso di dolore umano con occhi di cane: che non è una
contraddizione, né un paradosso.
La piccola telecamera è maneggevole e materialmente e psicologicamente
leggera.
Non mette in soggezione.
Non ha bisogno di luci da teatro, e anzi predilige la penombra e, a
Sarajevo, le scene a lume di candela.
Inoltre, la mitezza straordinaria dei sarajevesi si è espressa anche, per
anni, in una docilità e quasi rassegnazione a lasciarsi riprendere, come
se nella disgrazia che si è abbattuta su loro fosse contenuto quel
mostrarsi ad altri: come se fosse una disgrazia da cavie, vivisezionate
in pro di grandi e misteriose farmacologie straniere.
Questa docilità amara, più che la collaborazione partecipe, che pure è
frequentissima, turba più del rifiuto.
Essa alza il prezzo del rispetto per la discrezione.
Immaginate di andare a riprendere i volti e i corpi ricoverati in un
reparto di malati a morte.
Ebbene, a Sarajevo le facce e i corpi delle persone nelle strade erano
malati a morte.
Soccombevano sotto i pesi trascinati, ansimavano per una fatica estrema,
tremavano di freddo: tuttavia solo alcuni fra loro avevano deciso di
lasciarsi andare, di non curarsi degli sguardi altrui, e almeno di non
vedervi più come in uno specchio la propria consumazione.
I più si tenevano su.
Le donne si truccavano: anche quando non c'era - non dico l'acqua,
l'acqua non c'è stata quasi mai ma niente, non un fiammifero, non una
medicina; anche allora si colorivano labbra e guance, si tingevano i
capelli.
Quei colori disperati, quei belletti trovatelli su occhiaie grigie e
guance smunte, facevano sì soggezione: mai ho tanto venerato la bellezza,
e la cosmesi di corpi e anime.
A Sarajevo, le persone perdevano i denti: provate a immaginare voi stessi
in un assedio di quattro anni, che abolisca le cure dentistiche.
Ragazze belle e giovani sorridevano alla vostra telecamera coprendosi la
bocca con la mano.
Di tutto ciò, quello che la telecamera ha accettato di vedere, e di far
vedere, è solo una piccolissima parte.
Infine, dirò del problema più ambiguo e insidioso.
A Sarajevo, è successo qualcosa di così mostruoso e impensabile - una
rivelazione assoluta e sismica, tremenda e miserabile insieme, del male -
che la storia personale di ciascuno, giovane o vecchio, intelligente o
sciocco, ricco o povero che fosse prima, è diventata una storia
straordinaria, un destino, una vicenda romanzesca che nessun romanzo
riuscirebbe a immaginare.
I sarajevesi lo sanno, e ne sono sbigottiti: hanno perduto la normalità,
la vita di prima, sono stati detronizzati dalla felicità (benché prima
non la riconoscessero), sono stati spogliati di tutto: resta loro
soltanto lo sgomentante possesso della loro storia personale.
A ciascuno di loro è capitato quello che era impensabile, impossibile.
Così, ogni sarajevese si porta addosso la propria storia fenomenale, e
insieme la consapevolezza che essa è toccata, in varia forma, a tutti gli
altri sarajevesi.
Questo produce una strana impressione nello straniero che passa in
quell'inferno, con un biglietto di ritorno in tasca: i sarajevesi hanno
un desiderio straziante di raccontare la propria storia, perché non
sperano in altra consolazione, e perché la sanno incredibile e
formidabile.
Al tempo stesso, è come se sapessero di non poter disputare a tutti gli
altri compagni di sventura un'attenzione che duri più di qualche minuto.
Così, davanti alla telecamera accesa, o al taccuino del forestiero, i
sarajevesi raccontano in poche frasi una vita già compiuta come un
cerchio essenziale, l'inizio, la promessa, la disgrazia, e la fine.
E' come se i sarajevesi girassero con la propria storia personale nel
taschino: piuttosto, col proprio necrologio.
Perché dietro questa ansia di raccontare a qualcuno c'è l'imminenza della
morte propria, l'esperienza da tutti vissuta della morte dei propri cari,
dei propri vicini.
Il forestiero stipa di storie la propria valigia, romanzi ridotti a un
foglietto di appunti, e ne è, alla fine, esausto e vergognoso, come ogni
visitatore dantesco di inferni e di galere. Ho filmato il racconto, e la
vita quotidiana, di alcune persone, bambini soprattutto, a Sarajevo: e
poi l'ho via via aggiornato.
Mi è sembrato così di sfuggire in parte a quella tragica confezione di
destini raccontati una volta per tutte, e a futura memoria.
Di filmare la vita che comunque continuava.
Dalla mia parte, questo significava che anche la mia vita continuava a
svolgersi in parte larga a Sarajevo.
Nelle mie cassette, quei bambini sono cresciuti fino a diventare
spilungoni, quelle signore desolate sono tornate a sorridere, hanno
imparato a parlare nella lingua dell'intervistatore, in scuole aperte
sotto le granate.
Ho filmato morti, malattie, riprese effimere, ricadute penose.
L'ultima volta, per la prima volta, ho filmato una promessa di
convalescenza.
Quanto alla guarigione, è troppo pensarci.
Non si sarà mai più quelli di prima.
Un anno fa, erano arrivate a Sarajevo quattro o cinque angurie: avevo
comprato la più grossa, e l'avevo portata a casa dei miei vicini e amici.
Avevo filmato la cerimonia del taglio dell'anguria, la bambina Berina non
l'aveva mai vista: quando l'anguria si aprì in due, e mostrò il suo cuore
rosso, Berina proruppe in un Oooooh memorabile.
A Sarajevo è stato orribilmente possibile vedere e mostrare tante ultime
volte delle cose, e alcune prime volte.
Ho un accordo con la famiglia di Berina: che appena si potrà uscire dalla
città, andrò con loro - genitori e tre bambine, dai quattro anni ai pochi
mesi - al mare della Dalmazia, a vedere le tre bambine che vedranno per
la prima volta il mare.
Filmerò il mare, e le loro facce: o forse no.
Che cos'è la discrezione, in una grande e civile città dalle ferite
spalancate? In cui si tengono funerali all'imbrunire, per evitare che gli
accompagnatori dei morti vengano colpiti e uccisi a loro volta com'è
successo? In cui le persone scherzano sulla biancheria intima logora dopo
quattro anni di assedio, e la necessità di tenerla in ordine dato che in
ogni momento si corre il rischio di essere colpiti, soccorsi e
spogliati?...
Chi ha una telecamera, dovrebbe non fare agli altri quello che non
vorrebbe fosse fatto a lui - ammesso che lo sappia.
Può fare anche delle buone azioni.
Una anziana e dolce signora mi ha chiesto di fotografarla - aveva
scambiato la mia Sony per una macchina fotografica - e di mandare la foto
a sua figlia e ai nipotini, rifugiati in Italia, che non vedeva da tre
anni.
Le ho detto che l'avrei filmata, e che parlasse pure ai suoi cari.
L'ha fatto.
Mi si è raccomandata: che la riprendessi solo fino alla vita; aveva
indosso un paio di pantaloni di velluto sdruciti, da ragazzo, aveva
perduto tutti i suoi vestiti nella casa di Grbavica da cui era stata
cacciata.
Consigli tecnici, l'ho detto, non ne ho.
Quando sono tornato indietro la prima volta, e ho guardato le cassette
girate, mi sono sorpreso che davvero si vedessero le cose.
Bisogna avere la mano ferma: io ce l'ho abbastanza, e lo "steady shot" è
una vera provvidenza.
Personalmente, non amo i movimenti, le panoramiche, le zoomate, se non
quando il soggetto lo richiede strettamente, quando c'è davvero qualcosa
da inseguire.
Se no, camera ferma e montaggio spezzato.
Aborro gli effetti, dissolvenze soprattutto.
Se non si ricorre quasi mai agli effetti, lo si potrà fare una volta ogni
tanto efficacemente.
So che è una vergogna, ma uso il fuoco automatico, salvo casi estremi -
la luna, per esempio, sono un innamorato della luna (sapeste com'è
scintillante il cielo notturno sopra Sarajevo!).
Delle regole del montaggio, penso come di tutte le regole: che è bene
conoscerle, per decidere di ignorarle.
Infine, chi è profano della telecamera, e viaggia guardando le cose
attraverso di lei, al ritorno si guarderà le sue cassette, e ne riceverà
forti rivelazioni su se stesso.
Io, per esempio, sono attirato irresistibilmente dalle finestre, dalle
pozzanghere, dalle cose riflesse, e dal vento.