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DON PUGLISI

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DON PUGLISI

MARIO LANCISI

DON PUGLISIIl Vangelo contro la mafi a

ISBN 978-88-566-2213-3

I Edizione 2013

© 2013 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milanowww.edizpiemme.it

Anno 2013-2014-2015 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)

PREFAZIONE 7

PREFAZIONE di

don Luigi Ciotti

«Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa per-ché si sta esprimendo contro la mafi a. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite.»

Un uomo di mafi a divenuto collaboratore di giustizia parla così a un magistrato. Venticinque giorni dopo, don Puglisi verrà assassinato.

Pino Puglisi, dunque, come sacerdote di una Chiesa che interferisce.

Ma che cosa signifi ca “interferire”? E da dove nasce, in don Pino, questo “interferire” che avrebbe pagato con la vita?

Il bel libro di Mario Lancisi aiuta a capirlo.Nato a Palermo nel 1937, don Pino viene ordinato

sacerdote nel 1960, quando la Chiesa è mossa da quei fermenti che troveranno forma nel concilio Vaticano II, aperto da papa Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962. Il ven-to del cambiamento non coglie don Puglisi impreparato. È uno di quei preti che, all’inizio degli anni Sessanta, spe-rano ardentemente in una Chiesa più aperta al mondo, più capace di saldare il Cielo e la Terra, più determinata a contribuire al progresso umano denunciando anche le radici sociali e politiche dell’ingiustizia. Una Chiesa, non-

8 PREFAZIONE

dimeno, capace di avviare anche dentro se stessa un pro-cesso di purifi cazione dal potere per rendersi più povera ma, proprio per questo, più forte dinanzi a ogni potere.

È in questo fermento che don Pino intraprende il suo sacerdozio e scopre la sua vocazione educativa. Il libro di Lancisi ritorna spesso su quest’aspetto della persona-lità di don Puglisi, sul suo essere dotato della qualità che contraddistingue da sempre i grandi educatori: l’ascolto. Qualità che don Pino affi na alla fi ne degli anni Sessanta all’epoca della “contestazione”, quando i giovani non ri-escono più a identifi carsi in una società sentita per troppi versi autoritaria e selettiva, fossilizzata in costumi inca-paci d’intercettare il loro bisogno di partecipazione e di protagonismo.

In quegli anni don Pino insegna religione in un liceo di Palermo e riesce a farsi benvolere da tutti, anche da chi si sente ideologicamente avverso a una Chiesa considerata come una realtà reazionaria, ostile ai cambiamenti. Don Puglisi ascolta, dialoga – forte di una cultura alimentata da una gran curiosità intellettuale e da profonde e non “canoniche” letture – e a poco a poco suscita in quei gio-vani fi ducia, apertura, confi denza, accettando di misurar-si sul terreno della vita, quello delle grandi domande che scuotono la coscienza di ognuno a prescindere dai riferi-menti religiosi e culturali, lasciando da parte ogni pretesa di “proselitismo”. «Nessun uomo è lontano dal Signore» avrà modo di scrivere. «Lui è vicino, senz’altro, ma il Si-gnore ama la libertà. Non impone il Suo amore, non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta. Quando il cuore è pronto si aprirà.»

Ma l’attitudine pedagogica di don Pino, il suo profon-do interesse per le vite degli altri, incontrerà presto altre e ben più ardue prove. Inviato negli anni Settanta a Godra-no, borgo incastonato nelle Madonie a settecento metri

PREFAZIONE 9

d’altezza («sono diventato il prete più altolocato della dio-cesi», annoterà autoironico) trova una comunità segnata da una lunga e sanguinosa faida fra famiglie. A Godrano si sente chiamato per la prima volta a “interferire” in re-lazioni umane caratterizzate da dinamiche drammatiche e violente, e si rende conto come certi modelli culturali possano trovare indiretta sponda in «una religiosità inste-rilita nel chiuso della sacrestia o delle pratiche devozionali e bigotte».

Ma è nel ritorno a Palermo, la Palermo degli anni Ot-tanta insanguinata dagli omicidi e dagli attentati, che don Puglisi prende coscienza della forza criminale delle logi-che mafi ose, capaci di condizionare non solo le menti ma le strutture politiche ed economiche. Don Pino cerca di aprire varchi nel muro di omertà e connivenza che pro-tegge il potere mafi oso, e moltiplica il suo impegno nel campo educativo, consapevole che le indagini e gli arresti non bastano a estirpare un male destinato a riprodursi se non viene aggredito nelle sue origini sociali e culturali.

Ai suoi giovani insegna la tenacia e la forza dell’im-pegno collettivo, e li mette in guardia da tre pericoli: la “sindrome del torcicollo”, tipica di chi è prigioniero del passato; quella dell’immobilismo, frutto di esercizi d’in-telligenza troppo compiaciuti per passare all’azione; e quella, non meno insidiosa, dell’ansia frenetica, tipica di chi, volendo cambiare tutto sull’onda dell’emozione, fi ni-sce per cedere al richiamo delle scorciatoie.

Sembra quasi un gioco del destino quello che lo ripor-ta, all’inizio degli anni Novanta, a Brancaccio, il quartiere natio, «la borgata più dimenticata della città», dove la ma-fi a, dirà un collaboratore di giustizia, esercita un «coman-do geloso». È in realtà una scelta consapevole: «D’altron-de sono fatto così. Appena mi dicono che in quel posto non vuole andare nessuno, avverto immediatamente l’impulso a precipitarmi proprio lì».

10 PREFAZIONE

Il libro di Mario Lancisi ricostruisce il cammino esi-stenziale e spirituale di don Puglisi fi no a quel tragico 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno. È un libro toccante e documentato, arricchito dalle testimo-nianze di chi ha conosciuto don Puglisi e ha voluto bene a questo prete che interferiva come dovrebbe interferire nella nostra vita la voce della coscienza e il desiderio insa-ziabile di giustizia.

Mi limiterò, nel mio piccolo, a due ultime rifl essioni. Le mafi e – sempre attente nell’ostentare una religiosi-

tà di facciata, non vincolante sotto il profi lo etico – non sempre hanno trovato sulla loro strada una Chiesa che interferisce. Hanno anzi incontrato spesso atteggiamenti di neutralità se non, addirittura, di compiacenza e di col-lusione. Questo ovviamente non oscura l’impegno, ieri e oggi, di tanti uomini di Chiesa nei contesti più diffi cili, così come la storica “invettiva” di Giovanni Paolo II dal-la Valle dei Templi di Agrigento, quando, qualche mese prima degli omicidi di don Puglisi e di don Peppe Diana, defi nì la mafi a un «peccato sociale» e «una civiltà di mor-te», invitando i mafi osi a convertirsi.

Seconda rifl essione. L’impegno contro la mafi a non è dunque solo politico, culturale ed educativo, ma può e deve essere anche evangelico. Il Vangelo come strumento di giustizia, di affermazione della dignità e della libertà umana, non può che chiedere agli uomini di Chiesa paro-le di denuncia e un impegno netto contro le mafi e e tutte le forme di abuso, di corruzione, di illegalità che delle ma-fi e sono spesso l’anticamera. È augurabile, dunque, che la Chiesa prosegua nel suo processo di purifi cazione, spolia-zione e povertà di fronte al potere. A farla “ricca” sono e saranno le tante espressioni di responsabilità e impegno che saprà alimentare al suo interno.

Solo così la memoria di don Puglisi continuerà a vivere nel cuore e nelle opere di ciascuno di noi.

INTRODUZIONE 11

INTRODUZIONE

Da Barbiana a Brancaccio. Dieci anni fa, nel 2002, Piemme ha pubblicato il mio

primo libro sul mondo degli ultimi.Raccontato attraverso le storie di personaggi che li

hanno soccorsi. Come il samaritano si prese cura del mal-capitato in fi n di vita riverso sul ciglio della strada che da Gerusalemme porta a Gerico, ventisette chilometri in tutto.

Don Lorenzo Milani.Padre Alex Zanotelli.Adriano Sofri.Gino Strada.E ora don Pino Puglisi. Sì, Barbiana, Mugello. Da lì sono partito. Da don Mi-

lani e dai suoi ragazzi montanari ai quali insegnò che la «scuola è sempre meglio della merda», che dovevano da secoli raccattare nei loro poderi di miseria e stenti.

Brancaccio, Palermo. Anche don Puglisi aveva a cuore i ragazzi. Quelli che vivono per strada: non vanno a scuo-la, rubano e vengono reclutati dalla mafi a.

(Straordinario ad esempio è il valore della parola in Mi-lani e Puglisi. Due samaritani dell’intelligenza emarginata.)

In mezzo: gli impoveriti di Horogocho. Uomini e donne

12 INTRODUZIONE

che vivono in una baraccopoli. Discarica di Nairobi. Disca-rica umana. Lì, per dodici anni, ha vissuto Zanotelli. Poi Sofri e i detenuti del carcere di Pisa. Al di là della storia giu-diziaria dell’ex leader di Lc, il racconto ha puntato gli occhi sui senza-libertà. Uomini in catena. Situazione da avvento cristiano. Il cristianesimo è religione di uomini in catena.

Infi ne Strada. Era un chirurgo in rapida carriera. Un giorno lasciò tutto per andare a curare i feriti dalle bombe. Le vittime di guerra.

Eccoci a Brancaccio.Leggendo il mio lavoro, forse qualcuno dirà: ma don

Puglisi non era così, era diverso.Non ho scritto la biografi a di don Puglisi.Ho scritto di meno e di più.Racconto il mio sguardo e quello di molti testimoni.Testimoni più che testi, documenti.Sguardi più che concetti conclusi.Questo libro è il mio sguardo sulla vita del parroco di

Brancaccio. Ognuno di noi è quello che gli altri vedono, sentono,

percepiscono. I fatti sono oggettivi, ma gli sguardi no.Potete contestare i fatti, non i miei sguardi. E quelli dei

personaggi che ho chiamato a testimoniare.Da Pino Martinez al postulatore della causa di beatifi -

cazione monsignor Vincenzo Bertolone. Da Gregorio Porcaro al pm Lorenzo Matassa.Succede sempre così. I grandi personaggi tendono a

essere “privatizzati” quando il loro destino di grandezza sta nell’esatto opposto: essere di tutti.

Di tutti coloro che, ovviamente, si avvicinano a loro con cuore pulito.

Le piccole vite di solito appartengono ai piccoli uomini che le hanno vissute, ma le grandi vite sono patrimonio dell’umanità.

INTRODUZIONE 13

In questo senso la beatifi cazione di don Puglisi è un evento storico perché per defi nirlo martire la Chiesa ha dovuto riconoscere l’incompatibilità tra fede e mafi a.

Dopo il 25 maggio, giorno della beatifi cazione del par-roco di Brancaccio, si attua una cesura storica tra Chiesa e mafi a. L’“atea sacralità” dei mafi osi (defi nizione di Gian Carlo Caselli) è atea senza più aggettivi blasfemi.

Il Vangelo contro la mafi a. È il sottotitolo di questo li-bro. Proprio così: “contro”. Leggono il Vangelo molti ma-fi osi, ma la Chiesa – beatifi cando don Puglisi – sostiene solennemente che i due termini sono all’antitesi.

Vedremo che non sempre è stato così. E non sempre è così neppure oggi.

Ma la beatifi cazione di don Puglisi ha il valore di ricor-dare alla Chiesa e ai cristiani la strada da percorrere, con coraggio, senza compromessi.

E tuttavia la beatifi cazione del parroco di Brancaccio un rischio grosso lo contiene: quello di “privatizzarlo”, di farne un santino da devozione, di sterilizzarlo dal conte-sto storico in cui visse, operò e fu ucciso.

La stessa distinzione tra eroe e martire (Falcone e Bor-sellino eroi, Puglisi martire, ad esempio) sottesa alle ra-gioni che hanno portato don Puglisi sugli altari lascia perplessi.

Beato è chi mette in pratica le Beatitudini del Vangelo.Il resto è fumisteria dottrinaria. Quella dottrina tanto

cara al sacerdote e al levita che in nome della fede pas-sarono oltre, non si fermarono a risollevare da terra la vittima sulla strada verso Gerico.

Avevano fretta, dovevano andare al tempio.Per loro contava la dottrina, la regola, la fede astratta.Si fermò invece il samaritano, che non era cristiano.Un infedele.

14 INTRODUZIONE

Mossi da storie e valori anche diversi, don Milani, pa-dre Zanotelli, Sofri, Strada e don Puglisi hanno messo al centro della loro vita le vittime.

Non il tempio o la legge.La volontà di immedesimarsi con la vittima, di vestire i

suoi panni ha a che vedere con il mimetismo. I personaggi in questione hanno in comune l’idea che

la scelta dei poveri e degli ultimi implica la necessità di mettere in gioco la vita.

Di essere poveri con i poveri.Immaginarsi vittima.Vedere il mondo con gli occhi di chi è condannato a

morte. Di chi è stato ferito in un agguato di guerra.Di chi possiede a malapena un euro al giorno per vivere.Solo così si possono capire anche i linguaggi radicali,

i comportamenti “eretici”, le appassionate denunce po-litiche di chi – come i protagonisti delle mie storie – ha concretamente provato a calarsi nei panni delle vittime.

Fate questa prova.Provate a chiudere gli occhi e a immedesimarvi con i

fi gli dei montanari del Mugello.Con gli impoveriti di Korogocho che vivono in media

con un euro al giorno.Con i ragazzi ai quali le bombe hanno dilaniato, sfre-

giato il corpo.Con i ragazzi di Brancaccio senza scuola, senza diritti,

con un futuro da criminali.Con i detenuti delle carceri sovraffollate e disumane.Ora riaprite gli occhi e capirete la radicalità della denun-

cia di questi personaggi contro lo Stato, la Chiesa, i poteri forti e i meccanismi che regolano l’ingiustizia sociale.

E capirete anche – leggendo questo libro – perché don Puglisi, a chi lo invitava a essere prudente, rispondeva: «Cosa volete che mi facciano».

INTRODUZIONE 15

Chi si colloca dalla parte delle vittime automaticamen-te mette in gioco la propria vita.

Essere testimoni ed essere martiri alla fi ne è la stessa cosa.

Questo libro, che si colloca in un passaggio d’epoca, in una fase di trapasso segnato dalle elezioni politiche e dal nuovo papato, ambisce a segnalare una prospettiva di speranza: ci sono personaggi che rappresentano la miglio-re Italia.

La migliore Chiesa. A essi occorre fare riferimento.Come ai tanti eroi morti per mafi a. Dal giudice Livati-

no a Borsellino e Falcone.Alle vittime delle stragi dell’estate del 1993, organiz-

zate dai fratelli Graviano, i boss di Brancaccio. Gli stessi che ordinarono l’uccisione di don Puglisi.

Questo è lo sguardo con cui ho guardato a don Puglisi.Lo stesso usato per i personaggi raccontati in questi

primi anni del secolo nuovo.Lo stesso con cui ho letto, a vent’anni, Conversazione

in Sicilia di Elio Vittorini, rimanendo incantato dal Gran Lombardo che invocava – in un mondo offeso – nuovi doveri per gli uomini. «Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver bisogno di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti fu-rori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla», è l’incipit del romanzo di Vittorini.

Ci sono uomini – come don Puglisi – che ci aiutano a sperare.

A non ritenere il «genere umano perduto».A non rassegnarsi.

Firenze, 25 marzo 2013.

I. I PRIMI PASSI 17

PARTE PRIMA

I PRIMI PASSIL’infl usso dei genitori, il Concilio e il ’68

Nella vita di don Puglisi * la prima parte del libro abbraccia un arco temporale di quarantun anni: dalla nascita alla con-clusione della sua esperienza di parroco a Godrano.

Al centro ci sono le radici di sangue – i genitori, i fra-telli – di padre Pino, ma soprattutto le radici religiose e culturali. Quell’insieme di valori, in defi nitiva, espressio-ne anche dell’ambiente familiare, che si innestano in un tronco di vita che – passo dopo passo – si apre a nuove esperienze e acquisizioni. Come ha osservato Marcello Ba-dalamenti, in Il valore di un sorriso. Padre Giuseppe Pu-glisi. Un testimone dell’Evangelo (Pazzini editore, 2009), due sono i tratti distintivi nei primi passi di don Puglisi: l’attenzione ai giovani e la vicinanza al mondo del lavoro e alle problematiche sociali.

Educatore e prete di strada, dove strada sta per il luogo in cui si producono e si rappresentano le contraddizioni del-la società che, lette alla luce del Vangelo, non possono non tradursi in un’opzione per i poveri, gli ultimi.

Nell’esperienza di don Puglisi si colgono molti aspetti delle sue radici e dei suoi anni giovanili. L’humus familia-

* Pino Puglisi era un prete diocesano per il quale andrebbe usato il “don”, ma soprattutto i suoi amici lo chiamavano “padre”. Così troverete i due appellativi di “don” e di “padre”.

18 I. I PRIMI PASSI

re, una fede profonda e non bigotta e il senso di una vita normale e povera. L’infl usso del Concilio. L’idea di una fede sempre legata alla storia nel segno di un Vangelo in-carnato nell’umanità. Infi ne l’intuizione rivoluzionaria del perdono come percorso per ricostituire, nella comunità di Godrano ferita dalla mafi a, un tessuto civile tra le famiglie in lotta.

1. L’ULTIMO SORRISO 19

1

L’ULTIMO SORRISODalla nascita a Brancaccio all’ingresso in seminario

(1937-1953)

Aveva già le chiavi della porta in mano quando dal buio un uomo, Gaspare Spatuzza, gli afferrò il borsello e sotto voce gli disse: «Padre, è una rapina». Don Pino Puglisi ebbe il tempo di rispondere: «Me l’aspettavo» e sorrise. Dietro le spalle del prete c’era infatti un altro uomo, Sal-vatore Grigoli che, non visto, premette il grilletto della sua pistola, una 7,65 munita di silenziatore, e gli sparò sotto l’orecchio sinistro. Don Puglisi cadde a terra supino.

Era il 15 settembre 1993.Il giorno del suo 56° compleanno.Un anno dopo gli omicidi di Giovanni Falcone e di

Paolo Borsellino e delle loro scorte. Nell’estate calda e sanguinosa delle stragi mafi ose a Roma, Firenze e Milano. In quell’autunno in cui Silvio Berlusconi preparò Forza Italia e la sua discesa in campo.

Era il prete del sorriso, don Pino (o “padre”, secondo la devozione siciliana che unisce nel parrinu il prete e il padrino). Sorriso come mitezza, accoglienza e capacità di scherzare. Anche su se stesso, sul proprio fi sico non pro-prio armonico.

Aveva orecchie, mani e piedi grandi, sproporzionate, don Pino. Lui era però solito spiegare che le orecchie le aveva grandi per ascoltare i bisogni degli altri. Le mani

20 I. I PRIMI PASSI

per distenderle in tenere carezze. I piedi smisurati per camminare più veloce in aiuto del prossimo. La testa pe-lata infi ne, sorrideva padre Pino, rifl etteva la luce divina.

Dalla madre Giuseppina Fana, nata a Piraino, paese in provincia di Messina, Pino aveva ereditato “il sorriso fre-sco e coinvolgente, gli occhi con rifl essi verdi, lo sguardo caldo e affettuoso”, nonché il senso di fede e l’apertura agli altri. Da papà Carmelo invece «le orecchie a sventola e il carattere irruento e introverso», lo spirito di sacrifi cio e «il gusto per l’essenziale», annota Francesco Deliziosi1.

Il padre faceva il calzolaio, la madre la sarta in casa. Il nonno paterno invece era ferroviere e la famiglia Puglisi fu costretta a seguirlo nel suo peregrinare lavorativo.

È in una di queste tappe, a Messina, che Carmelo co-nobbe Giuseppina: tra i due scoccò l’amore, si fi danzaro-no, poi si sposarono e tornarono a vivere a Palermo.

Ai genitori Pino dava del “lei”, come era consuetudine a quei tempi. «La abbraccio, il suo affezionatissimo fi glio Pino», scrive ad esempio alla mamma per il suo onomastico.

L’infl usso di mamma Giuseppina

I Puglisi abitavano al numero 8 del cortile Faraone, quartiere Brancaccio, vicino a corso dei Mille. Il giorno in cui nacque Pino – all’anagrafe Giuseppe –, il 15 set-tembre del 1937, il «Giornale di Sicilia» titolava in prima pagina sull’imminente incontro tra Hitler e Mussolini.

Palermo allora aveva quattrocentomila abitanti. Il red-dito medio mensile era di tremila lire. Pino era il terzo fi glio, dopo Gaetano (1931) e Nicola (1932), che mori-rà nel 1948 per una malformazione cardiaca, a soli sedici anni. Nel 1945 arriverà infi ne Francesco (Franco), il più piccolo dei quattro fi gli. Pino nacque all’ospedale dopo un parto travagliato.

1. L’ULTIMO SORRISO 21

Erano molto religiosi, i Puglisi. Tutti casa, lavoro e chie-sa. Frequentavano la parrocchia e andavano a messa tut-te le domeniche. Franco, il quartogenito, racconta che la mamma, devota della Madonna di Fatima, si alzava alle cinque di mattina per correre in chiesa a recitare la nove-na, una devozione che consiste nel recitare alcune preghie-re ripetendole per nove giorni consecutivi. Poi, quando tornava a casa, i fi gli ancora a letto, Giuseppina in gran fretta preparava la colazione per la famiglia.

Pippo De Pasquale, amico d’infanzia di Pino (le due fa-miglie abitavano a pochi metri di distanza) ricorda che an-davano insieme alla chiesa di San Giovanni Bosco di padre Caracciolo: «Io ero discolo ma Pino già allora faceva notare la sua vocazione e cercava sempre di portarmi sulla buona strada», racconta De Pasquale2.

L’infl usso di mamma Giuseppina sui fi gli è profondo, ricco di esempi virtuosi. Un’impronta forte: «L’esempio di mia madre è stato determinante per tutti noi. Era una donna straordinaria, mi pareva potesse incarnare la mise-ricordia. Ricambiava in bene il male che aveva ricevuto. E ci invitava a fare la stessa cosa», racconta Franco, l’ultimo fi glio dei Puglisi3.

I fi gli rimproveravano la madre di eccessiva bontà. Non sopportavano che la gente ne approfi ttasse: «Veni-vano a casa nostra con un vestito chiedendo come favore un piccolo rammendo. Poi il rammendo diventava l’orlo. Alla fi ne mia madre aveva rifatto un vestito intero senza chiedere soldi in cambio», ricorda ancora Franco4.

E De Pasquale aggiunge che Pino era molto attacca-to ai suoi genitori, soprattutto alla madre, con la quale aveva un legame straordinario. «Era un fi glio esemplare. Affrontava con gioia i sacrifi ci che richiedevano nell’ulti-mo periodo, in particolare quelli per il padre», racconta l’amico di famiglia dei Puglisi5.

22 I. I PRIMI PASSI

Il giorno della prima comunione

Nell’album dei ricordi della famiglia Puglisi è conser-vata ancora la foto di Pino in posa il giorno della prima comunione. Si vede un giovane mingherlino, tutto vestito di bianco, un librettino in mano e le orecchie a sventola. Posa gioioso accanto a un inginocchiatoio. La prima co-munione di Pino risale al periodo in cui la famiglia Pugli-si, in seguito alla guerra, lasciò la città – come molti altri palermitani – e si trasferì sul lungomare della periferia, in zona Romagnolo, al numero 109 di via Messina Marine. Erano i primi mesi del 1943 e Palermo era assediata da aerei e bombe.

A Romagnolo Pino, che aveva una particolare incli-nazione per la matematica (materia che poi insegnerà in seminario), frequenta le scuole elementari. Sono gli anni, dal 1943 al 1948, di conclusione della guerra e inizio dell’Italia repubblicana.

Anni di bombe, morti e macerie.Ma anche di resurrezione, speranza, ricostruzione.Erano anni duri per tutti, a Palermo e in Italia. Pure

i Puglisi faticavano a sbarcare il lunario, anche perché nel frattempo, nel 1945, era nato Franco: un altro fi glio da sfamare e crescere. C’era poi da mantenere agli studi Pino. Che fu così costretto ad alternare studio e lavoro, dando una mano al babbo e alla mamma.

Nel 1948 Pino si iscrive alle medie, tre anni dopo ottie-ne il diploma. Già allora era attratto dai giovani: avvertiva l’esigenza di aiutarli a crescere e gli piaceva educare, inse-gnare. A chi gli chiedeva che cosa avrebbe voluto fare da grande, rispondeva: «Il maestro».

Scelse così di iscriversi all’istituto magistrale statale De Cosmi di Palermo.

Qui affondano le radici di Puglisi educatore di ragazzi e giovani.

1. L’ULTIMO SORRISO 23

Qui matura la sua capacità di ascolto e di dialogo e l’idea che in fondo il mondo può essere salvato dai ragaz-zini. Come si vedrà a Brancaccio, come si accorse la ma-fi a, che si vide sottrarre mani di ragazzi pronti a sparare. E per questo lo uccise. Per questo e perché dall’altare li aveva defi niti animali.

L’infl usso di don Calogero Caracciolo

La famiglia Puglisi frequentava la chiesa di San Giovanni Bosco, dove era parroco don Calogero Caracciolo, seguace di don Luigi Sturzo: l’anziano sacerdote agrigentino ebbe una forte infl uenza sulla formazione religiosa del giovane Pino. «Era un uomo di grande cultura e per quell’epoca di-mostrava una libertà di pensiero non comune, soprattutto per quanto riguarda l’indipendenza della Chiesa dai poli-tici», lo ricorderà don Puglisi nel corso di un convegno su «Chiesa e mafi a», tenutosi a Palermo nel febbraio del 1993.

Alla porta della parrocchia di don Calogero un giorno bussarono due galoppini di un infl uente parlamentare. Promisero un aiuto economico per aiutare il quartiere e rimettere a posto la canonica. Tirarono fuori dalle tasche anche il blocchetto degli assegni: «Padre, ci dica quan-to le serve». Don Caracciolo li cacciò via in malo modo: «Sappiate che io non faccio campagna elettorale per nes-suno! Io dico ai miei parrocchiani di votare secondo co-scienza, ma senza dare nomi, anche se me li chiedono». Quarant’anni dopo – come vedremo – anche don Puglisi si comporterà nello stesso modo6.

Era il 1953. L’anno in cui la Dc – con i satelliti Psdi, Pli e Pri – sfi ora la maggioranza assoluta. Charlie Chaplin deve andarsene dagli Usa perché accusato di essere fi loco-munista. E i coniugi comunisti di origine ebraica Julius ed Ethel Rosenberg vengono giustiziati sulla sedia elettrica.

24 I. I PRIMI PASSI

«Perché non ti fai prete?»

In parrocchia Pino faceva il chierichetto e militava nel-l’Azione cattolica. Come si è già sottolineato, sia a scuola che in parrocchia Pino mostrava una particolare inclina-zione nell’educazione dei bambini. Un’attitudine colta dall’allora arcivescovo di Palermo, Ernesto Ruffi ni, che una volta gli domandò: «Perché non ti fai prete?». Pino rispose che almeno per ora non se la sentiva. Ma quando, in un giorno di primavera del 1953, si incontrò in cat-tedrale con monsignor Francesco Guercio, la situazione mutò radicalmente.

Pinuccio – così lo chiamavano gli amici – si sentì ri-volgere la stessa domanda da monsignor Guercio che, in quanto assistente diocesano dell’Azione cattolica, era il suo superiore: «Ma ci hai mai pensato a farti prete?».

Una domanda che aveva il sapore della proposta di vita. Questa volta il ragazzo sentì dentro esplodere una disponibilità al “grande passo”. Rispose senza esitazione: “sì”. E, divenuto prete, racconterà agli amici che quel sì, pronunciato nella cattedrale di Palermo davanti a monsi-gnor Guercio, è stato il cambio di stagione più importante della sua vita.

La mamma gioì per la decisione del fi glio. In cuor suo aveva sempre sognato un fi glio prete, per ringraziare Dio per il parto travagliato di Pinuccio. «Mia madre pregava sempre ma non faceva mai nessuna pressione sui suoi fi -gli. Non immaginava che mio fratello sarebbe divenuto prete, semmai pensava fossi io quello più predestinato. La sua scelta fu un totale atto di libertà», racconta Franco7.

C’è forse un legame misterioso tra la travagliata nascita alla vita di Pino e il suo “sì” al servizio di Dio nella forma più radicale del sacerdozio.

Papà Carmelo lasciò Pino libero di decidere secondo co-scienza. Era in gioco la sua vita e quindi doveva scegliere lui.

1. L’ULTIMO SORRISO 25

Era preoccupato, questo sì, per l’aspetto economico: mandare un fi glio in seminario costava. Per la precisione diciassettemila lire. Una bella cifra per l’epoca. Questa era la retta, alla quale poi la famiglia Puglisi doveva ag-giungere il costo dei libri, della biancheria e persino del lucido per le scarpe.

Papà Carmelo però non si perse d’animo e si mise a raggranellare i soldi per mandare il fi glio in seminario. Grazie anche all’aiuto di don Caracciolo.

Anche Gaetano, il fratello maggiore, che faceva il mec-canico, decise di contribuire economicamente alle spese seminariali del fratello. Tra i due il rapporto era splendido. Proprio nello stesso periodo in cui Pino maturò la scelta di farsi prete, Gaetano si fi danzò. E aspettò che il fratello venisse ordinato sacerdote per farsi sposare da lui. Attese che un cerchio di mistero divino felicemente si chiudesse.

Quando Pino diventò prete, ringraziò nell’omelia della sua prima messa i sacrifi ci sostenuti dalla famiglia, in par-ticolare proprio dal fratello Gaetano.

A sedici anni entra in seminario

Poiché veniva dalle magistrali, prima di entrare in se-minario Pino dovette sottoporsi nell’estate del 1953 a uno studio intensivo di greco e latino. Fu aiutato molto da padre Caracciolo, ma anche da monsignor Giacomo D’Amico, che allora era seminarista, solo di qualche anno più grande di Pino. I due ricominciarono dall’analisi lo-gica e grammaticale per poi arrivare al latino e al greco. Giacomo insegnava e Pino ascoltava, ma aveva in mano sempre qualche scarpa da riparare. Doveva continuare ad aiutare il padre.

«Seguendo le sante ispirazioni del Signore che mi ha illuminato sulla vanità delle cose terrene e sulla grandezza

26 I. I PRIMI PASSI

della Sua grazia, ho deciso di dedicarmi al servizio della Sua gloria e al bene delle anime», scrive Pino nella richie-sta di ammissione al seminario8.

Aveva sedici anni. Era il settembre del 1953. Venne iscritto al terzo anno

di liceo dopo un esame di ammissione che lo costrinse tutta l’estate a studiare latino e greco. E, due mesi dopo il suo ingresso in seminario, il 7 dicembre fece la vestizione chiericale.

NOTE

Nelle note, per consentire una lettura più veloce, appaiono solo i nomi degli autori, i cui libri sono citati nella bibliografi a.

1 DELIZIOSI, p. 168.2 CORVAIA.3 ANFOSSI, p. 24.4 Ibid.5 CORVAIA, p. 31.6 ANFOSSI, p. 47.7 DI PIETRO, p. 45.8 Ibid., p. 49.