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 I progenitori di questi scranni, panchine, letti scomodi, degli anni novanta che prossimamente ver- ranno esibiti in qualche spazio espositivo furono bocciati perché criticavano la politica estera ame- ricana - quella che aveva indotto a scaricare sul Vietnam una insensata quantità di bombe - e au- spicavano che le micidiali armi della super p otenza fossero apprezzate per la loro bellezza ben più che per la dirompente forza distruttiva. Opere scomode anche queste degli anni novanta che si presentano come altrettanti testi di “arte  politica” e si offrono alla interpretazione libera di altrettanti liberi estimatori d’arte. Quindi scranni,  panchine, letti scomodi che pur pretendendo di essere considerati messaggeri di disagio politico la- sciano liberi coloro che li vedranno di attribuirgli altri significati, se non addirittura di utilizzarli -non solo metaforicamente- come strumenti di piacere ses suale e questo in sintonia con quelle ali, eliche, fusoliere di aerei da guerra che negli anni ’60, per quanto fossero rivolte a dissuadere dal  proseguire la gu erra in Vietnam, non impediv ano a nessuno di assemblarle p er restituirle -con la ritrovata unità- ad un efficace impiego contro l’uno, l’altro, o entrambi i contendenti. La discrezionalità lasciata ai fruitori di interpretare le mie opere non co stituisce né un atto ined i-to, né significativo di generoso altruismo poiché questi meriti appartengono a Duchamp che espo- nendo a New York con un titolo arbitrario e come opera sua un candido orinatoio di porcellana, comprato in una rivendita di sanitari, e fondando un museo d’arte contemporanea destinato ad ospitare anche opere di dubbio valore artistico, seppe suggerire ad alcuni estimatori americani delle  prime avanguardie europee l’idea rivoluzionaria che un qualsiasi manufatto si prestava ad acquisire significati e valori estetici del tutto arbitrari qualora fosse stato esibito in prestigiosi luoghi d’espo- sizione. Sbagliato sarebbe pensare che quella rivoluzionaria idea sia rimasta nell’ambito del collezionismo e del mercato privato, dal momento che, vinto dall’America l’ultimo immane conflitto, essa fu adot- tata dalla sua classe dirigente per assecondare i vasti e diversificati impegni che attendevano la neo- nata potenza imperiale. E n onostante che nelle arti figurative -pittura e scultura- l’America non  possedesse una tradizione storica paragonabile a quella di molti Paesi europei e asiatici, il compito di tale classe fu tutt’altro che difficile poiché poté offrire della nuova potenza un’immagine mod er- na e spregiudicata valorizzando quegli artisti autoctoni che, a partire dagli anni quaranta, avevano 1

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I progenitori di questi scranni, panchine, letti scomodi, degli anni novanta che prossimamente verranno esibiti in qualche spazio espositivo furono bocciati perché criticavano la politica estera americana - quella che aveva indotto a scaricare sul Vietnam una insensata quantità di bombe - e auspicavano che le micidiali armi della super potenza fossero apprezzate per la loro bellezza ben più che per la dirompente forza distruttiva. Opere scomode anche queste degli anni novanta che si presentano c

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I progenitori di questi scranni, panchine, letti scomodi, degli anni novanta che prossimamente ver-

ranno esibiti in qualche spazio espositivo furono bocciati perché criticavano la politica estera ame-

ricana - quella che aveva indotto a scaricare sul Vietnam una insensata quantità di bombe - e au-

spicavano che le micidiali armi della super potenza fossero apprezzate per la loro bellezza ben piùche per la dirompente forza distruttiva.

Opere scomode anche queste degli anni novanta che si presentano come altrettanti testi di “arte

 politica” e si offrono alla interpretazione libera di altrettanti liberi estimatori d’arte. Quindi scranni,

 panchine, letti scomodi che pur pretendendo di essere considerati messaggeri di disagio politico la-

sciano liberi coloro che li vedranno di attribuirgli altri significati, se non addirittura di utilizzarli

-non solo metaforicamente- come strumenti di piacere sessuale e questo in sintonia con quelle ali,

eliche, fusoliere di aerei da guerra che negli anni ’60, per quanto fossero rivolte a dissuadere dal

 proseguire la guerra in Vietnam, non impedivano a nessuno di assemblarle per restituirle -con la

ritrovata unità- ad un efficace impiego contro l’uno, l’altro, o entrambi i contendenti.

La discrezionalità lasciata ai fruitori di interpretare le mie opere non costituisce né un atto inedi-to,

né significativo di generoso altruismo poiché questi meriti appartengono a Duchamp che espo-nendo a New York con un titolo arbitrario e come opera sua un candido orinatoio di porcellana,

comprato in una rivendita di sanitari, e fondando un museo d’arte contemporanea destinato ad

ospitare anche opere di dubbio valore artistico, seppe suggerire ad alcuni estimatori americani delle

 prime avanguardie europee l’idea rivoluzionaria che un qualsiasi manufatto si prestava ad acquisire

significati e valori estetici del tutto arbitrari qualora fosse stato esibito in prestigiosi luoghi d’espo-

sizione.

Sbagliato sarebbe pensare che quella rivoluzionaria idea sia rimasta nell’ambito del collezionismo e

del mercato privato, dal momento che, vinto dall’America l’ultimo immane conflitto, essa fu adot-

tata dalla sua classe dirigente per assecondare i vasti e diversificati impegni che attendevano la neo-

nata potenza imperiale. E nonostante che nelle arti figurative -pittura e scultura- l’America non

 possedesse una tradizione storica paragonabile a quella di molti Paesi europei e asiatici, il compitodi tale classe fu tutt’altro che difficile poiché poté offrire della nuova potenza un’immagine moder-

na e spregiudicata valorizzando quegli artisti autoctoni che, a partire dagli anni quaranta, avevano

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saputo interpretare le poetiche più estreme che avevano continuato ad attraversare l’Atlantico e a

sfruttare il fatto che quelle poetiche e le opere da esse ispirate erano rimaste ai margini dell’atten-

zione degli estimatori d’arte. Fu così che dagli anni cinquanta il nuovo Stato imperiale mise a di-

sposizione dei più spregiudicati galleristi di New York i Musei dei suoi Stati e degli Stati alleati e/o

sottoposti affinché potessero valorizzare le opere dei loro artisti.

Per dare un’idea di quanto grande fosse tale generosità basti qui ricordare i Musei che furono messial servizio di uno solo degli oltre venti artisti che a partire da quegli anni lavoravano per la più

 potente galleria di New York, la “Leo Castelli”. In appena vent’anni di attività presso questa

galleria le opere di Jasper Johns furono esposte tra mostre e retro-prospettive da: Pasadena Art

Museum-California, 1965,1966; Museum of Modern Art, New York City,1970,1972, 1986; Phila-

delphia Museum of Art, Pensylvania, 1970; Museum of Contemporary Art,- Chicago, 1971; Muse-

um of Fine Arts, Huston- Texas, 1972; Tate Gallery, London, 1981; Whitney Museum of American

Art, New York City,1977, 1982; City Art Museum of St. Luis, Missuri,1985; Jewsh Museum, New

York City,1964; e collezionate da: Stedelijk Museum, Amsterdam; Hirshhorn Museum and Sckptu-

re Garden, Washington; Museum of Modern Art, New York City; San Francisco of Modern Art;

Seibu Museum of Art, Tokyo; Moderna Museet, Stockholm; Tate Gallery, London;Victoria and

Albert Museum, London; Witney of American Art, New York City.

Se si ignorasse che lo Stato francese comprò la prima opera di Picasso nel 1960, quando l’artista

era ultra-settantenne, e che nella prima metà del XX° secolo acquistare e valorizzare opere di artisti

anziani, vecchi, morti, era prassi a cui si attenevano i Musei dei paesi democratici in quanto identi-

camente istituiti per scegliere quali opere -tra tutte quelle create dagli artisti appartenenti a determi-

nate generazioni- meritavano pubblica tutela, non si potrebbe capire lo sconquasso che produsse la

classe dirigente americana nell’ambito delle arti figurative quando unilateralmente abiurò tale prassi

 per affidare la gestione dei Musei a galleristi “amici” di New York affinché se ne servissero per 

 promuovere i loro artisti.

La prima autorevole personalità che si oppose al cambiamento di funzione dei Musei fu Henry

Kahnweiler, il mercante d’arte più importante del secolo trascorso. Nel 1916 aveva scritto: “Non si

dovrebbe mai lasciare a disposizione dello Stato denaro per permettergli di aiutare gli artisti viventi

 perché…verrebbe sperperato per persone che non lo meritano”. Quarant’anni dopo, ormai vecchio,

convinto più che mai che il mondo dell’arte dovesse sottostare alle leggi di mercato, rimase profon-

damente disgustato nel constatare che nella patria del capitalismo nessun significativo settore della

società si era sollevato contro la classe dirigente che aveva tradito tali leggi e nel vedere che questo

tradimento era stato compiuto per convogliare l’attenzione del mondo su New York a scapito di Pa-

rigi. Parigi era capitale universale d’arte da almeno centocinquant’anni per merito dei suoi grandis-

simi artisti, mentre New York lo sarebbe diventata grazie ai soldi dei cittadini, sperperati dallo

Stato per artisti che dovevano ancora dimostrare di esserlo. Ormai convinto che le gallerie america-

ne stiano lavorando per collocare i loro artisti su piedistalli più alti di quelli sui quali si erano erettigli artisti delle sue mitiche gallerie -Picasso, Braque, Leger- egli non esita ad attaccare l’opera di

Polloch, l’artista più noto della “scuola di New York”, giudicata capace -addirittura- di trascende-

re la lezione cubista, in nome e per conto di un tormentato subconscio, quando un giudizio obiettivo

dovrebbe ravvisare nell’ “action painting” di questo artista nient’altro che una delle tante possibili

applicazioni dell’automatismo surrealista i cui prodotti sono da catalogare tra quelli che appartengo-

no all’arte astratta.

Inutile aggiungere che se l’opera di Polloch non è apprezzata da Kahnweiler, tanto meno lo sono

quelle degli altri artisti americani tutte, ai suoi occhi, pretestuosamente sopravvalutate dal momento

che altro non sono che derivati delle poetiche europee, alcune delle quali nate ancora prima che ve-

desse la luce il surrealismo.

Giudizi negativi che non possono essere condivisi ma ai quali non si può negare di affondare leradici su fatti incontestabili poiché è vero, per quanto riguarda Polloch, che “l’action painting” de-

riva dall’automatismo surrealista e che le sue opere sono state criticamente sopravvalutate per accre

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scere il prestigio della “scuola di New York”. Né si può negare che Kahnweiler avesse ragione a ri-

tenere impossibile che la poetica dadaista, fondata sulla valorizzazione della attività casuale per ren-

dere improbabile a coloro che l’avessero applicata di ottenere risultati poeticamente validi, potesse

-solo perché praticata in America- garantire ai neodadaisti -Dine, Johns, Rauschemberg- di ottene-

re opere sempre tanto eccellenti da meritare di essere esibite nei templi più esclusivi consacrati al-

l’ arte. Né in base alla definizione che egli ha dato di arte decorativa -“pietrificazione . che si mani-festa quando . si tratta di fissare… un simbolo stereotipato che finisce per vuotarsi di ogni contenu-

to”- si può misconoscere -come è stato fatto- che parte dell’arte “minimalista” -Marden, Ryman,

Stella- e “concettuale” -Barry, Kosut, Heubler- possa essere collocata fuori dal grande contenitore

delle arti decorative. E se si dovesse procedere ad esaminare l’avversione che ha riversato sugli altri

aspetti dell’arte moderna americana mai si potrà trovare che le sue critiche non siano giuste almeno

 per due aspetti fondamentali: l’essere stata, tale arte, nelle sue parti e nel suo assieme, artificiosa-

mente sopravvalutata e destinata dalla classe dirigente del neo Stato imperiale a svolgere un ruolo

vicario.

A questo punto si impone la domanda: alla distanza di trent’anni dalla morte di Kahnweiler, che

senso ha ricordare la sua avversione per l’arte americana? La risposta è: tale arte non avrebbe meri-

tato da parte sua tanta attenzione e ostilità se non fosse stata un’arte strumentalizzata. Quindi nonuna avversione generalizzata alla Artur Danto1 che, in nome della sua filosofia dell’arte desunta da-

gli oggetti inanimati di Duchamp -orinatoi, ruote di biciclette, scola bottiglie, attaccapanni, ecc.-,

 priva l’arte addirittura di identità. No: Danto non c’entra. E nemmeno c’entrano tutti i filosofi e le

filosofie che, nel corso della storia, hanno avversato l’arte, dal momento che Kahnweiler si propone

di esaltarne la perenne vitalità evitando di definirne la natura; una natura che sa essere tanto più

sfuggente quanto più è inestricabilmente compromessa con tutte le attività umane, da quelle

intellettuali a quelle pratiche. Più modestamente l’attacco di Kahnweiler all’arte americana non è e

non vuole essere un attacco di principio al valore artistico delle opere dei suoi protagonisti, ma un

at-tacco a coloro che, lodandole oltre il dovuto, le utilizzano per imporre l’egemonia dello Stato

imperiale. Un’egemonia che Kahnweiler non accetta nei termini in cui è stata posta e imposta,

 poiché non distingue a sufficienza tra politica e cultura, tra i giusti obbiettivi politici -cancellazione

dei postumi del militarismo imperiale giapponese, delle dittature nazista e fascista, neutralizzazione

dello stalinismo- e l’arbitrario restringimento di ricerca e di espressione che punisce soprattutto

quegli intellettuali e artisti che in buona fede, non rendendosi conto di quanto ci sia di politicamen-

te giusto nel disegno americano, vi remano contro. E tale inaccettabilità nasce in lui ancora prima

che dalle convinzioni democratiche dall’esigenza di indulgere sull’ingenuità commessa dal più

grande e stimato artista della sua galleria. Picasso infatti era stato precocemente attratto dalla sirena

del così detto “pacifismo” avendo partecipato nell’agosto 1948 assieme ad altri illustri scrittori ed

artisti -tra i quali: Paul Eluard, Il’ja Eremberg, Le Courbusier, Salvatore Quasimodo, Elio Vittorini,

Renato Guttuso- al primo “Congresso mondiale degli intellettuali della pace” che si era tenuto in

Polonia dove si erano poste le basi di un pacifismo peloso egemonizzato dallo stalinismo che si proponeva -strumentalmente-, in primo luogo, di contrastare l’armamento nucleare e la politica

estera americana. Ma Picasso si era spinto oltre dal momento che a questa partecipazione aveva

unito l’iscrizione al Partito comunista francese (PCF) che, assieme a quello italiano (PCI), costitui-

vano le punte di lancia più pericolose che disponesse l’ “Internazionale comunista” nell’ambito dei

 paesi occidentali.

Da uomo di sinistra -ma non di partito- Kahnweiler è consapevole che Picasso è meno libero di lui

nel giudicare la politica del partito e che distratto dalla vulcanica attività creativa non troverà mai il

tempo per meditare a fondo anche solo su una delle gravissime doppiezze che si celavano dietro tale

 politica. Ciò nonostante, conoscendo l’uomo e quanto fosse grande la sua umanità e inge-nuità, è

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Artur Danto ne “LA DESTITUZIONE FILOSOFICA DELL’ARTE” -Ed. Tema Celeste,1992- scrive: “…oggetti [qualsiasi e anche tra loro]indiscernibili diventano opere d’arte alquanto diverse e distinte grazie ad interpretazioni diverse e distinte pertanto considererò le interpretazioni come

funzioni trasformatrici degli oggetti materiali in opere d’arte”.

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convinto che per il PCF e per le forze a cui è collegato egli sarà destinato a scuotere ferree

convinzioni che albergano nelle menti di dirigenti e militanti. E che quanto pensava fosse vero lo

dimostra anche solo lo sgomento che il grande catalano provocò, nel 1953, alla morte di Stalin,

quando gli dedicò un ritratto con tanto di “baffetti” e aria da “damerino” che pur senza volerlo fran-

tumava impietosamente la rigida iconografia imposta dall’alto ai comunisti di rappresentare il

feroce dittatore come un uomo destinato ad ispirare solo timore e venerazione. Ma l’ambiguità cheera insita nella militanza politica di Picasso spronava lo stesso Kahnweiler a continuare ad intratte-

nere con i Paesi d’oltre cortina un rapporto altrettanto ambiguo, fondato non sulle contrapposizioni

ideologiche e politiche frontali, ma su una non dichiarata ostilità rivolta a incrinare il dogma esteti-

co che imponeva agli artisti russi e dei paesi satelliti di rispettare un rigido canone accademico. Un

conflitto sotterraneo che doveva culminare nel 1963 quando riuscì ad organizzare in Russia una

mostra delle opere di Léger. Per quanto osteggiata dallo stesso Kruscev, questa mostra rivela che il

lavoro ai fianchi incominciava a dare frutti, come testimonia non solo la relativa libertà che durante

il soggiorno nel paese dei Soviet fu lasciata a lui e al suo assistente -Maurice Jardot- di incontrare

curatori di Musei e artisti, per spiegare che le opere di Léger, che esaltavano il mondo del lavoro e

della fatica, non contraddicevano il “realismo socialista”, ma anche che questa tesi era stata condivi-

sa da una parte della nomenklatura altrimenti né la prefazione del catalogo della mostra sarebbestata firmata da Maurice Thorez,2 né la mostra avrebbe potuto essere ospitata all’Ermitage di

Leningrado.

Un successo che non lasciava soddisfatto Kahnweiler poiché alla consapevolezza che la mostra

aveva convinto, provvisoriamente, solo una piccolissima parte della nomenklatura sulla non esi-

stenza di un solo “realismo socialista”, se ne aggiungeva un’altra ancora ben più decisiva: non aver 

 potuto nemmeno accennare, durante quel soggiorno, che imporre “un’arte per il popolo” equivaleva

disprezzarlo, nella misura in cui conculcava il diritto che tutti i cittadini del mondo hanno di far 

 parte dell’élite degli estimatori d’arte. E questa insoddisfazione non doveva restare oziosa se, roden-

do nel profondo della coscienza, doveva indurlo a ripensare il comportamento che fino a quel mo-

mento aveva intrattenuto con i Paesi dell’est e più in generale con il mondo comunista per poi

spingerlo a passare da un atteggiamento di fronda ad uno di aperta contrapposizione. Un processo

che culminò nel 1968 quando condannò l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati

del “Patto di Varsavia” e si espresse a favore dell’affermazione del “socialismo dal volto umano” di

Dubcek.

Ricordare il contributo dato dal grande gallerista alla causa antistalinista è un dovere che si impone

 per omaggiare lui e quanti come lui, da uomini liberi, operarono con la speranza di poter contribuire

a realizzare, senza spargimenti di sangue, una rivoluzione di proporzioni bibliche come quella che

 poi si realizzò tra il 1989-’91, con la caduta del muro di Berlino e il disfacimento dello Stato

imperiale sovietico. Ed è un peccato che un uomo tanto generoso non abbia potuto assistere a

questo evento che l’avrebbe in parte ripagato delle amarezze patite negli ultimi dieci anni di vita.Morì nel 1979, quando il regime bresneviano con il suo ritorno al passato sembrò inaridire quei

semi che Krusciov aveva saputo spargere nel ’56 quando, al XX° Congresso del PCUS, denunciò i

crimini di Stalin e permise che si divulgassero romanzi e documenti del dissenso. Ma se fosse vis-

suto tanto a lungo constatare che la classe dirigente americana continuava a sperperare denaro

 pubblico al fine di strumentalizzare l’arte lui, che tante energie aveva speso per dissuaderla, non si

sarebbe sentito altrettanto remunerato.

Una remunerazione che finché fu in vita Kahnweiler mai pensò che gli fosse dovuta dal “Dipar-

timento di Stato” -meritoriamente impegnato, negli anni settanta, a contrastare la reazione bresne-

viana e a favorire quello che sarà il processo riformatore di Gorbaciov- ma da coloro che apparte-

nendo, o avendo appartenuto, al “movimento per la libertà della cultura” -movimento fondato nel

1950 a Berlino in opposizione a quello della “pace”3 -, consapevoli che la politica americana nonera esente da errori, avrebbero dovuto unirsi nella richiesta di correggerli. Avrebbero dovuto se

2 M: Thorez fu segretario del Partito comunista francese (PCF) ininterrottamente dal 1930 al 1964 .

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fossero stati coerenti, ma non lo erano stati, e lui era rimasto solo, fin dai lontani anni cinquanta, a

invocare che i Musei americani e quelli dei Paesi amici ritornassero a svolgere i compiti d’ante-

guerra, anziché promuovere le opere di giovani principianti che non avevano ancora avuto nemme-

no il tempo per capire quali fossero le loro attitudini e capacità. E questa solitudine l’induceva al

 pessimismo, a ritenere che sarebbe stato più facile assistere alla conversione al liberismo e al libera-

lismo di tutti i “partigiani della pace”, che vedere anche solo qualche partigiano della “libertà dellacultura” mobilitarsi per emendare gli errori della democrazia sicché, i Musei, liberi di promuovere

numeri crescenti di opere immeritevoli, avrebbero col tempo resa generale e irreversibile la convin-

zione che le arti figurative fossero un parco giochi dove, bandite le responsabilità personali e col-

lettive, tutti sono costretti a divertirsi come “matti”, così come a divertirsi erano stati costretti i

visitatori della XXXIII Biennale di Venezia “con dozzine e dozzine di apparecchi che funzionano

quando si premono i bottoni e di luci che si accendono, palle che rimbalzano, specchi convessi e

concavi che si attorcono, buchi in cui si cacciano le dita e che danno sensazioni rare”.

Chi scrive confessa che se non avesse letto il libro -“IL MERCANTE DI PICASSO”- di Pierre

Assouline mai avrebbe capito che la censura messa in atto dalla classe dirigente americana per im-

 pedire che artisti sgraditi togliessero visibilità, moneta e gloria a quelli graditi fosse stata esercitatain modo tanto sistematico, esteso, duraturo; né che l’eredità più preziosa lasciata da Kahnweiler alle

future generazioni fosse l’incitamento a ribellarsi sempre e ovunque agli arbitri che offendono il di-

ritto di espressione individuale, formalmente riconosciuto da tutte le Costituzioni democratiche; né

avrebbe significativamente apprezzato il tentativo fatto da ANTIDOGMA per riparare i danni arre-

cati -non solo all’arte- dalla politica.

ANTIDOGMA in origine fu un’associazione informale creata da Ugo Nespolo, Marcello Levi,

Armando Puglisi, al fine di “promuovere l’attività di quegli artisti che pur meritevoli avevano diffi-

coltà a farsi conoscere e apprezzare dal pubblico” e “costituire un punto d’attrazione per quelle per-

sone e quei gruppi che… erano potenzialmente disponibili ad appoggiare le lotte per i diritti civili

che trovavano nel Partito radicale (Pr) il loro centro propulsivo”. Quest’associazione ebbe vita

 breve, (anni: 1973 - ’75), ma ricca di proposte e iniziative. Tra quelle più significative qui si

ricordano le mostre degli scultori: Calzolari, Lenassini, Mainolfi, Trafeli; le conferenze di

Giovanna Zincone e Fulvio Gianaria -rispettivamente: “CULTURA FEMMINISTA COME

CULTURA ALTERNATIVA” e “CODICI E LIBERTA’ PERSONALI”-; l’asta delle opere che un

gruppo di artisti -Anselmo, Boetti, Carena, Gastini, Gilardi, Griffa, Martelli, Nespolo, Penone,

Piacentino, Zorio- avevano donato per finanziare le lotte radicali.

Alla fine del 1975 Levi, ormai convinto che con Nespolo si era creata una divergenza insanabile su

quali fossero gli artisti da considerare meritevoli di apprezzamento e promozione, si ritirò e riti-

randosi determinò la chiusura dell’ampia sede di via Calandra 13, che fino a quel momento aveva

ospitato ANTIDOGMA, ma non riuscì a decretarne la fine poiché prontamente questa si trasferì invia Cassini 46, presso lo studio Nespolo. Il trasferimento segnò anche il prologo della duplicazione

di ANTIDOGMA, tra quello che farà capo a Nespolo, impegnato a sostenere le lotte di liberazione

 propugnate dal FUORI e dal Pr, ma anche e sempre più a promuovere iniziative artistiche di generi

diversi e quello che farà capo a Puglisi.

Quest’ultimo il debutto, in realtà, l’aveva già fatto nel ’74 quando sulla copertina di un pamphlet di

112 pagine -“PRATICAMENTE /dibattito tra lotta continua e un suo militante”4 - comparve un

3 Per un’informazione pertinente e succinta su questo “movimento” si rimanda al libro “BENEDETTI AMERICANI” di Massimo Teodori; Ed.

Mondadori, 2003.

4Su “Paese Sera” -settembre 1974- con il titolo “Dibattito tra militanti” il panphlet fu recensito da Piero Dallamano. Nella recensione si legge: “C’è

da chiedersi perché manchino in questo periodo… i libri che indirizzino all’indottrinamento politico attraverso l’arma della letteratura popolare.

Eppure un tempo il genere era abbastanza . fiorente…penso… a Monaldo Leopardi [padre di Giacomo]…tuttavia il genere sopravvive…Prendiamo

come esempio questo “Dibattito tra Lotta Continua e un suo militante” che prende il titolo di “Praticamente” … In “Praticamente” l’apparatoletterario narrativo è ridotto davvero al minimo, al punto che i personaggi del… dibattito sono siglati o abbreviati: L. C. (=dirigente di Lotta

Continua); Antonio il P. (=operaio FIAT); comp. Stud. (=studente); comp. Op. (= operaio); comp. Op. e Stud. (= operai e studenti), mentre si entra

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logo composto dalla parola ANTIDOGMA posta sotto due mani contrapposte a pugni serrati ma

ad indici ben distesi a simboleggiare determinazione nel percorrere opposte direzioni. Questo logo

-ideato e disegnato da Nespolo- da quel momento in poi comparve su copertine e prime pagine di

libercoli e opuscoli che chi scrive compilò, ciclostilò, distribuì durante il periodo in cui frequentò da

iscritto o da “compagno di strada” il Partito radicale (anni 1972-’83). Di questi documenti qui ne

verranno ricordati solo alcuni.Lettera inviata nell’estate ’76, “AI DEPUTATI/ AL CONSIGLIO FEDERATIVO/ AL SEGRE-

TARIO/ ALLA GIUNTA/ AL TESORIERE/ AL REVISORE DEI CONTI DEL P.R.”. Per com-

 prenderne il contenuto è necessario tener presente che nel 1974 il Partito radicale si era assegnato il

compito di promuovere una “nuova forza di socialisti” -unificazione organica di Psi e Pr- con il

compito di conquistare il 20% del consenso elettorale. Disegno ambizioso che proponendosi di por-

tare questa “nuova forza” ad essere il principale Partito d’opposizione alla Democrazia Cristiana,

con il compito di prosciugare i privilegi clericali, rendere responsabili e liberi i singoli cittadini,

rispettose dei principi costituzionali le forze politiche, avrebbe poi rese possibili quelle alternative

di governo che -finalmente- avrebbero permesso anche all’Italia di vivere nell’ambito della norma-

lità democratica. Propositi giusti ma irreali poiché, sopraggiunte le elezioni politiche anticipate -

(giugno 1976) l’unificazione rimasta una chimera aveva costretto i due Partiti a presentarsi separatial giudizio degli elettori e ad ottenere voti inferiori a quelli che nelle precedenti elezioni il Partito

socialista aveva ottenuto da solo. Se questa era la deludente realtà che emergeva dalle elezioni, la

lettera si rivolgeva ai dirigenti radicali per invitarli a cambiare disegno politico e il suo contenuto,

 brevemente riassunto, era il seguente: le elezioni le aveva vinte il Partito comunista che con il suo

34% si era portato a ridosso di quel 38% di voti ottenuti dalla Democrazia cristiana; perdenti so-

cialisti e radicali che con un misero 10% erano rimasti ben lontani da quel consenso che i radicali si

erano proposti di conquistare all’area socialista-libertaria.

Il fallimento era da attribuire ai radicali per aver “convinto l’elettorato che le lotte per i diritti ci-vili

sono avulse dalle lotte economico-sociali, lasciando -a sinistra- il Pci libero di presentarsi co-me il

 paladino di entrambe, per trarre il massimo beneficio dalla carenza radicale”. Pertanto la po- litica

del Partito doveva essere corretta con la “coniugazione delle due lotte, senza paura che tra esse

[insorga] una conflittualità distruttiva causata dalla eterogeneità delle forze sociali che le so-

stengono”. Pericolo inesistente poiché la “riforma del sistema pensionistico, incentrata sul divieto

 per tutti i lavoratori dipendenti, privati e pubblici, di percepire la pensione di anzianità e/o di vec-

chiaia prima del compimento del cinquantunesimo anno di età e di usufruire di benefici pensionisti-

ci dalle retribuzioni che superano di 2,5 volte quelle medie degli operai dell’industria, costituisce un

 buon esempio di come si possa coniugare la lotta economico-sociale con quella per i diritti civili,

dal momento che entrambe dispongono di un analogo maggioritario consenso tra la borghesia, i ceti

medi, la classe operaia”. Se quindi il “Pr farà propri i contenuti [proposti], è certo che non solo

ridimensionerà la forza burocratica del Pci, ma aiuterà, parimenti, i socialisti a ritrovare il volto mi-

gliore della loro tradizione riformista, per aggregare attorno al polo libertario quel vasto consensonecessario a rendere il disegno alternativo di sinistra attuale”.

La risposta che arrivò qualche mese dopo nel novembre ’76 dalla mozione approvata dal XVII°

Congresso di Napoli del Pr era totalmente negativa poiché, proponendo indifferentemente a sociali-

sti e comunisti -come agli appartenenti di tutti gli altri partiti- il referendum, come strumento unico

di lotta politica, bocciava non solo le proposte della lettera, ma anche i presupposti dai quali erano

scaturite, che poi altri non erano che quelli su cui i radicali si erano attestati nel Congresso di

Milano, e che ora con questa mozione cancellavano condannando il Psi a rimanere senza un

sibito nel vivo della discussione politica. Paradossalmente però il dialogo non manca di una plastica vivacità, al punto che il libro di Puglisi si fa

accogliere quasi come un romanzo…Sarebbe giusto entrare nel vivo delle ragioni sostenute da questo operaio della FIAT… Antonio il P. considerache la vera sfruttatrice del lavoro altrui è la classe media, come quella che assorbe la maggior parte del reddito sottraendolo alle spalle degli operai e

in misura crescente ai contadini, mentre l’alta borghesia,, l’industria, la finanza ecc., si rivelano se non subordinate, quantomeno vincolate dal poteredella burocrazia, in cui la classe media finisce con l’identificarsi.

La tesi del compagno Antonio il P. sull’uguaglianza dei salari e stipendi, unita alla sua giustificazione teorica, appare certamente inattuale in untempo come il nostro, in cerca di nuovi schieramenti ed alleanze, se non altro mostra come sia sempre possibile slittare verso il regno dell’utopia”.

6

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 programma di riforme economico-sociali e a comportarsi da ceto parassitario di quelle classi che

avrebbe dovuto difendere, ma condannavano anche se stessi a isterilirsi in un solo genere di

 proposte che [aggiungo] gli impedirà, negli anni novanta, al crollo della prima Repubblica, di

assumere quel ruolo di avanguardia traghettatrice che pur gli sarebbe dovuto competere.

Da quanto esposto si comprende come ANTIDOGMA svolse un’attività che non fu di piatta ade-sione alle proposte formulate dai dirigenti del Partito, poiché cercò di interferire con esse, nel tenta-

tivo di modificarle; nel ’76 con la citata lettera e nel ’75, quando al XV° Congresso di Firenze inter-

venni per illustrare un canovaccio tracciato per l’occasione. Nel canovaccio “il tratto più signifi-

cativo della situazione italiana veniva individuato nell’abnorme espansione dell’occupazione pub-

 blica che, favorita dalla crescente automazione dei processi produttivi, non avrebbe potuto ipotecare

negativamente l’intera economia, se le forze politiche non si fossero trasformate in meri tutori degli

interessi burocratici. Da ciò discendeva che il Pr doveva diventare il rappresentante degli interessi

delle classi e dei ceti sfruttati o emarginati, riprendendo la via tracciata da Giustizia e Libertà5, per 

la tutela dei diritti [non solo] civili [ma anche] materiali di tutti gli italiani”. L’intervento anche se

 pronunciato di sera, ad ora tarda, davanti a una platea quasi vuota fu ben presto interrotto

dall’agitarsi e rumoreggiare dei presenti. A questi tentativi altri seguirono, anche se qui se nericorderà solo uno: quello che si materializzò in una dispensa di 84 pagine ciclostilate -titolo:

“FREMMA, FREMMA/ HO! HO! PRR/ COME VAI DI TROTTO”- che nel corso del 1977 venne

distribuita nel Partito e inviata “ai Presidenti della Repubblica e del Consiglio, ad alcuni Ministri, ai

Presidenti dei Gruppi parlamentari, ai Segretari dei partiti, ai sindacati, ai Direttori dei più

importanti quotidiani e settimanali nazionali ed europei”.

La dispensa altro non era che una dura denuncia del “sistema previdenziale italiano, funzionante in

 base a contrapposti criteri (assistenziale, previdenziale). Dopo aver dimostrato che un dipendente

 pubblico, a trent’anni [di età (sic!)], poteva ottenere una pensione d’anzianità che -pur maturata su

contributi otto volte inferiori- gli concedeva benefici pensionistici sei volte superiori di una analoga

 pensione corrisposta a un dipendente privato di eguale qualifica professionale, .. si poneva l’arduo

compito di quantificare il risparmio che sarebbe derivato, se le norme pensionistiche del pubblico

impiego fossero state uniformate con quelle del settore privato. Ma essa non si limitava a quantifi-

care lo spreco provocato da leggi assurde poiché, traendo spunto da esse, sferrava un attacco alle

forze politiche e sociali che pretendevano di risanare i bilanci degli Enti previdenziali con riforme

rivolte a coinvolgere solo i lavoratori del settore privato, mentre le misure di risanamento, per esse-

sere efficaci, avrebbero dovuto investire il settore pubblico, principale responsabile del dissesto de-

gli Enti erogatori e proteso a dilatarlo fino alla catastrofe. Contro gli atteggiamenti ciechi e pusilla-

smi, la dispensa invocava subito l’attuazione di una riforma che rendesse il sistema pensionistico

unitario e previdenziale”6.

Un’invocazione sfortunata poiché di sé non lasciò traccia nella giungla delle migliaia e migliaia di

dichiarazioni, manifestazioni, articoli, che in quegli intensissimi anni vennero rilasciati, promos-si, pubblicati sui più disparati argomenti in nome o per conto di un Partito sempre più romano-cen-

trico.7 Una situazione di insopportabile isolamento che mi avrebbe indotto ad allontanarmi dal

5 “Giustizia e Libertà” fu fondata nel 1930 a Parigi da Carlo Rosselli. Il suo programma pur differenziandosi radicalmente dalle correnti socialiste di

ispirazione marxista prescrivendo che al regime fascista dovesse seguire non una società comunista ma una Repubblica fondata su una Costituzionedemocratica prevedeva esplicitamente che fossero realizzate incisive riforme sociali: costruzioni su larga scala di case per operai; riduzione degli

affitti per le classi meno abbienti; abolizione delle imposte sui generi di prima necessità.6 

L’apice della lotta per la riforma del sistema pensionistico Antidogma lo raggiunse nell’estate ’79 quando: a) 5000 firme furono raccolte su una

 petizione che perorava l’aumento delle pensioni minime e l’allineamento delle pensioni dei lavoratori del settore privato -dipendenti, autonomi-

con quelle dei pubblici dipendenti; b) occupatata la sede di Torino del PSDI per contestare il suo Segretario nazionale -Pietro Longo- favorevole

ai “diritti acquisiti”; c) fondato il “Comitato Unitario Pensionati di azione nonviolenta” -“CUPnv”-. Purtroppo appena raggiunto tale apice

 precipitò poiché terminato il Congresso di Genova del Pr -si veda nota (7)- nel Comitato si diffuse la convinzione i radicali non si sarebbero maiseriamente occupati della riforma pensionistica e chi scrive fu assalito dalla sfiducia di possedere le necessarie capacità per poter guidare i suoi

militanti verso obiettivi costruttivi.

7  La svolta decisiva contro i propositi di costruire un Partito multicentrico avvenne nel 1979

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Partito se nella primavera 1980, giunto a Roma con l’intenzione di partecipare per l’ultima volta ad

un Congresso, non ne fossi stato dissuaso e addirittura costretto a sottoscriverne la mozione.

La mozione del XXIII° Congresso accusava i potenti del mondo di perseguire una politica di fol-le

incremento degli armamenti che comportava, nelle parti più povere del pianeta, lo “sterminio per 

fame” di milioni di persone; accusava la politica europea di criminalità poiché era analoga a quellache negli anni trenta aveva portato le democrazie a piegarsi, con il trattato di Monaco, al nazismo.

Di fronte a tale situazione il Partito richiamava se stesso a difendere con intransigente coerenza i

“diritti dell’uomo” per trascinare capi di Stato e di Governo, responsabili delle politiche di arma-

mento e sterminio, davanti a un nuovo tribunale di Norimberga e ad operare per sollecitare l’ONU

ad interrompere lo sterminio in atto.

A causa della mozione, condivisa e sottoscritta ANTIDOGMA da quel momento aggiunse nuovi

impegni ai vecchi. Di questi qui si ricorda l’impulso che nel 1982 diede alla costituzione del

“gruppo promotore” che compilò e inviò -firmata da cinquanta artisti ed estimatori d’arte- al Presi-

dente del Consiglio direttivo della Biennale di Venezia la richiesta di istituire, nell’ambito della

rassegna internazionale, uno “SPAZIO PER LA VITA” dove ospitare le opere di quegli artisti che

avessero concretamente sostenuto “l’appello” che 54 premi Nobel avevano divulgato, nel giugnodell’anno precedente, da Ottawa, New York, Parigi, Roma, Bruxelles, Ginevra, per denunciare

“l’orrore” delle “morti per fame” e invocare dalle “massime autorità internazionali” un intervento

urgente capace di attaccare “la morte che … condanna una gran parte dell’umanità”. Una richiesta

che non venne accolta, né fortuna migliore ebbe l’invito che ANTIDOGMA, in quello stesso anno,

rivolse a Leo Castelli affinché richiamasse l’attenzione dei suoi artisti sulla mobilitazione contro la

fame che sempre più pressante era sollecitata dai Nobel con l’accrescersi del numero delle loro

adesioni.

Già ho accennato che mi sarei allontanato dal Pr se Pannella non avesse denunciato lo “sterminio

 per fame”, ma a trattenermi non fu solo l’orrore provocato dall’apprendere che milioni di persone

stavano vivendo un dramma senza precedenti, ma anche la razionalità che informava la lotta che il

leader aveva intrapresa per ridurlo. Infatti se le micidiali armi ammucchiate negli arsenali atomici

erano già in quantità tali da distruggere più e più volte il genere umano, continuare a produrne per 

offrirle a cadaveri era insensato e smettere di costruirne per destinare i risparmi a salvare agoniz-

zanti costituiva un’azione razionale ben prima che umanitaria. Questa la straordinaria proposta che

Pannella sottoponeva al vaglio dell’intelligenza e coloro che ne avevano molta l’accolsero e lo

dimostra la fortuna che incontrò presso i Nobel. Quei moltissimi altri che ne avevano meno la

ignorarono e ignorandola finirono per bocciarla, ed egli da sconfitto, invece di reagire

dignitosamente con un as-sordante silenzio o con una controproposta autenticamente laica e

riformista, come avrebbe potuto e dovuto fare, si rivolse clamorosamente alla Chiesa di Roma

affinché gli fornisse una ciambella … .

………………………………………………………………………………………………………. ..…………………………………………………………………………………………………………

(omissis)…………………………………………………………………………………………….. .

……………………………………………………………………………………………………..

E fu così che considerando ormai inutile la permanenza nel Partito, nel 1984 l’abbandonai prenden-

do a pretesto la mozione che mi era stata respinta da Pannella al XXIX° Congresso di Rimini 8.

-XX° Congresso di Genova- quando Pannella, contro coloro che chiedevano che gli embrionali Partiti regionali potessero autonomamente

decidere di partecipare ad elezioni amministrative, invocò la mobilitazione contro la fame nel mondo, il militarismo, il finanziamento pubblico ai partiti e propose a tutti gli iscritti di impegnarsi nella promozione di un nuovo pacchetto referendario e di ravvisare in esso l’unico mezzo capace

-con l’aumento delle iscrizioni e dell’autofinanziamento- di garantire al Partito di continuare a svolgere un vitale ruolo politico. Liquidata

l’ipotesi del Partito federale l’accentramento nella mani del suo leader si accrebbe, col tempo, a dismisura per raggiungere la perfezione negli anni’90 quando, dissolta la prevedibile impossibilità di imporre per via referendaria al Parlamento l’abolizione del finanziamento pubblico ai Partiti, lo

trasformò in un aggregato di soggetti imprenditoriali con personale stipendiato. Per conoscere questa metamorfosi si rimanda al capitolo “Partito-holding e politica-marketing” del libro “Pannella & Bonino Spa” di Mauro Suttora, ed. KAOS, 2001.

8  Di questa mozione riporto stralci delle sue parti vitali: “Il 29° Congresso preoccupato che la forsennata corsa all’automazione dei processi

 produttivi, innescatesi nei Paesi industrializzati, riduca in modo drastico gli addetti del settore produttivo e, dopo una pausa caratterizzata da

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A Torino presso la Mole Antonelliana, curata da Germano Celant, si era tenuta (giugno, ottobre

’84) la mostra “coerenza in coerenza”. Nel catalogo, edito da Mondadori, l’allora assessore alla

Cultura della Città -Giorgio Balmas- affermava che la mostra si proponeva di storicizzare l’arte

 povera per offrire un “panorama scientifico e didattico sui primordi torinesi del gruppo” poverista;

 per il curatore l’obiettivo era più modestamente volto a promuovere “un’impresa visuale” di dialogocon “l’architettura .. iconoclasta . della Mole”. Indipendentemente che fossero vere l’una, l’altra o

entrambe le finalità, la mostra aveva escluso Piero Gilardi che proprio di quei primordi era stato

tutt’altro che un protagonista insignificante. Questa grave dimenticanza aveva sollecitato l’escluso

a pubblicare due articoli su “il Manifesto” per contestare al Celant di aver omesso gli aspetti politici

che avevano “animato i più coscienti protagonisti torinesi dell’arte povera” e di averli omessi per 

occultare che nel periodo compreso “tra il 1966-69” sia Pistoletto, con gli “oggetti in meno” e il

“teatro di vita (lo Zoo)”, che Gilardi con la proposta ambientale dei “tappeti natura” avevano

espresso “tensioni e contenuti analoghi a quelli del movimento culturale e politico culminato nel

‘68”.

Questi due articoli mi offrirono l’opportunità di riempire il vuoto creato dall’abbandono della

militanza politica con i ricordi dell’esperienza artistica fatta prima dell’iscrizione al Pr, (anni1965-’72); ricordi che vennero pubblicati con il titolo “A PROPOSITO DI COERENZA” verso la

metà del 1985, da “Pallacorda”. In questa pubblicazione Gilardi veniva smentito poiché si

dimostrava che le citate opere di Pistoletto non potevano definirsi politiche e tanto meno frutto di

una “cultura antagonista” a quella “borghese”, ma che il loro significato “andava . ricercato nel

mito dell’estra-niazione” rivolto provocatoriamente a convincere “anche il contestatore più incallito

che si poteva utilizzare il tempo, senza correre rischi, in modo intelligente e proficuo manipolando

oggetti d’uso quotidiano o di poco prezzo facilmente reperibili”. Un modo di concepire e di fare

antieroico che trovava riscontro anche nell’esperienza teatrale promossa in quegli anni, poiché

variegata come essa era, per non creare la benché minima tensione sociale, mai si era proposta di

modificare una qualsiasi struttura pubblica o privata. Il documento esaminava poi quanto l’autore

degli articoli scriveva sui “tappeti natura” per confrontarlo con quanto, su di essi, di diverso aveva

scritto negli anni ’60-70 per giungere a dimostrare che tali “tappeti” erano scaturiti da esigenze

simili a quelle che avevano spinto Pistoletto, a realizzare “oggetti in meno” e “teatro di vita” e che,

quindi, mai Gilardi si era occupato di “politica antagonista” prima della seconda metà del ’68

quando, folgorato -come San Paolo sulla via di Damasco- dalle contestazioni studentesche ed

operaie, che improvvise si erano manifestate intense e diffuse al di là e al di qua dell’Atlantico,

smise di produrre “arte povera”. Stando così le cose, l’accusa a Celant di averlo escluso da

“coerenza in coerenza”, a causa del contributo antiborghese riversato in tale arte in “compagnia di

una imponente disoccupazione, comporti l’ulteriore aumento dell’impiego pubblico; preoccupato che, per l’esigenza di garantire redditi ad

una massa abnorme di lavoratori allocati al di fuori dei settori produttivi, la distribuzione clientelare esercitata dalla burocrazia si rafforzi a

dismisura, con la conseguente emarginazione del mercato quale fattore attivo nella determinazione della vita economica;… proclama il 1984 ANNO INTERNAZIONALE DEL LAVORO PER LA DEMOCRAZIA al fine di coinvolgere con petizioni e

manifestazioni nonviolente i lavoratori, i licenziati, i disoccupati, i cittadini di buona volontà, la gente tutta, nella richiesta ai Parlamenti e ai

Governi dei Paesi Trilaterali di prendere concordi l’iniziativa di ridurre subito a 36 e nel giro di pochi anni a 32 le ore di lavoro settimanalidi tutti gli addetti del settore privato al fine di contenere il depauperamento del tessuto occupazionale del settore, di rendere leale e umana la

concorrenza, più equilibrato il rapporto fra privato e pubblico.

Visto il carattere acuto che in Italia ha assunto la crisi economico-sociale rispetto agli altri Paesi dell’area nord-ovest… il Congressoritiene che i lavoratori e i cittadini, nei luoghi di lavoro e di studio oltre che nei quartieri, nelle strade e nelle piazze, debbano diventare

soggetto attivo di promozione politica al fine di spingere la classe dirigente ad assumere atteggiamenti meno violenti ed eversivi verso la

legalità democratica e repubblicana. Pertanto, nel 1984 i cittadini italiani saranno chiamati a sostenere, oltre la Petizione internazionale,

almeno altre tre Petizioni riguardanti fondamentali opzioni giuridiche ed economiche.Le tre Petizioni riguarderanno: 1) la partitocrazia per realizzare indagini patrimoniali, finanziarie, processi per i profitti di regime; 2)la

riduzione delle spese in armamenti al fine di finanziare progetti di vita e qualità della vita; 3) le pensioni per chiedere che siano: a) elevati a

450.000 lire mensili le pensioni sociali e i minimi per coloro che sono privi di altri redditi; b) resi eguali, per i dipendenti pubblici e privati,

gli anni di lavoro e di età necessari ai fini del conseguimento della pensione; c) discussa e attuata la riforma generale del sistema pensionistico.

  Il 29° Congresso stabilisce che qualora il Pr partecipi alle amministrative che si terranno in Campania, tale partecipazione non possa prescindere dalla denuncia all’opinione pubblica dell’affollamento della facoltà di medicina di Napoli, né il Partito federale sottrarsi al

dovere di prendere opportune iniziative per richiamare il Parlamento sull’improrogabile necessità diregolare l’accesso alla facoltà di medicina mediante numero chiuso”.

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Pistoletto” e degli altri artisti del “gruppo Sperone”, era del tutto priva di fondamento, tanto più che

a Torino l’arte politica era stata introdotta dall’esterno da un artista romano -Pino Pascali- quando

all’inizio del 1966 aveva esposto nella “galleria Sperone” “strumenti di guerra (cannoni,

mitragliatrici) a grandezza reale”.

Opere impressionanti per la brutale aderenza alla realtà e che esibite nel momento in cui cruenta

divampava la guerra in Vietnam sollecitavano coloro che le vedevano a pensare di utilizzarle pro ocontro l’uno o l’altro dei contendenti. Questa mostra l’avevo vista più volte fino a convincermi che

avesse due finalità: persuadere che le armi sono create per essere utilizzate e che hanno sempre ra-

gione non i detentori dell’umana saggezza ma quelli che negli arsenali ne hanno di più o che pur 

avendone meno sono capaci di meglio utilizzarle. Convinzioni che una volta maturate mi sollecita-

rono ad abbandonare la precedente attività scultorea per iniziarne un’altra rivolta a produrre aerei

da guerra USA che facilmente potevo conoscere acquistando modellini in plastica nei negozi di

giocattoli. Una produzione nuova che pur impegnata come quella di Pascali a dare forma -con ma-

teriali analoghi: ferro, legno, ecc.- a “strumenti di guerra” altrettanto micidiali, si separava dalle sue

finalità poiché presentandoli non assemblati li offriva inerti a coloro che li osservavano e gli sug-

gerivano che, a guerra del Vietnam in corso, meglio era ammirarli che impiegarli per distruggere

umanità, flora, fauna in quel lontano Paese asiatico.A partire dall’autunno ’66 e poi nel ’67 le opere furono esposte accanto a quelle di Baj, Fontana,

Rotella, Manzoni, in mostre collettive nella galleria torinese “il Punto”-allora diretta da Remo

Pastori- e poi nel giugno ’68 in una mostra personale. Gilardi queste opere le aveva conosciute e

forse anche apprezzate, visto che nel luglio di tale anno mi invitò ad esporne una nel “Deposito

d’Arte Presente” (DDP); spazio che Marcello Levi aveva aperto al pubblico per presentare, a ciclo

continuo, le opere degli artisti contemporanei europei ed americani più noti e importanti. Un’opera,

quella portata, dal titolo: “Olimpiadi ‘68”- che non fu mai installata e che poi venne espulsa dal

“DDP” nell’ottobre da Gian Enzo Sperone, giudicata indegna di essere esibita accanto a quelle degli

artisti appartenenti o graditi alla sua galleria.

Dopo quell’invito, Gilardi lo rividi nel tardo autunno ’69 quando -ormai lontano dalla Sonna-bend,

da Sperone, dal “DDP” (nel quale avrebbe dovuto rappresentare gli interessi del “gruppo degli

artisti della galleria Sperone”), dai poveristi, dal mercato internazionale dell’arte- nell’ “A-

TELIER POPULAIRE” -uno stanzone che lui stesso aveva voluto e attrezzato- progettava e stam-

 pava materiali di propaganda che incessantemente gli erano richiesti dal movimento studentesco e

dai comitati di lotta operai ed extra-parlamentari.

L’”ATELIER” lo frequentai e la frequenza mi permise di partecipare a manifestazioni pubbliche

 pensate e promosse instancabilmente dallo stesso Gilardi, tra le quali “A PROPOSITO DI COE-

RENZA” ricordava l’happening fatto nel 1970 nel giorno di pasquetta, in un noto giardino pubblico

di Torino, per sensibilizzare sul problema dei manicomi che il Dott. Basaglia aveva autorevolmen-

te sollevato e la contestazione della mostra “Conceptual-art, Land-art, Arte povera” fatta il giorno incui era stata inaugurata alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, nel giugno di quello stesso anno.

Una contestazione memorabile poiché fu seguita con attenzione aristocratica “da un gruppo selezio-

nato di mercanti ed estimatori d’arte, capeggiati da Peggy Guggenhein” ma, soprattutto perché tra

Gilardi e chi scrive si verificò “un’aperta divaricazione sulle ragioni” che li avevano spinti a conte-

stare. Infatti mentre per Gilardi l’avanguardia artistica avrebbe dovuto ostacolare l’espansione dello

imperialismo USA nel terzo mondo e in Europa mediante l’adesione degli artisti “alle lotte sponta-

nee di classe, portatrici di istanze antimperialiste, anticapitaliste e antiistituzionali”, per me tale a-

vanguardia avrebbe dovuto “denunciare l’oppressione esercitata sui popoli dei paesi socialisti dalla

 burocrazia egemone in URSS” e contrastare l’illusione USA di poter salvaguardare i suoi interessi e

quelli della democrazia facendo ingiustificato ricorso all’uso della forza.

Se l’improvviso emergere di tali divergenze indusse Gilardi a non coinvolgermi più nelle iniziativeche aveva continuato a promuovere numerose, assieme ai suoi generosi seguaci, doveva anche

 permettermi -tanti anni dopo- di capire che l’autore dei “tappeti natura” aveva pubblicato i due

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articoli su “il Manifesto” perché interessato a prendere a pretesto “coerenza in coerenza” per creare

il “mito di un’arte approdata in campo borghese, dopo aver tradito le sue ori-gini proletarie” al fine

di incitare le nuove generazioni a riprendere con lo stesso entusiasmo crea-tivo un’attività artistica

impegnata a conquistare una società ben più giusta di quella capitalista. Un incitamento sbagliato

che Gilardi avrebbe evitato se avesse letto le opere di Marx ed Engels e ri-scontrato che in Russia e

Cina non esistevano giustizia e liberazione sociale ma solo una ‘dittatura’ che strumentalizzava ilmarxismo per occultare che sfruttava le classi subalterne a favore di una nuova borghesia collettiva

ormai presente anche in tutti i paesi capitalisti, dove si moltiplica in classi e sottoclassi di Stato e

 paraStato, per produrre, in concorrenza con la vecchia borghesia, livelli crescenti di sfruttamento.

“A PROPOSITO DI COERENZA” continuava affermando che se l’autore dei “tappeti natura”

avesse avuto una conoscenza migliore della struttura economico-sociale esistente nei paesi dell’est e

dell’ovest non avrebbe “sposato . una fede politica che … opera per spingere le classi subalterne

verso il peggio”, né avrebbe attribuito alla “direzione della Fiat” la responsabilità di averlo escluso

dalla mostra in quanto questa responsabilità andava attribuita non alla vecchia ma alla nuova bor-

ghesia, essendo stato “il governo di sinistra del Comune di Torino” che quella mostra aveva voluto

e finanziato e poi legittimato con il riconoscimento fatto dall’Assessore alla Cultura alla selezione

degli artisti operata dal Celant, per rendere solo costoro protagonisti indiscussi e definitivi dell’arte povera torinese. I fatti accaduti erano gravi e non solo perché Gilardi era stato escluso

ingiustamente dalla mostra ma anche perché con questa esclusione il Comune di Torino aveva

ingannato gli estimatori d’arte, i visitatori, sperperando denaro pubblico per offrire ai cittadini una

“storicizzazione” falsa sui primordi torinesi dei poveristi e che per confutarla non servivano ideolo-

gie e lotte rivoluzionarie ma il recupero di un sicuro riferimento democratico e una coscienza critica

capace di individuare gli arbitri commessi dalle istituzioni pubbliche e di avversarli con proposte

idonee a correggerli.

Stampate e distribuite oltre mille copie di “A PROPOSITO DI COERENZA” ritornai sui tentativi

compiuti, negli anni ’70, per modificare la politica del Pr, per convincermi sempre più che se aves-

sero avuto successo non sarebbero stati umiliati né il laicismo di Ernesto Rossi, né con il “caso

Tortora”, la giustizia.

 Nato a Genova nel 1928, Enzo Tortora, giornalista e noto presentatore televisivo, il 17 giugno 1983

era stato arrestato all’hotel Plaza di Roma e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli di quella città.

L’arresto, per “associazione a delinquere di stampo camorristico finalizzato al traffico di droga”, era

stato “disposto dall’autorità giudiziaria di Napoli” a seguito delle accuse che gli erano state rivolte

da ergastolani “pentiti”. Che queste accuse fossero prive di fondamento fu subito chiaro a coloro

che conoscevano quanto di torbido ed oscuro avveniva in quei tormentati anni, densi di tensioni

 politiche e sociali. Non fu, quindi, un caso che poche settimane dopo l’arresto un appello di

solidarietà a suo favore venisse pubblicato su “la Repubblica” sottoscritto da noti politici e presti-

giosi uomini di cultura -tra i quali: Piero Angela, Giorgio Bocca, Umberto Veronesi- e che alcunigiorni dopo Leonardo Sciascia scrivesse sul “Corriere della Sera” che quelle contro Tortora erano

“accuse che non trovano . riscontro in un solo indizio oggettivo … accuse che nascono solo dall’in-

fermità mentale di camorristi pentiti”.

Edotto da questi ed altri avvenimenti, qualche mese dopo il suo arresto, mi ero già convinto che il

 presentatore fosse vittima della “partitocrazia” per l’interesse che questa aveva di impedire che le

leggi premiali, utilizzate contro le “Brigate Rosse”, fossero estese alle organizzazioni mafiose e che

il Partito radicale, impegnato a sottrarre alle interminabili carcerazioni preventive coloro che erano

in attesa di giudizio, non avrebbe tardato ad offrirgli una candidatura parlamentare, so-prattutto se

fosse stato disposto a rinunciare all’immunità pur di affrontare il processo. Convinzio-ni, queste

ultime, che l’anno successivo puntualmente si verificarono poiché candidato dal Pr Tortora a

giugno fu eletto -con oltre quattrocentocinquantamila preferenze- al parlamento europeo e una

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volta eletto chiese e ottenne l’esenzione dall’immunità per poter -leale all’impegno assunto9 -

affrontare il processo. Un processo composto da due parti. La prima, che culminò con una sentenza

di condanna a dieci anni e sei mesi di carcere, inflitti -settembre 1985- dalla decima sezione del

tribunale di Napoli; la seconda, con il processo d’appello in cui il presentatore fu assolto (settembre

1986) con formula piena dall’accusa infamante di “associazione di stampo camorristico e spaccio

di stupefacenti”. Tortora durante il processo fu strenuamente difeso dentro le aule giudiziarie da duenoti, combattivi, penalisti -Raffaele Dalla Valle e Alberto Dall’Ora- e fuori da tali aule dal Pr. Le

considerazioni che qui di seguito verranno espresse riguarderanno solo quest’ultima difesa che, ca-

ratterizzandosi come lotta politica e civile condotta per ottenere, in primo luogo, che Tortora venis-

se risarcito per i danni, materiali e immateriali, subiti da un pugno di magistrati, colpevoli di aver 

dato credito alle menzogne di alcuni criminali, interessati ad ottenere benefici carcerari e riduzioni

di pena era, per me, inaccettabile per la convinzione che il presentatore televisivo fosse vittima

della casta politica la quale, contraria alle leggi premiali, aveva trovato un manipolo di magistrati e

di giornalisti disposti a creare un clamoroso caso di “mala giustizia” per sollevare, verso tali leggi,

nell’opinione pubblica indignazione e avversione. Quindi un caso clamoroso che una volta esploso

trovò subito consenzienti anche i dirigenti del Pr con la sola eccezione di Sergio Turone -giornali-

sta e cofondatore del Partito- che se ne dissociò nell’estate ’84 quando espresse le sue riserve sullacandidatura offerta a Tortora sapendo che era gradita alle organizzazioni mafiose come evidenziava

quanto era avvenuto nel suo paese d’origine -Rizziconi: provincia di Reggio Calabria- dove i 32

voti ottenuti dai radicali alle elezioni politiche del giugno ’83 si erano più che decuplicati alle

europee nel giugno dell’anno successivo per la mobilitazione di parenti e amici di un noto boss

mafioso del luogo. La denuncia di Turone incontrò solo incomprensione e avversione ed io già

convinto che il “caso Tortora” fosse opera diabolica della politica, nell’86 fui costretto a meditare

lungamente e amaramente su quanto Pannel-la si fosse allontanato da quella realtà che negli anni

’70 sempre era stato capace di individuare e denunciare, fuori e dentro le aule parlamentari, quanto

 più essa pretendeva di rimanere occulta e indecifrabile.

Ricordavo il suo coraggio quando durante una tribuna politica raccontò com’era stata uccisa in

 piazza Navona a Roma una ragazza di 19 anni -Giorgiana Masi- che aveva partecipato ad una festa

indetta dal Pr per raccogliere firme su un pacchetto di referendum mentre con gioia festeggiava il

terzo compleanno della grande vittoria del referendum sul divorzio.

Ora, anche voi che leggete, ascoltate quello che dagli schermi dei loro televisori udirono dalla viva

voce del leader radicale coloro che una sera di maggio del ’77 assistettero a quella tribuna politica:

“Il tempo dei lupi è venuto, gli assassini stanno scendendo dalla montagna ... Vi ricordate Pinelli e

Valpreda? Non vi ricordate la nostra solitudine quando dicevamo che dietro c’era lo Stato che

ammazzava per farci paura, per poter ammazzare ancora più, ritornare magari al fascismo, per 

difendere la corruzione…? …quel giorno [12 maggio ‘77] siamo andati in allegria per dimostrare

che Roma poteva essere lieta, serena, pacifica, contando che fra di noi nessuno sarebbe stato

violento. Come sono andate le cose? … Su 5200 poliziotti, su centinaia di giovani poliziotti costretti… ad apparire nelle strade come i lupi dei quali abbiamo paura, per consentire a Cossiga, in nome

di quei lupi, di fare leggi più fasciste … e ammazzare passanti, ecco il bilancio: una scalfittura al

 polso di un carabiniere. Eravamo 20-30 mila! Dopo sei ore di attacchi, di scontri -l’han detto loro-

l’unico atto di violenza… è il graffio al polso di uno dei 5200 uomini.

E’ un bilancio che rivendichiamo; eravamo lì con i lapis, ma hanno paura dei lapis! Devono por-tare

ogni giorno alla televisione Curcio e Cossiga, devono farci vedere le ‘P38’, per distrarci dall’ot-

timismo, dalla bontà, dalla felicità della firma, della musica, dell’allegria, del girare per Roma di-

cendo: gli assassini li isoliamo con il sorriso… Di questo non vi dicono nulla. Dalla nostra parte ab-

9  Un impegno che Toni Negri -professore universitario e ideologo dell’estremismo giovanile- aveva poco prima clamorosamente tradito

quando, eletto deputato radicale -elezioni politiche giugno ’83-, era scappato in Francia pur di non farsi riarrestare e processare.

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 biamo avuto una morta, dieci feriti da arma da fuoco, decine di feriti da manganelli, gas, candelotti

lacrimogeni sparati a vista d’uomo. Faremo un libro bianco, lo stiamo per fare” .10

Solo dopo aver ricordato il coraggio che Pannella aveva dimostrato nel ’77 nello svelare a una

opinione pubblica ingannata che il mandante delle stragi era lo “Stato”, chi legge può comprendere

il mio disappunto nel constatare che egli -sette, otto anni dopo-, pur conoscendo chi fosse il man-

dante delle torture inflitte a Tortora e agli altri innocenti, si limitasse a denunciarne gli esecutori.Che il leader sapesse è certo, poiché se, per assurdo, al momento dell’arresto di Tortora non avesse

individuato il mandante, l’avrebbe appreso da “Radio Radicale”, il 6 maggio 1984, quando il pre-

sentatore nell’annunciare che accettava la candidatura alle elezioni europee, disse: “L’Italia vive un

 periodo terribile… io sento l’esigenza di chiedere scusa… a Pinochet, a tutti i regimi totalitari che

 per lo meno non hanno la pretesa di dire: questo è uno Stato pluralista, democratico e libero… Ma

questo [il nostro] è un regime camuffato da democrazia. Ancora più feroce di un regime esplicito

 perché ha tutte le blandizie, i bla-bla-bla… ma in sostanza tiene l’uomo in un degrado inammissibi-

le in occidente, tiene l’uomo in un disprezzo assoluto”. Quindi è certo che almeno da quel 6 maggio

Pannella non poteva non sapere, avendoglielo detto il torturato che il suo torturatore era proprio

colui che lui -Pannella- nel ’77 aveva denunciato essere il mandante delle stragi che terribili erano

seguite a quella della Banca dell’Agricoltura di Milano, e cioè: lo “Stato”. Uno “Stato” individuatocorrettamente anche dal presentatore televisivo poiché colto nella sua concretezza costituita sempre

-in tutti i tempi e luoghi e indipendentemente dalle forme che assume- in primo luogo dai poteri

esecutivi e dagli apparati repressivi.

Pervaso dal bisogno di individuare la causa che aveva indotto il leader radicale ad ingannare i cit-

tadini sul “caso Tortora”, mi chiesi quale fosse e la ravvisai nel recente superamento del divieto di

accesso, per gli esponenti dei partiti laici minori, ai vertici dell’esecutivo che aveva consentito a

Craxi -dopo Spadolini- di arrivarci nell’agosto 1983, e quindi compresi che durante la sua Presi-

denza l’accusa allo Stato di essere il torturatore dell’innocente presentatore era impossibile senza

deteriorare quei rapporti che i radicali avevano stabilito e che volevano continuare ad intrattenere

con i “compagni socialisti”. Una impossibilità di cui credo fossero consapevoli tutti i dirigenti radi-

cali ma che solo Pannella poteva comprendere nelle sue più profonde implicazioni poiché, essendo

l’artefice della tesi che i governi di sinistra alternativi a quelli della “democrazia cristiana” erano

ammessi dai Paesi del “Patto Atlantico”, non gli sfuggiva che l’ascesa di Craxi ai vertici dello Stato,

avvenuta dopo che l’assassinio di Moro e i governi di “unità nazionale” avevano dimostrato che tale

tesi non era condivisa da coloro che avrebbero dovuto legittimarla, ne segnava la fine. Forte di

queste convinzioni già nel 1986 ero consapevole che Pannella avrebbe cercato pretesti per costrin-

gere il suo Partito a sospendere l’attività politica in ambito nazionale,  11 cosa questa che poi

avvenne due anni dopo quando un Congresso straordinario “ratificò la decisione pannelliana di

trasformare il Pr in partito ‘transnazionale’, destinandolo a non partecipare più a elezioni -politiche

e amministrative- in Italia”.

Improvvisamente -settembre’88- morì mio fratello: “Giuseppe mi aveva sempre rimproverato di

aver abbandonato la scultura e per riavvicinarmi ad essa aveva trasformato in attrezzato studio una

delle stanze vuote della sua casa di scapolo che aveva di recente acquistata per abitare più vicino a

me e alla mia famiglia”. Fu la sua morte che mi spinse a riabbracciare quell’attività che per due

lunghi decenni aveva invano perorato e a realizzare poi quelle nuove sculture -ALERBA, ALA-

CARRETTA, MERCURIO- che ricollegandosi a quel passato lontano trasformavano in istantanei

messaggeri di vita veloci aerei da guerra.

10  “Marco Pannella/ Scitti e discorsi/ 1959-1980”; Ed. Gammalibri, 1981.

11 Anche se la “lista Pannella”, che fu varata in vista delle elezioni politiche del ’92, viene da molti ritenuta la continuazione del Pr chi scrive non

la considera tale condividendo le obiezioni espresse da Massimo Teodori nel libro “Marco Pannella/ Un eretico liberale/ nella crisi/ della/

Repubblica”; Ed. Marsilio, 1996.

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Queste nuove sculture apprezzate da Alberto Weber vennero -assieme ad altre degli anni ’60-

esposte nel giugno ’91 nella sua galleria. Durante la mostra distribuii un foglio intitolato “POETI-

CA” nel quale si poteva leggere: “All’inizio del XX° secolo, fu grande merito del Futurismo aver 

colmato il ritardo dell’arte nel prendere in considerazione i prodotti dell’era tecnologica… Per Ma-

rinetti, una macchina ruggente è mille volte più affascinante delle meravigliose invenzioni dell’epo-

ca precedente, perché moltiplica le straordinarie forze cantate dagli aedi dell’antichità.Il merito del Futurismo fu anche un altro: praticare la commistione arte politica, in modi mai tentati

 prima, col pretendere dall’artista di dare priorità al coraggio virile e alla disinteressata mili- tanza

 politica…

Lenin smise di ascoltare la musica, quando si accorse che l’induceva a divagare su cose graziose, io

 pratico la scultura perché mi sprona a prestare attenzione alle torme di lupi che mi circondano…

 Non arte dello squallore, tutelata dal preventivo consenso del passatismo ben pensante, ma arte

esposta, gravida di scomoda certezza, che fa dell’ecologismo il terreno privilegiato di confronto-

scontro”.

Per dare seguito a quanto annunciato nel “foglio” distribuito durante la mostra, in autunno scrissi e

inviai una “LETTERA APERTA” ai dirigenti del Pr per annunciare che nel ’92 mi sarei riiscritto alPartito per perorare cambiamenti consistenti su sei argomenti: fame nel mondo, pena di morte,

nonviolenza, unità politica d’Europa, riforme economico-sociali, immigrazione.

In coerenza con l’impegno assunto nella “LETTERA APERTA”, nel ’92 mi iscrissi al Pr e prepa-

rai un “canovaccio” che servisse da guida all’intervento che mi ero proposto di pronunciare al Con-

gresso che si sarebbe tenuto a Roma, a cavallo dei mesi aprile-maggio, all’insegna dello slogan:

“PER SALVARE IL PIANETA DAL DISORDINE STABILITO ORGANIZZIAMO LE NOSTRE

IDEE, LA NOSTRA AZIONE”.

Un Congresso ambizioso preparato da una trama fittissima di contatti con personalità eminenti e

organizzazioni culturali e politiche di diversi e anche opposti orientamenti. Per tessere questa trama

i radicali avevano stampato e distribuito -già a partire dal precedente anno- numeri speciali di un

giornale che, tradotto in quattordici lingue, avevano inviato a duecentocinquantamila cittadini e a

quarantamila -40.000 (sic!!)- parlamentari di cinquantatré Paesi di quattro continenti. Uno sforzo

enorme per rendere nutrita e qualificata la partecipazione al Congresso -il XXXVI°- dal quale

avrebbe dovuto nascere un “PARTITO nuovo” capace di coordinare le energie popolari e

 parlamentari internazionalmente diffuse capaci, in quanto tali, di superare gli ostacoli frapposti dalle

 barriere nazionali e affermare il nuovo verbo che Pannella aveva confezionato a beneficio

dell’umanità.

 Nonostante mi fossi iscritto al Partito per pronunciare il discorso preparato con il “canovaccio”,

intimorito dalla quantità e qualità dei partecipanti, rinunciai a partecipare al Congresso. E se qui è

giusto che ripeta che fui un codardo a negare a questo breve intervento12

la possibilità di poter 

12 Se avessi avuto coraggio di partecipare al Congresso e mi fosse stato permesso, ecco cosa avrei detto: “Compagni/e chi immagina che Roma

2000 sarà capitale cattolica, italiana, europea sbaglia poiché…sarà diventata caotica capitale asiatico-africana di un nuovo Stato islamico… Chi si

illude che la nuova Roma non sarà specchio di una realtà analoga enormemente più ampia sbaglia perché il declino dell’Europa è già scritto nel

tasso negativo di natalità che, ad ogni generazione, avrà continuato a dimezzare gli stanchi popoli europei e il cui vuoto sarà stato riempito davitali, crescenti ondate di masse d’immigrati dai Paesi musulmani. Ci predica nel tempo della coesistenza che si devono utilizzare i risparmi delle

spese militari per far decollare i Paesi poveri sbaglia, perché se impegnati, tali risparmi produrrebbero nuovi sprechi e corruzione, aumento della

 popolazione, più estesa povertà. Chi declama che il terzo e il quarto mondo, per raggiungere il calo demografico, debbano prima ricalcare il suo

modello di sviluppo sbaglia, perché affida ad agonizzanti il destino di quei mondi.Compagni/e contro chi esalta la irresponsabilità dei molti, affermate la eguale responsabilità di tutti nel riconoscere che il controllo demografico è

il fardello comune del genere umano che è ciò che consente all’uomo di riconoscersi nell’altro come compartecipe di una stessa umanità e civiltà e

a cui tocca impedire che intere etnie si auto estinguano per troppo benessere e altre, per irresponsabile prolificità, rompano i confini che

ostacolano la propria e l’altrui distruzione, compresa quella degli altri esseri viventi che con l’uomo popolano la terra.Compagni, affermate che per strappare miliardi di uomini al sottosviluppo, all’arretratezza, alla morte per fame, e per spingere le comunità e i

 popoli a partecipare ad un’unica avventura di pace, di progresso, di cammino verso e attraverso la democrazia, occorre che le massime autorità -culturali, religiose, politiche- che gli Stati riconoscano concordi il dovere dei Paesi ricchi di aiutare quelli poveri e di questi ultimi di

autocontrollare le nascite e che concordi operino per conferire maggiori poteri e mezzi all’ONU per metterlo in grado di realizzare gli obblighi cheda questi doveri discendono…”

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essere pronunciato, non posso tacere che la Presidenza del Congresso censurò il telegramma che

gli era stato recapitato affinché comunicasse ai convenuti che esisteva almeno un iscritto italiano al

Pr che non condivideva il modo che i dirigenti di questo Partito avevano scelto per giungere

all’abolizione universale della pena capitale.

A Congresso terminato, con un comunicato stampa, denunciai la censura subita dal telegramma eresi noto che per testimoniare a favore del suo contenuto avrei fatto tre giorni di sciopero della fa-

me. Sollecitato da questo comunicato un Consigliere Federale del Pr “nuovo” inviò al suo autore

una lettera per diffidarlo dal continuare a dissentire pubblicamente dalle posizioni assunte dagli or-

gani di Partito sulla pena di morte, minacciando che altrimenti “morte o ergastolo” avrei finito per-

sonalmente per rischiarli. La risposta a questo delirante ultimatum la diede un comunicato stampa

nuovo, sul quale si poteva leggere: “Caro Sergio D’Elia … Da quanto scrivi deduco che sei contra-

rio al popolo giudice della pena che deve essere inflitta agli assassini, perché li punirebbe con la

morte o l’ergastolo, mentre tu vuoi che la pena sia ‘breve’.

 Non ho dubbi che se oggi venisse consultato il popolo sulla sanzione da infliggere a chi commet- te

efferati crimini, la maggioranza si esprimerebbe nel senso da te paventato, ma sbagli ad attribuire a

me l’accettazione di tale responso. Io non ho del popolo una visione manichea, dal momento cheritengo che le posizioni di maggioranza debbano essere corrette con le posizioni di minoranza. In

questa visione, dal momento che l’opinione maggioritaria viene notevolmente mitigata, essa non

 può coincidere con posizioni estreme e contrarie al senso di umanità…

E’ l’essere figlio dell’oscurantismo che ti impone di vedere in me il paladino della pena di morte,

dell’ergastolo e di tutte le nefandezze che infestano il mondo. E’ l’oscurantismo che ti spinge a mi-

sconoscere che dove l’abolizione della pena di morte si sposa con il permissivismo essa prospera

 più che mai. Qui la perversione raggiunge il suo apogeo: lo Stato, da delegato del popolo a giudica-

re e punire, diventa connivente e complice di criminali e li spinge a ferire e ammazzare innocenti, in

una catena senza fine. Chi è cieco può udire, ma chi vede e sente può non vedere e sentire: l’abroga-

zione della pena di morte non abroga la morte e la morte irresponsabile di Stato è incommensurabil-

mente peggiore della morte responsabile di Stato”.

Un comunicato duro che costituiva non solo una risposta al D’Elia ma anche al modo di concepi- re

la giustizia del Pr così come si era rivelato ai miei occhi da quando Pannella aveva fatto della ma-

gistratura il boia cinico di Enzo Tortora. Un modo sprezzante di cui complici si erano resi anche

altri dirigenti del Partito: da Mauro Mellini 13  pronto a negare che si potesse anche solo ipotizzare

l’esistenza di una qualche forma organica di connivenza fra ambienti malavitosi e spezzoni dello

Stato, a Massimo Teodori che pur essendo certo che tale commistione esisteva e che aveva causato

diversi omicidi extralegali -si legga: ”M. Teodori/ La P2:/ controstoria/ Sugarco/ 1985”- avrebbe

dovuto reagire apertamente almeno contro le posizioni più estreme. Quindi un “comunicato” dalle

vaste implicazioni che stigmatizzava la stessa scelta fatta da Pannella di impegnare il Pr “nuovo”

nella abolizione della pena capitale, ravvisando in essa soltanto un alibi da utilizzare nel caso in cuiquesto Partito avesse fallito il suo obiettivo politico di conquistare qui, ora, subito, sotto la sua di-

rezione, diritti civili e democratici in vaste aree del mondo, senza nemmeno accorgersi che prima di

impegnarsi in tale ambizioso progetto avrebbe dovuto dimostrarsi capace di affrontare le strozzature

che impedivano a questi stessi diritti di affermarsi in Italia.

Dopo lo scontro con il D’Elia, costretto a prendere atto che era inutile insistere oltre nel tentati- vo

di convincere i radicali a desistere dal “voler giocare internazionalmente al ruolo di prime donne”,

mi rifugiai nella produzione di sgabelli, panchine, letti, destinati -diversamente da quelli creati per 

la comodità di tutti- a quei pochi che, ricordando la fine fatta da Pericle nella mitica Atene, si

13

 Per avere un’idea di come sia possibile mettere al servizio di una tesi falsa abbondanti, innegabili ed esecrabili fatti reali, si consiglia di leggere

di M. Mellini: “Nelle mani dei pentiti”; Ed. Spirali, 1999.

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dolgono nel dover constatare che la storia troppe volte è scritta dall’irrazionale. Queste opere nel

’93 vennero poi esposte e il ricordo dell’ esposizione qui lo affido a quanto nel ’95 ho scritto nel

 pamphlet “ANTIDOGMA/un percorso”: “ad aprile, presso la galleria Weber di Torino dovevo te-

nere la terza mostra personale. Era la prima volta che una mia mostra… veniva collocata… al

centro del calendario espositivo annuale di una rinomata galleria. A questo segnale positivo altri se

ne erano aggiunti: la pubblicità fatta alla mostra dal gallerista su una delle più importanti riviste[italiane] d’arte con la pubblicazione in grande evidenza della fotografia di una significativa opera

del ’68; l’edizione del catalogo delle mie opere di scultura uscito subito dopo la chiusura della

mostra; l’interesse dimostrato nei confronti delle opere esposte da alcuni collezionisti. L’insieme di

questi e altri segnali suscitò euforia.. al pensiero che presto [sarei] passato … al professionismo ini-

ziando, seppur in ritardo, quella carriera che trent’anni prima avevo tanto desiderata”.

Mentre questa mostra era ancora in corso, appresi che Ugo Nespolo, sul quotidiano “La Stam- pa”,

aveva pubblicato un articolo 14 nel quale Germano Celant e Ida Giannelli, curatori della mostra

-“Un’avventura internazionale - Torino le arti 1950-70”-, erano accusati di aver fatto scempio degli

avvenimenti artistico-culturali che in quegli anni erano accaduti nella città sabauda e di averlo fatto

 per ingigantire le scelte che il castello-museo aveva irresponsabilmente “deciso di promuovere”. Un

fare tanto riprovevole da costringere l’arte a diventare “un optional asfittico, roba per pochi eletti ecriptocultori da mostrare in musei imprenditivi ma deserti, in quei luoghi in cui ciò che si autodefi-

nisce avanguardia ha il ghigno ottuso dell’ufficialità”.

L’articolo, efficace nel dimostrare che i due curatori avevano esercitato la censura a danno di

“Ruggeri, Salvo , Piacentino”, “Rotella, Adami, Baj”, “Ben Voutier”, “Jonas Mekas”, “Allen Gin-

sberg”, “Fernanda Pivano, Angelo Pezzana”, “il Punto”, il “Nouveau Realisme” il “nuovo cinema

sperimentale”, il “Fuori”, ecc. e che la politica culturale del castello-museo era frutto perverso di

una mentalità burocratica che pretende di determinare a priori quali devono essere i caratteri, so-

stanziali e formali, che informano i prodotti artistici, si prestava a due obiezioni: non distingueva tra

responsabilità privata e pubblica, non indicava i rimedi che era necessario apportare affinché l’arte

fosse liberata -per quanto possibile- dal controllo burocratico. Per segnalare tali manchevolezze

inviai una “Lettera Aperta” oltre che a Nespolo a un centinaio di persone legate all’ambiente artisti-

co torinese.

 Nella “Lettera” affermavo che in democrazia compete al potere pubblico garantire alle arti

figurative libertà e verità e che dai curatori delle mostre del castello non si poteva pretendere

correttezza e professionalità poiché erano stati scelti con il tassativo compito di evitarle e che la re-

sponsabilità della loro nomina doveva essere attribuita non all’ibrida direzione del castello ma alla

sua componente pubblica, “al Consiglio della Regione Piemonte”. Una situazione grave, anzi gra-

vissima, poiché censura e manipolazione non erano fenomeni circoscritti, nel tempo e nello spazio,

e che per essere corretta richiedeva che il castello-museo venisse “trasformato in Ente pubblico, con

l’incarico di organizzare delle esposizioni di quegli artisti viventi, europei e mondiali, le cui opere

assumono rilievo internazionale”; trasformato in “Ente itinerante, agile, svincolato dal peso dellaconservazione, affidato ad un unico direttore responsabile, fornito di adeguati mezzi finanziari,

nominato dal Presidente della Repubblica con incarico triennale non rinnovabile”.

A “Lettera” diffusa Marcello Levi reagì avvisandomi che avrebbe smesso di apprezzare la mia

attività scultorea e sapendo che egli era amico di Leo Castelli, dell’arte moderna americana e so-

stenitore attivo dell’arte povera e del castello di Rivoli, compresi che l’accarezzato proposito di pas-

sare al professionismo doveva essere abbandonato. Un abbandono amaro poiché avvenendo in con-

comitanza con il crollo dell’impero sovietico impediva di approfittare del suo arsenale in disarmo

 per trasformare ordigni e missili in orologi segnatempo15 che in vesti di sculture in perenne

movimento avrebbero offerto della poetica futurista una nuova versione.

14  U. Nespolo: “L’arte al castello di Rivoli/ un sapore acido da obitorio”; articolo pubblicato su “La Stampa”, marzo 1993.15 La possibilità di poter realizzare tale trasformazione me la offrì Raul Manciulli, elettronico esperto e creativo oltre ogni immaginazione.

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 Nel ‘94, come già era avvenuto dieci anni prima, il vuoto lasciato dalla dismessa attività scultorea

fu riempito dai ricordi anche se essi ripercorrevano l’esperienza politica degli anni ’70-80 più che

quella artistica degli anni ’60. Frutto di questo ripercorrere fu il già citato phamphlet “ANTIDOG-

MA/ UN PERCORSO” che venne stampato e distribuito nel ’95 in poco più di mille copie e il cui

contenuto il lettore in parte conosce essendo stato in precedenza riportato.

Davide Perazzelli, intellettuale sottile e riservato, la cui amicizia risaliva agli anni ’70 della mili-

tanza radicale, venuto a conoscenza della censura e dell’abbandono della scultura, propose di aprire

una “vetrina” per esibire su Internet le opere censurate impegnandosi, qualora la proposta fosse

stata accolta, di realizzarla. Fu così che ricevuto consenso e catalogo delle opere si apprestò a rea-

lizzare “Internet vetrina”. Una vetrina di trentadue videate di cui due, in apertura, erano dedicate

all’artista e alla sua inclinazione a considerare l’arte una commistione di “vita e passione civile”;

un’arte che pur utilizzando “codici semantici comuni ad altre correnti artistiche contemporanee”,

-“arte concettuale … land art…arte povera”- di queste non ha la “dimensione equivoca” poiché

manca “l’attitudine a strizzare l’occhio a un ‘mercato’ ove si suppone… che il fruitore possa

accettare l’opera solo . quando essa non è elemento di critica”. Più avanti continuava: “l’opera ha

qualità formali per piacere a un pubblico vasto, ma colui che voglia comprenderla… non può fare ameno di addentrarsi nella dimensione drammatica in essa contenuta. Una dimensione . in cui

l’uomo… [è] individuo nel contempo medioevale, nella consapevolezza delle forze metafisiche che

lo sovrastano. [e] kantiano, nel suo obbedire all’imperativo di liberarsi da ogni condizione di mino-

rità immanente…Un uomo… agli antipodi della dimensione solipsista e narcisista dell’uomo di

Michelangelo Pistoletto, che esiste . nell’atto nichilistico di guardarsi allo specchio”. E Perazzelli

nell’avviarsi alla conclusione, pur riconoscendo che Puglisi “non può definirsi sociologicamente un

artista” poiché divorato dalla passione civile “non ha dedicato la vita all’arte”, afferma che il suo

ritorno alla scultura doveva essere salutato positivamente e non costretto ad abbandonarla solo

 perché rifiutava di depotenziarne i contenuti “in nome di una maggiore, presunta, accettabilità da

 parte del mercato”. Ed era per reagire a questa ostilità che proveniva da coloro che controllano i

“canali consolidati della diffusione artistica che Puglisi “scommette… su Internet” e sfida le

“incognite di un pubblico disavvezzo agli stilemi vuoti di troppi professionisti della critica… [e i]

 protocolli stanchi ed abusati di un mercato artistico che è paradossalmente provinciale e mondializ-

zato nel contempo”.

La “vetrina” continuava con le videate delle fotografie delle opere corredate da brevi didascalie che

richiamavano l’attenzione su come, seppur scaturite da avvenimenti politici contemporanei, non

mancassero di evocare i miti dell’età classica per segnalare che gli ideali di libertà e giustizia devo-

no essere difesi anche a costo di sacrifici personali.

A progetto realizzato Perazzelli si rivolse a Paolo Barbera, un amico che aveva conosciuto

frequentando il Partito dell’Aglietta, dei Chicco, dei Cucco, dei Favero, dei Francone, dei Negri

(Elena, Giovanni), dei Pezzana, dei Silombria, dei Sorace e delle altre decine di “compagni” checon la loro militanza, negli anni ’70, avevano reso ricco di proposte e iniziative il Pr del Piemonte e

soprattutto quello di Torino.

Paolo Barbera è una persona straordinaria, un uomo rinascimentale per il desiderio di conoscere e

dominare ogni ramo dello scibile -letteratura, storia, geografia, economia, filosofia, matematica,

fisica- e cimentarsi sin da giovanissimo in settori più disparati che vanno dai coloranti alimentari

ai cavi elettrici e telefonici, dalle attività turistiche alle produzioni cinematografiche e televisive,

 per poi partecipare agli inizi degli anni ’90 alla costituzione di una rete telematica. E in quanto

titolare di questo nodo telematico e quale “internet provider” che Davide gli si rivolse nel ‘96 per 

mettere in rete la “vetrina” Web delle mie opere: una delle primissime “mostre virtuali” aperta 24

ore su 24 accessibili in tutto il mondo.

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Messa in rete la “vetrina”, Perazzelli per i lettori de “L’OPINIONE” -quotidiano romano al quale

collaborava- nel novembre ’96 mi intervistò offrendomi l’opportunità di ribadire che l’arte contem-

 poranea era opera di “mediatori culturali” che, sotto l’egida USA, si erano costituiti in “cartello” per 

 brandire l’arte come un “martello” contro la “falce comunista” e che caduto il muro di Berlino il

“cartello, pur perdendo la funzione per cui era stato creato, era sopravvissuto poiché un “gruppo di

addetti ai lavori” per continuare a usufruire dei benefici che derivavano dalla gestione delle suestrutture si era inventata l’esistenza di nemici dai quali bisognava difendere l’arte moderna e i suoi

valori. Una difesa costruita sul falso presupposto che la barbarie nazista aveva lasciato in eredità

una “situazione di non ritorno” che impedendo ai popoli europei di attingere alla loro migliore tradi-

zione umanistico-scientifica li condanna alla confusione morale e al degrado civile indipendente-

mente che siano stati o che possano -potenzialmente- ritornare ad essere complici o vittime dell’o-

locausto. E se tali presupposti informano un pensiero si comprende come questo possa spingere chi

lo possiede a “positivizzare valori negativi”, a “confondere e identificare laicismo e iconoclastia,

dialettica e rifiuto delle distinzioni, frammentario e compiuto, individuale e collettivo” e servirsi

dell’opera di artisti che esprimono “malessere e disagio” per fondare un apparato critico “teso a

identificare incoerenza e storia, che non propone nulla [di costruttivo] e che apre ad esiti pericolosa-

mente incerti e sconosciuti”. Per quanto possa sembrare assurdo è su tali presupposti che GermanoCelant ha costruito la sua fortuna di teorico dell’arte povera che gli ha spalancato le porte del Ca-

stello di Rivoli e consentito di realizzare, tra le altre, anche quella mostra tanto criticata da Ugo

 Nespolo.

Una intervista tanto amara non poteva concludersi che con la domanda se sarebbe stato mai pos-

sibile “liberare l’arte dall’asservimento in cui era stata gettata” e con una risposta che tentava di al-

lentare la tensione che si era creata: “La rinascita dell’arte non potrà che fondarsi sul recupero di

quelle condizioni che hanno consentito, nella Francia dell’ottocento, il raggiungimento di traguardi

altissimi. Guardando a quelle condizioni, la prima necessità che oggi si impone è quella di separare

il museo dalla sala di esposizione. Il museo deve ritornare ad essere il luogo della memoria storica,

mentre la sala deve rappresentare lo spazio ove regna il bailamme della cronaca, ove coesistono,

confusi e in conflitto, valori effimeri e duraturi. Il liberismo deve imporsi anche per l’arte come

legge di progresso, contro quello statalismo che genera, direttamente nel museo, un’arte asfittica,

espressione di artisti repressi e di censori. Lo Stato deve ridurre al minimo il suo intervento, limi-

tandosi a garantire a tutti gli artisti spazi espositivi comuni. L’offerta a tutti di eguali opportunità

spingerà ciascuno a superare l’altro in una gara che produrrà una straordinaria, diversificata ric-

chezza culturale. Tanta abbondanza di produzione stimolerà critici e intellettuali a schierarsi per 

l’uno o per l’altro artista e solo i migliori saranno in grado di segnalare quanto è degno di essere

ricordato nel tempo. Verranno favoriti anche mercanti e compratori, ma la maggiore beneficiaria

sarà la classe politica che, liberata da compiti illegittimi, impropri e burocratici, potrà disporre

dell’intelligenza di uomini liberi e creativi, capaci di individuare più facilmente le strettoie da

superare lungo il cammino che porta al progresso”.

In precedenza ho accennato che nel ’92 la riiscrizione al “Partito radicale nuovo” era stata cau-sata

dall’esigenza di chiedere cambiamenti su sei argomenti di cui il quarto avrebbe dovuto riguar-dare

“l’unità politica d’Europa”. “Avrebbe” poiché rimase un’enunciazione, ma ciò non mi impedì di

elaborare un pensiero tanto più che esso fu sollecitato dai tragici avvenimenti iugoslavi e dall’at-

teggiamento assunto dai radicali.

Se è noto che il 25 giugno 1991 Slovenia e Croazia proclamarono la loro indipendenza, è rimasto

 pressoché sconosciuto all’opinione pubblica che, nemmeno tre mesi dopo, il Consiglio federativo

del Partito radicale nuovo approvò una mozione che fissava tre punti di capitale importanza: a) le

“istituzioni federali iugoslave” con la proclamazione d’indipendenza di tali Repubbliche avevano perso ogni “fondamento di legalità”, pertanto i paesi della Comunità europea, della NATO e

dell’ONU dovevano riconoscere alla generalità delle repubbliche che avevano formato l’ex

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federazione indipendenza e sovranità qualora l’avessero proclamata ed esercitata nel rispetto dei

diritti civili e democratici dei cittadini che risiedevano nell’ambito dei confini che la Costituzione

iugoslava del 1974 aveva riconosciuti ad ognuna di loro; b) la perdita di legalità delle istituzioni

federali rendeva illegittima la sopravvivenza dell’esercito federale; c) la Serbia impegnata nel

Kossovo a reprimere la minoranza albanese e ad utilizzare l’ex esercito federale al fine di realizzare

la grande Serbia doveva, dalla “Comunità europea” e dal “Consiglio di sicurezza delle NazioniUnite”, essere ritenuta una “grave minaccia” per la pace e la sicurezza internazionale e

conseguentemente discriminata urgentemente con misure d’embargo e militari simili a quelle che

avevano colpito l’Iraq di Saddam Hussein.

Di questi tre punti condividevo il primo. Il secondo l’avrei condiviso qualora i radicali, dopo aver 

riconosciuto che le operazioni militari compiute dall’ex esercito federale si configuravano a “tutti

gli effetti come crimini”, avessero sollecitato i “paesi della Comunità europea” ad offrire ai milita-

ri di carriera di quell’esercito la possibilità di essere accolti nelle loro forze armate e/o economica-

mente tutelati e assieme ammoniti che le offerte erano innegoziabili poiché, se respinte, arsenali, ar-

mamenti pesanti, alloggiamenti sarebbero stati progressivamente distrutti. Il terzo era inaccettabile

 poiché contrariamente al primo che stabiliva che le Repubbliche che avevano formato la federazio-

ne dovevano continuare ad esistere immutate nei loro confini territoriali, anche dopo che la procla-mazione d’indipendenza di Slovenia e Croazia aveva azzerato le “istituzioni federali”, pretendeva

che la comunità internazionale surrettiziamente smembrasse la Serbia riconoscendo il diritto di au-

todeterminazione alla sua minoranza albanese. Non lo accettavo, quindi, non per avversione all’esi-

genza radicale di contrastare il razzismo, il militarismo, l’autoritarismo vetero-comunista di Slobo-

dan Milosevic, poiché accettava che la forza militare che sosteneva la sua politica fosse colpita

dagli Stati europei, bensì per impedire che i radicali, con questo terzo punto, cancellassero gli altri

che avevano il pregio di suggerire come agire per evitare che il male peggiore si affermasse, per i

 popoli che abitavano in Serbia o altrove nella ex Iugoslavia. E che i primi due punti avessero

questa potenzialità ne ero certo, poiché pensando ai danni che gli aerei da guerra dei Paesi europei

avrebbero inflitto all’esercito ex federale, ogni qual volta avesse operato fuori dai confini della

Serbia, altro non riuscivo ad immaginare che il suo dividersi in una minoranza, pronta ad immolarsi

nella disfatta, e una maggioranza che consapevole dell’impossibilità di non poter realizzare

militarmente la grande Serbia avrebbe aiutato il suo popolo a liberarsi di Milosevic per renderlo

-seppur obtorto collo- disposto a giungere ad una pace con la parte avversa che l’avrebbe

riappacificato con la comunità internazionale ma anche con se stesso, con le sue minoranze, con gli

altri popoli, compresi i serbi residenti nelle altre Repubbliche.

Se quanto esposto indica il percorso che da quei punti poteva prendere l’avvio, il lettore può

comprendere la mia delusione nel constatare che seppur conosciuti -essendo stato divulgato capil-

larmente il testo della Mozione che li conteneva- nessuno dei paesi della Comunità europea e/o

della NATO si propose di utilizzarli, poiché tutti preferirono anteporvi il terzo formulato con l’in-tento di indicare che se nella ex Iugoslavia non era impossibile evitare il peggio, favorirlo era

necessario per poter prendere a pretesto le atrocità della guerra civile per poi giustificare l’instau-

razione di quel neo-tribunale di Norimberga permanente che avrebbe offerto alle democrazie

egemoni di dominare, con cinico machiavellismo, il mondo, ora che l’URSS era miseramente

crollata.

Queste opinioni, che si affacciarono nel ’93 e che nel corso degli anni successivi si precisarono e

consolidarono, pubblicamente furono parzialmente espresse solo nel ’99 in un amaro comunicato

stampa dal titolo “ANTIDOGMA NON DEMONIZZA I SERBI” nel quale si poteva leggere:

“Sono più di quindici anni che Antidogma denuncia la nonviolenza teologica di Pannella e del suo

 partito, senza riuscire nemmeno a scalfirla. Anzi, l’attacco sferrato dalla NATO alla Serbia dimostra

che tale teologia ha, ormai, pervaso il comportamento di tutti i governi democratici del di qua e deldi là dell’Atlantico.

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Che un teologo rigorista, dimentico delle radici risorgimentali e garibaldine del suo partito, non

abbia mai compreso le aspirazioni serbe non stupisce, mentre constatare che tutti i Paesi occidenta-

li, diventati immemori delle loro cruente origini, abbiano finito per appiattirsi sulla posizione pan-

nelliana, lascia sgomenti.

 Non è colpa dei serbi se la storia con loro è stata meno generosa che verso altri popoli europei e

americani che hanno avuto la fortuna di costituirsi in nazioni nei secoli passati quando erano ancorasconosciuti nazismi e stalinismi.

 Non aver compreso che il nazionalismo serbo, anche se inficiato da xenofobia, conteneva in se

anche una componente patriottica, che doveva essere riconosciuta e assecondata, costituisce un

imperdonabile errore.

Antidogma, mentre si dissocia dalla generale irresponsabilità, auspica che la classe dirigente

democratica internazionalmente voglia immediatamente riconsiderare la propria posizione per con-

sentire anche ai serbi di realizzare una patria che sia in grado di dare loro, come popolo, una certa e

garantita identità etnica, territoriale e nazionale, quale presupposto necessario per una futura loro

libera civilizzazione e adesione all’Europa comunitaria multietnica e multiculturale”.

All’inizio del 1998 mi fu recapitato “l’Osservatorio laico”, pubblicazione mensile della associa-zione “OSSERVATORIO LAICO SUL GIUBILEIO” fondata a Roma, nel settembre del

 precedente anno, da un selezionato gruppo di uomini di cultura appartenenti a diversi orientamenti

-tra i quali: Giordano Bruno Guerri, Guido Cernetti, Ida Magli, Mauro Mellini, Indro Montanelli,

Giovanni Ne-gri, Davide Perazzelli, Angelo Pezzana, Fulco Pratesi, Alberto Ronchey- per 

monitorare l’impatto che il GIUBILEO 2000 avrebbe prodotto su “approvvigionamenti, sanità,

viabilità, ordine pubbli- co”, “assetto urbanistico”, della città eterna. La lettura di questo mensile

che, oltre ad elencare i di-sagi che il Giubileo avrebbe arrecato ai cittadini romani, esponeva quanto

già era costato “in soldo-ni” e quanto ancora avrebbe gravato sulle finanze pubbliche, locali e

nazionali, indusse chi scrive a ritenere che la Chiesa, almeno in parte, avrebbe potuto risarcire i

sacrifici richiesti alla generalità degli italiani se avesse operato per rimediare ad errori commessi dai

laici. Fu da tali presupposti che doveva nascere l’opuscolo “GIUBILEO 2000 / Lettera aperta a

Giovanni Paolo II”, che, scritto nel corso del ’98, stampato nel marzo ’99, fu inviato poco dopo al

 pontefice, ad alti prelati - tra i quali non mancava l’allora cardinale Ratzinger- e a non pochi

direttori e giornalisti di quotidiani e settimanali italiani ed europei.

Il documento informava il Pontefice che il mittente già nel ’91 aveva inviato una “LETTERA

APERTA” ai dirigenti del Pr per segnalare che “l’abolizione della pena di morte poteva essere

richiesta solo da coloro che intendono sostituirla con un forte luogo carcerario”, ma che era illegit-

tima se proveniva da chi pretendeva di “abolire allo stesso tempo pena di morte e carcere” e che

quasi inutile era sottolineare che l’Associazione abolizionista radicale non avrebbe potuto auto ti-

tolarsi “NESSUNO TOCCHI CAINO” se fosse nata con la volontà di rispettare i “valori intangibi-

li” che impongono di riconoscere piena legittimità all’autodifesa e all’azione volta ad impedire lareiterazione dei più gravi reati. Procedeva sostenendo che lo scempio dei valori intangibili il leader 

radicale non avrebbe potuto nemmeno concepirlo se non fosse esistita nel mondo cattolico una

corrente “buonista” che aveva fatto dei “Vangeli il luogo ove si realizza la sovversione della tradi-

zionale legge ebraica”, visto che per questa corrente “Gesù di Nazaret non avrebbe insegnato ad …

inibire, fin dal nascere, le pulsioni contrarie alle dure prescrizioni dei comandamenti mosaici … ma

si sarebbe presentato al mondo come il banditore di un Dio buono, amorevole, tollerante anche ver-

so le più turpi nefandezze umane”. Né il leader radicale avrebbe potuto ignorare che gli “Stati mo-

derni fondano la loro legittimità sul popolo” e non su una “teologia” che “consente all’uxoricida che

si costituisce ed ammette la sua colpa di tornare subito a casa . al pluriomicida… di lasciare il carce-

re dopo solo un anno… [ai] colpevoli di decine di omicidi… di godersi ancora giovani, la libertà”.

E più avanti il Santo padre veniva invitato a non usare la sua autorità per sostenere NESSUNOTOCCHI CAINO poiché se la pena di morte fosse stata burocraticamente abolita si sarebbe soddi-

sfatta una certa “pubblica demagogia” ma i paesi dispotici avrebbero continuato a praticarla “in

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modo occulto -magari ricorrendo ad apparati ‘mafiosi’ paralleli- con il risultato di peggiorare i loro

già pessimi comportamenti in materia penale, mentre quelli democratici sarebbero stati sollecitati ad

adottare una forma di giustizia all’italiana, dove la pena di morte verrà inflitta ad innocenti per ma-

no di omicidi resi liberi dopo che i tribunali di Stato avranno accertato le loro oggettive responsabi-

lità criminali”.

Avviandosi alla conclusione il documento, dopo aver risollecitato Giovanni Paolo II a resistere allerichieste che sempre più incalzanti gli sarebbero pervenute nel corso del Giubileo dai partigiani del

“NESSUNO TOCCHI CAINO”, invitava a sostenere con più coerenza e rigore la lotta per i diritti

civili in quanto unica attività capace di “imporre” ovunque il fiorire delle democrazie “senza le

quali è impossibile abolire la pena di morte” poiché non sarà possibile “sostituirla con la pena certa

e severa, a testimonianza che gli uomini appartengono alla schiera dei giusti” quando operano per 

mantenere vivo il ricordo di coloro che avrebbero continuato a “vivere la vita che gli era stata

donata da Dio o dalla natura e che solo Dio o la natura avevano . autorità e/o il diritto di togliere”.

Un documento forte che non provocò reazioni se non quella dell’autore che incominciò ad interro-

garsi perché non uno dei molti redattori di quotidiani e settimanali nazionali a cui il documento era

stato recapitato sentì la necessità di intervistarlo per sapere perché si era convinto che la proposta a- bolizionista avanzata dall’associazione radicale fosse massimalista e poi a rispondersi che era man-

cata per paura della risposta. Meglio non udirla per evitare di riferire ai lettori che la richiesta di tale

associazione non avrebbe potuto che essere riformista e rivolta ai paesi musulmani affinché cancel-

lassero la pena di morte per prostituzione, sodomia, violenza carnale, adulterio, violazione di regole

religiose, e che essa non venne avanzata solo per ottenere dai cattolici e dai governi europei ricono-

scenza per l’opportunità offerta di dimostrarsi favorevoli all’abrogazione di una pena oggettivamen-

te ripugnante senza bisogno di mettersi in urto, anche solo diplomaticamente, con qualcuno. Anco-

ra: la massima riconoscenza i radicali l’avevano ottenuta dalla classe politica italiana per aver ri-

chiamato l’attenzione sui paesi in cui la pena di morte esiste, per stornarla da quelli in cui pur essen-

do stata cancellata dalle costituzioni e dai codici penali, continua a sopravvivere in forma extragiu-

diziale, come notoriamente avviene in molti paesi delle Americhe - Colombia, Brasile, Equador,

Honduras, ecc.- ma anche in Italia dove seppur mistificata è più che mai attiva.

Una situazione unica quella italiana dove i reati di qualsiasi entità e natura non sono considerati

trasgressioni di prescrizioni intangibili -“non ammazzare, non corrompere i giudici, non fornire

falsa testimonianza, non rompere i patti, non fruire di libertà diverse dagli altri, non rubare”, ecc.-

in cui accanto ad ognuna è indicato il prezzo che si dovrà pagare per risarcire i danni arrecati al

“patto” sul quale si fonda giustizia e convivenza civile degli Stati democratici moderni, bensì atti

commessi per ignoranza la cui responsabilità ricade sulla società per aver omesso di impartire una

educazione sufficiente ai trasgressori.

Una situazione assurda, artificiosamente creata da una Costituzione in cui le regole intangibili

seppur elencate, vengono allo stesso tempo negate -articolo ventisette- e che impedendo di consi-derare legittime le punizioni cancella il concetto stesso di colpa. Un articolo diabolico che in abito

costituente poteva essere concepito solo da cultori delle sottigliezze teologiche, ma che condiviso e

sottoscritto da cattolici e laici era destinato a diventare parte organica del testo costituzionale pro-

mulgato nel gennaio 1948 e a condizionare negativamente, da allora in poi, attività legislativa, giu-

diziaria 16 e convivenza civile degli italiani.

La mancata reazione alla diffusione dell’opuscolo indusse ANTIDOGMA a realizzare un mani-

festo al fine di segnalare come i laici avrebbero dovuto vivere il Giubileo. Un manifesto in bianco e

nero costituito da una fotografia di un sedile di sgabello, “SKRANNO”, affollato di elementi ap-

 puntiti e dalla sovrastante scritta “2000/ GIUBILEO LAICO ” che non lasciò dubbi a coloro che a

16 L’esistenza di processi oggettivi non è prevista dalla nostra Costituzione poiché prescrivendo che solo l’ultimo dei diversi gradi di giudizio è

valido rende invalidi non solo quelli che lo precedono ma anche se stesso in quanto chiamato a sindacare sentenze che a priori sono inconsistenti.

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Torino lo videro affisso ai lati di strade e piazze del centro e delle periferie a chi fosse destinato, né

che i destinatari potessero trovare riposo e felicità nell’anno in cui i cattolici erano intenti a giubila-

re. La scelta di affiggere il manifesto nella città sabauda non fu casuale poiché pretendeva di essere

d’auspicio che proprio dalla città in cui il laicismo risorgimentale era nato  17 potesse dalle sue ceneri

rinascerne un altro, altrettanto vitale, nella misura in cui avrebbe dovuto iniziare la sua esistenza

spazzando via quella massoneria clericale che con la P2 aveva tutto infettato.

Con l’affissione del manifesto per la prima volta dal 1993 una mia opera di scultura, seppur in-

completa e in fotografia, poteva ritornare ad essere esposta. Questo ritorno offrì l’opportunità di

ipotizzare che opere figurative di contenuto politico, che erano bandite dalle gallerie private e dagli

spazi espositivi pubblici, avrebbero trovato, se riprodotte su manifesti, la possibilità di esibirsi da-

vanti a un pubblico più vasto e potenzialmente attivo di quello che abitualmente frequentava i

luoghi deputati ad ospitare opere rese sterili da questi stessi luoghi.

Una ipotesi che nel 2001 fu messa alla prova da ANTIDOGMA quando assegnò a un manifesto il

compito di denunciare il pericolo che l’amministrazione americana capeggiata da Georges Bush,

resa ebbra dalla dissoluzione “dell’impero del male”, facesse pessimo uso della straripante potenza

militare di cui disponeva. Questo manifesto il compito lo svolse coniugando una fotografia rima-neggiata di una scultura degli anni sessanta di chi scrive con la parola “WANTED”. La scultura,

costituita da un aereo da guerra USA, privo di ali, ergeva la sua carlinga su uno stelo infisso su un

disco appoggiato a terra, per urlare da una bocca spalancata, che aveva preso il posto della cabina di

combattimento, riprovazione contro coloro che lo consideravano un bandito. Il manifesto che venne

affisso a Torino e a Venezia, pur non lasciando dubbi sul messaggio che veicolava -anche gli aerei

da guerra degli Stati Uniti si sarebbero ribellati qualora fossero stati male utilizzati (sic!)- non

riuscì, purtroppo, a convincere la classe politica di quella grande nazione a comportarsi

diversamente da come si comportò a partire da quel tragico undici settembre.

Constatare che il manifesto era stato brutalmente smentito costrinse ANTIDOGMA a ritornare sulla

 precedente affrettata ipotesi per riconoscere che anche se i suoi manifesti avessero ricevuto

un’attenzione e un consenso ben più vasti di quelli ottenuti dalle opere figurative non si sarebbero

ancora trasformati in azione politica concreta, che avrebbe continuato ad essere monopolio di

minoranze specializzate e quindi si imponeva la necessità di affidare ai futuri manifesti oltre il

compito di diffondere una informazione politicamente orientata anche quello di cercare chi avrebbe

avuto interesse a sfruttarla.

 Nel giugno 2001 le elezioni politiche erano state vinte da Forza Italia e Berlusconi era ritornato a

 presiedere un governo che tutte le previsioni indicavano che sarebbe stato di legislatura e ANTI-

DOGMA, per rendere noti i convincimenti maturati sugli avvenimenti politici italiani degli ultimi

dieci anni, nel 2002 inviò una “LETTERA APERTA/ AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO/

DOTT. SILVIO BERLUSCONI” e in fotocopia a non meno di un migliaio tra giornalisti, politici,intellettuali.

In riassunto il suo contenuto era il seguente: Berlusconi era “sceso in campo” per recitare una parte

che un consumato attore avrebbe potuto recitare solo se prevista in un testo surrealista, ma egli

l’aveva superato poiché aveva trasformato il surrealismo stesso in vivente realtà, accusando coloro

che l’avevano aiutato a concentrare su di sé un enorme potere mediatico, economico, politico, di

essergli nemici e per di più sapendo che costoro avrebbero continuato -senza limiti di tempo- ad

accrescergli averi e poteri, materiali e immateriali, purché continuasse a recitare la parte.

17 Il laicismo risorgimentale, figlio dello Statuto albertino del 1848 si sostanziò nella legge Siccardi che presentata al Parlamento subalpino nel

1850 era composta da nove articoli che riguardavano: l’abolizione del foro ecclesiastico e l’antico diritto d’asilo da parte di istituti religiosi, la

limitazione delle pene stabilite dalla legge per inosservanza delle festività religiose, l’autorizzazione per poter acquistare o accettare donazioni da parte degli enti ecclesiastici, l’incarico dato al governo di presentare al Parlamento un progetto di legge “per regolare il contratto di matrimonio”.

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Contestata la recita, la “LETTERA” rimproverava il destinatario di non averne scelto un’altra di-

versa e ben più responsabile, come la preventiva rinuncia a ricandidarsi alla Presidenza del

Consiglio che gli avrebbe permesso di utilizzare il tempo in cui al governo c’era il centro-sinistra

(anni: 1966/2001) per scegliere coloro che nell’ambito del suo schieramento avrebbero dovuto

ricoprire le cariche ministeriali quando il centro-destra avrebbe rivinto le elezioni politiche. Una

recita mancata poiché le elezioni, vinte dal centro-destra, l’avevano catapultato a presiedere ungoverno di dubbia legittimità in quanto costituito in violazione di una legge del 1957 che

 prescriveva l’ineleggibilità a cariche pubbliche di coloro che erano titolari di importanti concessioni

 pubbliche. E se Berlusconi era responsabile di presiedere tale governo, molto di più lo era D’Alema

che, in qualità di leader del più grande partito della sinistra, nella precedente legislatura, non avreb-

 be dovuto rendersi disponibile a collaborare con lui in “bicamerale” per legittimarne il ruolo poli-

tico che pretendeva di svolgere, ma operare per creare una maggioranza trasversale al fine di varare

una legge sul “conflitto d’interessi” che impedisse a chiunque si trovasse in tale condizione di rico-

 prire cariche pubbliche in “violazione di fondamentali principi di eguaglianza di tutti i cittadini di

fronte alla legge” e di “divisione dei poteri” tra organi dello Stato.

Posti di fronte ai gravissimi errori commessi, a D’Alema e al suo Partito ora non rimaneva altro che

l’Aventino.Un Aventino che “per evitare gli errori amendoliani, dovrebbe creare un governo ombra -nel cui

 programma non potrà mancare l’impegno a realizzare un reale mercato televisivo-, lasciare presidi

combattivi dentro le Camere, affidarsi ad una prolungata attività agitatoria, che coinvolga dal basso

grandi quantità di cittadini, per renderli consapevoli degli interessi particolari che si celano dietro la

decennale campagna scatenata da Forza Italia e dai suoi alleati contro la magistratura e di quanto è

necessario fare per ritornare nell’ambito della legalità”. Un ritorno che per la sinistra costituisce il

“problema dei problemi” ma non perché chiamata a riscattarsi dal suo passato stalinista -come

 pretenderebbe Berlusconi- ma dal buonismo cattolico che l’ha contagiata sul modo di concepire o-

rigine e amministrazione della giustizia che la rende serva di interessi faziosi di ogni genere e natu-

ra. Un ritorno possibile poiché la sinistra pur digiuna di cultura giuridica laica ha la fortuna di poter 

 procedere nella giusta direzione capovolgendo semplicemente i sofismi che Forza Italia pretende

rappresentino altrettanti aspetti di una giustizia giusta. In tale contesto “Antidogma manifesto vuole

essere, quindi, pungolo della sinistra per spingerla a prendere coscienza che deve rifondarsi sulla

giustizia cara a Di Pietro, solo argomento capace di sottrarla ai soffocanti abbracci delle gerarchie

religiose e dei clericalismi dei partiti pseudo-liberali, pseudo-marxisti e di renderla partito liberal-

socialista coeso, moderno, in grado di affrontare le nuove, difficili sfide imposte dall’unificazione

europea e dalla globalizzazione.

Manifesto bandiera che sventola per avvertire i democratici e i liberali europei, di destra e di si-

nistra, del pericolo che incombe per la sospesa democrazia italiana.”

 Nello stralcio della “LETTERA” sopra riportato la parola “manifesto” è due volte ripetuta. Per comprenderne la presenza si deve sapere che tale documento era stato preceduto dall’affissione del

terzo manifesto, in bianco-nero, di ANTIDOGMA, composto dalla fotografia di una panchina

-“SKRANNA LONGA”- ripresa da un obiettivo posto leggermente in alto per evidenziare quanto

fosse problematica l’agibilità di tutti i suoi posti a sedere e dal nome “BERLUSCONI” scritto sopra

la panchina per non lasciare dubbi, in coloro che lo vedevano, che sotto la sua egida nessuno

avrebbe potuto trovare riposo se non mettendo a rischio l’incolumità personale e/o collettiva.

Dalla descrizione si evince che lo schema compositivo del terzo manifesto ripeteva quelli

 precedenti: fotografia + nome . Impossibile è però capire che la sua finalità si era, nel frattempo,

irrigidita poiché, pur continuando ad essere rivolta all’informazione politica, pretendeva che a

 partire da se stesso tutti i manifesti di ANTIDOGMA avrebbero dovuto trattare un unico tema:

B E R L U S C O N I. Una correzione imposta dalla necessità di ancorare saldamenteANTIDOGMA alle forze liberali più coerenti che ravvisavano nel padrone di Mediaset il problema

 più spinoso che le classi dirigenti erano chiamate ad affrontare e dalla convinzione, sopraggiunta in

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chi scrive, che se i suoi manifesti avessero dimostrato, in luoghi e tempi diversi, di stimolare nei

cittadini la consapevolezza che l’anomalo Presidente del Consiglio italiano costituiva un pericolo

 per le stesse istituzioni democratiche dei paesi europei, avrebbero potuto ottenere quotazioni di

mercato equivalenti alle opere dei più quotati artisti contemporanei. Questo ambizioso disegno, che

fu accolto con scetticismo da quelle pochissime persone che informalmente, in quel momento,

costituivano ANTIDOGMA, nell’immediato non aveva mancato di gratificare coloro che piùavevano contribuito alla sua realizzazione quando un sondaggio rivelò che una significativa

 percentuale di chi l’aveva visto affisso a Torino aveva reagito secondo quanto previsto. Una

gratificazione che mancò del tutto a chi scrive per l’improvviso, sciagurato, precipitare della salute

di colei che manifesti e affissioni fino a quel momento aveva finanziati.

L’inaridirsi dei finanziamenti per ANTIDOGMA fu un colpo durissimo poiché dopo la seconda

affissione del terzo manifesto, che venne realizzata a pochi mesi di distanza dalla prima nella stessa

città, fu costretto a rinunciare a quelle che dovevano essere fatte nel tardo autunno a Milano e Roma

e poi, nel 2003, a desistere dal progettare altre affissioni in alcune capitali europee. Fu così che

l’imponente immaginata campagna di affissioni in fase di decollo fu costretta ad atterrare

 precipitosamente per fermarsi nel 2004 con il quarto manifesto che se pur realizzato con il ricorso al

collaudato schema compositivo non incitava più alla rivolta culturale e politica contro Berlusconima si appellava alla sua coscienza affinché trovasse in se stesso la forza di desistere dal continuare a

torturare la democrazia.

Su questi avvenimenti, anche affettivamente dolorosi, non mi soffermo limitandomi a segnalare che

il vuoto lasciato dall’interrotto progetto fu riempito dalle lettura del libro “MANI PULITE/ la vera

storia” 18 che inaspettato e ponderoso comparve nelle librerie nell’estate 2002.

Un libro che mi doveva sollecitare a ricordare come durante la “guerra fredda” la nostra classe

 politica, incalzata dalla necessità di ricorrere alle mafie per convogliare il consenso elettorale sulla

Democrazia Cristiana - unico Partito internazionalmente legittimato a governare- fosse stata co-

stretta a promuovere se stessa a classe dominante e a sottomettere ai suoi particolari interessi tutta la

società, compresa quella borghesia alla quale pur avrebbe dovuto sottostare… poi a pensare che se

dopo il crollo del “muro di Berlino” questa classe non ha perso il dominio fu perché già prima che

quel muro crollasse una sua non piccola parte era consapevole che per non soccombere sotto il peso

della responsabilità avuta nel derubare e dissestare i bilanci dello Stato avrebbe potuto usufruire non

solo della comprensione delle classi dirigenti dei Paesi NATO ma anche della Costituzione repub-

 blicana. E nel mutato quadro internazionale fu quello che avvenne quando indagata e processata si

aggrappò alla Costituzione che le consentiva, anche se ripetutamente condannata, di proclamare la

 propria innocenza e tenere aperto un inutile contenzioso, consapevole che là dove i principi primi

sono ambigui e contradditori chi decide non sono legge e ragione ma la forza.

Sul groviglio dei fatti accaduti dopo che la forza è prevalsa non posso soffermarmi e non potendo

mi limito ad asserire che fu la loro gravità a convincermi che portare l’Italia nell’ambito dellanormalità democratica sarebbe stato impossibile se non fosse sopraggiunto dall’esterno un energico,

imprevisto aiuto alla debole opposizione interna.

Ossessionato da questa convinzione nel tardo autunno 2003 inviai una lettera a Bill Emmot,

direttore di “THE ECONOMIST”.

La decisione di scriverla era stata presa nell’estate dopo aver letto su “L’Espresso”, che l’au-

torevole settimanale inglese aveva dedicato a Berlusconi un dossier. La lettera informava che i

ripetuti articoli pubblicati dal settimanale sull’anomala situazione italiana già in passato avevano

sollecitato il mittente a scontrarsi, ripetutamente con quei pochi amici radicali che gli erano rimasti

e poi a rendere pubbliche le divergenze. Cosa questa che era avvenuta nel 2002 quando

ANTIDOGMA aveva prima affisso un manifesto per allertare i cittadini che Berlusconi, in veste di

Presidente del Consiglio, costituiva un pericolo e poi inviato allo stesso una “LETTERA APERTA”

18 Autori: Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio, Editori Riuniti, giugno 2002.

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che di fatto l’invitava a dimettersi dalla carica ricoperta, anticipando quella stessa conclusione a cui

recentemente era giunto l’ “ECONOMIST”. Richieste sagge -desiderabili- ma irrealizzabili per la

indisponibilità di colui che avrebbe dovuto accoglierle. ANTIDOGMA posto di fronte a tale

indisponibilità non intendeva “reclinare la testa” poiché “confida Suo tramite di trovare chi, per un

 periodo di tempo prestabilito, si identifichi con esso per trasformarlo da associazione virtuale in

associazione culturale reale, forte e strutturata”.La lettera proseguiva affermando che qualora questa trasformazione fosse avvenuta l’ ANTI-

DOGMA virtuale non solo avrebbe proposto a quello reale di svolgere “un’azione articolata” su “tre

indirizzi operativi: a) affissioni di manifesti nelle capitali dei più grandi Paesi d’Europa e nelle città

in cui hanno sede organi di governo europeo -Berlino, Londra, Madrid, Parigi, Roma, Bruxelles,

Strasburgo; b) mostre da realizzare con i manifesti e/o le fotografie, scattate nei luoghi in cui sono

stati affissi; c) iniziative culturali da tenersi anche in concomitanza delle affissioni o delle mostre di

cui ai punti precedenti” ma si sarebbe anche anticipatamente “impegnato a dotare il suo succedaneo

di un nuovo manifesto -anche di grandi dimensioni e in numero sufficiente a tappezzare una

capitale fra quelle menzionate nel punto a) …[rinunciando] in perpetuo a rivendicare qualsiasi

forma di proprietà sui beni materiali e immateriali connessi all’attività del nuovo ANTIDOGMA”.

La lettera, poco oltre, si concludeva affermando che “gli artisti di ANTIDOGMA desiderosi … dioffrire più mezzi a quell’esigua minoranza che con l’intransigente opposizione al berlusconismo si

candida a svolgere il ruolo che mezzo secolo fa fu assolto dagli ‘intellettuali della libertà della

cultura’” si attendono una risposta positiva, ma qualora questa fosse negativa essa verrebbe accolta

come un invito a “cercare altre strade per giungere da una diversa parte a svolgere la stessa lunga e

difficile opposizione”.

Rimasta senza risposta,19 il mittente, ringraziati gli artisti che si erano offerti di mettere

gratuitamente le loro capacità professionali al servizio del nuovo ANTIDOGMA, qualora avesse

visto la luce, si accinse, in coerenza con l’impegno assunto in chiusura di lettera, a cercare quale

strada diversa potesse utilmente percorrere. Una scelta sbagliata poiché cadde sulla stesura di un

libro nel quale i suoi protagonisti -due ex iscritti al Pr dei mitici anni ’70- dopo aver scoperto di

non essere d’accordo che Pannella avrebbe potuto traghettare l’Italia dalla prima alla seconda

Repubblica, purché fosse stato libero da “errori personali indotti da un’indole troppo concentrata su

se stessa”20, avrebbero dovuto dare vita ad un’animata discussione fatta mentre passeggiavano

-dalle sei di sera di un giorno ancora caldo di settembre alle sei del mattino del giorno dopo- lungo

o nei pressi di una riva torinese del Po’. Questo libro -“IL CONTRADDITTORIO non venne mai

ultimato.

Dei due soli animati capitoli scritti, qui mi limito a dire che se mai dovessero avere un pregio questo

consisterebbe nell’aver senza ambiguità affermato contro l’ottimismo di Teodori che Pannella,

nonostante tutte le meritorie “battaglie” che di volta in volta ha tenacemente combattute in veste di

liberale, libertario, nonviolento, antimilitarista, anticlericale, sarebbe stato un cattivo traghettatore, poiché da maniacale estimatore della vigente Costituzione, la seconda Repubblica l’avrebbe fondata

sugli stessi principi che hanno caratterizzato la prima, con le conseguenze negative che il lettore

conoscendo quanto in precedenza è stato scritto può immaginare.

 Nel 2005

…………………………………………………………………………………………………………

19 Un’assenza tanto più deludente credendo di sapere che altrimenti Berlusconi ben difficilmente sarebbe ritornato a presiedere per la terza volta

un governo e che l’Europa avrebbe potuto disporre di un gruppo di intellettuali di altissimo livello -tra quelli italiani penso, primo fra tutti, a

Giovanni Sartori- che avrebbero messo a disposizione delle classi dirigenti e dei governi dei Paesi europei non poche indicazioni e proposte

capaci di aiutarli ad avvicinare quella difficile unità ancora tanto lontana dal traguardo che l’attende.

20 Citazione tratta dal libro di M. Teodori riportato in nota 11.

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…………………………………………………………………………………………………………

…(omissis)…………………………………………………………………………………………….

POST SCRITTUM

Recentemente Bill Emmot, dopo aver percorso in lungo e in largo l’Italia, ha pubblicato un libro

-“Forza Italia/Come ripartire dopo Berlusconi”; Ed. Rizzoli, ottobre 2010- nel quale pensando alle

  proposte che un Cavour redivivo farebbe per risollevarne le sorti le individua nelle seguenti

riforme:“legge elettorale”, “legislazione del lavoro”, “giustizia”, “concorrenza”, “finanza pubblica”,

“conoscenza”. Riforme che a qualche settimana di distanza in un articolo pubblicato su

“L’espresso” -novembre 2010- riduce a tre definendole “priorità assolute per la politica e la

società”: “legge elettorale”, “sistema giudiziario”, “competitività”,

Che si debba partire dalla legge elettorale lo condivido, così come condivido che questa legge

debba essere un proporzionale corretto da una soglia di sbarramento -purché non sia del 5 ma del

9%- per eliminare assieme ai “partitini” anche i partiti minori e che solo ad elezioni avvenute sidebbano pattuire coalizioni governative.

Condivido che tra le “priorità assolute” sia annoverata la riforma della giustizia purché non

 principi dalla “separazione delle carriere” dei magistrati ma dall’attacco alle più assurde “garanzie

di difesa”. La prima a cadere dovrebbe essere “l’udienza preliminare” che allontanando

l’accertamento dei fatti dai tribunali serve al reo per non essere inchiodato alle proprie

responsabilità dai ricordi sbiaditi o cancellati e dai ricatti che il tempo gli ha permesso di esercitare

sui testimoni e alla “casta politica” per mortificare la professionalità della magistratura, accusando,

tutte le sue componenti -inquirenti, giudicanti- di essere responsabile della ferriginosità e lentezza

dei processi.

Condivido che l’impopolarità della parola “competitività” debba individuarsi nella carenza di

concorrenza economica a causa di uno Stato endemicamente predisposto a favorire inefficienza e

corruzione che ha permesso ai “poteri forti” di trarre costanti vantaggi dalle collusioni e che per 

 procedere verso la creazione di un mercato “aperto” si debba partire dalla rottura del monopolio

televisivo e pubblicitario sul quale affondano rigogliose le radici del “berlusconismo politico”.

Passando dalle “priorità assolute” elencate su “L’espresso” alle riforme proposte nel libro penso

che se il Cavour redivivo fosse chiamato a giudicarle apprezzerebbe quella sulla “Finanza Pubblica”

  poiché anche lui, convinto che l’enorme debito pubblico costringerà l’Italia a una progressiva

regressione economica, condividerebbe l’indicazione data di procedere ad una “drastica

ristrutturazione dei ministeri e di altri enti pubblici” al fine di realizzare “una positiva riduzione

nelle dimensioni dello Stato”. Ma dubbi sono certo che gli sorgerebbero sulla capacità delfederalismo fiscale di poter su “base regionale richiamare gli amministratori locali al senso della

loro responsabilità” se quest’esempio prima non verrà dato dagli organi centrali. E altri

l’assalirebbero sulla riforma del “Lavoro” e non per contrarietà a quella proposta dai professori Tito

Boeri e Pietro Garibaldi sul “nuovo contratto unico per tutti” teso a superare la precarietà di quello

attualmente offerto a milioni di giovani ma poiché consapevole che nell’attuale congiuntura macro-

economica, caratterizzata dalla progressiva espulsione di forza-lavoro dai settori primario e

secondario -agricoltura, industria- e dall’incapacità del terziario privato di assorbire quella in

eccesso coniugata all’impossibilità di espandere ulteriormente debito e occupazione pubblica, e

reperire risorse utili da tassazioni ed evasioni fiscali , penserebbe che i pesanti oneri derivanti dalla

riforma possono essere reperiti solo dalle spese inutili di Stato a partire da quelle sperperate per la

“casta” politica.

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Una”casta” i cui privilegi superano quelli di nobiltà e clero del tempo di Luigi XV° e che la

rendono cinica nel mistificare classi subalterne e società; incapace di assolvere gli obblighi che il

capitalismo liberale gli impone: p r o m u o v e r e i n t e r e s s i g e n e r a l i.

 

Una incapacità che ben compresa nelle sue cause dal Cavour redivivo lo solleciterebbe a

contattare intellettuali e politici europei per illustrare lo sbaglio commesso agli inizi degli anni ’90dall’Unione nell’ammettere l’Italia nel trattato di Maastricht pur non avendo i requisiti richiesti, e a

rivolgersi al popolo italiano per sollecitarlo con petizioni a chiedere che qui, ora, subito, siano

dimezzate le retribuzioni percepite dai parlamentari delle assemblee nazionali e delle altre

disseminate nei capoluoghi regionali e provinciali e ad utilizzare l’iniziativa come trampolino per 

lanciare un partito -“azionista liberale” proteso a realizzare necessarie e urgenti riforme sovra-

strutturali e strutturali.21

Armando Puglisi

Torino, febbraio 2011

 

21 Queste non potranno che principiare dall’abolizione dei comuni con popolazione inferiore lle 3000 unità

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