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186 - T o m m a s o Salini, Natura morta, coli. priv.
T A V O L A E C U C I N A D E L L A M A T U R I T À Nella temperie immedia tamente successiva Caravaggio, il tema del tavolo apparecchiato
sembra progressivamente scomparire a vantaggio della grande esposizione di frutti o di ortaggi: nella congetturata e già discussa attività di un Giovan Battista Crescenzi, o quella di Mao Salini (ricostruibile a partire dal dipinto datato 1625 ora in coli. priv. statunitense [tav. 186]), di P.P. Bonzi (sulla base del ben noto pendant ora in coli, private documenta te ai nn. ila, l l b di Napoli 1964), dello stesso più tardo Simone del Tintore (a partire dal dipinto monogrammato ora ai Musei Civici di Milano) si assiste, nelle differenze d ' impianto e di gusto at tualmente oggetto di particolari e approfonditi studi, alla preferenza, per quanto riguarda l ' impianto dell 'apparecchio, di una figura anonima, fra la balaustra in pietra e la mensola, comunque incapace di fornire efficaci elementi al percorso che si è voluto fino a ora seguire.
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Se allora per la situazione italiana non si può parlare di una continuità del tema, è comunque possibile segnalare alcuni casi, o alcuni esiti laterali rispetto a quello centrale, sostanzialmente legati all ' impianto della cucina e della grande imbandigione di frutta.
I! nome emergente nella sua sostanziale novità per la scena italiana è quello di Evaristo Baschenis, che nella doppia e divaricante attività sugli strumenti musicali disposti e sull 'intero di cucina sembra aver esaurito due educazioni diverse della disposizione oggettuale. Accettando cioè l'equivalenza imbandi to/disposto il m o n d o dell 'organico delle cucine e quello artificiale degli strumenti musicali sembrano rispondere stringenti dicotomie troppo divaricanti per essere casuali. Come lo s t rumento musicale offre, nelle disposizioni diverse che la sua posa sul piano può produrre, intatta la sua architettura suggerendo volumi compatti e integri, il pollame disteso sui tavoli o sulle mensole della cucina accompagna e esalta la base d'appoggio, adeguando la propria disposizione a essa.
E il medes imo gioco di contrapposizioni può essere trovato nel riflesso e nell 'opacità che la cassa del liuto e il morbido assorbimento del pollame spennato producono: come si vede la categoria oppositiva che viene proposta esclude un ragionamento specifico sulla natura e sulla portata simbolica del diverso repertorio utilizzato per favorire una osservazione sulle differenti rese dell ' impianto basate esclusivamente sulle qualità di presenza dell 'apparato stesso.
E indubbiamente l 'esperienza pittorica proposta da Evaristo Baschenis si presenta per certi versi ancora interrogativa (una volta che se ne cerchino le radici immedia tamente precedenti, pur essendo circostanze significative quelle di Carlo Ceresa, di otto anni più anziano e soprattutto carico dell 'esperienza milanese del 1629, e di Daniel van der Dijck cer tamente riferimento negli anni di formazione di Baschenis) per la costanza con cui i due soggetti principali sono stati trattati e per la loro già richiamata divergenza tematica.
A dispetto comunque dei termini indicati come antitetici, nell'affrontare il t ema della cucina e quello dell 'angolo da musica, si può porre, come segnale di una medes ima capacità di intendere lo spazio pittorico, l 'accortezza posta da Baschenis nel non rendere concentrata l 'attenzione dell 'osservatore, nel cogliere cioè cer tamente un m o m e n t o saliente di una imbandigione più ampia, ma di suggerire, per la forza di «chiusura» che le architetture esposte suggeriscono, la presenza di altrettanto complesse figure oltre quella evidenziata: sia tavolo (tav. 187), sia cucina (tav. 188), l ' impressione non è tanto quella di una at tenzione centripeta, concentrata sulla singolarità degli esiti plastici, quan to quella di una indicazione di «accordo» fra le parti possibile rispetto a un intero che deborda dalla scena rappresentata.
Fra le disposizioni possibili (e un censimento delle ricorrenze può anche nel caso di Baschenis parlare di lingua chiusa a t torno a alcune figure chiave) quella scelta può avere la felicità dell 'esaurienza, della soddisfazione nell'affrontare coordinate spaziali prevedibili, ma, nel complesso dell 'opera, non risulta cer tamente unica. Se il rilievo può valere per la cucina come per il tavolo, due sono comunque le esperienze plastiche che Baschenis indaga: nel pr imo caso l'indagine è indirizzata sostanzialmente sulla orizzontalità e sulla contemporanei tà di diversi andamenti lineari favoriti spesso dall 'architettura che costituisce il proscenio alla disposizione degli oggetti, presentando un piano o più alzati, al trettanto investiti dalla presenza dell 'animale coricato; nel secondo caso invece è la profondità, risulta analogamente su piani
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187 - Evaristo Baschenis, Cucina, Pinacoteca di Brera, Milano.
sovrapposti, del campo che viene sottolineata dalle diverse disposizioni dello s t rumento musicale rispetto al piano della tavola, e concordemente rispetto all 'osservatore.
Se allora l ' impianto generale risulta costantemente parallelo al punto di vista da cui la scena è studiata, proprio questa costanza, l 'abbassamento cioè di un criterio o un taglio ambientale, favorisce la lettura immediata e diretta della composizione e della sua qualità architettonica. Quando si è accennato a un aspetto «orizzontale» della cucina e un aspetto «profondo» del tavolo con gli s trumenti musicali, si è evidentemente fatto riferimento alle dinamiche generali della composizione, alla prevalenza di indizi paralleli o diagonali rispetto al piano d'appoggio; certamente una lettura ravvicinata delle singole situazioni può scoprire, nell 'una come nell'altra architettura, citazioni e figure rispondenti a entrambi i caratteri spaziali prima descritti.
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E in effetti nel caso di Baschenis si è giustamente fatto riferimento, a lmeno come esercizio matematico, propedeutico, alle ricerche prospettiche quattrocentesche e cinquecentesche: tanto il medesimo soggetto, liuto o animale che sia, viene, magari nel medes imo dipinto, sottoposto a una incrociata verifica visiva in quanto rappresentato da diversi punti di vista: ci si accorge allora che la composizione può vivere anche nel virtuosismo di una didattica teoria della rappresentazione prospettica, che la replica del soggetto identico può fornire informazioni allatto diverse a seconda del punto di vista con cui l 'occhio del pittore ne ha colto la figura: declinato e moltiplicato per l 'estensione di un tavolo ricolmo di pollame è il medes imo enigmatico problema che sta alla base del «Germano appeso» della Galleria Pitti di Firenze attribuito a Giusto Sustermans in cui la presentazione di due punti di vista diversi del medesimo soggetto, frontale e laterale, si sposa ambiguamente con una ambientazione «realistica», con il doppio braccio di sostegno, r ichiamando in questo m o d o la specularità e la sua intricata quanto affascinante relazione con il dipingere, la rappresentazione. E per il carattere formale, d ' impostazione, del rilievo, il ragionamento diventa altrettanto convincente per il soggetto musicale, in cui lo s t rumento , se non identico cer tamente appartenente alla medesima famiglia, viene replicato in diverse e contrapposte pose, a sfidare la sapienza del dot to e stupire l'ingenuità dell 'incolto.
Il tavolo di Baschenis comunque , nella soluzione spoglia di arredi come nella più tarda amplificazione segnalata dalla presenza in proscenio di una ricca tenda in broccato, è luogo da osservare e da non toccare: la disposizione, nella sua apparente casualità e nel disordine che può alludere a un precedente uso, tende invece, congelata nella posa, a escludere qualsiasi ulteriore intromissione del l 'e lemento u m a n o : lo stesso trittico di Baschenis, proveniente da Casa Agliardi, in cui abb iamo l'associazione alla tavola di figure umane , risulta drast icamente separato in un luogo de l l 'uomo e in un luogo degli s t rumenti , delle cose, cer tamente indifferente a quanto possa avvenire aldifuori della propria sfera; e questo ind ipendentemente da un eventuale atto di contatto fra i due universi, come segnalato nel dipinto di destra dalla mano posata sullo s t rumento poggiato sul tavolo.
Esclusa, o per meglio dire indifferente la presenza de l l ' uomo nel determinarsi e nell 'or-ganizzarsi del piano, la tavola di Baschenis sembra conoscere la sua autentica lettura in una sostanziale au tonomia rispetto a modelli illusionistici o decorativi, negando del pr imo la dipendenza d ' impianto e del secondo l 'approssimazione compositiva.
Il caso di Baschenis risulta comunque , per qualità e sistematicità di temi, cer tamente anomalo, fatta eccezione evidentemente per la t raduzione e l 'elaborazione dei medesimi m o delli a opera di Bartolomeo e Bonaventura Bettera, in un 'eco c o m u n q u e che non esce dai confini bergamaschi; una indagine sulla tavola apparecchiata dalla metà del secolo in poi deve tendere a discriminare quanto il prete bergamasco aveva invece felicemente riassunto nella propria opera. E necessario allora raggruppare in un unico ambi to quei document i che fra metà Seicento e primi Settecento si riferiranno alla cucina e conseguentemente alla mensola attrezzata da cibi, stoviglie e vasellame e assegnare a un secondo raggruppamento l 'indicazione di quelle tavole apparecchiate o in mostra che, con citazioni originali o desunte da un im-
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188 - Evaristo Baschenis, Natura morta, coli. priv.
maginario straniero, costellano la discontinua storia della natura morta italiana fra Seicento e Settecento.
E la cucina conoscerà, per continuità e qualità di esiti, la sua declinazione più consistente nella scuola napoletana dove, a partire dagli esiti firmati di Giovan Battista Recco, attestato da Causa (1972) a una generazione contemporanea a quella di Porpora, il soggetto troverà i suoi documenti originali in Giovan Battista e Giuseppe Ruoppolo e in Giuseppe Recco. D'altra parte proprio con un documento assegnato a Giovan Battista Recco si era conclusa la prim a ricognizione, quella dall'inizio del secolo agli anni Trenta-Quaranta: riprendere dal medesimo autore non vuole sottolineare tanto una discordanza nell 'attribuzione, quanto certamente constatare la profonda differenza fra quel documento , pervaso da una cadenzata e mi-
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189 - Giovan Battista Recco, Interno di cucina, coli. priv.
surata presenza di oggetti sul piano, appoggiati o appesi alla parete, e gli esiti firmati e datati 1653 e 1654 già documenta t i a cui, ulteriore conforto al rag ionamento , può essere aggiunta quella, datata 1653, del Na t iona lmuseum di Stoccolma in cui risulta in piena evidenza, a dispetto di un impianto altrimenti costruito, una vocazione basata sulla perentorietà e sulla violenza del contrasto che il sistema luce /ombra può produrre . A questa appariscenza G. B. Recco accompagna una sapiente modulaz ione dei toni in termedi : se allora la lucentezza e l'iridescenza del pesce pe rmet tono una virtuosa escursione sugli effetti di rifrazione, è altrettanto vero che la ceramica e il metallo dei piatti forniscono ulteriori e lement i per una osservazione complessiva cer tamente m e n o sbrigativa e appariscente di quanto possa sembrare a prima vista.
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190 - Giuseppe Ruoppolo, Natura morta, coli. priv.
La produzione autografa di Giovan Battista permette comunque di individuare, nel m o n d o napoletano, due caratteristiche d ' impianto che ritorneranno costantemente nella produzione della scuola: un punto di vista ravvicinato, in cui cioè il particolare architettonico o del mobile costituisce l 'universo vicino da cui può organizzarsi la fiera dell ' inanimato, e un secondo impianto, in cui il punto di vista abbraccia un angolo significativo dell ' interno architettonico, coinvolgendo nella osservazione il pavimento, il piano e le pareti d'angolo, alludendo a una situazione ambientale fondamentalmente estranea all 'universo precedentemente richiamato.
Se comunque l 'elemento architettonico ordinatore è ancora presente nella visione ravvicinata di Giovan Battista Recco, esso tende a mantenersi costante in Giuseppe Ruoppolo, che
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sigla la natura morta pubblicata in Napoli '64 alla tav. VII (tav. 190) successivamente attribuita da Ferdinando Bologna (1968) al magistero di Giuseppe Recco ma che, a un riscontro ulteriore, sembra indubitabilmente essere ricondotta alla paternità tradizionale.
Il documento a tutti gli effetti risulta interessante, in quanto può essere quasi, dal punto di vista tematico, ponte fra la tavola apparecchiata e il particolare di dispensa: il suo inserimento allora nel filone della cucina dipende dall 'atmosfera di base d 'uso che l'affollamento caotico e incoerente rispetto a qualsiasi cerimonia denuncia.
L'universo ravvicinato e la sua organizzazione a partire da una solida architettura di base può essere illustrata da un ulteriore esempio, sempre monogrammato G.R. ma certamente riferibile questa volta a Giuseppe Recco, di coli, privata romana (tav. 191): il gradino di pietra, che ospita il pesce e il vasellame, risulta oltretutto articolato su due piani, a permettere quasi il moltiplicarsi nella scena di presenze dalla forza e dal taglio comple tamente diversi. Gli esempi segnalati di Giuseppe Recco e G. Ruoppolo pur confortati da una cromia fortemente differenziata e accesa nel contrasto fra freddo e caldo, fra scuro e chiaro, denunciano un'ascendenza immedia tamente riferibile alla severità e all 'austerità del bodegon spagnolo il cui m o n d o è certamente in contatto con Napoli, la cui vocazione cosmopoli ta all ' interno dell'area d'influenza spagnola, vero e proprio universo europeo, nel cuore del Seicento è stata ul t imamente confermata.
Accanto a questa versione più contenuta comunque , l'attività di Giuseppe Recco contempla opere, come la «Cucina» ora alla Gemaldegalerie der Akademie di Vienna in cui l'affollamento e la s o m m a delle citazioni t endono a disperdere una at tenzione altrimenti concentrata sul singolo particolare, sul f rammento: ma la complessità della cultura di Giuseppe Recco è a tutt'oggi scarsamente inquadrabile, avendo il corpus dell 'autore una escursione tematica e stilistica anomali rispetto al consueto parametro con cui viene giudicato, a lmeno nell'area italiana, un generista.
Pur nelle incostanze e nella disparità delle soluzioni temat iche e stilistiche affrontate, Giuseppe Recco risulta comunque a tutti gli effetti un interprete fedele di una concezione dell 'apparato dei cibi ancora riconducibile a una architettura d ' impianto individuata, una volta abbassata l 'appariscenza e l'effetto che alcune soluzioni cromatiche possono suggerire: è invece con Giuseppe e Giovan Battista Ruoppolo che l 'architettura e l ' impianto di base su cui poggia l ' inanimato, perdono le loro valenze figurali per lasciare libero sfogo all 'emergere di una organizzazione di fantasia, in flagrante contrasto con una base e un alzato ormai puri e semplici pro-forma. Possono essere efficacemente messe a confronto le due nature morte , l 'una di Giovan Battista pubblicata in Milano, 1977 alla fig. 92, l'altra in Napoli 1964 al n. 92 di Giuseppe Ruoppolo per avere conferma di un avvenuto r ibal tamento fra il fondo e la figura, o meglio per la preponderanza di quest 'ul t ima che diventa a tutti gli effetti, abbassando quindi un criterio di verosimiglianza, il protagonista della tela.
Alto e basso, secondo e pr imo piano vengono significativamente messi in crisi a favore di una lettura «continua» dell ' immagine, in cui cioè l 'emergenza plastica della figura determina la lettura complessiva dell 'assieme.
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191 - Giuseppe Rocco, Natura morta, coli. priv.
La lezione dei due Ruoppolo sembra allora essere quella della citazione di un «sostrato», una disposizione accettata e conosciuta, quella del piano su cui organizzare una semplice o comunque distinta teoria di contenitori e di ortaggi o frutta, e dell 'intervenire di un nuovo ordine compositivo, più attento alla presenza che alla legittimità prospettica. Vecchio e nuovo, impianto prospettico e libera associazione fra forma e colore, fino alle fantastiche architetture di fiori e frutta, sono allora le indicazioni più salienti, la originale risposta che il m o n d o napoletano ha dato del tema dell ' inanimato disposto, met tendo in evidenza l'aspetto legato al décor egualmente nei confronti di quello della verosimiglianza, facendo combaciare i due estremi.
L'investigazione di questi angoli di cucina, in cui la preoccupazione per l 'apparecchio e il suo rapporto con l 'ambiente può variare dal puro e semplice contrapporsi di base e alzato
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come nel caso della natura morta di Antonio Maria Vassallo ora alla Galleria Pallacini di Roma in cui sembrano oltretutto fondersi con felice invenzione temi cari all'analiticità dell ' imbandigione nordica (la parte sinistra del tavolo dominata dalla cadenzata scansione dei cibi e delle suppellettili) e temi più legati al mondo della cacciagione e del trofeo appeso, come nella coppia di volatili, per arrivare al quarto di animale che occupa la zona destra del tavolo; il cui andamento figurale ellittico costituisce una ricorrente e felice soluzione. Le cucine che allora possono essere segnalate, si può citare quella sempre del Vassallo della Krcss Collection di New York, sembrano cercare una mediazione fra la vera e propria «Macelleria» già evidenziata precedentemente con il suo riferimento alla figura umana, in cui la scala dimensionale risulta ridotta per la presenza antagonista e codificatoria de l l 'uomo, e una più au tonoma lettura dell ' immaginario dei cibi affrontati nella singolarità e nel l 'autonomia del loro disporsi nella doppia responsabilità dell 'uso e della mostra.
L comunque , in m o d o opposto dal punto di vista dell ' impaginazione come della stessa qualità pittorica, con Felice Boselli e Bartolomeo Bimbi che il tema della cucina e del l ' imbandigione di cibi può in qualche m o d o trovare il suo punto culmine fra Seicento e Settecento; l 'accostamento allora diventa legittimo proprio perchè, nelle evidenti difformità degli esiti, ci troviamo di fronte a due , dei possibili, casi di continuità e di interpretazione della tradizione nell 'apparecchio dell ' inanimato che il m o n d o della natura morta italiana conosce. Erede di una tradizione analitica, che ha posto visione e catalogazione, nominaz ione enciclopedica come nuovo sperimentale model lo conoscitivo del m o n d o , l ' impianto di Bimbi (tav. 192) risponde altresì a un desiderio scenografico e coreografico part icolarmente attuale e puntuale. È allora l 'attenzione all ' immagine dell 'universo, alla sua configurazione, e nello stesso t empo alla sua possibile distinzione e individuazione a rendere le composizioni una sorta di dizionario delle forme viventi orchestrate secondo un apparecchio monumenta l e . È allora il trofeo o il trionfo, l 'architettura in ogni caso effimera ma cer tamente legata alla cerimonia e all 'apparato di una società particolarmente sensibile a l l 'addobbo. In questa adesione all 'appariscenza e alla monumenta l i tà Bimbi comunque esplora un originale aspetto, quello della varietà e della possibile calligrafìa del singolo soggetto componen te l ' insieme, alla ricerca della figura del singolo frutto più che alla descrizione della sua impressione. Lo stesso addobbo circostante, l 'architettura su cui il trionfo è disposto, aumen ta l ' isolamento e la distanza di una imbandigione la cui mole sembra ulteriormente ingigantita dal variare della scena, angolo architettonico all 'aperto o al chiuso. L'affollarsi dei frutti del Bimbi richiama da una parte una organizzazione vicina al naturale, presentando, come nel l 'esempio della Galleria Palatina illustrato in New York 1983 al n. 38, tralci di cedri e limoni in u n o sviluppo complessivo che sembra non conoscere, se non per la presenza della medaglia por ta -numero , intervento u m a n o , o può invece modulare una disposizione di contenitori da cui emergono i diversi trionfi, come negli esempi sempre della Galleria Palatina che h a n n o costituito, grazie all ' indagine di Giuseppe De Logu, illustrati ai nn. 47, 48, 49 dell 'edizione del 1962, la pr ima attendibile ricostruzione dell'attività del maestro.
In essa comunque sembra evidente quella particolare at tenzione alla investigazione del naturale di carattere classificatorio che è stato at teggiamento caratteristico del gabinet to scien-
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192 - Bartolomeo Bimbi, Natura morta. Palazzo Pitti, Firenze.
tifico e culturale fiorentino: ci si trova di fronte allora alla prosecuzione di quella via maestra all 'indagine che aveva trovato cinquanta anni prima i protagonisti più efficaci in Jacopo Li-gozzi e nello stesso soggiorno fiorentino di Giovanna Garzoni . Indagine scientifica, o comunque analitica, sposata alla scenografìa magniloquente in cui l'esattezza delle figure risulta in ogni caso il passaporto essenziale per la legittimità della rappresentazione: queste due lingue, apparentemente in contraddizione fra loro, indulgendo la prima alla sommarietà e all'effetto cromatico complessivo, spingendo la seconda l'indagine alla miniaturizzazione, all'osservazione ravvicinata del l 'entomologo, risultano invece nel Bimbi felicemente declinate a segnalare la regionalità di una tradizione d'investigazione e la sua possibile attualizzazione con il gusto della seconda metà del secolo.
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193 - Felice Boselli, Macelleria, Pinacoteca Comunale , Faenza
Se il mondo del Bimbi ha radici culturali così distanti, anche il secondo caso che occorre segnalare, in cui Paulicità e la scenografìa pr ima riscontrate vengono invece spesso trasformate nell ' interno della cucina, quello di Felice Boselli (tav. 193), ha radici altrettanto profonde e ramificate. Probabi lmente con il piacentino giunge a comp imen to una storia del soggetto di genere legato alla bottega, all 'esposizione in posa e colta in una disposizione d 'uso del cibo la cui congiuntura da Annibale Carracci, Bar tolomeo Passarotti e Vincenzo Campi per restare all'area italiana, deve essere ricollegata a quella di Aertsen, Beuckelaer in stretta relazione almeno l 'ultimo autore citato, trova nella seconda metà del XVI secolo la sua stabile affermazione fra segnalazione di un proscenio ingombro, secondo e eventua lmente terzo piano variamente posto in relazione con il pr imo. Ma su ques to aspetto ci s iamo già soffermati prece-
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dentemente . A questa soluzione, per così dire ristretta o comunque ravvicinata, si deve aggiungere quella del «Mercato» o dell ' interno di cucina con la presenza di una figura umana ridimensionata rispetto al contesto architettonico e oggettuale.
Anche se tangente a questo genere il «Bue squartato» di Rembrandt del Louvre, con la sommessa e reticente presenza umana che emerge dalla quinta laterale, costituisce uno dei documenti più alti e incisivi, nell 'isolante e modulata figura principale, capace di catturare e riverberare la luce sull 'intero ambiente , nella capacità di porsi come equivalente, come posizione e come presenza, a l l 'uomo. Un analogo tema era stato già affrontato da Joachim Beuc-kelaert nel «Maiale squartato» del 1563 ora al Wallraf-Richartz-Museum di Colonia o, tre anni più tardi, da Marten van Cleef con il «Bue squarciato» del Kunsthistorisches Museum di Vienna, veri e propri capostipiti di una rappresentazione della macelleria o dell ' interno della cucina che in area fiamminga sarà costantemente replicata nel XVII secolo. Ma se negli esempi citati il giganteggiare del corpo dell 'animale o la stessa posizione centrale del quadro di Cleef possono essere considerati antecedenti significativi all ' impianto di Rembrandt , la soluzione cromatica di quest 'u l t imo ne fa un unicum indiscutibile.
Dramma, opulenza, stagionalità, soggetto di genere sono via via le giustificazioni iconologiche del soggetto interpretato da Boselli, come nell 'esemplare della Collezione Zauli Naldi di Faenza, in una felice sintesi luministica fra e lemento inanimato e soggetto u m a n o posto all 'estremo della composizione. Sono soprattutto la consistenza e la tattilità della materia, la resa diversa che le parti squarciate o sezionate dell 'animale possono produrre, a costituire il banco di prova della capacità mimetica del pittore. Ancora una volta un caso di enciclopedia, ma le cui voci sono almanaccate all ' interno della figura, nella sua cangiante capacità di esporre e segnalare all 'attenzione dell 'osservatore l 'ampiezza e la complessità che un soggetto sostanzialmente affine può produrre quando l'investigazione superi la superfìcie delle cose per intervenire nel profondo, sezionando e rendendo evidenti ciò che la superfìcie, la pelle può nascondere.
L' impianto di Boselli è comunque costantemente sovrabbondante: l 'architettura scelta come impianto per l 'arredo delle carni o della selvaggina viene invasa nelle sue pareti prospettiche, interessando i lati come lo sfondo o lo stesso cielo della scena, proponendo una lettura del tavolo o del piano della cucina come il principale piano accanto a supplementari luoghi di sostegno per i cibi, costi tuendo in questo modo il pr imo limite che abbiamo posto alla nostra inchiesta sullo sviluppo dell 'apparato nella seconda metà del Seicento in Italia.
La seconda soluzione d' impaginazione, in cui l 'elemento orizzontale di base costituisce l 'andamento fondamentale, comunque normativo rispetto a eventuali eccezioni, legata oltretutto al l 'abbandono della cucina come tema dominante dell ' imbandigione, costringe a un limitato regresso cronologico per trovare «Spezieria» di Paolo Antonio Barbieri del 1637 non tanto il capostipite del tema quanto la presenza di un impianto in area bolognese particolarmente significativo nella ordinata e cadenzata presenza dei contenitori di vetro sulla cassettiera, la più discontinua ma altrettanto cadenzata disposizione orizzontale degli oggetti sul proscenio e l 'integrazione dei due ordini nella figura umana, capace di partecipare dell 'andamento alto come di quello basso del tavolo.
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La figura del fratello del Guercino (Arcangeli, Pallucchini, Riccomini, De Logu) e L'attribuzione al Barbieri di un corpus più o meno consistente di nature morte , pure testimoniate dalle fonti, sono state ampiamente dibattute senza che a distanza di t r en tann i si possa avere un quadro preciso del problema. Seguendo allora l'ipotesi più sistematica di De Logu, è possibile tracciare un percorso d ' impianto dalla semplicità e dalla cadenza ordinata della «Spe-zieria», al disordine contenuto della «Giardiniera» ora alla Pinacoteca civica di Cento, in cui La divisione fra primo e secondo piano viene risolta in un cont inuo frammentato da ripiani e altezze diverse per giungere, ult imo punto di un percorso, alla «Natura morta» della Galleria Estense di Modena illustrata da De Logu alla tav. 28.
Il documento risulta, a tutti gli effetti, di particolare importanza nella costruzione avviata in quanto trova una eco consonante nella versione del tavolo pronk che la natura morta conoscerà nella contemporanei tà in Fiandra e, successivamente in Francia con Meiffren Conte la cui affinità con il dipinto in esame è stata abbondan temen te richiamata. Ind ipendentemente da un ragionamento attributivo, l'interesse accordato alla tela di Modena consiste nella simmetrica disposizione di elementi lussuosi e raffinati (il piatto con i biscotti e la brocca metallici) e di manufatti e cibi «poveri» (la fiasca impagliata e il vetro con le fette emergenti) . Accettando l'origine «indigena» del dipinto, ci t roviamo di fronte alla reintegrazione di un immaginario e della sua disposizione certamente non radicate in Italia: ma che si tratti di una interpretazione di temi estranei può essere rilevato una volta si osservi la disposizione cadenzata degli oggetti, il controllo della loro au tonomia figurale che, a dispetto deiraffollamento, pure lascia al singolo e lemento la sua sfera au tonoma. Una disposizione dilatata, esplosa: dove l 'esempio nordico predice la sovrapposizione il documen to attribuito a Barbieri tende alla dilatazione, alla presa di possesso da parte della singola figura di un luogo confacente al suo sviluppo, alla sua mostra.
Ma una citazione internazionale, nel l 'ambito del tavolo apparecchiato italiano, diventa particolarmente stringente per l 'opera di Andrea Benedetti , attivo alla metà del secolo XVII, di cui sono documentat i un a lunnato presso Jan Davidsz. de H e e m nel 1638 e la sua iscrizione alla Gilda di Anversa tre anni dopo. E in effetti l ' interpretazione fornita dal maestro (si osservino la «Natura morta» ora al Museo di Budapest o quella firmata illustrata al n. 61 della Mostra di Cristoforo Munari , 1964) ricalca, ampl iando l ' impianto architettonico alla ricerca di una ulteriore ambientazione e distanziando l ' imbandigione, la particolare versione dell'«Avanzo del pasto» che de H e e m stava formulando in quegli anni, nella sintesi fra mondo olandese e m o n d o fiammingo.
Se l 'universo di Benedetti risente in m o d o determinante dell ' influenza dei modelli d ' impaginazione e dell ' immaginario stesso della tavola di J. Davidsz. de H e e m , non si tratta certamente dell 'unico caso di d ipendenza o del riflesso che le scuole d'Oltralpe, in particolar m o do di quella spagnola con la significativa forbice costituita dalla Lombardia e da Napoli , quella fiamminga, probabi lmente la più antica e radicata presenza nei medes imi territori già accennati e a Roma, e infine quella francese, cer tamente più episodica delle precedenti m a altrettanto importante , a partire dal documen to di Barbieri cui abb iamo già fatto riferimento.
E allora la situazione italiana alla metà del secolo un territorio part icolarmente variato e ricettivo rispetto ai modelli stranieri, soprattutto per la limitata presenza di una scuola e di
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una tradizione di bottega, a eccezione probabilmente della situazione napoletana, in cui peraltro le influenze verso l 'esterno risultano certamente decisive o comunque accolte con l'attenzione alla novità, nella particolare accezione della scuola come educazione alla moda, con la presenza contrastante e contemporanea di diverse «letture» della natura morta.
Il tavolo arredato sembra allora essere il luogo privilegiato in cui si possono incrociare e sommare esperienze e immaginari diversi: affrontando il suo problema non tanto come storia di una qualità pittorica, quanto come storia dei modelli d ' impaginazione, il riferimento al m o n d o italiano del m o m e n t o dovrà essere necessariamente sbrigativo.
È questo il caso dell 'opera di Francesco Fieravino detto il Maltese che presenta una personale interpretazione del tema dell 'addobbo lussuoso già riscontrato nella citata opera di Benedetti, o che si troverà in alcune opere di Giuseppe Recco a Napoli, o in Francia nella particolare e estesa lettura che il tema conoscerà, con Meiffren Conte e con Desportes, i loro interpreti più celebrati.
Il m o n d o del Maltese sembra comunque interpretare con sicurezza il tema dell 'apparato sul tavolo con una impaginazione particolarmente sicura e distanziata, in cui cioè la sovrabbondanza degli addobbi che pure contamina le tovaglie e i tappeti preziosi, non incide sull ' impianto ambientale e sulla sua leggibilità.
Con esiti figuralmente più complessi, in cui cioè al l 'andamento orizzontale viene associato un andamento verticale, legato alla sovrapposizione dei piani e all 'indicazione di un elemento ambientale lontano come lo sfondo, può essere inquadrata l'attività di Giovanni Paolo Spadino, attivo in Toscana alla fine del XVII e a Roma agli albori del secolo successivo. Com e il Maltese prediligeva un impianto di base distanziante, evidenziato dall'alto bordo del piano su cui era disposta l ' imbandigione, così Spadino opera all 'opposto una invasione e un avvicinamento che tende a annullare, o comunque a abbassare la soglia più vicina, cogliendo una costruzione che da ravvicinata e in aggetto parte, come nel caso della Natura morta della Coli. Nigro di Genova datata 1703, dal foglio di carta e dal piatto di frutta posti simmetricamente ai lati della composizione. Due comunque sembrano essere le «maniere» delle nature morte riferite dalla critica al maestro: tanto che Ferdinando Bologna ha suggerito di distinguere, su basi documentar ie , un Giovanni Paolo capace di una interpretazione contenuta dell ' imbandigione, e un Bartolomeo, riscontrabile a partire dalle quattro nature morte (nn. 291, 292, 299, 300) della Galleria Spada di Roma, più incline a una interpretazione accesa e barocca dell ' inanimato. Ciò che comunque risulta significativo per il nostro discorso è la presenza nella contemporaneità, delle due letture dell ' imbandigione che abbiamo cercato di individuare affrontando la maturi tà del Seicento e la soglia del Settecento; una architettura capace di contenere l ' impianto dell 'arredo, risultando determinatore e contenitore solidamente inquadrato, e una sparizione dell ' impianto architettonico a favore di una aggregazione fantastica, o comunque libera dell ' imbandigione stessa, in cui le figure e le cromie contrastanti risultano gli elementi percettivamente prevalenti.
Chi comunque , a cavallo fra i due secoli, interpreta in m o d o sintetico le due maniere per robustezza d ' impianto è Cristoforo Munari (tav. 194), la cui figura è stata stilisticamente e cronologicamente definita da Augusta Ghidiglìa Quintavalle nell 'esplorazione e nel catalogo del 1964.
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194 - Critoforo Munari, Natura morta. Galleria degli Uffizi, Firenze.
Se precedentemente si era accennato al l ' importanza degli influssi che un immaginar io nordico poteva avere avuto per la costituzione di una cultura del l ' inanimato in Italia, il caso di Munari è quello di una capacità mimetica e riassuntiva della tradizione di un intero secolo di riflessioni sulla natura morta.
Alla varietà di impianto - si passa infatti da quello distante a quello ravvicinato con l 'estrema padronanza di una articolata invasione e significazione dello spazio - si deve aggiungere una altrettanto articolata e divaricante lettura dell 'oggetto proposto, nella pienezza e fisica presenza dello s t rumento musicale, alla sommaria descrizione del vetro trasparente.
Al t ramonto , a lmeno in Italia, di una sensibilità pittorica capace di definire l 'oggetto nella sua pienezza plastica, si deve allora segnalare il caso di un r innovamento in Munar i di una tradizione impermeabile alle temperie culturali, all 'istanza di un nuovo sentire l ' immagine
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195 - Luis Meléndez, Natura morta, M u s e u m of Fine Arts, Boston.
che si viene affermando. E certamente la duttilità con cui Munari rende la materia indica una fase matura, se non di esaurimento del genere. È la varietà a cui il-singolo oggetto viene sottoposto nella rappresentazione, contemporaneamente la sua posizione plastica nell 'apparato, a indicare nel Maestro il senso di una continuità della tradizione.
La sensibilità di Munari è quella della verità e della tattilità dell 'oggetto, colto in una luce solare meridiana: a questa occorre aggiungere, nella settorialità del tema che stiamo trattando, altre radici e altri esiti: ecco allora un Ceruti, un L. Meléndez, un T o m m a s o Realfonso e soprattutto un Levoli e un Carlo Magini, vera e propria figura-sintesi, capace di mettere assieme i brani e gli angoli fino a ora individuabili alle soglie dell 'Ottocento.
T o m m a s o Realfonso e L. Meléndez (tav. 195) sembrano ripercorrere con sensibilità diverse un sent imento di «richiamo all'ordine» dopo le intemperanze e l 'appariscenza del tavo-
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10 barocco, ripescando quasi alle origini della scuola napoletana le fonti della loro ispirazione, pur realizzando soluzioni d ' impianto fortemente antitetiche. Realfonso infatti sembra accentuare la distanza e l ' importanza del tavolo, segnalando oltretutto, come negli esempi datati rispettivamente 1731 e 1740, commentat i il primo da Giovanni Testori (1958 pp. 63 sgg.) e il secondo pubblicato in Bergamo 1968 alla tav. 56, la presenza del cassetto aperto da cui fuoriesce 11 tovagliolo; anche laddove, come nell 'esemplare firmato e datato 1737 della Fondazione Longhi la lettura risulta maggiormente ravvicinata, l ' imbandito risulta figuralmente ridotto, a dispetto della sovrapposizione e quindi della segnalazione della profondità. A esiti opposti si diceva giunge Luis Meléndez che sembra declinare in m o d o del tutto originale la forza della tradizione spagnola legata alla fisicità dell 'oggetto con la complessità dell ' impianto del tavolo napoletano. Ardi tamente asimmetrico nella disposizione, il tavolo del Museum of Fine Arts di Boston conosce una scansione dei valori di profondità del piano davvero singolare.
La sicurezza della resa plastica delle figure e lo stesso gioco impaginativo particolarmente variato sono le due lezioni, o le due tradizioni riassunte nella figura, decisamente eclettica, di Meléndez, a indicare probabi lmente la vitalità, o la rinascita d'interesse alla metà del secolo nei confronti della maniera secentesca di indagare e rappresentare l ' inanimato.
Ma questo recupero della «realtà» o della verità oggettuale, più volte sottolineata in sede critica (R. Longhi, G. De Logu, G. Testori, F. Bologna) si unisce a una più libera e amplificata disposizione sul piano. Meléndez ne propone una lettura ingigantita, dove l 'oggetto, pur letto nella difformità della materia differente, risulta figura plastica ordinatrice e normativa dello spazio plastico.
Un posto a parte sembra avere, oltretutto per la difficoltà di ricostruirne a tutt 'oggi un corpus attendibile di nature morte , l 'avventura di generista di G iacomo Ceruti (tav. 196), tradizionalmente attestata sulle due nature morte della Pinacoteca di Brera di Milano e che ha trovato la sua recente sistemazione nella monografia curata da Mina Gregori. A tutt 'oggi comunque i temi delle nature morte attribuite a Ceruti risultano nel complesso eterogenei, quasi a giustificare il nome di «miscellanee» dato dal Bossi nel 1806; ne può essere un efficace esempio il dipinto attribuito al Ceruti da Gregori (1983), p recedentemente indicato come esempio iniziale di Felice Boselli.
In questo esito, come d'altra parte nel «tavolo» di Brera (cat. n. 357) Ceruti sembra liberamente interpretare i soggetti che per tutta la storia del genere si erano affermati come vincenti. Ma se la cucina appare maggiormente aderente a questa tradizione, realizzando com u n q u e un taglio diagonale del piano parallelo al m u r o di fondo colto nell 'insolita figura dell 'angolo, quasi a indicare la complessità di una architettura altrettanto variata del l ' imbandigione, il tavolo con i crostacei, il pane, le ampolle e le bottiglie sembra ricercare un ' a tmosfera decisamente settecentesca, sintonica con un nuovo m o d o di interpretare la presenza dell 'oggetto nello spazio: non più l 'opulenza, la net tezza e l ' invadenza dell 'arredo, quan to una più fragile, quasi casuale figura sul piano, disposta cer tamente secondo una educazione affermata e consolidata, m a capace di predire l ' implosione più che l 'ostentazione di una geometria dell 'oggetto normativa dello spazio. Il vuoto della parete di fondo e della tavola sembra allora alludere a una filosofia della rappresentazione che sarà quella di Chardin e della problematica moderna .
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196 - G iacomo Ceruti, Interno di cucina, coli. priv.
Figura complessiva però, con una sorta di provinciale legame alla tradizione e di impermeabilità per le stagioni della moda, può essere considerata a tutti gli effetti quella di Carlo Magini (tav. 197) e con lui, a indicare la non episodicità di una linea,-il magistero di Levoli, il cui corpus ancora incerto non permette una più estesa e documentata analisi.
Nell ' isolamento di Fano comunque , Magini sembra sintetizzare i due temi radicali che abbiamo discusso in queste pagine, quello della cucina e quello della tavola apparecchiata a partire da un impianto ricorrente: un fondo ravvicinato e un tavolo debordante ai lati il cui bordo in proscenio risulta sostanzialmente orizzontale, rilevato alla base di quel tanto che mette in evidenza il tovagliolo o la lettera, come nell 'esemplare esposto alla Mostra di Cristoforo Munari al n. 98. Una luce meridiana evidenzia l'opacità e la lucentezza delle superfici, proiettando sul tavolo e sul fondo nette ombre portate: proprio quest 'ul t ima soluzione avvicina l'intera composizione in una decantata e statica disposizione.
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197 - Carlo Magini, Natura morta, coli. priv.
È questo singolare connubio fra una disposizione severa orchestrata sui recipienti verticali in secondo piano e i cibi e i piatti in pr imo piano, la loro spoglia e dimessa lettura (una sorta di collezione del quot idiano, dell 'umile) capace c o m u n q u e di assicurare al singolo oggetto, al singolo episodio presente una sua au tonoma esposizione, e infine un impianto prospettico che riedita, senza alcuna forzatura, un punto di vista dall 'alto relegando al limite basso del campo lo svolgersi orizzontale del piano d'appoggio.
Il tavolo di Magini, sia che risulti amman ta to dalla tovaglia sia che presenti la quotidia-neità del legno, è allora l 'occasione per una collezione di figure complesse spesso ricorrenti nella loro singolarità, vere e proprie sigle di un immaginar io altrimenti anon imo , sostanzialmente quotidiano e dimesso, m a con temporaneamente indicatrici di una ricerca plastica incline più alla riflessione sulla legittimità della forma del singolo e lemento , che alla illustrazione di un gusto o di un costume.
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La cerimonia della tavola apparecchiata o del tavolo di servizio, che abbiamo visto essere alla base dell'origine del tema, sembra perdere la sua vitalità per accordare a un'altra cerimonia, quella della disposizione «in posa» dell ' inanimato sul tavolo da studio del pittore: si vuole in altri termini dire che una «situazione d'uso» è ancora presente nell ' immaginario del pittore, ma risulta molla essenziale, proprio per la lingua «chiusa» che viene predetta, la presenza plastica e quindi la fisionomia complessiva come del singolo e lemento: il tavolo da pranzo o da cucina in Magini t endono progressivamente al l 'abbandono della circostanza imitativa per un gioco di volumi e di cromie nel complesso estraneo, puro.
A U L I C O E U M I L E Quello di una interpretazione «aulica» del tavolo, è tema che trova in Francia, a partire
dalla indagine lontana di un Sébastien Stoskopff la sua radice immediata. Si tratta però di una ben diversa opulenza quella che si afferma dalla metà del secolo: se il prezioso era nell'artista alsaziano un e lemento complementare al povero, se l 'opulenza era contrapposta al digiuno, il cibo sofisticato il necessario contraltare del cibo comune , oltretutto spesso connotato di valori eucaristici, l ' imbandigione di Meiffren Conte ha il carattere della celebrazione e dell'affermazione dell 'opulenza.
La versione che del tavolo opulento viene data in Francia, pur ricevendo un impulso significativo dall 'alunnato di artisti stranieri residenti a Parigi o che la raggiungono episodicamente (Willem Kalf è presente nella capitale negli anni quaranta) o dallo stesso peregrinare in Italia alla ricerca delle fonti classiche (si è già richiamata La relazione degli esiti di un Barbieri, del Maltese, della stessa scuola napoletana di Giuseppe Recco con i contemporanei esiti d'oltralpe) pure conosce una sua au tonoma vitalità, a partire probabilmente dal diverso ruolo che la produzione pittorica conosce alle dipendenze della corte.
Dalla metà del secolo infatti è la Corona a costituire, in uno sforzo più complessivo di «capitalismo di stato» e di accentramento nelle mani del Sovrano delle leve decisionali dello sviluppo economico e culturale, l 'elemento trainante. Si viene affermando in Francia allora un gusto ufficiale, che viene guidato da un vertice desideroso di consolidare e di estendere il proprio controllo fin nelle pieghe certamente secondarie della moda e del collezionista.
Ma si tratta evidentemente di un «artista di corte» certamente.diverso dagli esempi «rinascimentali» che da Durer a Tiziano, pur nelle difficoltà degli esordi di un ruolo, avevano perentor iamente affermato: non è l'artista allora che cerca di imporre un proprio m o d o di vedere ma al contrario è la Corte, o l 'Accademia, vero e proprio braccio secolare delle direttive reali, a costituire il commit tente ma anche l 'elemento capace di determinare il gusto e le caratteristiche del prodotto.
Funzione decorativa, anche applicata nell 'architettura d'interni, valore celebrativo di un «simbolo di stato» acquisito, ostensione e moltiplicazione dello stile e di un gusto da indicare come model lo: la tavola di un Desportes, di un Herny Horace de La Porte o di un Meiffren Conte sembra abbandonare la castigata rigidità dell ' impianto orizzontale per una costruzione
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