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1 Francesca de Pinto, Giacomo Polignano, Biagio Salvemini Carte dei moderni, repertori degli antichi. Per una cartografia dell’insediamento pugliese fra antico regime e monarchia amministrativa 1 1. Repertori e cartografie nell’età dell’amministrazione All’uscita dai decenni a cavallo fra Sette e Ottocento, caratterizzati dall’attacco alla dimensione giurisdizionale in vario modo intrinseca ai luoghi abitati di antico regime e dalla ‘furia classificatoria’ che investe ogni angolo della società, anche l’insediamento del Regno di Napoli sembra giungere ad un livello di definizione finalmente pieno. Lo spazio è scandito in circoscrizioni, ciascuna dotata di confini lineari ed inserita in circoscrizioni di livello superiore. La posizione gerarchica di un centro è riferita all’ampiezza del territorio sul quale si esercitano funzioni pubbliche facenti capo allo Stato ed alla collocazione, nell’ambito della sua circoscrizione comunale, degli uffici e del personale corrispondente. A ciascun insediamento viene attribuita una popolazione ufficiale «residente» 2 . Lo sguardo dei contemporanei può così esercitarsi nella produzione di immagini sintetiche, fondate su classificazioni univoche e riferite a territori sovralocali di ogni taglia. Vengono messi in forma dati incontrovertibili che accompagnano, stimolano, danno fondamento fattuale ai giudizi sulla qualità degli spazi umanizzati, sulla loro idoneità a produrre pubblica felicità, sull’azione dei governi per la promozione del buon territorio 3 . Si fa, fra l’altro, più abbondante la cartografia di scala piccola a fondamento tendenzialmente geometrico, che può offrire tracce e spunti robusti ai mille tematismi e ritagli territoriali della cartografia degli storici di oggi. Nella cartografia che proponiamo in appendice, e che qui corrediamo di appunti su fonti utilizzate, modi di elaborazione e possibili esiti interpretativi, il ritaglio all’interno del quale abbiamo prodotto raffigurazioni dei fenomeni insediativi corrisponde all’attuale regione Puglia, che racchiude, con esclusioni e inclusioni marginali, tre delle province del Regno di Napoli del secondo periodo borbonico: Terra di Bari, Capitanata e Terra d’Otranto. Le prime tavole utilizzano dati contenuti in un prodotto tipico del nuovo sguardo amministrativo, l’Atlante corografico, storico e statistico del Regno delle Due Sicilie del brindisino Benedetto Marzolla (1801-1858), opera che vede la luce a Napoli nel 1832 presso la Reale Litografia Militare (seconda edizione nel 1837, con l’aggiunta delle Delegazioni di Pontecorvo e Benevento). Rappresentazione cartografica e «narrazione geografica»: l’atlante regionale del Marzolla Trasferitosi a Napoli fin da ragazzo per compiervi gli studi superiori (sotto la tutela del facoltoso zio materno Giuseppe They), entrato in contatto, all’età di vent’anni, con il prestigioso Officio Topografico (avendo conquistato la stima del direttore Ferdinando Visconti) e, nel 1827, assorbito all’interno di esso come disegnatore di terza classe, Benedetto Marzolla avvia, con l’Atlante del regno, un percorso professionale «che lo port[a], nell’arco di un trentennio, 1 Questo scritto propone alcuni risultati di un’indagine di lunga lena sull’insediamento del Regno di Napoli fra Quattrocento e Ottocento, in corso presso il Laboratorio di Storia Moderna del Dipartimento di Scienze Storiche e Sociali dell’Università di Bari. Sul progetto si veda M. Caprioli, B. Salvemini, E. Tarantino, L’insediamento meridionale e la sua rappresentazione cartografica. Temi e prospettive di un atlante storico in costruzione, in «Bollettino dell’A. I. C.», 2005, 123-4, pp. 355-67 e B. Salvemini, Atlante Storico dell’Insediamento Meridionale (secoli XV-XX), in Lo spazio politico locale in età medievale, moderna e contemporanea, a cura di R. Bordone, P. Guglielmotti, S. Lombardini, A. Torre, Atti del convegno internazionale di studi: Alessandria 26-7 novembre 2004, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007. Alla elaborazione cartografica ha collaborato l’architetto Aldo Creanza. 2 Si veda per tutti A. Spagnoletti, Territorio e amministrazione nel Regno di Napoli (1806-1816), in «Meridiana», 1990, n. 9, pp. 79- 101. 3 Sul nesso conoscenza – gestione del territorio cfr. B. Salvemini, Luoghi di antico regime. La costruzione dello spazio rurale nella storiografia francese, in «Storica», 1997, n. 9.

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Francesca de Pinto, Giacomo Polignano, Biagio Salvemini

Carte dei moderni, repertori degli antichi. Per una cartografia dell’insediamento pugliese fra antico regime e monarchia amministrativa1 1. Repertori e cartografie nell’età dell’amministrazione

All’uscita dai decenni a cavallo fra Sette e Ottocento, caratterizzati dall’attacco alla dimensione giurisdizionale in vario modo intrinseca ai luoghi abitati di antico regime e dalla ‘furia classificatoria’ che investe ogni angolo della società, anche l’insediamento del Regno di Napoli sembra giungere ad un livello di definizione finalmente pieno. Lo spazio è scandito in circoscrizioni, ciascuna dotata di confini lineari ed inserita in circoscrizioni di livello superiore. La posizione gerarchica di un centro è riferita all’ampiezza del territorio sul quale si esercitano funzioni pubbliche facenti capo allo Stato ed alla collocazione, nell’ambito della sua circoscrizione comunale, degli uffici e del personale corrispondente. A ciascun insediamento viene attribuita una popolazione ufficiale «residente»2. Lo sguardo dei contemporanei può così esercitarsi nella produzione di immagini sintetiche, fondate su classificazioni univoche e riferite a territori sovralocali di ogni taglia. Vengono messi in forma dati incontrovertibili che accompagnano, stimolano, danno fondamento fattuale ai giudizi sulla qualità degli spazi umanizzati, sulla loro idoneità a produrre pubblica felicità, sull’azione dei governi per la promozione del buon territorio3. Si fa, fra l’altro, più abbondante la cartografia di scala piccola a fondamento tendenzialmente geometrico, che può offrire tracce e spunti robusti ai mille tematismi e ritagli territoriali della cartografia degli storici di oggi.

Nella cartografia che proponiamo in appendice, e che qui corrediamo di appunti su fonti utilizzate, modi di elaborazione e possibili esiti interpretativi, il ritaglio all’interno del quale abbiamo prodotto raffigurazioni dei fenomeni insediativi corrisponde all’attuale regione Puglia, che racchiude, con esclusioni e inclusioni marginali, tre delle province del Regno di Napoli del secondo periodo borbonico: Terra di Bari, Capitanata e Terra d’Otranto. Le prime tavole utilizzano dati contenuti in un prodotto tipico del nuovo sguardo amministrativo, l’Atlante corografico, storico e statistico del Regno delle Due Sicilie del brindisino Benedetto Marzolla (1801-1858), opera che vede la luce a Napoli nel 1832 presso la Reale Litografia Militare (seconda edizione nel 1837, con l’aggiunta delle Delegazioni di Pontecorvo e Benevento). Rappresentazione cartografica e «narrazione geografica»: l’atlante regionale del Marzolla

Trasferitosi a Napoli fin da ragazzo per compiervi gli studi superiori (sotto la tutela del facoltoso zio materno Giuseppe They), entrato in contatto, all’età di vent’anni, con il prestigioso Officio Topografico (avendo conquistato la stima del direttore Ferdinando Visconti) e, nel 1827, assorbito all’interno di esso come disegnatore di terza classe, Benedetto Marzolla avvia, con l’Atlante del regno, un percorso professionale «che lo port[a], nell’arco di un trentennio,

1 Questo scritto propone alcuni risultati di un’indagine di lunga lena sull’insediamento del Regno di Napoli fra Quattrocento e Ottocento, in corso presso il Laboratorio di Storia Moderna del Dipartimento di Scienze Storiche e Sociali dell’Università di Bari. Sul progetto si veda M. Caprioli, B. Salvemini, E. Tarantino, L’insediamento meridionale e la sua rappresentazione cartografica. Temi e prospettive di un atlante storico in costruzione, in «Bollettino dell’A. I. C.», 2005, 123-4, pp. 355-67 e B. Salvemini, Atlante Storico dell’Insediamento Meridionale (secoli XV-XX), in Lo spazio politico locale in età medievale, moderna e contemporanea, a cura di R. Bordone, P. Guglielmotti, S. Lombardini, A. Torre, Atti del convegno internazionale di studi: Alessandria 26-7 novembre 2004, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007. Alla elaborazione cartografica ha collaborato l’architetto Aldo Creanza. 2 Si veda per tutti A. Spagnoletti, Territorio e amministrazione nel Regno di Napoli (1806-1816), in «Meridiana», 1990, n. 9, pp. 79-101. 3 Sul nesso conoscenza – gestione del territorio cfr. B. Salvemini, Luoghi di antico regime. La costruzione dello spazio rurale nella storiografia francese, in «Storica», 1997, n. 9.

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a pubblicare oltre cento carte corografiche e geografiche»4 e a meritare, nel contempo, una lunga serie di titoli e riconoscimenti: croce di cavaliere del reale ordine di Francesco I e nomina a ingegnere topografo nel 1849; conferimento del grado di secondo tenente nel 1850; croce di cavaliere del pontificio ordine di San Gregorio Magno e promozione a disegnatore di prima classe nel 1851; grado di primo tenente nel 1853. Autore, fra l’altro, di una Difesa della città e del porto di Brindisi (nel 1831, con Giovanni Monticelli), di un saggio (1852) sul progetto del Grande dizionario geografico, storico, statistico del Regno delle Due Sicilie (progetto approvato dalla Corona, ma rimasto inattuato) e di un’interessante selezione di carte relative alla Crimea (nel primo periodo della guerra russo-turca), membro dal 1852 della Commissione Statistica del Ministero dell’Interno e, in tale veste, promotore della costruzione di un catasto geometrico di tutti i comuni, curatore nel 1854 di un secondo atlante regionale, alquanto diverso dal primo, intitolato Descrizione del Regno delle Due Sicilie per Provincie, fondatore a Napoli (in strada San Carlo), nei primi anni Cinquanta, di uno «Stabilimento Geografico», il cartografo pugliese raggiunge la massima notorietà portando a termine, nel 1852, un atlante universale composto da quaranta tavole.

Egli si distingue particolarmente per abilità tecnica, ma ama confrontarsi anche con questioni di natura teorica. Così, nel 1840, scrivendo un articolo per il Giornale del Regno delle Due Sicilie, formula in modo esplicito il principio guida del proprio lavoro: la necessità di coniugare sempre alla rappresentazione cartografica una «narrazione geografica». «Questa intuizione didattica – osserva Vladimiro Valerio – di una sintesi tra immagine e testo, aveva già illustri precedenti storici, ma Marzolla la sviluppa fino alle estreme conseguenze, creando un’originale ed autentica integrazione tra parte figurata e testo, difficilmente separabili»5.

La scelta metodologica è già riscontrabile nell’atlante del 1832, che comprende una «carta generale del Regno» (amministrativamente diviso «giusta i Reali Decreti Organici del 1° maggio 1816 pe’ Reali Domini al di qua del Faro e degli 11 ottobre 1817 al di là») e ventidue di ambito regionale (quindici per le province del continente, sette per le valli siciliane), «con la traccia delle strade regie postali e l’indicazione su di esse di tutt’i rilievi e con quella de’ cammini traversi di posta ecc. giusta l’ultima tariffa dell’Amministrazione Generale delle Poste del 20 ottobre 1828»6. Ciascun foglio del volume riserva al disegno un ampio riquadro centrale (in scala 1:400.000 circa; diverso il rapporto per la tavola del regno), ma ai lati di questo trovano sempre posto due riquadri più piccoli interamente occupati dalla scrittura. Essi forniscono informazioni secondo un canovaccio prestabilito: nelle carte relative a province e valli, il riquadro alla sinistra di chi legge è normalmente occupato, nella parte alta, da una sintetica presentazione della regione e, per il resto, da una tabella che mette in rapporto l’organizzazione amministrativa (gerarchicamente articolata in distretti, circondari, comuni e uniti) e la demografia («a tutto il 1828 giusta le notizie della Direzione Generale del Censimento» per il continente; per la Sicilia, sulla base del «Dizionario Statistico del sig. Ortolani pubblicato in Palermo nel 1827»)7, il riquadro a destra, invece, tratta nell’ordine di geografia ecclesiastica, dogane, tribunali, principali vicende storiche e, sotto diversi titoli, di economia; nella carta del Regno, questo schema grossomodo si ripete, ma l’oggetto della scrittura si adegua al mutato livello della rappresentazione.

La tavola 1 della nostra appendice estrae, dalle carte e dai riquadri di Marzolla, classi di centri fondate sulla dotazione di funzioni amministrative, dalla classe infima degli «uniti» fino a quella dei capoluoghi di provincia. La tavola 2, che distribuisce per classi di ampiezza il peso demografico ufficiale di ciascun centro8, da un lato pone in risalto l’affollarsi dei centri nelle classi maggiori (salvo che in alcune aree facilmente individuabili: Subappennino Dauno, arco ionico meridionale, conca di Bari, Basso Salento), dall’altro consegna un’immagine che sembra ricalcare quella della gerarchia amministrativa. Certo, la riorganizzazione dello Stato nel primo Ottocento ha prodotto conflitti acuti intorno alla attribuzione di competenze e uffici periferici, ma le posizioni elevate hanno finito per essere occupate dai comuni più popolosi.

Il confronto con repertori successivi suscita l’impressione di una struttura insediativa stabilizzata. Il censimento del 1871 – il primo affidabile9 – segnala un incremento dei luoghi abitati, in particolare nel Leccese, ma nella sostanza modifica solo dettagli, sia che si prendano in esame i soli centri dotati della qualifica di comune (tavola 3), sia che si allarghi lo sguardo ai centri di rango

4 V. Valerio, Società, uomini e istituzioni cartografiche nel Mezzogiorno d’Italia, Firenze, Istituto Geografico Militare, 1993, p. 570. 5 Ivi, p. 571. 6 B. Marzolla, Atlante corografico, storico e statistico del regno delle Due Sicilie, Napoli, Reale Litografia Militare, 1832, c. 1. 7 Ibidem. 8 I centri pugliesi sono stati ripartiti in sei classi, costruite suddividendo l’intervallo fra popolazione minima e popolazione massima secondo un principio di progressione geometrica di ragione 2. Lo stesso criterio è stato utilizzato per le altre carte demografiche. 9 Popolazione presente ed assente per comuni, centri e frazioni di comune. Censimento 31 dicembre 1871, Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Ufficio Centrale di Statistica, volume I, Roma, Stamperia Reale, 1874. Sui censimenti si veda per tutti G. Favero, Le misure del Regno. Direzione di statistica e municipi nell’Italia liberale, Padova, Il Poligrafo, 2001. Per un impiego sistematico dei censimenti all’analisi delle strutture insediative, cfr. A. L. Denitto, Amministarre gli insediamenti, 1861-1970. Confini, funzioni, conflitti: il caso della terra d’Otranto, Galatina, Congedo, 2005.

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inferiore (prima chiamati uniti, ora «frazioni»), i quali da 66 passano a 88. Lo stesso censimento del 1871, distinguendo la popolazione di ciascuna unità territoriale fra «agglomerata» e «sparsa», mette in luce un fenomeno che, in precedenza, lo Stato non ha mai ufficialmente osservato: la cospicua diffusione dell’insediamento decentrato e sparso in una porzione dello spazio regionale che comprende le appendici sud-orientali dell’acrocoro murgiano e frammenti dell’anfiteatro tarantino (si pensi, per esempio, a Villa Castelli, frazione di Francavilla Fontana che consiste per intero di case sparse).

Il gioco dei confronti e degli intrecci fra queste tavole e le innumerevoli altre di natura simile che si potrebbero ricavare dall’atlante di Marzolla e dal censimento del 1871 sembra suggerire con forza una zonizzazione di taglia grossa dello spazio pugliese. Nella porzione territoriale più vasta, attorno agli strappi vistosi della maglia insediativa situati nelle Murge centro-settentrionali e nel Tavoliere profondo, la rete dei centri abitati corrisponde in modo pressoché assoluto alla rete degli insediamenti classificati dall’amministrazione come comuni e dagli storici come agrotowns. Si tratta di un mondo investito, in particolare in questi decenni, da trasformazioni incisive che qui non è il caso neanche di evocare10, ma che suggerisce a viaggiatori, osservatori, geografi forniti ormai di un’idea forte di ‘normalità’ insediativa (uno per tutti Carlo Cattaneo), l’immagine di un mondo fissato da sempre nella sua eccezionalità, condannato dalla infelicità degli spazi e dalla infelicità del loro popolamento: un mondo di città senza contadi e di contadi privi di città, in cui la gigantesca dimensione media dei centri, in assenza di robusti fenomeni di gerarchizzazione, non produce effetti urbani significativi, e la ruralità si coniuga ad una apertura al mercato che suggerisce subordinazione alla congiuntura, incapacità di conquistare posizioni difendibili nella divisione internazionale del lavoro. All’interno di questa Puglia che potremmo chiamare ‘vera’ o ‘grande’ non mancano campagne abitate in forma diffusa o più minutamente aggregata - le Murge sud-orientali, cui si è accennato, o le aree a corona di Bari e Taranto, che sembrerebbero configurare classici ‘contadi’. Ma per cercare un popolamento più equilibrato, capillare, occorre guardare all’esterno, al Salento racchiuso nell’odierna provincia di Lecce o alle montagne del Subappenino Dauno e del Gargano: le aree di elezione di una campagna pugliese ‘normale’. Un dato grossolano ma efficacemente riassuntivo di queste forme diverse dell’insediamento può essere quello della popolazione media di comuni ed uniti per zona: 5.664 abitanti nella Grande Puglia, 3.747 nella zona montana e 1.410 nel Salento leccese.

10 Su questi temi si veda per tutti L. Masella, B. Salvemini (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Puglia, Torino, Einaudi, 1989.

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Lasciamo ad altri e ad altre occasioni la collocazione di queste opposte configurazioni dell’insediamento nel contesto sociale, istituzionale, economico della regione. La domanda ovvia alla quale cercheremo viceversa in questa sede di rispondere riguarda la pertinenza di queste immagini della struttura insediativa pugliese al variare dei tempi: verso il passato, come verso il futuro. 2. I repertori di antico regime nel Regno di Napoli

I dati che la documentazione di antico regime ci consegna pongono problemi notevoli a chi voglia ricostruire la struttura insediativa in forme comparabili con quella ottocentesca. Sotto lo sguardo del principe di antico regime lo spazio locale non si presenta ordinatamente ripartito fra centri che godono di una responsabilità amministrativa piena entro circoscrizioni dai confini certi. Esso, al contrario, appare punteggiato di corpi territorializzati che sono dotati di istituti, storie, simboli, collocazioni gerarchiche, diritti, pretese in concorrenza con altri corpi e poteri, e che, per accedere alle risorse su cui vantano una qualche titolarità, devono passare attraverso mediazioni lunghe e complicate, proceduralmente indefinite. Di questi ambigui soggetti istituzionali il detentore della sovranità non necessariamente conserva un repertorio ufficiale; il più delle volte, si accontenta di incontrarli quando esercita funzioni di giustizia e mediazione, gestisce il demanio o esige tributi.

Per quel che riguarda il Regno di Napoli in generale il centro insediativo, anche quando conquista lo status di universitas, riesce raramente ad imporre, di fronte ai soggetti individuali e corporati ed alla trama dei poteri in cui è immerso, l’evidenza indiscutibile della propria esistenza separata e connotata da capacità giurisdizionali riconosciute. Qui i repertori disponibili sono il prodotto di un processo, per così dire, di statizzazione precoce dell’inquadramento locale, centrato sul fisco regio; più precisamente, sulla assegnazione di funzioni di ripartizione e colletta delle imposte ai luoghi abitati capaci di assumere e gestire la delega fiscale. Le numerazioni dei fuochi, la redazione localizzata dei catasti onciari e le continue iniziative da parte del potere centrale volte a fronteggiare situazioni di insolvenza delle comunità corporate finiscono cioè per costruire un repertorio dei luoghi fiscalmente rilevanti che, nella sostanza, è un repertorio delle universitates. Alcuni repertori fiscali direttamente consultabili

Non sempre i documenti che producono ed incorporano questo repertorio sono giunti fino a noi. Straordinariamente prezioso è, ad esempio, un manoscritto dal titolo di Liber Focorum Regni Neapolis, che si conserva presso la Biblioteca Civica «Berio» di Genova e di cui Fausto Cozzetto ha proposto negli anni Ottanta un’edizione critica11 (un’altra edizione era stata curata da Giovanna Da Molin)12. Il Liber, secondo l’argomentata tesi del Cozzetto, è «uno strumento fiscale predisposto dopo il 1449 e prima del 1456, in cui vengono riportate, relativamente alle province di Terra di Lavoro e Abruzzo Citra, le cifre della numerazione del 1447» (sempre accompagnate dalla locuzione quae erat) e, per la totalità del Regno, «quelle della nuova unità di conto fiscale, fissata nel 1449» (quae est). Di fatto – chiarisce lo studioso – «queste ultime erano le cifre della prima numerazione», quella indetta da Alfonso il Magnanimo nel cosiddetto parlamento baronale del 1443 (o parlamento di San Lorenzo) e svoltasi nello stesso anno13. Oltre ai nomi (perlopiù in lingua latina) degli insediamenti individuati dagli agenti del fisco, alla loro consistenza demografica e all’entità del loro tributo, il manoscritto reca l’indicazione delle province e dei feudatari cui gli stessi insediamenti appartengono e ne evidenzia con una specifica simbologia (croci e lettere) il rango ecclesiastico.

Anche per due numerazioni seicentesche, quella del ’48 e quella del ’69, sopravvivono in alcune biblioteche (quella della Società Napoletana di Storia Patria, la Nazionale di Bari, la Nazionale di Napoli, la Provinciale di Avellino, la Provinciale di Matera, ecc.) esemplari di pubblicazioni direttamente curate da apparati dello Stato (Regia

11 F. Cozzetto, Mezzogiorno e demografia nel XV secolo, Rubbettino Editore, collana «Biblioteca di storia e cultura Meridionale», 1986. 12 G. Da Molin, La popolazione del Regno di Napoli a metà del Quattrocento. Studio di un focolario aragonese, Bari, Adriatica, 1979. 13 F. Cozzetto, op. cit., p. 22.

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Giunta, Regia Camera della Sommaria)14. E’ merito, invece, di Maria Rosaria Barbagallo De Divitiis la divulgazione dei dati relativi alla numerazione del 1732, che «non ebbe effetto sul piano fiscale […], ma fu però condotta a termine, in quasi tutte le località del Regno»: sebbene condotto col sistema delle rivele (dichiarazioni giurate) e non ostiatim (interrogando, cioè, i capi-famiglia casa per casa), questo censimento avrebbe segnalato un considerevole aumento demografico rispetto alla situazione registrata nel 1669 e «suscitò, pertanto, una forte opposizione nella popolazione, che costrinse la corte imperiale di Vienna ad abbandonare il tentativo di fondare su [di esso] una più aggiornata tassazione». I suoi dati, spiega la Barbagallo in un lavoro del 1977, li si è «potuti desumere» dai «verbali delle riunioni tenute – tra gli inizi del 1732 e il novembre 1733 – dalla Giunta» appositamente costituita15.

Dall’ultimo Cinquecento fino al Settecento inoltrato, l’elenco degli insediamenti da cui il fisco riscuote imposte costituisce la traccia lungo la quale si muovono gli autori di Descrittioni del Regno. Una volta attribuito a ciascun centro ‘visibile’ dal fisco il numero di fuochi rilevati più di recente, essi vi aggiungono notizie sugli insediamenti ecclesiastici ed i ‘padroni’ (signori territoriali o il re), su storie e glorie locali. Fra torchi e tribunali: la Descrittione di Scipione Mazzella La Descrittione del Regno di Napoli di Scipione Mazzella, la più antica tra le corografie erudite del Mezzogiorno continentale, è un’opera in due libri che vede la luce nelle stamperie di Napoli sul finire Cinquecento e che, alla metà del secolo successivo, in virtù del successo riscosso nella penisola, viene anche tradotta in lingua inglese: la prima edizione italiana – sostiene Tommaso Pedìo – risale al 1595 (ma la copia che si conserva nella biblioteca «S. Antonio dottore» di Nocera Inferiore reca la data del 1586), la seconda al 1597, la terza ed ultima («aumentata in molte parti») al 1601; la versione inglese, invece, è del 1654 (Londra) e accoglie una premessa di James Howel16. Costata all’autore «lunghezza di tempo et di fatica»17, la Descrittione raccoglie innumerevoli notizie sulla storia, le istituzioni, la società e la geografia della compagine statale costituitasi durante il basso medioevo nel Mezzogiorno d’Italia e si propone come uno strumento di consultazione utile non solo agli appassionati di erudizione, antiquaria o araldica, ma anche a politici e viaggiatori.

Nel primo volume, dopo una «Tavola delle cose più notabili, che nell’Opera si contengono» e un breve paragrafo introduttivo dedicato al regno nel suo complesso, si passano in rassegna le dodici province, nella tradizionale successione che colloca al primo posto la Terra di Lavoro e all’ultimo la Capitanata. Due lettere di dedica, una ad Antonio Nava, barone di Cangiano e di Carpino, l’altra a Giovanni Maria Bernaudo, patrizio di Cosenza, precedono le pagine dedicate, rispettivamente, a Principato Citra e Calabria Citra. Per ciascun ambito provinciale, l’autore delinea i caratteri fisici, dà conto delle opere di difesa esistenti (torri e castelli), seleziona le memorie, rileva le principali vocazioni produttive, l’entità e le modalità delle contribuzioni erariali, riproduce l’insegna; ma soprattutto elenca «per ordine d’alfabetto»18 le località abitate, indicando anche il numero di fuochi (o aggregati domestici) attribuito ad esse dalla più recente registrazione fiscale, quella del 1561: «delle grandi et importanti – spiega Mazzella – non ne habbiamo lasciate alcuna, ma le picciole, come quelle, che sapute possono essere di poca ò di niuna utilità, le abbiamo lasciate, assicurandoci, che alla integrità dell’opera non potrà il mancamento di esse niun difetto opportare»19. Raramente si chiarisce se questi insediamenti maggiori godano del rango di città o si qualifichino come semplici terre, mentre è sempre segnalata la loro eventuale appartenenza al regio demanio; casali, ville e altri centri di minore consistenza compaiono soltanto nelle pagine relative alle province di Terra di Lavoro, Abruzzo Ultra e Calabria Citra.

Con il secondo volume, le province restano sullo sfondo e il principio ordinativo della materia diventa tematico. Alla ripresa, in un’ottica generale, di questioni già affrontate su scala locale (elenco delle principali fortificazioni, di elementi naturali come fiumi, laghi, montagne, giacimenti minerari, ecc.) si aggiungono, pertanto, sezioni dedicate alle finanze del regno (dogane, gabelle e altre forme di prelievo), alle sue massime cariche politiche e

14 Per la numerazione dei fuochi del 1648 si conserva, ad esempio, il volume dal titolo Nova situazione de’ pagamenti fiscali de carlini 42 a foco delle provincie del Regno di Napoli ecc. Adohi de Baroni, e feudatari fatta per mano della Regia Giunta in Palazzo di ordine dell’Ill.mo et Ecc.mo Signore D. Indico Velez de Guevara e tassis… dal primo di settembre… avanti 1648… et ultimamente aggiustata per ordine della R. Camera (Napoli, Egidio Longo, 1652); per la numerazione successiva, quello che si intitola analogamente Nova situazione de’ pagamenti fiscali de carlini 42 a foco delle provincie del Regno di Napoli ecc. Adohi de Baroni, e feudatari dal primo gennaro 1669 avanti, fatta per la R. C. della Sommaria di ordine dell’Ill.mo et Ecc.mo Signore D. Pietro Antonio De Aragona (Napoli, Egidio Longo, 1670). 15 I verbali delle riunioni sono raccolti nel volume 456 del fondo Ex Sommaria Notamentorum dell’Archivio di Stato di Napoli (Una fonte per lo studio della popolazione del Regno di Napoli: la numerazione dei fuochi del 1732, a cura di M. R. Barbagallo De Divitiis, Roma, Palombi, 1977, pp. 10-11, corsivi nel testo). 16 T. Pedìo, Le descrizioni storico-geografiche nella letteratura napoletana del Seicento, in AA. VV., Studi in memoria di Nino Cortese, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1976, p. 447 (nota 23). L’edizione dell’opera di Mazzella da noi utilizzata è quella del 1601. 17 Ibidem. 18 S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, in Napoli, ad istanza di Giovanni Battista Cappello, 1601, p. 34. 19 Ibidem.

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magistratuali (elenco dei re di Napoli, dei conti e duchi di Puglia e Calabria, dei vicerè, dei «titoli di dignità»20 regi, rito di incoronazione, «breve preambolo dei Re di Gierusalem, cominciando da Gottifredo, ove si mostra la vera ragione, perché i Rè di Napoli s’intitolano anco di quel Regno»21, «modo di scrivere usato da’ re Aragonesi di Napoli, scrivendo a diversi prencipi»22, descrizione dei Sette Uffici, «Trattato dell’origine e del divisamento delle Corone de’ signori titolati del Regno»23, elenco dei reggenti della Cancelleria), all’organizzazione ecclesiastica e alle sue massime glorie (vescovati, benefici di giuspatronato regio, pontefici e cardinali nati nel Mezzogiorno), agli strati superiori dell’universo feudale (principi, duchi, marchesi e conti con relativi stemmi, famiglie illustri di Napoli, sia quelle di seggio, sia quelle fuori seggio).

Progettata e pubblicata in una stagione di rifioritura degli studi sulla storia dello Stato meridionale, intrisa della cultura e dei valori di una società ormai barocca, la Descrittione si richiama, perlomeno nel titolo e nella scelta di alcuni argomenti, alle più pregevoli narrazioni odeporiche degli umanisti Flavio Biondo (Italia illustrata) e Leandro Alberti (Descrittione di tutta Italia). Essa, d’altro canto, si pone su un piano nettamente diverso da quello degli esili affreschi del Mezzogiorno prodotti in ambito diplomatico o storiografico, come la statistica del Regno di Napoli fatta eseguire nel 1444 da Borso d’Este in occasione di un suo breve soggiorno alla corte di Alfonso il Magnanimo24, o la ridotta corografia che introduce il Compendio del Collenuccio (di fine Quattrocento)25, o lo scritto che Francesco Mascardi compone nel 1594, ritoccando un resoconto dell’ambasciatore veneto Girolamo Lippomano (a Napoli dal luglio del 1575 al febbraio del 1576, presso don Giovanni d’Austria)26, o la Relazione del Regno di Napoli di Camillo Porzio (1577-9)27, oppure ancora, la digressione de provinciis et civitatibus regni che Marino Freccia inserisce nel primo libro del suo De subfeudis baronum, et investituris feudorum (Napoli, 1554)28. E rappresenta un indubbio progresso rispetto alle esposizioni storico-geografiche compilate, nei decenni precedenti, da diversi eruditi regnicoli (Scoppa, Di Falco, di Stefano, del Giudice, Sorgente, Tarcagnota, Sanfelice, ecc.), tutte piuttosto scarne e ripetitive sul piano dei contenuti e, comunque, interessate quasi esclusivamente alle vicende della capitale, al più dell’area campana29.

Napoletano, «ma originario dell’isola di Procida»30, autore di altri scritti minori (fra cui Le vite de i Rè di Napoli e Sito et antichità della città di Pozzuolo), Scipione Mazzella – «il quale […] habitava alla Piazza dell’Olmo in una bottega all’incontro la Fontana dell’Incanto»31 – con il suo più significativo lavoro avvia, in realtà, un filone bibliografico nuovo, quello dei dizionari geografici32 relativi alla totalità del Mezzogiorno, che si connota per il carattere schematico, nozionistico, laudativo, ma allo stesso tempo denso, della trattazione e che, fino a quando esiste un organismo statale coincidente con lo stesso Mezzogiorno, incontra larga fortuna. Tortuosa, al contrario, è la ricezione della Descrittione in particolare; non tanto per la qualità della scrittura (pur viziata da «alquanta secchezza», a parere di Francescantonio Soria)33, quanto per le sue implicazioni giuridiche. Tommaso Costo, che nel 1575 ha pubblicato in una settantina di pagine (presso Orazio Salviani) i Nomi delle provintie, città, terre e castella e de Vescovadi et Arcivescovadi del Regno di Napoli, de i Re che vi regnarono con le loro discendenze e de Vicerè stativi da Belisario in qui e de sette Officiali di esso con un’Indice de’ signori titolati che vi sono e delle famiglie de’ Seggi di Napoli, accusa infatti il Mazzella di aver plagiato svariati autori (fra cui sé medesimo) e di aver prodotto un’opera incompleta, grossolana, imprecisa e presuntuosa; come se non bastasse, lo attacca sul piano personale, definendolo uomo «di malcostume»34 e «deri[dendolo] nel titolo di Signore»35. Per tutta risposta ottiene nel 1596 una citazione in

20 Ivi, p. 471. 21 Ivi, p. 479. 22 Ivi, p. 488. 23 Ivi, p. 496. 24 C. Foucard, Descrizione della città di Napoli e statistica del Regno nel 1444, in «Archivio Storico per le province napoletane», a. II, 1877, fasc. 4, pp. 425-57. Anche Bartolomeo Capasso, agli inizi del Novecento, dà notizia di una «anonima descrizione del Regno di Napoli compilata a metà del XV secolo e conservata nella Biblioteca Nazionale di Parigi»; egli la giudica «ancora imprecisa e confusa» (Le fonti della storia delle province napoletane dal 568 al 1500, Napoli, 1902, p. 132). 25 P. Collenuccio, Compendio delle Historie del regno di Napoli, Venezia, 1548, pp. 1-9. 26 Cfr. T. Pedìo, op. cit., p. 450 (nota 32). 27 C. Porzio, Relazione del Regno di Napoli al Marchese di Mondesciar, Vicerè di Napoli tra il 1577 e il 1579, Napoli, Officina Tipografica, 1839. 28 Cfr. G. Giarrizzo, Erudizione storiografica e conoscenza storica, in Storia del Mezzogiorno, vol. IX, Aspetti e problemi del medioevo e dell’età moderna 2°, Napoli, Edizioni del Sole, 1991, p. 530, 29 A. Lerra, Un genere di lunga durata: le descrizioni del Regno di Napoli, in Id. (a cura di), Il libro e la piazza. Le storie locali dei regni di Napoli e di Sicilia in età moderna, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 2004, pp. 30-31. 30 F. Soria, Memorie storico-critiche degli storici napoletani, Napoli, nella Stamperia Simoniana, 1781, tomo II, p. 404. 31 N. Toppi, Biblioteca napoletana, con le addizioni di Leonardo Nicodemo, Bologna, Forni, 1971 [ristampa anastatica di Napoli, Bulifon, 1678 e Salvator Castaldo, 1683], p. 281. 32 Secondo una definizione che si conia nel Settecento. 33 F. Soria, op. cit., tomo II, p. 406. 34 T. Costo, Ragionamenti di Tomaso Costo intorno alla Descrittione del Regno di Napoli, et all’Antichità di Pozzuolo di Scipione Mazzella, Napoli, nella Stamperia dello Stigliola a Porta Regale, 1595. Cfr. anche T. Pedìo, op. cit., p. 449 (e note 25 e 26). 35 F. Soria, op. cit., tomo II, p. 406.

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giudizio. Secondo la versione del Soria, che data al 1586 la prima edizione del volume36, Tommaso Costo sarebbe in realtà riuscito ad impedirne la diffusione per nove anni, intimando una «terribile censura», e solo le intercessioni del vicario generale di un arcivescovo, del segretario del regno, di tre consiglieri e di due reggenti del Collaterale avrebbero alla fine rimosso l’ostacolo37.

Analogamente al Costo, ma con argomentazioni più generiche, Giuseppe Campanile – critico di metà Seicento che il Soria considera «avvezzo a mal parlare»38 – taccia il compilatore della Descrittione di «pazzie» e marchia il libro stesso come «scismatico tra gli storici»39; dopo qualche decennio, Niccolò Giorgio parla addirittura di «innumerabili abbagli»40. Di diverso tenore, ma non meno virulenti, sono gli attacchi che il Mazzella subisce dall’aquilano Giovanni Lorenzo Gualtieri, il quale «pretese non doversi dar fede alla detta sua Historia, mentre scrivendo della Nobiltà dell’Aquila havea pretermesse molte Famiglie nobili, et in particolare la sua; et all’incontro molte ignobili riposte tra le nobili»41; una tesi suffragata dal vescovo di Tricarico, Antonio Zavarrone, erudito rinomato ma anche molto discusso42. Per impedire la pubblicazione dell’opera, il Gualtieri intraprende a sua volta un’azione legale, che – informa Nicolò Toppi – nel 1678 è ancora aperta «nel Sacro Consiglio appresso Giacomo Figliola»43. Sul versante opposto della critica, Cornelio Vitignano e Giovanni Antonio Summonte presentano Scipione Mazzella come un «diligentissimo scrittore, autore di opere utili e degne di esser lette», nonché «amatore di virtù». Nel pieno Settecento, infine, è Giovanni Donato Rogadeo che, con più distacco e, forse, con più equilibrio di tutti i precedenti commentatori, lo biasima per la rozzezza, ma ne riconosce l’autorità44. Un best seller del Seicento: il Regno di Napoli da Bacco a Beltrano

Sul conto di Enrico (o Arrigo) Bacco, autore de Il Regno di Napoli diviso in dodici province – il volume che dialoga più da vicino con la Descrittione di Scipione Mazzella, essendo apparso per la prima volta una ventina (o forse una trentina) d’anni dopo quella, nel 1606, e ricalcandone vistosamente impostazione e contenuti – si possiedono informazioni scarsissime e, oltretutto, incerte. Di origini tedesche (nella lingua madre il suo cognome sarebbe Back) e non viestane (come da qualcuno si è congetturato, per l’ampio spazio riservato alla città garganica in alcune edizioni del Regno), negli anni Settanta del Cinquecento egli sembra essersi già trasferito con la famiglia a Napoli, dove prende a lavorare come garzone presso la libreria di Orazio Salviani. Dopo qualche tempo, diviene titolare di una propria bottega (forse rileva quella del Salviani, alla morte di lui) e – lo si arguisce da riferimenti interni alle sue opere – resta in vita almeno fino al 1607. Nelle Memorie storico-critiche, Francescantonio Soria sostiene che «da libraio videsi trasformato in Istorico» poiché «aveva capacità assai superiore a [quel] basso mestiere»45; nondimeno, l’ampollosità del suo stile è duramente criticata dal «mordacissimo»46 Tommaso Costo, che lo bacchetta anche per aver attinto «certe notizie […] dalle sue opere, senza fargli l’onore di neppure nominarlo»47.

Negli stessi anni in cui dà alle stampe una Effigie di tutti i Re, che han dominato il Reame di Napoli, una Vita di San Martino, vescovo di Tours e protettore di Martina, un Teatro della nobiltà d’Italia (con lo pseudonimo di Flaminio Rossi, ma soprattutto per la delicatezza dell’argomento) e un trattatello Delle grazie e miracoli della Beata Vergine del Monte Carmelo, il Bacco intravede nella pubblicazione di un’opera che colga e sviluppi le intuizioni del Mazzella – e che magari rimaneggi molti dei suoi materiali – la possibilità di lauti guadagni. Così, progetta un volume unico nel quale risulti aggiornata la sezione relativa alla capitale, un elenco dei Cavalieri del Tosone si aggiunga a quelli consueti della nobiltà titolata, le descrizioni delle province vengano seguite da quelle delle loro località «più illustri»48 con la menzione dei relativi patriziati e, soprattutto, nelle liste dei centri abitati, i dati desunti dalla numerazione dei fuochi del 1595 si affianchino a quelli del 1561. Le vendite gli danno ragione, se è vero che già nel 1608, dopo la sua probabile morte, si rende opportuna una seconda edizione e che nel 1609 ve n’è una terza, in entrambe i casi per i tipi di Giovanni Giacomo Carlino e Costantino Vitale.

Il successo del libro, che verrà anche tradotto in tedesco – in Germania, del resto, le Deliciae Neapolitanae di Girolamo Megister (1606) hanno accresciuto di molto l’interesse verso l’Italia meridionale49 – induce, nei decenni successivi, altri eruditi e stampatori a promuoverne la ripubblicazione, modificando di volta in volta la patina formale o

36 Ibidem. «Per questi insulti fatti al Mazzella – scrive Francescantonio Soria – fu egli [il Costo] criminalmente processato, e non la scampò, che per l’amicizia di alcuni Magistrati, e per la brava difesa, che gliene fece il suo amico Michele Zappullo». La vertenza giudiziaria fra Costo e Mazzella si chiude il 31 maggio del 1597 (ivi, tomo I, p. 202). 37 Ivi, tomo II, p. 405. 38 Ivi, p. 407. 39 G. Campanile, Notizie di nobiltà, in Napoli, per Luc’Antonio di Fusco, 1672, p. 127. 40 N. Giorgio, Notizie Istoriche della vita, martirio, e sepoltura del glorioso San Sisto, in Napoli, Felice Mosca, 1721, p. 13. 41 N. Toppi, op. cit., p. 281. 42 T. Pedìo, op. cit., p. 450. 43 N. Toppi, op. cit., p. 281. 44 T. Pedìo, op. cit., p. 448-50. 45 F. Soria, op. cit., tomo I, p. 52. 46 Ivi, p. 202. 47 Ivi, p. 52. 48 E. Bacco, G. P. Rossi, Nuova descrittione del Regno di Napoli diviso in dodici provincie, in Napoli, per Secondino Roncagliolo, et ristampato per Ottavio Beltrano, ad istanza di Andrea Paladino, 1629, frontespizio. 49 A. Lerra, op. cit., pp. 35-6.

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la disposizione degli argomenti, inserendo nuovi cataloghi di informazioni o, magari, presentandone alcuni in forma sintetica. Il primo a segnalarsi in questo esercizio compilativo è il napoletano Pietro Antonio Sofia, che dà «in luce […] nella stamperia di Tarquinio Longo» l’edizione del 1611 (con paragrafi dedicati ai «corpi santi, che sono in ciascuna» provincia)50 e poi, sempre collaborando con il tipografo Lazzaro Scoriggio, quelle del 1614 (dove si indicano – a quanto pare per la prima volta – le università feudali che godono del privilegio di camera riservata, ossia sono immuni dagli alloggiamenti militari), del 1615 e del 1616 (nelle quali «una breve descrittione della Città di Napoli» si dice «aggiuntovi»)51. Nel 1618, escono copie del Regno dalla bottega di Giovanni Battista Gargano e Matteo Nucci, mentre una nuova versione di esso è realizzata «ad istanza» di Pietro Antonio Sofia presso Scipione Bonino, «corretta et ampliata da Cesare d’Engenio gentil’huomo napoletano»52 («più noto con il cognome materno di Caracciolo»53, asserisce il Pedìo). Su commissione del solito Sofia e ad opera di Lazzaro Scoriggio si imprimono, infine, le edizioni del 1622 e del 1626, «nuovamente corrett[e] et ampliat[e]» dal d’Engenio54.

Ma il libro sembra ormai sul punto di smarrire la memoria della propria originaria paternità. Tra il 1628 e il 1629, due ristampe eseguite per conto di Andrea Paladino – la prima presso Secondino Roncagliolo, la seconda presso Ottavio Beltrano55 – e contenenti ragguagli su «molte altre città e terre del Regno di diversi scrittori, che non erano» nelle precedenti, recano l’inedito titolo di Nuova descrittione del Regno di Napoli, diviso in dodici provincie e presentano la materia come «descritta prima da Enrico Bacco et in questa ultima impressione» dal napoletano Giovanni Pietro Rossi56. Un’ulteriore ristampa del 1629 (affidata allo Scoriggio), che all’aggettivo nuova affianca nel titolo quello di perfettissima, concede particolare attenzione alla città di Avellino e sottolinea il contributo intellettuale offerto non solo dal d’Engenio (studioso che il Soria giudica particolarmente abile nel «rintracciar piccole coselline appartenenti alla Città e Regno di Napoli»57), ma anche da Giuseppe Mormile (autore di due ampie digressioni relative alla capitale e a Pozzuoli).

La completa obliterazione del nome di Enrico Bacco dal frontespizio del Regno si compie negli anni Quaranta del secolo per iniziativa del citato Ottavio Beltrano, un «libraro e stampatore» di origini calabresi (Terranova)58 che intraprende il mestiere a Cosenza, intorno al 1620, ma dopo pochi anni risulta già ben inserito nei circuiti editoriali della capitale (al suo torchio il d’Engenio affida fin dal 1623 una Napoli Sacra)59. Costretto da «avvenimenti di fortuna» e «inavveduti malori» a lasciare spesso la bottega napoletana (ubicata in «San Biagio dei librai») per cercare lavoro in altre città (Sorrento, Avellino, in ultimo Ancona), molto interessato come editore a tematiche poetiche, religiose, astrologiche e cabalistiche, ma come autore ricordato soltanto per la quinta parte del diffusissimo Almanacco perpetuo del cosentino Rutilio Benincasa60, il Beltrano pubblica il dizionario geografico a più riprese nella veste di una Breve descrittione del Regno di Napoli diviso in dodeci provincie (Napoli 1640, prima e seconda stampa; Napoli, presso de Bonis, 1641, con integrazioni del d’Engenio; Napoli, sia in proprio che «dal Porrino», 1644; Benevento, «per Giovanni Battista de Giorio», 1646; Napoli 1648, «con addizioni sue e di Giuseppe Mormile»)61 e se ne dichiara sempre il curatore. Egli «non era così ignorante com’è per l’ordinario la gente di [quella] classe» – afferma, nel Settecento, Francescantonio Soria – e «pretese la sua scranna tra gli scrittori, che fiorirono nel passato secolo»62; ma la sua penna è bollata come «venale» da Tommaso De Masi Del Pezzo63 e lo stesso Soria gli rimprovera di aver fatto circolare la voce secondo cui «parlato avrebbe favorevolmente di quelle città, terre o famiglie che fossero state nel caso di somministrargli qualche sussidio». Così, ad esempio, la città di Cava, degnamente illustrata nella prima versione della Breve descrittione, non avendo ricambiato il Beltrano con adeguata gratitudine scompare dalla seconda64.

50 E. Bacco, P. A. Sofia, Il Regno di Napoli diviso in dodici provincie, Napoli, nella stamperia di Tarquinio Longo, 1611, frontespizio. 51 Idd., Il Regno di Napoli diviso in dodici provincie, Napoli, nella stamperia di Lazzaro Scoriggio, 1615, frontespizio; Idd., Il Regno di Napoli diviso in dodici provincie, Napoli, nella stamperia di Lazzaro Scoriggio, 1616, frontespizio. 52 E. Bacco, Il Regno di Napoli diviso in dodici provincie, Napoli, per Scipione Bonino, ad istanza di Pietro Antonio Sofia, 1618, frontespizio. 53 T. Pedìo, op. cit., p. 452. 54 E. Bacco, Il Regno di Napoli diviso in dodici provincie, Napoli, per Lazaro Scoriggio, ad istanza di Pietro Antonio Sofia, 1622 e 1626, frontespizi. 55 E’ l’edizione da noi utilizzata come fonte. 56 E. Bacco, Nuova descrittione cit., frontespizio. Giovanni Pietro Rossi, gesuita, è anche autore fra XVI e XVII secolo di una Relatione della morte di Papa Urbano VII (Roma, presso Giovanni Martinello). 57 F. Soria, op. cit., tomo I, p. 225. 58 N. Toppi, op. cit., p. 230. 59 Ivi, p. 63 60 A. Cioni, Beltrano, Ottavio, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. VIII, 1966, p. 83-4. 61 Per alcune di queste ristampe si ha notizia soltanto da F. Soria, secondo il quale l’edizione del 1641, la migliore, sarebbe «replicata» in forma ancor più accurata dal medesimo Beltrano nel 1673 (F. Soria, op. cit., tomo I, p. 83). 62 Ivi, p. 82. 63 T. De Masi Del Pezzo, Memorie istoriche degli Aurunci antichissimi popoli dell'Italia e delle loro principali città Aurunca e Sessa, Napoli, per Giuseppe Maria Severino Boezio, 1761, p. 42. 64 F. Soria, op. cit., p. 82.

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Per oltre venti anni non si avverte l’esigenza di nuove ristampe. Poi, nel 1671, Adriano Scultore – lo stesso personaggio che Angelico Aprosio accusa di «inurbanità» (oggi si direbbe, incompetenza e scarsa professionalità), per aver, a suo dire, mal curato la prima edizione de La Grillaia di Scipio Glareano (1668)65 – si incarica di riportare il volume sul mercato librario, per i tipi di Novello de Bonis: gli attribuisce il titolo di Descrittione del Regno di Napoli diviso in dodeci provincie e lo dedica «all’Illustrissimo Signor Don Giacomo Capece Galeota», esponente di spicco del ceto togato. «Essendo da molti anni a questa parte mancato questo libro – scrive lo Scultore negli ‘Avvertimenti al Lettore’ – per lo continuo smaltimento, che di esso si è fatto, Io per far cosa grata alla pubblica curiosità l’ho ristampato di nuovo». Ricostruisce quindi – per quanto ne sa – la parabola della Descrittione («raccolta primieramente dall’erudito Cesare d’Engenio, poi da varii Autori in diversi tempi accresciuta, et in ultimo […] con altre non poche giunte posta insieme, e pubblicata da Ottavio Beltrano») e ammette di averla compilata utilizzando «per esemplare, e per originale l’ultima impressione» di essa (che considera la sesta), dal momento che, in quelle precedenti, «non poche vi si fecero non solo aggiunte, ma anche diminutioni»66.

Sebbene l’editore sostenga di essersi impegnato nell’«accomodar[e]» l’opera «al tempo presente», essa nella sostanza in nulla diverge dalla versione beltraniana, eccetto che per gli elenchi relativi ai centri abitati delle province e per i loro valori demografici. Gli uni e gli altri, infatti, sono quelli delle «due ultime Numerationi de’ fuochi [1648 e 1669] fatte d’ordine Regio, e cavate da i libri stampati del Real Patrimonio, il primo de’ quali in cui sta la vecchia numeratione s’intitola Nuova Situatione de’ pagamenti fiscali, fatta d’ordine del Signor Conte d’Ognatte, Vicerè, et impresso nell’anno 1652. e l’altro ultimamente impresso nell’anno 1670. s’intitola Nuova Situatione de’ pagamenti fiscali dal I. di Gennaro 1669. fatta in tempo del presente Vicerè Signor D. Pietro d’Aragona» (con la differenza, però, che nel volume dello Scultore mancano le località abitate all’epoca della «numeratione vecchia» e «da nuovi Numeratori […] date per dishabitate»)67. Il dizionario geografico ideato agli inizi del Seicento da Enrico Bacco, ad ogni modo, sembra aver fatto il proprio tempo. Entrato in una fase di prolungato letargo alla metà del secolo (forse perché non più in sintonia con i gusti del pubblico o per aver raggiunto il proprio massimo potenziale di diffusione), è da credersi che nel 1671 ne esca sfruttando il contingente interesse suscitato dalla pubblicazione dei dati relativi alle più recenti registrazioni fiscali. Venuta meno questa circostanza, esso torna fra le opere di cui i lettori non avvertono più la necessità e, inevitabilmente, smette di essere ristampato. Città e terre in prospettiva: l’esperimento pacichelliano

Rispetto agli eruditi e ai tipografi che tra Cinque e Seicento danno alle stampe i primi dizionari geografici del Mezzogiorno, una più alta considerazione delle proprie qualità letterarie e una più piena consapevolezza del proprio ruolo culturale manifesta, alle soglie del Settecento, Giovanni Battista Pacichelli, l’autore de Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie. Nato probabilmente a Roma negli anni Quaranta del XVII secolo da genitori pistoiesi, formatosi a Pisa (laurea in diritto civile e canonico) e poi nella capitale pontificia (laurea in teologia e, forse, anche in medicina), divenuto abate (più precisamente, commendatore dell’abbazia di San Marco) nel 1670, nominato nel 1672 uditore generale alla nunziatura apostolica di Colonia e, in virtù di tale incarico, impegnato nei successivi cinque anni a viaggiare in lungo e in largo per l’Europa, il Pacichelli giunge a Napoli nel 1679, quando già da un anno è al servizio del duca di Parma Ranuccio II Farnese (come consigliere e uditore civile), per sovrintendere all’amministrazione dei feudi che quest’ultimo detiene in vari angoli del Mezzogiorno. Preceduto dalla fama di intellettuale eclettico – si è occupato di storia, di politica, di filologia, di poesia, di teatro, di religione e, con particolare perizia, di diritto – e prolifico («avea il morbo di perpetuamente scrivere»68), a Napoli è ammesso a far parte della Congregazione dei Cavalieri e dell’Almo Collegio dei Teologi e diviene amico di studiosi come Giulio Cesare Capaccio, Carlo de Lellis, Pompeo Sarnelli, Carlo Celano, Cesare d’Engenio, nonché degli editori Michele Luigi Muzio e Domenico Antonio Parrino (fin dal 1678 suo corrispondente), ma si aliena molte simpatie per la schiettezza con cui rappresenta, in una serie di opere di carattere epistolare (Memorie de’ viaggi, Mistura di lettere, Memorie novelle), le condizioni di vita delle popolazioni meridionali, la situazione delle province, il mondo della capitale.

Nel 1691 l’abate intraprende e porta a termine il Regno in prospettiva, la sua massima fatica: cinquecento carte autografe in cui confluiscono innanzitutto i ricordi dei tanti luoghi visitati a partire dal 1679 in qualità di agente farnesiano (molti spunti descrittivi sono ripresi dalle lettere)69, ma anche notizie tratte dai più diffusi compendi storico-geografici (come quelli di Filippo Cluverio e Flavio Biondo), da autori locali contemporanei, notizie apprese nel corso di conversazioni private, oppure trasmesse da archivisti (della Cancelleria angioina, della Sommaria, di vari monasteri) ed eruditi «per mezzo di lettere circolari»70, reminiscenze di autori greci e latini. Ricordi, notizie e reminiscenze letterarie che spaziano dai caratteri fisici dei territori alle vicende del loro passato, dalla loro produzione culturale alle tradizioni popolari, dall’articolazione sociale alla demografia, dalla sfera ecclesiastica a quella economica,

65 A. Aprosio, La Biblioteca Aprosiana, in Bologna, per li Manolessi, 1673, p. 202. 66 C. d’Engenio Caracciolo, O. Beltrano, et al., Descrittione del Regno di Napoli diviso in dodeci provincie, in Napoli, ad istanza d’Adriano Scultore, per Ottavio Beltrano e di nuovo per Novello de Bonis, settima impressione, 1671, «Avvertimenti al lettore». 67 Ivi, p. 271. 68 F. Soria, op. cit., tomo II, p. 464. 69 Racconta il Soria che Pacichelli nutriva una «passione per viaggiare, e visitò tutte le nostre provincie, coll’isole di Sicilia e di Malta» (ivi, p. 462). 70 Ibidem.

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dall’architettura alle forme di uso del suolo. In tutto, vi risultano descritte, oltre alla capitale (con elenco della nobiltà di seggio e fuori seggio) e al suo territorio, «centoquarantotto Città, e tutte quelle Terre, delle quali se ne sono havute le notizie»71, con l’aggiunta di un paragrafo dedicato al «Regno in generale»72.

Negli anni successivi, mentre nauseato dall’ambiente napoletano tenta invano di procacciarsi incarichi presso la curia romana, Pacichelli torna a coltivare i propri interessi giuridici e filologici, compone un nuovo epistolario (Lettere familiari, istoriche et erudite) e conduce un assiduo lavoro di revisione del manoscritto, in attesa che maturino i tempi per la sua pubblicazione a stampa. Tuttavia, quando il Regno vede la luce – nel 1703 a Napoli; il primo volume (dedicato a Giovanni Domenico Milano, marchese di San Giorgio) presso la stamperia del Muzio, il secondo (con dedica a Francesco Caracciolo, primogenito del duca di Martina) presso quella del Parrino, il terzo (in onore di Nicola d’Avalos, primogenito del principe di Troia ed erede del principe di Montesarchio) «a spese»73 di entrambi – egli non solo è già morto (nel 1695, secondo la biografia del Soria74; in ogni caso non oltre il gennaio del 1702), ma non ha neppure avuto modo di correggere il testo in bozze. Né altri si è curato di farlo, come dimostrano i tanti refusi che permangono nella sua versione finale e che certamente potevano essere evitati.

Il lungo ritardo con cui il manoscritto giunge al torchio è determinato dal tempo che impiega l’incisore Francesco Cassiano de Silva – uno spagnolo probabilmente nato a Milano, ma residente a Napoli, dove lavora anche per conto del Bulifon (sue le immagini della Accuratissima e nuova delineazione del Regno di Napoli) – per realizzare le raffigurazioni in prospettiva («conforme si ritrovano al presente») delle località selezionate dal Pacichelli. Al contrario, le carte geografiche del «Regno intiero» e delle singole province, che Muzio e Parrino commissionano al medesimo Cassiano de Silva e che insieme alle «vedute diligentemente scolpite in Rame»75 costituiscono il principale motivo di pregio dell’opera, sono pronte fin dal 1691. Il Regno, così assemblato – con i testi descrittivi, le prospettive e le rappresentazioni cartografiche – è ritenuto tuttavia insufficiente dagli editori che, per quanto desiderosi di proporre al pubblico uno studio corografico di nuova concezione, non intendono allontanarsi troppo dal modello di descrizione consacrato dalla tradizione, quello che concede ampio spazio a cronologie, statistiche e cataloghi eruditi. Per tale ragione, prima di mandarlo in stampa, essi lo integrano con una serie di inserti: l’elenco dei sovrani di Napoli, quello dei dominatori del regno a partire dalla caduta dell’impero romano, quello dei pontefici e dei cardinali nati nel Mezzogiorno, dei capitani generali e dei vicerè, alcune tavole delle aristocrazie provinciali, una illustrazione dei Sette Uffici, un «Teatro della nobiltà d’Italia»76 e, in coda alle pagine di ciascuna provincia, i valori demografici assegnati ai centri più importanti dalle due ultime numerazioni dei fuochi, quelle del 1648 e del 1669 (con indicazione di terre franche e camere riservate). Una sintesi delle «Leggi, costituzioni, riti, consuetudini e prammatiche sotto le quali si governa al presente il Regno e Città di Napoli»77 è, infine, contributo esclusivo del Parrino, che la estrae da un proprio precedente volume dedicato all’argomento dei vicerè. Per i «Signori Professori del Foro»: la Descrizione del dottor Cono Capobianco

A differenza dei primi curatori di dizionari geografici del Mezzogiorno, tutti a vario titolo inseriti nel mondo editoriale napoletano e, quindi, significativamente interessati ai proventi delle pubblicazioni, o a differenza dell’abate Pacichelli, che concepisce la descrizione del regno come un’operazione essenzialmente letteraria – tanto che agli editori Muzio e Parrino, in cambio del proprio manoscritto, chiede soltanto di figurare come unico autore del volume che hanno in previsione di stampare e venticinque copie dello stesso – il dottore utroque iure Gerardo Cono Capobianco (Pellare, Salerno, 1724; Portici, 1801) con la divulgazione, nel 1794, della sua Descrizione di tutt’i luoghi che compongono le dodici provincie del Regno di Napoli intende far cosa «gradita […] specialmente a’ Signori Professori del Foro; a’ quali ognun vede di quanta necessità sia»78. Dal 1770 segretario del Sacro Regio Consiglio (in favore del quale produce un volume di Ragioni e altri scritti minori), già ufficiale della segreteria della Sommaria e avvocato con lunga pratica nei tribunali della capitale, personaggio che rappresenta «assai bene per carriera e per mentalità la tipica figura del borghese di toga napoletano»79, egli a null’altro ambisce che a rendersi benemerito agli occhi del proprio mondo. Non a caso, gli esemplari dell’opera, impressa a Napoli «a spese» di Salvatore Palermo, «dal medesimo si vendono nel Corridojo del S. R. C. a grana dodici l’uno»80.

Il profilo culturale del Capobianco, ad ogni modo, non si esaurisce nella sfera delle competenze giuridiche. Entrando a far parte, nel 1779, dell’allora istituita Accademia di scienze e belle lettere ed occupandosi, in tale consesso, della «istoria de’ bassi tempi», egli ha modo di coltivare con regolarità i propri interessi eruditi. Gli stessi interessi che,

71 G. B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, Napoli, stamperie del Muzio e del Parrino, 1703, 3 voll., frontespizi. 72 Ivi, vol. I, p. 1. 73 Ivi, vol. III, frontespizio. 74 F. Soria, op. cit., tomo II, p. 462. 75 G. B. Pacichelli, op. cit., frontespizi. 76 Ivi, vol. III, p. 252. 77 Ivi, p. 186. 78 G. Cono Capobianco, Descrizione di tutt’i luoghi che compongono le dodici provincie del Regno di Napoli, in Napoli, Salvatore Palermo, 1794, p. 2. 79 F. Di Battista, Capobianco, Gerardo Cono, in Dizionario biografico cit., vol. XXVIII, 1983, p. 580. 80 G. Cono Capobianco, op. cit., frontespizio.

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uniti ad una spiccata vocazione per il mecenatismo culturale («di una cultura ben s’intende tutta nel solco del provincialismo», asserisce Francesco Di Battista)81, lo inducono ad allestire una ricchissima biblioteca privata («la raccolta, la più doviziosa, che possa aversi delle Napolitane cose», sostiene il Soria)82 e ad aprirla «con liberalità a letterati e giuristi» (fra questi, il giovane Giustiniani)83. D’altra parte, mentre lascia allo stato di progetto un Compendio delle famiglie nobili napoletane e una Nuova descrizione de’ luoghi sacri, e pubblici di Napoli, l’illustre togato porta a termine, nel 1785, un’esperienza di collaborazione con Vincenzo Maria Altobelli, mercé la stesura di un corposo «indice delle materie» per la riedizione delle Storie in forma di Giornali di Giuliano Passero84.

Erudizione, ma in dosi alquanto modeste, è ciò che si rinviene anche nella sua Descrizione. Oltre ad una «notizia delle fiere»85 che si svolgono durante l’anno nel Mezzogiorno e a sintetici ragguagli su questioni tributarie, infatti, il Capobianco si limita ad inserire nel volume l’elencazione – a suo avviso «emendatissima» – di tutti i centri abitati del regno, raggruppandoli come al solito per province e segnalando con una specifica simbologia le città di grazia (ossia, le località elevate al rango urbano da una decisione sovrana), le città vescovili e quelle arcivescovili. Per rendere l’elencazione «vieppiù utile», egli la correda con i dati demografici della «ultima numerazione fatta dalla Regia Camera nel 1737»86, un’indagine mai considerata dallo Stato ai fini del riparto fiscale, dai più ignorata e della quale entra verosimilmente in possesso nell’esercizio delle funzioni magistratuali. Il risultato finale di questo impegno compilativo è un «libretto»87 di 48 pagine che, anche in virtù della pressoché totale assenza di parti discorsive, non solo è del tutto privo di ambizioni letterarie, ma mostra persino scarse affinità con il filone bibliografico cui pure intende richiamarsi, quello delle ponderose descrizioni.

Sul finire dell’antico regime questa sorta di topografia fiscale, diventata canonica, sembra destabilizzarsi. L’avvio di grandi inchieste pubbliche – quella cartografica affidata a Giovanni Antonio Rizzi Zannoni e quella descrittiva affidata a Giuseppe Maria Galanti – si accompagna ad un mutamento radicale nel genere delle corografie erudite. Come altrove, la descrizione dello spazio umanizzato prende a trasgredire lo schema definito dai corpi e dai poteri che vi sono iscritti; assume un andamento ‘neutro’ – l’ordine alfabetico – ed enciclopedico, che ne infoltisce enormemente le emergenze.

Il rapporto fra la piegatura geografica dello sguardo territoriale e la riconfigurazione in senso verticale dei poteri, più volte sottolineata dalla storiografia, sembra presente anche nel tardo Settecento meridionale. Dalla metà degli anni Sessanta si assiste al primo tentativo di «acquisizione alla sfera pubblica di un’attività di ricognizione permanente del territorio». Allora – ricorda Daniela Ciccolella – per iniziativa di Bernardo Tanucci, si comincia a raccogliere con regolarità gli «status animarum annualmente redatti dai parroci, che erano rimessi ai vescovi e, da questi, alla segreteria dell’Ecclesiastico». I dati demografici così centralizzati vengono «aggregati per province» e «pubblicati ogni anno sul Calendario o Notiziario di Corte»88. Notevolmente imprecisi fino al 1797 (quando il Cagnazzi suggerisce di ricavare il «numero di uomini atti alle armi» dal numero complessivo degli abitanti con metodo statistico)89, essi diventano la base documentaria dei primi censimenti non condotti dall’apparato fiscale. Ad uno di questi censimenti in particolare, quello relativo al biennio 1794-‘9690, si rivolgono per illustrare la situazione demografica del regno alla fine del secolo sia i curatori di dizionari geografici, come Lorenzo Giustiniani e Francesco Sacco, sia l’avvocato siciliano Pasquale Di Simone, autore di un’opera manoscritta (oggi custodita presso la Biblioteca Nazionale di Napoli)

81 F. Di Battista, op. cit., p. 580. 82 F. Soria, op. cit., p. X, nota 1. 83 F. Di Battista, op. cit., p. 580. 84 Giuliano Passero, Giuliano Passero Cittadino Napoletano o sia Prima pubblicazione in istampa, che delle Storie in forma di Giornali, le quali sotto nome di questo Autore finora erano andate manoscritte, ora si fa a sue proprie spese da Vincenzo Maria Altobelli libraro napoletano con quelle medesime poche giunte, le quali collo stesso volume manoscritto procedevano, Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1785. 85 G. Cono Capobianco, op. cit., p. 3. 86 Ivi, p. 2. 87 Ivi, p. 3. 88 D. Ciccolella, Conoscere per amministrare. L’introduzione delle indagini statistiche nel Regno di Napoli, in «Rivista italiana di studi napoleonici», nuova serie, 2/2000, XXXIII p. 126 (corsivi nel testo). Ancora indispensabile su questi temi P. Villani, Documenti e orientamenti per la storia demografica del Regno di Napoli nel Settecento, Roma, Castaldi, 1968. 89 Ivi, p. 127. 90 Questo censimento sarà messo a stampa nel 1803 con il titolo di Quadro alfabetico delle popolazioni del Regno di Napoli con lo stato dell’amministrazione e sua carta geografica (Napoli, presso Vincenzo Cava).

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dal titolo Topografia politica, la quale reca un elenco alfabetico di circa 2.800 insediamenti, con il numero di abitanti rilevato in ciascuno d’essi. I dati riportati dal Di Simone – asserisce Pasquale Villani (che li utilizza in un proprio studio del 1968, aggregandoli «secondo la ripartizione geografica amministrativa del 1807») – sono «da preferire per il loro carattere più analitico e per la menzione che egli fa di tutti i luoghi abitati, anche di quelli la cui popolazione è da altri autori sommariamente riportata sotto il nome del capoluogo amministrativo»91.

Il prodotto dal nostro punto di vista più rilevante di questa stagione, quello cioè che ci ha fornito materiali più cospicui, è il grande Dizionario di Giustiniani. Lorenzo Giustiniani e il «particolare esame» dei luoghi: un dizionario geografico ragionato

A soli tre anni dall’apparizione del «libretto» di Gerardo Cono Capobianco, a quasi un secolo dall’originale esperimento pacichelliano e ad una distanza ancora maggiore dal tempo in cui le descrizioni venivano interamente confezionate nelle botteghe di librai e stampatori, il trentaseienne Lorenzo Giustiniani, lui pure insigne avvocato napoletano, dà inizio alla pubblicazione in più volumi di un repertorio di tutte le emergenze geografiche del Mezzogiorno, che nel titolo si presenta con il sostantivo di dizionario (poiché i suoi lemmi non sono più raggruppati per ambiti provinciali, ma suddivisi in due soli elenchi, quello degli insediamenti, voll. I-X, e quello degli elementi naturali, voll. XI-XIII) e si qualifica con il doppio aggettivo di geografico ragionato (per l’atteggiamento critico, in un certo senso illuministico, che ispira la sua stesura). Apparentemente adagiato nel solco della tradizione compilativa regnicola, esso si confronta in realtà con le più avanzate manifestazioni della cultura topografica europea (come l’Atlas Encyclopédique di Bonne e Desmaret) e prende parte al grande sforzo di conoscenza del territorio meridionale che si compie, lungo varie direttrici, sul finire del Settecento (inchieste del Galanti, cartografia del Rizzi Zannoni, relazioni di viaggio di Longano, Swinburne, De Salis Marschlins). Come è scritto, del resto, nel «discorso preliminare» del volume introduttivo (un lungo paragrafo che illustra l’impianto dell’opera e traccia un quadro d’insieme del regno) e ribadito nel messaggio «a chi leggerà» del volume undicesimo, il «principale oggetto» dell’autore «non è quello di disporre alfabeticamente i nomi de’ luoghi abitati» – o «de’ più rinomati fiumi, fonti, laghi, golfi, monti, promontorj, e vulcani» – «ma bensì l’indicare in ciascuno di essi la vera situazione, ed ognaltro, che merita un particolare esame»92.

Cresciuto in una famiglia della più raffinata borghesia intellettuale (stimato architetto il padre, collezionista di preziosi dipinti il fratello), passato attraverso un non breve periodo di avviamento alla carriera militare (in ultimo ricusata, «forse per i timori della madre»93), l’avvocato Giustiniani effettua le prime prove di scrittura erudita fra il 1787 e il 1793, mandando in stampa alcuni lavori di argomento bio-bibliografico (Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli in tre volumi, Biblioteca storica e topografica del Regno di Napoli , Saggio storico-critico sulla tipografia del Regno di Napoli) e una Breve descrizione della città di Napoli e del suo contorno. Fin dal 1774, tuttavia, ha in cantiere il grande progetto del Dizionario («mi si svegliò l’idea di formare tale Dizionario»94) e raccoglie materiali per la sua realizzazione. Venti anni dopo, attraverso le Effemeridi enciclopediche di Napoli, egli rende noto il «Prospetto» (ossia, il piano) dell’opera e si appella «agli amatori della storia»95 affinché lo assistano nell’impresa, rispondendo ad un questionario sulle località del regno. Insoddisfatto dei riscontri, si rivolge al re ed ottiene un dispaccio che invita tutti gli ordinari diocesani a fornirgli le informazioni richieste. Solo così riesce ad irrobustire significativamente la propria base documentaria.

Nel frattempo, Lorenzo Giustiniani deve fronteggiare le insidie tese dall’abate Francesco Sacco (professore di storia e geografia nel reale convitto del Salvatore), il quale fa uscire tra il 1795 e il 1796 un proprio Dizionario geografico-istorico-fisico del Regno di Napoli – secondo il nostro, niente più che un «elenco delle parrocchie, chiese, monisteri, e confraternite» – e, temendo il confronto, chiede alla Corona «un privilegio di non potersi per un decennio scrivere da altri» opere analoghe. Giustiniani sventa la «manovra» nel 1797, ricorrendo presso il tribunale della Sommaria e, soprattutto, grazie alla favorevole «perizia» di due docenti della Regia Università, che riconoscono il suo lavoro come originale, poiché fondato su «notizie tratte per la prima volta da carte vecchie e polverose de’ nostri Archivj»; solo allora, egli manda sotto il torchio i primi tre volumi. Per quattro anni non ne produce di nuovi, dicendosi impedito dalle «pubbliche turbolenze», dal venir meno di molti finanziatori (che «in quella politica tempesta si perderono») e dall’interruzione del «commercio». Poi, nel 1802, allorché viene nominato responsabile del settore storico e bibliografico della Biblioteca Borbonica, la serie riprende «a spese de’ fratelli Marotta» con i volumi quarto e quinto; nel 1803 compare il sesto; nel 1804, anno della promozione a vice-bibliotecario, è la volta del settimo e

91 Oltre alla professione (per lungo tempo esercitata a Napoli), del Di Simone si conosce l’estrazione sociale (è di «civil condizione»), l’incrollabile fedeltà alla dinastia borbonica (ripagata con il titolo di cavaliere costantiniano di grazia, più due benefici in commenda) e la fine: in Sicilia, al seguito degli stessi Borboni (P. Villani, op. cit., pp. 30-1, nota 1). 92 L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Napoli, Vincenzo Manfredi, vol. I, 1797, p. I e Giovanni de Bonis, vol. XI, 1816, pp. XIV-XV. 93 G. G. Fagioli Vercellone, Giustiniani, Lorenzo, in Dizionario biografico cit., vol. LVII, 2001, p. 348. 94 L. Giustiniani, op. cit., vol. XI, 1816, pag. XXII. 95 Ivi, vol. I, 1797, p. CXLVI.

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dell’ottavo; nel 1805, quando raggiunge il grado di terzo bibliotecario, con i volumi nono e decimo si conclude la «descrizione delle città, terre, e villaggi»96.

Giustiniani farebbe «immantinenti seguir» la sezione relativa agli elementi naturali, ma il ritorno dei francesi lo induce a desistere97; è sua intenzione, infatti, terminare l’opera «sotto gli auspici di Ferdinando IV, alla cui Persona [essa] era stata fin dapprima consegrata». D’altro canto, nel 1806, Giuseppe Bonaparte, ritenendolo leale ai Borboni, lo declassa a semplice aiutante del prefetto della biblioteca (il gesuita Juan Andrés) e gli dimezza lo stipendio. Nel corso del Decennio egli non smette di curare e divulgare ricerche erudite, ma soltanto nel maggio del 1815 comincia a «rassettar meglio» le rimanenti carte del dizionario e a «farci delle aggiunzioni circa alcune altre opere eseguite in tutto il periodo dell’occupazione militare»98. L’anno seguente affida queste carte all’editore, che ne ricava i tre ultimi volumi (l’undicesimo, il dodicesimo e il tredicesimo).

Autore, durante la Restaurazione, di nuove pubblicazioni sugli argomenti più disparati (nonché di «copiose aggiunte al Dizionario»99), nell’ottobre del 1824 Lorenzo Giustiniani corona la propria carriera di studioso assumendo (senza concorso e grazie ai buoni uffici del preposto alla Pubblica Istruzione, Francesco Colangelo) la cattedra di «arte critica diplomatica» presso l’ateneo napoletano. Il prestigioso incarico lo ripaga delle amarezze patite nel corso di innumerevoli polemiche letterarie – non di rado sfociate in vertenze giudiziarie – che lo hanno avuto per protagonista (anche a causa di un carattere piuttosto difficile), ma giunge forse con troppo ritardo. Dopo nemmeno due mesi, infatti, l’anziano erudito – tanto «rigoroso» nell’uso delle fonti, quanto «trascurato e sciatto» nello stile – si spegne, lasciando inediti diversi scritti e senza ricevere l’onore di un pur succinto necrologio100.

Ad ogni modo, la sua opera maggiore gli rende in seguito giustizia. Essa, infatti, si impone subito come fondamentale strumento di conoscenza della realtà geografica del Mezzogiorno e, con il trascorrere del tempo, vede anche crescere il proprio valore di fonte storica. La sezione più interessante e destinata a maggiore fortuna è certamente quella relativa agli insediamenti. Giustiniani ne prende in esame circa 3.600 (compresi quelli estinti o che non riesce ad individuare con precisione), ma nel complesso ne cita oltre 4000: una quantità doppia rispetto a quella dei più completi dizionari precedenti. Egli, in effetti, non si limita ad elencare i centri che detengono poteri di autogoverno (generalmente città e terre), ma annovera anche aggregati minori e dipendenti, quali i casali, i villaggi, le ville, sistemi policentrici come gli stati e ristretti agglomerati urbani che chiama paesi. Per ogni lemma, cerca notizie relative all’ubicazione, allo status giuridico-amministrativo, alla provincia e alla diocesi di appartenenza, alle attribuzioni onorifiche, al contesto sociale, economico e istituzionale, ai caratteri fisici del territorio, ai confini e alla demografia (utilizzando, per il presente, un censimento che fino al 1803 circola solo in forma manoscritta ed è fondato sugli stati d’anime; per il passato, le numerazioni dei fuochi del 1532, 1545, 1561, 1595, 1648, 1669 e, più raramente, quella del 1737); nel caso dei domini feudali, annota l’identità dell’ultimo possessore e, laddove gli è possibile, si spinge indietro nel tempo, ricostruendo i passaggi di titolarità. Con il materiale raccolto redige, quindi, descrizioni che possono occupare da poche righe a molte pagine.

Un’indagine così estesa e capillare non può far leva, ovviamente, sulle sole informazioni che autorità religiose e appassionati di memorie patrie inviano dalla periferia. «Le parti storiche delle singole voci – rileva Luigi Piccioni, in un saggio di qualche anno fa – sono basate su una conoscenza di prima mano dei grandi autori […] del mondo classico, del medioevo e del Rinascimento, come pure su quella degli scrittori ed eruditi regionali degli ultimi secoli. Tolomeo, Strabone, Plutarco, Dionigi di Alicarnasso, Polibio, Plinio, Lucio Anneo Floro, Sesto Giulio Frontino, Cicerone, le grandi cronache monastiche, Paolo Diacono, Leone Ostiense, Cluverio, Ortelio, Muratori, Mabillon, Giannone, ricorrono sistematicamente in nota al pari di autori minori come Leandro Alberti, Pacichelli, Mazzella, Antinori e molti altri, a testimoniare uno scrupolo filologico intenso». Decisiva è, altresì, la consultazione delle carte depositate preso i maggiori archivi napoletani (della Zecca, della Sommaria, dei Reali Stati Allodiali); particolarmente utile la conoscenza dei lavori di Galanti e Rizzi Zannoni e, più in generale, di una letteratura recente, che è «frutto dell’affermarsi nel Regno delle nuove discipline universitarie e dell’opera di intellettuali riformatori come Genovesi, Galiani, Pagano, Filangieri, Palmieri»101. Infine, l’osservazione diretta dei luoghi attraverso l’esperienza del viaggio: una forma di documentazione che Giustiniani sembra vivamente gradire. «Io ho in diverse provincie visitati un numero singolare di paesi» – scrive l’erudito nel «discorso preliminare» del 1797 – «ed avrei avuto anche il coraggio di estendermi dappertutto il Regno, se al genio, ed alla volontà fossero state corrispondenti le mie rendite»102. Nella comunicazione che rivolge ai lettori diciannove anni dopo, quando manda in stampa gli ultimi tre volumi del Dizionario, egli esprime il medesimo cruccio, ma indica una diversa causa di impedimento: ha fargli difetto, allora, non sarà stato più il denaro, bensì le «forze»103.

96 Ivi, vol. XI, 1816, p. VIII-XI. 97 Ibidem. 98 Ivi, XIV. 99 G. G. Fagioli Vercellone, op. cit., p. 350 (corsivo nel testo). 100 Non ebbe necrologio anche perché «nessuna tra le accademie locali lo aveva accolto» (ibidem). 101 L. Piccioni, Insediamenti e status urbano nel Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli di Lorenzo Giustiniani, in «Società e storia», n. 99, 2003, p. 49-50. 102 L. Giustiniani, op. cit., vol. I, p. CXLVII. 103 Ivi, vol. XI, p. XVII.

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3. Continuità e discontinuità

Le informazioni quantitative e qualitative contenute nei repertori di antico regime hanno finalità ed affidabilità diverse da quelle prodotte dallo sguardo amministrativo. Repertori e corografie producono comunque un’immagine della rete insediativa che ha una sua efficacia sulle rappresentazioni spaziali degli attori, e che può essere paragonata a quella, più univoca ed incisiva, prodotta dalla amministrazione ottocentesca.

L’immagine della struttura insediativa che le nostre fonti sistematiche restituiscono prende forma – come suggeriscono gli studi disponibili – nel processo di selezione e ristrutturazione del popolamento che accompagna la grande crisi di metà Trecento. Partiamo dalla dimensione demografica, mettendo sotto osservazione, sul fondo di carta della Puglia odierna, tre momenti separati da intervalli di tempo grossomodo equivalenti: il 1443 (dati elaborati dal Liber focorum, tavola 4), il 1595 (dati della numerazione ricostruiti sulla base del confronto fra Bacco e Giustiniani, tavola 5), e il biennio 1794-’96 (dati del censimento d’anime ricostruiti sulla base del confronto tra Di Simone e Giustiniani, tavola 6)104. Una volta neutralizzato l’effetto visivo delle variazioni demografiche assolute, che il carattere largamente negoziale delle numerazioni rende assai incerte, ed impostata l’interrogazione sulla gerarchizzazione fra i centri, non sembrano esserci significative differenze tra la carta quattrocentesca e quella settecentesca. Entrambe sono d’altronde vicine per impatto visivo alla tavola 2 ricavata dall’atlante di Benedetto Marzolla: il popolamento di lungo periodo, soprattutto nel Barese, appare spiccatamente multipolare. Nella carta di fine Cinquecento si può scorgere il timido avvio di un processo di gerarchizzazione urbana che premia le aree mercantili più dinamiche e si arresta di lì a poco, con il mutare del ciclo economico.

Indicazioni più circostanziate si possono ricavare disaggregando i dati per zone, secondo la scomposizione dello spazio regionale proposta nel primo paragrafo. Tra 1443 e 1794-’96 la cosiddetta Grande Puglia accoglie una quota di popolazione stabilmente superiore al 60% (nel 1595 superiore al 65%); il Salento leccese passa dal 22% di metà Quattrocento al 24,5% di fine Cinquecento e scende appena al di sotto del 20% due secoli dopo; la montagna subappenninica e garganica attraversa due fasi di ‘pieno’ demografico (17,5% nel 1443 e 16,3% nel 1794-‘96) ed una di ‘vuoto’ (9,2% nel 1595). Nel quadro, poi, di un progressivo innalzamento della dimensione demografica media dei centri pugliesi (115 fuochi nel 1443, 420 fuochi nel 1595, 2884 abitanti nel 1794-’96)105, il rapporto fra il valore della Grande Puglia e quello del Salento si mantiene pressoché costante nel tempo (3,6 nel 1443; 3,2 nel 1595; 3,6 nel 1794-’96)106, mentre va incontro a vistose oscillazioni quello fra Grande Puglia e zona montana (1,4 nel 1443; 2,9 nel 1595; 1,5 nel 1794-’96)107. Risulta insomma confermata la capacità del vasto mondo delle agrotowns di approfittare delle occasioni di crescita offerte dal vivace Cinquecento, ma anche l’incapacità di conservarne i benefici nel periodo che segue. Il Salento leccese sembra seguire, sia pure con accentuazioni diverse, un percorso simile a quello della Grande Puglia, al contrario della montagna che mostra un comportamento anticiclico.

Le conseguenze della difficile congiuntura seicentesca (ma, in buona misura, anche settecentesca) sulla struttura demografica regionale si possono cogliere anche osservando l’andamento complessivo dei tredici più importanti centri costieri e mercantili (Manfredonia, Barletta, Trani, Bisceglie, Molfetta, Giovinazzo, Bari, Mola, Polignano, Monopoli, Brindisi, Gallipoli, Taranto): nella prima età moderna, accolgono una popolazione complessiva pari a circa un quinto del totale regionale (19,7% nel 1443; 19,1% nel 1595), ma alle soglie dell’Ottocento non

104 Nella ricostruzione della numerazione relativa al 1595, in caso di discordanza tra le due fonti utilizzate, si è generalmente privilegiato il dato riportato da Enrico Bacco; tra Giustiniani e Di Simone, invece, sulla scorta dell’autorevole parere espresso da Pasquale Villani, si è preferito dar fede al secondo. 105 Per il 1828 questo valore è di 3.503 abitanti, per il 2001 di 15.584. 106 Nel 1828 questo valore sale a 4 per poi ridiscendere a 3,2 nel 2001. 107 Il valore resta costante fino al 1828, sale a 5,3 nel 2001.

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vanno oltre il 17,3%108. E’ un sintomo ulteriore del carattere policentrico di lungo periodo dell’insediamento pugliese, che esce confermato scorporando dal totale regionale, per ciascuno dei momenti considerati, la quota di popolazione che risiede nei dieci centri maggiori: pari al 29,7% in occasione del primo censimento fiscale, essa si riduce al 25,9% un secolo e mezzo dopo e conclude la parabola discendente nel 1794-’96, attestandosi al 19,1%109. Non c’è mai, del resto, un centro che, per numero di abitanti, si imponga inequivocabilmente su tutti gli altri (con la parziale eccezione di Lecce nel 1595, grande il doppio di Taranto, la città che è seconda). Né ritornano sempre gli stessi centri nelle dieci posizioni di vertice della classifica demografica; al contrario, nell’arco di quattro secoli se ne alternano ben diciassette (Andria, Altamura, Barletta, Bari, Bitonto, Brindisi, Foggia, Gravina, Lecce, Lucera, Manfredonia, Martina, Monopoli, San Severo, Trani, Troia, Taranto). E’ fuori di dubbio ad ogni modo che, all’interno dello spazio regionale, la terra d’elezione del policentrismo sia la Grande Puglia: qui sono ubicati, ad ogni rilevamento, nove dei dieci centri più popolosi. Il rimanente è tutte le volte Lecce110.

All’interno della selezione di vertice, i valori demografici sono spesso ravvicinati. Accade, pertanto, che la gerarchia dei centri sia soggetta a continue e spesso significative variazioni. Eccone alcuni esempi: Lecce, che è in cima alla classifica nel 1443 e nel 1595, scende al settimo posto nel 1794-’96; Bari, che è fuori dalla selezione nel 1443 (quindicesima), sale al quinto posto a fine Cinquecento e raggiunge il secondo due secoli dopo; Taranto (non numerata a metà Quattrocento) è seconda nel 1595 e quarta con Foggia nel 1794-’96; la stessa Foggia non rientra nei dieci centri maggiori per tutta la prima età moderna (sedicesima alla prima rilevazione, oltre la ventesima posizione in occasione della seconda); Barletta appare relativamente stabile (seconda nel 1443, quarta nel 1595, sesta nel 1794-’96); Trani, che è terza nel XV secolo, figura oltre la ventesima posizione nel Cinquecento e, due secoli dopo, riesce a rimontare fino alla decima; sorprendente, infine, il caso di Monopoli: fuori dalla selezione agli inizi dell’età moderna, ottava nel 1595 e, alle soglie dell’età contemporanea, al primo posto con 19.000 abitanti111.

Oltre che dal punto di vista della distribuzione demografica, la struttura insediativa può essere cartograficamente valutata in ragione della articolazione istituzionale e onorifica112. La tavola 7, costruita sul primo parametro, gerarchizza le località numerate nel 1595 sulla base delle informazioni attinte dall’edizione del 1629 de Il Regno di Napoli diviso in dodici province (di Enrico Bacco e altri autori)113; la tavola 8, omologa alla precedente, fa invece riferimento al dizionario geografico di Giustiniani e, quindi, raffigura la situazione di fine Settecento114. Tra le due elaborazioni cartografiche non è praticabile un confronto puntuale, poiché si fondano su documentazioni difformi per qualità e quantità (notevolmente più ricco e minuzioso è il materiale 108 I 13 centri costieri e mercantili di età moderna accolgono nel 2001 il 26,2% della popolazione pugliese. 109 Nel 2001 questo valore risale al 30,3%. 110 La numerazione del 1443 non riporta Taranto, poiché la città è affrancata da pesi fiscali. La si è comunque considerata, a quella data, tra i dieci centri più popolosi della Puglia, facendo scalare dal decimo all’undicesimo posto il centro salentino di Nardò. 111 Nel 2001 Bari è al vertice della classifica demografica con 316.532 abitanti; seguono Taranto con 202.033 e Foggia con 155.203. Barletta è quinta con 92.094 abitanti, Lecce settima con 83.303, mentre Trani e Monopoli sono collocate oltre la decima posizione. 112 Nel primo caso (tavole 7, 8 e 9), è stato suddiviso in classi l’insieme dei poteri localizzati (sulla base di una convenzionale gerarchia di rilevanza diversa per ciascuna tavola – si vedano le noti seguenti), sono state stabilite corrispondenze fra classi e valori numerici, assegnando a ciascun centro un valore complessivo, e infine, si è rappresentato questo valore mediante un simbolo di dimensione proporzionale. Nel secondo caso (tavole 10 e 11), oggetto di classificazione sono diventati gli attributi che determinano il rango degli insediamenti, ma sono rimasti identici i criteri della restituzione figurativa. 113 Per realizzare la carta abbiamo assegnato i seguenti valori: 4 punti ai centri sede di arcidiocesi, 2 pt. ai centri sede di diocesi, 3 pt. ai centri sede di diocesi esente da controllo arcivescovile; 1 pt. ai centri affrancati da tributi, 3 pt. ai centri regi, 1 pt. ai centri con sedile chiuso, 1 pt. ai centri per i quali è segnalata la presenza di famiglie nobili, 1 pt. ai centri che godono del privilegio di camera riservata, 1 pt. ai centri sede di fiera, 2 pt. ai centri sede di uffici. Tra i poteri localizzati è stata considerata anche la grande dogana di Foggia, di cui in realtà Bacco non fa menzione, e le è stato assegnato in maniera arbitraria il valore di 50 punti. 114 Per realizzare la carta abbiamo assegnato i seguenti valori: 4 punti ai centri sede di arcidiocesi, 2 pt. ai centri sede di diocesi, 3 pt. ai centri sede di diocesi esente da controllo arcivescovile, 1,5 pt. ai centri sede di diocaesis nullius o esenti da controllo vescovile; 1 pt. ai centri sede di seminario, ospedale, opera pia o confraternita, 0,5 pt. ai centri sede di monastero, 1 pt. ai centri sede di fiera o mercato, 1 pt. ai centri sede di tribunale o dogana, 50 pt. alla dogana di Foggia, 0,5 pt. ai centri sede di stazione di posta, 1 pt. ai centri sede di fondaco del sale, 0,5 pt. ai centri sede di residenza di regio governatore doganale, 0,5 pt. ai centri sede di istituzioni culturali, 0,5 ai centri dotati di casali. Abbiamo attribuito anche un valore ai titoli delle signorie territoriali di cui un centro è capoluogo: 1 pt. ai principati, 0,8 pt. ai ducati, 0,6 ai marchesati, 0,4 ai contadi, 0,2 alle baronie.

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informativo offerto da Giustiniani); nondimeno, si ricava da entrambe l’impressione di un territorio in cui non emergono polarità forti (se si eccettua il caso di Foggia, il cui cerchietto è ingigantito dalla attribuzione convenzionale di un valore assai rilevante alla grande dogana pecoresca) e in cui solo alcuni, fra i tanti centri che nei momenti considerati sono demograficamente cospicui (cfr. le tavole 5 e 6), registrano una concentrazione di poteri localizzati elevata. Anche sul piano della dotazione istituzionale, si può dunque sottolineare la persistenza fra XVII e XVIII secolo di una impalcatura policentrica – in particolare lungo la fascia costiera della Terra di Bari, nel cuore della Grande Puglia – che la grande trasformazione introdotta dal Decennio francese non cancella. Si guardi la tavola 9, costruita sui dati di Marzolla115. Svuotata del protagonismo foggiano (una volta soppressa la Dogana), ripulita della molteplicità di emergenze istituzionali di cui dà notizia Giustiniani (e che ugualmente scompaiono in buon numero con l’antico regime), la carta sembra alludere ad un quadro territoriale semplificato e, soprattutto, molto simile a quello che si ricava dal repertorio di Bacco per il primo Seicento. All’avvio dell’età amministrativa, insomma, la dislocazione dei poteri nello spazio regionale non solo resta sostanzialmente fedele a quella del periodo di poco precedente, ma pare addirittura ricalcare la traccia di un disegno di molto risalente.

Altre immagini eloquenti possono essere ricavate mettendo in carta i dati sul rango onorifico dei singoli centri. Tra i repertori pre-ottocenteschi, l’unico che fornisca informazioni sufficientemente fondate e capillari in merito è quello compilato da Lorenzo Giustiniani (tavola 10)116. Come già il parametro della dotazione istituzionale (cfr. tavola 8), quello dell’onore segna, alla fine del XVIII secolo, gerarchie più nette di quelle individuate su base demografica (cfr. tavola 6). Esso conferma, ad un altro livello, l’alterità dell’insediamento salentino e montano (connotato da una proliferazione più o meno accentuata di casali, villaggi e altri centri di poca qualità), rispetto a quello della zona indicata come Grande Puglia; all’interno di questa zona, tuttavia, si evidenzia una non trascurabile disparità tra l’agglomerazione urbana della costa barese, in gran parte immediatamente soggette al re e ricca di prelature, e le aree rimanenti, dove i centri sono il più delle volte soggetti al potere feudale, sguarniti di cattedre vescovili e, pertanto, assurgono di rado al rango urbano.

Con la fine dell’antico regime, gli attributi dell’onore mutano profondamente: scompare il discrimine fra località regie e feudali; il prestigio connesso alla classificazione ecclesiastica perde, in parte, di significatività; economia, demografia, dotazione istituzionale diventano le principali variabili su cui misurare la qualità degli insediamenti. Inoltre questa misurazione a differenza delle altre continua a sfuggire in buona parte alla statizzazione; essa è perlopiù prerogativa dell’opinione locale e, come tale, viene registrata anche nei repertori ufficiali. La tavola 11, che considera la qualificazione assegnata ai centri (comuni e frazioni) dal censimento del 1871117, sembra confermare nelle grandi linee gli equilibri territoriali dell’ultimo Settecento, ma colpisce soprattutto per il massiccio spostamento dell’indicatore grafico verso le posizioni più elevate della scala di valori. Tale spostamento è determinato, nella maggior parte dei casi, dalla diffusa promozione delle antiche ‘terre’ al rango di città e dal venir meno, all’interno della casella classificatoria della città, delle stratificazioni gerarchiche proprie dell’antico regime.

115 Per realizzare la carta abbiamo assegnato i seguenti valori: 4 punti ai centri sede di arcidiocesi, 2 pt. ai centri sede di diocesi, 3 pt. ai centri sede di diocesi esente da controllo arcivescovile, 4,5 pt. ai capoluoghi di provincia, 2,5 pt. ai capoluoghi di distretto, 1,5 pt. ai capoluoghi di circondario, 1 pt. ai comuni, 0 pt. agli uniti, 2pt. ai centri sede di tribunale o corte d’appello, 1,5 pt. ai centri sede di dogana di prima classe, 1 pt. ai centri sede di dogana di seconda classe, 0,5 pt. ai centri sede di dogana di terza classe. 116 I valori convenzionali da noi stabiliti sono i seguenti: 10 punti alle città arcivescovili regie, 8 pt. alle città vescovili regie, 6 pt. alle città regie, 5 pt. alle città vescovili feudali, 3 pt. alle città feudali, 2 pt. alle terre regie, 1 pt. alle terre feudali, 0,5 pt. a casali e villaggi, 0 pt. ad altri centri minori. 117 Per realizzare la carta abbiamo assegnato i seguenti valori: 10 punti alle città, 5 pt. a borghi e borgate, 3 pt. ai villaggi, 1 pt. a sobborghi e casali.

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4. Qualche nota conclusiva

La dialettica fra persistenze e mutamenti del popolamento ‘ufficiale’ pugliese dopo la grande crisi di metà Trecento potrebbe essere oggetto di analisi più fini e di scala ben più grande di quella adottata in questo scritto. Ciò che vorremmo tornare a sottolineare in conclusione è la robustezza degli elementi di continuità. Mettiamo brevemente sotto osservazione l’aspetto da questo punto di vista più vigorosamente riassuntivo ricavabile dalle nostre fonti: l’apparizione e la scomparsa, agli occhi dei classificatori, dei luoghi popolati. La tavola 3 ha già mostrato come la rete dei comuni che si definisce nel primo Ottocento riesca ad attraversare senza mutamenti di rilievo i decenni centrali del secolo e il periodo immediatamente post-unitario. Impiegando la medesima grammatica cartografica e mettendo a confronto – secondo una procedura certo non priva di problemi – centri che in età contemporanea sono dotati di istituzione comunale e centri che in antico regime ricevono dallo Stato la delega fiscale, è possibile riferire questa interrogazione ad un arco di tempo molto più lungo.

Il punto di partenza è, ancora una volta, il censimento fiscale del 1443, che entro i confini della regione odierna riconosce 245 insediamenti. Dopo poco più di un secolo, questo numero risulta sensibilmente accresciuto: secondo la rilevazione del 1561, ricostruita intrecciando i dati ricavati da Mazzella, Bacco e Giustiniani, assommano infatti a 305 le località tenute al pagamento delle imposte. Di queste, sono 71 quelle che non figurano nel repertorio di età aragonese, 11 quelle presenti a metà Quattrocento e in seguito scomparse. Le variazioni più significative si registrano nella Grande Puglia e nel Salento leccese; nella zona montana, invece, vengono alla luce solo 11 centri, a fronte di perdite pressoché nulle. Tra la metà del Cinquecento e la metà del Settecento il quadro insediativo continua a modificarsi in misura modesta; ma si ravvisa un’inversione di tendenza (tavola 12). Le località censite dal fisco nel 1561 sono infatti più numerose di quelle che, due secoli dopo, devono dotarsi del catasto onciario118. Il Salento è la zona che paga maggiormente le difficoltà del periodo, mentre in una piccola porzione dell’arco ionico meridionale ha luogo una riconfigurazione dell’insediamento (tre centri scompaiono e altrettanti ne appaiono) che meriterebbe approfondimento.

Il passaggio fra antico regime ed età dell’amministrazione segna ovviamente una cesura netta anche per quel che concerne la collocazione del popolamento nello spazio geografico e politico. Ma mentre in altre aree del Mezzogiorno ne consegue un rimescolamento radicale della trama insediativa, qui lo scivolamento dei nodi dell’insediamento dalle vecchie griglie di classificazione alle nuove sembra privo di intoppi rilevanti. La tavola 13 segnala l’elevazione a comune di una quindicina di località – variamente ubicate – che alla metà del Settecento non redigono catasti e la scomparsa di diversi centri salentini; gli altri passano dalla condizione di universitas a quella di ente amministrativo territoriale di base, il comune. D’altronde, se compariamo con le universitates non più i soli comuni ma l’insieme di comuni e uniti (tavola 14), ritroviamo i circa 50 centri assenti dalla carta dei comuni del 1828, sia pure declassati al livello infracomunale. La nuova comparazione, oltretutto, permette di individuare le aree in cui la struttura insediativa si irrobustisce nelle sue articolazioni amministrative minime: in particolare il Basso Tavoliere, dove la relativa proliferazione dei luoghi abitati riconosciuti dallo Stato trae alimento dalla graduale conversione alla cerealicoltura di grandi estensioni precedentemente vincolate al regime pastorale doganale.

Una volta inquadrato nelle griglie dello Stato amministrativo, l’insediamento pugliese sembra non subire più scosse significative. La tavola 15 legge le variazioni della geografia ufficiale dei centri nel periodo compreso fra 1871 al 2001 (anno dell’ultimo censimento disponibile). Malgrado i deliberati propositi di manipolazione del quadro insediativo che caratterizzano soprattutto il ventennio fascista, in questo lungo lasso di tempo il processo di generazione di nuovi

118 L’elenco dei centri che si dotano di catasto onciario è stato costruito sulla base delle indicazioni ricavate dalla letteratura esistente, in particolare AA. VV., Il Mezzogiorno settecentesco attraverso i catasti onciari, Napoli, ESI, 1983-86, 2 voll.

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centri appare poco rilevante sul piano quantitativo e limitato ad aree circoscritte (il Basso Tavoliere, il Salento leccese e il cosiddetto Istmo Messapico); il saldo tra comuni che compaiono e comuni che scompaiono resta peraltro attivo. La tavola 16 mostra come, ai giorni nostri, gli insediamenti si distribuiscano in maniera piuttosto bilanciata fra le diverse classi demografiche e quanto ampio sia ormai il divario fra quelli che occupano le posizioni più elevate (i capoluoghi di provincia e pochi altri centri ubicati prevalentemente nel nord Barese) e quelli di minore consistenza, quasi tutti addensati nelle aree rimaste più ai margini delle grandi trasformazioni indotte dal mercato (Subappennino Dauno e Basso Salento). L’età contemporanea sembra insomma ridimensionare alcuni connotati di lungo periodo dell’insediamento pugliese – quello, ad esempio, di un equilibrato policentrismo demografico (oltreché istituzionale e onorifico) nel corpo centrale della regione, in particolare lungo il versante marittimo del Barese – ed accentuarne altri, come il carattere residuale del popolamento montano o l’ossessiva parcellizzazione di quello salentino. Ma non riesce a scompaginare il reticolo dei centri abitati, che anzi dopo il 1871 attraversa la fase, in assoluto, di maggiore stabilità119.

Infine la tavola 18 sintetizza permanenze e mutamenti da un capo all’altro dell’intervallo plurisecolare da noi considerato, suggerendo la notevole forza inerziale della struttura insediativa entro i confini della cosiddetta Grande Puglia (dove il fenomeno più interessante pare rappresentato dalla colonizzazione dell’entroterra tarantino) e la più elevata instabilità dei territori rimanenti. Sui rilievi del Foggiano, in particolare, si registra dal Quattrocento ad oggi un discreto infoltimento delle località abitate ufficiali (soprattutto nel tratto meridionale del Subappennino), mentre non è difficile riconoscere nel Leccese i segni di un progressivo spostamento dell’abitato dalla fascia costiera adriatica alle aree più interne.

L’occupazione e la distribuzione degli uomini nello spazio – lo ribadiamo in chiusura –

fuoriesce dall’orizzonte di questa indagine. L’attività di classificazione e riconoscimento delle agglomerazioni abitative da parte dei poteri ha ovviamente un nesso stretto con la costruzione e la distribuzione fisico-geografica dei luoghi abitati, ma la reinterpreta secondo i propri fini ed il proprio linguaggio, che abbiamo cercato di rappresentare attraverso simboli e carte. La ‘cecità’ di questo sguardo di fronte all’emergere dell’insediamento sparso in un’area ben precisa del Sud-Est barese è da questo punto di vista assai significativa. Una misura ovviamente del tutto approssimativa di questa distanza fra i mutamenti della rete dei centri classificati e le trasformazioni del popolamento può essere ricavata ricorrendo in una chiave diversa a quei dizionari che, fra XVIII e XIX secolo, si emancipano dalla geografia istituzionale e portano alla luce emergenze insediative che, sotto lo sguardo dello Stato, restano altrimenti occulte. Nella tavola 18, l’insieme dei centri pugliesi menzionati da Lorenzo Giustiniani è messo a confronto con il repertorio dei luoghi definito sulla base dell’impresa catastale carolina da un lato, e dall’altro con quello che la monarchia amministrativa riconosce nel 1828. Nel primo caso, le discrepanze sono consistenti e riguardano anche pezzi significativi della Grande Puglia (in particolare, il Basso Tavoliere); nel secondo paiono concentrarsi nella penisola salentina. D’altronde, al di là della loro dimensione e del loro posizionamento nello spazio, i nodi della rete insediativa hanno funzioni che vanno studiate su tutt’altri livelli, e che si trasformano secondo tempi e ritmi che gli studi hanno ormai documentato efficacemente.

Le inerzie documentate in queste pagine non sono comunque fittizie; suggeriscono, piuttosto, un’immagine del mutamento sociale e territoriale come un processo profondamente disomogeneo. Esso cancella figure e tratti dello spazio umanizzato ma ne conserva altri – nel nostro caso la rete insediativa ‘ufficiale’ – che si perpetuano spaesati in contesti del tutti diversi da quelli che li hanno prodotti. Leggere quelle figure, interpretarle e, eventualmente, impedire che vengano travolte dall’accelerazione violenta delle trasformazioni che hanno segnato gli ultimi decenni è compito degli studiosi del passato quanto degli studiosi ed operatori del presente.

119 Rispetto al totale dei comuni censiti nel 1871 e nel 2001, quelli che compaiono in entrambe le rilevazioni assommano al 91,2%.

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