RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Testi scolastici
.... Secondo le disposizioni vigenti. Indagine sui libri di testo della scuola del-l’obbligo, Reggio Emilia, Ufficio Stampa del Comune, 1971.
Si tratta del catalogo della mostra sui libri di testo aperta a Reggio Emilia nel febbraio 1971 per iniziativa di un collettivo di lavoro promosso dalle amministrazioni comunali di Reggio Emilia, Correggio e Sant’Ilario d’Enza, di cui è già stata data informazione nel notiziario del n. 102 di questa rivista. Il catalogo, curato dall’Ufficio stampa del Comune di Reggio Emilia (al quale si può rivolgere chi vi fosse interessato), permette di far conoscere il lavoro compiuto oltre i limiti territoriali di una mostra, anche se va detto che tale mostra è stata esposta in varie altre città, tra cui Modena, Bologna, Ferrara e Milano, con la collaborazione dei sindacati, di gruppi impegnati nella riforma della scuola e di centri democratici locali.
La mostra ed il catalogo (che ne dà un’ampia ed efficace presentazione) prendono lo spunto da singole pagine di libri di testo della scuola dell’obbligo, scelti tra quelli in uso nelle scuole di Reggio Emilia, mettendone in evidenza l’ispirazione classista. Da notare che l’analisi non si sofferma solo sulle pagine in cui viene predicato a chiare lettere l’odio di classe •e l’inferiorità dei poveri, ma identifica anche nelle pagine apparentemente neutre e innocue il veicolo di una formazione al consenso, ad una passività rassegnata che tutto accetta e giustifica.
Segue poi tutto un ventaglio di spunti e indicazioni per una scuola alternativa, in cui il discorso non si irrigidisce in una prospettiva unica, ma rimane aperto. Segnaliamo alcune lucide pagine sull’organizzazione capitalistica dell’editoria italiana, una serie di suggerimenti per una didattica più libera, documenti sindacali che mirano a stabilire un collegamento tra le lotte di fabbrica e quelle per il rinnovamento della scuola ed alcune note informative su quanto è stato fatto intorno ad
alcune scuole della zona per realizzare un controllo di base ed il superamento delle storture più gravi.
In complesso, una mostra quanto mai ricca ed interessante perché legata ad una situazione concreta; ed un catalogo che segnaliamo a quanti sono interessati a cercare nuove idee e nuovi strumenti di lotta nella scuola.
Giorgio Rochat
U m berto M agrini, P aola C a s t e l l in i, G ianfranco C ia b a tti, M aria F ozzer (a cura di), Roma 70, Firenze, Sansoni,1970, pp. 158, L. 1.000; La questione sociale, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 190, L. 1.000; La Resistenza, Firenze, Accademia, 1970, pp. 158, L. 1.000; Un'estate in campagna, riduzione dall’opera di Bonaventura Tecchi, Firenze, Sansoni,1971, pp. 122, L. 1.000.
Questi volumetti di letture per la scuola media, curati dalla redazione scolastica dell’editore Sansoni, sono costruiti su una formula viva ed agile, studiata per venire incontro a determinate esigenze di rinnovamento didattico. Ognuno di essi presenta una ventina di brani, di preferenza opera di testimoni diretti e talora di narratori di buon livello, in parte minore tratti da studi o documenti dell’epoca. Questi brani sono inquadrati da brevi presentazioni e corredati da note esplicative. Assai apprezzabile lo sforzo di chiarezza espositiva, la nitidezza grafica, l’apparato illustrativo curato con amore. Molto meno convincente invece l’impostazione ideologica dei volumetti, come risulta dall’esame dei singoli testi.
Roma '70 presenta un’immagine del tutto oleografica del Risorgimento, ferma ai discorsi dei grandi protagonisti ed alla piccola cronaca di sicuro effetto degli assalti e dei tumulti. Nessun accenno ai problemi profondi dell’Italia ottocentesca, nessuna analisi dell’atteggiamento delle varie classi, nessun accenno al Concilio Vaticano ed alla politica di Pio IX, nessun dubbio neppure sull’unanimità del plebiscito: è un’Italia veramente deamicisiana quella che esce dal libro, fatta di giovani
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che muoiono sereni con una palla in fronte, di nobili saggi e disinteressati e di generali ponderati e comprensivi. Non a caso il volumetto chiude con i discorsi del centenario del 20 settembre di Paolo VI e di Saragat, quasi ' a simboleggiare una continuità di fondo.
La questione sociale si presenta come opera apparentemente più spregiudicata per l’inserimento di alcuni brani abbastanza interessanti, ma in realtà continua la linea elusiva del precedente volumetto. La prima sezione è dedicata ai « poveri », di cui non è fornita alcuna precisa connotazione sociologica o di classe; non a caso l’opera più utilizzata è il Cuore di De Amicis! La seconda sezione si occupa dei contadini, fermandosi però all’inizio del secolo e continuando con alcuni brani sul sottoproletariato delle borgate romane, come se oggi le campagne non ponessero più problemi. La terza sezione infine tratta degli operai, ma anche qui solo gli ultimi brani (non tra i più significativi) superano la barriera dell’inizio di secolo. Ne risulta un quadro sbilanciatissimo, che tende a cristallizzare la situazione della fine Ottocento, ma che anche di questa dà un’interpretazione più che moderata. Un brano di Pratolini su uno sciopero è così seguito da un articolo della « Riforma sociale » che spiega i nefasti effetti di una lotta operaia troppo accesa. I casi di miseria presentati sono poi così superati (si pensi ai complicati calcoli sul costo della vita espressi in soldi) da non avere più rilevanza oggi; né il volumetto si ferma mai ad analizzare le cause profonde di tanto sfruttamento, sostituendo le responsabilità di alcuni imprenditori a quelle di una classe e di un sistema.
Ugualmente deludenti i due volumetti dedicati alla Resistenza, di cui non sono mai analizzate le radici sociali né descritte le autentiche lotte. La riduzione del diario 1943 di Bonaventura Tecchi, Un’estate in campagna, presenta un’esperienza individuale indubbiamente degna e coerente, ma che può dare solo un’idea riduttivi- stica della guerra di liberazione; il Tecchi infatti, per età e per scelta personale, assiste agli avvenimenti (la nascita di un embrionale moto di resistenza nella campagna laziale nell’autunno 1943) senza parteciparvi; il suo arresto è ingiustificato, il trattamento subito denuncia la barbarie tedesca ma ben poco dice sulla più vasta guerra di liberazione. Ben altri diarii partigiani abbiamo sul periodo per non dover ritenere non casuale la scelta di questa
vicenda privata di sofferenza e non di lotta, che dà ai giovani un’idea del tutto passiva della Resistenza. E infatti anche il volumetto sulla Resistenza ne privilegia gli aspetti esteriori oppure quelli privati, presentando vicende di perseguitati oppure liete avventure di guerra e non mai la dura sofferta lotta del partigiano. Anche qui mancano analisi delle cause reali della guerra di liberazione, anche qui manca un inquadramento più vasto e si ha invece un’operazione riduttivistica in chiave di pietà e commozione, che ben poco onora chi seppe prendere le armi e rischiare la vita.
In sostanza, questa collana Sansoni di letture scolastiche appare come rinnovata nella forma, ma non nella sostanza, tenacemente legata ad una visione edulcorata e tradizionale della storia vicina, che susciti rassegnazione e non impegno civile.
Giorgio Rochat
Fabio Fabbri, I moti del 1898. Busta di 20 documenti di grande formato e scheda storica, Firenze, La Nuova Italia,. 1970, L. 1.800.
Riccardo D i D onato, Fabio Fabbri, Da Vittorio Veneto alla marcia su Roma. Busta di 20 documenti di grande formato e scheda storica, Firenze, La Nuova Italia, 1970, L. 1.800.
Segnaliamo due nuovi titoli della collana « Le fonti della storia », di cui abbiamo già trattato nel corso dell’inchiesta sui testi per l’insegnamento della storia contemporanea, apparsa sul n. 101 di questa rivista. Particolarmente interessante la busta di documenti dedicati ai Moti del 1898, un argomento generalmente trascurato dai testi scolastici, che invece balza con immediatezza dai manifesti murali raccolti (meno efficaci le pagine di giornali, di difficile leggibilità). La scheda storica è molto ampia e dettagliata, forse più attenta allo svolgersi dei fenomeni che alle loro cause profonde, ma comunque utile per la presentazione di avvenimenti così poco noti e pur vivi e drammatici. In complesso la busta di documenti è tra le migliori della collana perché meglio si presta ad aprire un discorso alternativo rispetto all’impostazione tradizionale.
Meno riuscita la busta dedicata al pe
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riodo Da Vittorio Veneto alla marcia su Roma. Si tratta infatti di anni così intensi, noti e studiati, che è impossibile farli rientrare nei limiti di una busta di venti documenti. Avviene così che i documenti raccolti siano quasi tutti del massimo interesse, ma troppo dispersi per consentire un discorso continuo; né la scheda può avere qui una funzione di guida, perché il periodo é talmente noto da non permettere una mediazione nuova. Sarebbe stato meglio, ci sembra, concentrare l’attenzione su uno solo dei filoni: non a caso i documenti più utili sono quelli che si riferiscono al movimento fascista, assai più numerosi degli altri. Se fosse stato possibile dedicare all’avvento del fascismo l’intera busta, il materiale sarebbe risultato più completo ed articolato, mentre invece gli accenni ai socialisti ed ai cattolici sono attualmente insufficienti. La busta non permette perciò un discorso autonomo, ma offre delle belle illustrazioni al testo di storia tradizionale: è già qualcosa, ma si perde una parte delle possibilità implicite nella formula della collana di fonti in questione.
Giorgio Rochat
Aldo A. Mola, L’economia italiana dopo l'unità. Finanza, accumulazione del capitale, industria, Torino, Paravia, 1971, pp. 252, L. 1.600.
Il volume affronta coraggiosamente un settore della storia nazionale sempre trascurato da manuali ed insegnanti, ossia le vicende della finanza italiana dopo l’unità (organizzazione de! sistema bancario, circolazione monetaria, tasse e dogane) e dell’industrializzazione (formazione del capitale, caratteristiche del ceto imprenditoriale, sindacati, guerra mondiale e avvento del fascismo, creazione dellTRI), arrivando fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. L’autore svolge questi argomenti con una formula insolita, sviluppando cioè un suo testo espositivo in cui sono inseriti numerosi brani di contemporanei e studiosi; il risultato è abbastanza scorrevole, anche se forse sarebbe stata opportuna una maggiore distinzione tra gli interventi dell’autore e quelli altrui. D’altra parte proprio l’argomento del tutto insolito richiedeva una formula nuova, tale da incoraggiare il lettore. Un giudizio preciso potrà venire dall’uso quotidiano nella
scuola, che l’autore ha cercato di facilitare anche con tracce di ricerche autonome di un certo impegno. Ci auguriamo che questo esperimento possa avere un successo indiscutibile, perché la nostra cultura e la nostra scuola hanno gran bisogno di un approfondimento dei temi affrontati con tanto amore nel volume.
G. Ro.
Mario Mencarelli, Uomini e civiltà. Corso di storia e di educazione civica perla scuola media, vol. I l i , Brescia, LaScuola, 1971 (1* ed. 1970), pp. 392,L. 2.300.
Questo recente volume di storia per la media inferiore, edito da una nota casa editrice cattolica, si contraddistingue per uno sforzo di rinnovamento del tutto esteriore. Abbondano infatti illustrazioni e riproduzioni di documenti, colori e preziosismi tipografici, e la tradizionale struttura del capitolo è sostituita da un discorso spezzettato tra molteplici « schede di osservazione e di ricerca », « itinerari di ricerca », « racconto storico » e simili, con un effetto dispersivo che non ha giustificazioni didattiche, ma é sotto- lineato dall’ermetismo del linguaggio. Ecco alcuni esempi di titoli di capitolo: « L’Europa al principio del secolo è l’epicentro del mondo », « Le condizioni politiche sono distinte da contraddizioni », « La prima guerra mondiale é la conseguenza dei contrasti e delle contraddizioni »; non é più felice il testo vero e proprio, che registra frasi come questa: « particolarmente acre il pangermanesimo, che accreditava l’idea della superiorità della razza germanica » (p. 252). Ci domandiamo che cosa possa capirci un ragazzo di 13-14 anni.
Il senso generale del discorso é però molto chiaro. Il capitolo sul fascismo si apre con un grande ritratto di Mussolini, prosegue con una pagina del duce e con il programma 1921 del partito (contrappuntati da tre brevi brani sulle violenze fasciste, in corpo minore) e presenta una serie di illustrazioni e vignette ridicole per chi abbia già una capacità critica, non però per un ragazzo cui si offre un commento del seguente tenore: « [...] Essendo queste le condizioni interne del paese, é evidente che anche il prestigio internazionale dell’Italia ne soffriva. Il quadro non era
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dunque confortante. L’attesa di un governo forte, che ristabilisse l’ordine, non era ormai soltanto tacita. Di questo stato d’animo si avvalse Benito Mussolini, che il 23 marzo 1919 aveva fondato a Milano i fasci di combattimento, composti da reduci, dagli scontenti, da chiunque credesse che occorreva agire anche al di sopra e contro le leggi per ristabilire l’ordine [...] » (p. 283). Dopo questa esplicita esaltazione della violenza che infrange le leggi per motivi superiori, non meraviglierà il pieno consenso espresso per le realizzazioni del regime, dalla proibizione dello sciopero alla campagna demografica (inclusa esplicitamente tra le provvidenze che migliorarono le condizioni della vita della popolazione).
È inutile prolungare oltre il discorso. Ricordiamo ancora la predilezione che il volume ha per i documenti diplomatici (due pagine fitte di Patti lateranensi, con tre righe di commento anodino), anche se per il loro linguaggio e l’astratto formalismo non sembrano spesso capaci di raggiungere i ragazzi (hanno invece il merito di passare al di sopra dei più scottanti problemi quotidiani). Nessuna condanna dell’aggressione fascista all’Etiopia, esaltata in un discorso di Mussolini. Molte belle fotografie sulla seconda guerra mondiale, senza un commento critico di senso definito; sei righe sulla Resistenza, dopo una condanna generica della amara guerra civile (p. 312). Poche pagine sugli avvenimenti post-1945, ancora di documenti ufficiali e di fotografie non commentate; la storia italiana si ferma al 1946. Un discorso di Paolo VI come chiusura.
In definitiva, il testo si presenta del tutto inadeguato persino rispetto ai programmi ministeriali, non esprime una linea didattica ma adotta un linguaggio astruso ed una struttura interna dispersiva, che guida ad una visione superficiale della realtà, inspirata ad un conservatorismo cattolico filofascista assai penoso.
Donatella Gay
G abriele D e Rosa, Storia contemporanea, Bergamo, Minerva Italica, 1971, pp. 509, lire 2.950.
Si tratta del terzo volume di un manuale di storia per le scuole superiori appena apparso sul mercato, che dedica
circa 160 pagine su 470 di testo al periodo 1900-1945 e 35 pagine al quarto di secolo successivo. Il volume ha un’impostazione classica: capitoli espositivi senza letture, un normale apparato di cartine ed illustrazioni, una composizione tipografica regolare; un grosso neo è però costituito dai « consigli bibliografici » che seguono ogni capitolo, in cui sono riuniti alla rinfusa titoli di libri quanto mai diversi per argomento e valore, senza una riga di commento. Anche il discorso, sempre di alto livello, segue un’impostazione tradizionale, in cui inserisce aperture interessanti. Il De Rosa infatti mette in giusto rilievo la parte delle correnti moderate nelle vicende italiane e soprattutto insiste sul ruolo delle forze cattoliche, di cui segue l’evoluzione con molta cura e indiscussa competenza. In molti punti ne deriva un ridimensionamento dell’interpretazione tradizionale; per la prima guerra mondiale, ad esempio, invece di consenso entusiastico dei combattenti si parla della difficoltà che i soldati incontravano nell’adeguarsi alla propaganda ufficiale. E le vicende del secondo dopoguerra sono viste in modo assai più equilibrato che in altri manuali, in cui l’atlantismo è ancora nutrito di macchartismo.
La revisione dell’interpretazione liberale classica non giunge però fino al punto da metterne in dubbio l’impostazione generale. L’analisi delle cause della prima guerra mondiale, ad esempio, è ancora limitata ai fattori diplomatico-politici di vertice, il concetto di imperialismo non ricorre neppure marginalmente ed invece dei fattori economici sono sottolineati gli aspetti casuali e le responsabilità personali; « in sostanza, conclude il De Rosa, gli uomini di governo che condussero l’Europa alla guerra non riuscirono più a guidare e dominare quell’apparato e quel sistema che essi stessi avevano creato e da cui venivano ora travolti » (p. 302). Le conseguenze del conflitto tuttavia non furono irreparabili, poiché « la prima guerra mondiale non coinvolse le radici della civiltà europea, non intaccò il nobile ed alto retaggio della fede cristiana, del pensiero filosofico europeo moderno, da Kant ad Hegel a Kierkegaard » (p. 395). Non si spiegano perciò le origini del nazismo, cui pure sono addebitate tutte le responsabilità dello scatenamento del secondo conflitto mondiale, senza approfondimento dei problemi economici di fondo; nè del resto è adeguatamente sviluppata la
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sottolineatura del carattere ideologico della guerra mondiale. La preminenza riconosciuta ai fattori ideologici rimane sostanzialmente una dichiarazione di principio; il superamento dell’antisovietismo più cieco appare dovuto più al riconoscimento della ineluttabilità della coesistenza che ad uno sforzo di comprensione verso una realtà diversa. Caratteristico il commento del De Rosa alla guerra di Corea: « il prezzo pagato questa volta alla sfida ideologica fra mondo comunista e mondo occidentale fu altissimo: due milioni di morti con il corredo di devastazioni, distruzioni, malattie e miserie tra le infelici popolazioni coreane » (p. 440). Una valutazione analoga è data della guerra del Vietnam (p. 455).
Questi ultimi giudizi possono essere influenzati dal fatto che il De Rosa, seguendo in questo una delle più radicate tradizioni della scuola italiana, non ha alcun interesse per i continenti extraeuropei e tanto meno per la lotta contro il colonialismo. Anche la storia europea, del resto, ha una trattazione assai limitata: solo la Germania nazista ha diritto ad uno spazio adeguato, mentre le vicende degli altri stati europei tra le due guerre (o peggio ancora dopo il 1945) sono liquidate in poche righe. Ne risulta che i due capitoli che abbracciano il periodo dal 1945 al Vaticano II sono disorganici e superficiali, fitti di notizie non approfondite nè collegate in un quadro più vasto.
Il limite più grave del manuale, anche da un punto di vista didattico, rimane tuttavia l’ambiguità della posizione ideologica offerta ai giovani. Anche chi non accetta l’interpretazione liberale classica non può non riconoscerle una tensione ideale ed una coerenza interna che non si ritrova nel De Rosa, che ne sacrifica troppi punti oggi difficilmente accettabili per salvare invece la sostanza moderata di questa interpretazione. Abbiamo detto, a titolo d’esempio, che il manuale parla della difficoltà dei soldati della prima guerra mondiale ad accettare la propaganda ufficiale; non lo fa però riconoscendo a costoro una dignità di uomini ed un significato politico al loro rifiuto, ma riprendendo le parole di padre Gemelli (psicologo ufficiale di Cadorna): « Si tratta di uomini umili, che non hanno studiato, che non hanno pur certo una coscienza dei destini della patria [...].
Il soldato pensa a sè, alla sua famiglia, alla sua casa; non va oltre la linea dei suoi interessi » (p. 311). Il risultato è che l’interpretazione patriottica della prima guerra mondiale viene smussata, ma non sostituita; perde il valore ideale che poteva avere, per lasciare il posto ad una accettazione della realtà troppo difficile per l’iniziativa degli umili. Il giovane non si trova così dinanzi ad una interpretazione netta, che esiga da lui accettazione o rifiuto e ne stimoli le capacità critiche, ma viene condotto ad accettare l’ineluttabilità della storia, la necessità di una sua rassegnazione senza ribellioni ideologiche che non pagano. Il richiamo alle tradizioni dell’Occidente cristiano copre così un invito al moderatismo politico che è negativo perché implicito ed insinuante, tanto più pericoloso dato il livello del discorso del De Rosa.
Concludiamo segnalando due errori: non fu Conrad a comandare l’offensiva austro-tedesca di Caporetto (p. 324); e Orlando e Sonnino tornarono nel maggio 1919 ai lavori della conferenza di Parigi, che avevano abbandonato pochi giorni prima (p. 329).
Giorgio Rochat
Fascismo, antifascismo e resistenza
D iana Masera, Langa partigiana ’43-45,Parma, Guanda 1971, pp. XIII-315,L. 4.000.
Sono molte le ragioni che giustificano una ricostruzione complessiva del movimento di resistenza nelle Langhe: il predominio della piccola proprietà contadina, che fa della zona una sacca di sottosviluppo e di arretratezza politica; la confluenza e difficile coesistenza di garibaldini, autonomi e GL; il largo carattere di territorio partigiano assunto dalla zona dall’estate 1944 sino, si può dire, alla liberazione. Dinanzi ad una trama così complessa, l’A. ha scelto anzitutto la strada della ricostruzione minuta e attenta della episodica politico-militare. Essa scandisce i tempi di sviluppo del movimento, documenta gli inizi incerti, il lento costituirsi
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dei primi nuclei organici (nella tarda primavera del 1944, in analogia col vicino Astigiano), la fluidità dei piani operativi, la diversa strutturazione interna delle formazioni garibaldine e autonome (diversità che si riflette fortemente sui rapporti con le popolazioni dei comuni liberati), la presa e la perdita di Alba (la pagina certo più conosciuta e il momento centrale dei contrasti tra Mauri e i quadri comunisti). A corredo di questo profilo, la Masera reca una discreta mole di materiale documentario — dalle Carte Portonero alle Carte Fratino, quest’ultime relative alle vicende del presidio fascista di Alba — e, soprattutto, molte testimonianze raccolte tra i protagonisti: un lungo elenco di colpi di mano e di incontri clandestini non trova altro supporto che la memoria degli attori e dei testimoni. Motivo di cautela, senza dubbio, ma anche dimostrazione che molti episodi non sono altrimenti recuperabili e che qualsiasi tentativo di monografia locale non può prescindere da questa indagine sul terreno. Perciò il lavoro di ricostruzione dell’A. acquista significato anche sotto il profilo metodologico e sottolinea l’impegno profuso.
Al di là e al di sotto di questa trama viene poi articolandosi un discorso di più ampio respiro, una ricerca sugli interrogativi che la catena dei piccoli e grandi avvenimenti impone. Chi sono i promotori delle bande, quali le loro matrici politiche, come reagisce l’ambiente sociale, la struttura economica? Quale ruolo giocano i fascisti? Non occorre certo ripetere che il futuro della storiografia sulla resistenza è largamente ancorato alla capacità di affrontare simili problemi, di dar loro una risposta non occasionale, ma calata nella realtà storica dell’Italia contemporanea. Ma è altrettanto evidente che questo tipo di scelta provoca non tanto e non soltanto un infittirsi e un dilatarsi della materia, bensì una diversa dislocazione dell’osservatorio da cui lo studioso si pone. Esaminare infatti i rapporti tra guerriglia e, per usare un termine volutamente generico, popolazione civile può portare a risultati producenti solo a patto che sia puntualmente definita la natura di entrambi gli interlocutori, il terreno su cui nasce 1’incontro — o lo scontro. Ora, nel libro della Masera, mentre il profilo delle bande è sufficientemente nitido, l’ambiente sociale agisce solo di riflesso, per i contraccolpi che esso manifesta o mostra di avvertire di fronte all’estendersi della guerriglia. Giustamente l’A. sottolinea il
larghissimo predominio della piccola proprietà coltivatrice, la schiacciante influenza del clero, l’assenza di ogni radicata tradizione di lotte politiche e sociali, di ogni esperienza di autogoverno locale. Le Langhe stanno qui ad esemplificare un prototipo di mondo agricolo rimasto ai margini dello sviluppo del primo Novecento e ulteriormente incapsulato nel pròprio ritardo dalle strutture dello stato fascista. La lettura dei primi capitoli traduce chiaramente gli effetti di questo ritardo. Di fronte ai paesi della collina, scossi dalle conseguenze dell’economia di guerra (ammassi, calmieri etc.), sta il timido, velleitario, moralistico antifascismo di ristretti ambienti intellettuali del capoluogo: qualche professore di liceo, qualche vecchio esponente dei partiti prefascisti, egualmente incerti sulle strade da battere, sulle scelte da compiere (l’osservazione, si intende, non riguarda le singole persone, ma la loro capacità di agire come gruppo omogeneo). Da ciò anche il carattere politicamente non delineato delle prime bande. L’eccezione (alcuni operai liguri che organizzano il movimento nell’Alta Langa meridionale) conferma la staticità del quadro, l’immobilismo, si direbbe, delle sue linee di fondo. Ma, appunto, quali sono queste linee di fondo? In tutto il territorio, documenta la Masera. i nazifascisti agiranno di rimessa, quando il movimento comincerà a prendere corpo. Perciò nelle settimane che corrono dopo l’8 settembre le Langhe, come molte altre zone eccentriche rispetto alle città industriali e alle grandi vie di comunicazione, sono di fatto territorio franco, sottratte ad ogni autorità effettiva (ma il podestà di Alba non è stato rimosso né dal 25 luglio né dall’armistizio), ripiegate su se stesse. Prova ne sia che i primi nuclei partigiani, aggiunge la Masera, sono guardati con diffidenza, con sospetto, anche con timore. Solo più tardi, nella piena estate del ’44, il mondo contadino si aprirà a forme di limitata collaborazione. Su questa collaborazione torneremo fra noco; quel che importa qui osservare è che il vuoto dei primi mesi risulta dalla ricostruzione solo in negativo, vale a dire come assenza di quanto viene assunto ad elemento qualificante della situazione (l’intesa contadini-partigiani), destinato a pesare sull’immediato così come sulle prospettive del dopo liberazione. Eppure la motivazione dell’avvicinamento successivo non può fare a meno di questa premessa apparentemente sterile, almeno nel senso
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che essa entra come parte integrante delle varie ipotesi interpretative. Un primo fattore si ricava proprio dalla constatata assenza di autorità effettive. I partigiani, a poco a poco, prendono piede stabilmente nella zona e diventano un interlocutore comunque inevitabile. In secondo luogo, da giugno-luglio, i primi tentativi di regolamentare la vita economica (il canale — sottolinea opportunamente la Masera —- attraverso il quale si apre il dialogo tra produttori e comandi partigiani) invadono inevitabilmente il terreno amministrativo, finiscono per incidere sulla vita quotidiana dei paesi. Inoltre, il fenomeno dell’afflusso di nuove reclute al movimento, egualmente dovuto a maggiori capacità di proselitismo e all’evasione dai bandi nazifascisti, stabilisce nuovi, espliciti legami. Sono in gran parte, nota ancora la Masera, giovani del posto, costretti ora a operare una scelta che avevano prima potuto rimandare. Se a questi aggiungiamo gli elementi esterni, la congiuntura bellica, le aspettative di imminente liberazione, mi pare si possa ragionevolmente attribuire a quella collaborazione cui s’è accennato non tanto il carattere di sbocco di una precedente situazione di stallo, di frutto di una reciproca, parallela, per quanto ancora insufficiente, lievitazione politica, quanto piuttosto la veste di inevitabile coabitazione tra due entità che sino ad allora avevano potuto, non dirò ignorarsi, ma certo limitare i contatti a ben determinate occasioni. Una riprova di questa ipotesi la si può a mio avviso trovare nell’attività delle Giunte popolari comunali, volute dai garibaldini, mentre gli autonomi si limitarono a gestire in proprio le questioni annonarie e amministrative mediante le intendenze partigiane. Queste Giunte, infatti, salvo casi sporadici, altro non fanno che cercare di mettere ordine nella distribuzione delle risorse economiche e per garantire alle formazioni la sicurezza dei rifornimenti e per salvaguardare la popolazione da requisizioni indiscriminate. Si trattava di un passo necessario, e certo uno dei meriti dei garibaldini è stato quello di averlo compiuto con chiarezza e tenacia. Ma appena si esce dalla ordinaria amministrazione, sorge un problema che da solo potrebbe, se messo a fuoco, gettare non poca luce sulle strutture della vita locale. Al momento della vendemmia il contrasto tra i piccoli produttori e i commercianti che monopolizzano lo sfruttamento del prodotto esplode in forma abbastanza
aspra e le soluzioni cui si giunge (vedi l’esempio della GPC di Monforte, pp. 81- 83) rappresentano solo degli instabili compromessi. Cosi prende corpo uno degli elementi dialettici centrali dell’economia della zona e fa sorgere in chi legge il desiderio di una più approfondita analisi sul carattere del contrasto, sul suo atteggiarsi negli anni della guerra, sui riflessi che esso esercita sul tessuto sociale dei comuni interessati. Volendo riassumere in una osservazione complessiva la riserva che il libro suscita, diremmo che questo mondo contadino tanto spesso e a ragione chiamato in causa per spiegare l’evolversi della guerriglia partigiana resta alla fine contrassegnato da connotati incerti, sfocati. Quel che esso potrebbe dirci, e spiegarci, rimane tra le pieghe del discorso e viene così in primo piano, come unico asse interpretativo, la discriminante politica, l’alternativa fascismo-antifascismo, che proprio per la situazione di partenza della zona finisce per risultare estrinseca e come sovrapposta alla situazione. È un mondo contadino indifferenziato, da cui pare assente ogni contesa per la supremazia tra le diverse categorie (in questo senso una indagine sui podestà dei comuni della zona, così come sulla presenza dell’economia delle Langhe sul mercato sia ufficiale che libero appare indispensabile), insomma materia inerte. Del resto questa lacuna non manca di ripercuotersi sull’analisi delle formazioni. Il diverso atteggiarsi di garibaldini e autonomi di fronte alla popolazione, che é, in sostanza, il punto focale della diversa rispettiva, interpretazione dei compiti della resistenza, viene sì illustrato e chiarito, ma non verificato per i concreti effetti che determina. Quando Mauri si impadronisce di Alba e ricusa ogni modificazione dell’assetto politico-amministrativo esistente, egli compie in realtà una scelta che, per quanto è dato di capire, va incontro al desiderio di neutralità dei ceti più ricchi e più influenti della città. È un dato di fatto che la gravità della situazione militare non basta a spiegare e il cui significato sarebbe balzato ancor più evidente da una disamina dei rapporti tra autonomi e borghesia locale, così come, altrove, l’A. dà rilievo al tentativo dei garibaldini di farsi interpreti delle categorie agricole più indifese.
Va da sé che molte delle osservazioni svolte, pur prendendo spunto da questo volume, riflettono la condizione insoddisfacente degli studi sul 1943-45. Il libro
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della Masera rappresenta peraltro un contributo di innegabile utilità, sia perché mette ordine nella aggrovigliata catena dei fatti politici e militari, sia perché avverte spesso la necessità di un ampliamento dell’orizzonte. È proprio il limitato approfondimento di questa esigenza a far nascere le riserve cui ho accennato. Non a caso, la ricerca si chiude sulla constatazione di come i fermenti dei venti mesi di guerra partigiana siano andati rapidamente dispersi, senza che la vita locale ricevesse un reale impulso a risalire la china della propria degradazione sociale e politica. Di qui il discorso può riprendere ed allargarsi e il libro della Masera è un implicito invito a farlo.
Massimo Legnani
La resistenza di Roma. 1943-1944, a cura di A rmando R avaglioli e di G iorgio Ca pu to , Roma, Comitato romano per la celebrazione del XXV della resistenza, 1970, pp. 197, sip.
L’opera si aggiunge a tutte le altre pubblicazioni uscite per celebrare gli anniversari della resistenza. Si è creata al riguardo una vera e propria letteratura, di valore secondario e marginale, che merita tuttavia di essere analizzata per rintracciare alcune note positive, degne d’essere poste in rilievo. È vero infatti che in queste opere sono forse condensate tutte le false idee espresse sul nostro movimento resistenziale. È vero però anche che, proprio per il tono che deve caratterizzarle e il taglio particolare che devono avere, esse si prestano a costituire, quando siano costruite con cura e serietà, oltre che degli efficaci mezzi di divulgazione, degli utili strumenti di rapida consultazione per lo studioso. Infatti caratteristica principale di queste pubblicazioni sembra essere l’attenzione all’episodio, alla cronaca, alla figura del resistente, al documento o all’articolo relativi a fatti particolari della lotta partigiana. Con il passare del tempo, inoltre, ai primi tentativi di sintesi, propri degli anni successivi al ’45, che cadevano nella deprecabile esaltazione retorica — e per questo attualmente privi d’interesse —, sono succeduti testi che tendono a conseguire il duplice scopo di celebrare i valori della
resistenza e di fornire nello stesso tempo' al lettore e al ricercatore un pratico volume fitto di notizie ben documentate.
Tale ci sembra il risultato ottenuto dai curatori di questa pubblicazione sulla resistenza romana. E ci riferiamo in particolare agli scritti di Giorgio Caputo [La resistenza romana) ed Enzo Piscitelli (La stampa clandestina romana d’opposizione), nei quali gli autori si sono preoccupati di riprendere e riassumere in forma chiara tutti i temi già da loro trattati nelle opere precedenti, per dare un quadro accanto al saggio di Caputo, nel quale si è manifestato a Roma il fenomeno resistenziale. Certo si può criticare la struttura dell’opera, cui avrebbe giovato un numero più limitato di collaboratori e soprattutto una maggiore organicità nella distribuzione degli articoli. Ad esempio, accanto al saggio di Caputo, nel quale egli prende in esame non solo l’organizzazione del movimento resistenziale, ma anche la realtà nella quale esso si inserisce (Roma città aperta e l’occupazione tedesca; i rapporti fra gli occupanti, i fascisti e la popolazione; « la vita della città » ecc.), figurano articoli che rappresentano sostanzialmente una ripetizione piuttosto che un ampliamento degli stessi argomenti (v. ad esempio II fascismo repubblicano a Roma di Piscitelli).
Tuttavia, nel valutare la riuscita dell’iniziativa del comitato romano, non è tanto nel contenuto dei singoli pezzi che deve vedersi l’esito più apprezzabile del lavoro svolto, quanto nel fatto di avere in un unico volume raggruppati e proposti tutti i problemi — e le relative conclusioni — che sono stati finora trattati dalla storiografia sulla resistenza romana. Così, mentre giudichiamo decisamente negativo l’articolo di Alessandrini (Pio X II e la difesa di Roma), nel quale Ì’A. sembra ignorare tutto ciò che è stato scritto — anche nella pubblicazione in esame — sulla posizione ambigua del pontefice, riteniamo assai utili la bibliografia stesa da Caputo (benché il redattore non abbia citato gli articoli e i saggi apparsi sui giornali e sulle riviste), la cronologia, la raccolta dei bandi tedeschi e fascisti e gli elenchi dei componenti il CLN centrale e romano, la Giunta militare centrale e i GAP. L’opera infine è corredata di un’ampia documentazione fotografica.
Gaetano Grassi
Rassegna bibliografica 105
D omenico Pastina, Pagine sparse, raccolte dal fratello Nicola, con una prefazione di Fabrizio Canfora, Bari, ed. Adriatica, 1971, pp. 188, lire 2000.
Avvocato pugliese venuto all’antifasci- smo dopo una milizia giovanile cattolica, Domenico Pastina fu uno dei promotori della nascita del PdA nell’Italia meridionale ed uno dei protagonisti del biennio 1943-45. Insieme a Vincenzo Calace egli curò la pubblicazione del primo foglio azionista, L’Italia libera, ancora colpito dalla censura badogliana, e poi collaborò intensamente all’Italia del popolo, di cui fu direttore il fratello Nicola Pastina. Nella lotta politica del periodo, Domenico Pàstina portò un fiero repubblicanesimo ed un’intransigente volontà di rinnovamento; insieme a Fabrizio Canfora fu autore della mozione presentata da azionisti, socialisti e comunisti al Congresso del CLN di Bari, alla fine del gennaio 1944, mozione poi addolcita dalle destre.
Il testo della mozione e gli articoli del 1943-45, insieme a quelli posteriori alla Liberazione, sono ora raccolti in un’impeccabile edizione dal fratello Nicola, con una prefazione di Fabrizio Canfora assai preziosa di notizie sull’antifascismo e sul- l’azionismo pugliese.
G. Ro
Umberto D inelli, Rosso sulla laguna. La guerra parmigiana in Venezia e provincia, presentazione di Sandro Pertini, Udine, Del Bianco editore, 1970, pp. 171, lire 1.500.
Nell’avvertenza iniziale l’a. scrive che mancano studi specifici (salvo i lavori di Gavagnin, Gaddi e Tessari) che « possano servire come precedenti » per tracciare una storia della resistenza nella provincia di Venezia. Tale osservazione non ci trova consenzienti, perché riteniamo che un’opera come quella di Tessari sulle origini dell’organizzazione militare nel Veneto possa considerarsi, proprio per i limiti ad essa impliciti, un punto di partenza ideale per avviare un nuovo discorso sul fenomeno resistenziale nella regione, sia pur limitandolo in un primo momento alla provincia di Venezia.
Questa si presenta come un campo di indagine abbastanza complesso, data la struttura economico-sociale che la con
traddistingue: nel 1940, nota Dinelli a p. 146, « erano esigue le unità lavorative impegnate nel commercio e nelle nascenti imprese industriali di Porto Marghera. Il grosso della popolazione attiva della provincia era dedito all’agricoltura ». Cosicché lo studio sulla lotta di liberazione in questa zona deve distinguere fra la resistenza cittadina, nella quale predomina « la componente borghese dell’antifascismo » (p. 10), quella operaia (che ci sembra ancora tutta da scoprire nella sua effettiva portata) e, in modo rilevante, quella contadina dell’entroterra veneziano, che presenta sempre vivo il problema della reale partecipazione popolare al movimento clandestino.
Alla lamentata mancanza di studi specifici su Venezia l’a. scrive di aver supplito mediante un lavoro intenso di ricerca con la « raccolta paziente e faticosa delle notizie, dei fatti e dei documenti condotta presso una delle fonti più importanti, cioè i testimoni ed i protagonisti delle vicende, gli amici e i compagni di lotta dei caduti » (p. 5). In tal modo egli « spera di essere riuscito ad avvicinarsi alla comprensione, non sentimentale o emotiva, ma storica » ( ibid. ) della resistenza veneziana, superando ciò che & stato scritto finora sul tema e attingendo direttamente a nuove fonti documentarie e testimonianze orali.
Ciò non si rileva dalla lettura dell’opera. Ci sembra infatti che l’unico risultato degno di nota raggiunto da Dinelli sia di natura puramente commemorativa. Egli ricorda in pagine fitte di date e di nomi e in una cronaca che si sminuzza in mille particolari i caduti della resistenza. Il risultato, pur apprezzabile sul piano umano, finisce inevitabilmente per discostarsi da ciò che l’a. si propone all’inizio dell’opera, per cadere di frequente nell’episodico e nell’agiografico. Le notizie infatti si susseguono senza un ordine preciso: manca da parte dell’a. lo sforzo di inserirle nel discorso sulla funzione che svolse il movimento clandestino veneziano nel quadro della lotta di liberazione italiana e sulla rilevanza che esso ebbe — o meno — nel panorama regionale (ricerca questa di notevole interesse, data l’apparente posizione secondaria di Venezia rispetto a Padova e Vicenza, vale a dire a quelli che furono i centri della resistenza veneta, l’uno per quanto riguarda l’organizzazione politico-militare, l’altro il movimento operaio).
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I documenti infine sono scarsi (e non sempre inediti, come per esempio parte di quelli che compaiono nella rubrica finale del libro insieme con le fotografie) e consistono essenzialmente, secondo lo spirito dell’opera, in biglietti dal carcere e lettere dei caduti.
Gaetano Grassi
Ruggero Zangrandi, L’Italia tradita. 8settembre 1943, Milano, Mursia, 1971,pp. 518, lire 4.500.
Già apparsa nel 1967, questa ristampa ampliata, arricchita, aggiornata riprende il tema e la tesi cari a Zangrandi, quelli che lo hanno fatto conoscere così vigoroso inquisitore e polemista nei confronti della marea dei memorialisti, militari soprattutto e logorroici, che in questi anni hanno continuato la loro opera, univoca e difensiva, di seppellimento e intorbi- dimento della verità sul drammatico capitolo dell’8 settembre.
Zangrandi ha in sostanza ripreso le fila di 1943: 25 luglio-8 settembre, si è riagganciato a quel discorso per portare nuovi documenti, nuove comprove alla sua tesi che fra Badoglio, stato maggiore italiano, comando supremo tedesco in Italia e Kesselring venne concordata la fuga del re e dei vari generali, capo del governo in testa, in cambio della non promulgazione dell’ordine di resistenza alle forze armate dopo l’armistizio. Così l’esercito cadde, si dissolse, venne fatto prigioniero con il bottino delle armi e le forze armate tedesche ebbero mano libera sul territorio italiano, se si escludono la piccola fetta del sud e la Sicilia già cadute. A Badoglio premeva la strada aperta per la fuga sua e del re, tramutatasi in una fuga di fantasmi tragicomici, impauriti e infreddoliti, da Roma ad Ortona.
In questa Italia tradita, Zangrandi rinfocola la polemica, favorito dal fatto che fra l’edizione feltrinelliana e questa di Mursia del medesimo libro, si era inserito quel processo di Varese intentatogli da un inquisitore dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, che si concluse con un nulla di fatto, cioè con il ritiro della querela, ma che ottenne un obiettivo frustrato per più di vent’anni, quello di farci finalmente conoscere le carte della commissione di
inchiesta governativa sulla cosiddetta mancata difesa di Roma, l’organismo presieduto da Mario Palermo, sottosegretario alla guerra, comunista, che, stranamente, e ancor oggi inspiegabilmente, accettò al suo fianco i generali Ago e Amantea, già dell’esercito di Salò comandato da Oraziani e agli ordini dei comandi nazisti. In questi documenti, venuti alla luce solo perché un tribunale ingiunse che dovessero essere tolti dagli archivi, Zangrandi ha creduto di scoprire nuove riprove e addenda alla propria tesi.
Tuttavia, come nel caso del volume precedente, l’autore non può che continuare la sua serratissima indagine deduttiva, procedendo alla ricerca di minimi indizi che, collegati, portano qualche conferma alla tesi centrale, ma senza decretare inequivocabilmente la fondatezza della tesi stessa sul piano storico, senza mai mettere nelle mani del lettore l’elemento storico insospettabile che quella fuga e quel dissolvimento furono il frutto effettivo di una garanzia e di una trattativa intercorsa allora e, a quanto si sostiene, ad Acqui, fra Ambrosio, durante quel suo misterioso viaggio della vigilia della proclamazione dell’armistizio, e un emissario di Kesselring e non, invece, la risultante di due comportamenti differenti e contrari che per una serie di coincidenze (ma forse furono davvero troppe le casualità) corsero paralleli fino alla fine. Un parallelismo che non si riscontrò invece nel destino e nella sorte dell’esercito italiano in generale e dei singoli soldati in particolare, che finirono per pagare ai tedeschi il conto della fuga dei personaggi reali e del loro grottesco seguito.
La carica polemica di Zangrandi ha tratto nuove esche dalla lettura dei documenti della commissione sulla mancata difesa di Roma e le deduzioni o intuizioni di prima sono venute via via caricandosi di nuovi elementi, di nuovi sospetti, di nuovi probanti capi di accusa, non solo sui protagonisti del tradimento dell’8 settembre, ma anche sulle stranezze di quella commissione d’inchiesta. Si vedano, per esempio, tutti i rilievi che Zangrandi muove al comportamento dell’allora sottosegretario Palermo non soltanto in merito alla condotta della commissione da lui presieduta, ma anche per tutto quello che ne seguì: i giudizi contenuti nelle lettere che accompagnano la relazione della commissione, che fan
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no a pugni con i risultati, dal momento che giustamente Zangrandi definisce « mistificatorie » tali conclusioni. Zangrandi afferma che la commissione, come risulta dalle lettere che Palermo fornì all’Unità solo alla vigilia della pubblicazione dei documenti della commissione, comprese benissimo che le responsabilità dovevano quantomeno allargarsi ad Ambrosio e a Badoglio, ma alla fine chiese poi soltanto l’incriminazione di Carboni e Roatta. E qui, intorno a questo nodo, si sono poi andate incrociando molte altre responsabilità e complicità che hanno portato alla coltre di silenzio, determinata da scelte politiche di vertice, che esclusero automaticamente i responsabili dalla schiera di quelli che avrebbero dovuto essere perseguiti insieme a tanti altri.
L’opera di difesa, con tutta una rete di complicità, di questi responsabili, la ragnatela costituita dalle corde di salvataggio lanciate da troppe parti finì per inviluppare anche coloro che erano rimasti fuori dalla tela delle responsabilità dello sfacelo dell’8 settembre. È questo, in sostanza, il sottofondo del discorso di Zangrandi, un discorso davanti al quale troppi, persino amici, non hanno saputo nascondere un moto di fastidio, davanti all’argomentazione serrata sulle responsabilità che rappresenta la cattiva coscienza di una.serie di scelte e di azioni politiche.
Zangrandi per queste tesi, per questi libri è stato al centro di polemiche, attacchi, diatribe. Egli d’altra parte non ha risparmiato nessuno, nemmeno quando a fare goffi tentativi di difesa di squalificati personaggi-attori dell’8 settembre sono stati storici comunisti.
Ma ora, soprattutto dopo la sua drammatica scomparsa, è forse venuto il momento di una riflessione d’insieme sull’opera complessiva di Zangrandi e non più l’esame del singolo lavoro, del libro a se stante.
Tutta la serie dei libri di Zangrandi racchiude una violenta carica polemica che è la vitalità stessa di questi scritti. E tuttavia proprio questa sanguigna combattività rischia di togliere a questi lavori il carattere di opera storica, rischia di dar loro un « taglio » contingente.
Da qui, ci sembra, la necessità di un ripensamento critico e prospettico sui lavori di Zangrandi per sottrarli alle tentazioni di coloro che, partendo da elementi marginali, cercano di costruire su di essi un discorso limitativo e sostan
zialmente negativo, ma strettamente collegato a inespressi atteggiamenti difensivi i quali sono già stati oggetto implicito di condanna da parte dell’autore.
In secondo luogo ci sembra che, così come sia da valutare in senso prospettico il rapporto fra il discorso storico oggettivo e l’elemento polemico soggettivo, sia anche da prendere in esame la funzione che ha sempre avuto in questi libri la carica provocatoria, l’esasperazione, se così si può chiamare, di alcuni temi, rintracciabili, questi, non solo nelle ricerche sulle vicende dei « quarantacinque giorni », ma anche nei lavori precedenti come il Lungo viaggio.
Adolfo Scalpelli
Salvemini, Una vita per la libertà. Testi-monienze e documenti, Roma, Movimento Salvemini, 1971, pp. 126, lire 1,000.
In questa bella pubblicazione sono raccolti tutti i documenti che hanno costituito il materiale della mostra organizzata da un gruppo di amici nel corso degli anni 1969-1970-1971 in varie città d’Italia per celebrare la memoria di Gaetano Salvemini nel centenario della nascita; materiale prezioso che testimonia, attraverso le immagini, la vita di uno degli uomini che più onorarono la classe intellettuale del nostro paese; una lunga pagina, certo la più drammatica, della storia dell’Italia moderna.
L’interessantissima parte fotografica e documentaria che illustra la vita del Salvemini dall’adolescenza fino alla morte, è preceduta da una presentazione degli autori della pubblicazione, nello stesso tempo organizzatori della mostra, Leone Bortone, Lamberto Mercuri, Enzo Tagliacoz- zo, che realizzarono il desiderio di Ernesto Rossi. La presentazione reca una pagina originale dello storico, che, richiesto nel 1942 di un suo cenno biografico, tracciò in brevi righe tutto l’arco della sua vita avventurosa fino alla chiamata alla cattedra di storia della civiltà italiana nell’Università di Harvard nel 1934. Nonostante lo scritto taccia dell’opera che il Salvemini svolse successivamente per combattere il fascismo in America e per far conoscere agli americani le vere condizioni dell’Italia, pure bastano quei rapidi cenni autobiografici a caratterizzare
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l’uomo Salvemini, che tanto influsso esercitò su quella generazione di giovani che, interventisti e combattenti valorosi nella prima guerra mondiale, testimoniarono poi nella lotta indefessa contro il fascismo la verità di quegli ideali di libertà e di giustizia che li avevano tratti consapevoli a combattere nelle trincee del Carso, accanto al maestro volontario a quarantadue anni sul fronte di guerra.
« Anticonformista e, in politica, mazziniano ed antimachiavellico, era convinto che non bisogna mai arrendersi ai fatti compiuti: ”il libro del destino è sempre aperto a chi voglia scrivervi la sua parola. Chi non vi scrive nulla non vi trova nulla. Chi si fa avanti a riempirne le pagine le riempe in proporzione della propria volontà”. Così terminava un suo opuscolo clandestino in cui incitava gli italiani a riconquistare la libertà perduta » (p. 7).
In occasione dell’apertura della mostra di Torino, Norberto Bobbio pronunciò un discorso che qui è riferito per intero, come una delle più valide testimonianze di quello che il Salvemini rappresentò come maestro^ ai giovani nella scienza e nella vita. Dall’acuta analisi di Norberto Bobbio esce una visione complessa di tutti gli aspetti della personalità del Salvemini: pessimista ed entusiasta, combattente senza illusioni e devoto a superiori incorruttibili ideali, ribelle a tutti i conformismi a costo anche di criticare aspramente antichi compagni di fede, « eretico di tutte le ortodossie », come lo chiama il Bobbio.
Naturalmente, una pubblicazione di tal genere non può che mettere in luce tutti i lati positivi del carattere di Gaetano Salvemini, tralasciando certi aspetti negativi come quella sua esasperata ed orgogliosa passionalità che gli fece pronunciare spesso giudizi aspri ed ingiusti verso uomini di alto e disinteressato sentire, come Benedetto Croce che, in patria, nei lunghi oscuri anni del dispotismo, pur attraverso umani errori ed incertezze, sempre onestamente e tormentosamente sofferte, assolse il magistero dell’uomo libero, alla cui parola attinsero i molti la speranza della libertà che non può morire.
L’essere stato lontano dalla patria per tanti anni rese estraneo il Salvemini al dramma quotidiano delle generazioni vissute « sotto la scure del fascismo », quel dramma che egli, da uomo retto quale
fu, riconobbe chiudendo il libro delle sue memorie: « Chi in Italia per anni non cedè mai, deve essere ricordato con ri- conoscenza e ammirazione maggiore di chi emigrò » (Memorie di un fuoruscito,. p. 179).
Bianca Ceva
Sim o n a C o la r iz i, Dopoguerra e fascismoin Duglia (1919-1926), Bari, Laterza 1971, pp. VIII-454, lire 6.000.
L’Italia settentrionale ha sinora costituito il fondale d’obbligo delle indagini sul sorgere e 1’affermarsi del movimento fascista. Più l’attenzione si spinge alle radici economico-sociali, oltre che politiche, della crisi risolutiva dello stato liberale, più la situazione delle campagne padane — e, in minor misura, dei grandi centri industriali — sembra condizionare ed egemonizzare il profilo complessivo. Nè tale prospettiva pare destinata a mutare, soprattutto se saranno portate avanti con sufficiente sistematicità le analisi della recessione economica del 1920-21, tra l’occupazione delle fabbriche e il dilagare dello squadrismo fascista. Indicazioni assai utili diede ad esempio, alcuni anni fa, il Catalano nel suo Potere economico e fascismo-, è augurabile che gli approfondimenti di questa coordinata essenziale per la storia dell’intero dopoguerra non tardino e che contribuiscano al superamento delle frettolose contrapposizioni della storiografia angustamente politica, rinserrata nelle dispute sul « rivolu- zionismo » di Mussolini, sulle colpe del massimalismo o sul filofascismo di Gio- litti. L’identificazione dell’epicentro padano col quadro nazionale può portare tuttavia a distorsioni e mutilazioni gravi. Perciò la monografia che la Colarizi dedica alle Puglie colma un vuoto e dilata opportunamente l’ambito del discorso.
Come è noto, le Puglie rappresentano, rispetto al resto del Mezzogiorno, un caso largamente atipico. Non occorre attendere l’installarsi del fascismo al potere perchè la vecchia classe politica locale si trasferisca compatta sul carro del vincitore. E, soprattutto, l’iniziativa fascista a livello squadristico non viene introdotta dall’esterno, ma scaturisce dal vivo della struttura sociale. Lo scontro frontale tra la massa bracciantile guidata dal partito socialista e gli agrari fomentatori
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•e finanziatori delle squadre è precoce e violento. Ha la sua premessa nella aggressiva iniziativa sindacale che dilaga nel corso del 1919 e svolgimento nella reazione padronale, che assume presto forme di assalto armato ai centri nevralgici del movimento operaio, camere del lavoro, amministrazioni comunali, sedi del partito. Anzi, questa reazione tende a coagularsi in un esteso fronte agrario già nella primavera del 1920. Tra maggio e giugno assistiamo al collaudo della nuova strategia padronale di intervento armato (pp. 66-71), prima rivolta contro le richieste contadine per il rinnovo dei concordati, poi contro i centri stessi dell’organizzazione sidacale, mentre si moltiplicano i fasci d’ordine e le associazioni agrarie di resistenza. È sul tronco di questi organismi che si innesteranno di lì a poco i Fasci di combattimento (e la dicotomia tra fasci cittadini e delle campagne conserva tutto il suo significato), costantemente oscillanti tra la funzione strumentale di braccio secolare della reazione agraria e l’ambizione confusa di fare del fascismo un partito nuovo, disancorato dalle strutture clientelati della vita politica locale.
Ci troviamo pertanto di fronte allo schema classico del passaggio del fascismo a movimento di massa e l’A. lo ribadisce con chiarezza in più punti: « la diretta filiazione dei fasci di combattimento — leggiamo alle pp. 130-131 — dai vari blocchi organizzati dalla borghesia agraria prima e in occasione dei comizi elettorali del ’20, non lascia dubbi sulla natura classista delle prime formazioni squadriste apparse in Puglia in questo periodo. Come nell’Emilia Romagna, il movimento fascista si afferma nei centri agricoli della Puglia quale strumento diretto della reazione dei proprietari contro la massa bracciantile socialista, e solo dal vigore e dai successi conseguiti dai fascisti nelle campagne prenderà vita e acquisterà potenza il fascismo cittadino che, dal punto di vista strettamente cronologico, può vantare un’origine più remota ». Sotto il profilo dei rapporti di forza sviluppatisi nel dopoguerra le elezioni del 1921 rappresentano pertanto, nelle Puglie, la sanzione di un processo già compiuto, circostanza che porta una ulteriore conferma al fatto che l’avvento di Mussolini al governo si colloca in una fase in cui il movimento operaio è già stato piegato e l’acme della crisi eco
nomica da tempo superata. Non deve trarre in inganno la circostanza che i socialisti mantengano quasi integra la propria consistenza elettorale: come in molte altre parti del paese, la conferma della rappresentanza parlamentare non nasconde lo svuotamento del partito e dell’organizzazione di classe, mentre il ricambio del vecchio ceto dirigente liberale mediante l’immissione di elementi fascisti si accelera. Ciò è visibile in modo nettissimo attraverso la situazione pugliese e introduce nuovi suggerimenti nella stessa periodizzazione delle lotte, specialmente sull’evolversi dell’atteggiamento dei liberali di fronte al fenomeno fascista.
La ricostruzione degli anni 1923-25 porta semmai alla luce — anche attraverso le tortuose vicende del dissidenti- smo fascista — le forme di integrazione dei gruppi di potere pugliesi nel nuovo assetto nazionale. L’illustrazione che ne fa I’a. è dettagliata e puntuale e sotto- linea il carattere per nulla meccanico di questa fase di assestamento. L’osservazione tocca non tanto la saldatura di interessi, a livello di egemonia locale (il quadro municipale viene richiamato sin dall’inizio del libro come elemento chiave per intendere la dinamica clientelare della lotta politica nella regione) tra liberali fascisti (le vicende, ad esempio, dei seguaci di Salandra sono largamente indicative), quanto la ricerca, da parte del fascismo, di un suo proprio stabile equilibrio. Così i tentativi di trapiantare in Puglia i « sindacati nazionali » (pp. 283 e segg.) richiamano ancora una volta le origini del movimento squadrista che, in quanto guardia armata degli agrari, non cerca di sostituire alla organizzazione socialista una propria struttura sindacale. L’opposizione padronale ad ammettere, sia pure come semplici intermediari e nell’ambito della proclamata collaborazione di classe, nuovi interlocutori nel rapporto con le masse contadine è durissima e condiziona incisivamente l’intera situazione regionale.
Il filo conduttore della esposizione risulta pertanto sufficientemente unitario, e si arricchisce via via di indicazioni relative alle forze che fanno, in certo modo, da contorno al nucleo principale. Sia le pagine dedicate alla Associazione nazionale combattenti che quelle sui popolari completano, e non solo sotto il profilo informativo, la trama della lotta politica. Così come, su un altro livello,
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non mancano di interesse gli accenni relativi al sindacalismo di Di Vittorio e al suo diverso atteggiarsi prima di approdare al partito comunista. Tuttavia — e ciò vale anche in rapporto a quanto si diceva all’inizio •—- l’ambito della ricostruzione rimane saldamente ancorato ai termini della storia politica. Le stesse fonti utilizzate, e composte in larga misura dai carteggi delle autorità, sospingono il discorso in direzioni ben precise, documentando analiticamente la lunga catena delle agitazioni contadine e delle violenze squadriste, ma lasciando in ombra la struttura economico-sociale da cui questo scontro scaturisce. Gli accenni iniziali (pp. 5-10) al regime fondiario e alle condizioni produttive dell’agricoltura pugliese non vengono poi ripresi e approfonditi, nè la dinamica dello scontro di classe posta in relazione col decorso economico, locale e nazionale, degli anni centrali del dopoguerra. Non v’è, in altri termini, adeguata compensazione tra la descrizione dei fenomeni e l’identificazione delle loro cause di fondo, col conseguente appiattimento delle diverse, successive situazioni e un certo carattere ripetitivo e cronachistico dell’esposizione.
Massimo Legnani
Franca D el P ozzo, Alle origini del PCI.Le organizzazioni marchigiane 1919-23,Urbino, Argalìa, 1971, pp. 214.
Questo testo è senza dubbio un valido contributo alla riscoperta della storia del movimento operaio e socialista nelle Marche, sia per la ricchezza di dati e notizie, sia per la chiarezza della ricostruzione di quei difficili e intricati momenti. L’indagine della Del Pozzo prende le mosse dall’immediato dopoguerra, dalla profonda crisi che la guerra ha prodotto anche in questa regione, distruggendo attività industriali, legami commerciali e creando nel tessuto sociale profonde fratture: « In Ancona, al porto, a causa degli interrotti contatti con l’opposta sponda dalmata, il traffico era quasi nullo. Le officine meccaniche, molte delle quali erano fiorenti prima della guerra, requisite militarmente e trasformate per rifornimenti bellici, erano deserte o quasi [...]; il cantiere non poteva riprendere il lavoro perché era stato
gravemente battuto dalle artiglierie nemiche, data la sua aperta posizione ».
Nelle altre province le condizioni economiche non erano sicuramente migliori: ovunque difficoltà notevoli e grandi masse di disoccupati. La Del Pozzo presenta con vivacità e precisione il contesto sociale e politico in cui ben presto entreranno ad operare queste larghe masse di lavoratori. Tutto il T9 è, infatti, un susseguirsi di manifestazioni, di agitazioni, di scioperi, un diffondersi e rafforzarsi di leghe, unioni, associazioni; ad esempio: a Pesaro nasce l’unione metallurgici, a Urbino quella dei maestri, a Fossom- brone si organizzano le setaiole, ed entrano subito in sciopero; poi è la volta degli edili, dei minatori che sono stati, in passato, sempre l’avanguardia delle lotte. A questo imponente, in parte spontaneo, movimento segue un largo sviluppo organizzativo del PSI. Il partito è ormai presente ovunque, non c’è località che non abbia la sua sezione; esso dirige strati notevoli di operai, artigiani, contadini, intellettuali, che sono pronti a seguirlo su ogni terreno come dimostreranno, e le grandi manifestazioni, pacifiche e non, contro il caro-viveri, e i risultati elettorali del T9 che dettero ai socialisti nel solo collegio Ancona-Pesaro ben 35.000 voti e quattro deputati (i popolari che erano il secondo partito ebbero 19.000 voti). I temi principali di questa mobilitazione — come viene documentato attraverso una attenta lettura dei giornali II Progresso di Pesaro, Bandiera rossa di Ancona — sono la guerra,, le sue conseguenze pagate soprattutto dai ceti popolari, e le responsabilità della borghesia. Il ricordo dei momenti vittoriosi del proletariato fungeva da modello, da stimolo, prima fra tutti la rivoluzione d’ottobre, ma anche la Comune, che dopo quasi cinquant’anni era più viva che mai.
Ma, giustamente, scrive la Del Pozzo: « Il PSI si trova in gran parte impreparato di fronte a questo vasto profondo movimento. È chiaro ormai che il socialismo vecchia maniera (anarco-sindacali- smo, socialdemocrazia) non è più al passo coi tempi; nel socialismo massimalista, grande è l’ansia dell’azione, della rottura rivoluzionaria. È il nuovo socialismo, forte sui giovani, che sente il richiamo degli spartachisti Rosa Luxemburg e Karl Lieb- knecht e si rifà a Lenin contro il riformismo. La scelta indirizzata genericamen
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te verso l’esperienza leninista non era però un superamento dei limiti del massimalismo ».
Il 1920 segna una discriminante nelle vicende del socialismo marchigiano. La « rivolta di Ancona » del giugno del ’20, che con l’occupazione delle fabbriche fu una dei vertici della crisi sociale e politica del dopoguerra, fa precipitare i contrasti che già erano presenti in parecchie sezioni. « Gli avvenimenti del 1920 non furono, comunque, solo frutto dell’anarchismo, ma anche la prova decisiva del movimento operaio anconetano e marchigiano prima del fascismo; ad essa fece seguito quella revisione e quella crisi del partito socialista che portarono alla formazione del PCd’I ». Anche qui, sono i giovani che introducono le prime note critiche; già da tempo, infatti, avevano iniziato una forte polemica con i parlamentari socialisti e con il partito che ora si accingeva a conquistare le amministrazioni comunali e provinciali; al congresso regionale di Jesi, poi, avevano deliberato di « prendere accordi per la costituzione del partito comunista italiano »; e nella polemica giornalistica, in contrapposizione ai comuni, indicavano nei soviet e nei consigli operai i nuovi strumenti dell’azione rivoluzionaria. Ben presto il dibattito si estende e trova consensi anche tra le file dei dirigenti periferici, soprattutto in quelle sezioni rurali del Pesarese, che proprio in questa estate del ’20 sono impegnate in un duro e lunghissimo scontro per la modificazione dei patti agrari.
Superata brillantemente la prova elettorale, il dibattito interno riprende con forza in vista del congresso nazionale. Nel Pesarese, dove il dibattito è più serrato (durò circa un mese), emergono questi rapporti di forza: 1) comunisti unitari, in grande maggioranza; 2) centristi; 3) comunisti puri, forti in alcune importanti zone rurali.
Subito dopo Livorno, scrive la Del Pozzo, il partito comunista è presente in quasi tutta la regione; ma il lavoro di organizzazione presenta notevoli difficoltà per: « le deficienze di quadri (quasi tutti i dirigenti intellettuali erano rimasti nel PSI); la lunga stasi socialdemocratica, la impreparazione ad un lavoro organizzato, aggravata dalla mancanza di una buona preparazione ideologica dei pochi quadri disponibili; la pressione dei fascisti [...]; la mancanza di mezzi finanziari ». Tutta
via non mancano buoni risultati, i punti di forza sono il Pesarese e l’Urbinate dove il gruppo vicino alle posizioni di Graziadei-Marabini porta al partito un considerevole numero di iscritti. Nell’aprile 1921 (primo congresso regionale) questo è il bilancio della scissione: Ancona, 21 sezioni, 522 iscritti; Ascoli P.-Mace- rata, 92 iscritti; Pesaro-Urbino, 53 sezioni, 1200 iscritti. La base sociale è per lo più composta da contadini poveri, mezzadri, braccianti, da operai e artigiani della città, da alcuni forti nuclei di minatori. L’omogeneizzazione, la saldatura di queste forze sarà uno dei primi e principali obiettivi; scrive Enzo Santarelli nella prefazione al volume: « Alla vigilia della fondazione del partito si era sviluppato, nella più compatta e avanzata sinistra pesarese, un certo dibattito sulle possibilità concrete di trasfondere nell’ambiente regionale l’esperienza dei consigli. Ma come dimostrano tutti i documenti socialisti e comunisti delle organizzazioni marchigiane, la realtà era qui essenzialmente un’altra [...]: si trattava di battere una via aspra e nello stesso tempo originale — e questo, bene o male, fu fatto.
Il rapporto fra una classe operaia ricca di ideali, ma scarsamente centralizzata e quindi esigua di forze, e una campagna estremamente diffusa e consistente, insieme con la presenza di molte strutture artigianali e intermedie: questo era il dato principale, dominante, parte consapevole e parte inconsapevole, che aveva segnato le origini del partito comunista in questa ancora tipica regione contadina,, e che continuerà a contrassegnare il cammino degli anni successivi ».
Anche su questo terreno dell’analisi delle forze sociali che stanno alla base della nuova formazione, la ricerca della Del Pozzo è precisa e penetrante; anzi proprio per questo, il libro merita di essere annoverato tra la produzione più interessante di questa annata sulla storia del PCI.
Paolo Giannotti
II guerra mondiale
R. De Belot, La guerra aeronavale nel Mediterraneo 1939-1945, Milano, Longanesi, 1971, pp. 339, L. 3.200.
112 Rassegna bibliografica
Prima traduzione italiana di un volume che al suo apparire, nel 1949, fornì una buona sintesi delle informazioni e degli studi sulla guerra nel Mediterraneo. Il suo valore è oggi assai minore, tuttavia si tratta pur sempre di un’opera di buon livello, assai favorevole ai comandi italiani e acuta nell’investigazione delle connessioni delle varie forme della guerra moderna.
G. Ro.
Ladislas Farago, Il sigillo spezzato. Lavera storia di Pearl Harbor, Milano,Garzanti, 1971, pp. 363, L. 3.800.
Il libro traccia una dettagliata ed ampia storia dei servizi di decrittazione usati dagli americani dalla fine della prima guerra mondiale all’inizio della seconda per l’intercettazione e messa in chiaro della corrispondenza telegrafica e radiofonica diplomatica e militare dei loro potenziali nemici. È così seguito con ricchezza di particolari lo sviluppo dei mezzi tecnici e degli organismi addetti al loro impiego, tra l’incomprensione e la gelosia delle diverse amministrazioni; ne risultano, incidentalmente, interessanti notazioni sull’orientamento dei comandi americani: non è certo un caso se gli sforzi di questi servizi furono sempre concentrati contro i giapponesi. Il volume dedica particolare cura alla ricostruzione degli avvenimenti che precedettero la sorpresa di Pearl Harbor; è infatti degno di nota che i servizi americani, che erano riusciti ad avere la chiave di quasi tutti i codici usati dai giapponesi ed erano quindi perfettamente informati delle loro mosse attraverso la decifrazione della corrispondenza tra Tokio e l’ambasciata a Washington e tra i vari comandi, non riuscissero a dare il giusto valore ai telegrammi intercettati nel novembre-dicembre 1941 da cui traspariva chiaramente ravvicinarsi dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. Seguendo le chiare pagine del Farago, la causa di questa inefficienza è da ricercarsi nella completa sottovalutazione della situazione, che permetteva la sopravvivenza di un’organizzazione dei servizi di decrittazione minata da gelosie interne, conflitti di competenza, incomprensione delle possibilità offerte da mezzi tecnici. Si giunse così all’assurdo di tenere celato al presidente Roosevelt le intercettazioni effet
tuate dai militari, che pure le consideravano più utili per l’azione diplomatica che per la preparazione dei piani bellici, come dimostra appunto Pearl Harbor.
Le lettura dell’opera si raccomanda non solo per il contributo che porta alla nostra conoscenza della guerra del Pacifico ed alla politica americana, ma anche per la presentazione concreta ed ogni giorno più attuale delle possibilità tecniche poste a disposizione del progresso scientifico e delle difficoltà che sorgono per un corretto controllo politico anche di questo settore della macchina decisionale bu- rocratico-militare.
Giorgio Rochat
Roger Manvell-Heinrich Frankel, Canaris, Milano, Longanesi, 1971, pp.382, lire 3.200.
La modificazione del titolo originale — The Canaris Conspiracy — operata dall’editore italiano, porta con sé l’imprescindibile necessità di rifarsi, nel corso della lettura, al titolo dell’edizione inglese, pena il rischio di trovarsi sempre di fronte ad un argomento che non è quello promesso dal titolo italiano. La spiegazione della modificazione va forse cercata nelle fortunate edizioni di questi autori ormai noti come biografi dei personaggi del mondo nazista tedesco — Gobbels, Goring, Himmler — forse più che per le ricostruzioni storiche di II complotto di luglio o La soluzione finale. Smentendo il titolo italiano, questo libro è tanto, e nello stesso tempo tanto poco, biografia di Canaris quanto può esserlo di Beck, di Gordeler, di Dohnanyi, di Bohnoffer, di Oster. Non è certo la biografia di Canaris quanto la narrazione del ruolo, diciamo subito modesto, che ha avuto, nell’opposizione a Hitler, questo gruppo, mentre al contrario, proprio quello che manca è, semmai, una netta caratterizzazione di Canaris. Insomma, gli autori ci ripropongono qui il più consueto e, diremmo, logoro discorso sulla « resistenza » tedesca, che ha mostrato la corda persino in libri sapientemente costruiti come quello di Gerhard Ritter, I cospiratori del 20 luglio 1944 e ancor più in quello di Hans Rothfels, L’opposizione tedesca al nazismo. Invece di esaminare, alla luce delle componenti ideali e ideologiche, la reale incidenza del grup
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po in una battaglia antinazista, ancora una volta si ripiega su una ricostruzione che tutto sommato resta nella categoria dell’etica e non della politica, per scendere, come in questo ultimo lavoro, in quella della biografia di una serie di personaggi attraverso i quali ricostruire una « storia ».
Il personaggio Canaris è senza dubbio interessante e può provocare la curiosità del biografo, ma il capo del- l’Abwehr seppe tuttavia lavorare tanto minuziosamente e sapientemente dietro le quinte della sua carica, da lasciare poche tracce dietro di sè, al punto da creare grosse difficoltà anche per ricercatori minuziosi come Manvell e Frànkel. Perchè, in realtà, Canaris più che un tessitore della cospirazione, appare come un assistente spirituale che si limita a garantire, silenzioso, paterno e comprensivo, la sua alta protezione ai cospiratori. Sotto il regime nazista, già questo, naturalmente, è un fatto di tradimento, tanto più grave, quanto più il personaggio è importante. E tuttavia la partecipazione personale, attiva, concreta di Canaris alla cospirazione per quanto la si rivolti, la si sottoponga a ricerche e a valutazioni storiche o politiche, si riduce a poca cosa. E qui diventa pretesto, tutto sommato, per riproporre il discorso d’insieme sulla « resistenza » tedesca, sul quale vale tuttavia la pena di soffermarsi un poco, forse proprio partendo dal personaggio Canaris.
Giustamente dice uno dei cospiratori, figlio a sua volta di un cospiratore finito suicida nei giorni della vendetta di Hitler, Wolf Schrader: « Penso che ogni sua[di Canaris] attività nella resistenza fosse dovuta all’influenza che esercitava Oster » (p. 295). Ma ecco, secondo M. e F., perchè Oster era antinazista: « Oster era stato urtato fin dall’inizio dalla spietata violenza del regime e era convinto che l’esercito avrebbe finito per esserne contaminato, se avessero continuato ad esistere le SS e le camicie brune » p. 56). Ma Canaris fece parte del complotto e della cospirazione non perché si sentiva nemico principalmente dell’ideologia nazista, ma perchè, fatto comune a molti uomini della destra tedesca non nazista, il regime esercitava una spietata quanto pubblica violenza, non rispettava le regole del gioco, e soprattutto, portando la Germania alla guerra e alla sconfitta, avrebbe finito col macchiare l’esercito
stesso, lo stato maggiore di tradizioni prussiane il quale, a dire il vero, si era già indelebilmente macchiato con la sua compiicità sin dall’inizio della collaborazione stato maggiore-nazismo divenuti binomio inscindibile. Del resto se i motivi dell’opposizione fossero stati profondi, inconciliabili, come avrebbero potuto uomini come Canaris accettare, nel 1935, in carichi a posti di alta responsabilità e rimanerci fino a quando il nazismo pensò di lasciarveli? Forse il calcolo era che da posti di quella natura era possibile in qualche modo aiutare l’opposizione? Non necessariamente, diremmo, se l’attività del gruppo di Canaris si è limitata ad aiutare qualche perseguitato razziale e a sterili contatti col Vaticano e con qualche intermediario, riservato e scettico, dei governi dell’Europa occidentale.
Il fatto è che a questi gruppi di opposizione interna, al vertice della gerarchia statale2 mancavano chiarezza, metodi, obiettivi, strategia. Agli uomini del gruppo di Canaris, persino a uno dei più dotati di esso come Dohnanyi che esprimeva il meglio di se stesso raccogliendo e conservando materiale d’accusa contro il regime nazista, mancavano una linea e un traguardo, erano in preda a illusioni, a speranze astratte, ad ipotesi nebulose e si trovarono coinvolti loro malgrado nel coraggioso quanto disperato gesto di von Stauffenberg che rompe gli indugi, i timori, i tentennamenti e compie l’atto improcrastinabile di ribellione suprema con l’attentato del 20 luglio. In quel momento gli uomini di punta della cospirazione che si consumava all’interno delì’Abwehr sono già in carcere e impediti nella ulteriore tessitura della debole tela del complotto, ma è anche vero che essi vennero arrestati per aver tramato molto meno di un attentato. Essi furono travolti dalla reazione nazista appena scoperti i legami, a dir il vero sottili e inconcludenti, con gli attentatori del 20 luglio.
Uomini rimasti soli nella loro fragile battaglia, pensando che il nazismo potesse essere combattuto dall’interno della gerarchia dello stato nazista. Errore fatale e ineluttabile e conseguente date le premesse del gruppo o dei gruppi isolati in una gretta visione di classe, aristocratici, timorosi di uscire incontro all’opposizione reale dei partiti politici antinazisti. Gli autori del libro sembrano accorgersi di questo fatto e tuttavia la risposta ch’essi
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danno alla domanda che si son posti(« Fu veramente resistenza? ») è positiva. Ma lo è perchè anche la posizione degli autori è moralistica, astratta e fideistica. Quella opposizione, di ciò non si rendono conto gli autori, fu sterile perchè non venne combattuta in opposizione al nazismo, in antagonismo al fascismo, in posizioni radicali o, quantomeno, alla ricerca di possibili forme di alleanza con altre forze. L’opposizione, dicono gli autori, era « concentrata all’interno dell’esercito » e anche ciò è vero, limitata- mente almeno al tema di M. e F., ma è anche vero che proprio per questo falli. Perchè era un’opposizione di casta e nemmeno generalizzata, anzi limitata ad alcuni elementi estremamente incerti, timorosi delle conseguenze stesse dei loro gesti. Sia i civili che i militari. Dicono ancora gli autori che era difficile agli ufficiali opporsi al capo al quale avevano giurato fedeltà personale. Si dovrebbe dire in realtà che iniziò con quel giuramento una correità, una complicità che divenne via via sempre più inscindibile, che scese a tutti i compromessi fino a partecipare, in maniera non del tutto passiva, all’eccidio contro le SA della « notte dei lunghi coltelli », come ha documentato, ultimo autore, Max Gallo in La nuit des longs couteaux.
Qui vanno cercate, oltre che nei motivi di casta, le ragioni della mancata scissione nazismo-militari e della mancata resistenza. In fondo l’elenco dei generali che non rimasero al loro posto e che preferirono una qualsivoglia forma di ribellione al nazismo, non è lunghissimo. E anche i civili che parteciparono alla congiura erano stati essi stessi personaggi di rilievo del regime: Gordeler, borgomastro di Lipsia e poi dimissionario; Schacht, ministro dell’economia e procuratore di finanziamenti al nazismo; Popitz, ministro delle finanze prussiane, che pensava a una congiura antihitleriana con l’aiuto di Himmler. Segreto pensiero forse dello stesso Canaris che nel momento dell’arresto tentò di ottenere da Schellenberg l’impegno a farlo incontrare con Himmler nel breve volgere di tre giorni. « Lei deve promettermi sinceramente — disse Canaris — che nei prossimi tre giorni mi procurerà la possibilità di parlare con Himmler » (p. 297).
« L’opposizione al nazionalsocialismo — ha scritto Collotti — era chiusa in un cerchio di contraddizioni insolubili e pa
ralizzanti, fatalismo e rassegnazione scoraggiavano prese di posizione inequivocabili ». Il giudizio di Collotti è severo, ma scaturisce da un esame attento della collocazione dei singoli individui e dei gruppi non solo di fronte al nazismo, ma di fronte agli stessi problemi con cui il nazismo doveva misurarsi. Spesso questi gruppi rispondono ai problemi del nazionalismo, dell’autoritarismo, dell’imperialismo accettando le impostazioni anticomuniste viscerali del nazismo. In questi uomini non c’è anelito ad un profondo rinnovamento radicale in senso democratico. Di qui il loro isolamento, la loro solitudine, la loro rapidissima, inarrestabile caduta sotto la mannaia nazista.
Questa la grossa lacuna del libro, di un libro che non varca i limiti di stanche, tradizionali ricostruzioni, arricchito qua e là da qualche lume nuovo, ma marginale, da qualche testimonianza rilasciata ad hoc, a dimostrazione della consumata abilità degli autori, ma nulla più. Il tutto resta nei limiti di un episodio di opposizione e di cospirazione che non riuscì ad essere resistenza.
Adolfo Scalpelli
Ugo De Lorenzis, Dal primo all’ultima giorno. Ricordi di guerra 1939-1945, Milano, Longanesi, 1971, pp. 362, lire 2.700.
Il volume si differenzia dalla normale produzione memorialistica per due caratteristiche: il linguaggio sobrio e franco, senza rancori nè tabù, e l’ampiezza dell’arco coperto dalla narrazione, che segue l’autore dal 1939 al 1945. Accanto ai periodi eroici sono così ricordati anche i periodi grigi di preparazione e attesa o di vigilanza sul fronte interno; e poiché l’autore racconta con lucidità e acutezza, ne esce una tagliente conferma dell’assoluta inadeguatezza della macchina bellica italiana.
La prima parte del libro è dedicata ai carri armati. L’autore, colonnello di fanteria, fu destinato alla specialità carrista nell’agosto 1939, sulla base di un corso di addestramento per comandanti di reparti motorizzati, tenuto nel lontano 1921-22!
Potè ugualmente tenere con onore il comando di un reggimento corazzato per
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due anni (cambiando per tre volte reparto) perché l’insufficienza dei mezzi e la miopia degli alti comandi permettevano soltanto un impiego del tutto tradizionale dei reparti di carri armati. Significativa appare la mancanza di una direttiva chiara in materia di reparti corazzati: quelli comandati dall’autore furono più volte dispersi e ricomposti, senza alcuna unità di indirizzo nè rispetto per le necessità di addestramento. Gli alti comandi si permettevano persino il lusso di destinare parte delle poche unità corazzate alla repressione della lotta partigiana jugoslava, allora agli inizi. È anche sintomatico che l’autore, dopo che due anni di comando di reggimenti corazzati dovevano averne fatto un esperto della specialità, fu destinato nella primavera 1942 a dirigere l’ufficio operazioni delPArmir, di un’armata cioè che non avrebbe potuto impiegare mezzi corazzati. Come se gli ufficiali carristi esperti abbondassero nell’Italia 1942!
La seconda parte del volume è dedicata alla campagna di Russia, che l’autore visse dal comando dell’Armir. I particolari che vengono alla luce non sono nuovi, ma concorrono a confermare l’impressione disastrosa di incapacità e spreco, che già tanti reduci dalla Russia hanno testimoniato. Le pagine dell’autore sono di un certo interesse, perché raccontano la vita degli alti comandi, sui quali abbiamo in genere poche notizie; si veda anche qui la sintomatica sostituzione dell’autore, capo di un ufficio chiave come quello operazioni, decisa nel cuore della campagna allo scopo di agevolare la carriera di un ufficiale più introdotto nelle alte sfere.
La terza parte del volume, infine, vede l’autore, promosso generale di brigata, al comando di reparti di fanteria, prima in Corsica (comandante della fanteria della divisione Friuli, poi della divisione stessa dopo i combattimenti contro i tedeschi), poi in Sardegna (dove il comando di divisione avuto sul campo gli venne tolto in omaggio ai criteri di anzianità), quindi in Italia meridionale (anche qui comandante di divisione e poi nuovamente solo comandante della fanteria divisionale) ed infine in Sicilia (comandante di una brigata di fanteria destinata al mantenimento dell’ordine pubblico nelle provincie di Siracusa, Ragusa e Caltanissetta). Alcune osservazioni emergono spontanee: innanzi tutto l’incertezza del governo degli alti
comandanti, che rendeva possibile che anche in tempo di guerra prevalessero i criteri di anzianità nelle nomine (si pensi che l’autore, in sei anni di guerra, ebbe una sola promozione, che verosimilmente avrebbe avuto anche in pace: e si capirà molte cose sull’incapacità dimostrata dai comandanti italiani all’8 settembre!). Interessanti anche le notizie sullo spirito delle popolazioni siciliane e sui metodi di governo impiegati con esse; ed il quadro piuttosto sconfortante dell’esercito « badogliano » che ne esce. Il libro lascia indubbiamente molto tristezza: è un libro onesto, che aiuta a spiegare in profondità le ragioni del crollo italiano nella guerra mondiale.
Giorgio Rochat
Mario R igoni Stern, Quota Albania, Torino, Einaudi, 1971, pp. 151, lire 1.500.
A quasi venti anni dal suo notissimo Il sergente nella neve, una delle opere più significative della memorialistica bellica, Mario Rigoni Stern si è indotto a raccogliere in questo Quota Albania la sua esperienza della breve campagna delle Alpi e della dura guerra contro la Grecia. Già il lungo intervallo rivela l’esitazione dell’autore nel tornare a scrivere di guerra dopo un esordio così straordinariamente felice; e infatti il risultato ci sembra nettamente inferiore, privo di quella unione di poesia e di verità disperata, di dolcezza virile e di morte che fa del Sergente nella neve un capolavoro della narrativa ed una testimonianza autentica della guerra. In Quota Albania mancano gli altri, quelle figure di alpini ed ufficiali sbozzate con pochi tratti e subito vive, qui invece sbiadite fino a confondersi subito. Anche il protagonista è diverso, non più il sergente maggiore che sa essere il centro e l’anima di un gruppo di uomini veri, ma un ragazzo che trova la sua gioia nel correre su per i monti, più vicino ad un cacciatore che ad un uomo in guerra. E infatti nel libro troviamo precise e vive descrizioni di vallate e montagne che prendono il posto degli alpini come protagonisti, quasi a segnare il limite di un libro di memoria che parla di un ragazzo dinanzi alla natura e non più di un uomo tra gli uomini. Tutto ciò perché il passare lento del tempo ha visto svanire il cupo dolore
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del reduce, la disperata protesta per la morte inutile di tanti compagni, quella rabbia chiusa che brucia nel Sergente nella neve e dà forza, tensione e verità al racconto. È rimasta invece la vena poetica di Rigoni Stern, la sua limpida fantasia, il suo amore per la natura solitaria, la sua parola pulita; ma gli alpini che muoiono in Albania non muovono più qualcosa nel profondo dell’autore e del lettore.
Se però rinunciamo ad un confronto tra i due libri, che in fondo è ingiusto, possiamo notare che Quota Albania spicca nella memorialistica bellica per la sua sobrietà, la pulizia delle descrizioni, la testimonianza che porta sulla rassegnata ignoranza (nel senso di non conoscere) con cui gli alpini accettavano la guerra con greci e francesi. Un libro da leggere e da conservare.
Giorgio Rochat
Varie
G ia m pa o lo P an sa , Borghese mi ha detto,Milano, Palazzi, 1971, pp. 185, lire1.800.
Che volto ha il neofascismo italiano? Nessuno ne ha tentato una indagine sul piano scientifico nemmeno ora che, quotidianamente, il neofascismo attira l’attenzione sulle sue gesta da valutarsi sulla base del codice penale, ma alle cui origini stanno responsabilità politiche della classe dirigente e complicità finanziarie del mondo industriale. Quanto Pansa ha raccolto dalla voce di Junio Valerio Borghese potrebbe servire egregiamente a dare un volto al neofascismo italiano, a quello, quantomeno, di tutti i giorni, a quello volgarmente e sanguinosamente squadristico, dal momento che è estrema- mente difficile dare un volto ai finanziatori degli eredi di Dumini.
Pansa ha raccolto per un quotidiano un’intervista concessagli da Borghese tre giorni prima di quell’adunata romana che avrebbe dovuto essere il punto di partenza per il colpo di stato fascista e che lo stesso Borghese, « un fantasma tradito da troppi errori », come dice Pansa, or
dinò di sospendere parlando ai suoi « camerati » in una delle palestre prese in affitto, tanto che la sua partenza, ha scritto un giornaletto fascista, « fu salutata da un imponente, fragoroso, entusiastico coro di pernacchie ».
Quella conversazione, che fortunatamente Pansa registrò, si è tradotta per noi nella lettura di un farneticante vaneggiamento a base di slogan (« O Roma o Mosca » per esempio) che non ebbero successo quando erano originali, o di allucinanti qualunquismi in base ai quali Borghese sogna di poter portare per le strade, all’assalto dello stato, « un milione di uomini ». Un documento quindi che potrebbe (dovrebbe anzi) essere allegato agli atti dell’inchiesta giudiziaria e diventare uno dei più probanti capi d’accusa contro gli organizzatori del complotto.
A dare interesse al libro è anche l’analisi di 64 ragruppamenti neofascisti sorti un po’ in tutto il paese, raccolti sotto la denominazione di gruppi extraparlamentari. Gruppi e gruppetti che hanno in comune l’aspirazione, e spesso la realizzazione, della violenza. Incapaci di esercitare un’attrazione ideale, pensano solo in termini di terrorismo, di squadrismo, di candelotti di dinamite, di teppismo, in ultima analisi, da Vicenza a Palermo, da Genova alla Sardegna.
Pansa ha ricostruito di queste conventicole la storia, la cronaca della formazione e dello sviluppo, non ha potuto certo esaminare (e forse nemmeno rintracciare) una documentazione propagandistica o pubblicistica dei singoli gruppi. Il lavoro potrebbe essere ripreso se non si avesse da tante parti timore di scoprire cose non del tutto gradite, perché è fuori di dubbio che una germinazione così prolifica di gruppuscoli di destra, oltre al movimento fascista, diciamo così, ufficiale e alla sua organizzazione e sindacale e giovanile e studentesca e universitaria, trae pure da fonti non ancora pubblicamente individuate le origini del suo sostentamento. Ma in Italia mancano persino studi scientifici sul neofascismo di più antica data, come il movimento dell’« Uomo qualunque » e su quel Movimento sociale che fu ed è l’erede più diretto del fascismo di Mussolini, per estendere l’indagine alle collusioni con partiti e movimenti collaterali (monarchici ad es.) o a quegli stessi gruppi paralleli che furono però del neofascismo
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di questo dopoguerra i migliori procacciatori di quadri. Anche qui per certi ambienti politici italiani di vertice sarebbe imbarazzante spiegare l’origine della storia che porta un alto generale a diventare deputato neofascista.
Va detto che questo tipo di ricerca per il neonazismo in Germania è stato già fatto e si continua a fare e basterà citare soltanto Die NPD. Struktur, Ideologie, und Funktion einer neofaschistischen Partei (ed. Suhrkamp) di Reinhard Kiihnl, Rainer Rilling, Christine Sager. Perché questa assenza, questo vuoto in Italia, questo timore di affrontare, retaggio crociano, i problemi di ieri e dell’altro ieri, quando essi sono ancora quelli di oggi e di domani? È sufficiente addossare la responsabilità di tutto ciò solo a una tradizione accademica che tende ad estraniarsi da quanto di contingente si presenta e quindi ad autodisarmarsi di fronte alle questioni che sono sull’uscio di casa?
Forse per la prima volta in un libro, lo hanno fatto finora riviste e giornali soltanto, appare un elenco di formazioni politiche di estrema destra con alcuni giudizi su di esse. Ci sembra che sia già un passo avanti, è il merito che va ascritto a Pansa, ma certo non basta e in questo c’è da rimpiangere l’ondata di « politologia » che è dilagata nella Germania occidentale negli anni ’67-70 e che ha fatto fare alla ricerca sul presente un notevole, concreto, positivissimo passo in avanti.
Pansa ovviamente non poteva, e certo non voleva, scrivere un’opera socio-politica, con susseguenti classificazioni, per i gruppetti di cui tratta. Ne ha dato, come si è detto, una descrizione sommaria e alcuni elementi con maggiore o minore ricchezza, secondo le possibilità di reperimento del materiale, o l’importanza del gruppo o la sua consistenza. Senza mancare di mettere in evidenza i lati grotteschi di taluni. Il Movimento tradizionale romano, uno dei tanti gruppuscoli, con sede a Napoli, è capeggiato da un insegnante elementare che sogna « il ripristino di un nuovo stato romano nell’ambito delle già province romane, con la denominazione di Repubblica Sociale Romana. La sua meta finale è un ordine nuovo-antico nelle coscienze dei singoli e dei popoli, onde realizzare lo stato etico ideale con la denominazione di Repubblica Sociale Mondiale, al lume della imperitura saggezza dell’Urbe immortale ».
Non tutti questi gruppi hanno lati solo
grotteschi; dalla ricerca di Pansa si trae abbondante materiale di meditazione.
Adolfo Scalpelli
Alberto Consiglio, Vita di un re-, Vittorio Emanuele III , Bologna, Cappelli,1970, pp. 251, lire 1.000.
Questa biografia spicca per imprecisione e superficialità. Non si vogliono rimproverare all’autore i suoi sentimenti monarchici e nazionalistici, ovviamente, bensì il fatto che egli li sostenga con dati approssimativi e spesso grossolanamente inesatti. Il volumetto ripresenta infatti tutti i luoghi comuni della propaganda fascista, le sciocchezze volte a diminuire le responsabilità di una sconfitta, le accuse tradizionali al popolo italiano reo di non aver capito nè apprezzato fascismo e monarchia. L’unica grossa attenuante che si può trovare per l’autore è che il libro non fu concepito come tale, ma come serie di articoli per un rotocalco di grande tiratura del 1950. Perché poi questi articoli debbano essere raccolti in volume e pubblicati proprio a vent’anni di distanza, senza una riga di aggiornamento, è un mistero che si può spiegare solo con il singolare disprezzo che certi editori paiono riservare ai lettori delle loro collane economiche.
G. Ro.
Silvan Reiner, E la terra sarà pura, Milano, Sugar, 1971, pp. 355, lire 3.500.
« Eutanasia, genocidio, sterilizzazione: le atroci esperienze mediche del Terzo Reich », questo l’argomento del libro. La atrocità dei medici nazisti nei confronti di subnormali, pazzi, deformi, minorati fisici è stata spesso oggetto di studi a livello scientifico, di indagini psicologiche, di narrazioni di vittime (le poche sopravvissute). Un ancor maggiore numero di lavori sulle esperienze mediche, se così esse possono essere definite, avvenute nei campi di concentramento nazisti, ci sono pervenute non solo sotto forma di diario, ma anche come testimonianze di medici prigionieri, impiegati a fianco di pseudo ricercatori come Mengele
118 Rassegna bibliografica
o Rascher o Baumkòtter o altri ancora. Studi e documentazioni interessanti ci sono pervenuti sul tipo di esperimenti scientifici operati in corpore vili, direttamente sui prigionieri, esperimenti che andavano dallo studio della origine dei parti gemellati, alle ricerche sul cancro, alla sperimentazione dell’efficacia dei sulfamidici sulle piaghe cancrenose, procurate artificialmente dai medici.
Questo mondo allucinante, primordiale, barbaro, sadico dei medici dei campi che operavano sotto l’alto patronato e la protezione di Himmler, viene descritto in questo libro a partire dal via dato da Hitler alla cosiddetta «operazione Brandt», dal nome del medico personale del Führer e poi massimo responsabile dell’organizzazione sanitaria tedesca, il 1° settembre 1939: prime vittime i mongoloidi poi, via via, i vecchi, gli ebrei, i prigionieri.
Reiner si muove in mezzo a questo mondo agghiacciante di medici SS, ma anche civili, e di vittime che vengono riportate a uno stato normale di nutrizione e di peso perché possano affrontare più tardi una morte nei confronti della quale quella nella camera a gas è da considerarsi un privilegio. Il libro non è però una trattazione scientifica, ma la ricostruzione di quanto accadeva in quel mondo che ha portato in primo piano uomini, finiti per buona parte sulla forca, che senza il nazismo sarebbero rimasti oscuri medici nelle verdi campagne di Germania. Divennero uomini importanti, medici di primo piano con a disposizione un esercito di cavie.
Il libro tuttavia si limita alla cronaca,
a una ricostruzione che qualche volta sconfina nel romanzo e qui il pregio di poter avere un vasto pubblico, ma anche il difetto della limitatezza storica, anche se costruita su una bibliografia che, però, bisogna dire, appare limitatissima e dalla quale manca, ad esempio, Reimund Schnabel, Macht obne Moral, testo, ci sembra, importante per ogni lavoro sull’argomento (e si veda poi la ricca bibliografia annessa, sull’argomento, allo Schnabel in confronto a quella del Reiner). Per passare poi a dire di alcune imprecisioni e oscure qualificazioni contenute nel libro, dovute a non si sa quale origine, se cioè all’autore o alla traduzione, come ad esempio; Filippo Bouhler « segretario privato del Führer » (in realtà capo della Cancelleria del Reich e della sezione eutanasia); Victor Brack « ministro degli Interni » (in realtà fu soltanto un colonnello delle SS, capo servizio nella cancelleria di Hitler e dirigente dell’impianto delle camere a gas in Polonia); per arrivare infine a questo strano attributo dato al dott. Leonardo Conti: « presidente della Camera dei ministri del Reich ». Il tutto fra le pagine 19 e 20. (Solo a p. 306 si rettifica che si tratta per quest’ultimo caso della Camera dei medici).
Nè si comprende come parlando di Auschwitz si possa dire che « l’estate ungherese non finisce mai» (p. 261)!
Resta poi insoluta la domanda di fondo che Reiner non si pone: in nome di quali interessi i medici nazisti operavano quelle brutali e crudeli ricerche?
Adolfo Scalpelli
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