Donde existe una necesidad nace un derecho.
EVA PERÓN
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
1
INTRODUZIONE
a più recente novità in campo di
concetti politici nell’ultimo ven-
tennio e a conclusione dello scorso
secolo è stata l’invenzione della morte del-
le ideologie. Antistene il cinico rimprove-
rava a Platone di vedere il cavallo e non
la cavallinità. A tutti coloro che hanno
sostenuto la scomparsa delle idealità si
potrebbe chiedere come un’idea – quasi a
volerla intendere in senso platonico –
possa morire: se così fosse non dovrebbe
essere più pensata, non far più parte del
nostro patrimonio conoscitivo. Per con-
tro accade che scompaiano le esperienze
storiche, mentre gli ideali entrano a far
parte del pensiero acquisito. Quando la
storia e la storiografia hanno bocciato
delle esperienze, o perché le loro idee era-
no inammissibili e intollerabili o perché
l’attuazione è stata fallimentare e negati-
va, ciò non si è tradotto nella radicale
cancellazione dell’ideologico. Tant’è vero
che se ne continua a parlare non solo per
fare archeologia storica ma anche con lo
scopo pedagogico di mettere in guardia
l’umanità dal ripetere stessi errori. Le tre
grandi concezioni politiche del ’900 sono
sempre rivisitabili dall’analisi nella storia
e nel sistema concettuale per trarre indi-
cazioni tenendo i due piani divisi al fine
appunto di separare lo storico dall’ideale.
Il fascismo, il comunismo, il nazionalso-
cialismo – in gradi e con responsabilità
diversi – hanno connotato negativamente
il secolo breve. Addentrarsi nelle dinami-
che storiche per guadagnare una visione
nitida dei meccanismi non è né può mai
divenire procedura giustificatoria: capire
il perché è stato così non può né deve
trasformarsi in giustificazione. Le cause
e le radici della nascita del nazismo stan-
no negli esiti della Grande guerra: diffe-
renti sarebbero stati gli eventi se la co-
munità internazionale avesse accompa-
gnato e assecondato un processo di svi-
luppo democratico della Germania po-
stbellica, colpita dalla crisi economica
mondiale del ’29 al punto tale di spianare
la via del potere a una ideologia razzista
irrazionale che si richiamava a tradizioni
interne neopagane e al più ampio versan-
te dell’antiebraismo (il quale aveva molti
secoli di esistenza e fatti ugualmente a-
scrivibili ante litteram ai crimini contro
l’umanità). Non è da trascurare in tutta
Europa l’effetto che esercitò la paura del
comunismo (prima e dopo la Rivoluzione
d’ottobre del ’17). Il clima europeo d’inizio
secolo, che portò alla prima guerra mon-
diale, era in fermento: l’affermazione del
capitalismo aveva introdotto nuove e for-
tissime tensioni sociali che turbavano le
incipienti forme di moderna democrazia.
Nel panorama di questa instabilità era
sorto pure il fascismo a cui furono aperte
le stanze del governo per superare il peri-
colo rosso. Col tempo – prima del secondo
conflitto mondiale e durante – nacquero
nel continente regimi e governi antico-
munisti, che è sbagliato definire fascisti
anche se amici e alleati dell’Italia musso-
liniana. Il fascismo fu un complesso fe-
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LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
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nomeno – trasformatosi poi in dittatura –
che aveva al suo interno varie matrici di
pensiero: una di fondo socialista (con ve-
nature di massimalismo), cui si sovrappo-
sero soprattutto quella nazionalista, e
quindi quella monarchica, e in tono mi-
nore quella liberale. I non correttamente
catalogati come fascismi europei non ave-
vano questo humus, erano più vicini al
nazismo. Anche parlare di nazifascismo
come ideologia è inesatto: il fascismo as-
sunse dal nazismo particolari dottrine si-
no a emanare per questioni di allinea-
mento politico le leggi razziali nel ’38
promulgate da Vittorio Emanuele III.
Dopo la seconda guerra d’Etiopia Musso-
lini aveva intrapreso la strada sbagliata
dell’alleanza con la Germania allonta-
nandosi definitivamente dalle democrazie
occidentali che avevano mostrato nei suoi
confronti parole di apprezzamento. Nel
bene e nel male il fascismo del primo do-
poguerra aveva prodotto una stabilità in
Italia che, in assenza di una compiuta
democrazia, era preferibile a una cruenta
rivoluzione comunista. In seguito subì
un’inaccettabile involuzione razzista. La
tragedia della seconda guerra mondiale
mostrò l’intensità degli errori umani e
politici dei capi fascisti filonazisti: il peso
storico di ciò che avvenne oscurò la parte
di buono realizzata sotto il regime guida-
to da Mussolini (la quale già da prima
conviveva con degli aspetti negativi): pur
ricordando dei lati positivi non si può
dimenticare la catastrofe finale in cui il
fascismo e la monarchia portarono il pae-
se. Come il comunismo il movimento fa-
scista partiva in alcune situazioni da cor-
rette istanze di giustizia sociale (non per
niente sono entrambi nati dal socialismo)
cui seppe dare delle risposte: per fare un
esempio, la difesa della nazione dai ri-
svolti della crisi del ’29. La complicità
con il nazionalsocialismo nella persecu-
zione e nello sterminio degli Ebrei (fatti
salvi i casi d’eccezione) ha comportato
una precisa condanna della sua esperien-
za storica. La quale condanna colpisce,
con altre motivazioni e per altri eventi,
parimenti il comunismo, la cui teorizza-
zione da parte di Karl Marx era scaturita
da sincere basi di denuncia sociale: tutta-
via in nessuna circostanza la violenza può
essere considerata strumento d’eccellenza
o privilegiato per migliorare la società. Il
fascismo, il comunismo, il nazionalsocia-
lismo hanno provocato vittime. E anche
se quelle a carico del fascismo sono meno
di quelle del nazismo (sei milioni di E-
brei) e del comunismo (cento milioni di
perseguitati) non si può minimamente
credere di mettere la questione su un i-
numano e parziale piano di contabilità.
Delle discusse tre ideologie se si può sal-
vare qualcosa è solo dalle dottrine eco-
nomico-sociali del fascismo e del comuni-
smo, separandolo di netto dal violento
contesto storico di provenienza per attin-
gerlo dal mondo delle idee. Un’operazione
del genere fu quella da cui nacque il giu-
stizialismo peronista, che rappresenta
un’ottima ed eclettica costruzione ideolo-
gica, la migliore del ’900. Questa ideolo-
gia non è stata condizionata dalla passata
e travagliata storia argentina: essa è
sempre stata democratica e di giustizia
sociale, potremmo dire di sinistra nazio-
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
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nale non marxista (qualcuno direbbe di
destra sociale, ma in termini di filosofia
politica classica parlare di destra sociale è
contraddittorio). In Italia non c’è un par-
tito simile, malgrado tutto il Partido ju-
sticialista poteva forse essere paragonato
ad Alleanza nazionale. Le idee non
muoiono, chi dice questo sostiene una
forma di nichilismo e promuove il disin-
teresse. Nessuna persona civile desidera
scontri ideologici come quelli che hanno
portato ad atti di terrorismo, ma ognuno
da responsabile vorrebbe unicamente pa-
cifici confronti su idee. Una politica senza
ideologie che politica è? L’ideologia è
l’anima di un sistema. Alla storia e alla
storiografia spetta il difficilissimo ufficio
di mostrare nelle loro pagine e nelle loro
immagini il bene e il male delle esperienze
passate, affinché quest’ultimo non abbia
più a ripetersi e dell’altro si faccia tesoro
a vantaggio di un futuro migliore per
l’umanità.
1. LA MORALITÀ DELLA POLITICA
e riflessioni sul come dev’essere
una buona o efficiente arte di go-
verno risalgono all’antichità classi-
ca e si sono protratte nei secoli sin a oggi
in cui il tema è dibattuto ancora dentro e
fuori dei partiti. Prima di valutare in che
maniera far correttamente una cosa è
meglio definire questo da farsi. Che cos’è
la politica? Questa attività è un comples-
so di iniziative pratiche intraprese e ri-
volte al benessere di una comunità nella
sua interezza, che poggia questa prassi su
un sistema di pensiero (filosofia della po-
litica). La politica oggigiorno è sotto vari
aspetti tendenzialmente insana perché
frequentemente vi predomina la logica
clientelare, la quale ha il precipuo scopo
di procacciare voti in cambio di qualcosa.
Dunque questa attività per tale verso
non ha niente a che vedere con il bene
collettivo che anzi danneggia pericolosa-
mente poiché le sperequazioni sociali
conducono prima o poi a proteste di mas-
sa più o meno violente: esempio eclatante
è stato la Rivoluzione francese. Quando
si parla della fine delle ideologie non si
può fare a meno di chiedersi su quali basi
dovrebbe posare la pratica di governo:
infatti è rimasto solamente un sostanziale
nichilismo a insegnare l’utilità di parte. I
meritevoli non vengono naturalmente
apprezzati se non inseriti in quello sche-
ma, che anzi predilige i mediocri in quan-
to figure più innocue e controllabili. La
scienza amministrativa ha origine da
un’attività intellettuale per tradursi in
azione. Se i politici non sono all’altezza
non giovano alla politica né alla gestione
di un ente pubblico. Questo ruolo di con-
duzione dovrebbe essere compito di una
categoria disinteressata: le cose vanno
male perché la dialettica tra i vari gruppi
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per la conquista democratica del potere
porta al clientelismo escludendo sempre
una fetta di società. È paradossale dire
questo di una democrazia e sottolineare
invece che un regime diverso mirerebbe
all’appoggio della totalità per mantener-
si. Il modo in cui la politica affronta i
problemi è da alcune parti malaugurata-
mente insufficiente. Lo Stato nasce per
diritto naturale come tutore universale
della società intera la quale gli delega del-
le precise mansioni di salvaguardia del
benessere di tutti (singole persone e fami-
glie). Una classe politica che agisce in
maniera partigiana rovina lo Stato, una
delle più nobili costruzioni della natura
umana. La degenerazione è causa d’insta-
bilità sociale. Il migliore rimedio è quello
indicato da Platone nella Repubblica lad-
dove parla della formazione del gover-
nante della cosa pubblica: se lo spazio-
della-politica è diventato luogo di contra-
sto e di speculazione si deve sostituire il
contenuto. Questo spazio spetta alla mi-
gliore espressione del pensiero umano: la
prassi politica deve essere fondata su una
filosofia della materia e sulla conoscenza
della realtà. L’incapacità di governo che
non comprende gli alti fini della politica,
che crea sperequazioni e ulteriori disagi,
devia verso la logica utilitaristica e pro-
duce il clientelismo. In una retta pratica
di amministrazione, che si traduce in ser-
vizio reale alla collettività, il servizio è
solo conseguenza della rettitudine, non è
un fine esplicito se non in presenza di una
cattiva politica. Niccolò Machiavelli teo-
rizzò la separazione tra morale e politica,
ma ciononostante riconosceva al principe
aspetti qualitativi che vanno ben oltre la
generale mediocrità d’oggi. Con tutti i
suoi aspetti moralmente negativi il prin-
cipe doveva essere una persona di vaglia.
Nel malessere odierno della politica c’è
poco di principesco (anche machiavelli-
camente inteso): la dialettica tra politici
scade anche nel volgare e nell’insignifi-
canza, che sono indici del personalismo
nichilista. Non viene più proposto agli
elettori di seguire un’ideologia, bensì un
leader o un capo-clientela. E qui l’auten-
tica arte del governo è morta. E a capirlo
ci vuole poco, basta un piccolo approfon-
dimento: un insieme di individui che e-
legge i propri rappresentanti pubblici ve-
drà per lo più gli elettori di un eletto fa-
voriti nella possibilità di ricevere benefici
(che servono a curare la clientela), men-
tre tutti gli altri che non hanno un refe-
rente vincente rischiano di subire ingiu-
stamente l’aumento della pressione tribu-
taria che servirebbe a sovvenzionare i co-
sti del clientelismo. Nei partiti sovente
c’è verbalmente un richiamo all’insegna-
mento sociale della Chiesa cattolica, ma è
poco cristiano speculare sui bisogni della
gente per fini che non sono attinenti alle
radici su cui si fonda uno Stato.
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2. LA CRISI DEL CAPITALISMO
mercati, le attività finanziarie e quel-
le produttive attraversano ciclica-
mente nel sistema capitalista dei
momenti critici di durata variabile: acca-
de che i prezzi aumentino, le vendite di-
minuiscano e la disoccupazione aumenti.
Un economista inglese vissuto tra ’700 e
’800 riteneva che la causa del disagio in
cui versasse la schiera dei diseredati risie-
desse in loro, nel perpetuare questa genia
di disgraziati, e che i loro mali sarebbero
terminati con loro stessi. La moderna
globalizzazione ha allargato pregi e difetti
del capitalismo a livello mondiale senza
operare una generalizzazione del benesse-
re collettivo (che già non era perfetto nei
paesi di provenienza). Sembra che la crisi
attuale voglia riproporre quel darwinismo
sociale di Thomas Malthus nel tentativo
di provocare la soppressione di tutte quel-
le categorie umane che non dispongono di
risorse stabili per sopravvivere. A partire
dal “terzo mondo” milioni di individui
soffrono a causa della sperequazione dei
beni prodotti. L’attività umana produt-
tiva è alla base del sostentamento, il la-
voro ha una funzione centrale. Questa
funzione dovrebbe essere quella di pro-
durre non mirando alla ricerca di un gua-
dagno anche attraverso le cose più inutili
o dannose, ma mirando a ottenere i mezzi
per una quanto meno dignitosa esistenza
nell’ottica di contribuire, dall’imprendito-
re al lavoratore, alla tutela della prosperi-
tà dell’intero insieme civile. Le imprese
private tengono in piedi l’apparato eco-
nomico-sociale per il fatto che da loro
proviene la contribuzione tributaria più
autentica. Il servizio pubblico non sem-
pre è pienamente efficiente e a volte è pa-
rassitario, produce in alcuni casi meno di
quello che dovrebbe o potrebbe: i dipen-
denti pubblici sono retribuiti con soldi
presi dalle imprese, e non c’è da stupirsi
che poi esista l’evasione fiscale di fronte a
sprechi e gestioni clientelari della ricchez-
za tributaria. Il cattivo servizio pubblico
è l’esempio di inutile e sterile produzione
con spreco di denaro, come inutile produ-
zione è quella di imprese che mettono sul
mercato prodotti di nessuna utilità, o ad-
dirittura nocivi alla salute umana, con
l’induzione a comprarli per una questione
di adeguamento a status-symbol. La logi-
ca del profitto crea squilibrio sociale pure
poiché la pressione fiscale sulle imprese si
ripercuote sui loro dipendenti: una mag-
giore tassazione equivale a una riduzione
dei lavoratori o dei loro stipendi. È chiaro
che non tutti i principi del liberismo siano
condivisibili sino ai loro estremi: uno che
persegue il proprio interesse cerca solo il
suo bene e si serve degli altri con cui è co-
stretto a condividere il suo successo eco-
nomico (in passato c’erano gli schiavi cui
bastava dare il minimo necessario per so-
pravvivere); il mercato non è un organi-
smo autonomo che si regola da sé, è
anch’esso un risultato delle attività
dell’uomo. Il recupero di un’economia sa-
na avrebbe bisogno di riformare il capita-
lismo sostituendo nei suoi principi alla
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LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
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logica del profitto e degli interessi di par-
te la logica dell’utilità collettiva: sanità,
trasporti, etc. pubblici e privati trovano
contributori ben disposti. Nessuno è
spontaneamente disposto ad acquistare
servizi e prodotti scadenti a meno che
non sia raggirato. La legislazione sul la-
voro sarebbe migliorata se accogliesse al-
tri provvedimenti ispirati a canoni di giu-
stizia sociale per difendere un’equilibrata
partizione del benessere globale.
a) Il primo sarebbe una legge sul diritto
al lavoro che garantirebbe a ogni nucleo
familiare almeno una fonte di reddito, e
che stabilirebbe la distribuzione dei posti
nel pubblico impiego secondo merito e
secondo necessità (abolendo parzialmente
i concorsi).
b) Il secondo riguarderebbe la riforma
dell’impresa privata. A capo ne rimar-
rebbe sempre l’ideatore (che solitamente è
anche colui che investe il capitale di ri-
schio): una parte dello stipendio dei di-
pendenti dovrebbe essere ancorata in per-
centuale ai guadagni complessivi: i lavo-
ratori contribuiscono all’eventuale fortu-
na economica e pare ipotesi naturale la
loro partecipazione ai dividendi così come
il caso del giusto licenziamento.
c) Un terzo provvedimento sarebbe di ca-
rattere generale e fiscale poiché statui-
rebbe il principio di imponibilità nei con-
fronti dei soli redditi: si concentrerebbe la
tassazione unicamente sui guadagni sop-
primendo le imposte sulle cose che non
abbiano prodotto denaro.
Non conviene allo Stato restare estraneo
al gioco economico-finanziario, anzi per i
compiti di garanzia che assume è lecito
che ne prenda parte con discreta funzione
di arbitro e di moderatore delle parti qua-
lora queste non siano in armonia. Priva-
tizzare servizi importanti per migliorarli è
cosa contraddittoria: è lo Stato sussidia-
rio, non il privato. I pessimi servizi pub-
blici andrebbero perfezionati rimuovendo
tutti i problemi. Non sembra buono
smantellare la macchina statale che fun-
zioni male mutilandola a favore di inte-
ressi particolari. Un’economia mista, in
un regime di libertà e di controllo, pare la
più auspicabile. Le partecipazioni statali
mirate hanno impedito nei frangenti di
profonda crisi che il sistema andasse in
rovina. Il capitalismo senza regole e senza
limiti non ha senso ed è espressione di ir-
razionalità: giunge sempre un momento
in cui la produzione e la vendita assumo-
no una tendenza al ribasso poiché non si
può produrre per vendere indefinitamen-
te. La massima ambizione del capitalista
è il profitto infinito a discapito di tutto e
di tutti. Un’economia che al criterio del
profitto sostituisse quello della sussisten-
za del genere umano non produrrebbe
l’inutile superfluo non commerciabile che
genera le crisi. Il mondo del lavoro intel-
lettuale e manuale consente la sopravvi-
venza della civiltà: per ottenere meglio
questo fine è possibile lavorare tutti (e
non far finta come capita in alcune circo-
stanze), lavorare meno pro capite (con
acquisizione di maggiore tempo libero),
risolvere quindi il problema della disoc-
cupazione e avere più ricchezza da redi-
stribuire (senza lasciare sacche di disa-
gio).
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3. L’EREDITÀ DEL MARXISMO
l pensiero filosofico di Karl Marx, svi-
luppato nella speculazione politica a
opera di Lenin (ne è nato il marxi-
smo-leninismo), dall’Ottocento ha in-
fluenzato sotto molteplici aspetti le vi-
cende storiche e i modi d’interpretare la
società e la realtà intera. Va innanzitutto
rilevato che le istanze da cui Marx partì
erano valide: il disumano maltrattamen-
to capitalistico della classe proletaria fu
un fenomeno che non poteva rimanere
sottaciuto dalla filosofia. La sua denun-
zia e la sua analisi – per vari tratti – non
fanno una grinza nell’evidenziare quelle
problematiche. Quello che la storia ha
condannato è il sistema di rimedi teorici e
pratici del comunismo. Voler ribaltare il
sistema capitalista con il suo opposto si-
gnifica sostituire un problema con un al-
tro: da un eccesso in un verso si passa
all’altro di segno opposto. E tutto ciò a
scapito della libertà: niente proprietà
privata (solo il “possesso” dell’essenzia-
le), niente imprese (lo Stato si occupa di
tutto). Se questo non è accettabile dalla
ragione, lo è soprattutto in quell’ottica in
cui Marx prevedeva che allo Stato socia-
lista dovessero seguire la sua scomparsa e
l’instaurazione di un’anarchica comu-
nanza universale (stadio evolutivo – det-
to “comunismo” – mai realizzatosi, in cui
la famiglia non sarebbe esistita e le donne
sarebbero state in comune). È inoltre
contraddittorio che Lenin avesse riserva-
to la guida del suddetto rovesciamento
sociale a un’elite di borghesi illuminati,
ed è per niente lecito che questo sia di na-
tura dichiaratamente violenta. La ditta-
tura del proletariato nelle mani di chi
proletario non è non ha molto senso: il
proletariato sarebbe interpretato in rap-
porto a una dottrina, ma non sarebbe li-
bero di esprimersi (del resto si troverebbe
sotto una dittatura). «TUTTI GLI A-
NIMALI SONO UGUALI / MA ALCU-
NI SONO PIÙ UGUALI DI ALTRI»,
così nelle ultime pagine de “La fattoria
degli animali (1945)” di George Orwell
una norma esprime il punto di arrivo di
quell’allegorica società innovatrice, spec-
chio del comunismo sovietico. Il diritto di
natura non gradisce un modello statale
del genere perché è innaturale privare gli
uomini senza una giusta motivazione del-
le personali libertà e perché questo Stato
nascerebbe su radici inadeguate (gli uo-
mini si consorziano in modo incruento e
spontaneo in vista di un fine di equilibra-
to benessere collettivo). In ambito socia-
lista, nonostante l’ateismo e l’anticlerica-
lismo, è migliore il pensiero di Robert
Owen fautore nell’Ottocento di cambia-
menti nelle condizioni dei lavoratori e
non di sanguinosi rivolgimenti (poi nel
1917 i comunisti in Russia andarono al
potere attraverso un colpo di Stato e non
per mezzo di una propria rivoluzione). Al
congresso dei laburisti inglesi del 1923
l’economista Sidney James Webb sotto-
lineò che «il fondatore del socialismo in-
glese non è stato Karl Marx, ma Robert
Owen e che Robert Owen non predicava
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la lotta di classe, ma la dottrina della fra-
tellanza umana». Per quanto la parte
schiettamente politica del marxismo-
leninismo sia di tipo totalitaristico e pre-
scrittivo (pensiamo al materialismo e
all’ateismo di Stato che sposa) d’altro la-
to nel settore dell’analisi della condizione
lavorativa – come nelle considerazioni
sociologiche sulla strumentalizzazione
della credulità religiosa popolare – Karl
Marx è stato più condivisibile. La dottri-
na del plusvalore non ha perso efficacia,
benché questa sia stata elaborata in vista
dell’unica circostanza di successo dell’im-
presa: Marx non ha tenuto conto del ri-
schio d’impresa da parte dell’imprendito-
re e del fatto che se costui fosse fallito i
suoi dipendenti avrebbero perso il posto
di lavoro. È vero che un datore di lavoro
dei suoi tempi pagando a un prestatore
d’opera la sua semplice stentata soprav-
vivenza grazie al resto del guadagno si
poteva arricchire: questa differenza è il
plusvalore a cui il lavoratore concorreva
in maniera inconsapevole a causa di
un’alienazione soggettiva del proprio o-
perato la quale lo poneva al di fuori della
coscienza produttiva. La situazione ai
nostri giorni è del tutto cambiata nei Pa-
esi moderni: ci sono gli assegni familiari e
i versamenti dei contributi pensionistici
assieme a salari onesti equilibranti quel
plusvalore incamerato dall’imprenditore.
Anche in relazione a questo tema, ecce-
zion fatta davanti allo sfruttamento di
manodopera nei Paesi poveri, arretrati e
sottosviluppati, il marxismo è perlopiù
parziale perché i tempi sono mutati. Ri-
sulta pure poco facile comprendere coloro
che, di sinistra marxista, sono contrari
alla globalizzazione e non attuano un ap-
proccio diverso a essa: per Marx questa
sarebbe stata il preludio della rivoluzione
universale dei lavoratori. Il problema non
è la globalizzazione in sé, è rappresentato
invece da quei casi in cui il plusvalore di
cui parlava è un abuso ancora reale (un
suo discutibile giudizio definisce «im-
mondizia dei popoli» tutti quelli che non
hanno raggiunto uno stadio capitalistico,
ritenuti quindi da eliminare a vantaggio
degli altri). La Chiesa cattolica ha presta-
to attenzione – con iniziale ritardo sui
tempi – all’incidenza dei cambiamenti
economici sulla società, basti ricordare le
encicliche sociali, mantenendo una posi-
zione di equilibrio tra le due formule del
capitalismo e del socialismo, equilibrio
che media le esigenze di libera iniziativa e
di solidarietà comune (san Francesco
d’Assisi ricordò col caritatevole esempio
la funzione naturale della proprietà pri-
vata come strumento di sostegno al be-
nessere comune, fino al punto di rinun-
ciarvi allorquando questa rinnega il pro-
getto di cui Dio ha reso l’uomo artefice e
diviene fonte di smisurato arricchimento
di pochi). È lontana ormai l’epoca dello
scontro fra cattolici e comunisti, la
“guerra fredda” è finita e l’URSS è cadu-
ta da sola per motivi endogeni fra molte
contraddizioni. Tra queste: i nazisti pre-
sero a modello attuando le loro persecu-
zioni, l’allestimento di campi di concen-
tramento e l’addestramento di reparti
l’Unione Sovietica di Stalin; il singolo
sterminio comunista degli Ucraini (“holo-
domor”, che vuol dire genocidio: 7 milio-
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ni di morti causati da inedia nella prima
metà degli anni ’30) supera nel numero la
barbarie della Shoah; i Sovietici instaura-
rono un rapporto di collaborazione coi
Tedeschi durato sino al giugno 1941 che
contemplò coi futuri nemici la spartizione
della Polonia, l’occupazione da parte di
Mosca di Lituania, Lettonia, Estonia e di
territori finlandesi e romeni, e per di più
la riconsegna di Ebrei profughi ai nazisti
e la fornitura a questi di aiuti militari e
alimentari. Oggi sono sopravvissuti i par-
titi politici che si richiamano a Marx: una
parte di essi ha abbandonato il pro-
gramma rivoluzionario e mantenuto
l’ideologia di giustizia sociale. Il comuni-
smo nel ’900 ha però provocato circa 100
milioni di morti a livello mondiale laddo-
ve ha operato: il suo schema politico to-
talitario, fondato sul materialismo (“sto-
rico” – in base a cui le vicende umane sa-
rebbero lotta di classe – e “dialettico”),
non è storicamente riproponibile (Anto-
nio Gramsci introdusse nel contesto della
riflessione marxista un’alternativa – dal
carattere spiritualista – all’idea di storia
come lotta di classe, secondo la quale sa-
rebbe invece dialettica di ideologie). Si de-
ve far tesoro di quest’esperienza (perché
non si ripeta, custodendo i positivi aspet-
ti delle analisi marxiane) poiché malgra-
do le soluzioni proposte fossero peggiori
dei problemi su cui intervenire questi
stessi non furono un’invenzione del mar-
xismo.
4. LA FABBRICA DEL MALE
l nazionalsocialismo è stato nella sto-
ria dell’umanità tra le peggiori ideo-
logie che hanno ispirato e provocato
comportamenti la cui portata talmente
negativa le qualifica come ideologie del
male. Sarebbe bastato il solo programma
politico nazista, esposto da Adolf Hitler
nel suo libro “Mein kampf” (La mia bat-
taglia), per esprimere un tale giudizio al
di là dell’esperienza storica della Germa-
nia hitleriana dal 1933 al 1945. Le radici
del nazismo si trovavano in aspetti del
patrimonio culturale tedesco senza le
quali il suo attecchimento e il suo svilup-
po sarebbero stati più difficili. L’antise-
mitismo, il pangermanismo e l’avversio-
ne alla democrazia, che lo connotarono in
maniera peculiare, avevano illustri pre-
cedenti da Lutero al Romanticismo tede-
sco fino a Friedrich Nietzsche. Questo,
miscuglio sovrappostosi alla sconfitta
della Germania nella Grande guerra, creò
la base su cui i nazisti avrebbero costrui-
to la via per l’instaurazione di uno Stato
totalitario. Nel cammino verso il governo
costoro specularono sulle disgrazie dei
Tedeschi nel dopoguerra: l’instabilità so-
cioeconomica garantì il considerevole ap-
poggio dei capitalisti, che durante la dit-
tatura ebbero a disposizione lavoratori
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LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
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privati dei loro diritti di categoria e to-
talmente asserviti ai piani di rilancio e-
conomico e di riarmo (ciò comportò la
netta riduzione del tasso di disoccupazio-
ne e produsse un effetto di tolleranza da
parte del proletariato nei riguardi del re-
gime; il nazionalsocialismo ripristinò la
medievale ereditarietà delle professioni, e
inventò anche un servizio civile per i gio-
vani di entrambi i sessi, un anno di lavo-
ro obbligatorio che servì d’altro canto a
livellare le differenze sociali e che gli atti-
rò un’ulteriore acquiescenza); prima della
dittatura la sinistra del partito che por-
tava avanti punti programmatici sociali-
sti intercettò e convogliò il malcontento
delle masse (nel 1934 i rivoluzionari nazi-
sti furono eliminati fisicamente: Hitler
preferì l’intesa interna col capitale e con
l’esercito in cambio della presidenza della
repubblica, che così si univa in lui al ran-
go di capo del governo). Il socialismo del
nazionalsocialismo esistette come lettera
morta solo sulla carta. Nel 1933-45 i Te-
deschi furono privati dei diritti più ele-
mentari in una normale democrazia. Tut-
to (informazione, educazione, gestione
dell’economia, governo della cosa pubbli-
ca, etc.) era in mano ai nazisti: l’ammini-
strazione della giustizia e le forze dell’or-
dine divennero lo strumento del controllo
sociale e della soppressione degli opposi-
tori. A questa azione repressiva si ag-
giungeva la produzione del consenso e
dell’indottrinamento condotta attraverso
istituzioni di partito e pubbliche. Tutti, a
seconda dei casi, erano inquadrati nel si-
stema nazificato, non vi era spazio per il
dissenso. Le cosiddette leggi di Norimber-
ga (1935) diedero primo corpo al pro-
gramma antisemita: gli Ebrei tedeschi
furono emarginati dalla società al pari
degli Iloti sotto gli Spartani, e l’intera
Germania sembrò somigliare moltissimo
all’antica Sparta. L’irrazionale concetto
della superiorità razziale ariana (e in par-
ticolare dei nordici germanici) spinse
barbaramente i nazisti durante il secondo
conflitto mondiale all’uccisione nei campi
di concentramento di sei milioni di Ebrei.
Nessuna forma di pensiero poteva e potrà
mai giustificare una tale azione immoti-
vata di odio e di morte che resta durevole
nella storia a severissimo monito con la
sua condanna irrevocabile verso i respon-
sabili. Il nazionalsocialismo ebbe i suoi
cardini nell’idea di una grande Germania
(che si espandesse nell’est europeo) e in
questo sentimento di antisemitismo. La
sinistra del partito non ebbe mai vita fa-
cile e finì con lo scomparire negli anni di
governo. Per una serie di motivazioni,
sotto il profilo delle idee, non è corretto
accostare il fascismo italiano al nazismo
nel cosiddetto nazifascismo, un ibrido che
non può facilmente assurgere a categoria
politico-filosofica, mentre è più giusto
parlare di alleanza politico-militare tra
Italia e Germania. È vero che in Italia
furono emanate – con l’approvazione del
re Vittorio Emanuele III – nel 1938 leggi
razziali, ma furono lo sciagurato e pro-
fondamente ingiustificato frutto di un
innaturale allineamento dell’ideologia
fascista. Il fascismo ebbe in sé dannosi
diversi difetti, tuttavia l’antisemitismo
come connotato ideologico lo prese dal
nazismo (compiendo uno dei più tragici e
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
11
significativi suoi errori) e non da una sua
corrente interna preponderante. Il che
non lo solleva da colpe, però chiarisce la
dinamica della storia. Il fascismo coltiva-
va il suo socialismo spiritualista, e si scon-
trò col capitalismo italiano (le vicende
della Repubblica sociale italiana lo dimo-
strarono), le sue leggi razziali non aveva-
no l’intensità di quelle tedesche, e inoltre
nonostante gli altalenanti rapporti con la
Chiesa cattolica (che va detto soddisfece
in parecchio: dai Patti lateranensi alla
concessione di alcuni privilegi) mai pro-
gettò invece come il nazismo di ritornare
al paganesimo (nel 1933 la Santa sede e il
governo di Hitler avevano stipulato un
concordato). Il legame tra Italia fascista
e Germania nazista nacque in un contesto
di politica estera. Dopo la conquista ita-
liana dell’Abissinia nella seconda guerra
d’Etiopia (1935-36) Inghilterra e Francia,
precedenti alleate nella Grande guerra, si
erano schierate contro l’Italia, la Germa-
nia no. Hitler era ammiratore di Mussoli-
ni (il contrario non era vero) e fece in
modo di avvicinarglisi: la strada della di-
struzione era spianata perché il fascismo
per non restare isolato all’estero si legò
malauguratamente ai nazisti. In Germa-
nia i campi di concentramento per gli op-
positori esistevano già prima del secondo
conflitto mondiale, in Italia c’era il con-
fino che, seppur parimenti inaccettabile,
era molto diverso. L’amicizia tedesca
provocò l’involuzione del fascismo, la sua
entrata in guerra contro le potenze demo-
cratiche occidentali (da cui si era allonta-
nato definitivamente) e la mancata pos-
sibile sua futura e incruenta evoluzione
verso la democrazia (similmente al fran-
chismo). L’opera socio-politica fascista
del periodo prebellico – sempre non di-
menticando che era una dittatura anti-
democratica – non è paragonabile nello
spirito alla difesa degli interessi del capi-
tale praticata dai nazisti né alla completa
e radicale restrizione delle libertà attuata
da questi ultimi e altrove da regimi ditta-
toriali comunisti o conservatori: in Italia
c’erano la Chiesa e la monarchia sabauda
che mantenevano propri spazi d’azione.
Sul fascismo pesano le vittime e le rovine
dell’ultima guerra e lo sviamento nazista
con l’Olocausto in modo incancellabile,
unitamente alla sua originaria vocazione
antidemocratica e all’uso della violenza
interna nel suo primo frangente: queste
sono le maggiori affinità con il nazional-
socialismo rispetto a cui ebbe genesi e vi-
ta diverse fino al connubio (Mussolini
guidava il governo italiano già dalla fine
del 1922 e manifestò l’intenzione di alle-
arsi con i Tedeschi solo dopo la svolta
della metà degli anni ’30). L’intellettuale
italiano genuinamente più incline al raz-
zismo, il filosofo Julius Evola, parados-
salmente fu mal visto dai nazisti a causa
di divergenze d’impostazione teorica e
tenuto ai margini dai fascisti che gli pre-
ferivano il neohegeliano Giovanni Genti-
le. Nella seconda metà del Novecento,
sebbene la memoria della Shoah fosse vi-
va e presente come oggi ma più vicina
agli eventi, gli Occidentali mantennero
mentalità discriminatorie verso i rappre-
sentanti di altre etnie e specialmente nei
confronti dei neri. I casi degli USA e del
Sudafrica sono tra quelli emblematici: in
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
12
Sudafrica i bianchi instaurarono un go-
verno segregazionista, durato dal 1948 al
1990, non dissimile da quello nazista, e
negli Stati Uniti il Ku Klux Klan e gli
assassini di leaders neri sono storia anco-
ra recente.
DAI PUNTI DEL PROGRAMMA DEL PARTITO NAZIONALSOCIALISTA
(1920)
1 - Noi chiediamo la costituzione di una
Grande Germania che riunisca tutti i Tede-
schi, sulla base del diritto all’autodeter-
minazione dei popoli.
3 - Noi chiediamo terra e colonie per nutri-
re il nostro popolo e per collocare l’eccesso
di popolazione.
4 - Cittadino può essere soltanto chi è con-
nazionale.
Può essere connazionale solo chi è di san-
gue tedesco, senza riguardo alla confessione
religiosa. Nessun Ebreo può quindi essere
connazionale.
5 - Chi non è cittadino può vivere in Ger-
mania solo come ospite e deve sottostare alla
legislazione per gli stranieri.
6 - Il diritto di determinare l’orientamento
e le leggi dello Stato è riservato ai soli citta-
dini. […]
7 - Noi chiediamo che lo Stato si impegni
ad assicurare a tutti i cittadini i mezzi per
vivere. Se questo paese non può garantire il
sostentamento a tutta la popolazione, chi
non è cittadino dovrà essere espulso dal
Reich.
8 - Bisogna impedire ogni nuova immigra-
zione di non Tedeschi. […]
10 - Primo dovere di ogni cittadino è il la-
voro, fisico o intellettuale. L’attività del
singolo non deve nuocere agli interessi della
collettività, ma inserirsi nel quadro di que-
sta e per il bene comune. Per questo noi
chiediamo:
11 - La soppressione del reddito di chi non
lavora e non fatica, la soppressione della
schiavitù dell’interesse.
13 - Noi chiediamo la nazionalizzazione di
tutti i gruppi esistenti d’imprese che eserci-
tano un monopolio.
14 - Una partecipazione agli utili nelle
grandi imprese.
16 - Noi chiediamo la creazione e la prote-
zione di un sano ceto medio, che i grandi
magazzini vengano immediatamente affi-
dati alle amministrazioni comunali e che
siano affittati a poco prezzo ai piccoli
commercianti. La priorità deve essere ac-
cordata ai piccoli commercianti e indu-
striali per tutte le forniture allo Stato, alle
regioni o ai comuni.
17 - Noi chiediamo una riforma agraria
adatta ai nostri bisogni nazionali, la pro-
mulgazione di una Legge che permetta
l’esproprio, senza indennizzo, del suolo per
fini di utilità pubblica, la soppressione
dell’interesse fondiario e il blocco di ogni
speculazione fondiaria.
18 - Noi chiediamo una lotta senza tregua
contro coloro che con la loro attività noccio-
no all’interesse pubblico. […]
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
13
19 - Noi chiediamo che un diritto comune
tedesco sostituisca il diritto romano che è al
servizio dell’ordinamento materialistico del
mondo.
20 - L’estensione del nostro sistema scola-
stico deve permettere a tutti i Tedeschi dota-
ti e attivi di accedere a una educazione su-
periore e con questa a posti direttivi. […]
Lo spirito nazionale deve essere inculcato
nella scuola fin dall’età della ragione. […]
21 - Lo Stato deve provvedere a migliorare
la salute pubblica, proteggendo la madre e
il fanciullo, proibendo il lavoro dei fanciul-
li, introducendo mezzi atti a sviluppare le
attitudini fisiche mediante l’obbligo di pra-
ticare lo sport e la ginnastica e mediante un
forte sostegno a tutte le associazioni che si
occupano dell’educazione fisica della gio-
ventù.
23 - Noi chiediamo la lotta legale contro la
menzogna politica cosciente e la sua diffu-
sione a mezzo della stampa. […]
I giornali che contrastano con l’interesse
pubblico devono essere vietati. Noi chie-
diamo che la legge combatta l’insegnamento
letterario e artistico che esercita un’influen-
za disgregatrice sulla nostra vita nazionale,
e la soppressione delle organizzazioni che
contravvengono alle disposizioni sopra e-
sposte.
24 - Noi chiediamo la libertà nell’ambito
dello Stato per tutte le confessioni religiose,
nella misura in cui esse non mettano in
pericolo la sua esistenza o non offendano il
sentimento morale della razza germanica.
Il partito, come tale, difende la concezione
di un Cristianesimo positivo, ma non si
lega a una confessione specifica. Esso com-
batte lo spirito giudaico-materialista
all’interno e all’esterno ed è convinto che un
risanamento duraturo del nostro popolo
non può avvenire che dall’interno, sulla
base del principio: l’interesse generale pre-
vale su quello particolare.
25 - Per realizzare tutto questo, noi chie-
diamo la creazione di un potere centrale
forte, l’autorità assoluta del comitato politi-
co su tutto il Reich e sui suoi organismi e
inoltre la creazione di camere professionali
e di uffici municipali incaricati di attuare
nei vari Laender le leggi generali promul-
gate dal Reich. […]
5.1. LA DEMOCRAZIA CORPORATIVA
l criterio della rappresentanza parla-
mentare corporativa (cioè per sezioni
della società) fu uno dei cavalli di
battaglia del vecchio Movimento sociale
italiano, un modello che era stato eredita-
to dalla parte concettualmente salvabile
dell’ideologia fascista. Sebbene il corpo-
rativismo si porti appresso la tara del fa-
scismo non fu questo a introdurlo nella
storia delle idee: il primo corporativista è
stato Platone. Nella “Repubblica” la tri-
partizione del popolo in governanti – di-
fensori – produttori risponde all’esigenza
di porre ogni essere umano in virtù delle
I
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
14
sue capacità, e non in seguito a privilegi
di nascita o di raccomandazione, nella
categoria migliore corrispondente alle sue
attitudini e agli interessi collettivi. A
Platone era ancora estraneo il concetto di
persona, ragione per la quale la sua con-
cezione di Stato (etico) è involontaria-
mente molto simile a quella gentiliano-
fascista (il cittadino in funzione dello
Stato). Il filosofo ateniese venne inserito
nella critica dei sistemi totalitari condot-
ta da Karl Popper (da ricordare che Pla-
tone legittimava anche la schiavitù – di-
fetto comune a tutta l’antichità –, i cui
rappresentanti erano in fin dei conti una
quarta categoria di servi). Questa idea di
dare a ognuno il ruolo giusto ricomparirà
nella teoria attrattiva del lavoro di Charles
Fourier. I limiti della “Repubblica” pla-
tonica, che prospettava pure programmi
eugenetici di ascendenza spartana, ma
che a posteriori rievocano molto quelli
nazisti, sono da collocare e conoscere nel-
la loro dimensione storica (sempre non
condividendoli). Non perché il corporati-
vismo è stato riproposto e riattualizzato
dal fascismo dovrebbe essere oggetto di
abominio: preso per sé è un’ipotesi di
rappresentanza con una sua dignità.
L’opportunità di un’assemblea legislativa
corporativa può essere giudicata diver-
samente se ripresentata correttamente.
Ai tempi del fascismo, prima dell’istitu-
zione della Camera dei fasci e delle corpo-
razioni, l’esistenza del partito unico e del-
la lista bloccata di tutti i deputati (sotto-
posta a referendum) era stata accompa-
gnata dal calo (di circa 1/5) dell’elettorato.
Se il liberalismo inglese sosteneva no ta-
xation without representation (nessuna im-
posizione di tasse a coloro che non godo-
no del diritto di voto, per cui ci sia il suf-
fragio popolare), il fascismo invertì i ter-
mini, pur rimanendo sulla stessa linea
concettuale: no representation without ta-
xation (nessuna facoltà di voto a chi ha
redditi più bassi e che non contribuisce al
bilancio pubblico significativamente).
Questa procedura fascista riflette in
qualche modo il pensiero di John Stuart
Mill di rendere lecita singolarmente la
formulazione di più voti ai cittadini ca-
paci di valutare le scelte politiche: il fa-
scismo intervenne per difetto. Mantenne
il meccanismo di un voto pro capite, però
così facendo lo tolse a coloro strumenta-
lizzabili più vicini disgraziatamente a ca-
renze di acculturazione (il Senato rimane-
va di nomina regia, mentre venne ridotto
il numero dei deputati allora non stipen-
diati). Ancor prima, alla fine del ’25, uni-
camente per le elezioni amministrative,
era stato introdotto il suffragio femminile
che durò sino all’abolizione dei consigli
elettivi (10 mesi per le comunali, 32 per le
provinciali). Tutto ciò è modernamente
inaccettabile e contraddittorio, qualun-
que siano le sue derivazioni prossime o
lontane: la sovranità risiede nel popo-
lo indistintamente nei suoi cittadini
di ambo i sessi che abbiano compiuto
la maggiore età, lo Stato deve garan-
tire a tutti l’informazione e l’istruzio-
ne adatte a poter esprimere delle de-
cisioni mature nelle libere e plurali
consultazioni elettorali. Una democra-
zia esclusivamente corporativa è da re-
spingere poiché esclude il ruolo dei partiti
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
15
politici come mediatori ideologici e stru-
menti del pluralismo, e la dialettica si
sposta a un piano sconosciuto. Uno
schema misto bicamerale (la normale
camera dei partiti e la camera delle cor-
porazioni, con specificazione delle rispet-
tive attribuzioni) sarebbe per la proposta
corporativista soluzione migliore e più
equilibrata. Oggigiorno, con compiti con-
sultivi e progettuali, presso gli enti locali
esistono particolari consulte e consigli va-
ri che non sono nient’altro che organi
corporativi. Dare a una camera delle cor-
porazioni la possibilità di approvare in
prima lettura i suoi disegni di legge, che
necessiterebbero di un successivo passag-
gio alla camera dei deputati (per il dibatti-
to, eventuali emendamenti, il giudizio
finale), non equivale a menomare o im-
pedire la democrazia. Un problema è sta-
bilire i parlamentari corporativi: chi,
quanti, come e perché. Per quest’ultimo
nodo che si lega all’arbitrio di veduta ap-
pare preferibile che siano i partiti stessi,
nella democrazia classica, a dar spazio al
proprio interno e nelle candidature a
rappresentanti delle varie categorie socia-
li e sindacali in modo più concreto e pro-
ficuo di quanto accada. Tuttavia i settori
più generali della società sembrano essere
questi: 1) casalinghe, 2) studenti, 3) disoc-
cupati, 4) pensionati, 5) lavoratori e datori
di lavoro, 6) operatori di culto. Il numero
di seggi nella loro camera potrebbe essere
per ciascuno nel complesso proporzionale
a quello degli iscritti (ogni cittadino ver-
rebbe inserito nella corporazione della
sua posizione attuale principale), il tutto
dovrebbe essere aggiornato in vista del
rinnovo. Tutte le organizzazioni che ab-
biano avuto riconoscimento pubblico in
relazione a una corporazione (o le loro
aggregazioni) potrebbero concorrere alla
sua rappresentanza. Ogni iscritto sarebbe
chiamato a votare. La cornice statale di
un simile esperimento non dovrebbe na-
turalmente essere a imitazione del model-
lo hegeliano-fascista: ci vorrebbe comun-
que uno Stato etico, ma di una eticità di-
versa, in funzione del cittadino; dunque
uno Stato laico, garante di libertà e di
giustizia sociale, al servizio della persona
e della collettività a protezione dei quali
esiste (e non viceversa). Occorre dire per
correttezza storiografica che il governo
fascista accanto ai suoi gravissimi limiti
storici e ideologici da condannare – una
gamma che va dall’uso della violenza e
dai dichiarati propositi antidemocratici
all’adesione all’antiebraismo e alle impre-
se militari – si sforzò in campo nazionale
e coloniale di migliorare le condizioni di
vita materiale e di combattere le spere-
quazioni prodotte dal capitalismo (con
varie opere pubbliche; istituzioni per
l’assistenza sociale e il sostegno all’econo-
mia: IRI, IMI, INPS, INAIL, etc.; prov-
vedimenti normativi: leggi sull’orario di
lavoro ridotto a 8 ore quotidiane e a 40
settimanali con la domenica e un altro
giorno di pausa, esenzioni tributarie alle
famiglie numerose, assicurazione contro
la disoccupazione, etc.) raggiungendo dei
risultati i quali meritano studio formale
più attento che iniziale riprovazione
d’insieme. Quale tipo di funzionamento e
di suddivisione possa avere nel suo seno
la Camera delle corporazioni è difficile sta-
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
16
bilirlo per il fatto che questi parlamentari
non proverrebbero da partiti: i rischi so-
no quelli del radicalismo delle provenien-
ze settoriali, che impedirebbe un produt-
tivo svolgimento dei lavori, e di una
frammentazione dell’azione propositiva e
costruttiva, con risultanti confusione e
improduttività. Tutti i possibili inconve-
nienti sollecitano un ripensamento del
progetto di un’assemblea legislativa di
natura corporativa, e suggeriscono di
mantenere l’ambito di semplici e specifici
organi rappresentativi al livello degli enti
locali e il loro ruolo a quello consultivo-
propositivo.
5.2. L’“UTOPIA” DELLA RSI
egli affari di Stato il tentativo di
cogliere l’opportunità al volo a
prescindere da considerazioni di
carattere ideologico e morale è un tenta-
tivo che non sempre ha successo e non
sempre paga. Questo è stato il fondamen-
tale errore dell’Italia fascista alla fine de-
gli anni ’30: l’avvicinamento, pure sul pi-
ano della condotta, alla Germania nazista
è equivalso a un’alleanza con una ideolo-
gia del male. Con l’emanazione delle leggi
razziali (1938) il fascismo si è deteriorato,
e da movimento che aveva ottenuto la
simpatia e l’appoggio delle masse, per
compiacenza verso i nazisti, introdusse in
Italia norme inaccettabili e si legò a un
alleato che lo avrebbe portato alla rovina.
La tardiva partecipazione all’ultimo con-
flitto mondiale, dieci mesi dopo il suo ini-
zio, è la riprova di voler stare dalla parte
dei potenziali vincitori (i Tedeschi) nel
timore inoltre che questi dopo aver scon-
fitto Francia e Inghilterra non avessero
difficoltà a prendere di mira in un secon-
do momento anche l’Italia che era stata a
guardare. Una strategia politica guidata
quasi esclusivamente da opportunismo
può portare al disastro e alla sconfitta,
come è effettivamente successo. L’allean-
za tra Germania nazista e Italia fascista
era un’alleanza di politica estera: il nazi-
smo e il fascismo non avevano ideologie
molto simili, e anzi i fascisti – che non e-
rano stati antisemiti fino al ’38, né tanto
meno paganeggianti – non avevano visto
di buon occhio l’emergente nazismo (il
cancelliere austriaco filofascista Dollfuss
era stato ucciso da terroristi nazisti, e
Mussolini in un discorso pubblico aveva
ricordato che le popolazioni germaniche
vivevano in uno stato barbarico quando a
Roma antica c’erano Augusto e Virgilio).
L’avvicinamento tra i due movimenti
avvenne dopo la seconda guerra d’Etiopia
(1935-36), durante la quale l’Inghilterra
fu tra coloro che votarono alla Società del-
le nazioni le sanzioni contro l’Italia per
l’impresa di conquista, ma gli Inglesi die-
tro la cessione dei diritti sui pozzi petroli-
feri dell’AGIP in Iraq fecero passare le
N
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
17
navi di rifornimento italiane dal Canale
di Suez: fu quest’atteggiamento di ambi-
guità a spingere nel contesto politico este-
ro l’Italia verso la Germania e ad allon-
tanarla dai compagni della vittoria cosid-
detta mutilata nella prima guerra mon-
diale. Un’ipotesi vorrebbe l’ingresso in
guerra degli Italiani sollecitata da Chur-
chill, perché paventava in caso di sconfit-
ta di trovarsi a disagio davanti alla sola
Germania vincitrice, mentre il governo
italiano, anch’esso in prospettiva futura
tra i vincitori, avrebbe potuto moderare
le pretese dei nazisti e l’urto della sconfit-
ta: qui però si entra in un campo che ri-
guarda il famoso carteggio Churchill-
Mussolini, e non è possibile fondare un
giudizio storico inoppugnabile. In parole
povere quando il buon senso negli anni
della guerra consigliava di non schierarsi
con la Germania (come fu fatto per quasi
un anno) tutto finì per congiurare a favo-
re di una partecipazione militare che con
l’allargamento delle ostilità a livello
mondiale non sembrò più foriera di vitto-
ria. Non fu però solo la Germania a sca-
tenare lo scoppio della guerra in Europa:
bisogna ricordare che con il patto Ribben-
trop-Molotov Tedeschi e Russi si erano di-
visi la Polonia, per la cui difesa Inghilter-
ra e Francia dichiararono guerra alla
Germania; perché non anche all’URSS
con cui anzi si allearono dopo che questa
fu attaccata nel ’41? Anche l’Unione so-
vietica ha delle responsabilità per la con-
divisione dei piani espansionistici tede-
schi: perché l’URSS non difese la Polo-
nia? L’Italia dal canto suo sbagliò ad al-
linearsi con chi sembrava più forte, a-
vrebbe dovuto invece difendersi allorché
fosse stata attaccata da chiunque. La
guerra, come tutte le guerre, fu tragica
sino alla caduta del fascismo, ma quello
che accadde dopo fu ancora più tragico e
luttuoso. Dopo il 25 luglio 1943 quello
che accadde è frutto dell’operato del nuo-
vo governo che firmò l’armistizio. Un go-
verno diverso per il dopo Mussolini, come
era negli accordi tra monarchia e dissi-
denti fascisti guidati dal filoinglese Gran-
di, formato da fascisti, tecnici e politici di
altre forze, si sarebbe fatto trovare molto
probabilmente più preparato. L’esistenza
storica della Repubblica sociale italiana è
ignorata da molti, e tra quelli che ne san-
no la considerazione è quasi esclusiva-
mente quella di uno Stato fantoccio al
servizio dei Tedeschi occupatori: questa è
una parte della verità, la verità sostanzia-
le, a volte mal inquadrata nella dinamica
degli eventi. Gli antefatti che vanno dal
25 luglio all’8 settembre 1943 hanno in sé
le radici che spiegano i due anni di storia
successiva fino al 25 aprile 1945, una sto-
ria che viene vista, come giusto dato ac-
quisito, di liberazione dall’invasore nazi-
sta e di parziale guerra civile (dopo
l’armistizio con gli Alleati un’invasione
tedesca in Italia ci sarebbe stata quasi
certamente comunque). Mussolini fu ar-
restato subito dopo essersi dimesso da ca-
po del governo, la monarchia progettava
da prima una congiura e non comprese
che l’arresto di un Mussolini dimissiona-
rio avrebbe peggiorato la situazione: il
duce era uscito dalla scena politica spon-
taneamente, bastava organizzare sola-
mente il previsto governo. Ma anche qui
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
18
la monarchia si comportò inadeguata-
mente: provocò la caduta completa del
regime con cui aveva coabitato per un
ventennio, non rispettò l’accordo, e tutto
finì d’un colpo allo sbando. Il nuovo go-
verno Badoglio non seppe organizzare
tempestivamente nulla se non la fuga con
il re. Non esisteva alcun progetto di dife-
sa da una prevedibile invasione tedesca.
Se il re fosse rimasto a Roma con un altro
governo più premuroso e più cauto, che
avesse mantenuto soprattutto l’unità na-
zionale, è possibile che i Tedeschi non an-
dassero più a sud della Pianura Padana e
che nel giro di pochi mesi, con il sostegno
degli Alleati, fossero ricacciati al di là del-
le Alpi. Non ci sarebbe stata la Repubblica
sociale italiana – canto del cigno del fasci-
smo –, non ci sarebbe stata la legittima
guerra partigiana, molti di meno sarebbe-
ro stati gli Italiani catturati dai Tedeschi.
Di un’altra storia si sarebbe parlato oggi,
una storia che non avrebbe avuto né vin-
citori né vinti, né odi né rancori che sono
perdurati per decenni, per chi costretto a
scegliere si trovò a stare da una parte o
dall’altra. Dopo l’8 settembre i nazisti
invasori avevano in mente uno Stato fan-
toccio alla “Vichy”: era papabile per la
sua guida Roberto Farinacci, fascista fi-
lonazista, però dopo che i Tedeschi libera-
rono dalla prigionia Mussolini e lo ebbero
in pugno quest’ultimo non si poté tirare
indietro. Non si guarda il lato ideale di
quella repubblica, obiettivamente con
tutti i suoi aspetti negativi, per un’analisi
storiografica più articolata, perché è so-
praffatto da un insopprimibile peso. I lati
più negativi della RSI consistono nella
prosecuzione della guerra accanto all’alle-
ato precedente (con tutte le sue conse-
guenze) e nel mantenimento delle leggi
razziali. Se il distacco dall’alleanza ger-
manica fosse stato meno «ignobile» (come
lo definisce l’inno della Xma MAS) il senso
dell’onore e della coerenza, pur fuori luo-
go e mal giustificato, forse non avrebbe
spinto molti fascisti a ritornare a sbaglia-
re: in aggiunta alla caduta del regime il
governo Badoglio dopo un mese e mezzo
di continuazione nel conflitto, tenendo
all’oscuro i Tedeschi dei suoi propositi,
firmò l’armistizio. Esistevano modi più
dignitosi e meno traumatici per uscire da
una guerra in cui assolutamente l’Italia
non doveva entrare come promotrice ac-
canto ai nazisti. Il percorso ideologico
dell’ultimo fascismo monarchico fu carat-
terizzato dall’indelebile e gravissima re-
sponsabilità nell’adozione di provvedi-
menti discriminatori verso gli Ebrei se-
guendo il pessimo e tragico esempio nazi-
sta. Bisogna ricordare che l’antisemitismo
moderno ebbe una gestazione religiosa
che ne assecondò la diffusione, tant’è che
nel caso fascista si accennava a richiami
di norme antisemite emanate in alcuni
concili (quello Lateranense del 1215,
quello di Bezieres del 1246 e quello di Or-
leans del 1553), e che tra le varie persona-
lità di spicco a mostrare plauso per le leg-
gi razziali italiane ci furono, per fare
qualche significativo esempio, Romolo
Murri, Luigi Gedda, Amintore Fanfani,
Pietro Badoglio e Giovanni Guareschi.
Addirittura l’espressione «oremus pro
perfidis Iudaeis (preghiamo per i perfidi
Ebrei)» scomparirà dalla liturgia cattoli-
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
19
ca anni dopo l’Olocausto con il Concilio
Vaticano II (1962-65). Durante il periodo
della Repubblica sociale fascisti e nazisti
non andarono perfettamente d’accordo: i
Tedeschi allargando i propri confini erano
arrivati fino all’Adriatico e un canto fa-
scista recitava: «guai a chi dal Brennero il
cippo sposterà»; inoltre i nazisti non gra-
divano lo spostamento a sinistra della po-
litica sociale di Salò (lo Stato stava per
chiamarsi REPUBBLICA SOCIALISTA
ITALIANA).
Il fascismo repubblicano si riallacciò alle
proprie origini del primo dopoguerra
mondiale (il sansepolcrismo). Il filosofo
Giovanni Gentile che aderì alla RSI (co-
me, tra altri, Nicola Bombacci, uno dei
fondatori del PCI) aveva definito i comu-
nisti «corporativisti impetuosi». Lenin
anni addietro era stato un estimatore del
Mussolini socialista massimalista. Il cor-
porativismo dell’ultimo fascismo propo-
neva l’armonizzazione integrale del mon-
do del lavoro attraverso la soppressione
della dicotomia “datori di lavoro / presta-
tori d’opera” e la creazione di un unitario
organismo sindacale (da ogni base corpo-
rativa era pure prevista l’elezione di ogni
ministro del governo nazionale). La socia-
lizzazione delle imprese fu un esperimento
che spodestava radicalmente il capitale
dal suo tradizionale predominio per con-
segnare la direzione imprenditoriale pri-
vata a meccanismi di democrazia interna
che concedevano larghissimi spazi ai la-
voratori.
Sotto questo profilo sociale d’analisi ri-
sultano interessanti a) il punto 15 del
Manifesto del Partito fascista repubblicano
(diritto alla casa) e b) gli articoli 113-124
del progetto costituzionale della Repubblica
(diritto al lavoro).
a)
Quello della casa non è soltanto un diritto di
proprietà, è un diritto alla proprietà. Il
Partito inscrive nel suo programma la crea-
zione di un Ente nazionale per la casa del
popolo, il quale, assorbendo l’Istituto esi-
stente e ampliandone al massimo l’azione,
provvede a fornire in proprietà la casa alle
famiglie di lavoratori di ogni categoria, me-
diante diretta costruzione di nuove abita-
zioni o graduale riscatto di quelle esistenti.
In proposito è da affermare il principio ge-
nerale che l’affitto – una volta rimborsato il
capitale pagato nel giusto frutto – costitui-
sce titolo di acquisto. Come primo compito
l’Ente risolverà i problemi derivanti dalle
distruzioni di guerra con la requisizione e la
distribuzione di locali inutilizzati e con co-
struzioni provvisorie.
b)
113 - Il lavoro è il soggetto e il fondamento
dell’economia produttiva.
114 - Il lavoro, sotto tutte le sue forme orga-
nizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche
e manuali è un dovere nazionale. Soltanto
il cittadino che adempie il dovere del lavoro
ha la pienezza della capacità giuridica, po-
litica e civile.
115 - Come l’adempimento del dovere di
svolgere l’attività lavorativa secondo le ca-
pacità e attitudini di ognuno è pari titolo di
onore e di dignità, così la Repubblica assi-
cura la piena uguaglianza giuridica di tutti
i lavoratori.
116 - La Repubblica garantisce a ogni cit-
tadino il diritto al lavoro, mediante l’orga-
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
20
nizzazione e l’incremento della produzione e
mediante il controllo e la disciplina della
domanda e dell’offerta di lavoro. Il collo-
camento dei lavoratori è funzione pubblica,
svolta gratuitamente da idonei uffici dell’or-
ganizzazione professionale riconosciuta.
117 - Poiché la attuazione, rigorosa e inde-
rogabile, delle condizioni fondamentali co-
stituenti garanzia del lavoro è di preminente
interesse pubblico, la disciplina del rapporto
di lavoro è affidata alla legge o alle norme
da emanarsi dall’organizzazione professio-
nale riconosciuta. Tali norme si inseriscono
automaticamente nei contratti individuali, i
quali possono contenere norme diverse ma
soltanto più favorevoli al lavoratore.
118 - La retribuzione del prestatore di lavo-
ro deve corrispondere alle esigenze normali
di vita, alle possibilità della produzione e al
rendimento del lavoro. Oltre alla retribuzio-
ne normale saranno corrisposti al lavoratore
anche nello spirito di solidarietà tra i vari
elementi della produzione, assegni in rela-
zione agli oneri familiari.
119 - L’orario ordinario di lavoro non può
superare le 44 ore settimanali e le 8 ore
giornaliere, salvo esigenze di ordine pubbli-
co per periodi determinati e per settori pro-
duttivi da stabilirsi per legge. La legge o le
norme emanate dalle associazioni profes-
sionali riconosciute stabiliscono i casi e i
limiti di ammissibilità del lavoro straordi-
nario e notturno e la misura della maggio-
razione di retribuzione rispetto a quella do-
vuta per il lavoro ordinario.
120 - Il lavoratore ha diritto a un giorno di
riposo ogni settimana, di regola in coinci-
denza con la domenica e a un periodo an-
nuale di ferie retribuito.
121 - Ogni lavoratore ha diritto a sciogliere
il rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Se il licenziamento avviene senza sua colpa,
il lavoratore ha diritto, oltre a un congruo
preavviso, a un’indennità proporzionata
agli anni di servizio.
122 - In caso di morte del lavoratore, quanto
a questo spetterebbe se fosse licenziato senza
sua colpa, spetta ai figli, al coniuge, ai pa-
renti conviventi a carico o agli eredi, nei
modi stabiliti dalla legge.
123 - La previdenza è un’alta manifesta-
zione del principio di collaborazione tra tut-
ti gli elementi della produzione, che debbono
concorrere agli oneri di essa. La Repubblica
coordina e integra tale azione di previdenza,
a mezzo dell’organizzazione professionale, e
con la costituzione di speciali Istituti per
l’incremento e la maggiore estensione delle
assicurazioni sociali. L’opera convergente
dello Stato e delle categorie interessate deve
garantire a tutti i lavoratori piena assisten-
za per la vecchiaia, l’invalidità, gli infortu-
ni sul lavoro, le malattie, la gravidanza e
puerperio, la disoccupazione involontaria,
il richiamo alle armi.
124 - Allo scopo di dare e accrescere la ca-
pacità tecnica e produttiva e il valore morale
dei lavoratori e di agevolare l’azione seletti-
va tra questi, la Repubblica, anche a mezzo
dell’associazione professionale riconosciuta,
promuove e sviluppa l’istruzione professio-
nale.
A distanza di tanti anni da quegli eventi
si parla del “sangue dei vinti”, il giornali-
sta Giampaolo Pansa ha affrontato in al-
cuni suoi libri un rovescio della medaglia
poco noto. Se il fascismo fu protagonista
e promotore di violenza e guerre, ferma-
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
21
mente da condannare, in frangenti della
sua azione, in contesti vari in cui non ef-
ficace fu la mediazione per evitare il peg-
gio e queste vie trovavano facile accesso,
è anche vero che i fascisti di Salò, che
credevano in idee solamente in parte leci-
te, subirono violenze altrettanto ingiusti-
ficabili. Pansa ha trattato lunghe serie di
episodi riguardanti i cosiddetti “repubbli-
chini”. Mai un male può giustificarne un
altro: la violenza è incompatibile con la
civiltà umana e con la democrazia, en-
trambe vanno difese da qualsiasi attacco
e dal pericolo di disordini sociali, conflitti
bellici e discriminazioni di tutti i tipi. La
Repubblica sociale ebbe a carico un enor-
me numero di vittime a causa della guer-
ra e dell’occupazione militare straniera, il
suo patrimonio d’idee può essere analiz-
zato per vedere ciò che non porta il segno
del male. Il corporativismo fascista non
coinvolge ideologicamente l’antisemiti-
smo, e il primo considerato per sé può es-
sere studiato come dottrina socio-econo-
mica autonoma. Da una ideologia che
non sia integralmente votata al male,
come invece lo fu il nazionalsocialismo, la
parte concettualmente sana può distin-
guersi, tenendo ben chiaro e inamovibile
che la netta e universale condanna matu-
rata verso tutte le persecuzioni e lo ster-
minio degli Ebrei perseguiti dai nazisti e
dai loro alleati non può in nessun tempo e
in nessun luogo essere rimossa o corrotta
da forme di negazionismo o menomata da
qualsiasi analisi.
6.1. IL GIUSTIZIALISMO PERONISTA
l justicialismo è un sistema di pensie-
ro politico formatosi in Argentina
negli anni ’40 a opera del generale
Juan Domingo Perón (1895-1974):
quand’era ancora colonnello era stato in
Italia ed era rimasto colpito dagli espe-
rimenti e dalla dottrina sociale fascisti. Il
golpe militare del 1943 sostenuto da uffi-
ciali progressisti, di cui lui faceva parte,
destituì un governo argentino che era
controllato dall’oligarchia conservatrice
borghese che controllava il paese attra-
verso i grandi latifondi e le grandi impre-
se, e che lo aveva posto alla mercé del
capitale inglese e americano. Perón (che
qualcuno pensò fosse diventato comuni-
sta), avendo avuto nel nuovo regime la
responsabilità delle politiche del lavoro,
avviò una serie di significative misure, in
collaborazione con l’altro colonnello
Mercante (figura considerevole del primo
peronismo), a difesa della classe lavora-
trice: creazione dei tribunali del lavoro,
stipula di contratti collettivi di lavoro,
aumenti salariali, indennità di licenzia-
mento, statuti del bracciante agricolo e
del giornalista, regolamentazioni delle
associazioni professionali, unificazione
del sistema di previdenza sociale, pensio-
ni, creazione dell’ospedale per i ferrovia-
I
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
22
ri, scuole tecniche per operai, proibizione
di agenzie di collocamento private. Le
condizioni della classe operaia e brac-
ciantile argentina cambiarono a tal pun-
to che a causa della sua popolarità il go-
verno allarmato lo fece arrestare nell’ot-
tobre del ’45 (allora era vicepresidente
della repubblica, ministro della difesa,
segretario al lavoro). La colossale mobili-
tazione di popolo promossa dai sindacati
peronisti costrinse la dittatura a rimette-
re in libertà Perón e a garantire libere
elezioni. Una marea di Argentini davanti
alla Casa rosada in Plaza de mayo a Bue-
nos Aires gridava a ripetizione: «Quere-
mos a Perón!!!». Il quale il 17 ottobre
(celebrato nel peronismo come el día de la
lealtad) parlò dal balcone del palazzo pre-
sidenziale rassicurando tutti. Le elezioni
si tennero nel febbraio del ’46 (il sistema
amministrativo argentino ricalca quello
statunitense): a suffragio maschile vinse
Perón, senza brogli e senza raccogliere
una maggioranza bulgara, per circa
1.500.000 voti contro 1.200.000. Aveva
avuto contro uno schieramento di partiti
che andava dalla sinistra alla destra, so-
stenuto dagli USA e dagli Inglesi che
perderanno il controllo economico e poli-
tico dell’Argentina. Durante il governo
peronista, accanto al quale fu Evita
(1919-1952), moglie del presidente e infa-
ticabile portabandiera degli umili e dei
diseredati (abanderada de los humildes), il
paese fu modernizzato sotto tutti i punti
di vista. Perón attuò un programma che
diede tanti risultati: nazionalizzazioni di
servizi pubblici (ferrovia, telefonia, ser-
vizi del gas, etc.) e gestione statale del
commercio estero in modo da liberarsi da
condizionamenti stranieri; nazionalizza-
zione della banca nazionale e divieto di
esportare i capitali per difendere lo svi-
luppo economico interno; case, infra-
strutture (reti idriche e fognarie, etc.);
politiche sanitarie (assistenza gratuita,
aumento dei posti letto, campagne medi-
che contro malattie); diminuzione della
mortalità infantile e innalzamento del
periodo medio di vita; comparsa della
televisione (Televisión Radio Belgrano,
oggi Canal 7); gratuità dell’istruzione,
abolizione delle tasse universitarie, crea-
zione dell’Università operaia, aumento
del tasso di scolarizzazione; aumenti sa-
lariali, partecipazione agli utili d’impresa
da parte dei lavoratori, periodi di vacan-
za per le loro famiglie a carico dello Sta-
to; riforma agraria; politiche contro la
disoccupazione; pensioni; etc.
Unitamente, la FUNDACIÓN EVA
PERÓN, da Evita stessa diretta, operò
meritevolmente su vasta scala per solle-
vare gli indigenti dal bisogno producendo
molto: costruzione di ospedali, asili,
scuole, colonie di vacanza, abitazioni,
strutture di accoglienza per bambini,
donne nubili, impiegate, anziani; promo-
zione della donna, scuole per infermiere;
borse di studio, sport per i giovani; aiuti
alle famiglie più povere; etc.
Alcuni ne parlano come una macchina
clientelare: perché aiutare il prossimo
deve diventare clientelismo? E poi quale
clientelismo nell’aiutare pure popolazioni
estere sudamericane colpite da terremoti
o persino il neonato Stato d’Israele? Qui,
riguardo a Israele, è opportuno soffer-
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
23
marsi poiché l’Argentina ospitò nell’ulti-
mo dopoguerra criminali nazisti in fuga:
il peronismo non era razzista né tanto
meno antisemita; l’ospitalità garantita ai
criminali di guerra (cosa che costituisce
una macchia non ideologica) era un fe-
nomeno precedente l’elezione di Perón
alla presidenza. Costoro furono protetti
in un contesto che è più ampio, un conte-
sto in cui l’Occidente li riciclava in fun-
zione anticomunista (uno di loro in Usa
fu addirittura dirigente della CIA) e in
cui gli storici parlano anche di responsa-
bilità del Vaticano come centrale di smi-
stamento. In Argentina (che già godeva
di proprie grandi risorse) i Tedeschi por-
tarono capitali imprenditoriali e non: a-
verli protetti dalla giustizia internaziona-
le dato che i militari argentini erano
ammiratori di quelli tedeschi (non in
quanto nazisti) è stato un errore di Perón
e di tutto l’Occidente. I nazisti non con-
dizionarono il peronismo: sennò perché
nel 1951 Golda Meir, allora ministro del
lavoro israeliano, si sarebbe recata in Sud
America per ringraziare personalmente
Eva Perón dei summenzionati aiuti della
fondazione? Questa storia dei nazisti, di
cui si seppe meglio quando il presidente
giustizialista Menem fece aprire gli ar-
chivi nel ’92 è a metà strada tra oppor-
tunismo e ammirazione formale. Non ri-
torna a onore di Perón, ma non gli è inte-
ramente addebitabile poiché il regime del
1943-46 non era guidato da lui (lui era
emerso nettamente nel ’44). La situazio-
ne che successivamente si trovò (e contro
cui non intervenne) era condizionata pu-
re dal sostegno che ricercava presso la
Chiesa, coinvolta a detta degli storici nel-
la faccenda. Il giustizialismo persegue la
tercera posición tra il socialismo e il capi-
talismo, si propone di conciliare tutte le
classi sociali senza antagonismi e senza
presentarsi come ideologia antagonista di
altre: sia la dottrina sociale della Chiesa
che il fascismo hanno espresso questo
concetto di terza via. Nel justicialismo
l’economia è strumento del benessere col-
lettivo e perciò deve sottostare al con-
trollo e alla regolamentazione pubblici
pur rimanendo in una condizione di libe-
ro mercato. Un’assemblea costituente,
presieduta da Domingo Mercante, nel
1949 elaborò una nuova costituzione che
incorporava i principi del giustizialismo.
In particolare l’articolo 37 costituziona-
lizzava i diritti dei lavoratori (diritto al
lavoro, a una giusta retribuzione, alla
formazione, a condizioni di lavoro degne,
alla preservazione della salute, al benes-
sere, alla sicurezza sociale, alla protezio-
ne della propria famiglia, al migliora-
mento economico, alla difesa degli inte-
ressi professionali), i diritti della famiglia
e i diritti degli anziani (elenco provenuto
dal Decálogo de la ancianidad proclamato
precedentemente da Evita: diritto all’as-
sistenza, alla casa, all’alimentazione, al
vestito, alla cura della salute fisica e mo-
rale, allo svago, al lavoro, alla tranquilli-
tà, al rispetto). Questo che segue è il ma-
nifesto del Partido justicialista con i suoi
venti punti così come furono enunziati
nel 1950 da Perón.
1 - La vera democrazia è quella in cui il
governo compie la volontà del popolo e di-
fende un solo interesse: quello del popolo.
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
24
2 - Il peronismo è essenzialmente popolare.
Ogni fazione politica è antipopolare e per-
tanto non è peronista.
3 - Il peronista lavora per il movimento.
Colui che in nome del partito serve una fa-
zione o un caudillo è peronista soltanto di
nome.
4 - Per il peronismo c’è soltanto una classe
di uomini: quella degli uomini che lavora-
no.
5 - Nella nuova Argentina il lavoro è un
diritto che dà dignità all’uomo, ed è un do-
vere perché è giusto che produca almeno
quanto consuma.
6 - Per un peronista non vi può essere
niente di meglio di un altro peronista.
7 - Nessun peronista deve sentirsi di più di
quello che è, né meno di quello che può esse-
re.
Quando un peronista comincia a sentirsi
superiore a quello che è, sta già trasfor-
mandosi in un oligarca.
8 - Nell’azione politica, la scala dei valori
di ciascun peronista è la seguente: prima la
patria, poi il movimento e infine gli uomi-
ni.
9 - Per noi la politica non è un fine ma sol-
tanto un mezzo per il bene della patria che è
costituito dalla prosperità dei suoi figli e
dalla sua grandezza nazionale.
10 - Le due braccia del peronismo sono la
giustizia sociale e l’assistenza sociale. Con
esse diamo al popolo un abbraccio di giu-
stizia e di amore.
11 - Il peronismo aspira all’unità naziona-
le e non alla lotta. Desidera eroi ma non
martiri.
12 - Nella nuova Argentina gli unici privi-
legiati sono i bambini.
13 - Un governo senza dottrina è come un
corpo senz’anima. Perciò il peronismo ha
una sua propria dottrina politica, economi-
ca e sociale: il giustizialismo.
14 - Il giustizialismo è una nuova conce-
zione della vita, semplice, pratica, popola-
re, profondamente cristiana e profonda-
mente umanista.
15 - Il giustizialismo, come dottrina politi-
ca, realizza l’equilibrio dell’individuo con
quello della comunità.
16 - Il giustizialismo, come dottrina eco-
nomica realizza l’economia sociale, metten-
do il capitale al servizio dell’economia e
quest’ultima al servizio del benessere socia-
le.
17 - Il giustizialismo, come dottrina socia-
le, realizza la giustizia sociale che dà a cia-
scuno il suo diritto in funzione sociale.
18 - Vogliamo un’Argentina socialmente
giusta, economicamente libera e politica-
mente sovrana.
19 - Costruiamo un governo centralizzato,
uno Stato organizzato e un popolo libero.
20 - In questo paese ciò che abbiamo di me-
glio è il popolo.
L’evitismo fu nel justicialismo una com-
ponente integrante determinante che
spinse ancor di più verso il raggiungi-
mento dei frutti raccolti. La figura di
Mercante cadde nell’oblio dopo il suo fal-
lito tentativo di succedere a Perón nel
novembre del ’51. Il generale sarà rielet-
to a suffragio universale con circa
4.600.000 voti contro 2.300.000. Nel frat-
tempo le donne, grazie all’instancabile
impegno di Evita, avevano ottenuto il
riconoscimento dei propri diritti: con una
legge del ’47 l’elettorato attivo e passivo
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
25
(ci furono infatti peroniste: 23 deputate,
6 senatrici, 109 parlamentari nelle pro-
vince), con l’art. 37 della nuova costitu-
zione (nella parte riguardante la fami-
glia) l’uguaglianza giuridica tra i coniugi,
l’assistenza alle madri e ai bambini.
L’uguaglianza di diritti politici tra uo-
mini e donne aveva comportato la nasci-
ta del Partido peronista femenino, cui
spettava un terzo delle candidature giu-
stizialiste. La prematura scomparsa di
Eva Perón segnò un durissimo colpo per
il popolo argentino che da allora non l’ha
mai dimenticata. Il secondo mandato
presidenziale di Perón terminò anticipa-
tamente per via del golpe del ’55: egli se
ne andò spontaneamente in esilio per al-
lontanare il pericolo di una guerra civile.
In quel periodo 1952-55 erano venuti a
galla i contrasti tra Chiesa e peronismo:
la prima cercava un proprio braccio di
manovra politica in un partito democri-
stiano a danno del Partito giustizialista,
il secondo non tollerava l’ingerenza ec-
clesiastica negli affari pubblici. L’episco-
pato argentino era contrario all’annulla-
mento della discriminazione tra i figli il-
legittimi e quelli legittimi. Il Parlamento
approvò una legge di equiparazione,
l’altra sul divorziò, la legalizzazione delle
case di tolleranza e puntualizzò la sepa-
razione tra Stato e Chiesa (l’insegnamen-
to religioso nelle scuole fu abolito). Le
alte gerarchie ecclesiali argentine erano
alleate dell’oligarchia: nonostante tutto
ciò la Costituzione del 1949 trattava con
moltissimo riguardo il Cattolicesimo (lo
sosteneva, e prevedeva che il Presidente
dovesse essere di religione cattolica: era
stato costituzionalizzato il diritto di pa-
tronato nella presentazione dei vescovi, be-
neficio di cui lo Stato godeva da tempo
addietro), e le encicliche sociali erano
considerate dal giustizialismo spunto i-
deologico e movente d’azione pratica (at-
tualmente il Partido justicialista è affilia-
to all’Internazionale democristiana). In
politica estera l’Argentina peronista mirò
infruttuosamente alla creazione di un
terzo schieramento mondiale che s’incu-
neasse tra quelli di USA e URSS, un
blocco dei Paesi latini d’Europa e
d’America di cui divenir leader (nel ’46
aveva ristabilito relazione con l’Unione
sovietica e durante la guerra di Corea a-
veva ignorato la richiesta d’invio di
truppe rivoltale dagli Stati Uniti). Perón
rientrò in Argentina nel 1973, quando i
militari si arresero alla volontà popolare.
Le dittature post-peroniste avevano di-
chiarato fuorilegge il Partito giustiziali-
sta, revocata la Costituzione del ’49 e
riaperto il carcere di Ushuaia (chiuso nel
1947 a causa delle sue pessime condizio-
ni) per detenervi nemici politici, inoltre
(cose non fatte nel 1946-55) messo al
bando il Partito comunista e reintrodot-
ta la pena capitale. Gli Argentini vecchi e
giovani non avevano abbandonato il ri-
cordo di quella società più giusta costrui-
ta con la passione di Evita e con la guida
di Perón (per un secolo fino al 1912 era
esistito il voto cantado ossia l’elettore al
seggio rendeva pubblicamente noto per
chi votava, il governo peronista aveva
mantenuto il voto segreto; il dato nazio-
nale sulla ripartizione dei guadagni
d’impresa aveva assegnato nel 1948 il
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
26
53% ai lavoratori, laddove questo si era
attestato al 44,4% nel ’43). Negli anni
seguiti al movimento del ’68 la terza pre-
sidenza di Perón (’73-’74, eletto con il
62% dei voti) fu condizionata dal suo
pessimo segretario personale José López
Rega, divenuto ministro, un anticomuni-
sta che alimentò tensioni sociali e perse-
cuzioni politiche. Un anno dopo la morte
del generale fu costretto a scappare
mentr’era presidentessa María Estela
Martínez (Isabelita, terza moglie di Pe-
rón, succedutagli nella carica in quanto
vicepresidentessa). Del ’75 era un proget-
to di legge giustizialista mirante a dare ai
lavoratori una forma partecipativa nella
gestione delle imprese. Nel ’76 un nuovo
golpe depose il governo democratico,
l’ultima dittatura cadrà in seguito alla
guerra delle Malvine. Il justicialismo non
disprezza il comunismo. Nelle lezioni di
Evita alla Scuola superiore peronista si
sottolinea come Marx mettesse a fuoco
problemi reali, ma anche come la via del-
la risoluzione traumatica non fosse la più
adatta e la più congeniale all’instaura-
zione di un regime di giustizia sociale.
Dopo Isabelita i gruppi estremi della si-
nistra (peronisti e marxisti) furono per-
seguitati dalla dittatura duramente fino
a essere annientati (il triste fenomeno dei
desaparecidos). I Montoneros erano segua-
ci del peronismo che ambivano al sociali-
smo reale e che per cercare di esercitare
pressioni su Perón si spinsero fino ad atti
di violenza. L’obiettività richiede che si
accenni alla storia dei presunti depositi
bancari svizzeri di Evita e Perón per dire
che questa si è rivelata una fantastoria
dato che nessuno li ha mai trovati:
un’ipotesi, a questo punto, più “storica”
suggerisce di vedere nella visita in Sviz-
zera di Eva Perón, durante il suo viaggio
in Europa nel ’47, lo scopo di effettuare
dei controlli medici personali.
6.2. LA FONDAZIONE “EVA PERÓN”
ell’Argentina del passato la ca-
rica di presidentessa onoraria
della Sociedad de beneficencia
veniva riservata alla moglie del presiden-
te della repubblica in carica. Quando Pe-
rón fu eletto tuttavia le dame dell’oligar-
chia borghese rifiutarono di concedere
questo ruolo a Evita con l’ipocrita giusti-
ficazione che fosse troppo giovane e ine-
sperta. Quando le rifiutarono pure di
nominare al suo posto la madre, poiché le
motivazioni reali di tutto ciò stavano nel
disprezzo, la Società fu chiusa con atto
governativo il 6 settembre 1946. Potreb-
be sembrare che questa misura di scio-
glimento sia unicamente un atto di ven-
detta, sennonché la pessima gestione di
questa organizzazione, che controllava
molte strutture ospedaliere, era già emer-
sa nel 1939: tutti i dipendenti venivano
N
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
27
sfruttati con pesanti turni lavorativi e
sottopagati, nelle case-scuola (più simili
a delle prigioni) anche i bambini erano
costretti a lavorare e persino a mendica-
re, solamente il 5% dei fondi raccolti an-
dava a sostegno dell’assistenza (tutto il
resto concerneva spese di gestione). La
sua opportuna soppressione diede spazio
al riordino, non fu il caso di Evita nella
sostanza a determinarne la fine. La Fun-
dación María Eva Duarte de Perón fu
istituita a metà del 1948, sempre con at-
to governativo (a fine 1950 sarà rideno-
minata Fundación Eva Perón). Al ter-
mine del 1947 operava però già la Cruza-
da de ayuda social María Eva Duarte
de Perón con azioni poi proprie della
Fundación.
La precedente Società di beneficenza non
andava al di là del finanziamento di isti-
tuti preesistenti. Evita invece si preoc-
cupò di intervenire con la creazione di
opere anche in tutti quei campi che il set-
tore pubblico non riusciva con facilità a
tutelare. Dedicava periodicamente molte
e intense ore a incontrare personalmente
nella sede del Ministero del lavoro i biso-
gnosi che si recavano a porle richieste
d’aiuto.
In un suo discorso chiarì che la Funda-
ción «fue creada para cubrir lagunas en
la organización nacional, porque en todo
el país donde se realiza una obra, siempre
hay lagunas que cubrir y para ello se de-
be estar pronto para realizar una acción
rápida, directa y eficaz». Il denaro della
Fundación, che non passava dalle sue
mani, proveniva da spontanee contribu-
zioni di privati o enti pubblici, o dal get-
tito di misure ad hoc. Tra il ’50 e il ’53
furono scelte queste fonti:
1) aumento del 3% del biglietto d’ingres-
so all’ippodromo di Buenos Aires e tribu-
to addizionale del 3% sulle scommesse;
2) trattenute degli stipendi del primo
maggio e del 12 ottobre, e del 2% delle
tredicesime;
3) l’intero gettito delle multe sui giochi
d’azzardo;
4) deduzioni da miglioramenti salariali ai
pubblici dipendenti; nelle vertenze di la-
voro tra soggetti privati risolte da Evita
c’era l’usanza di offrire una percentuale
di qualche mensilità;
5) il 50% dell’avanzo utile prodotto dalle
assicurazioni per le manifestazioni spor-
tive.
Si rivela dunque falsa l’accusa che vor-
rebbe le opere sostenute con modi estor-
tivi. Le imprese private contribuivano
spontaneamente senza sollecitazioni o
per ringraziamento o per l’ottenimento
del credito bancario presso l’Istituto ar-
gentino di promozione industriale che Evi-
ta poteva rendere più facile. Eva Perón
non era Eva Kant: una commissione
d’inchiesta della prima dittatura post-
peronista accertò che i presunti fatti di
estorsione e corruzione erano totalmente
irreali e che tutto si era svolto nel rispet-
to della legalità. Il fatto che lo Stato
mettesse a disposizione della Fundación
risorse economiche, materiali e umane
suscitò a suo tempo la reazione dell’op-
posizione parlamentare antiperonista, i
cui esponenti nulla avevano obiettato
negli anni antecedenti riguardo ai cospi-
cui finanziamenti pubblici elargiti alla
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
28
Sociedad de beneficencia. Beneficiarono
della straordinaria attività assistenziale
diretta da Evita pure decine di paesi
stranieri, cui furono forniti vestiti, ali-
menti e farmaci. In seguito al colpo di
Stato del 1955 che depose Perón il posi-
tivo complesso di ciò che era stato pro-
dotto dalla Fundación o fu destinato a
improprio e pessimo utilizzo o peggio an-
cora radicalmente cancellato.
Questo un elenco non esaustivo di quan-
to attuato:
ogni anno venivano distribuite enormi
quantità di macchine per cucire, capi di
vestiario, alimenti, libri, biciclette e gio-
cattoli;
181 punti per la vendita di prodotti di
prima necessità a prezzi ridotti furono
creati per sostenere le famiglie più biso-
gnose;
più di 13.000 donne trovarono un’oc-
cupazione;
quasi 2.400 furono gli alloggiati nelle
case per anziani abbandonati (ne furono
aperte 6);
più di 16.000 bambini furono ospitati
nelle case-scuola (20 comprese quelle in
costruzione, dislocate in 16 province con
una capacità di più di 25.000 posti);
un’opera di monitoraggio medico-
sanitario era rivolta a tutti i giovani che
partecipavano agli annuali concorsi na-
zionali sportivi (nel 1949 furono
120.000);
la Casa dell’impiegata a Buenos Aires,
un edificio di 11 piani di cui 9 dormitori,
forniva alloggio a tutte le lavoratrici bo-
naerensi senza dimora, con basso reddito
e senza riferimenti familiari in città; ave-
va una capienza per 500 donne e offriva
un servizio di mensa quotidiana per
1.500 coperti accessibile a tutti e a costi
ridotti presso cui Evita aveva l’abitudine
di cenare con i suoi collaboratori;
poco più di 16.000 persone furono o-
spitate nelle 3 case di alloggio temporaneo
in attesa di ricevere un’abitazione; la
Fundación fece costruire case assegnate a
decine di migliaia di famiglie (a poco più
di 20.000 tra queste che emigrate si tro-
vavano a Buenos Aires senza redditi era
stato consentito nel 1948-50 di ritornare
nella provincia d’origine ottenendo
un’abitazione e un’occupazione);
21 ospedali, distribuiti in 11 province,
di cui 4 a Buenos Aires (avevano dispo-
nibilità di quasi 23.000 posti letto); altre
3 strutture specifiche erano riservate ai
bimbi e una agli ustionati; il completa-
mento di due ospedali, tra cui quello dei
bambini a Buenos Aires, fu sospeso dopo
la caduta di Perón;
furono edificati un migliaio di scuole e
diverse colonie turistiche nel 1948-50;
un milione e mezzo di bottiglie di sidro
e di pan dolce venivano donati annual-
mente per Natale ai meno abbienti.
L’architettura e l’arredo delle opere della
Fundación erano di altissimo pregio e ri-
flettevano il più autentico spirito di fra-
tellanza umana. I servizi offerti erano
gratuiti e di ottimo livello. Era costante
un’efficace assistenza socio-sanitaria ri-
volta ai soggetti svantaggiati tutelati. I
bambini più disagiati avevano la possibi-
lità di raggiungere gli studi universitari
passando per gradi attraverso le acco-
glienti e confortevoli case-scuola, città di
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
29
studio e città universitarie. La Ciudad in-
fantil Amanda Allen, intitolata a
un’infermiera argentina della Fundación
scomparsa in una sciagura aerea durante
l’intervento di soccorso alle vittime di un
terremoto in Ecuador, accoglieva a Bue-
nos Aires soggetti emarginati tra i 2 e i 7
anni. Il progetto di recupero seguiva il
pensiero della pedagogista italiana Maria
Montessori. La Ciudad, che accudiva al-
cune centinaia di bimbi, fu chiusa dai mi-
litari golpisti nel 1955, e la sua connessa
città per piccoli, divenuta quindi parco
per benestanti, fu demolita nel ’64 per
lasciare spazio a un parcheggio. Nelle ca-
se-scuola un gruppo di assistenti sociali
curava i rapporti con le famiglie di pro-
venienza dei bambini (che avevano
un’età compresa tra 4 e 10 anni). Era de-
siderio di Evita che costoro non perdes-
sero i loro rapporti con l’esterno a secon-
da della propria forma di soggiorno
nell’istituto (in alcuni casi venivano affi-
dati a dei tutori). L’abbigliamento, che
era di qualità, veniva rinnovato ogni sei
mesi e poi distrutto. L’istruzione era cu-
rata attentamente anche con aggiuntivo
insegnamento di sostegno, e per le bam-
bine c’erano inoltre corsi integrativi che
potevano riguardare l’arte, la musica, il
ballo, la cucina e la cucitura. Anche alle
ragazze era prospettata la prosecuzione
degli studi all’università nella Ciudad u-
niversitaria di Cordova da inaugurarsi
secondo le previsioni nel 1956, ma il
completamento suo e di quella di Mendo-
za dopo Perón fu bloccato dalla dittatu-
ra: la prima avrebbe potuto ospitare 400
studenti argentini e 150 stranieri. Sulla
stessa falsariga non si giunse neanche a
ultimare la ciudad estudiantil femminile,
infatti le ragazze seguivano provvisoria-
mente l’istruzione secondaria permanen-
do nella casa-scuola. Furono costruite 3
ciudades estudiantiles a Buenos Aires,
Cordova e Mendoza per gli studenti pro-
venienti da fuori. Alla Fundación si do-
veva altresì la mensa universitaria di La
Plata in provincia di Buenos Aires. Il
nuovo governo golpista del ’55 sciolse la
Fundación e chiuse le sue istituzioni. Il
suo capitale fu in parte rubato e le sue
sostanze materiali illecitamente sottrat-
te. I servizi e l’assistenza precedenti fu-
rono giudicati fuori luogo, eccessivi e
persino lussuosi. I mobili di tutte le
strutture, e i regali ricevuti da Evita nel
suo viaggio in Europa, che in queste si
trovavano, posti come abbellimento, fu-
rono rimossi. Si distrussero flaconi per la
raccolta del sangue, lenzuola e coperte
perché recavano l’etichetta Fundación
Eva Perón, i polmoni d’acciaio finirono
sotto sequestro per lo stesso motivo.
Qualche altro esempio del destino che i
militari e gli antiperonisti riservarono ai
frutti dell’amorevole impegno di Evita
per la difesa delle categorie sociali disa-
giate: un ospedale per i bambini fu tra-
sformato in un hotel-casinò e la ciudad
estudiantil di Buenos Aires fu addirittura
adibita a luogo di reclusione di compo-
nenti del governo peronista. Dopo parec-
chi studenti ebbero l’opportunità di pro-
seguire a studiare fuori dell’Argentina
con borse di studio estere grazie alla qua-
lità del percorso formativo svolto che era
stato all’avanguardia e supportato di
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
30
tutto ciò che occorresse (vestiario, libri,
attrezzature scolastiche, e così via).
Quanto accaduto in una casa-scuola con-
vertita in centro di collocamento lavora-
tivo è emblematico. Le bambine, cui era
stata tolta la possibilità di apprendere
per andare a lavorare nelle abitazioni dei
borghesi, protestarono dal cortile gri-
dando: «Queremos que vuelva Perón!!!».
Evita era scomparsa nel 1952, ma sino
alla fine la sua fondazione aveva lavora-
to, pur avendo perso lo slancio dato dalla
propria animatrice, per rimuovere il di-
sagio sociale.
7. IL GOLLISMO
l generale Charles de Gaulle (1890-
1970) ha lasciato alla storia, non solo
della Francia, un pesante retaggio di
idee e di prassi assorto a ideologia che da
lui prende nome. Cominciò a maturare il
proprio pensiero negli anni ’30 nel conte-
sto di ambienti di sinistra democristiana
e di tendenza filosofica personalista. Du-
rante la seconda guerra mondiale fu sot-
tosegretario al ministero della guerra
(giugno ’40) e dal 18 giugno 1940 orga-
nizzò la resistenza contro l’occupazione e
il controllo nazisti del suo paese. Tra il 3
luglio 1944 e il 20 gennaio 1946 fu espres-
samente capo di governo. Mantenne un
orientamento interno di cosiddetta destra
sociale: operò il miglioramento del welfa-
re, attuò delle nazionalizzazioni e inoltre
introdusse il suffragio femminile. Il golli-
smo non accetta in pieno la dottrina eco-
nomica liberista. Propone una terza via
che superi la contrapposizione tra sociali-
smo e capitalismo, non si colloca né a de-
stra né a sinistra e rifiuta l’ottica della
divisione sociale poiché le parti non ma-
nifestano l’impegno a curare il bene
dell’intera nazione. Prevede un approccio
ai fatti a prescindere da un punto di vista
obiettivo, propone di risolvere pragmati-
camente i problemi e privilegia la volon-
tà, determinante per agire a scapito
dell’attesa di fronte allo svolgersi degli
eventi o peggio ancora di una sottomis-
sione al cospetto di una forza ritenuta
superiore e a cui non sembra possibile
opporsi. De Gaulle dopo aver auspicato
negli ultimi anni di guerra un utopico e
circoscritto connubio tra Londra e Parigi
nei primi del dopoguerra avanzò il pro-
getto (bocciato dagli Inglesi) di una con-
federazione di Stati europei. Questa sa-
rebbe stata favorita dall’avvicinamento
tra la Francia, il suo fulcro, e la Germa-
nia libera: avvicinamento ricostruttivo
non solo in relazione all’allora recente
passato ma anche in rapporto alla divi-
sione nell’843 del Sacro Romano Impero
in tre Stati dalla quale sorsero le due mo-
derne nazioni. La confederazione sarebbe
stata da sostituirsi al poco incisivo Consi-
glio d’Europa, e da istituirsi attraverso
delle adesioni nazionali espresse da refe-
I
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
31
rendum e poi con l’elaborazione di una
costituzione varata dal consesso delle
rappresentanze dei vari Paesi aderenti.
Gli Stati confederati uniti da un atto in-
ter-e-sovra-nazionale avrebbero perso
della propria sovranità la sola parte dele-
gata all’unione confederale europea, cui
sarebbe spettata la gestione delle materie
più importanti (commercio estero, difesa,
etc.). De Gaulle, che tra l’altro è stato
fautore della moneta unica, prospettava
come modello di amministrazione un con-
siglio dei capi di governo accanto a un
organo giudiziario e a due assemblee (un
classico parlamento e un altro di espres-
sione regionale e corporativa). Tuttavia
una Comunità europea di difesa (CED,
creata nel ’52), fallì ben presto a causa
del problema della ricostituzione di un
esercito della Repubblica federale tedesca.
La cosa era gradita agli USA in funzione
anticomunista nel conflitto di allora tra
le due Coree, però temuta dai gollisti che
in patria s’impegnarono a non far man-
tenere gli accordi di fondazione nel ’54.
De Gaulle lamentava pure l’ingerenza
della NATO e la mancanza di un valido
sostrato unitario europeo, necessario a
suo avviso nella creazione e nel mante-
nimento di una comune e autonoma forza
militare. Nel ’53 il generale si ritirò una
prima volta dalla politica spinto dal rifiu-
to dell’impianto costituzionale della IV
Repubblica, posizione che aveva fatto
passare il proprio partito dagli iniziali
successi a forti perdite di consensi. Nel
’57 nacque la CEE. Rientrò sulla scena, a
conclusione dell’incruenta evoluzione di
un golpe filogollista iniziato il 13 maggio
1958, il primo giugno dello stesso anno
quando, appoggiato dai sostenitori, as-
sunse la guida del governo francese in se-
guito alla crisi della IV Repubblica, im-
perniata sul parlamentarismo, che aveva
avuto nel ’46 una genesi travagliata e poi
espresso esecutivi deboli, per via del fra-
zionamento partitico, e prodotto conse-
guenti insuccessi (motivo del colpo di
mano) nel tentativo di mantenere i do-
mini coloniali: gli ultimi in Algeria (che
culmineranno nonostante tutto nel ’62
con la concessione dell’indipendenza).
Perciò il governo gollista propose un di-
verso disegno costituzionale approvato
dall’85,1% dei votanti al referendum del
28 settembre. Il gollismo predilige uno
schema politico bipolare e un’architettu-
ra dello Stato in cui l’organo di governo,
legato alla figura del presidente della re-
pubblica (eletto in maniera diretta dai
cittadini), abbia larghi poteri allo scopo
di privilegiare un legame verticale “ba-
se/leader”). In base a questa nuova costi-
tuzione il capo dello Stato, che non è
chiamato politicamente a rispondere del
suo operato davanti al parlamento: no-
mina (e revoca) come “luogotenente”,
allorché vi abbia il sostegno della mag-
gioranza, il capo dell’esecutivo (le cui
riunioni presiede comunque e che entra in
carica subito senza voto di fiducia); ha la
possibilità di indire elezioni di rinnovo
dell’Assemblea nazionale (la quale ha il
potere di sfiduciare il governo) scioglien-
dola anticipatamente; indica il presidente
della corte costituzionale e gode, mentre è
in carica, della temporanea sospensione
di eventuali procedimenti giudiziari a suo
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
32
carico. L’esecutivo può pure proporre
delle leggi ai deputati per mezzo di una
procedura particolare in funzione della
quale queste si intendono approvate se
non sono respinte da sfiducia al governo.
Quindi alla fine del ’58 de Gaulle fu eletto
col 78,5 % dei voti primo presidente della
V Repubblica, ma indirettamente da
80.000 grandi elettori (parlamentari e
consiglieri di vari livelli amministrativi):
verrà rieletto a suffragio universale diret-
to, al ballottaggio, nel ’65 dopo la contra-
sta innovazione da lui voluta nel ’62.
Nell’uso delle notevolissime prerogative
presidenziali, previste dalla costituzione,
oltre a usare in questo citato caso la fa-
coltà di presentare referendum legislativi
(art. 11) in modo inappropriato e far in-
trodurre l’avversata norma non ordinaria
(il cui varo avrebbe necessitato dell’ap-
provazione parlamentare stando a quan-
to dettato dall’art. 89), in precedenza nel
’61 aveva esercitato per alcuni mesi leciti
poteri dittatoriali, in virtù dell’art. 16, al
fine di sventare l’attuazione di un colpo
di Stato. Questo autoritarismo democra-
tico fu agevolato da un lato dall’impossi-
bilità costituzionale dei cittadini a pro-
muovere referendum (attenuata nel 2008)
e dall’altro dal sistema elettivo dei depu-
tati basato su un maggioritario a doppio
turno con soglia di sbarramento al primo
(in luogo del proporzionale della IV Re-
pubblica) che contribuì a ridurre la rap-
presentanza parlamentare delle sinistre e
a far scomparire molti partiti dallo scena-
rio. Negli affari esteri de Gaulle manife-
stò in principio la volontà di seguire il
cammino comunitario europeo a dispetto
della contrarietà di una parte dei gollisti
che paventavano la cancellazione
dell’identità e della sovranità francesi. Fu
dell’inizio degli anni ’60 una proposta di
ulteriore associazione politica, denomina-
ta “piano Fouchet”, non andata in porto.
Motivi ostacolanti furono i rifiuti tran-
salpini della NATO, dell’ingresso inglese
nella CEE e del verticismo antinazionale
degli organi della Comunità: in particola-
re Londra, che rifiutava l’idea confedera-
tiva di de Gaulle, era giudicata rappre-
sentante delle convenienze proprie e ame-
ricane. Tale piano contemplava in più
alla guida un collegio presidenziale (com-
posto da capi di Stato e primi ministri)
supportato da tre commissioni ministe-
riali (formate dagli incaricati di difesa,
esteri e istruzione per una gestione unifi-
cata delle materie), da un consiglio di bu-
rocrati dei vari ministeri degli esteri e da
un parlamento dotato di poteri consulti-
vi. Malgrado il fallimento un accordo tra
Parigi e Bonn nel ’63 ne mise in atto
l’aspirazione verso alcuni aspetti. De
Gaulle nel ’65 si oppose ad alcuni ade-
guamenti degli organi della CEE già pre-
visti che, secondo lui, avrebbero ridimen-
sionato il ruolo della Francia e la tutela
di qualsiasi parte a beneficio di un’artifi-
ciosa sfera di potere sovranazionale e di
un meccanismo integrativo che avrebbe
appiattito le specificità popolari di natu-
ra culturale e spirituale. Il confronto si
ricompose all’inizio dell’anno seguente
grazie all’adozione di misure che mitiga-
vano la precedente programmazione co-
munitaria: l’auspicio gollista era una con-
federazione di Stati, in linea formale col
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
33
pensiero esposto nel tempo di un’Europa
unita a due livelli (la singola componente
statale-nazionale legata agli altri da
un’egida). L’ambizione di un’Europa che
diventasse coesa (dall’Atlantico agli Ura-
li, con la Germania riunificata) e ago del-
la bilancia nella politica mondiale (auspi-
cato terzo polo a vocazione anticomuni-
sta, autonomo rispetto agli Stati Uniti)
portò le forze militari francesi, a gradi tra
il ’59 e il ’66, fuori dell’inquadramento
nelle strutture della NATO (ci sono ritor-
nate nel 2009) e l’Eliseo a dotarsi di sue
armi nucleari. Un piano segreto franco-
italo-tedesco, stipulato nel ’56, volto a
produrre armi atomiche a difesa di questi
Paesi, non era andato più avanti a causa
della diffidenza e della defezione del ri-
tornato de Gaulle. Il settore industriale
nazionale però non era così sviluppato al
punto di accompagnare le mire del gene-
rale conquistando significativi e ampi
spazi economici all’estero che ne avrebbe-
ro meglio sostenuto la strategia interna-
zionale. I progetti di innovazione interna
della seconda metà degli anni ’60 che
contemplavano una scuola più professio-
nalizzata e tagli per i lavoratori animaro-
no un grande moto di contestazione che
toccò l’apice nel maggio del ’68. Superò
abilmente quel momento di difficoltà e
sciolta l’Assemblea nazionale ottenne un
successo elettorale a giugno. La personale
parabola neocesariana del generale, accu-
sato di antisemitismo d’occasione all’epo-
ca della guerra dei sei giorni (fu ostile a
Israele, alleato degli USA, cui aveva ap-
plicato l’embargo nel ’67) si concluse con
le dimissioni il 28 aprile 1969 – che aveva
prospettato in caso di esito negativo – a
seguito della sconfitta in un referendum
legislativo che avrebbe trasformato il se-
nato francese (eletto da un corpo di gran-
di elettori costituito da deputati e pub-
blici amministratori) in una camera cor-
porativa delle regioni e decentrato delle
funzioni agli enti amministrativi regiona-
li.
8. KENNEDY E IL MURO DI BERLINO
el secondo dopoguerra Berlino
Ovest, posta nel cuore della fra-
zione di Germania comunista,
aveva rappresentato una costante preoc-
cupazione per i Sovietici, che ambivano
al riconoscimento della Repubblica demo-
cratica tedesca sorta nell’ottobre del ’49.
Dopo l’elezione presidenziale di John Fi-
tzgerald Kennedy (insediatosi il 20 gen-
naio 1961) fu reso noto da Nikita Chru-
scev che l’URSS avrebbe lasciato alla
RDT la sua formale sovranità di Stato, di
conseguenza trasferendo apparentemente
il problema della gestione berlinese ai Te-
deschi orientali. Il cancelliere della Re-
pubblica federale tedesca (nata nel maggio
del ’49), il democristiano Konrad Ade-
nauer, si oppose alla formalizzazione del-
N
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
34
la divisione della Germania, ma il presi-
dente statunitense Kennedy accettò, e
per evitare l’impressione internazionale
che gli USA subissero il corso degli eventi
– era reduce dal fallito tentativo di aprile
del ’61 di rovesciare il governo castrista
con lo sbarco armato promosso alla Baia
dei porci di 1.400 fuoriusciti cubani – si
schierò in difesa della sua accessibilità
territoriale: incontrò infruttuosamente
Chruscev a Vienna (2-4 giugno 1961). La
situazione precipitava: dalla RDT, in sta-
to di disagio economico (dal ’55 faceva
parte del Patto di Varsavia e del COME-
CON), fuggivano verso la RFT sempre di
più (nel 1960 la media quotidiana fu di
1.500 transfughi, nel 1949-61 furono
complessivamente circa 2.500.000). Co-
sicché il Cremlino accondiscese al proget-
to dei Tedeschi orientali di circoscrivere e
interdire la zona berlinese occidentale: fra
il 12 e il 13 agosto 1961 comparve un pre-
sidio militare con disposizione di uccidere
i fuggiaschi; nei giorni immediatamente
seguenti sarà completata entro il 17
l’opera di erezione del muro divisorio, al-
to sui 3 m, accompagnato da campi mi-
nati e barriere di filo spinato. I costrutto-
ri lo definirono muro della pace (la sua de-
nominazione ufficiale era barriera di pro-
tezione antifascista), ma passò alla storia
come muro della vergogna. La Casa Bianca
rispose inviando un reggimento di fante-
ria a Berlino Ovest. Circa 50.000 Berline-
si orientali persero così il lavoro che svol-
gevano nella libera Berlino, il cui borgo-
mastro, il socialdemocratico Willy
Brandt, guidò una giornata di protesta
che riunì 300.000 cittadini. La città as-
surse a simbolo di quella guerra fredda
combattuta tra l’Occidente e il blocco
comunista. Saranno quasi un milione i
Tedeschi della RDT che riusciranno a
scappare nell’epoca del muro sino alla sua
caduta (9 novembre 1989) oltre la cortina
di ferro. Gli uccisi nel tentativo di oltre-
passare il muro a fronte di circa 5.000 fu-
ghe riuscite saranno più o meno 200. Il
confronto fra il mondo comunista e quel-
lo liberale produsse nella RFT degli anni
’60 la comune adesione allo schieramento
occidentale dei due principali e rivali par-
titi politici, quello democristiano e il so-
cialdemocratico (quest’ultimo prospetta-
va la riunificazione territoriale tedesca).
In questo sfondo si pose la visita di Ken-
nedy a Berlino nel 1963 durante il suo
giro europeo di giugno-luglio. Dopo la
conferenza del ’54 tra i ministri degli af-
fari esteri francese, inglese, statunitense e
sovietico, per trattare il futuro della
Germania, Berlino ritornava sulla scena
della politica internazionale. Kennedy
aveva acceso un moto di aspettative spe-
ranzose con il suo concetto di nuova fron-
tiera esposto all’atto del suo insediamen-
to: «Io vi dico che noi ci troviamo di
fronte alla nuova frontiera, lo vogliamo o
no. Al di là di essa si estendono i campi
inesplorati della scienza e dello spazio, i
problemi non risolti della pace e della
guerra, le sacche dell’ignoranza e del pre-
giudizio non ancora eliminate e le que-
stioni ancora senza risposta della povertà
e della sovrapproduzione». Mirava a una
concreta e pacifica coesistenza con Mo-
sca. Tra il 16 e il 28 ottobre 1962 la ten-
sione USA-URSS era salita al massimo:
LA MORTE DELLE IDEOLOGIE Danilo Caruso
35
l’installazione di una prima serie di missi-
li atomici da parte del Cremlino a Cuba,
decisa nel luglio precedente, aveva pro-
vocato il blocco navale americano
dell’isola. La guerra nucleare fu evitata
quando Chruscev ordinò il rientro delle
navi che trasportavano altre testate mis-
silistiche e fece smantellare le precedenti,
da basi non ancora operative, in cambio
dell’impegno di Washington a non inter-
venire in qualsiasi modo in armi contro il
regime di Fidel Castro. A questo si ag-
giungeva in quegli anni l’impegno degli
USA per la lotta nel Vietnam del sud
contro i rivoltosi comunisti (Viet Cong)
ostili alla dittatura filostatunitense, lotta
che il presidente americano volle sostene-
re con una maggiore presenza militare.
Nel giugno del ’63 Kennedy prima di
Berlino Ovest era passato da Bonn, Colo-
nia e Francoforte parlando alle platee (e-
ra stato più volte in Europa negli anni
’30 e a Berlino già nell’estate del 1945).
Tenne il 26 giugno 1963 davanti al muro
un discorso, divenuto famoso, a una ma-
rea di gente radunatasi nella Rudolph
Wilde platz di fronte al Rathaus Schöne-
berg. La folla lo aveva accolto con accla-
mazioni festose dopo che ebbe fatto un
sopralluogo a uno degli allora più noti
punti di attraversamento del muro, il
Checkpoint Charlie. Oltre il muro anche
gruppi di Berlinesi orientali lo ascoltaro-
no sotto il controllo vigile della polizia
che impediva qualsiasi esternazione po-
polare. Più volte gli applausi degli astanti
intercalarono il suo intervento. Pronun-
ciò la celebre frase: «Ich bin ein Berli-
ner». Nella Germania Ovest l’arrende-
volezza americana nel periodo dell’edifi-
cazione del muro non era piaciuta, perciò
questa sua dichiarazione di essere Berli-
nese mirante anche a riacquistare le sim-
patie dell’opinione pubblica tedesca. Il
suo discorso al di fuori dell’opportunismo
d’occasione fu molto profondo e significa-
tivo: «La libertà ha molte difficoltà e la
democrazia non è perfetta, ma noi non
abbiamo mai dovuto mettere un muro
per tenere dentro la nostra gente, per im-
pedire di lasciarci. […] Il muro è la dimo-
strazione più evidente e vivida dei falli-
menti del sistema comunista. […] Tutti
gli uomini liberi, ovunque essi vivano,
sono cittadini di Berlino, e, quindi, come
uomo libero, sono orgoglioso delle parole
“Ich bin ein Berliner”». Suppergiù l’80%
dei Berlinesi occidentali era per le strade
ad ascoltarlo. I rintocchi della campana
della libertà posta nel palazzo municipale
suggellarono quelle parole in quella stori-
ca giornata. L’anniversario del 2004 è
stato celebrato a Berlino con una mostra
fotografica, tenuta nel giugno-settembre
e allestita alla Cameraworks, dal titolo
The Kennedys.
INDICE
Introduzione pag. 1
1. La moralità della politica pag. 3
2. La crisi del capitalismo pag. 5
3. L’eredità del marxismo pag. 7
4. La fabbrica del male pag. 9
5.1. La democrazia corporativa pag. 13
5.2. L’utopia della RSI pag. 16
6.1. Il giustizialismo peronista pag. 21
6.2. La Fondazione “Eva Perón” pag. 26
7. Il gollismo pag. 30
8. Kennedy e il muro di Berlino pag. 33
Palermo
dicembre 2011
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