Università degli Studi di Siena Facoltà di Lettere e Filosofia con sede in Arezzo
Corso di laurea specialistica in Studi Linguistici e Culturali:
Letterario e storico-culturale per l’editoria e “l’industria culturale” (LSC)
Prova Finale
José Ángel Valente, il poeta e le arti
Candidato:
Giulio Bartolini
Relatore:
Prof. Julio Pérez-Ugena
Correlatore:
Prof. Carlo Sisi
a. a. 2007/2008
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Indice
1 Introduzione……………………………………………………………………………………p. 4
2 Genesi della creazione artistica……………………………………………………………….p. 5
3 Vuoto, nulla……………………………………………………………………………...…….p. 15
4 Silenzio…………………………………………………………………………………………p. 31
5 Caso………………………………………………...………………………………………….p. 48
6 Fare artistico………………………………………..…………………………………………p. 54
7 Luce…………………………..………………………………………………………………..p. 71
8 Interiorità, superficialità………………………...…………………………………………...p. 78
9 Calligrafia, ideogramma……..…………………………………………...…………………..p. 82
10 Violenza………………………………………………………………………………………p. 87
11 Libri d’autore………………………………………………………………………………p. 101
12 Conclusioni………………………………………………………………………………….p. 112
13 Bibliografia ...…………………………………………………………………………...….p. 114
14 Sitografia……………………………………………………………………………………p. 116
4
1 Introduzione
Il poeta José Ángel Valente ad Almería
Questa tesi mira a provare l’esistenza di alcune affinità fra il pensiero e le opere del poeta
galiziano José Ángel Valente e quelli di alcuni artisti. In particolare, lo scritto verterà sul tentativo di
dimostrare la convergenza di vedute su qualche aspetto delle arti tra Valente i pittori Antoni Tàpies
ed Antonio Saura e lo scultore Eduardo Chillida.
La trattazione si impernierà sull’esame di parte delle loro riflessioni e teorizzazioni sulle arti,
nonché su dei testi di commento e critica ad esse. Inoltre, cercheremo di esaminare le opere nate
dalla collaborazione tra questi artisti e quelle realizzate a partire da influenze reciproche o univoche.
L’insieme di tali osservazioni avrà il fine, come già sostenuto in precedenza, di provare la
sussistenza di analogie artistiche tra Valente, da una parte, e Tàpies, Chillida e Saura, dall’altra.
Antoni Tàpies Eduardo Chillida Antonio Saura
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2 Genesi della creazione artistica
In molte delle creazioni del poeta galiziano José Ángel Valente è presente un’acuta riflessione
sulle arti e sul loro significato. Tale meditazione è riconducibile alla volontà di ripensamento
dell’attività artistica manifestatasi più volte nel corso della storia ed acuitasi con l’avvento del
romanticismo.1
La volontà di ridefinizione delle arti si ravvivò in svariate occasioni nel corso del XX secolo,
soprattutto con la venuta delle avanguardie storiche2 e dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
3
In questi due periodi, l’intero mondo della cultura avvertì l’impellente necessità di rifondare le sue
basi: ciò dette inizio ad un dibattito trasversale tutt’oggi aperto.4 Coloro che animano la discussione
sul riesame dell’espressione artistica, fra i quali Valente, ne rifuggono la tradizionale suddivisione
accademica in generi o arti indipendenti ed incomunicabili.
Il poeta di Orense propone una sua teoria sull’origine dell’opera artistica in numerose circostanze
e, principalmente, all’interno di interviste con altri artisti ed opere dedicate al fare artistico. Questa
volontà teorizzatrice da parte dell’orensano è ascrivibile in primo luogo alla sua ammirazione verso
artisti e grandi teorici dell’arte quali Klee, Mondrian, Malevic e Kandinsky.5 A queste importanti
personalità del primo Novecento il galiziano dedica alcuni componimenti poetici e saggistici.6
1 CUSATELLI, GIORGIO, “Il marmo e la parola” in Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte. Ovvero sui limiti
della pittura e della poesia, a c. di Giorgio Cusatelli e Teresina Zemella, Milano, Biblioteca Universale
Rizzoli, 1994, passim
ZEMELLA, TERESINA, “Introduzione” in Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte. Ovvero sui limiti della
pittura e della poesia, op. cit., passim 2 BOZAL, VALERIANO, “1. Los primeros diez años. Ya no, pero todavía no” in Valeriano Bozal, Los primeros
diez años: 1900-1910, los orígenes del arte contemporáneo, Madrid, Visor, 19932, pp. 15-26
3 ARGAN, GIULIO CARLO, “Capitolo Settimo. La crisi dell’arte come scienza europea” in Giulio Carlo Argan
e Achille Bonito Oliva, L’arte moderna, Firenze, Sansoni, 1999, 2 voll., passim
BOZAL, VALERIANO, “El arte de la posguerra” in Valeriano Bozal, Pintura y escultura españolas del siglo
XX (1939-1990), Madrid, Espasa-Calpe, 1992, passim 4 BOZAL, VALERIANO, “El muro y el monstruo” in Valeriano Bozal, El tiempo del estupor: la pintura
europea tras la segunda guerra mundial, Madrid, Siruela, 2004, pp. 123-127
ARGAN, GIULIO CARLO, “Capitolo Settimo. La crisi dell’arte come scienza europea” in Giulio Carlo Argan e
Achille Bonito Oliva, op. cit., passim
BOZAL, VALERIANO, “El arte de la posguerra” in Valeriano Bozal, Pintura y escultura españolas del siglo
XX (1939-1990), op. cit., passim
BOZAL, VALERIANO, “El final de la posguerra” in Valeriano Bozal, Pintura y escultura españolas del siglo
XX (1939-1990), op. cit., passim 5 IGLESIAS SERNA, AMALIA, “La escritura es una aventura absolutamente personal. Entrevista con José Ángel
Valente” in José Ángel Valente, Palabra y materia, a c. di Amalia Iglesias Serna, Madrid, Círculo de Bellas
Artes, 2006, 20072, p. 57
6 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Homenaje a Klee” in José Ángel Valente, Obras Completas: poesía y prosa, a c.
di Andrés Sánchez Robayna, Madrid, Galaxia Gutemberg: Círculo de lectores, 2006, 1 voll., pp. 326-327
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cinco fragmentos para Antoni Tàpies” in José Ángel Valente, Obras Completas:
poesía y prosa, op. cit., p. 387
6
Paul Klee, Paesaggio con uccelli gialli, 1923, Piet Mondrian, Albero grigio, 1912, olio su tela,
lamina, 40 x 30 cm, collezione privata 78,5 x 105,7, Gemeentemuseum, L’Aia
Kazimir Malevic, Croce nera, 1920, olio su tela, Vassily Kandinsky, Orientale, 1909, olio su tela,
8 x 6 cm, Museo Russo, San Pietroburgo 69,5 x 96,5 cm, Galleria “Stadtische”,
Monaco di Baviera
Kazimir Malevic Paul Klee Piet Mondrian Vassily Kandinsky
Uno dei più importanti dibattiti sulle arti ai quali partecipa Valente si crea in occasione di una sua
visita al taller barcellonese del pittore Antoni Tàpies nel 1995. Durante l’amichevole e disteso
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Paisaje con pájaros amarillos” in José Ángel Valente, Obras Completas: poesía y
prosa, op. cit., pp. 497-502
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cuatro referentes para una estética contemporánea” in José Ángel Valente, Obras
completas: ensayos, a c. di Andrés Sánchez Robayna e Claudio Rodríguez Fer, Madrid, Galaxia Gutemberg:
Círculo de lectores, 2006, 2 voll., pp. 545-554
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Sobre la unidad simple” in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit.,
pp. 498-502
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dialogo che segna l’incontro, il poeta compie ripetute teorizzazioni “avanguardiste” riguardanti
l’esistenza di un elemento aggregante tra le varie arti. Esso è costituito dalla cosiddetta materia
oscura, ovvero l’agente imprescindibile nella creazione di qualunque realizzazione artistica.
Ocurre que la materia original sobre la que trabajamos todos es la misma. Es esa materia en la
que uno no sabe muy bien qué va a encontrar, esa materia oscura.
Succede che la materia originale sulla quale lavoriamo tutti è la stessa. E’ questa materia nella
quale non si sa molto bene quello che si trova, questa materia oscura. 1
Una volta delineato il suo pensiero circa la genesi dell’opera d’arte, il poeta di Orense illustra a
Tàpies il modo in cui dalla comune materia o raíz artistica iniziale si creino, a suo dire, svariate
“ramificazioni”. Tali ineluttabili divergenze dalla “radice” originaria scaturiscono in parte dai
differenti strumenti di volta in volta impiegati nella creazione delle singole opere. Difatti, il
cambiamento dell’attrezzo sfruttato implica spesso l’intervento di un diverso saper fare artistico.
Quest’ultima variante, ovvero la differente attitudine alla creazione da parte di ciascun artista, è
proprio quella che il gallego considera basilare nella distinzione tra l’operato di un pittore e quello
di un poeta, tra l’intervento di un musicista e il lavorio di uno scultore.2
J. Á. V: De ella cada uno saca algo con los instrumentos de cada arte particular.
J. Á. V.: [Parlando con Tàpies della materia unica] Da essa ognuno tira fuori qualcosa con gli
strumenti di ogni arte particolare. 3
Durante questo scambio di opinioni con l’amico catalano, Valente percepisce appieno quanto
Tàpies condivida la sua necessità di ripensare le arti al pari dell’intero sapere umano.4 Tuttavia,
come peraltro asserisce Xavier Antich in La escritura de Antoni Tàpies, il pittore di Barcellona non
sente mai né durante questo colloquio, né tantomeno nel corso della sua lunga carriera artistica,
l’esigenza di “supportare” la sua velleità rinnovatrice delle arti con una teoria compiuta.
La verdad es que Tàpies nunca ha pretendido elaborar, en sus escritos, una teoría del arte
articulada, coherente, sistemática ni cerrada: “Una teoría del arte, en mis manos, la acabaríamos muy
pronto”.
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; TÀPIES, ANTONI, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
José Ángel Valente, Obras Completas: ensayos, op. cit., p. 536; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; TÀPIES, ANTONI, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit., ibid. 3 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; TÀPIES, ANTONI, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit., ibid. 4 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; TÀPIES, ANTONI, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit., pp. 535-538
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La verità è che Tàpies non ha mai preteso elaborare, nei suoi scritti, una teoria dell’arte articolata,
coerente, sistematica né chiusa: “Una teoria dell’arte, nelle mie mani, la finiremmo ben presto”. 1
Ciò, pur non impedendogli un raffronto costruttivo con Valente ed una parziale adesione ad
alcuni dei suoi principi artistici, lo differenzia dall’orensano. Quest’ultimo infatti, in particolar
modo negli ultimi due decenni della sua attività artistica, si dedica fortemente alla critica dell’arte
come testimoniano i numerosi scritti e poesie dedicati all’argomento.2 Di contro il pittore di
Barcellona è più incline a dare soltanto giudizi “estetici”3 sull’espressione artistica, lasciandone la
vera e propria definizione ai teorici:
Lo que Tàpies ha practicado en su escritura, más que la crítica de arte, es el juicio estético, en el
más riguroso sentido kantiano: “La representación de la imaginación que provoca a pensar mucho, sin
que, sin embargo, pueda serle adecuado pensamiento alguno, es decir, concepto alguno, y que, por lo
tanto, ningún lenguaje expresa del todo”. Tàpies, a su manera, formulará lo mismo: “La eficacia de las
obras de arte, como saben los mejores teóricos, se inicia por el hecho de que son formas materiales
sensibles, ya que estas formas son las que pueden asumir de manera más directa el orden profundo de la
realidad, el cual difícilmente puede ser transmitido por medio del lenguaje corriente y de los conceptos
intelectuales”.
Quello che Tàpies ha praticato nella sua scrittura, più che la critica dell’arte, è il giudizio estetico,
nel più rigoroso senso kantiano: “La rappresentazione dell’immaginazione che stimola a pensare molto,
senza che, tuttavia, possa esserle adeguato pensiero alcuno, cioè, concetto alcuno, e che, pertanto,
nessun linguaggio esprime del tutto”. 4 Tàpies, a modo suo, formulerà la stessa cosa: “L’efficacia delle
opere d’arte, come sanno i migliori teorici, scaturisce dal fatto che sono forme materiali sensibili,
giacchè queste forme sono quelle che possono assumere in modo più diretto l’ordine profondo della
realtà, il quale difficilmente può essere trasmesso per mezzo del linguaggio corrente e dei concetti
intellettuali5”.
6
1 ANTICH, XAVIER, “La escritura de Antoni Tàpies” in Antoni Tàpies, En blanco y negro, op. cit., p. 13; trad.
in italiano a c. di Giulio Bartolini 2 SÁNCHEZ ROBAYNA, ANDRÉS, “Introducción” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op.
cit., pp. 39-54 3 TÀPIES, ANTONI, “Introducción” in Antoni Tàpies, El arte contra la estética, a c. di Joaquim Sempere,
Barcelona, Editorial Ariel, 1974, 19782, pp. 7-8
[Parlando dei testi della raccolta El arte contra la estética] Advertimos (una vez más) al lector que
esta nueva colección de textos no pretende ser ninguna “teoría del arte”, lo que se podría imaginar como
“nuestra teoría del arte”. La mayoría de ellos son simplemente reacciones espontáneas ante... ¿ideas?,
¿actitudes?, ¿modas?..., con las cuales hemos topado de vez en cuando en los últimos años, y respecto a
las cuales hemos creído, o se nos ha dicho, que sería provechoso, -quién sabe si para el autor, en primer
lugar- dar nuestra opinión. Tal vez haya quien descubra en ellos toda una posición estética latente, claro
está; pero, en todo caso, ésta no ha sido la intención inicial.
TÀPIES, ANTONI, “Pensar en el arte” in Antoni Tàpies, El arte contra la estética, op. cit., p. 10
[...] la estética no ha de razonar considerando el arte como una finalidad o un ideal que no se
puede realizar a no ser que se someta a su teoría.
4 KANT, IMMANUEL, Crítica del juicio, ed. a c. di Manuel García Morente, Madrid, Espasa Calpe, 1977,
19812, p. 220; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini
5 TÀPIES, ANTONI, “Valor del arte” in Antoni Tàpies, En blanco y negro, op. cit., p. 247
6 ANTICH, XAVIER, “La escritura de Antoni Tàpies” in Antoni Tàpies, En blanco y negro, op. cit., pp. 16-17
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Nello svolgimento del dibattito con Valente, Tàpies si limita perlopiù a confermare la plausibilità
e condivisibilità di parte delle asserzioni valentiane.1 L’amico galiziano invece formula molteplici
speculazioni su come, a suo dire, le singole manifestazioni artistiche originino da una raíz común.2
Incontro tra Antoni Tàpies e José Ángel Valente nel taller barcellonese dell’artista catalano
La visione della genesi delle arti propugnata da Valente è derivata dal romanticismo, epoca a
partire dalla quale si iniziò a parlare con insistenza di “sintesi” delle arti, e, parimenti, dalla
meditazione su alcuni scritti teorici dei suddetti avanguardisti. Nel caso specifico, il poeta gallego è
“mosso” a teorizzare la riformulazione delle arti e dei generi da interrogativi del tutto simili a quelli
che arrovellavano Piet Mondrian all’inizio del XX secolo.
Gli scritti di Mondrian pongono quindi la questione dell’autonomia e della specificità dell’arte e/o
delle arti, ma al tempo stesso affermano la necessità dell’oltrepassamento dell’arte: essi appaiono, a
volte, come un complesso organico di indicazioni, quasi una sorta di prontuario, sui modi di costruzione
dell’opera… altre volte, parlano invece della finitezza dell’opera, del suo significato limitante,
sostanzialmente surrogatorio rispetto ad un altro valore che stà al di là dell’opera, al di là dell’arte e
delle arti e che appartiene all’uomo, alla sua condizione individuale e sociale, alla sua stessa esistenza
quotidiana.3
L’artista olandese e, come vedremo in seguito, Valente meditano circa lo “sconfinamento”
dell’arte nella vita e la suddivisione tradizionale delle arti e dei generi. Entrambi ricusano
decisamente l’ipotesi proposta sin dall’epoca neoclassica4 dell’estinzione definitiva dell’arte.
[…] L’arte è prossima alla sua fine? In ogni caso, non c’è di che preoccuparsi. Che cos’è infatti
questa fine, ancora abbastanza lontana, dell’arte se non la liberazione dell’umanità dal dominio della
materia e del fisico, e di conseguenza l’avvento così desiderato di un’epoca in cui trionferà l’equivalenza
“MATERIA-SPIRITO”?5
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; TÀPIES, ANTONI, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit., ibid. 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; TÀPIES, ANTONI, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit., ibid. 3 MENNA, FILIBERTO, “Per una cultura dei rapporti equivalenti” in Piet Mondrian, Tutti gli scritti, a c. di
Harry Holtzmann e Filiberto Menna, Milano, Feltrinelli, 1959, 19753, p. 15
4 AA. VV., “Il Novecento. Tra avanguardie e continuità espressiva” in AA. VV., Manuale di storia dell’arte,
a c. di Luigi Maffini e Clara Calza, Milano, Electa/Bruno Mondadori, 1988, 200013
, 2 voll., p. 284 5 MONDRIAN, PIET, “L’arte puramente astratta” in Piet Mondrian, Tutti gli scritti, op. cit., p. 224
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Personaggi
Y. Profano
X. Pittore naturalista
Z. Pittore astratto-naturalista
[I tre personaggi immaginari stanno parlando dell’architettura e della pittura] Z. Verrà un giorno
in cui potremo fare a meno di tutte le forme d’arte come le conosciamo oggi: soltanto allora la bellezza
sarà giunta a maturità, diventando realtà concreta… L’umanità non ci rimetterà niente.1
Il pittore Paul Klee, in alcuni scritti iniziali di Teoria della forma e della figurazione, compie
delle riflessioni sulla genesi dell’opera artistica che possono avere, direttamente o indirettamente,
“suggestionato” Valente. Nella fattispecie, le speculazioni di Klee si “avvicinano” più di quelle di
Mondrian al concetto di unitarietà iniziale dell’espressione artistica sostenuto dal poeta orensano.
1. L’organizzazione delle diversità in unità
L’ambito e le parti
Riepilogo generale (da appunti e note varie)
L’organizzazione delle diversità in unità, la riunione degli organi in organismo è sempre stata, in
molteplici variazioni, l’obiettivo delle nostre ricerche teoretiche…
Il vederli come un tutto si chiama sintetico, come combinazione, invece, analitico; il risultato finale
però è sempre lo stesso: in una parola, sempre l’uomo, essendo variabile soltanto il modo di vedere.
Quello analitico è per noi vantaggioso in quanto permette di conoscere le parti in sé e nel loro
concorrere. Ogni opera però non è a bella prima un prodotto, non è opera che è, ma in primo luogo
genesi, opera che diviene. Non esistono opere determinate a priori, ma ogni opera comincia in qualche
parte, prende le mosse da qualche motivo e si sviluppa, attraverso gli organi, a organismo…2
Il concetto di figurazione
La teoria della figurazione (Gestaltung) si occupa delle vie che conducono alla figura (alla forma).
Essa è la teoria della forma, ma con l’accento sulle vie che a questa conducono: la desinenza della
parola stessa sta ad indicare quanto s’è detto or ora. L’espressione “teoria della forma,” come si dice
dai più, trascura di porre l’accento sulle premesse e le vie che vi conducono…
… La forza creativa non si può definire: essa permane in ultima analisi misteriosa. Tuttavia non è
un mistero quel che ci ha scosso dal profondo: questa forza ci pervade tutti, fin nelle più sottili fibre. Non
possiamo esprimere l’essenza, ma ci è dato, per quanto lontana sia, di risalire alla sua fonte. Comunque,
questa forza dobbiamo rivelarla nelle sue funzioni, com’essa è manifesta a noi stessi. Probabilmente è
essa stessa una forma di materia, solo non percepibile, come tale, con gli stessi sensi validi per le specie
materiali conosciute. Tuttavia essa deve manifestarsi nelle specie materiali a noi note, deve agire a essa
congiunta; compenetrandosi con la materia, deve assumere un’effettiva forma vivente.
Muoversi così lungo le vie naturali della creazione è un’ottima scuola formativa. Essa è in grado
di smuovere dal profondo il creatore che, mobile egli stesso, potrà curare la libertà dello sviluppo lungo
le proprie vie figurative.
La genesi quale movimento formale è, nell’opera, l’essenziale. Al principio il motivo, l’inserimento
dell’energia, lo sperma. Opere come plasmazione della forma in senso materiale: origine prima
femminile. Opere come sperma che statuisce la forma: origine prima maschile.
L’ambito dei mezzi pittorici da adoprare deve trovar limiti nell’elemento ideale: la scelta
dei mezzi va fatta con estrema moderazione: rende possibile ciò, più che la quantità dei mezzi, l’ordine
spirituale.
1 MONDRIAN, PIET, “Realtà naturale e realtà astratta. Triangolo (durante una passeggiata dalla campagna alla
città)” in Piet Mondrian, Tutti gli scritti, op. cit., p. 123 2 KLEE, PAUL, “Contributi alla teoria della forma” in Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione, a c. di
Mario Spagnol e Richard Sapper, Milano, Feltrinelli, 1959, 19763, p. 449
11
Mezzi materiali (Legno, metallo, vetro, ecc.): l’uso massiccio dei mezzi materiali, soprattutto qui,
va evitato.
Mezzi ideali (Linea, chiaroscuro, colore): i mezzi ideali sono da preferirsi.
Essi non sono esenti da materia, altrimenti con essi non si potrebbe “scrivere.” Se traccio con
l’inchiostro la parola vino, l’inchiostro, lungi dall’avere il ruolo principale, dà modo di fissare
durevolmente il concetto di vino. L’inchiostro dunque contribuisce alla curabilità del vino. Scrittura e
immagine, lo scrivere e il figurare, sono fondamentalmente tutt’uno.1
Eppure, a seguito di un’accurata riflessione sull’idea valentiana di origine dell’opera artistica,
possiamo affermare che in questo ambito il poeta galiziano si spinge al di là delle meditazioni degli
avanguardisti summenzionati.
Difatti Mondrian e Klee, da una parte, propugnano una visione “d’insieme” dell’espressione
artistica moderna (simboleggiata dall’albero con le sue radici e le sue ramificazioni) ma, dall’altra,
sostengono la legittimità della divisione in generi o arti di questa.2 Al contrario, Valente, come
abbiamo già affermato, dubita della legittimità di tale separazione in arti o generi dell’espressione
artistica contemporanea.3
Il poeta di Orense ci sembra, alla stregua di quanto preconizzato da Juan Eduardo Cirlot negli
anni ‘50,4 propugnare l’esaurirsi dei generi e delle arti nella loro accezione convenzionale e
considerarli compresi in un tutt’uno.
1 KLEE, PAUL, “Concetti introduttivi alla teoria della figurazione” in Paul Klee, Teoria della forma e della
figurazione, a cura di Mario Spagnol e Richard Sapper, Milano, Feltrinelli, 1959, 19763, p. 17
2 LOTMANN, JURIJ, “L’insieme artistico come spazio quotidiano” in Jurij Lotman, Il girotondo delle muse:
saggi sulla semiotica delle arti e della rappresentazione, a c. di Silvia Burini, Bergamo, Moretti e Vitali,
1998, pp. 23-37
BURINI, SILVIA, “Jurij Lotman e la semiotica delle arti figurative” in Jurij Lotman, Il girotondo delle muse:
saggi sulla semiotica delle arti e della rappresentazione, op. cit., pp. 131-164 3 SAN CLAUDIO SANTA CRUZ, ROCÍO, “La sombra de la palabra” in VV. AA., A palabra e a súa sombra:
José Ángel Valente, o poeta e as artes = La palabra y su sombra: José Ángel Valente, el poeta y las artes =
The word and its shadow: José Ángel Valente: the poet and the arts, [exposición organizada pola
Universidade, Pazo de Fonseca, Igraxa da Universidade, 20 xuño – 31 agosto 2003], Santiago de
Compostela, Universidade de Santiago de Compostela/Xunta de Galicia, 2003, p. 230 4 CIRLOT, JUAN EDUARDO, “Arte y vida” in Juan Eduardo Cirlot, El estilo del siglo XX, Barcelona, Ediciones
UPC, 2008, p. 16
... Y esta especialización es el hecho decisivo que da su fisonomía al siglo XX y a su estilo. De la
libertad nace la variedad; de la crítica y el cultivo especializado procede la multiplicación de esa
diversidad. Y llega a ser tan insondablemente variado el panorama ofrecido al hombre contemporáneo, en
ciencias, formas de vida, objetos utilitarios, tendencias artísticas, literarias y políticas, que tal variedad se
hace sospechosa de esconder una enorme unidad.
12
J. Á. Valente e Eduardo Chillida nel taller dello scultore nel 1995. Fotografia di
Coral Gutiérrez Valente.1 A destra, un angolo dello studio del donostiarra
Un raffronto in merito alla genesi delle realizzazioni artistiche è possibile anche fra Valente e lo
scultore basco Eduardo Chillida. In particolar modo, tale confronto prende avvio dall’analisi degli
scritti aforistici dell’artista di San Sebastián. Difatti, pur nella loro estrema concisione e apparente
irrilevanza, gli aforismi di Chillida sono depositari delle sue principali postulazioni sull’origine
delle arti:2
[...] Se puede actuar en campos muy variados, pero lo que emparenta el arte, lo que tienen en
común todas las artes, es que están obligadas a presentar dos componentes que no pueden faltar: la
poesía -es necesario que exista algo de poesía- y una dosis de construccíon; si no, no hay arte.
[...] Si può agire in campi molto diversi, ma quello che accomuna l’arte, quello che hanno in
comune tutte le arti, è che sono obbligate a presentare due componenti che non possono mancare: la
poesia -è necessario che esista un po’ di poesia- e una dose di costruzione; altrimenti, non c’è arte. 3
Se compariamo quest’asserzione chillidiana sull’origine dell’opera artistica con quanto
affermato da Valente in Cinco fragmentos para Antoni Tàpies,4 è conseguente sostenere che lo
scultore donostiarra serba in questo campo una visione differente da quella dell’amico galiziano.
Difatti, anziché parlare di una materia o raíz común a tutte le manifestazioni artistiche, Chillida
ritiene che vi siano delle “componenti” specifiche (poesia e costruzione) ad accomunare le
1 SAN CLAUDIO SANTA CRUZ, ROCÍO, “A sombra da palabra” in AA. VV., A palabra e a súa sombra: José
Ángel Valente, o poeta e as artes = La palabra y su sombra: José Ángel Valente, el poeta y las artes = The
word and its shadow: José Ángel Valente: the poet and the arts, [exposición organizada pola Universidade,
Pazo de Fonseca, Igraxa da Universidade, 20 xuño – 31 agosto 2003], op. cit., p. 54 2
MONTERO, Y., “El Chillida más íntimo”, San Sebastián, El País, 11/03/2009,
http://www.elpais.com/articulo/pais/vasco/Chillida/intimo/elpepiesppvs/20090311elpvas_16/Tes
[...] “Los escritos de Eduardo Chillida son tan importantes que son la mejor manera de conocerle
de verdad” afirmó ajer su hijo Ignacio... 3 CHILLIDA, EDUARDO, “Yo soy un fuera de ley” in Eduardo Chillida, Escritos, a c. di Nancho Fernández,
Madrid, La Fábrica, 2005, p. 77; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini 4 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cinco fragmentos para Antoni Tàpies” in Antoni Tàpies e José Ángel Valente,
Comunicación sobre el muro, a c. di Victoria Pradilla e Alfonso Alegre Heitzmann, Barcelona, La Rosa
Cúbica, 1996, 20042, pp. 33-34
13
manifestazioni artistiche. Inoltre, egli asserisce che si raggiunge una vera e propria corrispondenza
solo tra poesia e scultura essendo arti determinate in egual modo dai fattori dello spazio e del tempo.
[...] Cuando leo poesía estoy funcionando en el tiempo, pero también en el espacio. Creo que eso
puede ser en mi caso un contagio, un hábito determinante de mi sentimiento sensible. La colaboración
íntima, inseparable del espacio y el tiempo, funcionando en la escultura y en la poesía.
[…] Quando leggo poesia funziono nel tempo, ma anche nello spazio. Credo che questo può essere
nel mio caso un contagio, un’abitudine determinante la mia coscienza sensibile. La collaborazione intima,
inseparabile dallo spazio e dal tempo, funzionando in scultura ed in poesia. 1
La menzionata mancanza di una raíz común o materia unica nella concezione della genesi
dell’opera artistica avanzata da Chillida lo inquadra, al pari di Tàpies, in un’ottica di rinnovamento
delle arti che, tuttavia, ne rifiuta una loro visione sintetica di tipo valentiano.
Questo è quanto “emerge” pure dall’analisi di alcuni dibattiti avuti dallo scultore donostiarra con
altri artisti, in particolar modo, quello intrattenuto con Francisco Calvo Serraller e lo stesso
Valente.2
Nel momento in cui la discussione verte sulla tendenza contemporanea a considerare possibile la
dissoluzione dei generi o delle arti in un tutt’uno, concetto rispetto al quale Valente e Calvo
Serraller sembrano avere piena convergenza di vedute,3 Chillida immediatamente dissente da
quest’ipotesi. Lo scultore di fronte alla considerazione secondo la quale nell’arte moderna la
escultura puede ser cualquier cosa,4 reagisce fissando dei limiti alla pratica scultorea.
E. CH.: …Donde el espacio no actúa, no hay escultura. Una escultura... Es como si el poeta
pudiera construir fuera del tiempo. No puede. Ni puede haber música fuera del tiempo, la partitura no
funciona si no hay tiempo. Son cosas parecidas...
[…] Pero, desde luego, en principio, yo creo que sin tres dimensiones la escultura no puede ser...
E. CH.: …Dove lo spazio non agisce, non c’è scultura. Una scultura… E’ come se il poeta potesse
costruire fuori dal tempo. Non può. Né può esserci musica fuori dal tempo, la partitura non funziona se
non c’è il tempo. Sono cose simili…
[…] Ma, naturalmente, in linea di principio, io credo che non può esserci scultura senza tre
dimensioni…5
1 CHILLIDA, EDUARDO, “Códigos del artista” in Eduardo Chillida, Escritos, op. cit., p. 86
2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; CALVO SERRALLER, FRANCISCO, “El arte como vacío. Conversación con Eduardo
Chillida” in José Ángel Valente, Obras Completas: ensayos, op. cit., pp. 555-571; trad. in italiano a c. di
Giulio Bartolini 3 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; CALVO SERRALLER, FRANCISCO, “El arte como vacío. Conversación con Eduardo
Chillida” in José Ángel Valente, Obras Completas: ensayos, op. cit., pp. 561-562 4 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; CALVO SERRALLER, FRANCISCO, “El arte como vacío. Conversación con Eduardo
Chillida” in José Ángel Valente, Obras Completas: ensayos, op. cit., p. 562 5 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; CALVO SERRALLER, FRANCISCO, “El arte como vacío. Conversación con Eduardo
Chillida” in José Ángel Valente, Obras Completas: ensayos, op. cit., p. 562; trad. in italiano a c. di Giulio
Bartolini
14
Sono proprio questi “confini”, che per Chillida sono intrinseci a qualunque pratica artistica, i
fattori che non consentono di parlare di un tutt’uno indistinto delle arti ma bensì, afferma il
donostiarra, di come ogni manifestazione delle arti mantenga le sue peculiarità pure nella
contemporaneità.
Antonio Saura a Madrid nel Museo Nazionale L’artista aragonese nel suo studio attorniato da
Centro d’Arte “Regina Sofia” davanti a Lolita V maschere “primitive” e monstruos
grande ritratto del 1960
Allo stesso modo di Chillida e Tàpies, il pittore aragonese Antonio Saura non ci sembra avere le
stesse ambizioni teorizzatrici di Valente in merito alla genesi dell’opera artistica.
Saura ci pare comunque compiere importanti considerazioni “estetiche” su come l’arte viene
concepita nell’età moderna. Nella fattispecie l’artista di Huesca, in scritti come El arte efímero1 e La
muerte del arte,2 critica quanti affermano l’attuale dissoluzione o quantomeno disgregazione dei
generi e delle arti convenzionali.3
Secondo Saura le ripetute teorizzazioni da parte di molti critici e artisti moderni riguardo
l’imminente disfacimento dei generi e delle arti, potrebbero in realtà preludere ad un futuro nel
quale questi riacquistino in toto le loro peculiarità tradizionali.4
1 SAURA, ANTONIO, “El arte efímero” in Antonio Saura, Fijeza. Ensayos, a c. di Susana Pellicer, Barcelona,
Galaxia Gutemberg: Círculo de lectores, 1999, pp. 357-361 2 SAURA, ANTONIO, “La muerte del arte” in Antonio Saura, Fijeza. Ensayos, op. cit., pp. 363-366
3 SAURA, ANTONIO, “El arte efímero” in Antonio Saura, Fijeza. Ensayos, op. cit., pp. 358-359
[...] El divorcio entre la estética y la practica del arte quedó consumado a partir del momento en
que un objeto manufacturado adquirió categoría de obra de arte por el simple hecho de ser escogido por
un artista...
4 SAURA, ANTONIO, “La muerte del arte” in Antonio Saura, Fijeza. Ensayos, op. cit., pp. 365-366
[...] Para cierta crítica dogmática, tan proclive al ejercicio del terrorismo cultural, solamente las
actitudes radicales son consideradas como ejemplares...
15
[...] Antes e incluso después de Marcel Duchamp no parece haber existido nada para algunos
críticos y artistas defensores de semejante reduccionismo cultural, de la misma forma que sólo algunos
privilegiados de nuestro siglo, hoy provisoriamente mitificados, serán dignos de ser tenidos en cuenta
como verdaderos héroes del arte sin arte. ¿Y si sucediese exactamente lo contrario y, tras el gran barido
de la historia que se avecina, fuesen precisamente los primeros en ser olvidados, considerándoseles no
solamente como el fruto aberrante de una fatalidad histórica, sino también como los verdaderos
pompiers de la modernidad, el amanerado y degenerado capricho de la sociedad, el resultado de un
trágico malentendido?
[...] Prima e anche dopo Marcel Duchamp non sembra essere esistito nulla per alcuni critici ed
artisti difensori di simile riduzionismo culturale, di modo che solo alcuni privilegiati del nostro secolo,
oggi provvisoriamente miticizzati, saranno degni di essere tenuti di conto come veri eroi dell’arte
senz’arte. E se succedesse esattamente il contrario e, dopo il gran barrito della storia che si avvicina,
fossero proprio i primi ad essere dimenticati, considerandoli non soltanto frutto aberrante di una fatalità
storica, ma anche come i veri pompieri della modernità, l’artificioso e degenerato capriccio della società,
il risultato di un tragico malinteso? 1
Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1913, Marcel Duchamp, Fontana, 1917,
ruota su sgabello, Galleria “Sidney Janis”, New York (originale disperso), Studio Schwarz, Milano
3 Vuoto, nulla
Ancor prima della già citata materia oscura o raíz común che accomuna tutte le arti al loro
principio, ciò che presiede la genesi stessa dell’opera artistica e, in generale, di qualunque creazione
è, secondo Valente, il vuoto, il nulla. Questa tesi viene formulata nel componimento poetico-teorico
Cinco fragmentos para Antoni Tàpies e ribadita durante la suddetta conversazione intrattenuta con il
pittore di Barcellona.
I
Crear es generar un estado de disponibilidad, en el que la primera cosa creada es el vacío, un
espacio vacío. Pués lo único que el artista acaso crea es el espacio da la creación. Y en el espacio de la
creación no hay nada (para que algo pueda ser en él creado). La creación de la nada es el principio
absoluto de toda creación...
1 SAURA, ANTONIO, “La muerte del arte” in Antonio Saura, Fijeza. Ensayos, op. cit., p. 366; trad. in italiano a
c. di Giulio Bartolini
16
J.A.V.: ... Lo que se comienza por crear es la nada, el principio absoluto de toda creación es la
nada, y lo primero que tiene que hacer todo artista es tener el estado de disponibilidad que presupone un
espacio vacío. El artista se hace vaciándose de si mismo…
I
Creare è generare uno stato di disponibilità, nel quale la prima cosa creata è il vuoto, uno spazio
vuoto. Poiché la sola cosa che l’artista forse crea è lo spazio della creazione. E nello spazio della
creazione non c’è nulla (affinché qualcosa possa essere in esso creato). La creazione del nulla è il
principio assoluto di ogni creazione… 1
J. Á. V.: ... Quello che si comincia a creare è il nulla, il principio assoluto di ogni creazione è il
nulla, e la prima cosa che deve fare ogni artista è avere lo stato di disponibilità che presuppone uno
spazio vuoto. L’artista si fa svuotandosi di se stesso…2
Pur considerandola valida per qualunque realizzazione artistica, Valente applica questa sua
concezione del vuoto soprattutto al suo “campo d’azione” ossia quello poetico.
Nel caso specifico, il poeta gallego sostiene come dietro le singole parole che formano i suoi
componimenti si annidi, in profondità, il vuoto. Nella poesia così come in prosa, argomenta il
galiziano, la parola è l’unità fondante e per concretizzarsi essa necessita una previa cancellazione, lo
“svuotarsi” per poter poi “rinascere”. 3
Portare a compimento un simile processo implica la discesa
in profondità nella sombra, che Valente definisce come lugar sin lugar… infinito vacío en que surge
toda habla.4
L’annullarsi della materia, sia essa la palabra del poeta, la madera dello scultore oppure la tinta
china del calligrafo, nel vuoto e il suo successivo riproporsi in forme nuove sono considerati
dall’artista orensano passaggi fondamentali di un processo creativo simile ad una “resurrezione” o,
per usare un termine caro agli orientali, “reincarnazione”.
Valente allude costantemente a questo genere di procedimento nelle sue poesie, soprattutto
laddove parla di “morte” e “resurrezione” della materia.5 In questi componimenti dapprima si
riferisce alla “morte” della materia o parola, ossia al suo estinguersi nel vuoto, e successivamente ne
“proclama” la “restaurazione” all’insegna della discesa nella “profondità spirituale”.
La creazione del vuoto quale prerogativa alla genesi del creato costituisce, almeno in parte, un
ulteriore attestato dell’ammirazione valentiana verso i summenzionati artisti e teorici di inzio
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cinco Fragmentos para Antoni Tàpies” in Antoni Tàpies e José Ángel Valente,
Comunicación sobre el muro, op. cit., pp. 33-34; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; TÀPIES, ANTONI, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
José Ángel Valente, Obras Completas: ensayos, op. cit., p. 536; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini 3 ANCET, JACQUES, “Introducción” in José Ángel Valente, Entrada en materia, a c. di Jacques Ancet, Madrid,
Cátedra, 19854, pp. 29-30, passim
4 ANCET, JACQUES, “Introducción” in José Ángel Valente, Entrada en materia, op. cit., pp. 29-30
5 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “A modo de esperanza” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa,
op. cit., pp. 79-80
17
Novecento. In particolar modo Klee1 e Malevic, con le loro “filosofie della creazione”, precorrono
quanto affermato dal poeta di Orense alla fine del secolo scorso.
[…] La compiutezza filosofica del suo sistema si realizza nel simbolo mistico dello “zero,” che
caratterizza, dal 1915 in poi, l’esperienza pittorica di Malevic. Per lui, come per i mistici orientali, lo
“zero” non è un semplice simbolo matematico, bensì il “deposito o matrice di ogni bene e di ogni valore
possibile.” Lo “zero” equivale all’infinito, l’infinito è lo zero. Questa ricchezza che genera il nulla,
Malevic la raggiungeva nella pienezza del colore bianco che gli offriva tutte le possibilità dei colori allo
stato nascente.2
[Parlando di Malevic e della sua filosofia suprematista] …Malevic ci dà la chiave per la lettura
del suo intero sistema filosofico, orientato verso una specie di sublimazione espressiva dei sentimenti
cosmici dell’uomo. E’ proclamata una maniera nuova di percepire l’esistenza, e una nuova inquietudine
metafisica è situata al livello dell’”eccitazione” (sublimazione esistenziale). A questo preoccuparsi di
una trasgressione esistenziale si deve, nei testi di Malevic, la costante presenza di metafore sublimatorie:
l’abisso, l’infinito, il nulla creatore. Tutti questi concetti sono tributari di una filosofia della
sublimazione.3
I due pittori avanguardisti, pur partendo da presupposti diversi da quelli valentiani ed arrivando a
teorizzazioni altrettanto differenti, “vincolano” la genesi della creazione artistica alla previa
“formazione” del nulla o vuoto proprio come fa il poeta. Malevic, poi, elabora la sua “filosofia del
creato” proprio a partire dal concetto di “nulla creatore”.
Simile pensiero valentiano sul vuoto è da ricondursi pure all’influenza esercitata sull’artista dalla
dottrina cristiano-ebraica.
Il legame che si instaura per Valente tra la previa formazione del vuoto ed il successivo
manifestarsi della creazione non si scosta di molto dalla descrizione della nascita del creato proposta
dal testo sacro della Genesi. Nell’incipit di questo scritto, similmente a quanto l’artista galiziano
sostiene in Cinco fragmentos para Antoni Tàpies, si asserisce che Dio per creare il mondo ed
assicurarne il perpetuarsi dovette per prima cosa originare il nulla ovvero lo spazio necessario alle
future creazioni.
1- “Creazione.
Nel principio Dio creò il cielo e la terra.4 Ma la terra era deserta e disadorna e v’era tenebra sulla
superficie dell’oceano e lo spirito di Dio era sulla superficie delle acque.1”
2
1 ARGAN, GIULIO CARLO, “Prefazione all’edizione italiana” in Paul Klee, Teoria della forma e della
figurazione, op. cit., pp. XII-XV, passim 2 NAKOV, ANDREI, “Introduzione” in Kazimir, Malevic, Scritti, a c. di Andrei Nakov, Erica Klein Betti e
Sergio Leone, Milano, Feltrinelli, 1959, 19773, p. 127
3 NAKOV, ANDREI, “Il suprematismo dopo il 1919” in Kazimir Malevic, Scritti, op. cit., p. 139
4 RAVISI, GIANCARLO, “Genesi” in AA. VV., La Bibbia, nuovissima versione dai testi originali, a c. di Felice
Pasquero, Milano, San Paolo, 1982, 199712
, p. 9
1. - […] Separare e ornare ciò che si è separato è un modo semitico per evocare il nulla su cui
18
Il fatto che Valente consideri il concetto di vuoto o nulla quale cardine della creazione artistica è
inoltre espressione dell’influsso della spiritualità orientale. L’orensano infatti, alla stregua di Tàpies,
Chillida e Saura, aderisce a quel processo di riscoperta dell’intera spiritualità, soprattutto di quella
orientale e in genere “primitiva”, avviatosi in Occidente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX
secolo.3
Valente nutre la stessa necessità dei pensatori di quel periodo, principalmente Vassily
Kandinsky4 e gli altri artisti e teorici dell’arte menzionati,
5 di rifondare la cultura occidentale
smarritasi sotto l’egida dell’industrializzazione, del materialismo e del positivismo. Questo è
proprio quanto denuncia per primo Kandinsky in quella che possiamo considerare la “guida” di
numerosi artisti contemporanei: Lo spirituale nell’arte.
[…] La nostra anima che, dopo un lungo periodo di materialismo, è al suo primo risveglio, porta
in sé i germi della disperazione che viene dalla mancanza di fede, da mancanza di scopo e di meta.
irrompe l’atto creativo di Dio. La pagina appartiene al genere sapienziale: si tratta cioè di una riflessione
sul senso dell’esistere umano e della realtà cosmica.
1 RAVISI, GIANCARLO, “Genesi” in AA. VV., La Bibbia, nuovissima versione dai testi originali, op. cit., ibid,
1-2. – L’inizio assoluto del creare è accompagnato da tre dati orientali usati per esprimere il nulla
da cui Dio parte per intessere questo arazzo meraviglioso che è l’universo. Gli Orientali hanno, com’è
noto, una struttura mentale molto concreta ed esprimono i concetti, come quello di nulla, attraverso
simboli. Ecco allora la superficie desolata, desertica ed informe che dice appunto assenza di vita, nulla.
Ecco poi le tenebre, negazione della luce che è vita, ecco l’Abisso, un gorgo oceanico in cui tutto scompare
ed è assorbito. Lo spirito di Dio è la presenza del Dio creatore che avvia la grande avventura
dell’ordinamento e dell’ornamento, cioè della creazione dal nulla di tutto l’essere. Alcuni, però, essendo
identico in ebraico il termine per esprimere lo spirito e il vento, pensano che qui l’autore biblico immagini
la presenza di un vento tempestoso, un altro modo per esprimere il nulla.
2 AA. VV., La Bibbia, nuovissima versione dai testi originali, op. cit., p. 9
3 BOZAL, VALERIANO, “1. Los primeros diez años. Ya no, pero todavía no” in Valeriano Bozal, Los primeros
diez años: 1900-1910, los orígenes del arte contemporáneo, op. cit., pp. 15-26 4 KANDINSKY, VASSILY, “Introduzione” in Vassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, a c. di Giovanni
Antonio Colonna di Cesarò, Bari, De Donato, 1968, pp. 7-11
KANDINSKY, VASSILY, “III. La svolta spirituale” in Vassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, op. cit., pp.
19-35
KANDINSKY, VASSILY, “VIII. Opera d’arte e artisti” in Vassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, op. cit., pp.
95-99 5
MALEVIC, KAZIMIR, “Il quadrato nero: affermazione della superficie-piano al livello di concetto
strumentale” in Kazimir Malevic, Scritti, op. cit., pp. 101-128, passim
MENNA, FILIBERTO, “Per una cultura dei rapporti equivalenti” in Piet Mondrian, Tutti gli scritti, op. cit., pp.
19-20
MONDRIAN, PIET, “Il neoplasticismo in pittura” in Piet Mondrian, Tutti gli scritti, op. cit., pp. 29-76, passim
MONDRIAN, PIET, “Realtà naturale e realtà astratta. Trialogo (durante una passeggiata dalla campagna alla
città)” in Piet Mondrian, Tutti gli scritti, op. cit., p. 117
MONDRIAN, PIET, “Realtà naturale e realtà astratta. Trialogo (durante una passeggiata dalla campagna alla
città)” in Piet Mondrian, Tutti gli scritti, op. cit., pp. 131-133
ARGAN, GIULIO CARLO, “Der blaue Reiter” in Giulio Carlo Argan e Achille Bonito Oliva, L’arte moderna,
op. cit., pp. 294-300
ARGAN, GIULIO CARLO, “Paul Klee. Strada principale e strade laterali” in Giulio Carlo Argan e Achille
Bonito Oliva, L’arte moderna, op. cit., pp. 411-413
19
L’incubo delle concezioni materialistiche, che della vita dell’universo hanno fatto un giuoco malvagio e
senza scopo, non è ancora passato. […] …il persistere delle sofferenze causate dalla filosofia
materialistica distinguono nettamente l’anima nostra da quella dei “primitivi”. Nell’anima nostra c’è
un’incrinatura, e quando si arriva a toccarla, risuona come un vaso prezioso, ritrovato nelle profondità
della terra, ma che abbia appunto un’incrintatura. Per questa ragione, la tendenza al primitivo, come la
viviamo noi al momento, nella sua forma attuale, presa per lo più a prestito, non potrà che essere di
breve durata.1
Lo spiritualismo dei popoli “primitivi” e, soprattutto, quello estremorientale con il suo porre al
centro di qualsiasi creazione o azione il vuoto,2 iniziarono così ad essere considerati nel corso del
Novecento perfetti contraltari al materialismo imperante nella società e nel pensiero occidentali.
Vassily Kandinsky, Oriente, 1913, olio su tela, Vassily Kandinsky, Improvvisazione XXXIV
32 x 24cm, Museo “Stedelijk”, Amsterdam (Oriente II), 1913, olio su tela, Museo Statale di
Belle Arti, Kazan, Russia
Il concetto valentiano di vuoto è derivato anche dalla mistica occidentale. Come nota Julian
Palley, l’idea di creazione propugnata da Valente in un’opera come Cinco fragmentos para Antoni
Tàpies non è dissimile da quella prospettata dalla cosiddetta vía mística3 di San Juan de la Cruz e
Miguel de Molinos.
Alla stregua dei suddetti mistici che attendono il manifestarsi di Dio nell’anima ovvero il
vaciarse de sí mismo,4 il galiziano sostiene di aspettare la ricezione del “dono” della poesia
coincidente con l’estado del no-ser, del vacío. Questa contemplazione del vuoto necessaria ad
avviare il processo creativo accomuna, a detta di Valente, tutti gli artisti.5
1 KANDINSKY, VASSILY, “Introduzione” in Vassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, op. cit., p. 8
2 HERRIGEL, EUGEN, Lo zen e il tiro con l’arco, a c. di Gabriella Bemporad, Milano, Adelphi, 1975, passim
3 PALLEY, JULIAN, “José Ángel Valente, poeta de la inminencia” in VV. AA., Material Valente, op. cit., pp.
46-47 4 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Al dios del lugar” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op.
cit., pp. 464
BORRARSE.
Sólo en la ausencia de todo signo
Se posa el dios. [...]
(Prima missa in navitate)
5 PALLEY, JULIAN, “José Ángel Valente, poeta de la inminencia” in VV. AA., Material Valente, op. cit., pp.
46-47
20
El vacío del no-lugar que el poeta considera “el lugar originario de la palabra poética” linda con
lo infinito y viene a coincidir con los primeros versos de su primer poema: “Cruzo un desierto y su
secreta / desolación sin nombre”. Y esa travesía por el desierto se mantiene con una inquebrantable
fidelidad. El poema es apenas rasguño, arañazo o caricia en el no-lugar: “Sobre la arena trazo con mis
dedos una doble línea interminable como señal de la infinita duración de este sueño” (No amanece el
cantor).
Il vuoto del non-luogo che il poeta considera “il luogo originario della parola poetica” è contiguo
all’infinito e viene a coincidere con i primi versi della sua prima poesia: “Attraverso un deserto e la sua
segreta / desolazione senza nome”. 1 E questa traversata per il deserto si mantiene con un’irremovibile
fedeltà. La poesia è appena lacerazione, graffio o carezza nel non-luogo: “Sulla sabbia traccio con le
mia dita una doppia linea interminabile come segnale dell’infinita durata di questo sogno” 2
(No
amanece el cantor). 3
Il non-luogo, ovvero il vuoto, spesso viene impersonato nelle poesie dell’artista di Orense dal
deserto. 4
Quest’ultimo è un termine che, seppure non tanto quanto vacío,5 ricorre svariate volte
negli elaborati e nelle traduzioni del poeta.6
José Ángel Valente a conversazione con Eduardo Chillida
Il nulla è di per sé inconsistente ma, pur nella sua evanescenza, incarna la base o il seme da cui è
possibile dar origine a qualsiasi essere.
[...] La matriz de la creación es la nada o, dicho de otro modo, la creación de la nada es el acto
que precede a toda creación. El artista ha de volver una y otra vez al origen –re-volver, revolución,
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “A modo de esperanza” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa,
op. cit., p. 69 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “No amanece el cantor”, in José Ángel Valente, Obras Completas: poesía y prosa,
op. cit., p. 497 3 IGLESIAS SERNA, AMALIA, “Prólogo. José Ángel Valente. La última poética” in José Angel Valente,
Palabra y materia, op. cit., p. 16; traduzione in italiano a c. Di Giulio Bartolini 4 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “A modo de esperanza”, in José Ángel Valente, Obras Completas: poesía y prosa,
op. cit., p. 69 5 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Fragmentos de un libro futuro”, in José Ángel Valente, Obras Completas: poesía
y prosa, op. cit., pp. 539-582 6 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “No amanece el cantor”, in José Ángel Valente, Obras Completas: poesía y prosa,
op. cit., pp. 491-493
JABÉS, EDMOND, “El desierto”, in José Ángel Valente, Obras Completas: poesía y prosa, op. cit., p. 669
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “A modo de esperanza”, in José Ángel Valente, Obras Completas: poesía y prosa,
op. cit., passim
21
recorrido completo de una órbita- para que el mundo recomience ex nihilo como en el momento de su
creación primera. La nada no es una carencia; es toda la posibilidad o seminalidad del ser.
[...] La matrice della creazione è il nulla o, detto in altro modo, la creazione del nulla è l’atto che
precede ogni creazione. L’artista deve ritornare più volte all’origine –ri-tornare, rivoluzione, giro
completo di un’orbita- affinché il mondo ricominci ex nihilo come nel momento della sua creazione
prima. Il nulla non è un’assenza; è tutta la possibilità o seminalità dell’essere. 1
Particolarmente significativo nel delineare la concezione di vuoto valentiana rispetto alla nascita
delle opere artistiche è il succitato dialogo con Chillida e Calvo Serraller.2
In esso viene compiuta una disanima delle grandi opere monumentali plasmate dallo scultore
donostiarra. Valente sostiene che la visione di queste realizzazioni lo ha fatto riflettere sul vuoto
perché in esse si istituisce una “relazione” fra grandi masse esterne ed enormi spazi vuoti interni. Il
poeta di Orense ci pare giudicare l’esistenza dei secondi prerogativa necessaria alla formazione
delle prime. Il galiziano definisce gli spazi vuoti delle costruzioni chillidiane “i luoghi della
manifestazione delle cose” quelli nei quali si instaura la cosiddetta “presenza divina” creatrice.
Valente riconduce così l’opera scultorea dell’amico basco al pensiero sulla scultura e lo spazio
del filosofo tedesco Martin Heidegger.3
Secondo Heidegger lo spazio vuoto agisce nella
disposizione dei “luoghi”,4 ossia degli stessi corpi scultorei.
1
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, Elogio del calígrafo, in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit., pp.
586-590; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; CALVO SERRALLER, FRANCISCO, “El arte como vacío. Conversación con Eduardo
Chillida” in José Ángel Valente, Obras Completas: ensayos, op. cit., pp. 465-566
[I tre stanno parlando del progetto chillidiano, attualmente in corso di realizzazione, di
creare un grande spazio vuoto nel centro della montagna di Tindaya sull’isola di Fuerteventura]
E.C.: ...Yo tengo en cuenta la forma de comunicar con el exterior; no se va a ver desde fuera de la
montaña faenas que hay dentro, pero cuando tú entres, sí vas a ver y vas a entender el sentido, el corazón.
Es decir, que el espacio va a ocupar el corazón de la montaña. Es un espacio considerable; ha salido
publicado por ahí que era un cubo; no, no tiene nada que ver con un cubo...
J.Á.V.: Yo me pregunto si esa penetración en la montaña no está dándole a la montaña
un secreto, no está creando un secreto que no había antes, porque Eduardo tiene una enorme capacidad
para rodear con elementos muy pesados espacios vacíos. El vacío en su mundo es muy importante, y lo que
está generando aquí es un espacio vacío, el espacio vacío del que habla Heidegger en el texto que escribió
sobre el espacio y el arte. Es el lugar de la manifestación, el lugar donde puede manifestarse algo.
Todo lleva a una idea que me mueve a mí mucho, que la misión de la poesía es crear
vacíos donde algo pueda manifestarse, porque en lo lleno, que está ocupado, no se puede manifestar nada.
Esa capacidad que Eduardo tiene de crear con materiales muy pesados espacios, acotar espacios, “lo
profundo es el aire”...
F.C.S.: Epifanías podrían ser...
J.Á.V.: Es crear el lugar de una posible epifanía, y eso sería provocar a la naturaleza en su
intimidad, hacerla un lugar propicio a la manifestación, a la epifanía...2
3 HEIDEGGER, MARTIN, L’arte e lo spazio, a c. di Gianni Vattimo, Firenze, Il Melangolo, 1979, 1988
3,
passim 4 HEIDEGGER, MARTIN, L’arte e lo spazio, op. cit., p. 31
Il vuoto non è niente. Non è neppure una mancanza. Nel farsi corpo proprio della scultura il vuoto
22
Eduardo Chillida, Montagna vuota I, 1984, Eduardo Chillida e la montagna Tindaya
alabastro, primo avvicinamento al progetto situata sull’isola canaria di Fuerteventura
di perforazione della montagna Tindaya,
Museo “Chillida-Leku”, Hernani, San Sebastián
Eduardo Chillida sfoglia Eduardo Chillida, Martin Heidegger: Eduardo Chillida, Omaggio a
assieme al filosofo Martin L’arte e lo spazio, 1969, litografia nella prima Heidegger, 1970, xilografia
Heidegger L’arte e lo spazio versione del libro omonimo che presenta in L’arte e lo spazio, edizione
S. Gallen, Svizzera, 1969 anche 7 lito-collages realizzati dal donostiarra di lusso, Galleria “Maeght”,
Parigi
Antoni Tàpies, nel corso del succitato dialogo con Valente, assume la stessa posizione dell’amico
poeta riguardo la centralità del vuoto nella generazione dell’opera artistica.2
Tale adesione alla postura dell’orensano è attribuibile, in primo luogo, alla conoscenza che pure
il pittore barcellonese possiede dei fondamenti della spiritualità occidentale ed orientale.1 Del resto
entra in gioco nel modo dell’instaurare luoghi di cui arrischia e progetta l’apertura.
1 HEIDEGGER, MARTIN, L’arte e lo spazio, op. cit., p. 29
Dovremmo imparare a riconoscere che le cose stesse sono i luoghi e non solo
appartengono ad un luogo.
2 TÀPIES, ANTONI; VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente in José
Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit., pp. 18-20
[...] A. T.: Es algo que me ha interesado desde muy jovén: no describir la nada, que es imposible,
pero sí encontrar un mecanismo que por lo menos lo sugiera al espectador...
[...] A. T.: He leído en un texto hindú que estas apariciones son cíclicas. Hay momentos en que la
materia se retrotrae –pero hace millones de años- y vuelve a crear el vacío. Tengo un cuadro en que he
intentado reflejar esta “respiración” de la materia. Es un díptico en el que en una parte hay cosas
corrientes, como una oreja o un zapato; en el otro lado, estos objetos rodean el cuadro como un marco y el
centro es negro absoluto.
23
Tàpies confessa a Valente di aver avvertito, durante l’intera durata della sua carriera, un continuo
impulso a trasmettere fedelmente agli spettatori delle sue opere il vuoto che sottostà ad esse.2
Eppure, se da un lato Valente accorda pari importanza ai molteplici “influssi” che determinano il
suo concetto di creazione, dall’altro Tàpies conferisce priorità al suo interesse per discipline,
dottrine religiose e filosofie orientali.3
Il pittore catalano infatti considera Zen, buddismo, induismo, taoismo e, in genere, l’intera
spiritualità orientale precedente e fondante quella occidentale e, conseguentemente, più “rilevante”
nella sua concezione del vuoto.
Il primato della spiritualità orientale su quella occidentale motiverebbe anche, secondo Tàpies, la
maggiore attitudine da parte dell’uomo orientale alla contemplazione, alla spiritualità e quindi
all’accettazione dell’idea secondo la quale il vuoto o nulla costituisce lo stato originario del creato.4
Antoni Tàpies, Sadharma-Pundarika, Un raggiante Antoni Tàpies sulla copertina
2005, procedimento misto e assemblaggio su del 5° numero della rivista buddista “Dharma”
tela, 130 x 162 cm, Fondazione “Antoni Tàpies”
1 ANTICH, XAVIER, “La escritura de Antoni Tàpies” in Antoni Tàpies, En blanco y negro, op. cit., p. 24
2 TÀPIES, ANTONI; VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente in José
Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit., p. 19 3 TÀPIES, ANTONI, “La pintura y el vacío” in Tàpies, Antoni, En blanco y negro, op. cit, pp. 163-168, passim
MIGUEL ÁNGEL MUÑOZ, “Entrevista con Antoni Tàpies”, http://www.revista.agulha.nom.br/ag44tapies.htm
[...] M. A. M: En estos días cumple ochenta años, ¿sigue estando seguro de sus ideas sobre el arte, de su
forma de entender el mundo, o hay cambios importantes en su vida?
A. T.: Siempre he dicho que soy un poco como esos autores que se dice que sólo han escrito un
libro en su vida. Yo he pintado un cuadro con muy pequeños cambios; en mi camino, con todas las
matizaciones necesarias, pero siempre con una constante muy particular en mi carrera, que es guiarme
siempre por la filosofía de Oriente.
4 TÀPIES, ANTONI, “La pintura y el vacío” in Antoni Tàpies, En blanco y negro, op. cit., p. 185:
[...] muchos creen que la idea de vacuidad ha de buscarse, con más propiedad, en la tradición
mística, de Eckhart a san Juan de la Cruz, de la teología negativa a Nicolás de Cusa hasta toda una serie
de experiencias del cristianismo oriental. Ciertamente la aproximación a la vacuidad última, o “no dual”
como dicen los vedantistas, es más factible mediante las analogías o los símbolos propios de estas otras
vías del conocimiento. Pero, a pesar de tener muestras ilustres en la tradición europea, hemos de
reconocer que esta vía es una excepción, generalmente poco agradable a la religiosidad oficial, y que sin
duda es en las grandes filosofías y religiones ateas –recalcamos el calificativo-, sobre todo de Oriente,
donde verdaderamente tiene sentido.
24
Abbiamo precedentemente asserito come l’idea di vuoto valentiana scaturisca, almeno in parte,
dalla meditazione sui rapporti forma-vacío che soprassiedono alle sculture chillidiane.
L’operare dell’artista basco è finalizzato all’ottenimento dell’equilibrio fra la forma ed il vuoto.1
Chillida infatti foggia le sue opere attorno al vuoto che identifica con lo spazio disponibile ad essere
colmato.
Su producción escultórica es una mezcla de lo material y lo espiritual, una búsqueda de la
quintaesencia de la naturaleza, una armonía dificil de conseguir entre la forma y el vacío. Y es que, como
dijo Valente, Chillida es arquitecto del vacío.
La sua produzione scultorica è una mescolanza del materiale e dello spirituale, una ricerca della
quintessenza della natura, un’armonia difficile da conseguire tra la forma e il vuoto. E succede che, come
disse Valente, Chillida è architetto del vuoto. 2
L’artista di San Sebastián desidera “dominare” le parti costitutive dei materiali di volta in volta
adoperati nelle sue creazioni ed è perfettamente conscio dell’irrefutabile relazione di questi con il
vuoto. Il vuoto o lo spazio è quindi, per sua stessa ammissione, il “materiale” principale del suo
lavoro.3
Esistono alcune serie di sculture ed opere grafiche che Chillida dedica esplicitamente al vuoto: si
tratta dei cosiddetti Elogi del vuoto. Ciononostante, il vuoto è “intrinseco” pure a tutti gli altri
insiemi di componimenti chillidiani: la stragrande maggioranza di questi, direttamente o
indirettamente, richiama questo concetto pur riferendosi ad elementi quali il vento, l’aria e l’acqua.4
1 LODRÁ, JOAN MIQUEL, “La forma y la luz” in Joan Miquel Llodrá, Grandes genios del arte contemporáneo
español: El siglo XX: Chillida, Barcelona, Ciro Ediciones, 2006, p. 7 2 LLODRÁ, JOAN MIQUEL, “La forma y la luz” in Joan Miquel Llodrá, op. cit., p. 7; trad. in italiano a c. di
Giulio Bartolini 3 LLODRÁ, JOAN MIQUEL, “La forma y la luz” in Llodrá, Joan Miquel, op. cit., pp. 11-12
[...] Pero para Chillida tan importante como el objeto en sí es el espacio en el que se ubica, en el
que se emplaza y con el que dialoga constantemente. Uno de los objetivos primordiales del escultor es
dominar las peculiaridades y propiedades físicas y maleables de todos aquellos soportes matéricos
utilizados en su relación directa y estrecha con el espacio. Por ello, el espacio, con todas sus dimensiones,
se convierte en una parte más de la obra y queda impregnado de ella. Chillida descubre desde muy
temprano que el material del escultor, como el del arquitecto que no llegó a ser, es el espacio y es el vacío.
4 LLODRÁ, JOAN MIQUEL, “Las obras maestras”, in Joan Miquel Llodrá, op. cit., p. 84
Elogio del vacío II
[...] Chillida utiliza el acero como soporte de muchas de las esculturas realizadas en los años
ochenta, como Monumento a los fueros, Homenaje a Jorge Guillén, o Elogio del vacío II. En ella realiza un
homenaje a un concepto íntimamente ligado a su obra y a su manera de concebir el hecho escultórico: el
vacío. El escultor, a lo largo de su trayectoria, se muestra muy interesado en la relación que existe entre el
material que da forma a la escultura y el espacio que lo rodea y en el que se inserta. Y muy ligado al
concepto de espacio está el de vacío. Así pues, esta obra parece abrirse, crear un espacio en sí misma para
albergar este vacío, para acogerlo, abrazarlo incluso. Esta escultura es uno más de los muchos homenajes
que rindió a elementos tan poco palpables como, por ejemplo, el viento; impalpables pero de capital
importancia en el espacio donde se desarrolla su escultura. Tanto por la forma como por su concepto,
Chillida alcanza con estas obras la cumbre de la abstracción.
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Eduardo Chillida davanti ai suoi Pettini del vento e durante la loro installazione nel 1977, San Sebastián
Eduardo Chillida, Elogio dell’acqua, 1987, Eduardo Chillida, Elogio dell’acqua, 1987,
cemento armato, Parco della “Cruceta de Coll”, disegno su carta, Museo “Chillida-Leku”
Barcellona
Una serie di sculture nella quale la riflessione chillidiana sul rapporto fra materia e vuoto
raggiunge uno dei suoi apici espressivi è quella degli Elogi all’architettura. In essa lo scultore di
San Sebastián, al pari di un architetto, gioca sul rapporto spaziale fra pieni e vuoti catalizzandovi
l’attenzione degli spettatori.1
Eduardo Chillida, Elogio dell’architettura XIV, Eduardo Chillida, Elogio dell’architettura XV,
acciaio, Museo “Chillida-Leku” acciaio, casolare Zabalaga, Museo “Chillida-Leku”
1 LLODRÁ, JOAN MIQUEL, “Las obras maestras”, in Joan Miquel Llodrá, op. cit., p. 128
Elogio de la arquitectura XV
[...] Elogio de la arquitectura XV, realizada en acero, es un extraordinario ejemplo de hasta qué
punto puede llegar el interés de Chillida por el espacio y el vacío, en relación con la materia. En esta
escultura crea una especie de cubo irregular, de formas redondeadas, apoyando en una base de inferior
medida, formando una estructura similar a una seta o a un árbol, estructuras biológicas que algunos
arquitectos definen como perfectas. Chillida juega con los plenos y también con los vacíos que se abren en
la obra, creando unos pequeños espacios arquitectónicos donde reside el alma de su creador y del
espectador que lo contempla.
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Eduardo Chillida, Elogio del vuoto II, 1983, Eduardo Chillida, Elogio della luce XIX, 1990, alabastro,
acciaio, 102 x 40 x 40 cm, Fondazione “Telefónica”, Museo d’Arte Contemporanea “Sofía Imber”, Caracas
Madrid
Le sculture realizzate nei più svariati materiali da parte di Eduardo Chillida si configurano, oltre
a “raffronti” fra materia e vuoto, pure come tentativi di “inclusione” di spazi vuoti nella materia.
Nelle sculture della serie Elogio de la luz l’artista di San Sebastián desidera andare oltre il
semplice inserimento del vuoto in esse, impiegando un materiale, l’alabastro, talmente evanescente
da costituire una “prosecuzione” del vuoto stesso. Questo insieme di opere è difatti costituito, come
afferma Octavio Paz, da forme che si tramutano in vuoto dissolvendosi in vibrazioni luminose simili
ad echi e rime.
[...] Otra serie de esculturas explora el tema en que culmina Abesti Gogora. Me refiero a cinco
obras en acero: Alrededor del vacío. La persistencia de ciertas preocupaciones, a través de los cambios
de materiales y de formas, revela no sólo uno de los rasgos del carácter de Chillida (la tenacidad) sino la
dirección de su espíritu. La forma –hierro, madera, acero, granito- es el teatro de las mutaciones del
espacio que se vuelve sucesivamente viento, rumor, música, silencio. Mutaciones pasajeras, inestables:
¿todas esas formas son manifestaciones de la vacuidad? Cinco esculturas y una sola pregunta cuya
respuesta es el silencio. Otra serie de esculturas recoge la pregunta de Alrededor del vacío, no para
contestarla sino, nuevamente, para transmutarla: las catorce obras en alabastro que Chillida llama el
Elogio de la luz. El silencio se vuelve alabanza. Aquello que no se puede decir, lo indecible, es el espacio
puro, sin propiedades y sin límites. Fusión de lo material y lo espiritual: la luz que vemos con nuestros
ojos de carne poco a poco se disuelve en una claridad sin orillas. Las esculturas en hierro, madera,
granito y acero fueron trampas para apresar lo inaprensible: el viento, el rumor, la música, el silencio –
el espacio. Las esculturas de alabastro no intentan encerrar el espacio interior, tampoco pretenden
delimitarlo o definirlo: son bloques de transparencias en donde la forma se vuelve espacio y el espacio se
disuelve en vibraciones luminosas que son también ecos y rimas, pensamiento. Del hierro al reflejo:
metamorfosis del espacio. Peregrinación de las formas: la escultura-hierro o madera: volumen
compacto-vuelta un sólido resplandor.
[…] Un’altra serie di sculture esplora il tema nel quale culmina Abesti Gogora. Mi riferisco a
cinque opere in acciaio: Intorno al vuoto. La persistenza di certe preoccupazioni, attraverso il cambio dei
materiali e delle forme, rivela non solo uno dei tratti del carattere di Chillida (la tenacia) ma anche la
direzione del suo spirito. La forma –ferro, legno, acciaio, granito- è il teatro delle mutazioni dello spazio
che si rende successivamente vento, rumore, musica, silenzio. Mutazioni passeggere, instabili: tutte
queste forme sono manifestazioni della vacuità? Cinque sculture e una sola domanda la cui risposta è il
silenzio. Un’altra serie di sculture raccoglie la domanda di Intorno al vuoto, non per risponderle ma, di
nuovo, per tramutarla: le quattordici opere in alabastro che Chillida chiama Elogio della luce. Il silenzio
si rende lode. Quel che non si può dire, l’indicibile, è lo spazio puro senza proprietà e senza limiti.
Fusione del materiale e dello spirituale: la luce che vediamo con i nostri occhi di carne poco a poco si
dissolve in un chiarore senza limiti. Le sculture in ferro, legno, granito e acciaio furono trappole per
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afferrare l’inafferrabile: il vento, il rumore, la musica, il silenzio –lo spazio. Le sculture di alabastro non
cercano di chiudere lo spazio interno, neppure pretendono delimitarlo o definirlo: sono blocchi di
trasparenze in cui la forma si rende spazio e lo spazio si dissolve in vibrazioni luminose che sono anche
echi e rime, pensiero. Dal ferro al riflesso: metamorfosi dello spazio. Peregrinazione delle forme: la
scultura –ferro o legno: volume compatto-resa un solido splendore. 1
Eduardo Chillida, Attorno al vuoto V, 1969, Eduardo Chillida, Abesti Gogora V, 1966,
acciaio, Banca mondiale, Washington granito, Museo di Belle Arti, Huston
Antonio Saura considera il vuoto intimamente legato allo spazio bianco iniziale della superficie
delle sue tele o dei suoi fogli di carta.
In principio, ossia nella fase surrealista della sua carriera, il pittore di Huesca, come dichiara in
un’intervista con Julián Ríos, è influenzato dalla visione del vuoto proposta da alcune delle
discipline e filosofie che abbiamo già mostrato interessare pure Valente, Tàpies e Chillida. In
particolar modo, la visione del vuoto dell’aragonese sottostà a quella delle dottrine mistica e Zen le
quali, come abbiamo sostenuto, pongono il vacío alla base di qualsiasi creazione.
[...] A. S.: Yo pensaba entonces que el único y verdadero paisaje del subconsciente era el vacío. En
cierto modo era la noche oscura del alma de San Juan.
J. R.: Pero eso te llevaría a algo muy antiguo que es también de una enorme modernidad, como
sería volver a esa iluminación del Zen y de ciertas experiencias orientales, de la búsqueda del perfecto
vacío taoísta. Frente a la vaciedad generalizada, la búsqueda del vacío.
A.S.: Es que entonces en mí había también una predisposición a un cierto misticismo pagano,
podríamos decir.
[...] A. S. : [Parlando con Ríos del periodo iniziale della sua carriera di pittore] Io pensavo allora
che l’unico paesaggio del subcosciente fosse il vuoto. In un certo modo era la notte oscura dell’anima di
San Juan.
J. R.: Ma questo ti avrebbe condotto a qualcosa di molto antico che è allo stesso tempo di
un’enorme modernità, come sarebbe stato ritornare a questa illuminazione dello Zen e di certe
esperienze orientali, della ricerca del perfetto vuoto taoista. Di fronte alla vacuità generalizzata, la
ricerca del vuoto.
1 PAZ, OCTAVIO, “Chillida: del hierro al reflejo” in Octavio Paz, op. cit., p. 153
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A. S.: E’ che allora in me c’era anche una predisposizione a un certo misticismo pagano,
potremmo dire.1
Antonio Saura, Costellazione, 1949, olio su carta, Antonio Saura, Danza enigmatica, 1950, olio su tela,
35 x 50 cm, Collezione Archivio “Antonio Saura”, 25,8 x 33 cm, collezione privata
Ginevra
Con il suo arrivo a Parigi Saura, influenzato dagli spazi vuoti delle opere di Tanguy, Dalí e
Miró,2 abbandona la sua concezione iniziale di vuoto e, secondo quanto dichiara a Ríos, inizia ad
intrattenere un “rapporto” diverso con esso.
A. S.: [...] Es decir, que en estas pinturas existe, de una forma bastante acentuada, la idea básica
del vacío que ha de ser poblado por múltiples mundos, el mineral, el vegetal, y orgánico...
A. S.: De cosas que luego aparecerán en series como “Cocktail Party”. [...]
A. S.: [Parlando delle sue tele surrealiste parigine] … Cioè, che in queste pitture esiste, in forma
piuttosto accentuata, l’idea basica del vuoto che deve essere popolato da molteplici mondi, quello
minerale, quello vegetale e quello organico
A. S.: Di cose che poi appariranno in serie come “Cocktail Party”. […]3
Lo spazio vuoto comincia ad essere considerato dall’aragonés non più stadio originario della
creazione, ma bensì, come si è già accennato, “superficie” che il pittore deve riempire per dare
impulso alla formazione dell’opera.
“Al llegar el momento de obrar, el pintor se convierte en el ser más desamparado del mundo,
desnudo como al nacer frente a la vida, encerrado en su cámara hermética, cortado el universo exterior,
frente por frente a la nada de la tela en blanco. Sabe que es ante todo una superficie que es preciso llenar
con algo para que pueda convertirse en cuadro, una renovada aventura que no se sabe adónde
conduce.”
“Quando arriva il momento d’agire, il pittore si trasforma nell’essere più abbandonato del mondo,
nudo come alla nascita di fronte al nulla della tela bianca. Sa che è innanzitutto una superficie che è
necessario riempire con qualcosa affinché possa convertirsi in quadro, una rinnovata avventura che non
si sa dove conduce.”4
1 RÍOS, JULIÁN, “Paisajes de ida y vuelta” in Julián Ríos, Las tentaciones de Antonio Saura, Madrid,
Grijalbo/Mondadori, 1991, pp. 34-35; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini 2 RÍOS, JULIÁN, “Paisajes de ida y vuelta” in Julián Ríos, Las tentaciones de Antonio Saura, op. cit., p. 34
3 RÍOS, JULIÁN, “Paisajes de ida y vuelta” in Julián Ríos, Las tentaciones de Antonio Saura, op. cit., p. 39
4 GARCÍA, BEGOÑA, “Las obras maestras” in Begoña García, Grandes Genios del Arte Contemporáneo
Español. El siglo XX. Saura, Barcelona, Ciro Ediciones, 2006, p. 56; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini
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Saura comincia così a “rifuggire” il vuoto, ad applicare alle sue tele ed incisioni quello che lui
stesso definisce il “principio tradizionale dell’horror vacui”.
A. S.: [...] ... el cuadro, ante todo, ¿qué es? Es una superficie blanca, una superficie en blanco
que hay que llenar y el dilema del pintor justamente es éste.
J. R.: Hacer o no hacer... Es el horror vacío.
S.: Exactamente. ¿Con qué se llena esta superficie en blanco? Porque en el momento de pintar, por
mucho que una serie de decisiones, de estructuras, estén presentes en la intención, y en el fantasma que
perdura, a partir del momento en que se da la primera mancha en el cuadro, es decir, la primera mancha
que supone una violación de ese espacio en blanco, a partir de ese momento surge un encadenamiento,
una reacción encadenada muy semejante, metafóricamente por supuesto, a la que se opera en el mundo
de la materia, que hace que ese primer gesto, esa primera acción, por muy mínima que sea, condiciona
en cierto modo el resultado del cuadro.
J. R. : Ante el problema de la tela en blanco, es siempre el primer paso, como en montones de
cosas en la vida, el importante, porque este primer paso te lleva a dar otros, y esa primera pincelada, ese
primer rasgo, te lleva a dar otros.
A. S.: […] … il quadro, innanzitutto, che cos’è? E’ una superficie bianca, una superficie bianca
che si deve riempire e il dilemma del pittore giustamente è questo.
J. R.: Fare o non fare… E’ l’orrore del vuoto.
A. S.: Esattamente. Con che cosa si riempie questa superficie bianca? Perché al momento di
dipingere, per quanto una serie di decisioni, di strutture, siano presenti nell’intenzione, e nel fantasma
che perdura, a partire dal momento in cui si dà la prima macchia nel quadro, cioè, la prima macchia che
presuppone una violazione di questo spazio bianco, a partire da questo momento inizia un
concatenamento, una reazione a catena molto simile, metaforicamente certo, a quello che si realizza nel
mondo della materia, che fa si che questo primo gesto, questa prima azione, per quanto intima sia,
condizioni in certo modo il risultato del quadro.
J. R.: Di fronte al problema della tela bianca, è sempre il primo passo, come in un sacco di cose
della vita, quello importante, perché questo primo passo ti spinge a farne altri, e questa prima pennellata,
questo primo tratto, ti spinge a farne altri.1
La tensione di Saura verso il riempimento della superficie pittorica o del supporto cartaceo
raggiunge il suo culmine espressivo in quelle serie di pitture ed incisioni (ad esempio
Constelaciones, Multitudes, Cocktail-Party, Mutaciones), dove la ripetizione ossessiva di corpi,
volti, tratti, linee, macchie ha l’intento di far si che l’opera “sfugga” il più possibile dal vuoto alla
quale soggiace.
Nelle Moltitudini poi, sia quelle degli anni ’60 che quelle più recenti, gli elementi “affollano” la
superficie pittorica e, come sostiene lo stesso artista di Huesca, riproducono quei procedimenti di
attrazione e repulsione delle particelle di materia che regolano lo spazio cosmico.
1 RÍOS, JULIÁN, “Damas” in Julián Ríos, Las tentaciones de Antonio Saura, op. cit., pp. 67-68, traduzione in
italiano a c. di Giulio Bartolini
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Foule (Multitud)
En 1959 Saura inició su serie “Multitudes”, compuesta por obras de gran formato en las que el
artista intentó cumplir su viejo sueño expansivo de ocupar totalmente la superficie del lienzo. Huyendo
de la centralización compositiva y buscando jugar con la bidimensionalidad de la pintura, rellenó el
espacio de forma abigarrada con cabezas expresivas, con fragmentos de la figura humana que tanto le
interesaba: “He tratado de unificar múltiples aproximaciones de rostros sin cuerpo, de coordinar
dinámicamente conjuntos de antiformas en asociaciones orgánicas como si obedeciesen al igual que en
ciertos fenómenos biológicos, a necesidades de unión y repulsión capaces de generar una sensación de
continuidad.”
Folla (Moltitudine)
Nel 1959 Saura iniziò la sua serie “Moltitudini”, composta da opere di grande formato nelle quali
l’artista cercò di compiere il suo vecchio sogno espansivo di occupare totalmente la superficie della tela.
Fuggendo dalla centralizzazione compositiva e cercando di giocare con la bidimensionalità della pittura,
riempì lo spazio in modo eterogeneo con teste espressive, con frammenti della figura umana che tanto gli
interessava: “Ho cercato di unificare molteplici approssimazioni di facce senza corpo, di coordinare
dinamicamente congiunzioni di antiforme in associazioni organiche come se obbedissero ugualmente a
certi fenomeni biologici, a necessità d’unione e repulsione capaci di generare una sensazione di
continuità.1
Antonio Saura, Moltitudine, 1959 Antonio Saura, Folla I, 1963, acquaforte,
162 x 390 cm, china su carta, collezione privata 12,3 x 16,5 cm, collezione privata
Antonio Saura, Moltitudine, Coppa del Antonio Saura, Iceberg-Moltitudine, 1997,
Mondo di Calcio, 1982, litografia, 200 x 400 cm, olio su tela, collezione privata
60 x 84 cm, collezione privata
Anche all’interno della lunga serie di pitture ed incisioni Cocktail-party, incentrata sulla tematica
della “festa orgiastica”, 2
e in altri insiemi “minori” quali Costellazioni e Scacchiere, i singoli corpi
o frammenti di essi cercano di occupare al massimo lo spazio inscenando una vera e propria lotta
contro il vuoto.
1 GARCÍA, BEGOÑA, “Las obras maestras” in Begoña García, op. cit., p. 112
2 GARCÍA, BEGOÑA, “Las obras maestras” in Begoña García, op. cit., p. 62
31
Antonio Saura, Cocktail-party, 1960, Antonio Saura, Cocktail-party I, 1982,
Tecnica mista e collage su carta, 60,00 x 83,00 cm litografia e zincografia in 5 colori, 59 x 88 cm,
Collezione Archivio “Antonio Saura”, Ginevra collezione privata
Antonio Saura, Costellazione II, 1993, Antonio Saura, Cocktail-party, 1998
acquaforte e acquatinta, 46,2 x 38 cm, litografia, 41 x 27 cm, collezione privata
collezione privata
Antonio Saura, Scacchiera, 1977 Antonio Saura, Costellazione, 1977,
litografia e zincografia a colori, 59,5 x 88 cm, litografia e zincografia a colori, 59,4 x 88 cm,
collezione privata collezione privata
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4. Silenzio
Edizione francese di Comunicazione sul muro illustrata da Antoni Tàpies
Abbiamo già cercato di dimostrare quanto sia importante l’influsso del pensiero estremorientale
nella maturazione della concezione artistica valentiana.
Secondo i suoi fautori, nell’esercizio dell’arte così come in ogni frangente della vita, il silenzio
ha un rilievo assoluto poiché, alla pari del vuoto, esso è parte fondante dell’esistere.1 Questa
costituisce una delle ragioni principali per le quali il silenzio pervade numerose poesie di Valente.
Un altro importante motivo per cui le composizioni poetiche valentiane sono intrise di silenzio è
determinato dalla centralità accordata alla cosiddetta música del silencio di Anton Webern.2
1 SUZUKI, DAISETZ TEITARO, “Introduzione” in Eugen Herrigel, op. cit., pp. 11-15
HERRIGEL, EUGEN, op. cit., 1975, passim 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Notas de un simulador” in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, pp.
467-468
En la música de Webern, más que en cualquier otra, importa no sólo el silencio que entra en la
música misma como elemento de composición, sino –y, acaso, sobre todo- el silencio que rodea la música.
El principio de no repetición en Webern no es, en absoluto, abolición de la memoria. El silencio es la
memoria primordial. O la memoria primordial es una memoria del silencio.
Valente, José Ángel, “Elogio del calígrafo” in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit., pp.
553-554
[...] “Poética: arte de la composición del silencio”, escribí hace ya tiempo. Y ciertamente, la
escritura musical de Webern tal vez haya marcado mi propia poesía más que ninguna otra escritura
contemporánea. De ahí que haya querido tomar su música como nuestro último, y acaso más definitivo
referente.
33
Eduardo Chillida, Musica tacita, 1955, Eduardo Chillida, Musica tacita II. Omaggio a
ferro, Kunstmuseum, Basilea J. S. Bach, 1983, acciaio, Museo “Metropolitan”,
New York
La silenziosità delle composizioni poetiche valentiane origina pure dalla volontà di “scavalcare”
la limitatezza dei mezzi espressivi umani. Valente vuole sondare le potenzialità del silenzio
affrancando le parole delle sue poesie dal loro rumor superficiale e dando loro piena libertà.1
Il poeta di Orense delinea, almeno in parte, la sua concezione di silenzio dalla contemplazione di
alcune pitture di Tàpies. L’artista orensano scorge in esse una continua e naturale tensione al
silenzio che considera indice dello sforzo esercitato dal barcellonese nel tentativo di raggiungere la
materia interiorizada.2 Si tratta dello spingersi al di là della mera apparenza delle cose cercando di
trovarne la vera costituzione nel cosiddetto abismo interior. Valente nel secondo dei Cinco
fragmentos para Antoni Tàpies asserisce come la sua stessa poesia, alla stregua della pittura
dell’amico catalano, sia animata in modo del tutto naturale da una costante tensione verso il silenzio.
II
Ut pictura
Mucha poesía ha sentido la tentación del silencio. Porque el poema tiende por naturaleza al
silencio. O lo contiene como materia natural. Poética: arte de la composición del silencio. Un
poema no existe si no se oye antes que su palabra, su silencio.
1 MONEGAL, ANTONIO, “Voces y trazos del silencio (diálogos entre las artes)” in VV. AA., A palabra e a súa
sombra: José Ángel Valente, o poeta e as artes = La palabra y su sombra: José Ángel Valente, el poeta y las
artes = The word and its shadow: José Ángel Valente: the poet and the arts, [exposición organizada pola
Universidade, Pazo de Fonseca, Igraxa da Universidade, 20 xuño – 31 agosto 2003], op. cit., p. 211
Si bien en otras épocas lo que poesía y pintura compartían era la pretensión de imitar la
realidad, la tendencia contemporánea ha sido encontrarse en un silencio que, lejos de evocar la
comparación de Simónides, no deja muda a ninguna de las artes. Es un silencio que tanto la pintura como
la poesía han llevado siempre consigo.
2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL; TÀPIES, ANTONI, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in José
Ángel Valente, Obras Completas: ensayos, op. cit., p. 536
J. A. V.: Justamente este silencio sería la nada, el lugar de la materia interiorizada. Creo que eso
es lo que tú querías significar con esa idea...
34
II
Ut pictura
Molta poesia ha sentito la tentazione del silenzio. Perché la poesia tende per sua natura al silenzio.
O lo contiene come materia naturale. Poetica: arte della composizione del silenzio. Una poesia
non esiste se non si sente prima della sua parola, il suo silenzio. 1
Nell’arte poetica le parole divengono espressione del silenzio, mentre in quella pittorica le
raffigurazioni producono un’illusione di una loro possibile traduzione come parole.2
Buona parte della poesia moderna si alimenta del desiderio pressante di dire il silenzio, di
esprimerlo. Le leggi che caratterizzano il discorso poetico contemporaneo sono quelle dell’enigma e
dell’allusione. La parentela fra un’arte priva di parole quale la pittura ed una che si basa su parole
aventi una sempre maggiore opacità, ovvero la poesia, è dettata dalla loro continua tensione verso
l’annullamento di determinati significati.
[...] Por otro lado la pintura, privada del discurso verbal, goza por norma propia de esa
expresividad callada. Así, de la antigua comparacíon entre la poesía como pintura que habla y la pintura
como “poema mudo”, no me interesa aquí lo que cada arte dice como lo que calla. Lo que se guarda
para darlo velado y lo que se da como pura pérdida. En la medida en que toda poesía está tocada por el
deseo de dar voz al silencio, estos comentarios tienen un alcance amplio, pero se cumplen muy
especialmente en aquellos derroteros de la poesía que han hecho del enigma y la alusión las leyes de su
discurrir. El parentesco entre un arte con palabras y otro sin ellas se estrecha desde el momento en que
el primero hace de la palabra un vehículo opaco que conduce al silencio y el segundo deja de reproducir
una ilusión que pueda nombrarse y acalla la posibilidad de interpretación -es decir-, de traducción de la
palabra.
[…] D’altro canto la pittura, privata del discorso verbale, gode per norma propria di questa
espressività muta. Così, dell’antica comparazione tra poesia come pittura che parla e pittura come
“poesia muta”, non mi interessa qui quello che ogni arte dice quanto quello che tace. Quello che si
conserva per darlo occulto e quello che si dà come pura perdita. Nella misura in cui tutta la poesia è
toccata dal desiderio di dar voce al silenzio, questi commenti hanno un’amplia portata, ma si compiono
in modo particolare in quei percorsi della poesia che hanno fatto dell’enigma e l’allusione le leggi del
suo discorrere. La parentela tra un’arte con le parole e un’altra senza queste si stringe a partire dal
momento in cui la prima fa della parola un veicolo opaco che conduce al silenzio e la seconda smette di
riprodurre un’illusione che possa nominarsi e zittisce la possibilità di interpretazione -cioè-, di
traduzione della parola.3
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cinco fragmentos para Antoni Tàpies” in Antoni Tàpies; José Ángel Valente,
Comunicación sobre el muro, op. cit., p. 35 2 FEIJOO, LUIS IGLESIAS, “José Ángel Valente: poesía y pintura” in VV. AA., A palabra e a súa sombra: José
Ángel Valente, o poeta e as artes = La palabra y su sombra: José Ángel Valente, el poeta y las artes = The
word and its shadow: José Ángel Valente: the poet and the arts, [exposición organizada pola Universidade,
Pazo de Fonseca, Igraxa da Universidade, 20 xuño – 31 agosto 2003], op. cit., pp. 209-210, passim 3 MONEGAL, ANTONIO, “Voces y trazos del silencio (diálogos entre las artes)” in VV. AA., A palabra e a súa
sombra: José Ángel Valente, o poeta e as artes = La palabra y su sombra: José Ángel Valente, el poeta y las
artes = The word and its shadow: José Ángel Valente: the poet and the arts, [exposición organizada pola
Universidade, Pazo de Fonseca, Igraxa da Universidade, 20 xuño – 31 agosto 2003], op. cit., p. 211
35
La poesia valentiana tende per sua natura, come abbiamo affermato in precedenza, al silenzio: la
parola incarna la singola entità che tende continuamente al silenzio, all’annullamento.
L’intera poesia di Valente, alla stregua di quanto mostrato precedentemente, ha l’intento di far
sparire il linguaggio poetico, di annullarlo in quanto non può minimamente soddisfare l’esigenza
avvertita dal poeta, e prima ancora dall’uomo, di esprimere gli infiniti significati e le innumerevoli
forme dell’universo.1
Il silenzio delle poesie valentiane è altresì indice del raggiungimento di una piena pace interiore
da parte del poeta. Manifestazioni di questa tranquillità ed equilibrio interiori al gallego sono quei
componimenti poetici nei quali egli esprime la sua piena esperienza dell’amore2 o la sublimazione
del suo “io”.
Un canto
Un canto.
Quisiera un canto
que hiciese estallar en cien palabras ciegas
la palabra intocable.
Un canto.
Más nunca la palabra como ídolo obeso,
alimentado
de ideas que lo fueron y carcome la lluvia.
La explosión de un silencio.
Un canto nuevo, mío, de mi prójimo,
del adolescente sin palabras que espera ser nombrado,
de la mujer cuyo deseo sube
1 MÁS, MIGUEL, “3. La retórica de la desposeción” in Miguel Más, La escritura material de José Ángel
Valente, Madrid, Hiperión, 1986, pp. 59-61
2 – El silencio y el despertador de la conciencia utópica
El silencio del autor de la Memoria y los signos pasa entonces, como decimos, por encima del
lenguaje poético para, a través de aquel, interrogar al fin su existencia ideal. Más aún, diríamos que la
escritura valentiana en este extremo pretende cuestionar la creencia de que el lenguaje (poético) es en su
constitución un acto de poder que pueda dar cuenta –traducir- la experiencia con la realidad de una
manera inmediata. La autenticidad valentiana reside precisamente en esta posibilidad de autoacusación
que lanza a la razón contra sí misma, incapaz de conocer de manera total ciertas parcelas de la realidad
humana. Entre la indiferencia y el discurso –dice Blanchot- existe algo no transmisible por el lenguaje...
Es posible que las palabras desconozcan la verdadera naturaleza humana, ya que en ciertos momentos de
la vida humana o experiencias posiblemente esenciales, como el extásis o el sueño, tienen una
correspondencia más justa en el silencio que en el discurso...
[...] La poesía entonces, el acto de poetizar, será, según veníamos diciendo, el intento de hacer
desaparecer del lenguaje, en la medida de lo posible, lo que éste tiene de universal e initeligible...
2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Los amantes” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op. cit., pp.
790-791
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Amor, tu mano” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op. cit.,
pp. 794-796
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en borbotón sangriento a la pálida frente,
de éste que me acusa silencioso,
que silenciosamente me combate,
porque acaso no ignora
que una sola palabra bastaría
para arrasar el mundo,
para extinguir el odio
y arrastrarnos. […]1
XII
De la palabra hacia atrás
me llamaste
¿con qué?2
Desencuentro o palabras para la innominación
Había cierta incapacidad para llegar al fondo del sunto. Cierta desarmonía entre la
falsedad de las preguntas y las respuestas evadidas. Pienso que en tales casos el sunto
es la muerte. Alguna forma de muerte medianera e interpuesta. Un muro leve de sonido
sordo. Nada, en fin. Nada que pueda hacer que la palabra sea oída. La palabra de
quién. no había quién a quién hablase en realidad. Los rostros reservaban su calidad
de máscaras inmóviles. Nada parecía fluir. [...]3
Cabeza de mujer
Ya nunca. Sobre un fondo de luz inviolable. El hilo oscuro no segará tu delicado
cuello. ¿Qué queda, dime, de la noche en la desposesión y qué palabra queda después
y al fin de la palabra? Al pie del árbol, del árbol de la vida sumergido, escrito está tu
nombre. Y queda esta cabeza, esta cabeza sola sobre el límite de las aguas que un día
anegaron la tierra. Cabeza de mujer. Más alta. Más alta está, más alta que el más alto
nivel a que la muerte llega.[...]4
III
Poema
Cuando ya no nos queda nada,
El vacío del no quedar
Podría ser al cabo inútil y perfecto.
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “La memoria y los signos” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa,
op. cit., pp. 212-213 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Treinta y siete fragmentos” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y
prosa, op. cit., p. 325 3 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Interior con figuras” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op.
cit., p. 360 4 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Material memoria” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op.
cit., p. 383
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Aguardábamos la palabra. Y no llegó. No se dijo a sí misma. Estaba allí y aquí aún
muda, grávida. Ahora no sabemos si la palabra es nosotros o éramos nosotros la
palabra. Mas ni ella ni nosotros fuimos proferidos. Nada ni nadie en esta hora adviene,
pues la soledad es la sola estancia del estar. Y nosotros aguardamos la palabra. […]1
Tuttavia, in altre poesie, Valente ci sembra “rifuggire” il silenzio. Questo si verifica laddove il
poeta denuncia l’acquiescenza dell’opinione pubblica nei confronti del regime franchista e dei
crimini compiuti contro l’umanità durante la Seconda Guerra Mondiale.
In risposta all’affermazione del filosofo tedesco Theodor Adorno secondo la quale: “Scrivere una
poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie…”, 2 l’orensano sostiene che è proprio in virtù di fatti
terribili ed inenarrabili come questo che la poesia deve “acquisire” nuovo slancio.
[…] Y cómo, preguntaron, cómo
escribir después de Auschwitz.
Y después de Auschwitz
y después de Hiroshima, cómo no escribir.
¿No habría que escribir precisamente
después de Auschwitz o después
de Hiroshima, si ya fuésemos, dioses
de un tiempo roto, en el después
para que al fin se torne
en nunca y nadie pueda
hacer morir aún más los muertos?[...]
(Hibakusha)3
José Ángel Valente, Hibakusha, 1987, edizione illustrata da Paco Aguilar
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Mandorla” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op. cit., p.
423 2 ADORNO, THEODOR, “Critica della cultura e della società” in AA. VV., Prismi, a c. di Carlo Mainoldi,
Torino, Einaudi, 1972, p. 22 3 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Al dios del lugar” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op.
cit., p. 483
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Hibakusha “sopravvissuti” ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki e, sulla
destra, un gruppo di superstiti del campo di sterminio di Auschwitz
Il poeta galiziano dedica per questo motivo numerose poesie alla descrizione delle brutalità
perpetrate in Spagna durante ed in seguito alla Guerra Civil.1 Il silenzio di quanti si sono assuefatti
alle cosiddette mentiras dei franchisti, descritte soprattutto in alcune delle prime poesie, è da
considerarsi secondo l’orensano “complice” del sangue versato dagli innocenti.
El muro
(voz de la criatura)
En la espesura de este muro puse
mi oído. Golpeé tres veces,
cien, mil, toda la vida. Dije
tu nombre, dije:
-No sé tu nombre.
Puse mi oído; deseaba voces,
una respuesta, un eco.
Golpeé hasta la muerte: largos
muros, silencio, viento... y más allá
caí.
Banderas
De pena y tiempo arrastraba la noche.
Y más allá caí para engrosar el muro
espeso en que clamaba.
Caí, caí, caí.
Y más allá caí, del otro lado
de la humana esperanza.2
1 GAY ARMENTEROS, JUAN CARLOS, “10. La Guerra Civil” in Juan Carlos Gay Armenteros, La España del
siglo XX, Madrid, Edi6, 1991, pp. 75-83
GAY ARMENTEROS, JUAN CARLOS, “11. Dos Españas en guerra” in Juan Carlos Gay Armenteros, op. cit., pp.
84-89
GAY ARMENTEROS, JUAN CARLOS, “12. La posguerra” in Juan Carlos Gay Armenteros, op. cit., pp. 93-99
GAY ARMENTEROS, JUAN CARLOS, “13. El final de la Guerra Mundial y los años cincuenta” in Juan Carlos
Gay Armenteros, op. cit., pp. 100-104
GAY ARMENTEROS, JUAN CARLOS, “14. Auge y ocaso del franquismo” in Juan Carlos Gay Armenteros, op.
cit., pp. 105-110 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Poemas a Lázaro” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op.
cit., pp. 109-110
39
II
Patria, cuyo nombre no sé
A Aurelio Menéndez
Yo no sé si te miro
con amor o con odio
ni si eres más que tierra
para mí.
Pero contigo sólo,
a muerte, debo
levantarme y vivir.
Aquí es tu piel tirante
sobre el mapa del alma,
azotada y cruel;
allí suave,
rota en ríos de lluvia,
inclinada hacia el mar.
Allí paso perdido,
pie puro que anda el sueño;
aquí cráneo abrasado
por el peso de Dios.
Estoy así mirándote
con un ojo que apenas
ha nacido al mirar.
Porque he venido ayer
y no sé aún quién eres,
aunque tal vez no seas
nada más verdadero
que clavo sobre ti.
Vine cuando la sangre
aún estaba en las puertas
que esta ardiente pregunta
y pregunté por qué.
Yo era hijo de ella
y tan sólo por eso
capaz de ser en ti.
Vine cuando los muertos
palpitaban aún próximos
al nivel de la vida
y pregunté por qué.
Yacían bajo tierra:
tú eras su verdad.
[…]
Oh, cómo en las colinas
sobreviviente el aire
se animaba de él.
Debiáis protegerlo.
No lo hicisteis.
Temblad.
Porque debió crecer
para la luz, no para
la sombra, el odio, para
la negación.
40
La tierra había sido
removida y arada
con la sangre de todos.
Con la sangre. Era
difícil la alegría;
necesitábamos
primero la verdad.
[…]
Oh patria y patria
y patria en pie
de vida, en pie
sobre la mutilada
blancura de la nieve,
¿quién tiene tu verdad?1
La mentira
Caminan por los campos, arreando sus bestias
cargadas de cadáveres, hacia el atardecer.
Pero no allí,
sino en el centro de la ciudad
están (aunque su reino sea
más odioso en el alma): son
los mercaderes del engaño.
Levantan en la plaza
sus tenderetes y sus palabras, pues son hábiles
en el comercio de la irrealidad.
Proceden del sueño y también
lo engendran a su vez.
Mezclaos entre la multitud y veréis
hasta que punto sus palabras son vanas,
pues no les pertenece ni un solo corazón.
Si alguien levanta su voz en la asamblea,
tal vez un hombre honrado,
para enarbolar la verdad,
ellos extienden sus manos engañosas
hasta teñir el cielo de un sangriento color.
Porque tienen el viejo poder de la mentira
que desciende en la noche,
cubre los campos,
se mezcla a las semillas,
contamina los frutos de toda corrupción.
Mentira es nuestro pan, el que mordimos
con ira y con dolor.
Bajamos a la caída de los sueños
como una bandada de pájaros sedientos de verdad.
Pero ninguna hora había sonado
que fuese nuestra. Entonces comprendimos
que al igual que la tierra huérfana de cultivo
debíamos dar fruto en soledad.
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “A modo de esperanza” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa,
op. cit., pp. 82-84
41
Pero ahora acercaos: ved
cómo la noche cae. Se oye
un largo toque de silencio y redobla
el hisopo sobre el tambor.
La plaza está desierta (parece descansar
la ciudad en un sueño más hondo que la muerte).
Sólo quedan palabras como globos hinchados,
ebrios de nada. Van
flotando lentamente sobre la carroña del día
y su implacable putrefacción.1
John Cornford, 1936
Only in constant action was his
constant certainty found.
He will throw a longer shadow
as time recedes.
John Cornford, veintiún años
ametrallados sobre el aire
en que han nacido estas palabras.
El corazón de los fusiles
siguió latiendo inútilmente,
cuando ya nunca alcanzaría
el rastro claro de tu sangre.
Esto fue en Córdoba, en diciembre,
en las montañas, combatiendo.
Después cayó, como dijiste,
la noche larga sobre Europa.
Los poetas retrocedieron
a su pasión consolatoria
y aquellas horas de amistad
en un ejército del pueblo
fueron borradas con la cola
subrepticia de la tristeza
en el tumulto repentino.
Así pasó, en efecto, todo.
Los años treinta en estampida
“with the unemployed demonstrators
carrying “the coffin” to the Station”.
Palidecieron los retratos.
Cedió el viento y se fue el público
y cundió la desesperanza.
Otros cayeron.
Entre el humo
de las ruinas y otras cosas
no apaciguadas por el tiempo
se levanta tu cuerpo joven.
De tú a tú puedes hablarnos,
John Cornford, hermano nuestro,
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Poemas a Lázaro” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op.
cit., pp. 148-149
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de tú a tú como se hablan
en la verdad los hombres vivos.
Al rehacer aquella hora
cuento despacio tus palabras.
La inteligencia aún se pasea
en tren de lujo por los versos
mientras espera que otros caigan
para sentir horror de pronto.
Mas para ti sólo fue uno
el camino de la certeza.
No quisiste huir de la vida
con el disfraz del pensamiento.
Así estás igual a ti mismo
con la pasión que aquí te trajo.
Un solo acto vida y muerte,
la fe y el verso un solo acto.
Ametrallados, no vencidos,
veintiún años, en diciembre,
Córdoba sola, un solo acto
tu juventud y la esperanza.1
John Cornford
I “muri”2 del pittore barcellonese Tàpies comunicano il silenzio perché sono, come afferma egli
stesso, delle “contemplazioni del muro”, un “esercizio” spirituale individuale di meditazione sul
nulla.
[...] La idea esta de llegar a hacer muros, por ejemplo, que me cogió un poco de sorpresa, y que en
principio era una idea muy sugestiva, llegar a hacer unas imágenes que no son nada, que son un muro,
esto me enlaza con la idea de Bodhidharma de contemplar el muro. Y tuvo éxito, es curioso...
[...] Quest’idea di arrivare a fare dei muri, per esempio, che mi colse un po’ di sorpresa, e che
all’inizio era un’idea molto suggestiva, arrivare a fare delle imagini che non sono nulla, che sono un
muro, questo mi imparenta con l’idea di Bodhidharma [il fondatore dello Zen] di contemplare il muro.
Ed ebbe successo, è curioso…3
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “La memoria y los signos” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa,
op. cit., pp. 194-195 2 TÀPIES, ANTONI; VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, Comunicación sobre el muro, op. cit., passim
3 REVISTA DHARMA, http://www.revistadharma.com/tapies.htm; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini
43
Queste opere rappresentano il risultato della riflessione solitaria dell’artista il quale, parimenti al
discepolo dello Zen, raggiunge lo status in cui è in grado di generare le sue creazioni solo al termine
di un processo di iniziazione allo svuotamento di se stesso.1
Rappresentazione giapponese di Bodidharma Eugen Herrigel impegnato nel tiro con l’arco secondo lo Zen
Antoni Tàpies, Pittura, 1955, tecnica mista, 96 x 145 cm, Antoni Tàpies, Grande pittura grigia n° III,
Museo Nazionale Centro d’Arte “Regina Sofia”, Madrid 1955, tecnica mista, 194,5 x 169,5 cm,
Museo Nordrhein-Westfalen, Dusseldorf
Il silenzio dei muros e di altre serie di pitture dell’artista catalano appare nondimeno connesso
allo sdegno nutrito verso la Guerra Civil e la Seconda Guerra Mondiale.2
Si tengo que hacer la historia de cómo se fue concretando en mí la consciencia de este poder
evocador de las imágenes murales, he de remontarme muy lejos. Son recuerdos que vienen de mi
adolescencia y de mi primera juventud encerrada entre los muros en que viví las guerras. Todo el drama
que sufrían los adultos y todas las crueles fantasías de una edad que, en medio de tantas catástrofes,
parecía abandonada a sus propios impulsos, se dibujaban y quedaban inscritos a mi alrededor. Todos los
muros de una ciudad, que por tradición familiar me parecía tan mía, fueron testigos de todos los
martirios y de todos los retrasos inhumanos que eran inflingidos a nuestro pueblo.3
Se devo render conto del modo in cui a poco a poco ho preso coscienza di questa potenza
evocatrice delle immagini dei muri, devo risalire a molto lontano. Sono ricordi che provengono
dall’adolescenza e dai miei giovani anni racchiusi tra le mura entro le quali ho vissuto le guerre. Tutto il
dramma sofferto dagli adulti e tutto quello che di atroce ha inventato un’epoca che sembrava andare, tra
1 TÀPIES, ANTONI, “Comunicación sobre el muro”, in Antoni Tàpies e José Ángel Valente, op. cit., pp. 49-50
2 BOZAL, VALERIANO, “El muro y el monstruo” in Valeriano Bozal, El tiempo del estupor: la pintura
europea tras la segunda guerra mundial, op. cit., pp. 123-127 3 TÀPIES, ANTONI, “Comunicación sobre el muro” in Antoni Tàpies e José Ángel Valente, op. cit., pp. 47-48
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le catastrofi, alla deriva dei propri impulsi, tutto questo ridisegnava, si inscriveva sotto il mio sguardo. In
città dove grazie alla tradizione familiare avevo preso l’abitudine di considerarmi a casa mia, tutti i muri
portano testimonianza del martirio del nostro popolo dei divieti inumani che gli sono stati inflitti.1
Le opere materiche e “murarie” del pittore di Barcellona, soprattutto quelle realizzate tra l’inizio
degli anni ’50 e la metà degli anni ‘70,2 sono dunque emblemi dell’ottenebramento della cultura
spagnola e dell’ingiustizia sociale3 messi in atto dal regime di Franco e dal suo apparato retorico.
4
Di fronte alla manipolazione delle coscienze e, soprattutto, all’inefficacia della denuncia di questo
crimine di stato, l’artista sceglie di rappresentare con dei simboli murari la sua indignazione verso
l’irriducibile meschinità del presente.5
La pintura de Tàpies podía tener una interpretación política antes de que la política explicita
apareciese en sus obras. No era necesario esperar a sus dibujos más comprometidos, realizados muchos
de ellos a favor de las víctimas de la represión, como testimonios penetrantes de la misma, o a sus
referencias a Cataluña [54]. La fanfarria retórica y ruidosa que exaltaba la individualidad heroica y el
nacionalismo más sórdido, fundamento de un caudillaje insoportable, se disolvía en la materialidad de
estos muros en los que las marcas eran testimonio de supervivencia de una colectividad, de todos.
Paradójicamente, los signos y la materialidad creada por el artista, aunque pudieran parecer muy
abundantes, incluso en algunos casos excesivos, eran testimonio del silencio, y la experiencia que de
1 BARILLI, RENATO, “Comunicazione sul muro” in Renato Barilli, Tàpies, Milano, Skirà, 1998, p. 54
2 BOZAL, VALERIANO, “2.4 “Y hago que en mí sea un clamor el silencio de todos” in Valeriano Bozal,
Pintura y escultura españolas del siglo XX (1939-1990), op. cit., p. 67
Es ese silencio político, ingrediente fundamental de la identidad nacional, el que habita en los
muros, y no sólo en los que tienen a la bandera catalana como protagonista: el mismo silencio que anida
en los cuerpos torturados, en las materias hechas cuerpo de mujer u objeto cotidiano.
3 BARILLI, RENATO, “La poetica del muro” in Renato Barilli, op. cit., p. 16
“[…] … una comunità si sente minacciata da un signore delle tenebre che abita-ossessiona (lo
hanter francese) un qualche luogo, da cui invia influssi malefici, tali da turbare la salute pubblica; e allora
bisogna intervenire con i mezzi elementari della calce, della muratura, per scongiurare quella peste,
dell’anima più che del corpo. Così le comunità di un tempo si difendevano dalle epidemie, e così si torna a
fare anche oggi in momenti di emergenza, quando, a seguito di una catastrofe naturale o bellica, i cadaveri
sono troppi, e allora bisogna affrettarsi a sterilizzarli, eliminandoli con grossolani interventi materiali.
4 BOZAL, VALERIANO, “El muro y el monstruo” in Valeriano Bozal, El tiempo del estupor: la pintura
europea tras la segunda guerra mundial, op. cit., p. 133 5
MUÑOZ, MIGUEL ÁNGEL, “Entrevista con Antoni Tàpies”,
http://www.revista.agulha.nom.br/ag44tapies.htm
[...] ...después de la Segunda Guerra Mundial, como a otros artistas de mi generación,
especialmente los expresionistas abstractos y algunos pintores del círculo de París, se apoderó de mí una
depresión y un sentimiento de crisis en relación a la cultura occidental. Por la época que me tocó vivir, y
quizás, por mi propio temperamento, es posible que haya dominado esa oscuridad, no sé si
exageradamente.
ÁNGELES, GARCÍA, “Entrevista: Antoni Tàpies, pintor”, Madrid, El País, 16/11/2006,
http://www.elpais.com/articulo/cultura/Busco/reflexion/frente/banalidad/elpepicul/20061116elpepicul_2/Tes
“[...] Yo he vivido la Guerra Civil y nunca he dejado de ver sufrimiento.”
45
ellos teníamos abundaba en ese silencio, nunca en la estridencia. Entre el silencio y la clandestinidad
hay una distancia muy corta que éramos capaces de captar al contemplar esas pinturas. Pese a la
insistencia ideológica en afirmar las excelencias de la situación por la que se atravesaba, las obras de
Tàpies venían a decirnos que no era así, que la realidad era muy otra y que la verdad se encontraba
diseminada en signos azarosos, difíciles de interpretar, que eran el mejor testimonio de la vida colectiva.
La pittura di Tàpies poteva avere un’interpretazione politica prima che la politica apparisse
esplicitamente nelle sue opere. Non era necessario attendere i suoi disegni più compromessi, molti dei
quali realizzati in favore delle vittime della repressione, quali testimoni penetranti della stessa, o i suoi
riferimenti alla Catalogna. La fanfara retorica e rumorosa che esaltava l’individualità eroica e il
nazionalismo più sordido, fondamento di un caudillaje insopportabile, si dissolveva nella materialità di
questi muri nei quali i segni erano testimonianza della sopravvivenza di una collettività, di tutti.
Paradossalmente, i segni e la materialità creata dall’artista, nonostante potessero sembrare molto
abbondanti, persino eccessivi in alcuni casi, erano testimonianza del silenzio, e l’esperienza che avevamo
di essi abbondava in questo silenzio, mai nello strepito. Tra il silenzio e la clandestinità c’è una distanza
molto corta che eravamo capaci di captare contemplando queste pitture. Malgrado l’insistenza
ideologica nell’affermare le eccellenze della situazione che si stava attraversando, le opere di Tàpies ci
dicevano che non era così, che la realtà era molto diversa e che la verità si trovava disseminata in segni
incerti, difficili da interpretare, che erano la migliore testimonianza della vita collettiva. 1
Antoni Tàpies, Ocre grigio, 1953, olio su tela, Antoni Tàpies, Pittura con croce rossa, 1954
130 x 162 cm, Collezione Fondazione 195 x 130,5 cm, tecnica mista su tela,
“Antoni Tàpies”, Barcellona collezione privata, Svizzera
Antoni Tàpies, Grande bianco senza materia, 1965 Antoni Tàpies, Lo spirito catalano, 1971,
195 x 170 cm, tecnica mista su tela, Collezione D’Arte 28 x 26,5 cm tecnica mista su legno,
Contemporanea, Fondazione “La Caixa”, Barcellona collezione privata, Madrid
1 BOZAL, VALERIANO, “El muro y el monstruo” in Valeriano Bozal, El tiempo del estupor: la pintura
europea tras la segunda guerra mundial, op. cit., p. 134; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini
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Antoni Tapies, Croce e terra, 1975 Antoni Tàpies circondato da alcuni dei 162 x 162 cm, tecnica mista, collezione privata dell’artista suoi “muri” nel suo taller barcellonese
Il pittore aragonese Antonio Saura realizza, all’inizio della sua carriera, alcuni dipinti surrealisti
nei quali ci sembra manifestarsi una vera e propria ricerca del silenzio. Si tratta di opere nelle quali
le figure si stagliano su grandi e vuoti paesaggi silenti. Questi ultimi si configurano come
trasposizioni pittoriche della desolazione nella quale si trovavano società e cultura spagnole negli
anni successivi all’instaurazione del regime franchista.
O bien, de manera fragmentaria, por momentos, invoca el silencio en el centro mismo del gesto de
pintar, como si la pintura se hubiese convertido en una especie de doble del mundo, de otro mundo,
privado de su nombre, de su lengua, donde el silencio del mundo real se ha agravado (La columna del
silencio, 1948, El gran silencio, 1950).
O piuttosto, in modo frammentario, a tratti, invoca il silenzio nel centro stesso del gesto di
dipingere, come se la pittura si fosse convertita in una specie di doppio del mondo, di altro mondo,
privato del suo nome, della sua lingua, dove il silenzio del mondo reale si è aggravato (La colonna del
silenzio, 1948, Il grande silenzio, 1950). 1 [Anche Il silenzio eterno, 1950].
Nei paesaggi spettrali dei surrealisti attivi a Parigi e nelle “spiagge deserte” 2
del connazionale
Dalí,3 l’allor giovane Saura intravedeva una perfetta corrispondenza con il silenzio oscurantista che
avvolgeva la Spagna degli anni ‘40 e ’50.
1 GUIGON, EMMANUEL, “Los procesos imaginarios de Antonio Saura” in Antonio Saura, Crucifixiones, a c. di
Javier Caballero, Madrid, Ediciones del Umbral, 2002, p. 28; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini 2 SAURA, ANTONIO, “La playa desierta” in Antonio Saura, Visor: sobre artistas 1958-1998, a c. di Susana
Pellicer, Barcelona, Galaxia Gutemberg: Círculo de lectores, 2001, pp. 39-45 3 GUIGON, EMMANUEL, “Los procesos imaginarios de Antonio Saura” in Antonio Saura, Crucifixiones, op.
cit., p. 41
[...] Un día ví un cuadro de Dalí, Espectro del sex-appeal, que representa a un muchacho en la
playa. El muchacho mira a un monstruo enorme y obsceno construido a la manera de un Archimboldo.
Cuando lo descubrí, pensé en mí mismo contemplando el Cristo de Velásquez, cogido de la mano de mi
padre, ese cuadro terriblemente audaz, sin paisaje, sin ninguna otra presencia que la de Cristo sobre un
fondo negro, la mitad del rostro oculto por la melena que cae hacia delante. Éstos han sido los temas que
me han obsesionado. A partir de la infancia, fueron ocupando progresivamente un lugar en mi pintura.
47
Antonio Saura, L’uccello del gelo, 1950, Salvador Dalí, Spettro del sex-appeal,
33 x 41 cm, olio su tela, collezione privata 1932, olio su tela, 17,9 x 13,9 cm, Fondazione
“Gala-Salvador Dalí”, Figueres
Anche i rostros realizzati da Antonio Saura tra la fine degli anni ’70 e l’inizio della decade
successiva, dopo dieci anni di “abbandono” della pittura su tela,1 sono rappresentazioni del silenzio.
Stavolta però si tratta di risvolti superficiali del silenzio “abissale” interno al loro stesso autore.
[…] Ante la tela que espera en un rincón de su taller, y de la que huye produciendo una multitud
de pequeños formatos rabiosos (superposiciones, litografías, grafismos de toda clase) es otra
profundidad del silencio que se adivina, casi un terror ante el cual las consideraciones sobre la calidad
de la obra realizada aparecen ilusorias.
¿Terror o fascinación del silencio? Ambos, por supuesto. Temor de no ser capaz de aflojar el tomo,
de no estar a la altura del gesto que se impondrá, ni de alcanzar la pureza que merece, pero también
conciencia de que la tela solo valdrá, precisamente, tras esta confrontación con el vacío. Necesidad de
pintar para existir y, al mismo tiempo, rechazo de una existencia que se congela hasta el punto de ser
solamente, eternamente, una huella sobre la tela.
[...] Davanti alla tela che aspetta in un angolo del suo taller, e dalla quale fugge producendo una
moltitudine di piccoli formati rabbiosi (sovrapposizioni, litografie, grafismi di ogni tipo) è un’altra
profondità del silenzio che si indovina, quasi un terrore di fronte al quale le considerazioni sulla qualità
dell’opera realizzata appaiono illusorie.
Terrore o fascinazione del silenzio? Entrambe, certo. Timore di non essere capace di far affiorare
il volume, di non essere all’altezza del gesto che si imporrà, né di raggiungere la purezza che merita, ma
anche coscienza che la tela varrà solo, precisamente, dopo questo confronto con il vuoto. Necessità di
dipingere per esistere e, allo stesso tempo, rifiuto di un’esistenza che si congela fino al punto di essere
soltanto, eternamente, una traccia sulla tela. 2
Questi volti sono sì rischiarati dalla luce ma appaiono comunque irriconoscibili in quanto
provenienti da un luogo talmente recondito dell’”abisso” o, per meglio dire, della materia che le
parole, i nostri vocaboli finiti ed umani non sono capaci di giungervi. Le nostre formulazioni verbali
non ci possono aiutare a descrivere l’essenza di questi volti, di queste facce abissali, provenienti
dall’oscurità più assoluta.
[…] Las caras de Saura surgen del fondo de este abismo. Son la propria mirada del abismo sobre
nosostros y, dado que han tardado diez años en nacer, ya nada puede impedir que empañen hasta la más
1 RÍOS, JULIÁN, “Vampapire” in Julián Ríos, Portraits d’Antonio Saura, a c. di Albert Bensoussan, París, José
Corti/Ibériques, 1991, 19982, pp. 47-48
2 COHEN, MARCEL, “Algunas caras visibles del silencio” in Begoña García, op. cit., p. 150; trad. in italiano a
c. di Giulio Bartolini
48
insignificante de nuestras palabras. Vienen de demasiado lejos, son demasiado irreconocibles para que
nuestras palabras conserven aún su poder.
[...] Le facce di Saura sorgono dal fondo di questo abisso. Sono lo sguardo stesso dell’abisso su di
noi e, dato che hanno ritardato dieci anni a nascere, nulla può più impedire che offuschino finanche la
più insignificante delle nostre parole. Vengono da troppo lontano, sono troppo irriconoscibili affinché le
nostre parole conservino ancora il loro potere.1
Antonio Saura, Ritratto 15-81, 1981, Antonio Saura, Pacheco, 1979, Antonio Saura, Ritratto 3.84, 1984,
73 x 60 cm, olio su tela, 130 x 97 cm, olio su tela, 73 x 60 cm, olio su tela,
collezione privata collezione privata collezione privata
5 Caso
Valente ritiene la generazione delle opere artistiche immancabilmente legata ad una particolare
predisposizione a creare da parte dell’artista, ovvero al suo trovarsi in un preciso stato d’animo.
Questa condizione la si può raggiungere, secondo il poeta galiziano, solo attraverso una profonda
meditazione e la “liberazione” dall’oppressione del pensiero.
La volontà dell’artista, ovvero il suo “io” creatore, si pone al lavoro non appena egli si è
affrancato da quei vincoli che gli impediscono di intraprendere la sua attività. Si tratta di quei
legami con la razionalità che recidono i “rami” dell’inventiva e non consentono di esprimere in toto
il genio creativo.
“M’illumino / d’immenso”: Ungaretti. Imprevista y súbita y total fulguración del objeto poético,
que Joyce creía también posible en la prosa y a la que proponía llamar epifanía.
“M’illumino d’immenso”: Ungaretti. Imprevista e subitanea e totale folgorazione dell’oggetto
poetico, che Joyce credeva possibile anche in prosa e proponeva di chiamare epifania. 2
Lo stato in cui l’artista raggiunge la condizione ideale e basilare per la creazione delle sue opere
è, come sostiene Valente in Cinco Fragmentos para Antoni Tàpies, il wu-wei.
El estado de creación es igual al wu-wei en el Tao: estado de no-acción de no interferencia, de
atención suprema a los movimientos del universo y a la respiración de la materia.
1 COHEN, MARCEL, “Algunas caras visibles del silencio” in Begoña García, op. cit., p. 150
2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Notas de un simulador” in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op.cit.,
p. 463
49
Lo stato della creazione è uguale al wu-wei nel Tao: stato di non-azione di non interferenza, di
attenzione suprema ai movimenti dell’universo e alla respirazione della materia. 1
Si tratta dello “scrollarsi di dosso” i pensieri personali al fine di abbandonarsi alla totale
contemplazione dell’universo, del “rumore di fondo” del cosmo.
In un componimento poetico Valente prova a descrivere questa particolare condizione
“sovrumana”:
La señal
Porque hermoso es al fin
dejar latir el corazón con un ritmo entero
hasta quebrar la máscara del odio.
Hermoso, sí, de pronto, sin saberlo,
dejarse ir, caer, ser arrastrado.
Tal vez la soledad, la larga espera,
no han sido más que fe en un solo acto
de libertad, de vida.
Porque hermoso es caer, tocar el fondo oscuro,
donde aún se debaten las imágenes
Y combate el deseo con el torso desnudo
la sordidez de lo vivido.
Hermoso, sí.
Arriba rompe el día.
Aguardo sólo la señal del canto.
Ahora no sé, ahora sólo espero
saber más tarde lo que ha sido.2
La condizione nella quale sorge la vera essenza delle cose è paragonabile pure allo svegliarsi dal
sonno, al despertar. Valente considera che in un tale stato, così come nel Tao non sussiste dualismo
tra ying e yang, le opposizioni fra anima e corpo, quotidiano e sacro, vita e morte cessano di esistere
e si “fondono” in un’unica luce. Questa sorgente luminosa può essere considerata come il
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cinco fragmentos para Antoni Tàpies” in Antoni Tàpies, José Ángel Valente,
Comunicación sobre el muro, op. cit., p. 34 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “La señal” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op. cit., p. 163
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “A veces vuelven” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op. cit.,
pp. 263-264
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Las nubes” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op. cit., pp.
382-383
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cinco fragmentos para Antoni Tàpies” in José Ángel Valente, Obras completas:
poesía y prosa, op. cit., pp. 387-391
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “III Poema” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op. cit., pp.
423-424
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Muerte y resurrección” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op.
cit., p. 437
50
ricettacolo dell’intera creazione, la matrice da cui tutte le cose prendono forma. In virtù di tutto ciò,
il momento della creazione è assimilabile ad un fulmine, un fulgor1 improvviso dal quale scaturisce
in modo pienamente natuale e subitaneo l’opera artistica.
[...] El despertar: el surgir de lo real –el “¡ah!” de las cosas, dicen los japoneses. Wu, Satori. Luz
vacía en que todo se inflama. Vuelo, éxtasis: “que voy / de vuelo” (F. XXX). Una vez más, habla poética
y habla mística se confunden, arrastradas por el símbolo doble del corazón y del pájaro: latido (alas y
sangre, arriba y abajo, expansión/retracción) levedad, transfiguración de la materia. Alcanzado por la
llama interna del pájaro, el cuerpo se convierte en “grano”, “grumo”, “gota ceral”, “sola
transparencia / de sola luz”, atardecer resplandeciente, claridad más viva de su declinar. Alma y cuerpo,
éxtasis y angustia, cotidiano y sagrado, vida y muerte ya no se oponen, sino que se funden en una única
luz. Concluye un ciclo en este incendio final en el que, durante un instante de eternidad, se ilumina la
boca oscura de la muerte:
Y todo lo que existe en esta hora
De absoluto fulgor
Se abrasa, arde
Contigo, cuerpo,
En la incendiada boca de la noche.
(F. XXXVI)
“De la obstinada posibilidad de la luz.”
[…] Lo svegliarsi: il sorgere del reale –l’”ah!” delle cose, dicono i giapponesi. Wu, Satori. Luce
vuota dove tutto si infiamma. Volo, estasi: “che vado/ di volo” (F. XXX). Ancora una volta, parlare
poetico e parlare mistico si confondono, trascinati dal simbolo doppio del cuore e dell’uccello: battito
(ali e sangue, sopra e sotto, espansione/ritrazione) leggerezza, trasfigurazione della materia.
Raggiungendo attraverso la fiamma interna dell’uccello, il corpo si converte in “grano”, “grumo”,
“goccia cereale”, “sola trasparenza / di sola luce”, imbrunire splendente, chiarore più vivo del suo
declinare. Anima e corpo, estasi e angoscia, quotidiano e sacro, vita e morte non si oppongono più, ma
rifondono in un’unica luce. Conclude un ciclo in quest’incendio finale nel quale, durante un’istante di
eternità, s’illumina la bocca oscura della morte:
E tutto quello che esiste in quest’ora
Di assoluto fulgore
Si abbraccia, arde
Con te corpo,
nell’incendiata bocca della notte.
(F. XXXVI)
“Sull’ostinata possibilità della luce”2
La centralità della casualità nella visione della creazione artistica di Valente è adducibile anche
alla sua conoscenza di un testo quale Lo zen e il tiro con l’arco. In quest’opera l’iniziato alla
disciplina zen mediante il tiro con l’arco, ovvero il tedesco Eugen Herrigel, è ripetutamente
ammonito dal maestro giapponese a “lasciare che il colpo della freccia parta da solo”.
[…] Perciò un giorno chiesi al Maestro: “Ma come può partire il colpo se non lo tiro
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “El fulgor” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op. cit., pp.
439-459 2 ANCET, JACQUES, “Introducción”, in José Ángel Valente, Entrada en materia, op. cit., pp. 29-41; trad. in
italiano a c. di Giulio Bartolini
51
“io”?”
“”Si” tira”.
L’ho già sentito dire più volte da lei e perciò devo porre diversamente la mia domanda:
come posso attendere il tiro, dimentico di me, se “io” non devo entrarci per nulla?”.
“”Si” permane nella massima tensione”.
“E chi o che cosa è questo “Si”?”
“Quando l’avrà compreso non avrà più bisogno di me…” […] 1
Satori “illuminazione” Wu-Wei “non-azione” Awa Kenzo sensei il maestro
simbolo giapponese calligrafia Tao di tiro con l’arco
di Eugen Herrigel
Antoni Tàpies afferma, come si è già mostrato per Valente, che la creazione artistica avviene
quando nell’”io” si verificano visioni simili a quelle degli iniziati Zen o dei mistici occidentali
assorti nelle loro contemplazioni spirituali.
Los poetas y los pintores estamos en un estado de ánimo especial que nos provoca como visiones.
Noi poeti e pittori ci troviamo in uno stato d’animo speciale che provoca in noi una sorta di
visioni.2
Si tratta pertanto di stati che potrebbero essere definiti come di trance, di ebbrezza di “totale
rivolgimento in se stessi” nei quali si raggiunge una predisposizione del tutto particolare a lasciarsi
pervadere dalla casualità. Ciò si consegue con l’abbandono del nostro modo di pensare razionale
nonché del nostro senso dell’ordine e della logicità, dell’assillo e dello “stress” che comporta il
nostro modo di ragionare convenzionale.
Questa comune volontà da parte di Valente e Tàpies nell’attribuire le creazioni artistiche al caso,
ci sembra ascrivibile anche alla loro vena polemica contro la pretesa della scienza, in primis quella
positivistica, di spiegare ogni fase dell’esistenza.
A. T.: [...] En la ciencia suele dominar el factor positivista, y de repente vemos que muchos
científicos actuales, jóvenes, vuelven a hablar de un cierto orden sacralizado de la naturaleza, o de ideas
religiosas de tipo animista...
1 HERRIGEL, EUGEN, Lo zen e il tiro con l’arco, op. cit., pp. 70-71
2 TÀPIES, ANTONI; VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
Antoni Tàpies e José Ángel Valente, Comunicación sobre el muro, op. cit., p. 11
52
J. Á. V.: […] Creo que el gran creador científico también se mueve en un mundo metafísico,
descubre cosas por sorpresa...
A. T.: Es certo, la mayor parte de descubrimientos científicos también son intuiciones visionarias y hasta casuales. [...]
A. T.: [...] Nella scienza suole dominare il fattore positivista, e d’improvviso vediamo che molti
scienziati odierni, giovani, tornano a parlare di un certo ordine sacralizzato della natura, o di idee
religiose di tipo animista...
J. Á. V.: [...] Credo che il grande creatore scientifico si muove anche in un modo metafisico,
scopre le cose di sorpresa…
A. T.: E’ vero, la maggior parte delle scoperte scientifiche sono anche intuizioni visionarie e
persino casuali. […]1
Nella summenzionata conversazione con l’amico di Orense, il pittore catalano mette in chiaro
come lo stato “della creazione” sia transitorio per l’artista il quale può percepirne l’importanza solo
ed esclusivamente quando esso si è esaurito.
Si tratta della sola condizione nella quale è possibile vedere chiaramente l’unità universale di
tutte le cose, ovvero il loro “compartire una sola materia”. Al di sotto di questo stato di
contemplazione totale dell’universo è presente un vuoto che, secondo l’artista di Barcellona, è
inestinguibile.
[...] A. T.: Se cree que este estado, que también se puede calificar con una palabra que está muy
denostada, el éxtasis, es quedarse colgado de una nube para siempre. Cuando la verdad es que se trata
de un estado transitorio. Pero entonces vuelves a la realidad y la comprendes mejor. Y te hace ver más
claramente la unidad universal de todas las cosas. Que la sociedad sepa que esto es útil, que debajo de
todo esto hay un vacío que no es absolutamente nada...
A. T.: Si crede che questo stato, che si può anche qualificare con una parola che è molto
oltraggiata, l’estasi, è rimanere sospeso da una nube per sempre. Quando la verità è che si tratta di uno
stato transitorio. Ma allora ritorni alla realtà e la comprendi meglio. E ti fa vedere più chiaramente
l’unità universale di tutte le cose. Che la società sappia che questo è utile, che sotto tutto questo c’è un
vuoto che non è assolutamente nulla…2
Antoni Tàpies al lavoro nel suo taller di Barcellona L’artista catalano nel taller di Campins nel 2002
1 TÀPIES, ANTONI; VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
Antoni Tàpies e José Ángel Valente, Comunicación sobre el muro, op. cit. pp. 17 2 TÀPIES, ANTONI; VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
Antoni Tàpies e José Ángel Valente, Comunicación sobre el muro, op. cit., p. 20
53
Lo scultore basco Eduardo Chillida, nella sua celebre intervista-dialogo con Martín de Ugalde,
precisa come “l’artista non crei nulla” perché a suo avviso la creazione è prerogativa di Dio.
L’artista, nell’opinione del donostiarra, non può far altro se non “manipolare” cose ed elementi già
creati dalla forza divina con il risultato di produrre “invenzioni” piuttosto che creazioni.
[...] E. C.: No, no veo cómo el hombre puede ser capaz de crear... El hombre, lo que es capaz, sí,
es de utilizar, de manipolar, de ordenar, de desordenar, según su voluntad, y quizá en un cierto sentido a
esto se le podría llamar creación, pero yo creo que la palabra “creación” es demasiado gorda para el
hombre. Y me estoy refiriendo ahora a su arte, al arte de que es capaz el hombre. Yo concibo la Creación
sólo a nivel de Díos. […] …yo me siento un simple manipulador, un ordenador, alguien que va
ordenando algunas cosas...
[…] E. C.: Acaso podríamos usar la palabra “inventar” en lugar de “crear”.
[...] E. C.: No, non vedo come l’uomo possa essere capace di creare… L’uomo, quello di cui è
capace fare, si, è utilizzare, manipolare, ordinare, disordinare, secondo la sua volontà, e forse in un certo
senso questo lo si potrebbe chiamare creazione, ma io credo che la parola “creazione” è troppo grassa
per l’uomo. E mi sto riferendo adesso alla sua arte, all’arte della quale è capace l’uomo. Io concepisco
la Creazione solo a livello di Dio. […] …io mi sento un semplice manipolatore, un ordinatore, uno che
ordina delle cose…
[…] E. C.: Forse potremmo usare la parola “inventare” al posto di “creare”.1
In alcuni dei suoi scritti aforistici Chillida descrive poi la sua condizione nel momento in cui
“inventa” un’opera artistica. Nel far ciò, egli evidenzia una piena consonanza con quanto affermato
da Valente e Tàpies.
Alla stregua di questi due artisti, lo scultore di San Sebastián pare vincolare qualsiasi forma di
“invenzione” e, nel caso specifico, le sue realizzazioni scultorico-architettoniche al raggiungimento
dell’assoluta concentrazione. Anche per Chillida è necessario che l’opera abbia origine nel
momento in cui la mente dell’artista è in preda al caso, ovvero negli istanti in cui è precluso il
manifestarsi di una benché minima parvenza di ragione, razionalità o raziocinio.
Yo no entiendo casi nada y me muevo torpemente, pero el espacio es hermoso, silencioso, perfecto.
Yo no entiendo casi nada, pero comparto el azul, el amarillo y el viento.2
¿No será el paso decisivo para un artista el estar con frecuencia desorientado?
Io non capisco quasi nulla e mi muovo in modo maldestro, ma lo spazio è bello, silenzioso, perfetto.
Io non capisco quasi nulla, ma condivido l’azzurro, il giallo e il vento.
Non sarà il passo decisivo per l’artista l’essere frequentemente disorientato? 3
La genesi dell’opera d’arte, come ha modo di spiegare Chillida in un altro aforisma, si configura
alla pari di un viaggio verso l’abisso. Si tratta di un percorso nel buio durante il quale l’artista
1 DE UGALDE, MARTÍN, Hablando con Chillida: vida y obra, período 1924-1975, San Sebastián, Txertoa,
20074, op. cit., pp. 47-48
2 CHILLIDA, EDUARDO, “Preguntas” in Eduardo Chillida, Escritos, op. cit., p. 104
3 CHILLIDA, EDUARDO, “Preguntas” in Eduardo Chillida, Escritos, op. cit., p. 101
54
brancola alla ricerca della giusta “direzione” e dell’appropriata “messa a fuoco” delle immagini che
progressivamente gli si materializzano davanti.
Cuando empiezo una obra casi no veo adónde me dirijo. No veo sino cierta figura de espacio de la
que, poco a poco, se destacan algunas líneas de fuerza. La forma al principio es casi como un aroma
indefinido que se impone a medida que va precisándose...
Quando inizio un’opera quasi non vedo dove mi dirigo. Non vedo tranne certa figura dello spazio
dalla quale, a poco a poco, risaltano alcune linee di forza. La forma in principio è quasi come un aroma
indefinito che si impone man mano che si definisce…1
Eduardo Chillida nel suo studio di Hernani nel 1960 L’artista basco mentre illustra un libro
6 Fare artistico
Riguardo alla cosiddetta divina sabiduría,2 ossia la saggezza intesa come abilità nel saper fare le
cose sfruttando la propria bravura e perizia manuale, Valente, Tàpies e Chillida le attribuiscono il
massimo rilievo nelle loro realizzazioni.
In Chillida o la transparencia Valente esamina il valore di volta in volta assunto dalle mani
realizzate dall’amico donostiarra nei suoi disegni, nelle opere grafiche e nelle sculture. Esse sono
autocelebrazioni della creatività manuale dell’artista di San Sebastián, della sua grande sapienza
artigianale.
Lo studio delle mani interessa profondamente Chillida in quanto esse, con il loro aprirsi e
chiudersi, formano continuamente concavità che sottendono il vacío.
[...] Las manos son un símbolo absoluto de la creación. Dios, en el Génesis, levanta... del barro
humedecido la forma humana. Ése es el sólo acto creador. Lo que viene después es la multiplicación.
Este acto divino de escultor-alfarero determina toda una forma de entender la creación. Yo sentí
toda la fuerza creadora en esas manos –como sin duda y con más poder la ha sentido Eduardo Chillida,
gran plasmador de la concavidad en el poema XXVI de El fulgor (1983):
Con las manos se forman las palabras,
con las manos y en su concavidad
se forman corporales las palabras
que no podíamos decir.
1 CHILLIDA, EDUARDO, “Yo soy un fuera de la ley” in Eduardo Chillida, Escritos, op. cit., p. 77
2 TÀPIES, ANTONI; VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Conversación entre Antoni Tàpies y José Ángel Valente” in
Antoni Tàpies e José Ángel Valente, op. cit., passim
55
[...] Le mani sono un simbolo assoluto della creazione. Dio, nel libro della Genesi, alza…
dall’argilla umida la forma umana. Questo è il solo atto creatore. Quello che viene dopo è la
moltiplicazione.
Questo atto divino di scultore-vasaio determina tutta una forma di intendere la creazione. Io sentii
tutta la forza creatrice in queste mani – come senza dubbio e con più potere l’ha sentita Eduardo Chillida,
grande plasmatore della concavità nella poesia XXVI di El fulgor (1983):
Con le mani si formano le parole,
con le mani e nella loro concavità
si formano corporali le parole
che non potevamo dire. 1
E. Chillida, Mano, 1979, puntasecca E. Chillida, Mano, 1995, E. Chillida, Rilievo mano, 1965, pietra pomice,
su rame, 40 x 30 cm disegno su carta, Museo Centro d’Arte “Artium”,
collezione privata collezione privata Vitoria-Gasteiz
Alcuni scritti di Valente, fra i quali El cántaro, sono equiparabili a veri e propri tentativi di
riprodurre in poesia la perizia e la “divina sapienza” degli artisti plastici e degli artigiani. L’operato
svolto dal poeta galiziano sull’anfora è del tutto simile a quello compiuto da uno scultore quale
Chillida o un pittore “materico” come Tàpies alle prese con la modellatura di un’opera. El cántaro
ci sembra difatti personificare l’agire di quanti modellano l’argilla o altri materiali la cui lavorazione
presuppone un alto livello di perizia tecnica.
El cántaro
El cántaro que tiene la suprema
realidad de la forma,
creado de la tierra
para que el ojo pueda
contemplar la frescura.
El cántaro que existe conteniendo,
hueco de contener se quebraría
inánime. Su forma
existe sólo así,
sonora y respirada.
El hondo cántaro
de clara curvatura,
bella y servil:
el cántaro y el canto1
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Chillida o la transparencia” in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op.
cit., p. 590
56
Mano e parola possiedono entrambe la facoltà di dare forma, di plasmare le cose. Il significato
della parola non è differente da quello della sua materialità, ma anzi si trova racchiuso in essa.2
Eduardo Chillida, Mano G-7, 1984, Eduardo Chillida, La casa del poeta II, 1980
terracotta, Amburgo ferro, Museo di Belle Arti di Bilbao
Chillida sembra attribuire grande rilievo al sapere artigianale soprattutto a seguito del suo ritorno
nella regione basca dopo il completamento della sua formazione artistica avvenuto a Parigi. 3 Nella
terra natia lo scultore riassapora il piacere della lavorazione manuale di “elementi tipici” del fare
della sua gente quali il ferro ed il fuoco.4
[...] Al volver a su país, Chillida regresó a la antiguedad de su pueblo y a los elementos que son el
emblema del carácter vasco: el fuego y el hierro.
[...] La herrería es una actividad corporal: la meditación entre el martillo, el yunque y el hierro se
realiza a través del cuerpo del herrero. El trabajo es rítmico y ese ritmo es muscular: el martillo es la
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Poemas a Lázaro” in José Ángel Valente, Obras Completas: poesía y prosa, op.
cit., p. 134 2 LÓPEZ CASTRO, ARMANDO, “Sobre los poemas Poética de José Ángel Valente” in VV. AA., Material
Valente, op. cit., p. 123
Los poemas de El fulgor (1984), que constituyen un texto único, no hacen más que iluminar la
alianza creadora materia-espíritu y revelarnos que lo real reside en lo corpóreo. Es innecesario insistir
sobre la asociación de la cerámica y la caligrafía con la poesía en la escritura de Valente, anterior a su
asociación con la pintura o la música. [...]
Del complejo simbolismo de la mano, lo que aquí domina en su significación generadora. La
mano y la palabra tienen el poder de dar forma, de manifestar lo real. No olvidemos que manifestación
tiene la misma raíz que mano. Y así como la mano acoge lo real, el significado de una palabra no es
distinto a su materialidad. Hay un sentido en que la palabra misma es material, un cuerpo, un significante
encarnado, y esa materialidad es anterior a toda significación.
3
LLODRÀ, JOAN MIQUEL, “La forma y la luz” in Joan Miquel Llodrà, Grandes génios del arte
contemporáneo. El siglo XX. Eduardo Chillida, op. cit., pp. 8-9 4 GIEDION-WELCKER, CAROLA, “La poesía del espacio de Eduardo Chillida” in Joan Miquel Llodrà, Grandes
génios del arte contemporáneo. El siglo XX. Eduardo Chillida, op. cit., pp. 154-155
[Parlando delle opere in ferro] El artista trabaja él mismo su propio material, lo modela
personalmente y lo sigue en todos los estadios de su transformación, tanto física como química: se podría
hablar de un verdadero “via crucis” del hierro. El resultado es un conocimiento profundo del “carácter
íntimo” de este material y de sus posibilidades de expresión, superior al que se deriva del “montaje” de
elementos ya elaborados. El fuego al que el hierro es sometido, el martillazo que recibe sobre el yunque, la
torsión que le inflige la tenaza son para Chillida estigmas impresos de manera imborrable en él. Así, la
creación artística está profundamente ligada al artesanado.
57
prolongación del brazo del herrero, su mano ciclópea; con esa mano el artista golpea, hiere, modela,
acaricia, pule y magnetiza al hierro hasta convertirlo en una forma sensible y animada.
[…] Ritornando nella sua regione, Chillida fece ritorno all’antichità del suo popolo e agli elementi
che sono emblema del carattere basco: il fuoco e il ferro.
[…] Il mestiere del fabbro è un’attività corporale: la meditazione tra il martello, l’incudine e il
ferro si realizza attraverso il corpo del fabbro. Il lavoro è ritmico e questo ritmo è muscolare: il martello
è il prolungamento del braccio del fabbro, la sua mano ciclopica; con questa mano l’artista colpisce,
ferisce, modella, accarezza, leviga e magnetizza il ferro fino a convertirlo in una forma sensibile e
animata.1
Eduardo Chillida mentre lavora Eduardo Chillida nel suo taller con gli
una scultura di ferro nel 1973 aiutanti Fernando, Joaquín e Marcial, 1990
Un principio che molti artisti contemporanei, in primo luogo i minimalisti2
, ritengono
indispensabile nell’ottimizzazione della divina sabiduría artistica è quello dell’”economicità”. Si
tratta di una connaturata inclinazione alla sintesi dei significati e delle forme, alla loro decisa
semplificazione. Questo concetto è fortemente presente in molte delle composizioni valentiane.
Il silenzio stesso, che abbiamo dichiarato essere intrinseco a molte opere di Valente, è da
considerarsi manifestazione di questo principio, ovvero “ritrazione” su se stesso del linguaggio
poetico.
[...] ...“lugar de la extrema interioridad”, “lugar, estancia, morada, habitación donde el estar y el
ser se unifican”, “concavidad, matriz, territorio extremo” que “cuando llega realmente al precipicio
donde se hace imposible decir, limita con el no-lugar”. [...] En Cinco Fragmentos para Antoni Tàpies, de
Material Memoria escribe: “Crear es generar un estado de disponibilidad, en el que la primera cosa
creada es el vacío, un espacio vacío”. Un espacio de silencio “Porque el poema tiende por naturaleza al
silencio. O lo contiene como materia natural. Poética: arte de la composición del silencio”. En ese
silencio, en lo no descifrable, encuentra la palabra su lecho verdadero: “Flotar en la incierta realidad
del ser, tentar a ciegas lo improbable, no tener asidero en tanta sombra. Los cuerpos de los ahogados en
la mar meditan boca abajo, pero no ven el fondo con los ojos vacíos. [...] También argumentará en
muchas ocasiones esa aspiración al silencio como la cumbre de la expresión poética: “La poesía es un
arte de la retracción del lenguaje, no de su expansión”.
1 PAZ, OCTAVIO, “Chillida: del hierro al reflejo” in Octavio Paz, op. cit., pp. 145-146
2 AA. VV., “Minimalismo e Land Art” in AA. VV., Storia dell’arte italiana, a c. di Carlo Bertelli, Giuliano
Briganti e Antonio Giuliano, Milano, Electa/Mondadori, 1992, pp. 574-575
58
[…] ...“luogo dell’estrema interiorità”, “luogo, soggiorno, dimora, stanza dove lo stare e l’essere
si unificano”, “concavità, matrice, territorio estremo” che “quando arriva realmente il precipizio dove si
fa impossibile il dire, confina con il non-luogo”. […] In Cinco fragmentos para Antoni Tàpies, di
Material Memoria scrive: “Creare è generare uno stato di disponibilità, nel quale la prima cosa creata è
il vuoto, uno spazio vuoto”. Uno spazio di silenzio. “Perché la poesia tende per natura al silenzio. O lo
contiene come materia naturale. Poetica: arte della composizione del silenzio”. In questo silenzio, nel
non decifrabile, la parola trova il suo letto vero: “Fluttuare nell’incerta realtà dell’essere, tentare alla
cieca l’improbabile, non avere appoggio in tanta ombra. I corpi degli affogati in mare meditano a bocca
in giù, ma non vedono il fondo con gli occhi vuoti. […] Aumenterà anche in molte occasioni
quest’aspirazione al silenzio quale culmine dell’espressione poetica: “La poesia è un’arte della
ritrazione del linguaggio, non della sua espansione”.1
Il poeta di Orense sostiene che anche l’amico catalano Tàpies considera la padronanza
dell’esercizio di ritrazione o “economizzazione” uno dei principi artistici da seguire. Realizzare
un’opera d’arte per entrambi non comporta un atto di potere, ossia di volontà, ma bensì
un’accettazione della realizzazione così come si materializza o, per meglio dire, “si rivela” in
principio all’osservatore.
Quizá el supremo, el solo ejercicio radical del arte sea un ejercicio de retracción. Crear no es un
acto de poder (poder y creación se niegan); es un acto de aceptación o reconocimiento.
Forse il supremo, il solo esercizio radicale dell’arte è un esercizio di ritrazione. Creare non è un
atto di potere (potere e creazione si negano); è un atto di accettazione o di riconoscimento. 2
Lo stato in cui avviene la creazione artistica, il succitato wu-wei della pratica del Tao, altro non è
se non un’estrema riduzione dei pensieri da parte dell’artista. L’”economizzazione” del pensiero fa
si che gli enti presenti in natura si rendano concreti e si plasmino in modo del tutto spontaneo.3 Ecco
dunque il motivo per cui, come afferma Jacques Ancet, nelle poesie valentiane le singole parole non
devono “muoversi” e qualora ciò sia loro indispensabile, lo devono fare rispondendo al principio di
“economia”.
Todo poder estatuye acerca del sentido, sentido que es siempre único, que apunta en una sola
dirección. No debe moverse nada, y sobre todo las palabras. O, en el caso de que lo hagan, que se dirijan
obligadamente hacia la reducción, la amputación.
Ogni potere si stabilisce con riferimento al significato, significato che è sempre unico, che è
rivolta ad una sola direzione. Non deve muoversi nulla, e soprattutto le parole. O, nel caso che lo
facciano, devono dirigersi obbligatoriamente verso la riduzione, l’amputazione.4
1 IGLESIAS SERNA, AMALIA, “Prólogo. José Ángel Valente. La última poética” in José Ángel Valente,
Palabra y materia, op. cit., pp. 15-16 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cinco fragmentos para Antoni Tàpies” in Tàpies Antoni e José Ángel Valente,
Comunicación sobre el muro, op. cit., p. 33 3 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cinco fragmentos para Antoni Tàpies” in Antoni Tàpies e José Ángel Valente,
Comunicación sobre el muro, op. cit., p. 34 4 ANCET, JACQUES, “Introducción” in José Ángel Valente, Entrada en materia, op. cit., p. 25
59
In tal senso, la messa in atto di tale massima economicistica può essere simboleggiata dal titolo
stesso di una delle raccolte poetiche realizzate da Valente: El fulgor. Il fulgore rappresenta infatti
perfettamente l’idea di concisione che soprassiede a molte delle poesie del gallego.
Antoni Tàpies ed Eduardo Chillida discutono J. Á. Valente, Il fulgore, copertina dell’edizione
davanti ad un ritratto di Miró in castigliano arrecante una riproduzione del disegno
presso la Fondazione “Joan Miró” di Barcellona Calligrafia vermiglia di Antoni Tàpies
Secondo quanto asserisce Chillida in un suo scritto aforistico, gli artisti devono far ricorso a tutta
la loro sapienza al fine di ridurre al minimo il numero di strumenti da utilizzare nella realizzazione
delle loro opere. Per lo scultore donostiarra, fortemente influenzato dal taoismo, il lavoro vero e
proprio dell’artista ha inizio con l’eliminazione dei particolari e di tutti quegli elementi che possono
essere stimati superflui in una creazione. Tale modo di procedere ha come fine ultimo quello di
lasciar trasparire la reale essenza della realizzazione stessa.
Considero que hay que hacer las cosas lo más económicamente posible. Económicamente en un
sentido conceptual, aquello que se hace con menos medios, con menos elementos. Yo llegué a la
conclusión, hay diálogo. También hay tres cosas que las ves, las sientes, las intuyes, las haces, y es
evidente que es uno de los datos en que se justifica lo que pienso de la economía de mi obra, que yo creo
que es una realidad. Yo no creo que se mejoren las cosas añadiendo sino quitando, quitando al máximo,
que quede lo mínimo posible para que se manifieste...
Considero che si devono fare le cose più economicamente possibile. Economicamente nel senso
concettuale, quello che si fa con meno mezzi, con meno elementi. Io arrivai alla conclusione, c’è dialogo.
Ci sono anche tre cose che le vedi, le senti, le intuisci, le fai, ed è evidente che è uno dei dati nei quali si
giustifica quello che penso dell’economia della mia opera, che io credo sia una realtà. Io non credo che
si migliorino le cose aggiungendo ma togliendo, togliendo al massimo, che rimanga il minimo possibile
affinché si manifesti… 1
Siffatta visione della creazione artistica da parte dell’artista basco ci sembra in stretto rapporto
con quanto enunciato da Michelangelo Buonarroti riguardo all’arte scultorea. Il toscano considera
difatti “scultura quella che si fa per forza di levare”.2
1 CHILLIDA, EDUARDO, “Miradas”, in Eduardo Chillida, Escritos, op. cit., p. 88
2 AA. VV., “Michelangelo e la scultura” in AA. VV., Michelangelo: vita d’artista, a c. di Enrica Crispino,
Firenze, Giunti Editore, 2001, p. 46
60
Il concetto di “economicità” propugnato da Chillida è inoltre intimamente connesso al suo forte
interesse per l’architettura e l’applicazione di un principio artistico, quello dell’addizione negativa
di Kandinsky, assurto a caposaldo di gran parte dell’arte contemporanea e osservato, secondo
Valente, dallo stesso Tàpies.1
Elogio del horizonte
Si algo tiene en común Eduardo Chillida con el gran arquitecto alemán Mies Van der Rohe es el
lema que hizo a éste famoso: menos es más. Y el aguafuerte titulado Elogio del horizonte así lo deja
patente. Así como el espacio o el vacío son algo indispensable en su escultura, el papel en blanco lo es en
su grabado, como puede verse en éste. Menos de un tercio de la superficie de este grabado está ocupada
por la parte estampada, el resto es dominio absoluto del blanco. Esta parte predominante se puede
interpretar como el mar o la tierra, en cuyo límite, en su horizonte, se alza una estructura, quién sabe si
una escultura. El resto del grabado, la parte estampada, quizá aluda al firmamento, de día o de noche, en
el que se recorta la silueta de esta estructura, como su título indica. El mismo año en que realizó este
grabado inauguró una escultura con el mismo título, una de sus creaciones más impresionantes, de diez
metros de altura, quince de largo y doce de ancho. Este Elogio del horizonte, como la estructura que
aparece en el grabado, domina el litoral de la ciudad asturiana de Gijón desde una atalaya natural,
llamada cerro de Santa Catalina.
Elogio dell’orizzonte
Se Eduardo Chillida ha qualcosa in comune con il grande architetto tedesco Mies Van der Rohe è
il motto che rese quest’ultimo famoso: meno è di più. E l’acquaforte intitolato Elogio dell’orizzonte lo
rende così palese. Così come lo spazio o il vuoto sono qualcosa di indispensabile nella sua scultura,
altrettanto lo è il foglio bianco nelle sue incisioni, come si può vedere in questa. Meno di un terzo della
superficie di quest’incisione è occupata dalla parte stampata, il resto è dominio assoluto del bianco.
Questa parte predominante si può interpretare come il mare o la terra, nel cui limite, nel suo orizzonte, si
eleva una struttura, forse una scultura. Il resto dell’incisione, la parte stampata, forse allude al
firmamento, di giorno o di notte, nel quale si delinea la silhouette di questa struttura, come indica il suo
titolo. Lo stesso anno in cui realizzò quest’incisione inaugurò una scultura con lo stesso titolo, una delle
sue creazioni più impressionanti, di dieci metri d’altezza, quindici di lunghezza e dodici di ampiezza.
In una lettera al celebre filologo e storico fiorentino Benedetto Varchi, Michelangelo scriveva:
“Io intendo scultura quella che si fa per forza di levare”.
CARADENTE, GIOVANNI, “La búsqueda de nuevos materiales” in David Finn e Giovanni Caradente, Eduardo
Chillida, Barcelona, Polígrafa, 2003, p. 6
[...] Fue la secular técnica miguelangelesca de extraer, la dura técnica del cincel, necesaria tanto
para el alabastro como para todo otro material lapídeo.
Esta técnica permitía abrir en la masa compacta profundos surcos, complejos cursos de ida y
vuelta, galerías a menudo secretas y catacumbales. Trabajando así, Chillida desarrolló en su mente la idea
de realizar en la profundidad de la tierra esculturas que fueran como abismos misteriosos, incontrolados.
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cinco fragmentos para Antoni Tàpies” in Antoni Tàpies e José Ángel Valente,
Comunicación sobre el muro, op. cit., p. 34
[...] Y la materia para el artista no se sitúa nunca en lo exterior. Ocupa el espacio vacío de lo
interior, el espacio generado por retracción, por no interferencia, donde 2-1 suele ser mayor que 2+1,
según la ley de la adición negativa que Kandinsky, tán próximo, formuló.
61
Questo Elogio dell’orizzonte, come la struttura che appare nell’incisione, domina il litorale della città
asturiana di Gijón dal suo belvedere naturale, chiamato colle di Santa Caterina.1
Eduardo Chillida, Elogio dell’orizzonte, 1990 Eduardo Chillida, Elogio dell’orizzonte, 1990,
cemento armato, Colle di Santa Caterina, 23,5 x 21,5 cm, acquaforte, collezione privata
Gijón, Asturie
Il fare artistico si esplicita per Valente, Tàpies, Saura e Chillida anche nel continuo rapporto con
il corpo. Questa relazione può assumere varie forme: ad esempio, la parola “materiale” o corporale
valentiana, gli oggetti o forme “incorporati” nei muros del pittore barcellonese, i corpi umani
deformati tipicamente sauriani, oppure i cuerpos-espacio del basco.
Molte delle poesie di Valente ruotano attorno alla descrizione di corpi o masse corporee. Le
parole stesse, come abbiamo visto nella poesia El cántaro, possono divenire corporali ed essere
unite, deformate o frammentate in tante parti oppure dissolte nel vuoto.
Se tú mi límite
Tu cuerpo puede
llenar mi vida,
como puede tu risa
volar el muro opaco de la tristeza.
[...] Pero tú ignoras cuánto
la cercanía de tu cuerpo
me hace vivir o cuánto
su distancia me aleja de mí mismo,
me reduce a la sombra. [...]2
En muchos tiempos
En muchos tiempos
tu cabeza clara.
1
LLODRÁ, JOAN MIQUEL, “Las obras maestras” in Joan Miquel Llodrá, Grandes Genios del arte
contemporáneo: El siglo XX: Chillida, op. cit., p. 108 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “La memoria y los signos” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y
prosa, op. cit., pp. 183-186
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En muchas luces
tu cintura tibia.
En muchos siempres
tu respuesta súbita.
Tu cuerpo se prolonga sumergido
hasta esta noche seca,
hasta esta sombra.1
Material Memoria, I
Entró en el tacto,
subió hasta el paladar,
estableció su reino
en la saliva última
donde los limos del amor reposan.
Material memoria, II
Un torso de mujer desnudo en el espejo
como fragmento de un desconocido amor.
y ahora quién podría
descifrar este signo,
reconstruir lo nunca ya después vivido,
Reanimar, exámine, el adiós.2
Eduardo Chillida, Torso, 1948, bronzo, Monte Urgull, San Sebastián
El deseo era un punto inmóvil
Los cuerpos se quedaban del lado solitario del amor
Como si uno a otro se negasen sin negar el deseo
Y en esa negación un nudo más fuerte que ellos mismos
Indefinidamente los uniera.
¿Qué sabían los ojos y las manos,
qué sabía la piel, qué retenía un cuerpo
de la respiración del otro, quién hacía nacer
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Breve son” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op cit., p.
250 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Interior con figuras” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op
cit., pp. 347-348
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aquella lenta luz inmóvil
como única forma del deseo?1
NO AMANECE EL CANTOR
EL CUERPO del amor se vuelve transparente, usado como fuera por las manos. Tiene
capas de tiempo y húmedos, demorados depósitos de luz. Su espejo es la memoria
donde ardía. Venir a tí, cuerpo, mi cuerpo, donde mi cuerpo está dormido en todas tus
salivas. En esta noche, cuerpo, iluminada hacia el centro de ti, no busca el alba, no
amanece el cantor. [...]2
Nelle poesie succitate il corpo o le parti del corpo umano ai quali si allude sono femminili. La
donna è il principale oggetto del desiderio valentiano: la volontà è quella di raggiungere tale corpo,
di congiungersi ad esso, di non lasciarlo sfuggire.
Nei cosiddetti “muri” di Antoni Tàpies spesso si trovano inglobati dei corpi: essi sembrano
“affossare” sotto una colata di materia, dietro ad una “parete plastica” che li ricopre. Il pittore
desidera nascondere o “imbalsamare” questi corpi, preservandoli dalle “intemperie” del tempo
dietro una coltre di materia vischiosa, simile all’ambra che “riveste” i fossili.
[…] le colate di calce, di intonaco, di materia comunque coprente sfuggono di mano, danno luogo
a escrescenze talvolta incontrollate, ovvero il cadavere sottostante rivela malgrado tutto qualche traccia
residua della propria presenza, che non è possibile eliminare del tutto.3
[…] I poveri oggetti che accompagnano un’esistenza… possono essere il corredo di un essere
ammalato, portatore di peste, e dunque anche contro di essi bisogna prendere quei provvedimenti
radicali di disinfezione che ben conosciamo… assistendo con piacere al loro affondare lento ma
implacabile, come se fossero divorati da uno strato di sabbia mobile.4
Tuttavia, quello dell’artista catalano potrebbe essere interpretato come desiderio, anziché di
nascondere, di riportare alla luce dei corpi. Si tratterebbe in questo caso di masse provenienti da una
profondità abissale, inghiottite nelle viscere della materia stessa. La vischiosità della materia
“muraria” che avvinghia i corpi simboleggerebbe quindi l’emersione di questi dall’interiorità più
remota.
[Parlando della “cancellazione” dei corpi] […]… se, invece che da un’intento di cancellazione, di
rimozione nei confronti di presenze psichiche non gradite, esso fosse spinto da un fine contrario, di
riportarle alla luce? [...]
[…] Ma nel complesso sembra prevalere un intento di cancellazione, di azzeramento…5
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Interior con figuras” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op
cit., p. 356 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “No amanece el cantor” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa,
op cit., pp. 240-241 3 BARILLI, RENATO, “La poetica del muro” in Renato Barilli, op. cit., pp. 14-15
4 BARILLI, RENATO, “La poetica del muro” in Renato Barilli, op. cit., p. 23
5 BARILLI, RENATO, “La poetica del muro” in Renato Barilli, op. cit., pp. 15-16
64
I “muri” stessi del resto sono dei corpi come lo è qualsiasi superficie pittorica: secondo l’artista
infatti ogni elemento materico è corpo in sé e per sé e non in quanto rappresentazione o modifica di
altri corpi.
Los muros de Tàpies se comprenden mejor si tenemos en cuenta estos fenómenos. No ha
pretendido representar muros o paredes sobre superficies pictóricas, sino sustituir esas superficies por
muros o paredes. Tàpies no deposita un color sobre la materia, sino que el color es el de la materia que
hace su obra...
I muri di Tàpies si comprendono meglio tenendo in considerazione questi fenomeni. Non ha preteso
rappresentare muri o pareti su superfici pittoriche, ma sostituire queste superfici attraverso muri o pareti.
Tàpies non deposita un colore sulla materia, piuttosto il colore è quello della materia che fa la sua
opera…1
El cuerpo no es una cosa, aunque como cosa pueda percibirse: somos el cuerpo. No tenemos el
cuerpo como quien tiene algo, como la ropa que vestimos, la cartera que llevamos, la pluma que
sujetamos. Somos el cuerpo, no podemos separarlo de nosotros ni separarnos de él. Podemos
desdoblarnos en una alucinación, pero ese desdoblamiento lo comprenderemos y lo viviremos como una
alucinación, una situación patológica, excepcional y extrema. Podemos contemplar el cuerpo como si de
una cosa se tratara, cosificarlo, alienarlo, pero pronto suscitará el nuestro esa simpatía propiciada por
la misma naturaleza y caeremos en la cuenta de que esa es una materia tendenciosa, incluso inmoral, de
contemplar al otro. El cuerpo no es una cosa exterior, es la posibilidad misma de que exista el exterior.
Il corpo non è una cosa, anche se si può percepire come cosa: siamo il corpo. Non abbiamo il
corpo come chi possegga qualcosa, come il vestito che indossiamo, la cartella che portiamo, la piuma
che afferriamo. Siamo il corpo, non possiamo separarlo da noi né separarci da lui. Possiamo sdoppiarci
in un’allucinazione, ma questo sdoppiamento lo comprenderemo e lo vivremo come un’allucinazione, una
situazione patologica, eccezionale ed estrema. Possiamo contemplare il corpo come se si trattasse di una
cosa, cosificarlo, alienarlo, ma subito il nostro susciterà questa simpatia propiziata dalla natura stessa e
cadremo nel tranello di considerare che questa è una materia tendenziosa, persino immorale, di
contemplare l’altro. Il corpo non è una cosa esteriore, è la possibilità stessa che esista l’esteriore. 2
Antoni Tàpies, Materia grigia Antoni Tàpies, Corpo di materia Antoni Tàpies, Materia a forma di
a forma di cappello, 1966, e macchie arancioni, 1968, piede, 1965, procedimento misto
tecnica mista su legno, 130x 162, tecnica mista su tela, 162 x 130 cm, su tela, 130 x 162 cm, Fondazione
collezione privata collezione privata, Barcellona “Antoni Tàpies”, Barcellona
1 BOZAL, VALERIANO, “Tàpies, muro, tiempo y cuerpo” in VV. AA., Tàpies, Madrid, Tf. Editores, 2004, p.
26; trad. in italiano a c. di Giulio Bartolini 2 BOZAL, VALERIANO, “Tàpies, muro, tiempo y cuerpo” in VV. AA., Tàpies, op. cit., ibd.
65
Antoni Tàpies, Nudo, 1966, Antoni Tàpies davanti alla sua opera Antoni Tàpies, Torso, 1985, tecnica
collezione privata Mano forata nella Galleria “Soledad mista su legno, 97 x 130 cm,
Lorenzo” di Madrid nel 2006 collezione privata dell’artista
Antoni Tàpies, Piede, 1983, litografia, 37 x 48 cm, Antoni Tàpies, Materia a forma d’ascella, 1968,
collezione privata tecnica mista su tela, 65,5 x 100,5 cm, collezione privata
Il corpo, la sua mutazione e frammentazione sono fondamentali pure nella gran parte delle opere
di Antonio Saura. Abbiamo già mostrato come la corporeità sia indispensabile a “riempire” lo
spazio vuoto delle tele o dei fogli su cui si materializzano molte delle opere dell’artista di Huesca.
Nondimeno, i corpi rappresentati dall’aragonés sia in Multitudes, Cocktail-Party, Constelaciones
che in altre serie sono sempre deformi, trasformati, sfigurati o frammentati. Questi procedimenti di
stravolgimento delle singole entità corporee, come dichiara il pittore a Julián Ríos, sono iniziati
negli anni ’40 quando Antonio, stimolato dal fratello Carlos, già si dilettava nel creare fotografie
artificiali e rayogrammi.
A. S.: ... se me ocurrió la idea de fabricar fotografías artificiales. Es decir, de crear monstruos
a través de la nada, a partir de un material no fotográfico, efímero, que se destruía automáticamente. Esa
era la idea ¿no? Entonces trataba de fijar una serie de flashes, de esa evolución, de esa materia viscosa,
de ese líquido, conducido por supuesto por la mano.
A. S.: ...mi prese l’idea di creare fotografie artificiali. Cioè, di creare mostri attraverso il nulla, a
partire da un materiale non fotografico, effimero, che si distruggeva automaticamente. Questa era l’idea,
no? Allora cercavo di fissare una serie di flash, di questa evoluzione, di questa materia viscosa, di questo
liquido, condotto naturalmente dalla mano.1
1 RÍOS, JULIÁN, “Rayogramas” in Julián Ríos, Las tentaciones de Antonio Saura, op. cit. pp. 31-32
66
Antonio Saura, Rayogramma, 1949, fotografia Antonio Saura, Costellazione, 1949, rayogramma
Questo compiacimento nella deturpazione dei corpi continuerà lungo tutto l’arco della carriera
del pittore il quale diventerà celebre proprio per i suoi innumerevoli monstruos, ossia le sue
raffigurazioni di corpi che abbiamo già detto essere sfregiati, smembrati, frammentati in modo
apparentemente violento ed improvviso secondo le tecniche di raffigurazione più disparate.
Antonio Saura, Moi, tavola 17, Antonio Saura, Ritratto Antonio Saura, San Juan de la Cruz,
1976, serigrafia a colori, immaginario di Filippo II, 1966, 1964, 42,2 x 28,8 cm, litografia a colori
90,7 x 72,5 cm, collezione olio su tela, Galleria “Van de Loo”, collezione privata, Madrid
privata, Barcellona Monaco di Baviera
Antonio Saura, Constance nel suo divano, 1967, Antonio Saura, Nong nel suo divano, 1985
olio su tela, 162 x 130 cm, Museo Internazionale d’Arte 245 x 195 cm, olio su tela, collezione privata
Contemporanea “Rufíno Coello”, Messico
Il corpo del quale il pittore aragonese predilige la deturpazione è, parimenti a Valente e Tàpies,
quello umano. Nella fattispecie, Saura realizza sin dai primi anni ’50 e lungo tutto il corso della sua
67
attività artistica una vasta serie di crocifissioni. In esse il corpo di Cristo crocifisso diviene quello di
un uomo qualunque sottoposto ad un’assurda violenza ed un lancinante dolore.
[...] La crucifixión es una figura, la representación de una crueldad terrible convertida en
abstracción. “En la imagen de un crucificado, escribía Saura, tal vez he reflejado mi situación “de
hombre sin recursos”” en un universo amenazador, frente al que queda la posibilidad de un grito. Y del
otro lado del espejo, “solamente me sobrecoge la tragedia de un hombre (de un hombre y no de un dios)
absurdamente clavado en una cruz.”
[...] La crocifissione è una figura, la rappresentazione di una crudeltà teribile convertita in
astrazione: “Nell’immagine del crocifisso, scriveva Saura, forse ho riflesso la mia situazione “di uomo
senza risorse” in un universo minaccioso, di fronte al quale manca la possibilità di un grido. E dall’altro
lato dello specchio, “mi spaventa soltanto la tragedia di un uomo (di un uomo e non di un dio)
assurdamente inchiodato ad una croce.”1
La riflessione sul dolore provato dal corpo umano crocifisso impersona la più generale
meditazione dell’artista sulla miseria e l’atrocità che scandiscono l’esistenza umana, pensiero che è
ravvisabile pure, come vedremo nel prosieguo di questo testo, in alcune poesie di Valente.
Antonio Saura, Crocifissione, Antonio Saura, Crocifissione, Antonio Saura, Crocifissione, 1960,
1956, flo-master su carta, 1959, china su carta, serigrafia a colori, 26,2 cm x 49,5 cm,
31,4 x 21,8 cm, 69,9 x 50,3 cm, collezione privata
collezione privata collezione privata
Antonio Saura, Crocifissione, 1974, Antonio Saura, Crocifissione, 1980, Antonio Saura, Crocifissione, 1996,
tecnica mista su carta, 32 x 24,4 cm, tecnica mista su cartolina, tecnica mista su carta,
collezione privata 19,4 x 10,4 cm, Successione “Antonio Saura”
collezione privata
1 GUIGON, EMMANUEL, “Los procesos imaginarios de Antonio Saura” in Antonio Saura, Crucifixiones, op.
cit., p. 41
68
Oltre al deturpamento del corpo del crocifisso il pittore di Huesca mostra di avere un particolare
desiderio verso la deformazione di quello femminile. Tale bramosia si manifesta in Damas, Damas
en technicolor, nonché nelle serie dedicate a singoli personaggi facenti parte dell’immaginario
collettivo maschile come, ad esempio, Lolita e Brigitte Bardot.
Antonio Saura, Lolita V, 1960 Antonio Saura, Brigitte Bardot, 1962 Antonio Saura, Brigitte Bardot, 1988, olio su tela, 255 x 195 cm, tecnica mista, 210 x 195 cm, tecnica mista e collage su carta, Museo Nazionale Centro d’Arte collezione privata, Madrid 29,3 x 22,1 cm, collezione privata
“Regina Sofia”, Madrid
Antonio Saura, Dama, 1956, china Antonio Saura, Dama, 1966, Antonio Saura, Dama, 1974
su carta, flo-master, collezione tecnica mista su carta impressa, 32,3 x 22,5 cm, collezione privata
privata collezione privata
Queste rappresentazioni deformate dell’uomo, nella fattispecie del corpo femminile, assieme ai
Desnudos e alle innumerevoli creazioni erotiche di Saura, sono indice della sua volontà di liberare la
corporalità dalla morale restrittiva che l’“avvolgeva” e nascondeva nei primi decenni del franchismo.
En nuestro país... el cuerpo estaba presente como aquello que no podía enseñarse, como lo oculto
que debía desaparecer y que, sin embargo, reaparecía torpemente una y otra vez. La mezquinidad
mediocre de una moral represora que invadía todos los ámbitos de la existencia cotidiana había hecho
del cuerpo un tabú. Era difícil percibirlo, imposible contemplarlo y en caso de tener acceso a él, siempre
con una fuerte sensación de culpa... La represión sobre el cuerpo era la represión sobre nosotros mismos,
la más radical que podía ejercerse pues con ella se proscribía la relación con lo otro, la relación con el
mundo.
69
Nel nostro Paese… il corpo era presente come ciò che non si poteva esibire, come qualcosa di
occulto che doveva sparire e che, tuttavia, riappariva goffamente più volte. La meschinità mediocre di
una morale repressiva che invadeva tutti gli ambiti dell’esistenza quotidiana aveva fatto del corpo un
tabù. Era difficile percepirlo, impossibile contemplarlo e in caso di aver accesso ad esso, sempre con una
forte sensazione di colpa… La repressione sul corpo era la repressione su noi stessi, la più radicale che
poteva esercitarsi dato che con questa si proscriveva la relazione con l’altro, la relazione con il mondo. 1
Antonio Saura, Prete I, 1961, china Antonio Saura, Tentazioni di Antonio Saura, Nudo, 1960, tecnica
su carta, 16,7 x 23,9 cm, Galleria Sant’Antonio,1964, tecnica mista su carta, 17 x 23,6 cm,
Boisserée, Colonia mista e collage su carta, Collezione Archivio“Antonio Saura”,
collezione privata Ginevra
A sinistra, Eduardo Chillida, Antonio Saura e Antoni Tàpies a Venezia in occasione della XXIX
Esposizione Biennale Internazionale d’Arte nel 1958. A sinistra, Chillida e Saura nel caffè Florian
La corporalità è fondamentale pure nel fare artistico di Chillida: essa difatti forma assieme alla
spazialità uno dei rapporti duali, se non il dualismo supremo, su cui si basano tutte le invenciones
dell’artista di San Sebastián.2
Come abbiamo detto in precedenza, le opere, soprattutto quelle scultoree, del donostiarra sono
basate sulla relazione che intercorre fra il vuoto e la materia. Lo scultore vuole attraverso le sue
realizzazioni meditare sui limiti di questi due principi che, del resto, sono quelli che rendono
possibile agli uomini la distinzione fra corpi e spazio.
… Chillida ci rende visibile ciò che pure noi -se avessimo la sua lucidità- avremmo visto da
1 BOZAL, VALERIANO, “Temas de Antonio Saura” in Valeriano Bozal, Estudios de arte contemporáneo:
temas del arte español del siglo XX, Madrid, Antonio Machado Libros, 2006, 2 voll., pp. 261-262; trad. in
italiano a c. di Giulio Bartolini 2 PAZ, OCTAVIO, “Chillida: del hierro al reflejo” in Octavio Paz, Obras completas vol. IV. Los privilegios de
la vista, op. cit., p. 143
[Parlando del “mondo” artistico di Chillida] Mundo anterior a la historia y a las fábulas… cuyos
protagonistas no son ni los héroes ni las ideas sino las fuerzas y los elementos. Mundo que se manifiesta en
parejas contradictorias: el hierro y el viento, el papel y el acero, la luz y el granito, la línea y la masa, lo
pleno y lo vacío.
70
sempre. Ci mostra dei fatti fondamentali della nostra esistenza, isolandoli come temi formali e
articolandoli come forme artistiche. Masse e spazi vuoti –in alto / in basso, davanti / dietro, destra /
sinistra / pesantezza e opacità: questi non sono altro che qualche attributo dell’esistenza corporea.
[…] Avvenimenti formali”: è con questo termine che vorremmo definire quello che
Chillida ci mostra. Esso rappresenta concretamente il contenuto di ogni singola scultura di fronte alla
quale ci troviamo, ma è altrettanto valido in senso più astratto per delle regole che hanno un significato
più generale. La constatazione più elementare è la seguente: questo è un corpo – e questo è lo spazio. Per
uno spirito curioso e irrequieto come quello di Chillida ciò che suona chiaro e preciso diventa complesso
e con diversi modi d’interpretazione. Noi diciamo “spazio” – ma” spazio” non è nulla. Ciò che vediamo
sono i limiti dello spazio formati da superfici e corpi. Ma le sculture di Chillida sono articolate e
composte in tal modo che la loro forma fa vedere “lo spazio” come lo spazio di un angolo o lo spazio
intermediario o lo spazio vuoto, come camera o corridoio o caverna, come luogo o colpo d’occhio o
penetrazione. E tutta la massa del corpo scolpita ci dà la sensazione di uno “spazio ambientale”. Lo
“spazio” lo sentiamo persino come trasparenza: lo sentiamo come l’aria e il vento. A conferma di ciò
possiamo citare il titolo di qualcuna delle sue opere: Pettine del vento ed Elogio dell’aria, Musica tacita o
Modulazione dello spazio ed Elogio del vuoto. In Chillida lo “spazio” si mostra sotto il suo aspetto
migliore –almeno ci pare- quando diventa luogo: Topos o Luogo d’incontro. Con i “tavoli”: Tavola di
Omarkhayyam, Tavola dell’architetto, lo “spazio” acquista persino la forza d’un corpo sotto le placche
di acciaio orizzontali, dato che, simile a un cuscino d’aria, sembra sostenerle.
[…] A ogni buon conto, l’uno non può essere senza l’altro, “spazio” e “corpo” non esistono che
nella misura in cui si definiscono l’uno per rapporto all’altro.1
Eduardo Chillida, Tavola di Omar Khayyam II, 1983, acciaio, Eduardo Chillida, Luogo di incontri III (La
49 x 385 x 166 cm, Museo Nazionale Centro d’Arte sirena arenata), 1972, cemento armato,
“Regina Sofia”, Madrid 205 x 500 x 180 cm, Corso della Castellana,
Madrid
Eduardo Chillida, Elogio dell’aria II, 2000, acciaio, Eduardo Chillida, Modulazione dello spazio I,
Aeroporto di Bilbao 1963, ferro, Tate Gallery, Londra
1 HOHL, REINHOLD, Chillida o la scoperta perenne in AA. VV., Chillida: sculture, collage, disegni, op. cit.,
pp. 10-12
71
7 Luce
José Ángel Valente condivide il suo interesse verso la luce chiara del Mediterraneo con lo
scultore Eduardo Chillida. Tuttavia, parimenti al poeta galiziano, l’artista basco riconosce come la
luz di sua appartenenza sia quella oscura o negra dell’Atlantico.
Valente mostra di riflettere in profondità su questa tematica in numerose sue raccolte poetiche,1
oltre che in alcuni saggi, fra i quali spicca Mediterráneo: la oscura luz del engendramiento.2
Per Chillida la luce che compete ai baschi così come ai galiziani è, come già asserito
precedentemente, quella dell’Oceano Atlantico.
“De pronto me di cuenta de que áquel no era un lugar. Que la luz blanca de Grecia no era la mía.
[...] Estaba perdido, porque yo soy en un país que tiene una luz oscura. El Atlántico es oscuro, el
Mediterráneo no, su luz es tan diferente [...] la luz negra de dónde yo soy. No sólo yo [...] los vascos, los
bretones, los gallegos, el Sur de Inglaterra e Irlanda tenemos esta luz. Todo ese mar es negro, en cierto
sentido.” Al parecido [Chillida] manifiesta a Andrew Dempsey: “Tuve que encontrar mi propio camino
entrar en una átmosfera que no es tan clara como la de Grecia.”
[Parlando della Grecia] “Subito mi resi conto che quello non era un luogo. Che la luce bianca
della Grecia non era la mia. […] Ero perso, perché io sono di una terra che ha una luce oscura.
L’Atlantico è oscuro, il Mediterraneo no, la sua luce è differente… […] la luce nera dei luoghi dai quali
provengo. Non solo io […] i baschi, i bretoni, i galiziani, il Sud d’Inghilterra e l’Irlanda abbiamo questa
luce. Tutto questo mare è nero, in un certo senso.” A quanto pare egli confida a Andrew Dempsey:
“Dovetti trovare il mio percorso entrare in un’atmosfera che non è così chiara come quella della
Grecia.” 3
Si tratta di una luce negra che riflette l’indole dei popoli che si affacciano su un mare molto
diverso dal Mediterraneo. A detta di Chillida l’illuminazione oceanica influisce in maniera decisiva
sul carattere dei baschi, rendendolo molto più simile a quello dei tedeschi di quanto non lo sia
all’indole delle più vicine popolazioni francesi.
[...] En cambio, nosotros somos hijos de otra luz. Yo no estoy hablando sólo de luz física, porque
aquí también hay días clarísimos. La luz de la que nosotros estamos construidos es más oscura que la del
Mediterráneo. Ellos son más extrovertidos. Yo veo que mi obra es muy bien recibida en Alemania y creo
que eso tiene algo que ver con que mis obras corresponden de alguna manera a nuestra forma de ser
como vascos, y a ellos, a los alemanes, no les resulta demasiado ajeno. Está colocada en una plataforma
que ellos entienden. A mí no me sorprende que mi obra se reciba mejor en Alemania que en Francia, a
pesar de estar más cerca.
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Con la luz que reluces” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa,
op cit., pp. 240-241
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cerámica con figuras sobre fondo blanco” in José Ángel Valente, Obras completas:
poesía y prosa, op cit., p. 341
VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Tamquam centrum circuli” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y
prosa, op cit., p. 562 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Elogio del calígrafo” in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit.,
pp. 572-581 3 SCHMIDT, KATARINA, “... Arquitectura por encima de todo. Las esculturas de alabastro de Eduardo
Chillida” in VV. AA., Chillida, Barcelona, Fundación Joan Miró, 2003, p. 63; trad. in italiano a c. di Giulio
Bartolini
72
Di contro, noi siamo figli di un’altra luce. Io non sto parlando soltanto di luce fisica, perché anche
qui ci sono giorni chiarissimi. La luce dalla quale noi siamo costruiti è più oscura di quella del
Mediterraneo. Loro sono più estroversi. Io vedo che la mia opera è recepita molto bene in Germania e
credo che questo ha qualcosa a che fare con il fatto che le mie opere corrispondono in qualche modo al
nostro modo di essere come baschi, e a loro, ai tedeschi, non risulta troppo estraneo. E’ collocata su di
una piattaforma che capiscono. A me non sorprende che la mia opera sia recepita meglio in Germania
che in Francia, nonostante sia più vicina.1
Eduardo Chillida, Cercando la Eduardo Chillida, Forma, 1948 Eduardo Chillida, Elogio della luce XX,
luce I, 1997, ferro, casolare 44 x 35 x 35 cm, gesso, Museo 1990, alabastro, Museo “Chillida-Leku”
Zabalaga, 798 x 275 x 222 cm “Chillida-Leku”
Museo “Chillida-Leku”
La luz oscura valentiniana è ascrivibile pure alla sua forte religiosità. Ci sembra invero possibile
definire la luce oscura di Valente come una luce mistica, un chiarore intriso di un forte sentimento
religioso, di una meditazione che collima con uno stato di estasi o di infatuazione paragonabile a
quello avvertito dai grandi mistici come San Juan de la Cruz o Miguel de Molinos al culmine delle
loro esperienze.
Buona parte delle poesie valentiane viene permeata dalla luz oscura anche a causa dell’influenza
esercitatavi dalla grande tradizione artistica spagnola. Pensiamo infatti all’”oscurità luminosa” che
avvolge molti dei celebri dipinti in mostra al Museo del Prado di Madrid e che, con molta
probabilità, affascinò moltissimo Valente.
Si tratta di opere come El Cristo di Velásquez o numerose pitture di Francisco Goya, nella
fattispecie le Pinturas negras, che sembrano essere perfetti contraltari in campo plastico della luce
oscura di molte poesie valentiane.
1 CHILLIDA, EDURADO, “Yo soy un fuera de ley” in Eduardo Chillida, Escritos,op. cit., p. 95
73
Diego Velásquez, Cristo crocifisso, 1631 Francisco Goya, Uomini che leggono e Donne che ridono, 1819-
olio su tela, 249 X 170 cm, Museo 1823, olio al secco trasferito su tela, 126 cm × 66 cm e
del Prado, Madrid 125 cm × 65,5 cm, Museo del Prado, Madrid
Inoltre, il concetto di luce maturato dal poeta orensano si connette fortemente a quello di abisso,
caduta o immersione nell’oscurità più profonda della materia. In particolar modo, Valente si
riferisce ripetutamente nei suoi scritti al concetto di immersione nella profondità della materia.
Questo sprofondare nell’oscurità è necessario alla piena comprensione del modo e del luogo in cui
le parole poetiche, così come le creazioni artistiche, hanno origine.
Gli elementi fondanti della creazione artistica stazionano in un abismo privo di luce, nel punto
dove risiede il fulcro centrale e vitale della parola, in un centro oscuro da cui si diparte qualsiasi
creazione e quindi anche quella del verbo, della parola intesa come unità semplice e costituente
della poesia.
Desde este punto de vista, el poema nos invita a una experiencia oscura. A una inmersión en las
capas sucesivas de la materia o de la memoria. A una inmersión en el fondo infinito en el que acaso se
encuentra la palabra única, la palabra que fue, no sabemos cuándo, nuestro origen, residuo acaso del
poema de lo que se ha llamado la nominación primera. Inmersión, por consiguiente, en las capas de la
memoria. Descenso por los infinitos estratos o cámaras de la palabra. Descenso al viaje o al origen.
Da questo punto di vista, la poesia ci invita a un’esperienza oscura. A un’immersione negli strati
successivi della materia o della memoria. A un’immersione nel fondo infinito nel quale forse si trova la
parola unica, la parola che fu, non sappiamo quando, la nostra origine, residuo forse della poesia di ciò
che si è chiamato la nominazione prima. Immersione, di conseguenza, negli strati della memoria. Discesa
attraverso gli infiniti strati o camere della parola. Discesa al viaggio o all’origine.1
Il procedimento di creazione di un’opera d’arte compiuto da Chillida, parimenti a quello
valentiano, si realizza solo dopo una radicale discesa nel pieno dell’oscurità della materia ed una
risalita della vera essenza delle cose dal loro abisso interiore. Si tratta di una progressiva
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Palabra y materia” in José Ángel Valente, Palabra y materia, op. cit., p. 28
74
illuminazione dell’opera da parte di un chiarore che è inizialmente tremulo e che, successivamente,
si manifesta con una sempre maggiore intensità fino ad insorgere con pieno sfavillio.
Lenta, muy lentamente, cede la sombra el paso al leve vuelo de la luz. Sólo entonces, después del
radical descenso a lo oscuro, supimos lo que nos había sido dado: la materia y la revelación de sí que es
la forma. La forma, bien sabemos, no es algo sobreimpuesto; está generada por la materia misma que se
revela en ella... Por supuesto para crear hay que llegar al fondo, al fondo de lo oscuro. Lo que emerge
después de tal descenso es la obra y sólo entonces la conocemos, en el recién dibujado borde de una aún
tremula luz. “Al alba conocí la obra –apunta Chillida-. Puede ser de mil maneras, pero sólo de una.”
Lentamente, molto lentamente, l’ombra cede il passo al lieve volo della luce. Soltanto allora, dopo
la radicale discesa nell’oscurità, sapemmo quello che ci era stato dato: la materia e la rivelazione di sé
che è la forma. La forma, sappiamo bene, non è qualcosa di sovrapposto; è generata dalla materia stessa
che si rivela in lei… Certo per creare bisogna arrivare al fondo, al fondo dell’oscurità. Quello che
emerge dopo questa discesa è l’opera e soltanto allora la conosciamo, nell’appena disegnato bordo di
una luce ancora tremula. “All’alba conobbi l’opera –appunta Chillida-. Può essere in mille modi, ma
solo in uno.1
La luce è dunque l’elemento che consente al poeta o allo scultore di modellare le sue opere siano
esse poesie o sculture.
Per questo motivo, il basco sceglie di realizzare molte delle sue sculture in alabastro, materiale
che consente alla luce la massima penetrazione al suo interno.
El trabajo del escultor en el alabastro consiste sobre todo en facilitar la penetración de la luz en lo
profundo de la materia misma, de tal manera que ésta engendra, penetrada por la luz, su propia forma.
Il lavoro dello scultore nell’alabastro consiste soprattutto nel facilitare la penetrazione della luce
nel profondo della materia stessa, in modo tale che questa genera, penetrata dalla luce, la sua stessa
forma.2
Nelle opere in alabastro spesso non è possibile individuare il limite che separa la forma ed il
materiale scultoreo dalla luce e ciò lo si deve alla totale evanescenza che vi assume la materia stessa.
Quest’ultima diviene, come sostiene Valente, mater della luce.
Entrada en la materia. Abolición del límite. No sabría decir el receptor de la obra dónde termina
el alabastro y dónde empieza la luz. La unidad de ambos se realiza en la mutua o sola transparencia:
“La transparencia, dios, la transparencia”, que la palabra crea en el bellísimo, inalcanzable poema de
Juan Ramón Jiménez de Animal de fondo (1949).
Entrata nella materia. Abolizione del limite. Non saprebbe dire il ricettore dell’opera dove termina
l’alabastro e dove inizia la luce. L’unità di entrambe si realizza nella mutua o sola trasparenza: “La
trasparenza, dio, la trasparenza”, che la parola crea nella bellissima, irraggiungibile poesia di Juan
Ramón Jiménez di Animal de fondo (1949).3
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Chillida o la transparencia” in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op.
cit., p. 587 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Chillida o la transparencia” in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op.
cit., p. 589 3 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Chillida o la transparencia” in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, p.
589
75
[Reinhold Hohl parla delle sculture in alabastro di Chillida] … La luminosità non appare solo
laddove non vi è una massa corporea, ma scopriamo una luminosità anche nella massa corporea stessa,
si può quasi dire, a causa di questa stessa massa che si rivela come “pensiero luminoso”.1
Eduardo Chillida, Omaggio al mare IV, 1998 Eduardo Chillida, Cammino verso la pace, 1997,
alabastro, 130 x 180 x 72 cm alabastro, Chiesa del Buon Pastore, San Sebastián
Museo “Chillida-Leku”
Abbiamo già affermato come buona parte delle opere poetiche di Valente sia intrisa dalla luz
negra. Tuttavia occorre specificare che, nonostante il gallego abbia piena consapevolezza della sua
appartenenza a quest’ultima, vi sono svariate poesie valentiane incentrate sulla luz mediterránea o
luce chiara.
Nella raccolta Interior con figuras si trova ad esempio una poesia nella quale l’orensano realizza
uno dei suoi elogi più importanti e, per così dire, “consistenti” della luz chiara. In questo
componimento il poeta parla del biancore, della luce bianca attorno e grazie alla quale prende corpo
la cosiddetta “parola unica”.
Cómo no hallar
alrededor de la figura sola
lo blanco. [...]
Cómo no hallar
alrededor de la palabra única
lo blanco.
Ese blanco que es la suma y fusión de todos los colores, que los contiene todos y es receptor
privilegiado de la luz, nos recuerda la importancia que esta última tiene en el conjunto de la obra poética
de Valente, siempre atenta a recoger en versos lo que la mirada descubre, confiriéndole así un intenso
valor visual. No por casualidad, el primer poema del primer libro del autor, “Serán ceniza...”, que ha
podido ser definido como “pórtico simbólico a lo que había de venir después, una especie de cifra que
encierra dentro de sí el germen de lo que se desplegará en el futuro”, presenta ya, en su segunda estrofa,
tras el “desierto”, tras la desolación, tras la” sequedad de la piedra”, la aparición de la luz “a modo de
esperanza”: “Hay una luz remota, sin embargo, / y sé que no estoy solo”.
Come non trovare
attorno alla figura sola
il bianco [...]
Come non trovare
attorno alla parola unica
il bianco.
1 HOHL, REINHOLD, “Chillida o la scoperta perenne” in AA. VV., Chillida: sculture, collage, disegni, op. cit.,
p. 13
76
Questo bianco è la somma e fusione di tutti i colori, che li contiene tutti ed è ricettore privilegiato
della luce, ci ricorda l’importanza che quest’ultima ha nell’insieme dell’opera poetica di Valente, sempre
attenta a raccogliere in versi quello che scopre lo sguardo, conferendogli così un intenso valore visuale.
Non a caso, la prima poesia del primo libro dell’autore, “Saranno cenere…”, che ha potuto essere
definita come “portico simbolico a quello che doveva venire dopo, una specie di cifra che racchiude
dentro di sé il germe di quello che si dispiegherà in futuro”, presenta già, nella sua seconda strofa, dopo
il “deserto”, dopo la desolazione, dopo la “secchezza della pietra”, l’apparizione della luce “a modo di
speranza”: “C’è una luce remota, tuttavia, / e so che non sono solo”.1
La poesia espressione della fascinazione e dell’elogio del poeta galiziano nei confronti della luce
mediterranea è certamente El sur.
Lo sfavillio e l’energia della luce chiara, che l’artista contempla durante il suo lungo soggiorno
ad Almeria, sono tali da affievolire i contorni ed i corpi delle cose. I singoli elementi presenti nella
realtà sono privati di una reale concretezza, di una vera e propria consistenza. L’intero paesaggio
riarso dal sole si disintegra sotto l’impressionante forza distruttrice e dissolutrice della luce bianca,
che dissipa qualsiasi cosa rendendola evanescente, svuotandola della sua materialità.
[...] Los últimos poemas de Al dios del lugar nos ofrecen una visión de la lenta desintegración, ya
no del hacerse sino del deshacerse, con imágenes que recuerdan a Max Ernst o a Tàpies. “El sur” es uno
de los poemas más cercanos a la pintura, con su manejo de imágenes; ut pictura poesis. Describe una
ciudad andalusa que se desmorona lentamente:
El sur como una larga,
lenta demolición.
El náufrago solar de las cornisas
bajo la putrefacta sombra del jazmín.
Rigor oscuro de la luz.
Se desmorona el aire desde el aire
que disuelve la piedra en polvo al fin.
Sombra de quién, preguntas,
en las callejas húmedas de sal.
No hay nadie.
La noche guarda ciegas,
apagadas ruinas, mohos
de sumergida luz lunar.
La noche.
El sur.
[...] Le ultime poesie di Al dios del lugar ci offrono una visione della lenta disintegrazione, e non
già del farsi ma del disfarsi, con immagini che ricordano Max Ernst o Tàpies. “Il sud” è una delle poesie
più vicine alla pittura, con il suo maneggio di immagini; ut pictura poesis. Descrive una città andalusa
che si sgretola lentamente:
1 IGLESIAS FEIJOO, LUIS, “José Ángel Valente: poesía y pintura” in VV. AA., A palabra e a súa sombra: José
Ángel Valente, o poeta e as artes = La palabra y su sombra: José Ángel Valente, el poeta y las artes = The
word and its shadow: José Ángel Valente: the poet and the arts, [exposición organizada pola Universidade,
Pazo de Fonseca, Igraxa da Universidade, 20 xuño – 31 agosto 2003], op. cit., pp. 209-210
77
Il sud come una lunga,
lenta demolizione.
Il naufrago solare delle cornici
sotto la putrefatta ombra del gelsomino.
Rigore oscuro della luce.
Si sgretola l’aria dall’aria
che dissolve la pietra in polvere alla fine.
Ombra di chi, domandi,
nelle viuzze umide di sale.
Non c’è nulla.
La notte custodice cieche,
spegne rovine, muffe
di sommersa luce lunare.
La notte.
Il sud.1
J. A. Valente sul litorale di Almería nel 1997 Il poeta presso la sua dimora almeriense
In un testo di Daydí-Tolson facente parte della raccolta Material Valente si sottolinea come la luce
per il poeta di Orense sia sinonimo di conoscenza. Alla stregua di quanto abbiamo cercato di
dimostrare finora, la vera essenza delle cose per Valente si manifesta quando l’interiortà di queste
raggiunge la superficie, emergendo dalle profondità e facendosi rischiarare dalla luz. In quest’ottica,
l’opera d’arte scaturisce dal continuo gioco che si istituisce tra luci ed ombre, dal fondamentale e
primigenio contrasto tra luce e tenebra.2
1 PALLEY, JULIAN, “José Ángel Valente, poeta de la inminencia” in VV. AA., Material Valente, op. cit., p. 54
2 DAYDÍ-TOLSON, SANTIAGO, “Contrastes de luz y sombra como técnica de representación en la poesía de
José Ángel Valente” in VV. AA., Material Valente, op.cit., p. 33-34
Desde un comienzo Valente manifestó su preferencia por lo visual y son muchas en sus poemas
las referencias a mirar y ver, así como a la luz, condición esencial para toda mirada. [...] Admite así
mismo el poeta la concepción de la luz como representación del conocimiento. La realidad se hace patente
en el reflejo de la luz sobre la materia, y como bien lo sabe todo artista plástico, la presencia de las cosas
se da en el juego de la luz y las sombras, en el claroscuro. Ninguna de las dos, ni la luz ni las tinieblas,
pueden concebirse sin la otra ya que la luz absoluta, como la más densa obscuridad, ciegan.
78
Valente e Chillida a San Sebastián Eduardo Chillida, Dedicatoria a Valente, 1992
8 Interiorità, superficialità
Il rapporto fra interiorità e superficialità nel pensiero di Valente assume un’importanza decisiva.
Siffatta relazione poggia su di una concezione di interiorità quale sede del vero essere delle cose, in
contrapposizione ad una superficialità nella quale quest’essenza interna traspare pochissimo.
La parvenza superficiale delle cose può essere percepita da un qualsiasi osservatore o
“spettatore”. L’interiorità degli enti, e cioè la pienezza della loro vera costituzione, può invece
essere avvertita solo dagli artisti nel momento della creazione.
José Ángel Valente durante la sua ultima lettura poetica rilasciata presso il Círculo de Bellas
Artes di Madrid sostiene come l’esperienza poetica sia per colui che la mette per iscritto che per
quanti ne praticano la lettura, è contatto con l’interiorità. Sia l’autore che il lettore di una poesia
vengono a conoscenza dell’interno della parola poetica e cioè dell’unità minima costitutiva della
poesia.
[...] La palabra poética cuando se manifiesta, cuando en verdad se manifiesta, y cuando en verdad
la recibimos, nos invita a entrar en este territorio extremo. Territorio de la extrema interioridad. Lugar
del no lugar. Espacio vacío y generador, concavidad, matriz, materia mater, materia memoria, material
memoria. [...].
[...] La parola poetica quando si manifesta, quando si manifesta veramente, e quando la riceviamo
davvero, ci invita ad entrare in questo territorio estremo. Territorio dell’estrema interiorità. Luogo del
non luogo. Spazio vuoto e generatore, concavità, matrice, materia mater, materia memoria, materiale
memoria. […] 1
Es por lo tanto, el contraste entre luz y oscuridad lo que define toda experiencia visual y, por
extensión, ha venido a representar desde antiguo los opuestos del ser y el no ser, la existencia y la nada. Es
esa capacidad de la luz para hacer visible lo invisible en las sombras la que ha permitido que desde
tiempos inmemorables se la conciba, junto a la visión, como paradigma del conocer, contraria a las
tinieblas, que representan la nada de la ignorancia.
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Palabra y materia”, in José Ángel Valente, Palabra y materia, op. cit., pp. 25-26
79
La parola, “il verbo”, come lo definisce religiosamente Valente,1 acquisisce così lo stesso ruolo e
le medesime “fattezze” dello spazio vuoto presente nelle creazioni di Chillida.
Eduardo Chillida, Da dentro, 1953, Eduardo Chillida, Gravitación, 1989, Eduardo Chillida, Omaggio a
ferro, Museo Guggenheim di New York inchiostro su papier collé, Vienna San Juan de la Cruz III, 1991
inchiostro su papier collé,
Museo “Chillida-Leku”
Al pari dello spazio architettonico o scultoreo cui si riferisce il donostiarra, la parola
dell’orensano è concavità generatrice pronta a dare origine a qualsiasi cosa.
Valente fa riferimento al libro del Tao per affermare come in questa filosofia orientale, alla pari
dello Zen, occorre apprendere le cose senza focalizzarsi su di esse, concentrandosi su “tutt’altro”. E’
a partire da questo stato di “ignoranza”, di vuoto creativo, di apparente mancanza di concentrazione
e dedizione, di totale rivolgimento in se stessi, che hanno origine nuovi enti e, quindi, le stesse
parole.
[...] ...la poesía se hace o es fundamentalmente experiencia de la interioridad de la palabra.
[...] Y pasamos a otras latitudes, si pasamos al libro del Tao, Lao-Tze escribe: “Es necesario
comprender el Tao como si no lo comprendiéramos”.
[...] El desierto es el lugar de manifestación de la palabra y de comparecencia ante la palabra.
[...] ... la poesia si fa o è fondamentalmente esperienza dell’interiorità della parola.
[…] E passiamo ad altre latitudini, se passiamo al libro del Tao, Lao-Tze scrive: “E’ necessario
comprendere il Tao come se non lo comprendessimo”.
[…] Il deserto è il luogo della manifestazione della parola e dell’apparizione di fronte alla parola.1
1 IGLESIAS, SERNA, AMALIA, “Entrevista con José Ángel Valente” in José Ángel Valente, Palabra y materia,
op. cit., pp. 58-59 AI.S. – Ante un título como el de su libro, Al dios del lugar, es inevitable preguntarle si hay cierto
paralelismo entre la creación poética y el sentimiento religioso.
J.Á.V. – Tiene relación en cuanto que en ambos conceptos se da una orientación hacia lo que no
conocemos, lo que nos rebasa. Yo, cada vez más, tiendo en mi escritura a la infinitud de la materia.
Percibir esa sensación de infinitud puede considerarse, en términos generales, como religioso. En su
origen la palabra está vinculada al mundo ritual, cultural y, evidentemente, tiene un componente sacro. La
poesía se ha ido recargando de los componentes sacros abandonados por las religiones. A mediados del
siglo XVII, las iglesias, y no sólo la católica, van hacia el conocimiento racional y abandonan un poco
todo el área de la interioridad, porque es área peligrosa; en el fondo dictaminan el fin de la mística. Eso
recarga a la poesía de un cierto valor sacro, queda como depositaria de ese mundo interior ante el que las
iglesias retroceden.
80
Nell’evoluzione poetica del galiziano è percepibile una sempre più approfondita ricerca
sull’interiorità delle parole. Il poeta si adopera al fine di pervenire al significato ultimo, definitivo,
assoluto delle singole parole. Per arrivare ad un tale livello di accuratezza nella definizione delle
singole entità verbali è però necessario prima “spogliare” tali enti da tutto ciò che è superfluo,
esteriore e contingente. Per questo motivo l’ars poetica deve essere intesa come esperienza del
profondo della parola.
[...] ... evolución un ejercicio de “desposesión” de lo superfluo para pasar de “lo que la palabra
significa” a “lo que la palabra guarda en su proprio interior”. Así [Valente] dirá que “la poesía es,
fundamentalmente, experiencia de la interioridad de la palabra”.
[...] ... evoluzione un esercizio di “spossessamento” del superfluo per passare da “quello che la
parola significa” a “quello che la parola custodisce nel suo interno”. Così [Valente] dirà che “la poesia
è, fondamentalmente, esperienza dell’interiorità della parola”.2
Nel quarto dei Cinco fragmentos para Antoni Tàpies Valente ci appare dedito a mostrare quanto
il procedimento di ultimazione di un’opera artistica possa definirsi interiore: l’accentramento della
materia di cui si compone una forma o un corpo è invero un movimento verso l’interiorità, in
direzione del punto più intimo di essa.
El cumplimiento de la obra (como sucedía en el saber antiguo de la alquimia) es tanto un proceso
interior como el ejercicio visible de un arte. Porque el movimiento hacia el centro de la materia es
también un movimiento hacia el centro de la interioridad.
Il compimento dell’opera (come succedeva nel sapere antico dell’alchimia) è tanto un processo
interiore come l’esercizio visibile di un’arte. Perché il movimento verso il centro della materia è anche
un movimento verso il centro dell’interiorità.3
Allo scultore basco Eduardo Chillida questo legame fra interiorità e superficialità interessa
soprattutto al fine di determinare i rapporti spaziali che sottostanno alle sue opere scultoree. In
questo suo singolare interessamento ci pare possibile rintracciare l’influenza della filosofia Zen.
Nella fattispecie, Chillida contrappone la segretezza ed inaccessibilità degli spazi interni, ovvero dei
luoghi dove risiede la verità nell’ottica di questo pensiero filosofico orientale, all’apparenza
superficiale delle cose che non filtra appieno tale interiorità.
Hay un problema común en la mayor parte de mi obra: es el espacio interior, consecuencia y al
mismo tiempo origen de los volúmenes positivos exteriores. Para definir estos espacios interiores es
necesario envolverlos, haciéndolos por lo tanto inaccessibles para el espectador, situado en el exterior.
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Palabra y materia”, in José Ángel Valente, Palabra y materia, op. cit., pp. 25-26
2 SERNA, AMALIA IGLESIAS, “Prólogo. José Ángel Valente. La última poética” in José Ángel Valente,
Palabra y materia, op. cit. p. 12 3 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Cinco fragmentos para Antoni Tàpies” in Antoni Tàpies e José Ángel Valente,
Comunicación sobre el muro, op. cit., p. 38
81
Los espacios interiores, que han sido siempre problema y preocupación de los arquitectos, suelen ser
espacios de tres dimensiones definidos por superficies de dos. Yo aspiro a definir lo tridimensional
(hueco) por medio de lo tridimensional (pleno) estableciendo al mismo tiempo una especie de correlación
y diálogo entre ellos. Gracias a estas correlaciones, los volúmenes exteriores, a los que tenemos fácil
acceso, serán nuestro guía seguro para llegar a conocer, al menos al espíritu, espacios ocultos.
C’è un problema comune nella maggior parte della mia opera: è lo spazio interiore, conseguenza
e allo stesso tempo origine dei volumi positivi esteriori. Per definire questi spazi interiori è necessario
avvolgerli, rendendoli pertanto inaccessibili per lo spettatore, situato all’esterno. Gli spazi interiori, che
sono stati sempre problema e preoccupazione degli architetti, sono soliti essere spazi di tre dimensioni
definiti da superfici di due. Io aspiro a definire il tridimensionale (vuoto) per mezzo del tridimensionale
(pieno) stabilendo allo stesso tempo una specie di correlazione e dialogo tra loro. Grazie a queste
correlazioni, i volumi esteriori, ai quali abbiamo facile accesso, saranno la nostra guida sicura per
arrivare a conoscere, almeno allo spirito, spazi occulti.1
Chillida considera l’attività di lavorazione del materiale scultoreo tesa a dare un’equilibrio fra
l’interiorità e la superficie delle forme. Pur lavorando solo la parte interna di alcune delle sue
sculture, l’artista non desidera tralasciare in esse la riflessione sulla loro superficialità ma, al
contrario, vuole così sottolinearne la complementarietà rispetto alla controparte interiore.
Eduardo Chillida, Ascoltando la pietra IV, pietra, Eduardo Chillida, Omaggio a Pili, 2000,
180 x 100 x 95 cm, Museo “Chillida-Leku” alabastro, 130 x 180 x 72 cm, Museo “Chillida-Leku”
La monumentalità di alcune opere chillidiane non ha niente a che fare con le loro dimensioni. La
grandezza di tali sculture è secondo il basco una trasposizione dall’energia che vi si ritrova
all’origine, nell’interiorità, nel vacío interior.
Lo spazio interno è sede del “fuoco sacro” ossia dell’energia “vitale” racchiusa in qualsiasi opera
d’arte: la monumentalità di questa si rende manifesta proprio con l’erompere di questa forza.
[...] Una monumentalidad que no tiene relación alguna con el tamaño sino con la irradiación
espiritual: no es la vastedad de las proporciones lo que las define sino la energía que contienen. En
varias ocasiones Chillida se ha referido al “espacio interior” encerrado dentro del espacio exterior que
vemos y palpamos. En el espacio vedado, siempre más allá o más acá off-limits. Hay que agregar que el
“espacio interior” no es sino la carga de desconocido que encierra cada obra... El espacio interior es la
energía presa en cada forma, sea ésta hierro o arcilla, mármol o madera. Semilla de energía cautiva, es
el foco de esa irradiación que emiten las obras. En esto consiste lo que he llamado, no muy exactamente,
su monumentalidad. Quizá debería haber escrito: fuerza de gravitación.
1 CHILLIDA, EDUARDO, “Códigos del artista”, in Eduardo Chillida, Escritos, op. cit., p. 52
82
[…] Una monumentalità che non ha nessuna relazione con la dimensione ma con l’irradiazione
spirituale: non è la vastità delle proporzioni quello che le definisce ma l’energia che contengono. In varie
occasioni Chillida si è riferito allo “spazio interiore” racchiuso dentro allo spazio esteriore che vediamo
e palpiamo. Nello spazio proibito, sempre più in là o più in qua off-limits. Si deve aggiungere che lo
“spazio interiore” non è altra cosa se non una carica di ciò che è sconosciuto che racchiude ogni
opera… Lo spazio interiore è l’energia impressa in ogni forma, sia questa ferro o argilla, marmo o legno.
Seme di energia in cattività, è il fuoco di questa irradiazione che emettono le opere. In questo consiste
quello che ho chiamato, non molto esattamente, la sua monumentalità. Forse dovrei aver scritto: forza di
gravitazione1
Eduardo Chillida, Progetto per un monumento, 1969, Eduardo Chillida, Monumento alla tolleranza,
alabastro, Musei Vaticani, Città del Vaticano 1982, cemento armato, Siviglia
9 Calligrafia, ideogramma
Alla stregua di quanto asserito più volte anteriormente, Valente serba un forte interesse verso il
pensiero orientale. In particolar modo, come peraltro è occorso anche a molti altri esponenti
dell’arte del Novecento, egli è attratto dalla calligrafia, disciplina artistica nata proprio in Estremo
Oriente e praticata dal padre.
Il poeta in un suo saggio contenuto in Elogio del calígrafo, raccolta che richiama all’arte
calligrafica sin dal titolo, parla della stretta parentela che in Oriente unisce questa disciplina con la
pittura.
Durante mucho tiempo […] creí que cuando los adultos hablaban de alguien que escribía bien, se
referían a una persona que tenía el arte de mi padre.
Pintura y caligrafía son, en realidad, la misma cosa, como el método del pincel es el mismo en
caligrafía que en pintura. Fue práctica corriente entre los pintores chinos, sobre todo a partir de la
época Yuan, incorporar con hábil mano propia importantes fragmentos caligráficos en sus cuadros. Pero,
en China, la caligrafía llegó a alcanzar la condición suprema de arte independiente mucho antes que la
pintura...
La llamada caligrafía cursiva deja enseguida de tener por fin primero la transmisión utilitaria de
una posible información y se hace puro valor plástico, expresión de una personal capacidad creadora.
... la pintura, en la tradición china, sea históricamente tributaria de la escritura...
Durante un lungo periodo [...] credetti che quando gli adulti parlavano di qualcuno che scriveva
bene, si riferissero a una persona che aveva la stessa perizia di mio padre.
1 PAZ, OCTAVIO, “Chillida: del hierro al reflejo” in Octavio Paz, op. cit., p. 144
83
Pittura e calligrafia sono, in realtà, la stesa cosa, come il metodo del pennello è lo stesso in
calligrafia come in pittura. Fu pratica corrente tra i pittori cinesi, soprattutto a partire dall’epoca Yuan,
incorporare con abile mano propria importanti frammenti calligrafici nei loro quadri. Ma, in Cina, la
calligrafia raggiunse la condizione suprema di arte indipendente molto prima che la pittura…
La cosiddetta calligrafia corsiva smette immediatamente di avere come fine primario la
trasmissione utilitaria di una possibile informazione e si fa puro valore plastico, espressione di una
personale capacità creatrice.1
Il poeta gallego attribuisce grande importanza al calligrafo estremorientale perché, prima ancora
dello scrittore occidentale, egli è il vero creatore delle parole, colui che per primo ha donato loro la
materialità. Il calligrafo “precede” anche il pittore dell’Occidente nella raffigurazione della realtà e
dei concetti astratti: egli ha infatti inventato gli ideogrammi, ovvero i primi simboli grafici che
rimandano a immagini o idee mentali.
José Ángel Valente, Elogio del calígrafo. Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco,
Ensayos sobre arte, 2003 copertina di un’edizione in inglese
Maestri calligrafi estremorientali all’opera e, sulla destra, un artista del gruppo Gutai
L’arte calligrafica assume rilevo primario anche in molte realizzazioni del pittore Antonio Saura.
In particolar modo, l’artista aragonese parla similmente a Valente del “debito” che ha la moderna
pittura occidentale, e nondimeno la sua, nei confronti della calligrafia orientale.2 Secondo Saura è la
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Elogio del calígrafo”, in José Ángel Valente, Obras completas: ensayos, op. cit.,
pp. 491-494 2 SAURA, ANTONIO, “Espacio y gesto de Gutai” in Antonio Saura, Crónicas: artículos, a c. di Susana Pellicer,
Barcelona, Galaxia Gutemberg: Círculo de lectores, 2000, pp. 101-112
SAURA, ANTONIO, “Shiraga no pinta con los pies” in Antonio Saura, Visor: sobre artistas, op. cit., pp. 153-
166
84
scrittura automatica dei surrealisti,1 oltre ad alcune opere di esponenti del tachismo tra i quali lo
stesso Tàpies, ad essere massimamente influenzata dal fare artistico dei calligrafi d’Oriente.
Antoni Tàpies, Verticale con calligrafia, Antoni Tàpies, Calligrafia su Antoni Tàpies, Calligrafia, 2006,
1987, 200 x 100 cm, tecnica mista su tela, impronte, 1979, 102 x 72 cm, tecnica mista su tela, 195 x 130 cm,
Museo Nazionale Centro d’Arte “Regina tecnica mista su carta, collezione privata
Sofia”, Madrid Collezione Fondazione
“Telefónica”, Madrid
In un saggio dedicato alla scrittura automatica dei surrealisti il pittore di Huesca paragona
quest’ultima proprio alla tecnica calligrafica estremorientale: entrambe vengono esercitate
dall’artista in maniera subitanea, improvvisa e, soprattutto, dopo che questi si sia svuotato dai
pensieri ed abbia raggiunto la totale concentrazione sul suo fare.
El pintor y el calígrafo zen solamente ejercen su acción tras una profunda concentración a fin de
acumular, en el vacío creado en un estado mental secundario, un máximo de energía. Mediante su breve
y a veces vertiginosa labor, con sintética y vital plasticidad, reflejan una especial actitud frente a la
naturaleza y el cosmos, toda una concepción filosófica.
Il pittore ed il calligrafo zen esercitano la loro azione soltanto dopo una profonda concentrazione
al fine di accumulare, nel vuoto creato in uno stato mentale secondario, un massimo di energia. Mediante
il suo breve e a volte vertiginoso lavorio, con una plasticità sintetica e vitale, riflettono una speciale
attitudine di fronte alla natura e al cosmo, tutta una concezione filosofica. 2
Il gesto calligrafico e l’ideogramma caratterizzano l’arte sauriana anche a seguito del distacco del
pittore dal surrealismo.
Basti pensare alle pitture ed incisioni che abbiamo menzionato in merito al rapporto del pittore
con la corporalità, oppure alle sue Superposiciones. In queste ultime le figure femminili (come ad
esempio quella presente nell’opera Rossa riportata di seguito), sono rese mostruose con rapidi tratti
di tinta china o con energiche pennellate.
1 SAURA, ANTONIO, “Pintura y automatismo psíquico” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., pp. 251-
261
SAURA, ANTONIO, “Notas sobre el automatismo después del surrealismo” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos,
op. cit., pp. 263-269 2 SAURA, ANTONIO, “Pintura y automatismo psíquico” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., pp. 259-
260
85
Antonio Saura, Dama in technicolor, Antonio Saura, Maja, 1961, Antonio Saura, Rossa, 1974,
1957, tecnica mista su papier collé, olio su tela, 160 x 129,5 cm tecnica mista su carta impressa,
69,9 x 42,9 cm, Collezione Archivio collezione privata 30,7 x 22,5 cm, collezione privata
“Antonio Saura”, Ginevra
Antonio Saura, Dama III, 1958, Antonio Saura, Messalina, 1959, Antonio Saura, Dama, 1980,
litografia, 37,5 x 29 cm, olio su tela, collezione privata tecnica mista su carta, 37,9 x 28 cm,
collezione privata collezione privata
Anche nelle crocifissioni sauriane, soprattutto quelle degli anni ’50 e ’60, il ricorso a tratto
calligrafico ed ideogramma è molto evidente. Alcune di queste poi (in primo luogo l’ultima delle
crocifissioni del 1958 di seguito riportate), sembrano segni ideografici di un calligrafo piuttosto che
disegni di un pittore.
[...] A pesar de su carácter violentamente expresivo, las crucifixiones de Saura reflejan un cierto
control del tema, de las referencias y se imponen como “prototipos intemporales”...La Crucifixión se
inscribe en una relación fuerte con la escritura (y con las escrituras)...La escritura como signo plástico
es una clave importante para entrar en la obra de Saura, por varias razones. Para empezar, habría que
recordar el poder del surrealismo como segundo plano poético de su obra y la manera en que la
escritura automática ha ejercido una influencia en numerosos artistas relacionados con el tachismo,
como una técnica de composición pictórica (el gesto) y de manipulación del signo. Por otra parte, no hay
que olvidar que Saura es escritor, poeta, crítico de arte... La crucifixión toma forma de un “iconotexto”,
es decir, referencias literarias en pintura que no se convierten por ello en meras ilustraciones de
diferentes episodios de lo escrito sino en una experiencia caligráfica.
[...] Malgrado il loro carattere violentemente espressivo, le crocifissioni di Antonio Saura
riflettono un certo controllo del tema, dei riferimenti e si impongono come “prototipi atemporali”…La
Crocifissione si iscrive in una relazione forte con la scrittura (e con le scritture)…La scrittura come
segno plastico è una chiave importante per entrare nell’opera di Saura, per varie ragioni. Per
86
cominciare, si dovrebbe ricordare il potere del surrealismo come secondo piano poetico della sua opera
e la maniera nella quale la scrittura automatica ha esercitato un’influenza in numerosi artisti relazionati
con il tachismo, come una tecnica di composizione pittorica (il gesto) e di manipolazione del segno.
D’altra parte, non si deve dimenticare che Saura è scrittore, poeta, critico d’arte… La crocifissione
prende la forma di un “iconotesto”, cioè, referenze letterarie in pittura che non si convertono per questo
in mere illustrazioni di differenti episodi di quello che è scritto ma in una esperienza calligrafica.1
Antonio Saura, Crocifissione, 1958, Antonio Saura, Crocifissione, 1958, Antonio Saura, Crocifissione, 1958,
flo-master su carta, 56,2 x 40 cm, china su carta, 69,9 x 50,3 cm, china su carta, 69,9 x 50,3 cm,
collezione privata collezione privata collezione privata
In alto, alcuni esempi di shodō Vari esempi di ideogrammi estremorientali
ovvero la calligrafia giapponese;
in basso, un testo scritto in shūfǎ
ossia calligrafia cinese
1 SURLAPIERRE, NICOLAS, “Representando crucifixiones” in Antonio Saura, Crucifixiones, op. cit., p. 48
87
10 Violenza
Numerose poesie di José Ángel Valente sono, come abbiamo asserito precedentemente,
espressione del suo diletto per lo stravolgimento dei corpi, per la frammentazione delle cosiddette
parole “materiali” o “corporali”. Questo compiacimento è connesso al gusto parimenti avvertito dal
poeta nei confronti della descrizione dell’atrocità della condizione umana.
In molte poesie il galiziano si dilunga così tanto nell’enunciazione di episodi o particolari
macabri e truculenti da far sì che esse assumano uno stile grottesco. Il modo valentiano di reiterare
la rappresentazione degli aspetti più sordidi e miserabili della realtà è fortemente affine a quello
sviluppato negli anni ’40 e ’50 dai membri della corrente letteraria del tremendismo1 e, soprattutto,
dalla poesía desarraigada.2
Basti confrontare lo crudezza dello stile di raccolte poetiche del gallego come Siete
representaciones, in cui c’è una continua descrizione del sangue versato e della tortura di innocenti,
con la scrittura altrettanto grottesca di romanzi come La familia de Pascual Duarte di Camilo José
Cela o poesie quali Hijos de la ira di Damaso Alonso. In tutti queste opere si avverte un certo
piacere da parte dei loro autori nella “narrazione” della naturale violenza dell’uomo.
Tres fragmentos
I
(EL GALLO)
Vibra en la roja cresta
el fuego coronado
y despierta la sangre.
La arena está cubierta
de exhaustos luchadores.
Pero tú, el incansable,
alza tu poderío,
incorpórate, templa
la terrible garganta: clava
tus agudas espuelas
en los tibios costados de la sombra.
Corra toda su sangre
sin fin corra su sangre.
Y viril nazca el canto,
como una saeta,
1
CARRASCÓN, GUILLERMO, “La literatura del exilio” in VV. AA., Manual de literatura española e
hispanoamericana, Torino, Petrini Editore, 2001, p. 289 2 CARRASCÓN, GUILLERMO, “La literatura del exilio” in VV. AA., Manual de literatura española e
hispanoamericana, op. cit., ibd.
88
sobre la noche hembra,
abatida en los campos.1
Con palabras distintas
La poesía asesinó un cadáver,
decapitó al crujiente
señor de los principios principales,
hirió de muerte al necio,
al fugaz señorito de ala triste.
Escupió en su cabeza.
No hubo tiros. [...]2
La concordia
Se reunió en concilio el hombre con sus dientes,
examinó su palidez, extrajo
un hueso de su pecho: -Nunca, dijo,
jamás la violencia.
Llegó un niño de pronto, alzó la mano,
pidió pan, rompió el hilo del discurso.
Reventó el orador, huyeron todos.
-Jamás la violencia, se dijeron.
Llovió el invierno a mares lodos, hambre,
Navegó la miseria a plena vela.
Se organizó el socorro en procesiones
de exhibición solemne. Hubo más muertos.
Pero nunca, jamás, la violencia.
Se fueron uno, cien, doscientos, muchos:
no daba el aire propio para tantos.
El año mejor fue que otros pejores.
No están los que se han ido y nadie ha hecho
violento recurso a la justicia.
El concejal, el síndico, el sereno,
el solitario, el sordo, el guardia urbano,
el profesor de humanidades: todos
se reunieron bajo su cadáver
sonriente y pacífico y lloraron
por sus hijos más bien, que no por ellos.
Exhaló el aire purefacto pétalos
de santidad y orden.
Quedó a salvo la Historia, los principios,
el gas del alumbrado, la fé pública.
-Jamás la violencia, cantó el coro,
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Poemas a Lázaro” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op.
cit., p. 135 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “La memoria y los signos” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa,
op. cit., p. 200
89
unánime, felíz, perseverante.1
Siete representaciones
I
En el vacío del amor,
en un tiempo lunar, lívido y frío,
nace la envidia.
De la caída de la tarde,
de lo que se desliza ya desde la noche
y solapado alarga su sombra por los muros
como amarilla hiedra,
nace la envidia.
De lo que se carcome y no consiste
más que en su desvivir,
del reverso del aire,
de la vecina nada inhabitable,
purulenta y sin fin,
nace la envidia.
En las calles húmedas,
en los días de otoño, incruentos y pálidos,
bajo la doble faz de los espejos
o en largos corredores
que nunca desandamos,
nace la envidia.
En herrumbrosas cerraduras,
en los pozos cegados,
en los respiraderos de la vida
o en la destilación amarga
de lo nunca vivido,
en las grietas del tiempo,
nace la envidia.
Como animal de lenta procedencia,
como ceniza o sierpe y humo pálido,
amarilla y opaca, fiel reflejo
de lo arriba radiante,
nace la envidia.
En el desasosiego
de ser sin nunca tener centro,
en láminas heladas sin dimensión de fondo,
en imágenes planas que crecen hasta el cielo
de la pasión del hombre, nunca suya,
nace la envidia.
Nace como la noche
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “La memoria y los signos” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa,
op. cit., pp. 201-202
90
de inagotable ausencia,
de muros arañados,
de vacíos espacios,
perpetua y giratoria,
sobre el rastro lunar del que más ama.
IV
Estaba allí,
craso y enorme, prenatal, inverso
y vagamente rebajado,
sin precisión, el sexo oblicuo.
Hórrido el vientre,
hórrido y terráqueo
adiposa la sangre,
sorda y reverencial su preeminencia.
Una mujer, no importa, alimentaba
a un concesivo y acomodaticio
vientre capón con húmedas caricias.
Sauces del tiempo rotos,
olvidadlo: nada puede la lira.
El hipo tácito,
la marea ascendente,
la gula inflando velas
de viento interminable,
abriendo fauces, cuévanos,
devolviendo excedentes y residuos
sobre la desangrada tierra seca
y en los mares helados.
VII
El día en que los ángeles
fuercen en las redondas
esquinas no soñadas de la tierra
sus ácidos clarines
y no encuentren respuesta,
El día en que los muertos se levanten
y vuelvan a morir con más convencimiento,
El día en que para siempre se haya roto
la tregua entre los dioses extinguidos
y su pálida imagen,
El día en que los corderos devoren dulcemente
la entraña de los lobos indefensos
hasta agotar su estirpe,
El día en que obligado
91
sea el convite, el traje impuesto,
rotativo el discurso
y la ocasión solemne e implacable,
El día en que las cuerdas de las arpas
estallen y se encojan
de horror los meridianos en su origen,
Y cuando un solo hombre
desesperadamente en pie sobre su ombligo
vea crecer las aguas, pida auxilio,
y una paloma anuncia el pacto nuevo,
El día en que la hembra invertebrada
en su ávido seno nos sumerja
para alumbrarnos luego ya redentos,
El día en que palidezcan los cobardes,
las vírgenes asuman la venganza
y el estertor opaco de la víctima
nos una en fin a ella,
con un odio más puro,
El día en que los niños
certeramente apunten
con un fusil de sangre a los tiranos,
E indemnes los vencidos
coronen de excrementos melancólicos
los arcos del triunfo,
el día del laurel y la serpiente,
el día en que la cólera del mundo
destruya el mundo, el día de la ira.1
El suceso
Detrás del olvidado escaparate
con exvotos de cera o pálidas muñecas,
un niño,
pegado a su nariz,
me hizo muecas crueles.
Yo me acerqué con los secretos guantes
del asesino-está-entre-nosotros
y le ofrecí un bombón envenenado.
Pero el niño dio gritos de horrorosa inocencia
y acudieron vecinos con enormes mangueras,
guardias municipales con el santo del día
en procesión solemne.
Y fui decapitado.1
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Siete representaciones” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa,
op. cit., pp. 223-233
92
Sobre el tiempo presente
[...]
Escribo desde la sangre,
desde su testimonio,
desde la mentira, la avaricia y el odio,
desde el clamor del hambre y del trasmudo,
desde el condenatorio borde de la especie,
desde la espada que puede herirla a muerte,
desde el vacío giratorio abajo,
desde el rostro bastardo,
desde la mano que se cierra opaca,
desde el genocidio,
desde los niños infinitamente muertos,
desde el árbol herido en sus raíces,
desde lejos,
desde el tiempo presente.
[...]
Escribo desde el patíbulo,
ahora y en la hora de nuestra muerte,
pues de algún modo hemos de ser ejecutados.2
V
Madre,
el niño homófago
nace en tu palandar,
devora tu saliva,
cae
en el caudal del llanto hasta los invisibles saurios
de la orilla remota que le tiende tu amor.3
XX
(Crónica, 1970)
A Yara
Vienen los torturadores con sus haces de muerte.
El cuerpo derribado bajo el golpe metódico
de esos hijos del pus y de la noche
más libre es que nosotros.
Los torturadores son ángeles del orden.
Comemos orden
(con sus haces de muerte)
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Breve son” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op. cit., p.
256 2 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “El inocente” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y prosa, op. cit., pp.
299-300 3 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Treinta y siete fragmentos” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y
prosa, op. cit., p. 322
93
castrados finalmente como especie.
Comemos orden.
Nunca naceremos.1
Antonio Saura nella sua abitazione di Cuenca nel 1984 José Ángel Valente
Anche nelle opere del pittore Antonio Saura è fortemente presente questo compiacimento nella
descrizione di quella che l’aragonés definisce come monstruosidad2 o crueldad piuttosto che
violencia.
Di fronte all’ideale estetico del bello, l’artista di Huesca adotta una mirada cruel3 sul mondo del
reale ovvero un’estetica del male, 4 della bruttezza.
L’atteggiamento sauriano di fronte alla realtà non implica necessariamente uno stravolgimento in
negativo di questa, ma semplicemente una sua assunzione così come si presenta senza alcun tipo di
edulcorazione.
[...] Frente a una idea de la perfección se opondrá el equilibrio milagroso de aquello que se
degrada, se corroe, se transforma o conforma, en un acto irremediable, irrecuperable, de una luminosa
corrupción. Tales condiciones tienen, para el observador atento, el mejor instrumento de medida: el
sismógrafo de la “mirada cruel”. En sí misma la práctica de la mirada cruel constituye uno de los
sustentos esenciales del arte del mal... Aquello que definimos como Mal puede ser heterodoxia,
perversidad, obsesión o carácter desmesurado, patentización de lo sexual y de lo satánico; puede
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Treinta y siete fragmentos” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y
prosa, op. cit., p. 329 2 RÍOS, JULIÁN, “IX Le pas décisif” in Julián Ríos, Portraits d’Antonio Saura, op. cit., p. 36
[...] [Parlando della mostruosità delle sue opere con Julián Ríos] ... ça me plaît énormément – et
il répète en acquiesçant – ça me plaît beaucoup, beaucoup. Je crois que j’éprouve vraiment du plaisir à
créer des monstres, un grand plaisir. C’est vraiment fantastique. Plus le tableaux est monstueux, plus il
procure de plaisir, justement parce qu’il dépasse les limites de l’admissible et la nouvelle beauté fait son
apparition quand tu dépasses ce niveau de l’admissible. Ceci dit, l’attrait pour le monstrueux n’est pas
justifié s’il n’y a pas au préalable ce besoin de créer une nuovelle phénoménologie capable de produire en
même temps un phénomène nouveau esthétique. De sorte que le plastique prime toujours sur le morbide.
Mais effectivement, le plaisir du monstrueux est indubitable, c’est le moteur fondamental de mon travail.
3 SAURA, ANTONIO, “La mirada cruel” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., pp. 157-176, passim
4 SAURA, ANTONIO, “La mirada cruel”, in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., p. 158
[...] maldad... es decir correspondiendo con la definición de aquella entidad abstracta constituida
por las cosas “que son malas” porque dañan, hacen padecer, o son contrarias a la moral establecida o al
precepto religioso.
94
atravesar la historia con su potencial latente y aparecer esporádicamente, impregnar en su flujo interno
otros lenguajes artísticos -evidentemente el pensamiento literario, que es su dominio, y de forma menos
evidente, pero no menos significativa, la música-, correspondiéndose en general a una temática
inconfesada, inconsciente o a menudo silenciada. La mirada cruel, sin embargo, comporta
condicionamientos específicos que se relacionan con los procesos mentales o físicos de construcción en
la destrucción, que limitando y definiendo el alcance del Mal en el arte, sitúan un ingrediente operativo
que se precisa de forma determinante en la estructura interna de la obra.
[...] Di fronte ad un’idea della perfezione si opporrà l’equilibrio miracoloso di ciò che si degrada,
si corrompe, si trasforma o conforma, in un atto irrimediabile, irrecuperabile, di una luminosa
corruzione. Tali condizioni hanno, per l’osservatore attento, il migliore strumento di misurazione: il
sismografo dello “sguardo crudele”. In se e per sé la pratica dello sguardo crudele costituisce uno dei
supporti essenziali dell’arte del male… Quello che definiamo come Male può essere eterodossia,
perversità, ossessione o carattere smisurato, patentizzazione di ciò che è sessuale e di ciò che è satanico;
può attraversare la storia con il suo potenzile latente e apparire sporadicamente, impregnare nel suo
flusso interno altri linguaggi artistici -evidentemente il pensiero letterario, che è il suo dominio, e in
forma meno evidente, ma non meno significativa, la musica-, corrispondendo in generale ad una tematica
inconfessata, incosciente o spesso sottaciuta. Lo sguardo crudele, tuttavia, comporta condizionamenti
specifici che si relazionano con i processi mentali e fisici di costruzione nella distruzione, che limitando e
definendo la portata del Male nell’arte, situano un ingrediente operativo che si precisa in forma
determinante nella struttura interna dell’opera.1
La mostruosità delle opere sauriane non deve quindi essere intesa come un qualcosa che ha
l’intento di spaventare o shockare lo spettatore, ma piuttosto quale spunto di riflessione sull’idea di
bellezza che secondo l’artista non coincide con quella perfetta proposta dai modelli classici e
dall’arte ufficiale.2 La deformità per Saura è connaturata sia all’aspetto che al pensiero dell’uomo e
perciò essa non deve stupire.
[...] El insecto que nos contempla quedaría asombrado frente al paisaje que ante sus ojos
monstruosos se presenta: los ojos que le contemplan no son menos monstruosos, encajados en agujeros,
acompañados de orificios para respirar y oír, montículos y excreciencias gratuitas. Posiblemente de aquí
venga el interés por ciertos autorretratos excepcionales en donde las características morfológicas
aparecidas frente al espejo reflectante se transforman, en el espejo de la mente, en situaciones de
intensidad y crispación bien naturales. “L’enfer est là”, afirmó Giacometti, y este infierno del rostro...
[...] L’insetto che ci contempla rimarrebbe meravigliato di fronte al paesaggio che si presenta
davanti ai suoi occhi mostruosi: gli occhi che lo contemplano non sono meno mostruosi, incassati in
buchi, accompagnati da orifizi per respirare e sentire, monticelli ed escrescienze gratuite. Forse viene da
qui il nostro interesse per certi autoritratti eccezionali dove le caratteristiche morfologiche apparse di
fronte allo specchio riflettente si trasformano, nello specchio della mente, in situazioni di intensità ed
esasperazione del tutto naturali. “L’inferno è là”, affermò Giacometti, e quest’inferno del volto…3
1 SAURA, ANTONIO, “La mirada cruel” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., p. 159
2 BOZAL, VALERIANO, “Antonio Saura: la metamorfosis del monstruo” in Valeriano Bozal, Pintura y
escultura españolas del siglo XX (1939-1990), op. cit., p. 416
... el monstruo deja de ser el contrario de la belleza e inferior a ella y pasa a afirmarse como otra
belleza, es decir, una forma de ver y representar el mundo, de crearlo y crearse. Mundo y sujeto de cuya
naturaleza no puede proclamarse perfección, serenidad o medida y para el que aparecer es la modalidad
adecuada de manifestarse.
3 SAURA, ANTONIO, “La mirada cruel. La crueldad sublime y lo monstruoso” in Antonio Saura, Fijeza:
ensayos, op. cit., p. 166
95
Antonio Saura, Autodafé, 1986, Antonio Saura, Autoritratto, 1960, Antonio Saura, Autoritratto 5b,
tecnica mista su cartone, 29,8 x 47,7 cm, olio su tela, 60 x 73 cm, collezione 1962, olio su tela, 60 x 73 cm,
Collezione Archivio “Antonio Saura” privata collezione privata
Il pittore di Huesca rimanda la naturale crudeltà, il male, la blasfemia e lo grotesco delle sue
opere ad una lunga tradizione presente sin dall’inizio della storia delle arti.1 L’aragonés identifica
differenti epoche e luoghi nei quali gli artisti applicano il suddetto principio dello “sguardo crudele”
sul mondo.
Crueldad ha habido mucha, especialmente cuando nos asomamos al vasto dominio de las artes
primigenias, o contemplamos cuanto se ha producido en lugares favorecidos –Venecia, Nápoles, Castilla
y Andalucía serán, quizá, los ejemplos más veraces-, cuando la teología afloja sus tenazas, o cuando, al
contrario, las aferra aún más en su presa hasta deformarla o herirla. Sátira feroz ha existido en
abundancia –la hallaremos, incluso, en ciertos dibujos del antiguo Egipto-, y caricatura grotesca desde
la más remota lejanía, siendo ambas formas motivo permanente de crueldad mientras subsista la lucidez
frente al terrorífico rostro humano o se mantenga la ceguera frente a nuestra propia y aberrante
condición. Nos queda la pasión del monstruo y la belleza de la obscenidad, aunque la fascinación que
ambas provocan, al menos en nuestra civilización, permanecerá ocultada, o cuando más sustituida, por
subterfugios morales que impedirán la franca y terrible declaración de su potencial hermosura.
Di crudeltà ce n’è stata molta, soprattutto quando ci affacciamo al vasto dominio delle arti
primigenie, o contempliamo quanto è stato prodotto in luoghi favorevoli –Venezia, Napoli, la Castiglia e
l’Andalusia saranno, forse, gli esempi più veraci-, quando la teologia allenta le sue tenaglie, o quando, al
contrario, le stringe ancor di più nella sua presa fino a deformarla o ferirla. La satira feroce è esistita in
abbondanza – la troveremo, persino, in certi disegni dell’antico Egitto-, e la caricatura grottesca sin
dalla più remota lontananza, essendo ambedue le forme motivo permanente di crudeltà fintanto sussista
la lucidità di fronte al terrificante volto umano o si mantenga la cecità di fronte alla nostra stessa e
aberrante condizione. Ci rimane la passione della mostruosità e la bellezza dell’oscenità, nonostante la
fascinazione che entrambe provocano, per lo meno nella nostra civiltà, rimarrà occulta, o per lo più
1 SAURA, ANTONIO, “La mirada cruel” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., pp. 159-160
Crueldad, pues y nomadismo visual; fenomenología plastica evidenciada en la crudeza, y no
esencialmente alteración o desconsideración de lo sagrado; blasfemia sí, pero no aquella que el dogma
cristiano especifica; erotismo, evidentemente, pero sustentado fundamentalmente en lo sexuado, y por lo
tanto intimamente unido a la destrucción; destrucción también, pero unida a la construcción de una nueva
belleza, desprendimiento de la idea de la belleza, difícilmente, pero, en todo caso, unida a conceptos en
donde lo monstruoso, lo obsceno, lo convulso y destemplado, cobran primacía sobre lo apacible, lo
estático y reconfortante. El mal verdadero, cuyo carácter positivo es inseparable de este discurso, residiría
en la perversión del lenguaje: en la crueldad interna que fuerza, violenta las formas, conduciéndolas a un
fin predestinado e irremediable; en conceptos antinómicos de destrucción-construcción de la imagen o
estructura; en la evidencia de su desnudamiento grafológico; en su necesidad de alterar, degradar,
deformar, para alcanzar, en procesos de reconstrucción azarosa, una realidad por fin poseedora de su
propia maldad, abrupta en su esencia y blasfema de su origen. La maldad así definida puede hallarse en
formas condicionadas del pasado, mostrándose con feroz evidencia en ciertos ejemplos del presente.
96
sostituita, da sotterfugi morali che impediranno la franca e terribile dichiarazione della sua potenziale
bellezza.1
Tuttavia, il pittore attribuisce diretta influenza sulla sue opere solo ad alcune di queste
manifestazioni artistiche “crudeli”, in particolar modo alla tauromachia2 a al barocco. Secondo
Saura quest’ultimo stile artistico: “sorge sporadicamente o ciclicamente nella storia e può mostrare
la sua validità anche nel presente”. L’ascendenza diretta delle opere barocche sui monstruos sauriani
la si deve al fatto che a partire dalle prime manifestazioni di questo stile artistico la rappresentazione
della mostruosità inizia ad affrancarsi da qualsiasi pretesa moralizzante o condizionamento religioso.
Nonostante ciò, secondo quanto sostiene l’artista di Huesca, la piena liberazione della mostruosità e
delle sue pulsioni sessuali e violente si ottiene solo con l’evoluzione progressiva del barocco che, a
suo dire, termina nel XX secolo.
La aparición del monstruo en el pasado estaba condicionada a una intención moralizante, pues
siendo el monstruo artístico imagen obscena y blasfemiatoria, sorprende que por primera vez en la
historia hubieran creadores que concibieron lo monstruoso como humano, o como algo bello en sí mismo,
y no como un pretexto para mostrar una lección moral. [...]
L’apparizione del mostro nel passato era condizionata ad un’intenzione moralizzante, essendo il
mostro artistico immagine oscena e blasfema, sorprende che per la prima volta nella storia ci fossero
creatori che concepissero la mostruosità come umana, o come qualcosa di bello in se e per sé, e non
come pretesto per mostrare una lezione morale. [...]3
[...] El barroco contiene en su esencia, dentro de su himno vital y proliferante... una maldad
esencial que comprende, en su perversión conceptual, la convulsión extremada de las formas y su goce en
la yuxtaposición contra natura.
[...] Será a principios del siglo XX cuando semejante retórica de la crueldad se verá despejada de
condicionamientos sociales y culturales para verterse en la evidencia de la mirada cruel... el sentido
esencialmente destructor de la modernidad que forja la nueva belleza de la crueldad y su obsesiva
perfección en la misma.
[...] Il barocco contiene nella sua essenza, dentro al suo inno vitale e proliferante... una malvagità
essenziale che comprende, nella sua perversione concettuale, la convulsione eccessiva delle forme e il
suo piacere nella giustapposizione contro natura.
1 SAURA, ANTONIO, “La mirada cruel” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., pp. 157-158
2 SAURA, ANTONIO, “La fiesta por dentro” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., p. 79
[...] La indudable crueldad de la corrida, que no debemos confundir con el placer que a algunos
proporciona, y que injustificada sería si fuese sola, se asemeja, en arte, al interés por lo monstruoso, lo
barrueco y lo soñado. Pues el monstruo, como la crueldad, dejan de serlo cuando el arte los transforma en
fenómenos de intensidad y de belleza, siendo necesidad, para algunos la más profunda y escondida, de
alcanzar tales fines. Así se me antoja que las grandes artes, entre las cuales debemos incluir la
tauromaquia, deben contar con lo cruel y lo monstruoso, ambos repugnantes en principio, pero que al ser
combinados con el sueño de la razón y el avíspero de la inteligencia, producen la imposible maravilla y el
susto de la mirada.
3 SAURA, ANTONIO, “La imagen barroca” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., p. 100
97
[...] Sarà all’inzio del XX secolo quando una simile retorica della crudeltà si vedrà liberata da
condizionamenti sociali e culturali per tradursi nell’evidenza dello sguardo crudele... il senso
essenzialmente distruttore della modernità che forgia la nuova bellezza della crudeltà e la sua ossessiva
perfezione nella stessa.1
Antonio Saura, Tauromachia, tecnica Antonio Saura, Ritratto immaginario di Goya n°3,
mista su tela, 494 x 400 cm, Collezione 1967-1968, olio su tela, 195 x 162,5 cm,
Archivio “Antonio Saura” collezione privata
Saura poi identifica due massimi esponenti di questa tendenza artistica barocca e mostruosa nella
storia: Velásquez e, soprattutto, Goya.2 Quest’ultimo riesce difatti ancor meglio del primo a liberare
la mostruosità dalla sua tradizionale vena moralistica.
[...] En el arte occidental, el monstruo, el verdadero, permanece solapado, sin poder aflorar
debido a los condicionamientos sociales e ideológicos que repercuten naturalmente en lo artístico. El
caso de la Quinta del Sordo de Goya será prácticamente único y excepcional. El monstruo humano, en
realidad, representaría la imagen arquetípica del mal hecho en él, y solamente en el siglo XX el monstruo
pictórico adquiere una validez en sí mismo no solamente como objeto del lenguaje liberador, sino
también como consecuencia del mismo. En realidad, fue Velásquez el primer pintor que pintó monstruos...
[...] Nell’arte occidentale, il mostro, quello vero, riamane occultato, senza poter affiorare a causa
dei condizionamenti sociali ed ideologici che si ripercuotono naturalmente nel fare artistico. Il caso della
Quinta del Sordo di Goya sarà praticamente unico ed eccezionale. Il mostro umano, in realtà,
1 SAURA, ANTONIO, “La mirada cruel” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., pp. 171-173
2 SAURA, ANTONIO, “La imagen barroca” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., p. 96
[...] [Parlando del barocco] La ascensionalidad gótica, condenada al hieratismo, o la agonía
romántica tendente a la disolución, quedarían enxcluidos de esta consideración, lo cual no significa que en
uno o en otro período no hayan existido –y de hecho existen- obras concebidas con un impulso barroco.
Goya, Lautréamont y Wagner, por ejemplo, podemos considerarlos con todo derecho como barrocos...
SAURA, ANTONIO, “La mirada cruel” in Antonio Saura, Fijeza: ensayos, op. cit., pp. 161-162
[...] [Parlando dell’opera di Goya rispetto ai suoi contemporanei] En sus magníficos grabados, y
especialmente en sus dibujos de aguadas, hallaremos imágenes menos anecdóticas y más ambiguas que
reflejarán la obsesión erótica, la fascinación por la violación, la complacencia en el mal y en lo
monstruoso.
[...] Las Pinturas negras no solamente son extraordinarias por constituir uno de los conjuntos más
sobrecogedores de la historia del arte, sino por haber sido uno de los pocos ejemplos, quizá el único hasta
el advenimiento del siglo XX, de una pintura hecha para sí mismo y no para los demás. [...] Es
precisamente su carácter especialísimo de inutilidad social, egoísta y personal, lo que les confiere su aura
de autenticidad liberatriz; fueron –y lo continúan siendo- libertarias ya que no fueron condicionadas por el
juicio ajeno, ni destinadas a ser juzgadas, admiradas y comprendidas...
98
rappresenterebbe l’immagine archetipa del male fatto in lui, e soltanto nel XX secolo il mostro pittorico
acquisisce una validità in sé stesso non soltanto come oggetto del linguaggio liberatore, ma anche come
conseguenza dello stesso. In realtà, fu Velásquez il primo pittore che dipinse mostri... 1
Antonio Saura, Il cane di Goya, 1997 Francisco Goya, Il cane sotterrato,
olio su tela, 250 x 200 cm, collezione 1819-1823, olio su intonaco trasferito
privata su tela, 131,5 x 79,3 cm, Museo del
Prado, Madrid
La crudeltà e la violenza delle opere sauriane è, oltre che espressione del gusto estetico personale
dell’artista, rappresentazione della brutalità condizionante un’intera epoca. L’artista non dimentica
le atrocità compiute in tutto il mondo e in Spagna nel periodo della sua infanzia e giovinezza,
avvenimenti che originano molte delle sue obsesiones artistiche.
[…] [Parlando dei primi ricordi di gioventù di Saura] … son las primeras imágenes que
permanecen desde la infancia, las de un hombre decapitado por una bomba, las de la massacre de
Guernica, de la que su padre le mostró fotos. Y luego, en el Prado, el nacimiento de la mirada del pintor,
el Perro de Goya y la Crucifixión de Velásquez. [...]
[...] ... sono le prime immagini che permangono dall’infanzia, quelle di un uomo decapitato da una
bomba, quelle del massacro di Guernica, del quale suo padre gli mostrò le fotografie. E dopo, nel Prado,
la nascita dello sguardo del pittore, il Cane di Goya e la Crocifissione di Velásquez.2
Pablo Picasso, Guernica, 1937, olio su tela, Francisco Goya, 8 maggio 1808, 1814, olio su
349 cm × 776 cm, Museo Nazionale Centro d’Arte tela, 266 × 345 cm, Museo del Prado,
“Regina Sofia”, Madrid Madrid
1 SAURA, ANTONIO, “La mirada cruel. La crueldad sublime y lo monstruoso” in Antonio Saura, Fijeza:
ensayos, op. cit., p. 165 2 GUIGON, EMMANUEL, “Los procesos imaginarios de Antonio Saura” in Antonio Saura, Crucifixiones, op.
cit., p. 41
99
Antonio Saura, El grito VII, 1959, olio Antonio Saura, 24 cabezas, 1957, tecnica mista su carta,
su tela, 194,8 x 129,7 cm, Museo Nazionale 71 x 100 cm, collezione privata
Centro d’Arte “Regina Sofia”, Madrid
La bestialità di molte opere sauriane mira a denunciare ferocemente la pari brutalità dei crimini
commessi per molti anni dal regime franchista.
La reiterazione del tema della crocifissione, soprattutto negli anni ’50 e ’60, indica l’assuefazione
da parte della società spagnola nei confronti della tortura, pratica punitiva divenuta rituale nei lunghi
decenni di dittatura.
La crucifixión se halla intimamente relacionada con España por una historia fuerte, específica,
marcada tristemente, en el siglo veinte, por la guerra civil y el franquismo. [...]
La crocifissione si trova intimamente connessa con la Spagna da una storia forte, specifica,
marcata tristemente, nel ventesimo secolo, dalla guerra civile e dal franchismo.1
Il soggetto pittorico della crocifissione è reso ancor più drammatico ed emblematico della
tirannia franchista dall’impiego del colore rosso.
Al nero e al bianco della sua tavolozza “tradizionale”, il pittore aragonese decide infatti di
aggiungere altri colori negli anni ’60. Per quanto riguarda il crocifisso, l’addizione del rosso ricorda
il sangue versato dai moltissimi peseguitati dal regime.
Antonio Saura, Crocifissione nera e rossa, 1963, Antonio Saura, Hiroshima Mon Amour, 1963,
olio su tela, 130 x 162 cm, collezione privata olio ed inchiostro su carta, collezione privata
1 SURLAPIERRE, NICOLAS, “Representando crucifixiones” in Antonio Saura, Crucifixiones, op. cit., p. 47
100
Antonio Saura, Crocifissione, 1963, Antonio Saura, Crocifissione, 1964,
olio su tela, 195 x 245 cm, collezione privata autografia a colori, 40,8 x 46 cm, collezione
privata
Antonio Saura, Crocifissione, 1962, Antonio Saura, Crocifissione, 1961,
olio su tela, 130 x 162 cm, eliografia a colori, 74,5 x 101,5 cm,
collezione privata collezione privata
Lo stravolgimento delle fattezze di molti degli esponenti della storia imperiale spagnola
(soprattutto Filippo II), le caricature dei religiosi, di Francisco Franco e dei suoi ufficiali
testimoniano ancor di più l’insofferenza di Saura nei confronti di una Spagna che, fino alla metà
degli anni ’70, era oppressa dall’azione congiunta di diversi poteri.
Hay una interpretación política conocida de estos retratos imaginarios de Felipe II y de más
personajes de la historia española. La iconografía de Antonio Saura ponía sobre el lienzo y exhibía a las
miradas de todos la verdadera condición de aquellos que, en los años cinquenta, eran considerados como
legitimadores de una situación política represiva. La dictadura había hecho del imperio el referente más
tópico de su ideología, también el más retórico y, por qué no decirlo, el más esperpéntico. La dictadura
culminaba una interpretación falsa y mitificadora de la historia española. Saura se encargó de llamar la
atención sobre lo disparatado y monstruoso de esta interpretación. Los monarcas de los que se hablaba,
el imperio del que se vanagloriaban no era sino esas criaturas monstruosas que nos contemplaban y
aterrorizaban.
C’è un’interpretazione politica conosciuta di questi ritratti immaginari di Filippo II e di più
personaggi della storia spagnola. L’iconografia di Antonio Saura poneva sulla tela e esibiva allo
sguardo di tutti la vera condizione di quelli che, negli anni cinquanta, erano considerati come
legittimatori di una situazione politica repressiva. La dittatura aveva fatto dell’impero il referente più
comune della sua ideologia, anche il più retorico e, perchè non dirlo, il più esperpéntico. La dittatura
culminava un’interpretazione falsa e idealizzata della storia spagnola. Saura si incaricò di richiamare
l’attenzione sull’assurdità e la mostruosità di quest’interpretazione. I monarchi dei quali si parlava,
101
l’impero del quale si vanagloriavano non era altro se non queste creature mostruose che ci
contemplavano e terrorizzavano.1
Antonio Saura, Il re, Antonio Saura, Filippo II, Antonio Saura, Caudillo, Antonio Saura, Prete, 1968-71, serigrafia, 1971, serigrafia, 69 x 50 cm, 1964, litografia a colori, 1959, china su carta,
69 x 50 cm, collezione collezione privata 32,6 x 38,5 cm, collezione collezione privata
privata privata
12 Libri d’autore
A partire dalla fine degli anni ’70 Valente intraprende, alla stregua di molti altri poeti del suo
tempo, numerose collaborazioni librarie con pittori, grafici e scrittori. L’avvio di queste
cooperazioni interartistiche serve al galiziano per illustrare parte delle sue poesie o raccolte poetiche
e dei suoi libri in prosa, dando loro una maggiore visibilità presso i lettori e, soprattutto,
aumentandone la significanza.
Tra le opere valentiane realizzate avvalendosi dell’apporto di altre personalità del mondo
dell’arte spiccano quelle composte con Tàpies, Chillida e Saura artisti che, come abbiamo asserito in
precedenza, nutrono un forte interesse per la grafica.
[...] A partir de los años sesenta, algunos artistas españoles... concretamente el pintor Antoni
Tàpies y el escultor Eduardo Chillida, ambos también productores de una extraordinaria obra gráfica,
comienzan a establecer interesantes diálogos interartisticos con escritores. Y es también a partir de esta
época y de este contexto cuando y dónde el poeta José Ángel Valente... sentirá la necesidad progresiva de
participar en tal tipo de empresa, como revelan, en los años setenta, Emblemas con Antonio Saura; en
los años ochenta El péndulo inmóvil con Antoni Tápies... y en los años noventa... Cántigas de alén con
Eduardo Chillida...
[...] A partire dagli anni sessanta, alcuni artisti spagnoli... concretamente il pittore Antoni Tàpies e
lo scultore Eduardo Chillida, entrambe produttori anche di una straordinaria opera grafica, cominciano
a stabilire interessanti dialoghi interartistici con degli scrittori. Ed è anche a partire da quest’epoca e da
questo contesto quando e dove il poeta José Ángel Valente, sentirà la necessità progressiva di
partecipare in questo tipo di impresa, come rivelano, negli anni settanta, Emblemas con Antonio Saura;
1 BOZAL, VALERIANO, “Temas de Antonio Saura” in Valeriano Bozal, Estudios de arte contemporáneo:
temas de arte español del siglo XX, op. cit., p. 292
102
negli anni ottanta Il pendolo immobile con Antoni Tàpies…e negli anni novanta… Cantiche dell’aldilà
con Eduardo Chillida…1
Emblemas è il libro realizzato da Saura e Valente nel 1979: esso comprende una poesia inedita
dell’orensano illustrata da 5 serigrafie (ciascuna di dimensioni 54 x 40 cm) del pittore aragonese.
Il risvolto iniziale del libro Emblemas pubblicato in 91 esemplari a Valladolid il 20 ottobre 1979
1° serigrafia 2° serigrafia 3° serigrafia 4° serigrafia 5° serigrafia
Nelle cinque serigrafie del libro sono raffigurati dei volti sfigurati che hanno una forte
somiglianza con le faccie “abissali” e “silenti” di cui abbiamo parlato e che Saura realizza su tela
proprio alla fine degli anni ’70. Inoltre, queste opere grafiche ricordano molto i cosiddetti Sudari e
cioè la lunga serie di rappresentazioni della Sacra Sindone realizzate dal pittore di Huesca a partire
dalla fine degli anni ’50.
1 CLAUDIO RODRÍGUEZ FER, “Valente en el espacio cero” in AA. VV., A palabra e a súa sombra: José Ángel
Valente, o poeta e as artes = La palabra y su sombra: José Ángel Valente, el poeta y las artes = The word
and its shadow: José Ángel Valente: the poet and the arts, [exposición organizada pola Universidade, Pazo
de Fonseca, Igraxa da Universidade, 20 xuño – 31 agosto 2003], op. cit., p. 217
103
Antonio Saura, Sudario, 1978, Antonio Saura, Sudario, 1979, Antonio Saura, Sudario, 1978,
64 x 44 cm, serigrafia a colori, olio su tela, 130 x 97 cm, olio su tela, 130 x 97 cm,
collezione privata collezione Archivio collezione Archivio
“Antonio Saura” “Antonio Saura”
Nel 1979 Saura ha già alle spalle una lunga carriera di illustratore di libri iniziata nel periodo
dell’adolescenza. Dai tredici ai diciassette anni, costretto a vivere a letto a causa della tubercolosi, il
pittore legge moltissimi libri ed inizia a creare illustrazioni di parte di questi su dei quaderni. Con il
passaggio all’età adulta l’artista aragonés diviene un vero e proprio bibliofilo, collezionista ed
illustratore irrefrenabile di innumerevoli testi.1
Per Saura illustrare un libro comporta la piena adesione da parte dell’illustratore al pensiero dello
scrittore: il grafico deve cercare di mantenere la massima fedeltà possibile nei confronti del
significato originario del testo.
A.S. [...] Mais pour repondre à ta question de façon plus précise – si la précision est possible dans
une situation aussi ambiguë – je pourrais te dire qu’illustrer un livre c’est assurément le traduire
plastiquement, c’est-à-dire le traduire dans une language esthétique qui obéit à une pensée différente,
sûrement éloignée du language littéraire. Trahir pour mieux pénétrer... ? Ce serait trop prétentieux de la
part du peintre. Simplement interpréter... ? Ce serait trop simpliste et fournirait en outre, sans aucun
doute, une mauvaise illustration. À mon avis, les mauvaises illustrations sont celles qui prétendent être
seulement interprétatives, celles qui souffrent précisément de « timidité interprétative », ou ces autres,
franchement détestables, frut du dogmatisme, de la fidelité mal comprise, de la descripción ou du
réalisme. De toute façon, la fidélité – la véritable – est seulement la conséquence de la capacité
d’imprégnation littéraire de l’illustrateur, de son admiration et de son dévouement fervent.
A. S.: Ma per rispondere alla tua domanda in modo più preciso – se la precisione è possibile in
una situazione così ambigua- io potrei dirti che illustrare un libro è sicuramente tradurlo plasticamente,
vale a dire tradurlo nel linguaggio estetico che obbedisce a un pensiero differente, sicuramente scostato
dal linguaggio letterario. Tradire per penetrare meglio…? Questo sarebbe troppo pretenzioso da parte
del pittore. Interpretare semplicemente…? Questo sarebbe troppo semplicista e fornirebbe tra l’altro,
senza alcun dubbio, una cattiva illustrazione. A mio avviso, le cattive illustrazioni sono quelle che
pretendono di essere solo interpretative, quelle che soffrono precisamente di “timidezza interpretativa”,
o quelle altre, francamente detestabili, frutto del dogmatismo, della fedeltà mal compresa, della
descrizione o del realismo. In ogni modo, la fedeltà, -quella vera- è soltanto la conseguenza della
1 COHEN, MARCEL, “El cuarto de Gregor Samsa” in Olivier Weber-Caflisch, Antonio Saura. The prints.
L’oeuvre imprimé. La obra gráfica. Catalogue raisonné, Madrid, Ministerio de Cultura, 2000, pp. 765-767,
passim
104
capacità d’assorbimento letterario dell’illustratore, della sua ammirazione e della sua fervente
devozione.1
Emblemas, assieme all’edizione francese del 1995 di Cántigas de alén, rappresenta uno dei due
libri composti assieme da Valente e Saura. Infatti le edizioni delle altre opere del galiziano aventi
illustrazioni sauriane hanno semplicemente preso “in prestito” queste ultime. I disegni sauriani di
molte creazioni valentiane si configurano pertanto quali segni dell’ammirazione per il pittore di
Huesca la cui scomparsa, nel 1998, viene omaggiata da Valente con la poesia Nubes para Antonio
Saura.
José Ángel Valente, Presentazione e memoriale José Ángel Valente, Trentasette frammenti, 1989,
per un monumento, 1970, edizione arrecante la edizione con illustrazioni sulla copertina e la sopraccoperta
riproduzione di un disegno sauriano sulla di Antonio Saura
copertina
José Ángel Valente, Cantiche dell’aldilà, 1990, José Ángel Valente, Lettura a Tenerife, 1995,
edizione con illustrazioni sulla copertina e edizione francese con la riproduzione di un
sopraccoperta di Antonio Saura disegno sauriano sul frontespizio
1 RÍOS, JULIÁN, “IV Fax à fax (aout 1994)” in Julián Ríos, Portraits d’Antonio Saura, op. cit., pp. 92-93; trad.
in italiano a c. di Giulio Bartolini
105
José Ángel Valente, Il pittore illustrato. José Ángel Valente, Cantiche dell’aldilà, 1995,
Per Antonio Saura, 1998, edizione con edizione in francese con un disegno sulla copertina
copertina arrecante un disegno sauriano ed una litografia all’interno di José Ángel Valente
Nubes para Antonio Saura
Por un instante viven
las formas.
Arden.
Se disuelven en sí.
Son nada.
La nada
en la que el mundo es súbita
fulguración
de memorias borradas.1
La cooperazione libraria che si stabilisce tra Valente e Tàpies è molto forte, come d’altronde lo è
la stima reciproca nutrita dall’uno verso l’altro.
El péndulo inmóvil, libro del 1982, rappresenta uno dei frutti più importanti di questa
collaborazione: esso consiste di due poesie manoscritte valentiane Visita a ningún lugar, sin fecha e
Variación sobre un tema barroco oltre a 3 acquaforti del pittore di Barcellona.
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Nubes para Antonio Saura” in José Ángel Valente, Obras completas: poesía y
prosa, op. cit., pp. 840-841
106
Visita a ningún lugar, sin fecha.
En la sala
hay un viejo reloj de madera semiempotrado
en el muro. Un sitio crea el reloj; el péndulo
le detiene.
Como lo divino es indiferente
a la forma, el tiempo (¿número del pensamiento?)
seña indiferente a la cantidad.
El péndulo
le detiene.
Sólo en el péndulo parado
le inscibe en verdad el ser del tiempo.
Variación sobre un tema barroco
Péndulo, cero irreal o número del tiempo
del antes y el después.
Del antes
de fué, de quién, de cuándo,
del después
de fué palabra fue nunca antepusimos.
Péndulo inmóvil.
Cero.
Tantos después envuelve ya el pasado
y tantos antes no nacidos nunca. 1
1 AA. VV., “Libros ilustrados con obra gráfica e orixinal” in VV. AA., A palabra e a súa sombra: José Ángel
Valente, o poeta e as artes = La palabra y su sombra: José Ángel Valente, el poeta y las artes = The word
and its shadow: José Ángel Valente: the poet and the arts, [exposición organizada pola Universidade, Pazo
de Fonseca, Igraxa da Universidade, 20 xuño – 31 agosto 2003], op. cit., pp. 78-81
107
Questi due componimenti poetici sono omaggi al concetto di temporalità che soprassiede a molte
delle realizzazioni del pittore di Barcellona.
Alla pari di molti artisti contemporanei il pittore vuole mostrare in molte sue creazioni come
anche l’opera d’arte sia sottoposta all’azione del tempo. Si pensi, ad esempio, alla deperibilità di
quegli assemblages su tela dove il pittore inserisce delle maglie o delle calze, oppure a quei tavoli,
divani e sacchetti assurti ad opere artistiche.
Antoni Tàpies, Graffiti, 1995, Antoni Tàpies, Né porte né finestre, Antoni Tàpies, Fardello, 1970
vernice e college su legno 1993, vernice, collage e assemblage pittura su oggetto-assemblage,
313 x 160 cm, collezione su legno, collezione privata, collezione privata
privata, Barcellona Barcellona
La collaborazione fra i due continua anche negli anni successivi dando luogo non soltanto a testi
valentiani illustrati da disegni di Tàpies, ma pure a ripubblicazioni del principale scritto teorico del
catalano, Comunicación sobre el muro, comprensive dei componimenti dedicategli da Valente.
Ciononostante, rimangono comunque più numerosi i disegni grafici e i dipinti del barcellonese
che il poeta orensano sceglie di “inserire” in particolari edizioni delle sue opere.
Dedicatoria di Antoni Tàpies a Coral e José Ángel Valente, Nostalgia del dragone e il labirinto, 1986,
José Ángel Valente edizione con litografia di Antoni Tàpies
collezione privata
108
José Ángel Valente, Interno con figure, 1987, edizione francese José Ángel Valente, Material Memoria,
con riproduzione di un disegno di Antoni Tàpies sulla copertina 1979, edizione con riproduzione di un ed una sua acquaforte all’interno disegno di Tàpies sulla copertina e con
alcune illustrazioni del pittore all’interno
José Ángel Valente, Il volo alto e leggero, José Ángel Valente, Material memoria (1979), Mandorla
1998, edizione con l’incisione Agape di Tàpies (1982) e Tre lezioni di tenebre (1985), edizioni con
sulla copertina riproduzioni di Tàpies sulla copertina e sue illustrazioni
José Ángel Valente, Il fulgore, 1987, edizione francese dell’opera Antoni Tàpies, Omaggio a Valente, 1999,
con riproduzione di un disegno di Tàpies sulla copertina e matita e olio su carta, 25 x 24 cm,
un’incisione del pittore all’interno collezione privata
Antoni Tàpies, Cartes per a la Teresa (selezione), 1971
109
A. Tàpies, J. Á. Valente e l’editore Alfonso Alegre alla Antoni Tàpies e J. Á. Valente, Comunicazione
presentazione di Comunicación sobre el muro, edizione sul muro, 2004, edizione contenente 3 saggi
La Rosa Cúbica, presso la Fondazione “Tàpies” di valentiani dedicati all’amico pittore
Barcelona nel febbraio del 1998
Abbiamo già asserito come Valente tragga spunto per la stesura di numerosi suoi componimenti,
poetici e non, dalla contemplazione di alcune tele di Tàpies.
Uno di questi è la poesia Escriptura sobre cos che prende il titolo dall’omonimo quadro del
pittore catalano. Il poeta gallego considera quest’opera espressione della libertà della materia da cui
è formata, quella a cui anche le parole “corporali” valentiane aspirano.
Una tarde de París, hacia 1987, en la galería Lelong, solo ante un cuadro de Tàpies escribí un
poema, que sería así una copia del natural, entendiendo por natural la materia contaminante,
multiplicadora, generadora del cuadro mismo. Por eso el poema se llama igual que el cuadro: Escriptura
sobre cos. Quisiera cerrar con él este texto, como homenaje cierto y testimonio de una antigua
complicidad.
Una sera di Parigi, verso il 1987, nella galleria Lelong, solo davanti ad un quadro di Tàpies scrissi
una poesia, che sarebbe stata così una copia dell’originale, intendendo per originale la materia
contaminante, moltiplicatrice, generatrice del quadro stesso. Per questo la poesia si chiama allo stesso
modo del quadro: Scrittura sul corpo. Vorrei concludere con questa poesia il testo, come omaggio certo e
testimonianza di un’antica complicità1
A Antoni Tàpies
Escriptura sobre cos
Cuerpo volcado
sobre sombra.
Toma forma de sí.
Se abre
hacia su vértice.
Tendido.
Escribo sobre cuerpo.
Número,
Fracción.
Graffito el siete..
Escribo,
escribes sobre sombra, sobre cuerpo, donde
viene la luz a requerirte oscura.
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Escriptura sobre cos” in Antoni Tàpies e José Ángel Valente, Comunicación sobre
el muro, op. cit., p. 59
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(Escriptura sobre cos)1
La poesia ed il quadro sono accomunati da un titolo che si riferisce esplicitamente al loro
contenuto: la scrittura su di un corpo.
Tuttavia, occorre tener presente come nella pittura di Tàpies i soggetti rappresentati non sono ciò
che appaiono ai sensi del loro osservatore:2 in questo caso, la suggestione di un corpo femminile ed
una strana formula scritta su di esso. Essi sono piuttosto manifestazioni del pensiero dell’autore che,
come sappiamo, non è mai di immediata comprensione.
Tutto questo rende la trasposizione poetica valentiana di Scrittura sul corpo tanto misteriosa
quanto l’originale.
El título común a cuadro y poema los describe fielmente a ambos, puesto que el poema está
también escrito sobre (encima o acerca de) un cuerpo, el constituido por el cuadro, que es tan compacto
e indivisible como el que hay dentro del cuadro mismo, y que como éste se mantiene en la sombra (del
sentido). El verso “Escribo sobre cuerpo” es también en Valente una afirmación literal. En esta
operación desdoblada de la escritura el poema no explica el cuadro, sino que en la aparente descripción
lo que hace es reproducir un proceso, en el cual se manitene intacto el misterio. Se evoca, al nombrarla
tanto como al duplicarla, toda la oscuridad del cuadro.
Il titolo comune a quadro e poesie li descrive entrambe fedelmente, dato che la poesia è anch’essa
scritta su (sopra o vicino ad esso) di un corpo, quello costituito dal quadro, que è così compatto e
indivisibile come quello che c’è dentro al quadro stesso, e come questo si mantiene nell’ombra (del
senso). Il verso “Scrivo sul corpo” è anche in Valente un’affermazione letterale. In quest’operazione
sdoppiata della scrittura la poesia non spiega il quadro, ma quello che fa nell’apparente descrizione è
riprodurre un processo, nel quale si mantiene intatto il mistero. Si evoca, al nominarla così come al
duplicarla, tutta l’oscurità del quadro. 3
1 VALENTE, JOSÉ ÁNGEL, “Escriptura sobre cos” in Antoni Tàpies e José Ángel Valente, Comunicación sobre
el muro, op. cit., p. 61 2 MONEGAL, ANTONIO, “Voces y trazos del silencio (diálogos entre las artes)” in VV. AA., A palabra e a súa
sombra: José Ángel Valente, o poeta e as artes = La palabra y su sombra: José Ángel Valente, el poeta y las
artes = The word and its shadow: José Ángel Valente: the poet and the arts, [exposición organizada pola
Universidade, Pazo de Fonseca, Igraxa da Universidade, 20 xuño – 31 agosto 2003], op. cit., pp. 212-213
A primera vista la relación entre el cuadro y su título resulta de una notable literalidad. Es
prácticamente una descripción explícita, pero que sin embargo oculta más de lo que dice. Porque no dice
más que lo que hay. En ningún momento sirve el título para desvelar el sentido del cuadro, sino que tiende
a confirmar su naturaleza enigmática. Tampoco la escritura que hay sobre el cuerpo sirve para iluminarlo.
Lo deja en la sombra, porque es ella misma sombra de escritura; formula misteriosa que no enuncia sino
su propia presencia, su propio misterio –lo que no es incompatible con la carga mágico-simbólica que se
otorgue al siete en la obra de un miembro del grupo Dau al Set-. Más que aclarar el sentido, esta
inscripción sobre el cuerpo proyecta sombra sobre sombra, hace la imagen más indecifrable de lo que
hubiera sido con la sola presencia del perfil de un cuerpo.
3 MONEGAL, ANTONIO, “Voces y trazos del silencio (diálogos entre las artes)” in VV. AA., A palabra e a súa
sombra: José Ángel Valente, o poeta e as artes = La palabra y su sombra: José Ángel Valente, el poeta y las
artes = The word and its shadow: José Ángel Valente: the poet and the arts, [exposición organizada pola
Universidade, Pazo de Fonseca, Igraxa da Universidade, 20 xuño – 31 agosto 2003], op. cit., ibd.
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Antoni Tàpies, Scrittura sul corpo, 1984, J. Á. Valente e A. Tàpies in posa durante il loro incontro
vernice e matita su carta incollata su tela, barcellonese del 1995
72 x 104 cm, collezione privata
La principale delle “imprese” librarie che vedono coinvolti Valente e Chillida è la realizzazione
dell’edizione del 1996 di Cantiche dell’aldilà. Quest’ultima consta dell’omonima raccolta poetica
valentiana in versione castigliana e di quattro acquetinte realizzate dallo scultore ed incisore basco.
Juan Conde Roa, Eduardo Chillida, Xerardo Estévez, Manuel Fraga, Jesús Pérez Varela, José Ángel Valente
e Claudio Rodríguez Fer alla presentazione dell’edizione del libro Cántigas de alén illustrata da E. Chillida,
Santiago de Compostela, 1996
Le incisioni chillidiane “supportano” la tensione al silenzio e alla dissoluzione dei significati
delle poesie di questa raccolta originariamente scritta in gallego. Le parole poetiche di Cantiche
dell’aldilà alla stregua dei disegni del basco che le illustrano, sono in bilico fra il rappresentare
determinati significati e tacerne altri. Esse simboleggiano l’indecibilità, il vuoto, il nulla ossia
concetti dei quali abbiamo mostrato la costante presenza nell’opera di Valente e Chilllida.1
1 LLODRÁ, JOAN MIQUEL, “Las obras maestras” in Llodrá, Joan Miquel, op. cit., p. 126
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Se l’ammirazione di Valente per Chillida si manifesta nella realizzazione di saggi come Chillida
o la transparencia e Rumor de límites, quella dello scultore donostiarra per il galiziano si esplicita
in una serie di opere grafiche intitolata Alrededor de Valente.
Eduardo Chillida, Attorno a Valente I, 1995, Eduardo Chillida, Attorno a Valente II, 1995,
Acquaforte (acquatinta) con rilievo, Acquaforte (acquatinta), Galleria Dorothea
Galleria Dorothea Van der Koelen, Mainz Van der Koelen, Mainz
José Ángel Valente, Lettura di Paul Celan: frammenti, 1993,
edizione con riproduzioni di disegni di Chillida all’interno
e di Attorno a Valente II sulla copertina
13 Conclusioni
Questo testo ha dimostrato come vi siano molteplici affinità tra Valente, da una parte, e Tàpies,
Chillida e Saura, dall’altra.
Il lettore attento avrà notato che sono state condotte analisi mirate dei temi oggetto della
trattazione: esse sono volte a dimostrare la peculiarità dei rapporti tra il gallego e gli altri artisti. Ciò
non esclude quindi che tematiche di cui abbiamo parlato solo in riferimento ad alcune di queste
personalità riguardino anche le altre.
La condivisione di determinati interessi da parte di Valente e degli altri artisti analizzati non
deriva da perfette corrispondenze di pensiero o di opere ma piuttosto da una profonda sintonia
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poetica grazie alla quale le riflessioni sull’arte e le opere di Tàpies, Chillida e Saura si sono,
direttamente o indirettamente, “intrecciate” con quelle di Valente.
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