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Intervento di Sergio D’Elia nell’ambito del convegno: “ABOLIRE IL CARCERE: UN’UTOPIA CONCRETA” Organizzato a Milano il 4 aprile 1995 dall’allora consigliere regionale Giorgio Inzani (Gruppo Antiproibizionista in Regione Lombardia - Associazione per l’iniziativa radicale e democratica “Enzo Tortora”) dal titolo: Allegato agli atti di quel convegno, che furono pubblicati come supplemento a “Notizie Radicali” (n° 3 del 1997), fu pubblicato un saggio abolizionista di Vincenzo Guagliardo: “DEI DOLORI E DELLE PENE”. Sergio D’Elia Sono convinto che le parole di Vincenzo Andraus siano la miglior risposta alla lettera bella, terribile, disperante di Mario Tuti, perché raccontano la storia di una possibile alternativa al carcere e alla coazione, che il carcere induce in chi vi abita, soprattutto in coloro che ci abitano nella prospettiva di rimanerci per tutta la vita. Sono convinto che Andraus rappresenti con il suo Collettivo Verde un’alternativa, come dicevo prima, che però oggi nel circuito carcerario italiano non è vista di buon occhio proprio perché costituisce un’alternativa a quel rapporto amico-nemico che ha governato il carcere per un certo periodo, eccetto poi durante la gestione di Niccolò Amato. In cui questa contrapposizione è stata superata nei termini del carcere della speranza descritti dallo stesso Amato. La posizione di Andraus e del Collettivo Verde, quel tipo di esperienza è assolutamente minoritario, noi lo sappiamo, proprio perché alcuni meccanismi devono essere ancora quelli dell’emergenza per cui lo stato può governare la malavita – si diceva una volta “il governo della malavita” – soltanto se dall’altra parte c’è un’emergenza: prima quella del terrorismo, ora quella della mafia, rispetto alla quale poi giustificare tutte le proprie specialità, dalle leggi speciali alle carceri speciali, ai tribunali speciali e così via. Da questo puto di vista è assolutamente ingiusta la posizione di Mario Tuti, rispetto per esempio a una fase della vita carceraria organizzata in termini politici, quale è stata per esempio la dissociazione dal terrorismo. Ho usufruito della legge sulla dissociazione, evitando però di fare opera di mistificazione, in questo senso credo che non vada concessa, meno che mai a Mario Tuti, anche se è un ergastolano e quindi potrebbe avere tutte le attenuanti e le considerazioni possibili. Io mi sono assunto le mie responsabilità, anche penali, in base ad un giudizio politico che ho dato sulla mia esperienza, rispetto alla quale, se abiura c’è stata, ha riguardato la violenza come metodo di lotta politica, non le nostre idee di liberazione di giustizia, che sono rimaste tali nel tempo. Se invece Mario Tuti permane ancora in questa sua disperante condizione ancora legato alla sua precedente idea del mondo, dei rapporti interpersonali e nei confronti delle istituzioni, se rimane ancora legato al suo fascismo, verrà comunque considerato non come il “mostro” Mario Tuti, ma come uno che si assume la responsabilità di avere idee di quel genere. Credo che se i Radicali abbiano avuto un merito in questo paese è proprio quello di evitare che sui colpevoli, sui rei dei fatti gravi cadessero le mostruosità e l’infamia del reato. Se c’è un aspetto che Marco Pannella ha sempre voluto distinguere, fino ad arrivare agli ultimi episodi di tangentopoli, è che la condanna del reato non deve equivalere mai alla condanna del colpevole, del reo, alla condanna morale. Questo moralismo, invece, rimane insieme al fascismo di Mario Tuti. Credo che i Radicali, comunque, indipendentemente dalle sue idee, continueranno il progetto di salvargli la vita. Ricordo Emilio Vesce, Adelaide Aglietta, che andarono a Porto Azzurro quando Mario Tuti tentò l’evasione. Quello di Tuti fu un tentativo di far evadere dall’orizzonte di come è amministrata la giustizia nei penitenziari del nostro paese. Quell’esperienza sotto Niccolò Amato che, ripeto, ormai si è chiusa. Quell’evasione rappresentò proprio una mina, una bomba nei confronti di quel tipo di esperienza, e fu grazie ad Adelaide Aglietta e ad Emilio Vesce se non finì in tragedia. Sarebbe finita in tragedia non solo la storia di ario Tuti, ma anche quella d moltissimi detenuti del nostro paese.

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L’unica osservazione espressa nella lettera di Tuti che non condivido, è il giudizio sui convegni sulle carceri, sull’abolizionismo, e credo che Giorgio Inzani sia il bersaglio sbagliato da questo punto di vista. Inzani ha organizzato questo convegno alla fine di una legislatura nel Consiglio regionale della Lombardia, in cui ha dedicato tutti suoi giorni alle carceri, tant’è che Pannella lo criticava proprio per questo. E’ entrato nelle carceri con un’attenzione nei confronti dei problemi dei detenuti che va ben oltre la retorica dei convegni, ed ha fatto degli opuscoli che sono veri e propri manuali di sopravvivenza – ne sono usciti 3, non so se un altro è in preparazione. Non è fuori luogo, quindi, che Inzani abbia deciso di fare questo convegno alla fine della legislatura in Regione. In questo mio intervento vorrei partire proprio da un evento di attualità che avrà ripercussioni sul nostro tempo e sulla società in cui viviamo. Mi riferisco all’enciclica di Giovanni Paolo II presentata in questi giorni, che sui temi del “delitto e del castigo” concentra una notevole attenzione. “Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise”: con questo passo della Genesi si apre il primo capitolo dell’Evangelium Vitae. La vicenda di Caino e Abele scorre nelle pagine di tutta l’enciclica, in cui troviamo espressa, credo nella maniera più esemplare una delle due concezioni classiche dominanti della pena, cioè quella espiativa-riabilitativa propria del nostro paese, ma anche di tutti i paesi di cultura cattolica in cui la Chiesa continua ad avere grande influenza. L’altra concezione, lo sappiamo, è quella retributiva, propria di una cultura, quella anglosassone, in cui significativamente si parla non di colpa, ma di danno, e rispetto alle conseguenze del delitto al danno segue il risarcimento, e mai l’espiazione. Nell’ ”Evangelium Vitae” c’è un passo che lo esprime in modo esemplare, in cui si dice che la pena che la società infligge ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa. La pubblica autorità deve farsi indice della violazione dei diritti personali e sociali, attraverso l’imposizione al reo di un’adeguata espiazione del crimine quale condizione per essere riammesso all’esercizio della propria libertà. In tal modo l’autorità ottiene anche il risultato di difendere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone, non senza offrire al reo stesso uno stimolo e un aiuto a correggersi e a redimersi. L’enciclica offre anche altri spunti interessanti, credo piccola, ma nello stesso tempo molto significativa, che è passata inosservata nei resoconti fatti dai giornali in questi giorni. “Il Signore pese su Caino un segno affinché chiunque o incontrasse non lo uccidesse”: questo passo della Genesi è così tradotto ella versione ufficiale della Bibbia, ma nell’Evangelium Vitae lo stesso passo è tradotto in maniera diversa. “Si dice che il Signore impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato”. C’è una traduzione che noi di “Nessuno tocchi Caino”, l‘organizzazione di cui sono segretario, abbiamo sempre rivendicato, abbiamo sempre rivendicato e direttamente proposto all’attenzione. C’è un carteggio che abbiamo pubblicato nell’ultimo numero di Nessuno tocchi Caino e tramite Famiglia Cristiana e monsignor Ravasi, che è il massimo biblista, traduttore ufficiale della Bibbia, in cui noi diciamo: “Non toccate”, confortati in questo senso da una traduzione fatta direttamente dall’ebraico dallo scrittore Erri de Luca. Dicevamo: quel passo non si traduce ”Non lo uccidesse”, ma “Non lo colpisse”; in questo senso noi traiamo la nostra denominazione di associazione Nessuno tocchi Caino, perché ci hanno dato ragione nella risposta e l’abbiamo pubblicata prima dell’uscita dell’Evangelium Vitae sul nostro giornale. Noi diciamo “Nessuno tocchi Caino” per dare il senso ancora più forte di un NO, che era sicuramente nella Bibbia, alla pena di morte, ma anche il senso di una giustizia tollerante e nello stesso tempo certa, comunque mai vendicativa, di una giustizia mite e nello stesso tempo giusta, che persegua la condanna del reato, mai però l’esecrazione del colpevole e del reo: una giustizia che (in questo senso abbiamo preferito “Nessuno tocchi Caino” a nessuno lo uccida) possa fare a meno anche della condanna a vita, ma soprattutto di quella pena di infamia che apparteneva al medioevo, ma che secondo me vive ancora nel nostro paese, inedita a partire da Tangentopoli, attraverso la carcerazione preventiva o un avviso di garanzia, per poi arrivare a una condanna. Nell’Evangelium Vitae si dice: “Impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato”, poi si commenta: “gli dà dunque un contrassegno che ha lo scopo non di esecrazione degli altri uomini, ma di proteggerlo e difenderlo”. Neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. Dicevo prima di due concezioni della pena entrambe, secondo me, in crisi.

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Riguardo la concezione retributiva, perché considerare il carcere nei termini di risarcimento di un danno arrecato e calcolato su 20 - 30 anni, sulla pena dell’ergastolo? Ciò non tiene conto della perdita di senso, della misura che il tempo e l lavoro hanno subito nella società in cui viviamo, definita società dell’informazione. I 10 anni di carcere di 50anni fa non corrispondono ai 10 anni di oggi, alle libertà, alle merci, alle conoscenze, ai rapporti sociali di cui allora un individuo in 10 anni poteva godere o essere privato. La velocità delle informazioni e dei mezzi di comunicazione del nostro tempo fanno coincidere oggi 10 anni a un complesso di beni infinitamente maggiori. In crisi è anche la concezione espiativa – riabilitativa del carcere. Credo che il carcere non riesca ad assolvere alla funzione di rieducazione o di socializzazione che gli ordinamenti gli assegnano, perché i luoghi e i tempi della detenzione sono la migliore scuola del delitto e il sistema discrezionale di afflizioni e di premi, di scambio cioè tra buona condotta e le misure alternative al carcere, inducono i detenuti a fare di tutto per uscire quando sono in carcere e per rientrarvi quando sono fuori. Per questo sono convinto che occorra arrivare all’abolizionismo, su cui ci sono molte perplessità, lo si crede un’utopia ma, come dice il titolo di questo convegno “Un’utopia concreta”, ci possono essere esemplificazioni pratiche sull’abolizionismo. Occorre partire da quello che dicono gli abolizionisti, vale a dire da una visione minimalista della repressione penale, cioè un controllo repressivo che si applica ai soli comportamenti che costituiscono un reale pericolo per la società e a proposito dei quali tutti gli altri controlli e strumenti si siano rivelati inefficaci. Questo è il principio su cui si fonda l’abolizionismo. Innanzitutto credo occorra sottrarre al diritto penale tutta quella serie di crimini senza vittime e di comportamenti delittuosi che non costituiscono un torto reale verso il gruppo sociale. Dovremmo impegnarci in una riforma davvero radicale del diritto penale, così come la propongono gli abolizionisti, cioè togliere allo Stato innanzitutto il suo ruolo di supplenza e terzietà, vale a dire di presa a carico di tanti conflitti, di interposizione tra la vittima e il suo presunto aggressore, per ritornare invece a soluzioni che definisco più conviviali e solidali, in un certo senso comunitarie. Mi riferisco ad una serie di riparazioni, di restrizioni, di risarcimenti, di attività di pubblica utilità, nel caso per esempio di interesse pubblico direttamente toccato, che si rivelano convenienti non soltanto a livello di risorse dello Stato e degli individui, ma anche confortanti per le parti in causa, le quali in questo modo non si sentirebbero più estranee in processi che li riguardano. Penso che ognuno di noi ragioni in questi termini: se mi rubano la macchina il mio interesse è quello di recuperarla oppure di essere risarcito, non mi importa davvero nulla della intermediazione astratta dello Stato, del moralismo della sanzione penale. Abbiamo la polizia che arresta il colpevole, poi c’è l’istruzione del processo, il giudice penale che condanna il colpevole, la detenzione in carcere per anni, poi il giudice di sorveglianza che interviene e decide se concedere o meno i benefici, i giudice civile che obbliga a risarcire, tutto questo per il furto di un’auto, uno spreco, secondo me, quando per reati come questi tutto potrebbe risolversi in un rapporto diretto tra le parti ferma restando, ovviamente, l’azione di polizia e il ricorso al giudice civile in caso di disaccordo tra le parti. Dicevo, l’abolizionismo questa utopia, ma ci sono cose concrete che si possono realizzare subito. Faccio alcune proposte per quanti utilizzeranno poi gli atti di questo convegno. Parte di esse sono già state riprese per una relazione, per un rapporto del Parlamento Europeo, che si proponeva di approvare una risoluzione su una Carta Sociale dei Detenuti in Europa. Intanto possiamo pensare a un’ampia riforma del sistema sanzionatorio e penitenziario che configuri una vasta gamma di soluzioni personalizzate, purché siano di tipo processuale e non di tipo penale, penitenziario ed extra penitenziario. Credo che la gravità del reato e la pericolosità sociale dell’imputato e del condannato debbano essere i criteri di giudizio sul se, sul quantum, sulle modalità di esecuzione della pena detentiva, sull’avvio dell’azione penale. Vanno affermate la certezza del diritto, la certezza della pena, ma anche la certezza dell’alternativa alla pena. Per fare ciò occorre superare il sistema attuale e agire innanzitutto sul piano del processo e del giudizio, non tanto su quello dell’esecuzione della pena e quindi quello del giudizio di sorveglianza, della magistratura di sorveglianza. Credo che questo sia la garanzia più efficace nei confronti del pericolo della recidiva, ma anche della giustizia penale. Su questo piano possiamo sperimentare e innovare ampiamente. Configuro tre tipi di gravità del reato, rispetto alle quali si possono trovare soluzioni diverse.

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Per i reati meno gravi e per i condannati meno pericolosi il giudice del processo, quindi non il magistrato di sorveglianza, potrebbe stabilire direttamente una sanzione alternativa al carcere o una misura alternativa per un periodo di prova nei casi in cui si rinunci per esempio o si sospenda l’azione penale. Ci sono alcuni ordinamenti in Europa che prevedono la sospensione dell’azione penale, non della pena, quindi del procedere, addirittura scegliendo tra tutta quella congerie di soluzioni quali pene supplementari, pene accessorie. Intendo la interdizione dai pubblici uffici, ma non per una misura moralistica e controproducente. Si preferisce avere appunto cittadini che non esercitano il diritto fondamentale, che è anche quello della stessa cittadinanza, quello di poter eleggere i propri rappresentanti. La libertà vigilata, il divieto di soggiorno, l’espulsione di uno straniero da uno Stato, la liberazione condizionale, cioè l’affidamento in prova ad un servizio sociale, il lavoro di pubblica utilità, la detenzione domiciliare, la semilibertà, il lavoro esterno, sono tutte misure che ora esistono e cui, a parer mio, il giudice de processo potrebbe direttamente ricorrere invece del carcere. Nel caso dovesse verificarsi una violazione di una di queste misure, potrebbe scattare una misura più restrittiva di quelle che comunque esistono. Poi ci sono i reati più gravi e i condannati più pericolosi, per i quali si poterebbe prevedere un sistema di pene non superiore ai 10-15 anni, che è la media delle pene nel continente europeo, per le quali si può prevedere l’esecuzione dal primo all’ultimo giorno, quindi la certezza della dell’esecuzione della pena, salvo mantenere alcuni istituti, che vanno comunque preservati, come la grazia presidenziale, la scarcerazione per motivi di salute, ecc. Ci sono poi i reati di non particolare gravità o condannati non particolarmente pericolosi, per i quali sarebbe possibile adottare un sistema misto, cioè prevedere in sentenza una pena detentiva di un certo periodo, alla fine del quale passare automaticamente, quindi senza l’intervento della discrezionalità del magistrato di sorveglianza, a una misura alternativa, salvo casi eccezionali che si possono comunque prevedere, di gravi infrazioni c0ommesse durante il primo periodo di esecuzione della pena, oppure dopo il periodo minimo di pena detentiva determinato dalla sentenza. In alcuni ordinamenti c’è un esame a scadenza fissa che dà la possibilità di accedere alla “probation”, si dice nel sistema anglosassone, cioè alla liberazione in prova. Dicevo che la Commissione per le libertà pubbliche e il Parlamento Europeo hanno fatto un tentativo nella scorsa legislatura, un documento importante che raccoglieva buona parte delle idee e delle proposte che ho illustrato in questo momento. In una prossima legislatura credo che questa proposta di risoluzione sarà fatta. In Europa abbiamo alcuni massimali di pena che variano dai 10 ai 20 anni, in alcuni paesi della Comunità Europea c’è l’ergastolo, in altri no, in alcuni paesi le pene accessorie sono inesistenti se non come sanzioni autonome, i altre c’è la condizionale a metà pena, in tutti ci sono comunque norme sul trasferimento, sull’espatrio dei detenuti e misure di sicurezza che impediscono la libera circolazione. Insomma, c’è una giungla di normative alle quali va posto rimedio e occorre avere tra gli obiettivi anche quello di superare il sistema, la differenziazione caotica delle normative, dei vari processi penali e penitenziari esistenti a livello comunitario e mirare ed un’armonizzazione delle norme nei paesi della Comunità Europea, uniformandole, lo auspichiamo, al grado più alto di umanità e di civiltà giuridica.