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Zona 508 Trimestrale D

agli Istituti di pena Bresciani—

Autorizzazione del Tribunale di B

rescia n.25/2007 del 21 giugno 2007

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Autorizzazione del Tribunale di Brescia n.25/2007 del

21 Giugno 2007.

Direttore responsabile: Marco Toresini

Editore: Act

(Associazione Carcere e Territorio) Via Spalto S. Marco, 19—Brescia

Redazione amministrativa: c/o Act

Via Spalto S. Marco 19—Brescia

Tipografia: Grafiche Cola Sr. Via Rosmini, 12/b

23900 Lecco

Redazione:

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Francesco, Marco, Vincenzo, Angelo, Flavio, Jawab,

Enrico, Vito, Mario, Fabrizio, Massimiliano, Eddy, Driton , Fabio, Massimino, Emiliano , Redouane, Annamaria, Omar,

Bianca, Mariapaola, Alessandro, Piova, Laura, Giuseppe, Cesare,

Daniela, Laura, Camilla, Roberta, Alessandra, Francesca,

Marta, Andrea

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Editoriale 3

Speciale: i Vizi & le Passioni

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“La grotta incantata” Fiaba per bambini

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Aspettando il Natale 22

Rubrica musicale 24

Concorso artistico letterario “Palla al Piede”

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Ricetta 32

Oroscopo 34

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Carceri, le cose che non t'aspetti...

Mentre sto scrivendo queste righe nel carcere di Canton Mombello sta accadendo qualcosa che non succedeva da anni: si sta cercando di restituire vivibilità ad un penitenziario nel mirino della Giu-stizia europea per le condizioni di sovraffollamento dei suoi o-spiti; si sta vivendo l'ennesima tappa di un percorse per restitu-ire dignità ad una struttura che, ad un secolo esatto dalla sua costruzione, mostra tutti i suoi limiti di umanità e di effica-cia. Quando leggerete queste righe, se i programmi della vigilia saran-no rispettati, Canton Mombello, il carcere additato come il più sovraffollato d'Italia, potrebbe tornare, per la prima volta dopo decenni, ad una "densità abitativa" sen non proprio tollerabile, almeno accettabile. Un dato che avrebbe del rivoluzionario se non fosse il frutto di uno sforzo complesso che parte dal far fruttare al massimo gli spiragli di miglioramento che esistono anche nelle situazione più irrecuperabili (le celle aperte nel carcere di via Spalto San Marco hanno ridato un insperato slancio di vivibilità alle sezioni) e approda al grande sogno di avere un nuovo carcere per Brescia , tema che in questi mesi ha tenuto banco sulle crona-che dei giornali. Il tempo dirà se i progetti del ministero trove-ranno luoghi e risorse per diventare realtà, intanto c'è chi ha lavorato per alzare l'asticella della vivibilità nel maggior car-cere bresciano, svuotando almeno un po' celle stipate e letti a castello che arrivano fino al soffitto. Piccoli segni di speranza per un carcere diverso, piccoli passi su una strada che ogni volta è fatta di nuovi traguardi. Parole di un dialogo che è solo iniziato. Parole come quelle che alcuni compo-nenti di questa redazione hanno scritto al ministro della Giusti-zia Anna Maria Cancellieri alla vigilia della sua visita a Brescia e dell'annunciata visita (poi saltata all'ultimo minuto) al carce-re di Canton Mombello. Una lettera che non era tanto una rivendi-cazione, ma una garbata richiesta per avere quegli strumenti che garantiscano un futuro, che possano prospettare un "poi" oltre il fine pena. Una lettera aperta che ha voluto superare, volutamente, i facili slogan legati all'amnistia e all'indulto per condividere un tema profondo come quello del carcere come luogo soprattutto rieducativo. Il segno che non sta cambiato solo l'approccio delle istituzioni nei confronti del carcere, ma anche quello dei carcerati verso chi sta fuori. Passi avanti che fanno ben sperare. Riflessioni, come quelle contenute in questo numero di Zona 508, che raccontano di tempi più maturi per parlare del carcere e dei suoi problemi.

Marco Toresini

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Io carcerato

Sono diventato mendicante dell’esistenza che cammina nel cerchio buio dell’incertezza. Poche persone capiscono cosa vuol dire perdere la propria espressione, mutare il proprio sguardo. Interrogarsi sull’inizio e la fine che comprende tutte le esistenze, quelle vissute, quelle mancate, quelle desiderate e quelle perse. Il sentirmi estraneo a me stesso fa sì che aumenti l’inquietudine che mi rende schiavo dei sogni. Vincenzo B.

Una persona speciale

Mai avrei creduto che in carcere avrei trovato una vera amica. Fin dai miei primi giorni di carcerazione lei mi è stata vicina e come per magia l’attrazione è stata reciproca. Subito c’è stato uno scambio di comunicazione anche se a volte mi rimproverava con mol-ta severità e ciò mi infastidiva molto, così cercavo di evitarla ma senza riuscirci. Con il passare del tempo ho imparato ad apprezzare la sua personalità, ma soprattutto la sincerità che per me è necessaria per il rispetto reciproco. Abbiamo condiviso gioie e dolori, superato momenti molto difficili, è stata una guida spe-ciale. Spesso ha preso le mie difese come una sorella maggiore: quella che mi è sempre mancata tanto, nonostante io ne abbia una. Mi ha insegnato a volermi bene, a farmi apprezzare la mia fragilità e non averne più paura. Ogni mattina era la prima persona che mi cercava, ci preparavamo il caffè insieme e la se-ra, prima della chiusura della cella, un forte abbraccio mi rassicurava. La settima scorsa è arrivata per lei la tanto attesa camera di consiglio, la quale non poteva che avere esito positivo, nonostante lei fino all’ultimo fosse incredula e pessimista. Sabato l’assistente le comunica che è libera. Una fitta al centro del petto, un forte dolore

mi aggredisce ed il mio pensiero è stato: “ Ora cosa farò senza di lei?”. Non ho potuto trattenere le lacrime. Mi hanno lasciato accompagnarla fino in fondo alle sca-le, l’ho abbracciata chiedendole di non la-sciarmi sola, di rimanere in contatto con me. Mi manca tanto, il vuoto è grande, tutta la sezione è cambiata. Lei era un punto di riferi-mento per tutte e spesso la ricordiamo riden-do per i tanti momenti di allegria passati in-sieme. Sono però certa che sarà una persona che farà sempre parte della mia vita futura. Voglio ringraziarti cara Flo per avermi sup-portato anche nei momenti più bui e voglio augurarti di tornare alla tua vita nella norma-lità al più presto possibile, perché non è così scontato riappropriarsi della propria libertà. Ti voglio bene. Bi 7

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Il minorile ai miei tempi

Ricordo quando entrai, negli anni '70, da minorenne spensierato e con ancora la voglia di giocare ai cowboys e indiani. Ben presto ti accorgevi di essere in un mondo quasi adulto. Ora, non so come sia il minorile, ma ai miei tempi c'era un'educazione molto rigida. Quando commettevi qualcosa che non andava bene agli educatori erano puni-zioni molto severe e ti isolavano da tutti gli altri. Non vi erano delle strutture dove il singolo poteva applicarsi. Per esempio, im-parare un lavoro. L'unica cosa che imparavi era avversione nei confronti delle istituzioni. Maturavi cattiveria, era una scuola di malavita che ti porti dentro per sempre. Il minorile ti convinceva che quello che subivi era conseguenza di quello che ave-vi commesso. Il minorile, ai miei tempi, era luogo di sofferenza dove nessuno ti dava modo di reinserirti, come ti era stato promesso e così diventi. un brutto anatroccolo.

Franco

Gradevole compagnia notturna

Tutte le notti, verso le 3, 3.30 ricevo visite dai miei a-mici colombi. Si presentano davanti alla mia cella. Tra quelli che vengono a trovarmi ce n'è uno, il mio prefe-

rito. L'ho chiamato Libero, ha occhi freddi, lucidi, li muove con astuto languore, aspettando la mollica di pa-

ne che do loro di nascosto, per via di una maldicenza (Portano malattie, sarà vero?!?)

Vincenzo

Appena entrato in prigione…

Appena entrato in prigione ti assale un indicibile stanchezza, tremenda tensione d'animo. Nonostante gli sforzi violenti, ad ogni istante falliti, provi sempre sgomento per questa esperienza. Ti trovi confuso, ti viene da piangere, ma non piangi per non farti vedere debo-le. Ma il pianto fa bene a lenire la grande tensione e disperazione che perderà metà della sua forza… Vincenzo

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Mi sveglio in prigione, ascolto il silenzio, i miei sensi si sono fatti più sottili, più affilati, più eser-citati, il mio occhio si accontenta di ciò che c’è perché ha imparato a vedere. Il mio cuore mi ap-partiene più di ieri, mi parla con maggior ric-chezza, la mia nostalgia lo inebria, mi dipinge la vita di questo momento, a colori, ogni colore è sentimento. Quando sei triste ascolta il silenzio, il silenzio mormora se si ascolta attentamente, lui si svela e ti spiega la sua essenza, il suo significato, vivere

non è facile, vivere non è difficile, quando riuscirai a capire questo i tuoi lunghi pensieri saranno più quieti. Sono disteso sul mio letto, con lo sguardo nel vuoto, osservo il filo di fumo del-la sigaretta, silenzioso forma delle nuvolette disordinatamente, escono dalla fi-nestra, se ne vanno in alto, lassù deve spirare un vento che qui non si fa sentire: libero.

Vincenzo

L'ipocrisia

Ho molto riflettuto sul caso Priebke e alle avversità riguardo il suo funerale.

E mi chiedo: "Ma perché tanta ipocrisia da parte dei mezzi di comunicazione?

Ma perché negargli ora una sepoltura, quando l'avevate libero che passeggiava

per il quartiere, non prendendo provvedimenti e non curandovi di quello che

aveva commesso durante la guerra? Quanti dittatori, macchiatisi di eccidi nei

confronti dei propri cittadini, hanno avuto un funerale. Perché viene negato a

lui, che essendo stato un

persecutore e un crimina-

le di guerra, ha pur diritto

ad una sepoltura?".

Franco

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LE INFERMIERE

Vorrei replicare democraticamente all'articolo apparso sul numero di agosto 2013 di Zona508 al titolo “l'infermeria del carcere”. E' troppo complesso spiegare le difficoltà che si hanno quando ti mancano le risorse e il sistema ti taglia i fondi e di conseguenza sia i preposti sia noi detenuti ci dobbiamo adeguare a quello che passa il “convento”. Ecco, è quello che succede a chi lavora presso l'infermeria del carcere di Brescia, anzi la mia esperienza in altri carceri è davvero più drammatica. Non condivido pienamente l'ironia del testo dell'articolo che ha come fine la critica invece di un confronto costruttivo. Comunque sia, io voglio testimoniare l'opera delle nostre infermiere che, oltre a essere carine, sempre sorridenti e simpatiche, in certe situazioni riescono a scaldarti il cuore, trasformando queste mura grigie piene di testimonianze sofferenti, in mura cordiali ed armoniose, anche se solo per pochi attimi. Ognuna a suo modo ti accudisce come può, ti chiedono come stai e scatta il sorriso. Ma ricordiamoci che sono pronte a tirar fuori gli artigli se tiri la corda ed il loro comportamento diventerebbe in quel caso non di attacco ma casomai di difesa. Per cui ricordiamoci del detto “è meglio prevenire che curare”. Curiosi diventiamo noi detenuti ogni qualvolta passano le infermiere e lasciano quella sublime scia di profumo che ci proietta inevitabilmente a lieti vissuti e ci dona uno spicchio di libertà. Ricordiamoci, amici di sventura, che se usiamo modo cordiali e innanzitutto di rispetto, sapremo meritare le loro gentilezze, le loro attenzioni e, siamo obiettivi, non tutti noi la meritiamo. Concludo che, per colpa di qualcuno, a volte non ci danno retta … per chi scambia l'infermeria per la “saletta” (luogo dove si socializza tra detenuti)!! E' una verità spigolosa, ma è la verità!! Mariolino

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Lo spazio

Cosa è lo spazio per me? Lo spazio è un diritto di noi uomini...senza lo spazio dovuto vivi male. Anche gli animali hanno diritto al loro. C'è lo spazio di rispetto della persona che hai vicino, che io definisco “spazio materiale e visivo”. Poi c'è lo spazio che possiamo dire “praticato” in riferimento ad un'altra persona che serve per renderla più autonoma; è lo spazio che questa ha a disposizione per capire. C'è uno spazio, ad esempio, fuori da noi come quella della ricerca e della sperimentazione scientifica, come nel caso delle cellule staminali dei bambini con la patologia della AMS (atrofia muscolare spinale tipo 1). Si potrebbe dare spazio ad una speranza di un bambino o di un genitore. Aprendo la sperimentazione scientifica si concederebbe a questi bambini di poter godere dello spazio aperto, come tutti gli altri, per giocare, correre e divertirsi. Potrei andare avanti con tanti altri esempi ma mi fermo qui. Franco

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Carissimo Vescovo Luciano, bentornato tra noi, in questo luogo di sofferenza, dove l'unico conforto è la speranza condivisa e sostenuta dall'affetto dei nostri familiari, alcuni dei quali sono oggi qui presenti Tutta la Chiesa sta celebrando l'"Anno della Fede" proclamato da Benedetto XVI, per ri-cordare l'inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, che fu aperto dal Beato Papa Giovan-ni XXIII e concluso dal nostro papa bresciano Paolo VI. È in tale contesto che abbiamo desiderato questa celebrazione da Lei presieduta: i Vescovi riuniti in Concilio hanno definito la famiglia cristiana "Chiesa domestica", cioè luogo pri-vilegiato dell'incontro con Dio e della trasmissione del dono della fede cristiana, con la te-stimonianza dell'amore e l'annuncio del perdono e della salvezza tra le mura domestiche. Questo "Anno della fede" è occasione e tempo favorevole per un vero cambiamento e un cammino di conversione anche da parte di tante pecorelle smarrite, disorientate, confuse che -mi permetto di dirlo- con l'arrivo di un luminoso e nuovo "raggio di sole" di Papa Francesco, hanno come guida e riferimento un ulteriore trascinatore, testimone genuino, umile pastore e servo dell'intera comunità cristiano-cattolica e non solo. Grandioso e originale il suo rifiuto di essere considerato un “impiegato della Chiesa”. Riflettiamo sui suoi inviti ad essere figli gioiosi di una Chiesa viva, che ci è madre, che ci insegna ad essere nella famiglia i primi araldi della fede e testimoni dell'amore di Cristo verso i fratelli più poveri e bisognosi di aiuto morale e spirituale, superando le barriere cul-turali e religiose. Conversione, cambiamento di mentalità, superamento degli egoismi, tolleranza… sono questi gli atteggiamenti che formano la chiave che serve ad aprire le porte del Regno di Dio, che ci aiuterà ad alimentare e a sperimentare sempre più la nostra fede cristiana. Un grazie a Lei per aver accettato il nostro invito a questo incontro di fede, di Chiesa do-mestica e di comunità in questo Istituto, di cui fanno parte anche i nostri "angeli custo-di" (vedo assistenti volontari, catechisti e, perché no, gli Agenti di Polizia Penitenziaria e quanti lavorano, a diverso titolo, come operatori).Un grazie a tutti i famigliari che condividono con noi questa Eucarestia, ai quali chiediamo di pregare per l'intera comunità, senza mai dimenticare che la loro sofferenza in questo no-stro tratto di strada in detenzione, è anche la nostra sofferenza. A Lei, nostro vescovo Luciano, chiedo di aiutarci e riaccendere e alimentare la nostra fede perché il nostro cammino si compia non con belle parole ma con un vero impegno quoti-diano fatto di piccoli passi e di autentiche scelte di vita buona, non stancandoci di chiedere perdono al Signore, perché Lui non si stanca mai di perdonarci. Termino con un augurio: la pace sia con Lei e che la fede e la pace siano con tutti noi!

A nome di tutta la nostra comunità Casa Circondariale di Brescia, 3/10/13 Mario

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!!!!""""volte penso che sarebbe giusto che tutti facessero 6 mesi di domiciliari. Non mi importa se si tratta di uno stinco di santo o di qualcuno che, forse, se lo merita pure. Un'as-surda e insensata barbarie? No, penso sia il più bel regalo per un adolescente che desideri diventare adulto. Diventare adulti non è dato dalla carta d'identi-tà, ma dalla saggezza che si accumula dalle esperienze vissute. Puoi essere immerso in un vortice di vita comoda ed agiata, op-pure vivere le peggio situazioni che non si possono né racconta-re, né spiegare. Non importa, a volte nel bene o nel male, non hai occhi per vedere oltre il tuo naso. E la vita ti sfugge, diventa monotona, una ripetizioni di gesti, parole, situazioni che si ripe-tono in un loop infinito. Oppure vivi la quotidianità come fosse il tuo incubo peggiore, pensi che non migliorerà mai, non ce la farai ad uscire da questo maledetto incubo. A volte addirittura nemmeno te ne accorgi. Na-sci, vivi, muori senza mai aver vissuto. No, non hai vissuto la tua vita, sei semplicemente esistito. Per alcuni questo sarà motivo d'orgoglio, morendo e diventando concime avranno (finalmente) avuto un'utilità. Il punto è che la vita è una sola, e va assaporata ogni istante, perchè è un bene preziosissimo, ma con una data di scadenza imprecisata. Quindi ridi, visita posti nuovi, trova la gioia nella semplicità di ogni gesto, altrimenti nulla ti renderà mai sazio. Ed è proprio questo il punto. Quando una vita può dirsi vissuta davve-ro? La risposta è dentro ognuno di noi. Grazie a Dio (o chi per lui) siamo tutti magnifica-mente diversi, quindi ognuno è destinato ad un percorso differente. Prova a pensare se un bel giorno, d'un tratto venissi privato di tutto. Del lavoro, dei soldi, della macchina, dei tuoi amici/colleghi, del telefono, di internet, della libertà. Resteresti tu, quei 4 muri di cemento armato, ed una stupida scatola che chiamano tv. E adesso? E adesso sei solo con te stesso, ed è dura, tremendamente dura. Presto capisci quanto sei forte, per davvero. Poi dopo esse-re morto dentro 1001 volta, capisci che il dolore può piegarti, ma non ti spezza. Capisci chi sei, perchè quando hai toccato il fondo del barile non ti resta che scavare. E quello che tro-vi dentro di te può essere incredibilmente, inaspettatamente diverso da quello che credevi. Devi capire chi sei, non chi credevi di essere. Solo poi puoi puntare la bussola dritto verso quello che vuoi davvero. Dopo aver perso tutto, sei pronto ad affrontare il mondo per rag-giungere i tuoi sogni. Ed i sogni sono tali solo finchè non vengono realizzati. Ora sai che solo il bene produce bene, e viceversa. Che la verità è la cosa che rende a colori questa vi-ta, ed io odio il bianco e nero. Non esistono strade facili, e se lo fossero il premio non sa-rebbe alto. Non ne varrebbe la pena. Finalmente hai gli occhi, si ma occhi per vedere!

Alessio

Il punto è che la vita è una sola, e va assaporata ogni

istante, perchè è un bene preziosissimo, ma con una data di

scadenza imprecisata.

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I vizi

Gentilissimi amici lettori, l'argomento messo in discussione nel gruppo di redazione di zona508 è Āi viziā. Ho voluto evidenziare, di seguito, tre categorie di vizi: 1. Il vizio che, secondo me, ha un'altissima percentuale di diffusione tra la gente è quello del gioco e del bere. Ritengo che siano vizi molto pericolosi e, se non si ha carattere, si rischia di arrivare alla dipendenza con delle conseguenze drammatiche per se stessi ma anche per le persone che ti sono più care. Esse soffrono per te, perché si sentono impotenti non riuscendo ad aiutarti. Per chi ha famiglia, una moglie, dei figli,... questi vizi ti portano a togliere il sostegno che potevi dare loro. Rischiano di distruggere ciò che si ha di più bello nella vita: Amore ed Affetto. 2. Ci sono vizi che possiamo chiamare a “tolleranza zero” cioè quelli che mettono a rischio altri. Per esempio correre in macchina dove non è consentito causando incidenti; buttarsi in un fiume senza sapere i pericoli che lo stesso ha. In questo caso, il vizio di farsi notare, può mettere in difficoltà le persone che ti vedono e che si gettano, per istinto, per salvarti e come ci riporta spesso la cronaca: “muore per salvare ecc ...” si certo può sembrare un esempio banale ma è la realtà. Amare: è il vizio più bello e che ritengo non debba mai avere limite perché le conseguenze non possono essere che positive per se stessi perché ti fa sentire bene. Questo è un vizio che non bisognerebbe mai perdere. Ho descritto forse in maniera un po' vaga i vizi ed i limiti. Certi limiti mi riguardano personalmente. Mi viene in mente che spesso ho usato il detto, con altre persone: “ogni cosa ha un limite” ma molte volte avrei dovuto dirlo a me stesso e forse molte cose che ho fatto o detto e che hanno avuto conseguenze non piacevoli, avrei potuto evitarle. So che questa è solo una mia opinione, è solo un mio pensiero ma chiedo a voi lettori di prendere in considerazione questo detto che nel corso della vita, potrebbe servirvi ad evitare conseguenze non positive. Ciao dal Bergmasco Doc

Passioni e vizi

Le passioni sono sogni che quasi mai si avverano. Si può essere appassionati a se stessi, a cose oppure per-sone. Le mie passioni sono i viaggi, conoscere paesi e culture, esperienze che insegnano a essere se stessi. Un’altra passione può essere per una bella automobile, ad essere madre oppure a prendersi cura degli altri. Vizi? Tanti, per esempio spendere del denaro per l’abbigliamento o per tenersi in forma.

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Vizio e Passione ͺΝΔΠΟΗΚΟΖϸΤΠΘΘΖΥΥΚΧΠΤΖΔΠΟΕΠΞΖϸΦΟΒΕΖΝΝΖΡΠΔΙΖΝΚΓΖΣΥϰΔΙΖΡΠΤΤΚΒΞΠΔΠΟΔΖΕΖΣΔΚ

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PASSIONE E VIZI

La passione ha molteplici significati, il primo a cui mi viene di pensare è la passione di Cristo che raffigura il grande patimento di sofferenza sopportata fino alla morte in croce per la redenzione dell’umanità. La passione è anche coltivare un hobby come ascoltare musica, dipingere, dedicarsi con dedizione e passione a un sport, appassionarsi a collezionare le cose più diverse. Carica, impulso verso un delitto passionale che ha per movente una violenta passione. La passione amorosa, sentimento capace di dominare l’intera personalità, un particolare trasporto incontenibile, lasciarsi trasportare in un rapporto a due, mi carica di un energia positiva, inebriante, estasiante a tal punto di renderci invulnerabili. Passione, sentimento che mi travolge, capace di farmi mettere in secondo piano anche i miei doveri e tutto il mio vissuto. Nel momento in cui si vive ed è corrisposta in egual modo l’intesa sessuale può arrivare a toglierti il fiato. Non trovo né affinità, né limiti tra passione e vizi, perché per me i vizi sono sempre negativi. Ad esempio l’assunzione di droghe o alcol, e non da meno la dipendenza da slot machines, che in due anni mi hanno fatto spendere una fortuna. Siamo noi che decidiamo i nostri limiti. Forse quando ero più giovane mi lasciavo trasportare dagli eventi, inconsapevole dei rischi in cui po-tevo incorrere. Poi crescendo i bisogni e le ne-cessità cambiano, anzi, pensando al passato spesso ci si sorprende di quanto delle priorità che sembravano tali ora non hanno alcun senso. Per concludere voglio aggiungere che può acca-dere che anche la passione più travolgente si può spezzare e tramutarsi in un dolore incolma-bile. Bi 7

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Qual' è il confine tra passioni e vizi… forse le virtù?

Bisognerebbe sottoporsi a un'indagine approfondita di psicanalisi per scoprire, in ognuno di noi, qual è realmente la sottile linea che separa la passione dal vizio. Sì, perché noi comuni tendiamo a confonderle mentre è as-solutamente necessario separarle per non provocare danni, talvolta assai gravi, che possono incidere nella vita di cop-pia, relazioni sociali o nei rapporti professionali. Non intendo parlare dei vizi abitudinari tipo: il fumo, il bere, le carte ecc… bensì di quelli capitali. Questi ultimi possono influenzare e destabilizzare in primisla nostra autostima o farci diventare preda della frustrazione, perché non riusciamo a raggiungere quel valore attribuito da altri. Andare a caccia, giocare a golf, correre in moto, collezionare qualsiasi cosa sono passioni… oppure hobby? Se ci sorge un dubbio a questo quesito, figuriamoci se parlo delle passioni in-teriori.

Quella in assoluto domina tutti noi è l'amare e l'essere a-mati, che ci fa vivere o soffrire la cosiddetta "romantica passione". Per entrare poco a poco nei dettagli e dare un giudizio ge-nerico a questo dilemma che ci accomuna tutti: è vero qua-si che il desiderio e il sentimento amoroso siano legati dal-la perdita di controllo da entrambe le parti e che ciò dà e-saltazione ed ebbrezza, alla conquista della passione vera, dando così una forte predominanza ai sentimenti. Così quando accade che questi ultimi vengono a mancare,

ci buttiamo in un catastrofismo quasi surreale e poi ci poniamo certe doman-de: "Non potrò più amare così" oppure "non voglio più amare". Bisogna invece pensare in positivo, essere fonte di energia e trasformarsi in virtù come: credere in se stessi, pensare positivo, cercare di vedere il lato buo-no anche in situazioni sfavorevoli. Tutto ciò ci porta ad una virtù suprema, quella dell'autostima. Sì, perché come un fiore, ha bisogno di essere coltivata ogni giorno.

Piova 54

L’autostima…

Come un fiore ha bisogno di

essere coltivata ogni giorno.

“Bisogna invece pensare

in positivo, essere fonte di

energia e trasformarsi in

virtù”

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Passioni

La mia più grande passione è la caccia e i cani. Di cani segugi ne possedevo sei ma quindici anni fa mi è stato tolto il porto d’armi. I cani li ho sempre tenuti a casa, li lasciavo liberi nelle proprie gabbie, ogni cane ne aveva una. Durante l’anno li portavo in giro per i campi, mentre durante il periodo che andava da set-tembre a dicembre li utilizzavo per la caccia alle lepri.

Tenevo i miei cani molto bene, li curavo e gli parlavo anche insieme. Gli volevo molto be-ne come se fossero dei componenti della mia famiglia. Solo coccole e amore per loro e loro ricambiavano. Quando andavo in giro, se vedevo dei caccia-tori trattare male i loro cani, li rimproveravo. Appena uscirò dal carcere, aprirò tutte le gab-bie e li lascerò sempre circolare nel cortile della cascina. Non chiuderò mai più nessun cane in gabbia. Solo provando sulla propria pelle la reclusione si può capire il valore della libertà. Nessuno deve rinchiudere altre persone in gabbia. Credo che si debbano trovare soluzio-ni, alternative valutando il lato umano delle persone. Non bisogna far diventare le persone

dei numeri e far di tutta un'erba un fascio. Maurizio

Passione per la motoCarissimi lettori, la mia grande passione è la Moto Custom e mi è stata trasmessa da mio fratello. Vedevo lui ed i suoi amici con queste moto tutte cromate e rumorose, decisi così di fare anche io la patente per guidare le moto perché ero troppo curioso di scoprirle in tutti i loro aspetti. Comprai subito la prima moto scoprendo uno stato nuovo di libertà che non avevo mai sperimentato prima: essa mi faceva provare emozioni nuove, mi dava l'opportunità di incontrare persone nuove con caratteri simili al mio. Iniziai con un giorno a settimana “la domenica”, poi con il fine settimana e poi tutti i giorni perché non riuscivo più a farne a meno: estate, inverno, giorno e notte … non contava più nulla perché questo stato di libertà poteva darmelo solo lei! Non soddisfatto andai a cercare oltre, scoprii che i motociclisti si trovavano fra loro, sparsi per il mondo ed ebbe inizio così un nuovo percorso per me: prima in Lombardia, poi in Italia e ed infine all'estero, visitando sempre posti nuovi, ricchi di emozioni che si possono condividere anche fra di noi. Marco

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La mia passione: “LA MUSICA”

Nascere all’inizio degli anni ’70 comporta un pro e un contro. Anzi, un contro e un pro, in quest’ordine. Il contro è doversi vivere tutta la musica degli anni ’80, senza che nulla ti venga risparmia-to. Proprio nel momento in cui sei bramoso di scoperte, di cultura musicale, ti trovi invi-

schiato in una brodaglia di synth, bassi di plasti-ca, percussioni elettroniche e capelli laccati. Così arrivi ai vent’anni con il desiderio di squarciare a coltellate la tastiera a tracolla di Sandi Marton. Poi, improvvisamente, arriva il tuo pro dopo dieci anni di contro.; questo vuol dire avere 20 anni quando le chitarre del grunge disintegrano per sempre la dannatissima tastiera a tracolla e i ciuffi cotonati. Per sopravvivere agli anni di “Bandolero rock, Bandolero shock” avevo dovuto aggrapparmi con disperazione alle cassette registrate da amici

più grandi ed ai vecchi vinili di mio padre, le classiche armi di sopravvivenza di quel tem-po remoto pre-internet. Grazie a loro e alla passione di mio padre, batterista di professione da ormai 40 anni, avevo scoperto tutte le grandi band della storia del rock. L’unico piccolo neo è che tutte o quasi si erano sciolte da poco (CLASH, LED ZEPPELIN, POLICE) o da una vita (BEATLES, VELVET UNDERGROUND, JEFFERSON AIRPLAIN) o forse, più semplicemente, il meglio era già dato. Fortunatamente il ritorno al rock puro, portato dall’ondata grunge (NIRVANA, ALICE IN CHAINS, PEARL JAM) e con la straordinaria au-torità dei sempre vivi PINK FLOYD e ROLLING STONE ha riportato in vita il passato; BLUES, ROCK, R&B, JAZZ sono ritornati nelle nostre ra-dio. La musica è una costante della mia vita, lo era e lo è anche per mio padre che ne ha fatto una profes-sione, per cui io ho avuto la fortuna di avere, fin da subito, a disposizione la sua discoteca. C’è musica per ogni momento, c’è musica per ogni evento; musica che evoca ricordi, che rilassa, che dà la carica. Musica da ascoltare soli, musica che aggrega. La musica è comunicazione, libertà, protesta. Odio e amore. Dolcezza

e amarezza. Un film senza colonna sonora, questo sarebbe la vita senza musica. C’è un gesto che fa sempre KEITH RICHARDS, che per me racchiude l’essenza del rock e di tutta la musica. Dopo aver fatto un concerto KEITH serra i pugni e si batte la testa, il petto e i fianchi. Sono le tre chiavi della musica: ti arriva al cervello, ti spacca il cuore e tifa muovere fianchi e culo. EDDY

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Il mio cane, Ernesto

Sicuramente insieme alla musica un'altra grande passione è l'amore che provo nei confronti del mio cane Ernesto. Ho pensato di esprimere attraverso una poesia ciò che provo per lui. Solo una piccola premessa, il giorno in cui sono andato a prenderlo al canile l'ho trovato sterilizzato a mia insaputa.

Per Ernesto

Gli organizzai dal canile La più legale delle evasioni

Fu per un pelo che non riuscii A far evadere pur i coglioni.

Ma se gli resta ben poco Per riempir le mutande

C’è il suo cuoricino Che compensa alla grande.

Ed ora eccolo lì ai piedi del letto Vederlo al mattino è il risveglio perfetto.

Son solo pochi minuti che Morfeo se ne è andato E non c’ è un pezzettino che non m’abbia leccato.

Non dice buongiorno, non guarda il contorno Puoi esser bello di brutto e dei brutti il più brutto Non vede lo scienziato, il ladro o il gran dottore,

ciò che gli interessa è solo il tuo odore. Prova a lasciarlo solo per due ore

Sgridarlo, arrabbiarti e far scenata d’attore, basta un sorriso, un gesto, un accenno,

per fargli di colpo perdere il senno. Si gira poi scatta, a coda si stacca.

Gli è già passata la pena e si rigira sulla schiena. Aspetta la tua mano che per lui è un toccasano Una grattata di pancia e nell’estasi si lancia.

Il suo amore te lo dona senza problemi Senza alcun prezzo, senza ritegno

E la cosa più assurda è che nulla vuole in pegno. Solo aver certezza, sicurezza e convinzione

Di passar la vita accanto al suo padrone. Padrone non nel senso che la gente può pensare,

ma padrone del suo cuore da riempir d’immenso amore. Ciò che ho da dir di lui è tutto questo,

grazie del tuo amore mio fedele Ernesto.

Il tuo Eddy

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PASSIONI E VIZI QUAL’E’ IL CONFINE?

Durante il corso della vita, ognuno di noi scopre e coltiva le proprie passioni, dalle più sva-riate alle più comuni: la passione per lo sport, per la lettura, per la gastronomia, per gli ani-mali, per la musica e chi più ne ha più ne metta. “Appassionarsi” a qualcosa indica gene-ralmente interessarsi a qualcosa che ci fa bene. La passione per degli sport, ad esempio, può insidiarsi dentro di noi sin da piccoli, come nel mio caso che amo la ginnastica ritmica da quando ero bambina: ore passate sulle pedane delle palestre, giornate intere fatte di sfor-zi, fatica, impegno, ma anche tanta soddisfazione. Personalmente questa disciplina mi ha regalato tante emozioni, ricordi che mi rimarranno per sempre impressi nel cuore: la mia prima gara agonistica, i saggi, le dimostrazioni, gli allenamenti con la squadra, le meda-

glie, le mie maestre. Con gli anni ho coltivato questa mia passione per l’attività fisica facendo nuove esperienze: corsi di aerobica, fitness e palestra. Sì, perché una passione va coltivata, come lo si fa con un fiore: ce ne si prende cura ogni giorno, annaffiandolo, nutrendolo e vederlo poi cre-scere nel tempo e poterne raccogliere i frutti. Ma quand’è che la passione diventa vizio? Che cosa collega queste due cose? Pensando al termine “vizio” mi viene in mente qual-cosa di nocivo: il vizio del fumo, della droga, dell’alcool, del gioco…una cattiva abitudine. E il peggio è che il vizio crea dipendenza, diventa indispensabile anche quando non lo è. L’importante è riuscire a “starci dentro” e a far si che i vizi non diventino ossessioni di vitale importanza. Penso che avere qualche vizio faccia parte della natura dell’uomo che non vive per automatismo, l’uomo ha bisogno di viziar-si almeno un pò! Altrimenti, saremmo solo macchine.Giorgio

Maledetta Cocaina

Maledetta quella volta che ho voluto provare l’ebbrezza, per sentito dire, che dava la cocai-na. Le prime volte, non lo nego, ad ogni sniffata era una scossa. Devo ammettere che avevo finito col guadagnare un po’ di libertà di spirito ma a lungo andare anche di solitudine, in-comprensione e freddezza. Vista dagli altri, la mia vita era in costante discesa, un continuo allontanarmi dal normale, dal lecito e da ciò che è sano. Con l’andare degli anni avevo per-duto il lavoro, la famiglia, mi sono sentito tagliato fuori da tutti, anche dagli amici. Ero solo, da molti sospettato ed in continuo conflitto con la loro opinione e quantunque vivessi anco-ra nel loro ambiente ero tuttavia un estraneo. Il mio lato buono che una volta mi aveva cir-condato di affetti e simpatie era ormai trascurato, addirittura diventato sospetto al prossimo. Questo lo capivo, come capivo che stavo sbagliando ma proseguivo e nel tempo la mia vita si faceva più dura, inselvatichita, più difficile ed esposta ai pericoli. In verità non avevo più alcun motivo di proseguire con questa vita ma il cancro della cocaina si stava facendo sem-pre più incurabile. La fortuna ha voluto che incontrassi un angelo, un angelo del SERT. Oggi sono tre anni che non sniffo più e quello che più conta è che non ne sento più il biso-gno. Oh, se avessi trovato un angelo anche per l’alcool! Oggi non mi troverei dove mi trovo, in prigione. Vincenzo

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LA GROTTA INCANTATA FIABA PER BAMBINI

In un paese lontano lontano viveva una famiglia composta da mamma e papà ed i loro 4 figlioletti: Stefano, Anna, Matteo e Giovan-ni. I genitori lavoravano nei campi e con il raccolto, riuscivano a sfa-marsi e a vendere al mercato la frutta e gli ortaggi per poter mante-nere sani e felici i loro figli. Essi correvano pieni di gioia nei prati a raccogliere fiori e rincorrere farfalle fino al tramonto, quando esausti tornavano a casa affamati. Un giorno, appena svegli, udirono i genitori che discutevano su come poter andare avanti, poiché ormai da mesi non pioveva ed i campi erano secchi e privi di germogli, così decise-ro di trasferirsi in una vecchia baita di montagna in mezzo al bosco. Li sarebbero riusciti a sopravvivere cacciando piccoli animali e raccogliendo bacche e frutta selvatica. Presero con se lo stretto necessario : coperte , vestiti, pentole, scodelle e le poche patate e fagioli che rimanevano in dispensa. Caricati gli zaini in spalla si incamminarono verso la foresta. La strada era lunga ed i bambini stanchi, così decisero di fermarsi a riposare per la notte. Accesero un grande fuoco per riscaldarsi e subito si addormentarono sotto il cielo stellato. Di buon mattino si svegliarono con il cinguettio degli uccelli ed il fruscio degli alberi mos-si dal vento e ripartirono. Dopo ore di cammino giunsero alla baita che era quasi distrutta perchè la natura si era impadronita di stanze e portico... dalle finestre uscivano i rami delle piante ed il portico era colmo di rovi carichi di more selvatiche. Subito i bambini si misero a mangiarle colorandosi le labbra e le guance di viola. Il padre lavorò sodo per poter entrare ed in poche ore riuscì a rendere la baita abitabile, re-stavano solo le finestre ed il tetto da sistemare ma ormai il cielo era scuro e si riposarono tutti insieme in un grande letto. Con il passare del tempo la vita per tutta la famiglia tornò alla normalità, i bambini ormai conoscevano il bosco e ogni giorno scoprivano posti nuovi. Un giorno si imbatterono in una grande apertura nella montagna e decisero di entrare... era una grotta !! Mentre entravano sentirono la mamma che li chiamava per la cena così corse-ro a casa. L'indomani appena svegli tornarono alla grotta, c'erano tante ragnatele e buio, tanto tantis-simo buio... quindi decisero di ritornare il giorno successivo con una candela per non aver paura. La sera raccontarono a mamma e papà della loro scoperta, ma loro si arrabbiarono molto dicendo che era molto pericoloso e che non ci sarebbero dovuti tornare. Arrivò l'inverno e cadde la neve, le provviste erano quasi terminate , i genitori erano molto preoccupati e pensarono di portare i figli in paese dai parenti, ma i bambini che avevano

sentito decisero di scappare e rifugiarsi nella grotta. Appena calò la notte, con qualche co-perta e alcune candele uscirono di casa senza farsi sentire. Raggiunsero la grotta a notte fonda e stanche si misero a dormire. Al matti-no si svegliarono sentendo i genitori che li chiamavano ma non risposero, anzi, fuggiro-no spingendosi sempre di più all'interno della grotta . Si tenevano stretti stretti l'uno all'altro per farsi coraggio e piano piano giunsero in un grande ambiente dove videro che tutto luccicava come un giardino incantato.

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C'erano grossi sacchi pieni di noci, nocciole e frutta... felici cominciarono a mangiare vora-cemente, da una sorgente zampillava acqua fresca e trasparente e ne bevvero a sazietà. Tro-varono molti materassi di foglie, ci si sdraiarono e caddero in un sonno profondo. Al loro risveglio con grande sorpresa videro un tavolo imbandito di grosse ciotole colme di latte fu-mante e tanti biscotti. Si precipitarono a mangiare e si accorsero che la grotta era abitata !! Tanti gnomi sorridenti e colorati cantavo tutti insieme dando loro il benvenuto. All'improvviso giunse correndo uno di loro e disse che i genitori dei bambini erano disperati, da giorni vagavano nel bosco chiamandoli e piangendo, con il timore che fossero tutti morti di freddo o caduti in un dirupo, giurando che non li avrebbero mai lasciati se li avessero ri-trovati... A questo punto i bambini corsero fuori e riabbracciati mamma e papà li portarono nella grot-ta dove insieme agli gnomi passarono l'inverno al caldo e diventarono i custodi di quel luogo incantato...

Bi 7

Questa è nostalgia

Ogni giorno, in qualche ora, i pensieri tornano alla donna amata, con affetto e nostal-gia, con riconoscenza, con ansia, talvolta con qualche scrupolo e qualche rimprovero a me stesso per non averle fatto capire per orgoglio, quanto apprezzo la sua la sua persona e quanto la amo. Mia cara, te lo dico adesso: quando ti vedo, in me si forma un bel giardino di pensieri pieni di armonia. Per me sei una poesia letta ad alta voce! Ora sei lontana ma sei sem-pre custodita nel mio cuore.

Vincenzo

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IO, NOI E LA DANZA

Sono qui da detenuta nel carcere di Verziano da 8 mesi, e all’incirca da un mese, frequento il corso di danza a cui volevo dedicare questo articolo, raccontandovi le mie impressioni, le mie sensazioni, le difficoltà e il rapporto che si è instaurato tra detenuti e volontari. Prima dell’inizio del corso, abbiamo avuto l’occasione di vedere il video dello spettacolo che si è svolto l’ultima settimana di giugno, dal vivo, qui, nel carcere di verziano, alla presenza di parenti, amici, volontari assistenti, direzione e qualche detenuto. È proprio da qui che co-minciano le mie prime impressioni, sia guardando il video, sia sentendo parlare la volontaria, nonché insegnante di danza Giulia Gussago. Il primo impatto, vedendo lo spettacolo nel video, è stato bellissimo; stupefacente vedere l’impegno che tante persone hanno messo in questa iniziativa, che all’apparenza sembra faci-le, ma non è così. Avere dei movimenti aggraziati per chi non ha danzato o, della danza co-nosce solo la parola, è una vittoria e una soddisfazione personale grandissima. Anche senten-do parlare l’insegnante Giulia che ci incoraggia e ci invita a provare, dicendoci che tutti pos-sono danzare e che la danza non è solo tutù e scarpette, ma molto di più. Comunque vedendo il meraviglioso spettacolo, e con quanta enfasi l’insegnante ci ha parlato, spiegato e incorag-giato, mi sono decisa a provare. Mi sono detta: “ok, mi butto!”. Ed è arrivato il primo giorno, dopo il “finto” convincimento che mi ero fatta di potercela fare a superare la timidezza, la paura, l’imbarazzo, ho detto ad alta voce: “ma chi me lo ha fatto fare!”. Tuttavia, ho continuato e deciso di andare fino in fondo, sudando ogni volta sette camice per la vergogna che provo, ma mi faccio coraggio perché non sono sola, chi più, chi meno, sia-mo tutti nella stessa barca. E allora ci facciamo coraggio tutti insieme, detenuti e volontari, che per un giorno a settimana e un sabato al mese ci incontrano e diventiamo una cosa sola, uniti per realizzare il progetto finale “il fatidico spettacolo”. Tra movimenti scoordinati, risa-te, battute e le urla dell’insegnante per farci star zitti e concentrati, si instaurano i nostri rap-porti, fatti, all’inizio di imbarazzo, per poi conoscerci, coalizzarsi e stringere un’amicizia. Ed è per questo che dico grazie! A Giulia per la carica e la passione che metti in questo proget-to, e , pur non ricordando i loro nomi, un grazie a tut-te le persone che spendono una parte del loro tempo liberi tra queste quattro mura. E adesso che siamo in ballo, DANZIAMO!

Angela.

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Oltre le sbarre... Aspettando il Natale

L'ennesima giornata di colloquio che diventa speciale perché ci si avvicina al Natale. La pa-rola speranza è più sentita, pronunciata, cercata, amata. La mente di ognuno di noi vola in cerca di ricordi e certezze, certezze che per alcuni reclusi non arriveranno mai. Anche la televisione con i suoi spot natalizi ci tormenta ed accentua la voglia di stare con i propri famigliari, e coloro che ci vogliono bene. Torniamo alla giornata che voglio raccontarvi, una giornata uggiosa e dispettosa per un col-loquio, perché il nostro pensiero va ai nostri cari che si sono organizzati sicuramente già da qualche giorno prima di incontrarci, e quest'oggi saranno invalidati a causa di temperature di stagione già rigide e una pioggia che carica ancora di più la tensione che li assale al momen-to di entrare nella sala d'aspetto, già cupa di per sé, ma diventa insopportabile nell'attesa di essere chiamati per incontrare il proprio caro. Non è colpa di nessuno il disagio che si avver-te, ma diventa un'ulteriore prova di convivenza, con bimbi che urlano giustamente perché quel luogo li costringe a non muoversi, mentre la loro vivacità è la gioia di ogni genitore, poi si aggiungono le lamentele al momento di fare “la buca” cioè il pacco contenente indumenti e provviste, e così spesso accade che si vede rifiutare un alimento non consentito, un capo d'abbigliamento non consentito o addirittura a causa d'essere fuori peso di un misero chilo-grammo, dover scegliere tra questo e quello e pensare con la testa di chi lo deve ricevere. Queste sono alcune cose che vivono i nostri parenti nelle tre-quattro ore d'attesa, ma il più delle volte non dicono niente, onde evitare, giustamente, attriti con le guardie che eseguono solamente quello che gli viene comandato. Tra noi reclusi, chi sa che avrà la visita della pro-pria famiglia, la giornata è accompagnata da una sorta di eccitazione, una misteriosa forza di volontà ci avvolge e ci sprona a prepararci a dovere con una doccia mattutina, una rasata di barba e per finire deodoranti e profumi vari, abbigliamento adatto per il colloquio, per ca-muffare la sofferenza quotidiana, poi il classico sacchetto con una bibita o acqua, bicchieri, caramelle e brioches per addolcire il colloquio, che sempre così non è. È bello vedere un pa-dre ricevere un disegno dalla propria piccola, è bello percepire la gioia di un padre che ab-braccia il proprio piccolo e lo lancia in alto come se fosse un trofeo, come è tenero osservare M. che guarda soddisfatto la foto della figlia Alice appena nata da venti giorni e lui è “ospite” della casa circondariale da trenta giorni.Molti sono invece gli sguardi persi, come per A. che ha 30 anni e da poco sa che i prossimi 24 natali li passerà tra le mura di chissà quale istituto, come G. che rischia di essere imputato di un reato grave che non ha commesso nonostante si sia preso le sue responsabilità, e lo sguardo ipnotizzato della moglie che gli trasmette il messaggio di colei che l'aspetta per tutta la vita, non sarà invece così per lui M. un ergastolano a cui è negata la parola “futuro” oltre le mura. Ma la cosa che rimane più impressa alla fine di ogni turno di colloquio, sono gli oc-chi lucidi e pure lacrime al momento dell'arrivederci e delle mille raccomandazioni. Finita l'ora di colloquio ci ritroviamo ad essere perquisiti per l'ennesima volta, tutti ci si guarda e ci si chiede quando sarà il prossimo incontro. Se il tempo lo permette, si può andare ancora all'aria, e non è possibile essere indifferenti con coloro che non ricevono visite, li riconosci perché li vedi assorti nei loro pensieri e non socializzano volentieri con tutti ma devono potersi fidare di chi gli vuole tendere una mano, e per finire, altri sguardi che non passano inosservati sono i Nuovi Giunti, coloro che da po-che ore hanno “vinto la permanenza” e hanno ancora addosso l'odore di libertà e l'angoscia stampata sulla fronte. Dopo l'aria tutti in cella sperando di ricevere posta, e comunque dato lo spazio minimo di vivibilità, tutto scorre rigorosamente sulla branda e ci si può alzare solo per andare a fare i bisogni fisiologici e mangiare un boccone quando passa il vitto. La giornata continua e alle 13.30 circa si aprono le celle e chi vuole torna all'aria, in alternati

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va si può restare sul piano (io sono al 4° nord) a passeggiare o magari organizzare un tavolo giocando a carte o lunghe sfide a “Pincanello” (calcio balilla). All'aria a giorni alterni si può giocare a calcetto, sempre se c'è il pallone. Chi non gioca passeggia nel poco spazio rimasto, lasciando le sue tracce su quel terreno testimone di milioni di tracce lasciate da chi è passato di qua in tutti questi decenni. Se solo potessero parlare queste mura, non basterebbe una vita per appropriarci di questo pezzo di storia del disagio cantonmombelliano. Rimangono solo poche parole scarabocchiate sui muri, parole di speranza che verranno cancellate dall'ennesima pennellata che verrà data prima della visita di qualche persona che “conta”nel circuito istituzionale. Comunque, nonostante mille problematiche esistenti all'interno del carcere, quest'anno è sicuramente da ricordare per la morte di N. Mandela-Madiba icona dei diritti umani, ma nel contesto di Canton-mombello è da ricalcolare per l'opportunità che ci ha concesso l'Amministrazione Penitenziaria di restare fuori dalla cella fino alle ore 17.30, con l'Augurio, un giorno, di posticipare ancor di più la chiusura, magari come la sezione “VIP” che viene chiusa alle ore 20.30... Che bel sogno!!! Per il momento siamo chiusi per 17 ore in celle, nella maggior parte dei casi occupate da 5 detenuti in 9 metri quadrati totali. Ci avviciniamo al Natale e lo scampanio di una chiesa qui vicina, nelle pri-me ore del mattino, ci proietta già virtualmente a quelle ore che ci separeranno prima della venuta del Messia, sicuramente il cappellano allestirà il solito presepe in rotonda, mentre pochi luoghi avranno un albero di Natale. È inevitabile pensare ai regali di ogni genere, ma a mio parere il regalo più grande l'ho, abbiamo già ricevuto il 13 marzo 2013 con l'elezione del santo padre papa Francesco che è presente con la sua immagine in quasi tutte le celle, e ci fa percepire ancora di più la presenza del Signore, ha fatto risco-prire la fede a tante pecorelle smarrite, merito della sua umiltà e purezza in tutto quello in cui opera. Abbiamo scritto e invitato papa Francesco a visitarci, e il Pontefice ci ha risposto tramite il Ministero della Giustizia con parole affidate a don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani di tutte le carceri d'Italia, che ci abbraccia a noi tutti detenuti e prega per noi (documento datato 11 novembre 2013). Noi per il momento ci accontentiamo della sua apostolica benedizione, e della visita che tutti gli anni si rinnova, del nostro vescovo Mons. Luciano Monari, il giorno di Natale, e la sua presenza è occasione per vedere partecipe quelle persone che durante l'anno non frequentano la S.S. Messa, e quindi tra detenuti, volontari, Istituzioni e Polizia Penitenziaria c'è sempre il “pienone”. Naturalmente c'è chi si astiene perché si sente il più “bullo” di tutti. Saranno spese belle parole, con l'ennesima pro-messa di un anno migliore e la commozione di molti appena si parlerà sei nostri cari lontani da noi, ma che ci ricorderanno con pensieri e gesti d'augurio. Ancora una volta si ricorderà che il carcere è il posto giusto per il Natale, anche questo luogo della nascita di un cambiamento interiore, di vera con-versione, di genuina libertà d'essere assolti dal peccato, perché Dio ci ama. Speriamo che almeno quest'anno ricorderemo i centinaia di suicidi, centinaia di detenuti che si sono tolti la vita, che il più delle volte vengono volontariamente dimenticati perché “scomodi” per il “sistema”. Alla fine della Messa il rituale dei saluti, strette di mano e buoni propositi, ringraziamenti al cappel-lano per aver portato il panettone in ogni cella con l'ausilio dei volontari che ringraziamo sempre con entusiasmo. È giunto il momento di tornare alle celle per i detenuti, è arrivato il momento dei volon-tari, vescovo, educatori ed esterni delle istituzioni di lasciarsi alle spalle il portone blindato dell'entra-ta del carcere, e tuffarsi liberamente nel “Natale con i Tuoi”, lasciando la parola tristezza sovrana in ogni cella, in ogni cuore, in ogni persona detenuta che non vede l'ora che passino que-sti giorni di “feste anormali” per chi è “dentro”, così da poter dire: “Anche quest'anno è passato”... Speriamo che il prossimo sia migliore e sia “sovraffollato” di buone intenzioni da chi ci governa.

Mario Cella 41-nord

Cantonmombello

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RUBRICA musicale Consigli musicali

LED ZEPPELIN

Nel 1969 esce un singolo dei LED ZEPPELIN che si intitola “WHOLE LOT-TA LOVE” dopo le cose non sarebbero più state le stesse. Nel diffusore di sinistra il riff martellante di JIMMY PAGE, seguito a de-stra dal mega basso di JOHN PAUL JONES in grado di far tremare i vetri. In mezzo il canto a squarcia gola di ROBERT PLANT, sullo sfondo, si fa per dire, la batteria deva-stante di JOHN BONHAM e i gemiti pro-lungati di PLANT. Quella sensazione inde-finibile tra l’orgasmo e la tempesta. I LED ZEPPELIN si sono assicurati un po-sto di assoluto rilievo nella storia del rock. Con loro abbiamo assistito alla na-scita di un nuovo tipo di musica, il così detto “rock duro”. Vero, l’HEAVY METAL sarebbe stato codificato poco dopo, nel 1970, dagli immensi BLACK SABBAT di “PARANOID”, ma è nel 45 giri WHOLE LOTTA LOVE che si vedeva il bambino nel momento in cui veniva alla luce dopo i meravigliosi esperimenti di KINKS, HENDRIX, CREAM E BLUE CHEER. Gli Zep, con il loro approccio sfacciatamente pesante e volgare alla musica, trovarono la sintesi perfetta tra durezza killer e psichedelia oscura e potente, portando l’ascoltatore a trovare addirittura eccitanti le loro canzoni; d’altra parte il rock e il sesso, dopo tutto, non ne vogliono sapere di scomparire.

RAMONES Musica tirata e diretta come un gancio di Tyson. Primi a conquistare le vette delle classifiche con il PUNK ROCK. Si sono fatti conoscere subito con la loro “SHEENA IS A PUNK ROCKER” con la quale raccontano la storia di una giovane che prima vive da regina della giungla per poi, a New York, scoprire la modernità. I Ramones fondono insieme, da 1977 per pochi anni, SURF MUSIC, ROCK e PUNK. Diventa-no punto di riferimento per molti giovani della controcultura americana, ma anche mondiale. Ri-

cordiamo con ammirazione i fratelli Ramone: JOHNNY RAMONE il chitarri-sta morto nel 2004, TOMMY il batterista e unico superstite, JOEY il primo a morire nel 2001 e DEE DEE il batterista deceduto nel 2002. Amen.

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JEFFERSON AIRPLANE

E’ un gruppo non molto ascoltato, ma scommetto che tutti, almeno una volta, si sono ritrovati ad ascoltarli, con la loro “SOMEBODY TO LOVE” o “WHITE RABBIT” ignorando chi fossero. Proprio queste due canzoni furono portate dalla bellissima GRACE SLICK alla sua nuova band, i JEFFERSON AIRPLA-NE. Lei, ex modella prestata alla musica, viene scelta da MARTY BALIN, PAUL KAN-TNER e JORMA KAUKONEN come can-tante della band di punta della nuova scena psichedelica di San Francisco. “SOMEBODY TO LOVE” diventa il primo inno della controcultura californiana e inau-gura la SUMMER OF LOVE. Quando si infila uno stuzzicadenti nel filtro di una canna per fumarla fino in fondo, quel-lo è un JEFFERSON AIRPLANE. EDDY !"#$%&'()*+',-.'/-00-12%!

If the sun refused to shine, I would still be lo-ving you(Se il sole si rifiutasse di splendere, io ti amerei comunque) When mountains crumble to the sea, there will still be you and meQuando le montagne crolleranno in mare, io e te ci saremo ancora)

Kind woman, I give you my all, Kind woman, nothing moreChe Donna sei, ti ho dato tutto me stesso, che Donna sei, niente altro Little drops of rain whisper of the pain, tears of loves lost in the days gone byPiccole gocce di pioggia sussurrano di dolore, lacrime d’amore perse nei giorni passati

My love is strong, with you there is no wrong(Il mio amore è grande, con te niente è sbagliato) together we shall go until we die. My, my, my(Dovremmo rimanere insieme fino alla morte. Mia, mia mia) An inspiration is what you are to me, inspira-tion, look… see

(Una ispirazione è quello che sei per me, ispira-zione, guarda… osserva)

And so today, my world it smiles, your hand in mine, we walk the miles(E così oggi, il mio mondo oggi sorride, le tue mani nelle mie, camminiamo) Thanks to you it will be done, for you to me are the only one(grazie a te questo succederà, per me esisti solo tu) Happiness, no more be sad, happiness… I’m glad(Felicità, niente più è triste, felicità… Io sono felice)

If the sun refused to shine, I would still be lo-ving you(Se il sole si rifiutasse di splendere, io ti amerei comunque) When mountains crumble to the sea, there will still be you and meQuando le montagne crolleranno in mare, io e te ci saremo ancora"!

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“Il vero volto della pazzia” di Lizzie Summers

“re-immissione nel mondo civile”. “Presto arriverà il giorno in cui uscirai di qui e lascerai questo postaccio alle tue spalle, dolcezza!” mi disse prima di congedarsi e sparire per sem-pre. Ma quel fatidico giorno non arrivò – forse per mancanza di quel medico di raccoman-darmi, forse per sadismo della suora - e mi rassegnai sempre più ad una vita passata dentro quel buco. Passarono i giorni, i mesi, forse gli anArticolo del 17 aprile 1976, Bakersfield Post. Era la mattina del ventitreesimo giorno di giugno, anno 1967. Ero emozionata, perché oggi sentivo odore di scoop nell’aria. Stavo guidando verso la clinica psichiatrica di Bakersfield, la Beckett Mental Institution, per cercare di avere un intervista con il caso mediatico più grande di tutti i tempi. O almeno ciò che lo sarebbe stato. Avevo sentito voci su cosa succe-deva dentro quella clinica. I pazienti non venivano curati, venivano resi ancora più pazzi. E a chi andava bene, moriva per i farmaci. Tutto ciò che mi mancava per smascherare l’orribile verità e chiudere per sempre l’edificio erano prove concrete. Superai il cancello di metallo che separava il resto del mondo da quel posto oscuro ed ostile. Asylum si leggeva con lettere in bronzo sulla recinzione del territorio. Proseguii con la mac-china fin sopra il colle sul quale si ergeva imponente e tetro un edificio di cemento nel quale entrano lunatici e pervertiti, omicidi e sodomiti ogni giorno. Si dice che nessuno sia uscito di lì e sia abbastanza sano di mente o vivo da poterlo raccontare in giro. Prima di entrare, feci un lungo respiro, e mi ricordai perché ero venuta lì. Uno scoop. Una storia così scandalosa sulla Clinica da far catapultare la mia fama di scrittrice fino alle stelle. Con i miei obiettivi bene a fuoco, entrai. Dentro, lo scenario che mi apparve fu sconvolgente: una donna con i capelli ridotti ad un groviglio polveroso stava correndo verso di me, verso la porta, ma venne fermata e quindi portata indietro da due infermieri dalle spalle larghe. Era trascinata, scalciante e strillante, e mentre scompariva lontano dal mio campo visivo vidi nei suoi occhi una pressoché assente traccia di umanità. Capii che quella non era più una donna. E non lo sarebbe mai più stata. All’interno l’edificio era piuttosto spoglio ma ben illuminato dal soffitto che era fatto di ve-tro cristallino. C’era un forte odore di rose, misto a sangue. I muri color cemento rilasciava-no un allegria che avrebbe fatto invidia ad un parco giochi. Mi voltai e salii le scale per in-contrarmi con suor Dominique, colei che gestiva il posto in tutta la sua tiranneggiante fran-cofonìa. Nata in qualche posto desolato del Quebec, Canada, sorella Dominique passò la sua gioventù come ballerina di un burlesque bar da in una cittadina sconosciuta nel Maine, prima di dare i voti e cambiare drasticamente il suo stile di vita. Sulla vita dell’edificio circolavano molte voci. C’era chi pensava che al suo interno custodivano un mostro creato dai nazisti in tempo di guerra, chi sosteneva che la facoltà era guidata da extraterrestri, e chi sospettava che il manicomio era solo un centro di spionaggio dei comunisti. Qualunque la verità fosse, volevo andare a fondo. Niente di tutto ciò era vero, non ci si può fidare delle voci popolane. Volevo tuttavia scoprire cosa davvero veniva celato in quella dimora degli orrori, ed ero determinata a tutto. Davanti alla porta dell’ufficio della suora mi fermai con le nocche a mezz’aria, nell’intenzione di bussare, perché udii un aspro diverbio provenire dall’interno. Le voci era-no confuse, ma tendendo l’orecchio riuscii a comprendere parte del discorso. “Mon Dieu, Frank! Non ne posso più! Dimmi cosa diavolo succede a tutte questi pazienti, perché mi

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riesce molto difficile crede che ci sono tutte queste morti per “cause naturali” da quando sei arrivato tu” gridò una voce femminile dal distinto accento francese. In tutta risposta, un gru-gnito provenì dall’altro uomo nella stanza. Una terza voce molto flebile acconsentì e capii che i tre stavano per congedarsi, così balzai indietro e mi misi in posa d’attesa, e con un ten-tato misto di noncuranza e impazienza cominciai a far finta di non aver sentito niente. Un uomo dalla testa allungata con radi capelli tagliati cortissimi in camice bianco uscì dalla por-ta incalzato da una pimpante suora piccolina e graziosa che pareva emanare un’aura di soffo-cata allegria. La donna mi guardò cercando qualcosa nei miei occhi, forse conforto, forse compassione. La guardai allontanarsi prima che il mio sguardo si posò sulla terza figura che uscì dalla porta che mi ritrovai davanti al viso all’improvviso. Suor Dominique era una don-na dall’aspetto piuttosto giovanile, tradito però dalle righe che, alla distanza a cui me la ritrovai, erano assai evidente segno del peso dei suoi anni. In altre circostanze, avrebbe anco-ra l’aspetto della radiosa ballerina che un tempo era ma della quale ormai era difficile vedere il fantasma nei suoi occhi. Mi fissò con sguardo truce ed intimidatorio chiedendomi “Ha bi-sogno?”.“Salve,” risposi con un groppo alla gola “sono Lizzie Summers, Bakersfield Post. Volevo chiederle se…” Fui interrotta da un secco ‘Non’ che mi lasciò la gola secca. “Senta, Lizzie Mizzie, so chi è e cosa vuole. L’ho detto a molti di voi avvoltoi prima di lei: non ho intenzione di sottoporre alcun pazzo criminale ad attenzione mediatica. Non permetterò a nessuno di dissacrare lo spazio d’asilo di questa povera gente, quindi se ne vada. Arriveder-ci”. Tagliò corto Suor Dominique e mi invitò a scendere le scale in direzione dell’uscio, e ad ogni mio tentativo di protestare mi incoraggiò sempre più ad andarmene. Così mi convinsi che non c’era più nulla da fare e me ne andai. Quando tornai a casa era già buio, ma Carol aveva già preparato una deliziosa cenetta. Io e Carol stavamo insieme da cinque anni ormai. Ci conoscemmo al matrimonio di mio fratello, dove lei era stata obbligata a venire dalla madre che era preoccupata che lei fosse ancora nu-bile. Ci fu subito un magico intendimento fra noi. Lei faceva la maestra d’asilo, e io stavo appena cominciando a lavorare per il Bakersfield Post. Col tempo i pic-nic romantici in mez-zo ai boschi e le passeggiate per le campagne si trasformarono in un desiderio di stabilità, di famiglia. Così ci comprammo una casetta nella zona residenziale a est di Bakersfield dove vivevamo insieme con il pretesto di essere sorelle. Durante la cena le raccontai del curioso dialogo del quale avevo sentito una preziosa parte e dell’apparente insuccesso della mia visita, di come sono stata congedata senza neanche un occasione. Era notte. Il vento soffiava, là fuori. Udivo il suo ululato impaziente, sbattere quell’odioso ramo secco alla mia finestra. Carol, di fianco a me, dormiva come un sasso – fortunata cara. La crudele melodia del suo russare si univa al ritmo incalzante della tempesta, così decisi che quella notte non avrei dormito molto. Scesi a versarmi un bicchiere di whisky, il nettare degli scozzesi. Una folle idea mi balenò in mente, e decisi di inseguirla. Mi vestii, presi la borsa con dentro tutta la mia attrezzatura da giornalista, e mi fiondai fuori. Quando raggiunsi il cancello dell’istituto, spensi la macchina e mi fiondai fuori. La scritta asylum brillava sotto l’effetto della luce della luna crescente. Girai intorno alla recinzione per trovare un punto facile da scavalcare e trovai un difetto, due o tre sbarre erano state ta-gliate e deviate, in modo da formare un buco. Oltrepassai la frontiera cauta e quatta. L’edificio era circondato da una foresta rada e tetra, che rendeva l’ambiente piuttosto inospi-tale. Mi incamminai verso l’alto, quando udii un rumore. Mi guardai in giro, ma vidi solo le ombre scure degli alberi. “Che ci fa lei qui?” chiese una voce alle mie spalle. Mi prese un colpo. Ora cosa mi faranno? Chiameranno la polizia? E cosa succederà a Carol, quando si sveglierà e non mi troverà nel

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letto accanto a lei? Forse avrei dovuto lasciare un biglietto o qualcosa del genere cosicché mi sia potuta venire in soccorso. “Non può stare qui. Venga, mi segua” disse la voce, flebile e tremante, come se avesse avuto paura di qualcosa che si aggirava per i boschi. A un certo punto sentii una serie di scricchiolii ed una luce abbagliante mi accecò. Quando riaquisii a poco a poco la vista, ciò che vidi fu un tunnel di mattoni e il viso di suor Mary Theresa che mi fissava. Mi fece un sacco di domande, e io mentii spudoratamente. Dissi di dover assolutamente vedere un vecchio amico, Evan Fitzpleasure, e mi feci convin-cere ad essere portata da lui. Un ragazzo giovane, sui venticinque anni, Evan fu mio collega un paio d’anni prima che non riuscì a reggere la tensione del settore ed ebbe un crollo. Non lo conoscevo neanche così bene. Mi aveva chiesto una penna, un pomeriggio, quando la sua si guastò. Lui però ora era molto importante per me, il mio unico gancio per il successo. U-scimmo dal tunnel che praticamente serviva per un non immagino quale tipo di trasporto dal-la clinica all’esterno, in assoluta segretezza. Passammo attraverso una serie di corridoi lungo i quali intercorrevano a ritmo regolare delle porte, di ferro massiccio con una angusta fine-strella in alto e una piccola porticina, per farci passare il cibo, possibilmente, in basso. Urla selvatiche, sovraumane provenivano dalle celle. Come se questi esseri non avessero alcun senso di umanità. Ci fermammo davanti ad una porta piuttosto comune, quasi indistinguibile dalle altre se non per un segnetto rosso sopra la maniglia. Attraverso la piccola finestra della cella vidi l’uomo accasciato per terra. “Povero Evan. Il nostro dottor Frank l’ha diagnostica-to con un tumore al cervello un anno fa. Non gli resta molto da vivere” disse la suora, conge-dandosi. Avevo così tanto da chiedergli. Da dove avrei potuto cominciare? Non ebbi nean-che il tempo di rispondermi quando sentii un fischio e dei passi echeggiare lungo i corridoi. E tutte le urla disumane cessarono. Vidi una stanza vuota di fronte a me dalla porta semia-perta e mi ci infilai di scatto. Suor Dominique passava fischiettando per i corridoi controllan-do dentro le stanze con una torcia. Quando passò di fianco alla mia, mi nascosi e lei non mi vide. Aspettai un po’ prima di uscire. Quando lo feci, mi avviai in silenzio verso una qualche direzione. Non sapevo dove ero, non sapevo dove andare. Passai davanti a svariate celle e vidi le condizioni in cui erano detenuti i pazienti. Lanciai uno sguardo compassionevole ad ognuno di loro. A un certo punto notai che mi addentravo da qualche parte perché il ritmo delle porte delle stanze, che ormai cominciavano ad essere inabitate. Trovai una scala a chiocciola che saliva, e che scendeva. Scesi cauta e cercai di restare nascosta. La scala si apriva su un salone ampio con al centro un tavolo operatorio e il dottor Furter, l’uomo di quella mattina, chino sul corpo di una donna intento ai suoi esperi-menti contro natura. Cercai di trattenere la cena che piano piano voleva uscire dalla mia boc-ca e risalii la scala. Mi ritrovai nel salone di ingresso dove questa mattina la donnaccia era stata trascinata via. Risalii di nuovo le scale dalle quali ero stata cacciata da suor Dominique. La luce della luna che proveniva dal tetto cristallino rischiarava tutto l’atrio in una luce sof-fusa e inquietante. Mi fermai davanti all’edificio della suora e mi abbassai. Presi dalla borsa il mio kit per lo scasso di serrature: una forcina ed un cacciavite. Aprii la porta senza molti problemi. La richiusi dietro di me, e accesi la luce. Ravanai per i cassetti della suora in cerca di indizi, ma trovai solo un completo di lingerie rosso in mezzo a la sua biancheria intima (chissà cosa ci facesse una suora di un pezzo simile) Cercai nei cassetti del tavolo. Vi trovai una spilla, e dei vecchi documenti. Dannazione. Ci doveva essere qualcosa. Non poteva essere tutto lì. E fu allora che vidi un altro scaffale. Era l’archivio dei pazienti del Bakersfield Mental Institution. Bingo. Aprii il primo cassetto e guardai un po' di cartelle a caso. Poppy Ericson, soggetta a crisi isteriche. Mandy Hutch,schizofrenica. Sally Harrison, dopo aver partorito ha tentato il suicidio tre volte. Poi vidi qualcosa di strano. Melinda Tudor, Jessica Lange, Marion Curry. Causa di internamento: vuoto. Quei nomi, hanno un qualcosa di familiare. Non sapevo esattamente cosa. A un certo punto sentii rumore di passi dietro di me e prima che potessi stupirmi e

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girarmi e cercare una scusa, un escamotage per uscire dalla situazione, venni colpita alla te-sta e la mia vista si offuscò in tante stelline colorate. Una visione pittoresca prima di un buio soffocante. Mi svegliai ansimante. Ci misi un attimo a riprendere totale controllo della vista e mettere a fuoco le figure davanti a me. Suor Domi-nique mi fissava con occhi crudeli mentre alle sue spalli il dottor Furter maneggiava degli attrezzi. “Ben svegliata, madamoiselle Summers.” Provai a muovermi, a scappare, ma non ci riuscii. Non riuscii a muovere nemmeno un muscolo. Il suono della voce di suor Dominique riecheggiava ancora nelle mie orecchie attonite. Suor Dominique disse qualcosa che non fui capace di comprendere o di ricordare, e,prima di sparire dal mio campo visivo, disse “Sa, per curare la sua condizione si inizia sempre con una petit scossa” E con questo fece un cenno al suo partner, e sentii qualcosa premermi ambedue i lati della testa, e un forte spasmo pervase il mio corpo. Urlai senza nemmeno volerlo fare, e in poco tempo ricaddi nel buio totale. Quando mi svegliai, mi ronzava la testa. Mi misi a sedere sul letto. La mia vista era offuscata e ci misi un po’ a ricordare perché i muri della mia camera da letto non erano più tappezzati di carta da parati color pesca ma invece di un tetro grigio cemento che aumentava ancor di più la mia sensazione di disgusto. Frammenti vaghi degli ultimi giorni mi riaffioravano a po-co a poco nella testa, e ci misi un po’ per ricomporre il quadro di cosa mi era accaduto. Certi dettagli mi lasciavano ancora un po’ perplessa ma pensai che sarebbe stato meglio andare a cercare suor Dominique, spiegarle che c’è stato un malinteso e che non appartenevo a quella gabbia di matti. Penso che se avessi mangiato qualcosa, in quel momento avrei vomitato tutto. Mi alzai con il mio amaro torpore e mi diressi verso la porta, che era aperta. Avanzai per i corridoi semi de-serti, appoggiandomi ai muri. In qualche modo finì in una sala dove echeggiava, incalzata da un grammofono, una canzone piuttosto allegra in francese, in timido contrasto con l’ambiente tetro e freddo. La stanza era piuttosto ampia, e doveva trovarsi al secondo piano perché era il soffitto era fatto in vetro e rifletteva il cielo nuvoloso e cupo di quella giornata di… Era ancora giugno? O quelle droghe mi avevano stordita abbastanza che ormai giugno era finito? Oppure era addirittura autunno? Spiegherebbe l’insolito maltempo. “A Bakerfield splende sempre il sole”, è il motto della città appeso appena fuori da essa. - Dominique, ni-que, nique - Mi avvicinai ad un tavolo dove un uomo stava giocando a dama da solo - S’en allait tout simplement, - e feci per unirmi a lui, quando notai che mentre mi fissava con oc-chio strabico e la testa girata in uno strano angolo, con la mano tendeva verso di me, in cerca di contatto fisico - en tous chemins, en tous lieux, - e me ne andai. Mi sedetti ad un altro ta-volo vuoto, perché stare in piedi cominciava ad essere uno sforzo disumano. Il mio corpo ogni tanto era pervaso da questa specie di convulsione, e speravo che questa gradevole sen-sazione passasse in fretta. Il ne parle que du Bon Dieu. ~ Nei giorni seguenti venne a trovarmi nella mia camera suor Dominique, dopo svariati tentati-vi di avere un colloquio con lei attraverso i freddi infermieri che non facevano altro che fis-sare nel vuoto, impassibili. “Sorella Dominique! Che gioia, senta, mi deve lasciar andare. C’è stato un terribile malinteso, non sono pazza!” Gridai, cercando compassione negli occhi della suora. La sua espressione dura mi fissava impassibile. “Mi spiace, mademoiselle Sum-mers, ma la sua affermazione non è vera. Sa, siamo andati a trovare la sua chèrie miss Carol Dickens. L’inganno che avete messo su non è così ben celato, lo sa? E sa anche che il saffi-smo è una malattia, una devianza contro natura che va curata. Ed è quello che faremo qui insieme a lei”. “Non ha nessun diritto di tenermi qui!” Gridai indignata e spaventata. “Ho molto diritto, invece”, disse mostrandomi un documento che autorizzava la mia reclusione, firmato da Carol Dickens.Sentii il mondo che mi crollava sulla testa. Era vero? Se sì, perché l’ha fatto? Ricaddi sul pavimento e mi misi a piangere e lasciai la demoniaca suora uscire. (Tuttavia in seguito

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scoprii, suor Dominque aveva minacciato Carol di far uscire allo scoperto il nostro idilliaco nido d’amore, facendo perdere a Carol ciò che a quanto pare amava più di me: i suoi bambi-ni) I giorni passarono inesorabili sotto una coltre di grigi nubi. Nessun estate mi è mai sem-brata mai talmente scura. Col tempo imparai la routine del posto: colazione, medicina, sala, pranzo,medicine, sala, cena, medicine, sala. E poi a dormire. E quella canzone francese non si fermava mai, sempre la stessa, in un circolo eterno di tortura. Era come se la vita dell’edificio dipendesse da un grammofono che strilla. Passavo così tanto tempo nella sala che mi sembrava di sentire quella canzone anche di notte. Le medicine mi rifiutavo di pren-derle. Le nascondevo sotto la lingua e poi le sputavo nel sacchetto delle biglie. All’inizio nelle sessioni con il dottore per la valutazione psicologica restavo zitta e immobile, e lo fis-savo mentre lui fissava me in un cerchio vizioso di crudele oppressione. Io non volevo essere curata. Ma alla fine capii che se volevo uscire da quel buco non potevo far altro che collabo-rare. Così accettai di essere purificata. Nel grande salone dove a ritmo di canti francesi si svolgeva la gran parte della vita della clinica conobbi uno svariato numero di pazienti: Eliza la ninfomane, Paul lo schizofrenico, Martha la maniaca del controllo. Persone a posto, ma da non darci troppa confidenza. Poi c’erano i pazienti rinchiusi lì per caso o per ingiustizia, co-me Francis, che fu accusato di un crimine che non ha commesso, o Becky, che fu internata dal marito quando gli annunciò la sua intenzione di lasciarlo. Raccolsi tutte le storie in un taccuino che tenevo nascosto sotto il cuscino che in qualche modo riuscii a racimolare dalle mie cose. Nel giro di una settimana le mie convulsioni spasmodiche dovute all’elettroterapia cessarono e cominciai la mia terapia di conversione. All’inizio si trattava di farmi guardare immagini di donne in posizioni inconvenienti, quasi tendenti all’osceno, mentre una flebo mi iniettava qualche liquido nel sangue che mi dava una forte sensazione di disgusto rivoltando-mi completamente lo stomaco. Però dovevo resistere, dimostrarmi determinata a curarmi. Il dottore poi era molto amichevole. Non come quel muso quadrato di Furter, ma aveva una cordialità spiccata per quel luogo. La seconda fase era di guardare un corpo nudo maschile e sforzarmi di provare eccitazione, cosa che trovai alquanto ripugnante e “se ti può aiutare io ti consiglierei di toccarti mentre lo fai”. Volevo andarmene. Prendere e lasciare quel luogo di orrori. Quindi strinsi i denti e feci vedere la mia determinazione. Quando ebbe finito il suo trattamento con me, dovette partire per il Mississipi, e mi disse durante il nostro ultimo col-loquio che la terapia si era conclusa con successo, che suor Dominique ne era stata informata e che è stata suggerita la mia ni, e per ogni momento che passavo lì dentro, una parte di me moriva. La gente entrava e usciva, spesso in sacchi di plastica. Ogni tanto qualcuno scendeva giù nel laboratorio di Dr. Testaquadrata e non tornava più su. Erano sempre pazienti più gra-vi e senza nessuno che poteva reclamarli. Come unica indicazione del tempo – il Natale. Un albero veniva addobbato al centro della grande sala, il coro di Soeur Sourise era interrotto in favore di canti natalizi e un film veniva proiettato per la gioia dei pazienti nella grande sala. Per un giorno, eravamo esseri umani. Passarono quattro Natali così, e persero man mano sempre più importanza. Un giorno, dal nulla, suor Dominique scomparve. Non lasciò nessun avviso, niente. La clini-ca senza la sua imponente presenza. Alcuni pensano che abbai gettato tutto all’aria per un giovane inserviente che lavorava lì, altri che l’abbia uccisa il dottor Furter. Cinque giorni dopo arrivarono dei funzionari dello stato pronti a gestire la facoltà. Ci chiamarono uno a uno per dei colloqui privati. Quando enunciarono il mio nome, il cuore mi balzò in gola. “Venga, signorina Summers. Allora” disse un uomo alto con gli occhiali a tartaruga “non so perché la precedente gestione l’abbia tenuta qui tutto questo tempo. Non abbiamo assolutamente alcun motivo di trattener-la qui. Maynard la accompagnerà a prendere la sua roba dalla camera e poi è libera di andarsene”. Disse, indicando un omaccione dietro di me con la apparenze di un infermiere.

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Non ci potevo credere. Dopo tutti questi anni, ero libera! Andai a prendere i miei vestiti, mi pettinai i capelli che ormai da anni si erano arricciati in una palla di fieno sulla mia nuca, e mi vestii. Presi il mio taccuino e mi avviai per uscire dalla porta principale. Respirare l’aria pulita e fresca della natura mi fece sentire viva, viva come una rosa nel prato notturno. Quando tornai nella mia vecchia casa, scoprii tutto ciò che era accaduto in quegli anni. Ca-rol, lacerata dal senso di colpa per aver ceduto alle vili minacce della suora, prese una corda e si impiccò in camera da letto. La casa, senza proprietario, è stata rimessa sul mercato. Comprata quindi dalla famiglia dei Morrison. Credo che sia meglio così.

Il Bakersfield Mental institution crollò nel 1974 in seguito ad una falla idraulica, causando la morte dei pazienti al suo interno e dove era situato fu costruita una fattoria. Lizzie Summers vinse il premio Pulitzer per l’articolo di giornale che ne trasse.

ERMINOV VLADISLAV – LICEO DELLE SCIENZE UMANE BAGATTA (DESENZANO) – CL- III

HO …

Ho aspettato il mondo, incidendo muri chiusi,

girando in tondo, tra compagni e sopprusi.

Ho sognato il mondo, quattro letti a castello, quel respiro profondo

e tra le mani un coltello. Ho contato il tempo, tra secondini e regole e sbarre tra le nuvole. Ho sperato il tempo

di un'uscita dalla libertà alla vita

BASSI DE TONI MARCO – LICEO LEONARDO (BRESCIA) – CL. II

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VITELLO ARROSTO BARDATO CON PANCETTA

INGREDIENTI PER 4 PERSONE: Polpa di vitello: 800 grammi; Pancetta a fette: 200 grammi; Vino bianco 2dl; Rosmarino; Olio extravergine d’oliva; Sale; Pepe. PREPARAZIONE: Salate e pepate la carne, avvolgetela con le fette di pancetta, legatela con lo spago da cucina, rosolatela in una teglia con l’olio su tutti i lati, aggiungete metà del vino e il ro-smarino. Continuate a cuocere in forno a 180 gradi per 150 minuti, aggiungendo il vi-no rimasto. Disponete l’arrosto nel piatto da portata, eliminate lo spago, tagliatela a fette ed infine conditela con il fondo di cottura.

FAGOTTINI AL POMODORO

INGREDIENTI PER 4 PERSONE: 250 grammi di farina gialla; 300 grammi di farina 00; 15 grammi di lievito di birra fresco; 6 pomodori secchi sott’olio; 3 rametti di timo; 1 cucchiaino di zuc-chero; olio, sale. PREPARAZIONE: Impastare per 10 minuti farina, lievito di zucchero, 1 cucchiaio di olio, 3 dl di

acqua e 10 grammi di sale. Fate lievitare 2ore. Tagliate in 4 filetti i pomodori. Dividete l’impasto in 12 panetti e stendili in sfoglie ova-li di mezzo cm di spessore. Mette-re sopra 2 filetti di pomodoro, qualche foglia di timo e arrotolare. Fateli lievitare 1 ora nella teglia. Poi infornare a 200 gradi per 30 minuti.

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PEPERONI RIPIENI DI COUS COUS

INGREDIENTI PER 4 PERSO-NE: 4 peperoni; cous cous grammi 160; 1 cipolla; polpa di maiale grammi 150; piselli 70 grammi; vino bian-co; scamorza affumicata 50 gram-mi; olio extravergine d’oliva; sale e pepe. PREPARAZIONE: Lavate i peperoni, tagliate le calotte e svuotateli con un cucchiaino. Ri-ducete la carne a pezzetti, rosolate-

la in una padella con l’olio, unite la cipolla tritata, le calotte dei peperoni taglia-ti a striscioline, e i piselli. Continuare a rosolare, sfumare con un goccio di vi-no, aggiungere un mestolo d’acqua tiepida, salare e cuocere per altri 15 minuti. Versare il cous cous in una casseruola, coprire con l’acqua, salare, cuocerlo per 5 minuti, scolarlo, quindi trasferirlo nella casseruola con la carne e amalgamare sul fuoco per qualche minuto. Cuocere i peperoni in forno a 180 gradi per 45 minuti, irrorandoli con un filo d’olio, poi estraeteli dal forno, riempiteli con il composto di cous cous, aggiungete la scamorza tagliata a pezzetti, salate e pe-pate. LA POLENTA CON I FORMAGGI.

INGREDIENTI: 2 noci di burro; 300 grammi di gorgonzola; 100 grammi di taleg-gio; 50 grammi di pecorino; 3 dita di latte; 100 grammi di noci frullate; 200 grammi di grana padano; 1 kg di farina gialla. PREPARAZIONE: Mettere a bollire l’acqua, aggiungere il sale. Portare all’ebollizione, buttare un pugno di farina prima di aggiungerla tutta a pioggia, per evitare che si formino granuli. Gira-re senza fermarsi, in senso orario per circa 45 minuti. Aggiungere 100 grammi di gor-gonzola, 100 grammi di taleggio e 50 grammi di grana padano, una noce di burro, due dita di latte e 100 grammi di noci frullate. Lasciare cuocere per altri 30 minuti, giran-dola costantemente. Sciogliere in un pento-lino 200 grammi di gorgonzola, una noce di burro, un dito di latte fino alla formazione di una crema liquida. Versare la polenta in un piatto, spargere sopra la crema e per conludere una spolverata di grana padano. La polenta del bergamasco doc è pronta! Buon appetito! Il bergamasco

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ARIETE: In questo periodo il calore del vostro fuoco si fa sentire. Fare confronti non paga mai. Siete dei combattenti ma depositare ogni tanto le armi non fa male. Più fiducia nel prossimo.

TORO: Periodo di stasi. Lavorate su voi stessi. Trattate come divinità le voci che vi parlano nell'anima, probabilmente in esse troverete le vostre soluzioni.

GEMELLI: Ognuno ha dentro di se molti volti e permettersi di portarne qualcuno alla luce del sole ar-ricchisce la vostra immagine. I pianeti vi sono favorevoli, ora dipende da voi.

CANCRO: Possedete un mondo interno fatto di immagini fantastiche, sogni, sentimenti e creatività. Rendete partecipe di questo anche il vostro partner. Sarà felice di riscoprirvi.

LEONE: La situazione si sta sciogliendo. Un piccolo miracolo che testimonia che vi state collocando bene nella vita. State uscendo dal tunnel dei dubbi. Complimenti.

BILANCIA: Un piccolo suggerimento: per ritrovare il vostro passo abituale prendetevi qualche ora di libertà assoluta. Vi permetterà di ricaricare all'istante il serbatoio del vostro benessere.

SCORPIONE: Dai spazio al centro della tua vita. Non è un compito, per te è un dovere. E' arrivato final-mente il momento di raccogliere i frutti del tuo lavoro..

SAGITTARIO: Il piacere è la molla che ti spinge a fare. Hai la capacità di reinventarti ogni giorno e di af-frontare tutto ciò che ti capita. Allora, spazio alla creatività !

CAPRICORNO: Il timore di cadere o di perdere inibisce le tue manifestazioni affettive. Prova poco alla vol-ta a lasciarti andare, vincerai comunque.

ACQUARIO: Fai tabula rasa dei tuoi pregiudizi. Con la mente libera un'intuizione può arrivare da qual-siasi parte. Spirito pratico e concretezza saranno la tua guida.

PESCI: Ogni uomo è un mondo a se. Tu sei senz'altro unico. Impara però a concedere, anche i pic-coli gesti possono essere molto efficaci. Volgi lo sguardo verso che ti fa battere il cuore e osa ! A cura di Anna

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Se vuoi contattare la redazione invia una mail a: [email protected] ; ti risponderanno le redazioni di Zona508.

“Caro amico ti scri-vo…”

“ Caro amico ti scrivo…”

SI RINGRAZIANO: Per la collaborazione

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Dal Martedì al Venerdì,

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Hai mai sentito parlare di Act? Www.act-bs.com

L’Associazione Carcere e Territorio di Bre-scia è orientata alla promozione, sostegno e gestione di attività che sensibilizzino l’opinione pubblica riguardo alle tematiche della giustizia penale, della vita interna al carcere e del suo rapporto con il territorio. Promuove e coordina intese interistituzionali e collaborazioni, sui problemi carcerari, tra l’amministrazione penitenziaria, la magistra-tura, le amministrazioni, le forze politiche, le organizzazioni del privato sociale e del vo-lontariato. Promuove e realizza le iniziative che favori-scono, all’interno del carcere: l’assistenza socio-sanitaria, l’organizzazione di attività sportive, ricreative, formative, scolastiche, culturali e lavorative, l’organizzazione di percorsi di formazione professionale e di progetti sperimentali per l’inserimento lavo-rativo dei detenuti, il reinserimento sociale del detenuto al termine della pena.

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