YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

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In caso di mancato recapito inviare a TORINO C.M.P. NORD per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa. LUIGI ALICI DARIO ANTISERI PAOLO SPINICCI POL BOUCHER IGOR TAVILLA SERGIO GRMEK GERMANI SILVIO GRASSELLI GUGLIELMO FORGES DAVANZATI RICCARDO REALFONZO ANTONELLA RICCIARDELLI AZZURRA ARGENTIERI IGOR AGOSTINI ENZO NATTA ERNESTO G. LAURA ALESSANDRA PIZZI SERGIO SALVATORE PAOLO PEVERINI VITO COMISO RANDALL KLINE DAVID HARRINGTON MARIALUISA GIULIANO CORRADO PUNZI ALDO CASTO JACOB SCHMUTZ CLAUDIA PEDONE PABLO CHIUMINATTO GIULIA BELGIOIOSO SANDRO MANCINI FABIO MINAZZI LUCIANO CANFORA RICCARDO VIALE DARIO EDOARDO VIGANÒ Evento editoriale. Viganò: Dizionario della Comunicazione. Antiseri: oggettività dell’in- formazione Città del mondo . Giuliano: passeggiando per New York. Incontri. Riccardo Viale, neo- Direttore dell’IIC di New York. Caso editoriale. Luigi Alici: Cielo di Plastica. Spinicci: quando la perce- zione incontra il dubbio Colloqui. Randall Kline: San Francisco Jazz Festival & Krono Quartet Lourdes di Jessica Hausner GENNAIO-AGOSTO 2010 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abb. Postale - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 1, DCB (TORINO) NN°4-5 1-2 | 2010 € 10,00 DUBITARE del 9 788874 025954

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Rivista quadrimestrale di studi sul cinema e la comunicazione in prospettiva multidisciplinare

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LUIGI ALICIDARIO ANTISERIPAOLO SPINICCI

POL BOUCHERIGOR TAVILLA

SERGIO GRMEK GERMANISILVIO GRASSELLI

GUGLIELMO FORGES DAVANZATIRICCARDO REALFONZO

ANTONELLA RICCIARDELLIAZZURRA ARGENTIERI

IGOR AGOSTINIENZO NATTA

ERNESTO G. LAURAALESSANDRA PIZZI

SERGIO SALVATOREPAOLO PEVERINI

VITO COMISORANDALL KLINE

DAVID HARRINGTONMARIALUISA GIULIANO

CORRADO PUNZIALDO CASTO

JACOB SCHMUTZCLAUDIA PEDONE

PABLO CHIUMINATTOGIULIA BELGIOIOSO

SANDRO MANCINIFABIO MINAZZI

LUCIANO CANFORARICCARDO VIALE

DARIO EDOARDO VIGANÒ

Evento editoriale. Viganò: Dizionario della Comunicazione.Antiseri: oggettività dell’in-formazione

Città del mondo. Giuliano: passeggiando per New York. Incontri. Riccardo Viale, neo-Direttore dell’IIC di New York.

Caso editoriale. Luigi Alici: Cielo di Plastica.Spinicci: quando la perce-zione incontra il dubbio

Colloqui. Randall Kline: San Francisco Jazz Festival & Krono QuartetLourdes di Jessica Hausner

GENNAIO-AGOSTO 2010Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abb. Postale - D. L. 353/2003

(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 1, DCB (TORINO)NN°4-5 1-2 | 2010 € 10,00

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9 788874 025954

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YOD. CINEMA, COMUNICAZIONE E DIALOGO TRA SAPERIwww.yodonline.com

ANNO II NN. 4-5GENNAIO - AGOSTO 2010ISBN 978-88-7402-595-4

Poste Italiane s.p.a.Spedizione in Abb. PostaleD.L. 353/2003 - (conv. in L. 27/02/2004 n°46) art. 1,comma 1, DCB (TORINO) - 1-2/2009Registrazione Tribunale di Roman. 567/99 del 1-12-1999

Direttore responsabileDARIO EDOARDO VIGANò[email protected]

Direttore editorialeGIOVANNI [email protected]

DirezioneGIOVANNI SCARAfILEDipartimento di Filosofia e Scienze SocialiUniversità del SalentoVia V.M. Stampacchia - 73100 LECCETel. +39.0832.294662 | fax +39.0832.294626

Proprietà ACEC

PresidenteROBERTO BUSTI

Segretario GeneralefRANCESCO GIRALDO

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RedazioneACECVia Nomentana, 25100161 ROMATel. +39.06.4402273 | fax. [email protected]

EditoreEffatà EditriceVia Tre Denti, 110060 Cantalupa (TO)Tel. +39.0121.353452 | fax [email protected] | www.effata.it

Hanno collaborato:LUIGI ALICI, PAOLO SPINICCI, POL BOUCHER, IGOR TAVILLA, SILVIO GRASSELLI, GUGLIELMO fORGES DAVANZATI, ANTONELLA RICCIARDELLI, AZZURRA ARGENTIERI, IGOR AGOSTINI, ENZO NATTA, ALESSANDRA PIZZI, SERGIO SALVATORE, PAOLO PEVERINI, VITO COMISO, MARIALUISA GIULIANO, CORRADO PUNZI, ALDO CASTO, CLAUDIA PEDONE, SANDRO MANCINI

Progetto grafico, impaginazione e illustrazioniROBERTA [email protected] | www.robertapizzi.com

WebmasterCOSIMO [email protected]

StampaPublistampa Arti Grafiche s.n.c. di Casagrande Silvio & C.Via Dolomiti 12 | 38057 Pergine Valsugana (TN)

AbbonamentiRivista quadrimestrale – 1 numero € 10,00Abbonamento annuo ITALIA 3 numeri € 24,00Numero arretrato € 20,00Abbonamento annuo ESTERO (Zona 1) 3 numeri € 60,00Abbonamento annuo ESTERO (Zona 2 e 3) 3 numeri € 78,00c.c.p. 33955105, intestato ad Effatà EditriceIBAN IT66 X030 6930 7501 0000 0063 668

Crediti fotograficiLe immagini e le illustrazioni delle pagg. 1, 19, 105, 159 sono di proprietà di YOD.Per le altre immagini l’editore ha cercato con ogni mezzo i tito-lari dei diritti fotografici, è a disposizione per l’assolvimento di quanto occorre nei loro confronti.

foto di copertina The Expansive Relationship of Two Individuals as An Indepen-dent One | 6 gennaio 2008 | DerrickT / Derrick Tyson | licenza Creative Commons foto terza di copertinaSelf-Portrait | 27 novembre 2006 | Jam Adams / Jamie Adams | licenza Creative Commons

Giovanni Scarafile 1 Editoriale

Dario E. Viganò 10 Dentro il comunicare

Dario Antiseri 14 L’oggettività dell’informazione

Sandro Mancini 18 Dubitare, vedere, decidere: lo scetticismo fenomenologico

Marialuisa Giuliano 22 Passeggiando per New York

Paolo Spinicci 26Il remo spezzato: riflessioni sul dubbio e sulle testimonianze percettive

Paolo Peverini 32La retorica del dubbio nella pubblicità sociale non convenzionale. Una prospettiva sociosemiotica

Pol Boucher 42Il dubbio. Un esempio del suo trattamento da parte dei giuristi del diritto vecchio

Igor Agostini 48 Il moderno in filosofia: Descartes l’«eroe»

Igor Tavilla 56Tenebrosa lanterna. La parabola del dubbio nella cinematografia di Dreyer

Silvio Grasselli 68L’orrore di credere. Il regime del dubbio in Lourdes di J. Hausner

Giovanni Scarafile 78Argomentare, vedere, sentire. Sul rapporto tra patico ed aptico nella filosofia del cinema

Aldo Casto 86 Il medico come artista

Corrado Punzi 92Vedi buio, forse è luce. I paradossi dell’opinione pubblica e della democrazia

Luigi AliciGiovanni Scarafile 102

Verso l’alto. Percorsi del senso e idolatrie del contemporaneo

Enzo Natta 112 Rivamare

Claudia Pedone 114La lingua che crea e pensa per te. Alcune osservazioni sull’universo linguistico della Germania nazista

Sergio Salvatore 123Dubitare in psicologia per non dubitare della psicologia

Randall KlineAlessandra Pizzi 132 Le note dell’influenza.

Azzurra Argentieri 142 Gomorra o la questione del genere

Guglielmo Forges Davanzati 150 La comunicazione delle teorie economiche

Vito Comiso 159 La cerimonia del tè

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Secondo un tradizionale modo di pensare, in realtà abbastanza diffuso, l’aver dubbi è sinonimo di indecisione ed insicurezza. Del dubbio, invece, conviene liberarsi quanto prima per essere

finalmente uomini tutto d’un pezzo.È senz’altro vero che possono esistere dimensioni del dubitare che con-

segnano ad una radicale ambivalenza e questo non è certo positivo. Ma, appunto, si tratta di una eccezione, per quanto significativa.

Il dubitare su cui intendiamo riflettere è piuttosto una condizione di ve-rità dell’umano ed esso si traduce in avvertimento della necessità che ogni nostro atto possa essere fondato, cioè radicato nell’autenticità del nostro vivere.

Un compito infinito, questo, come la forma verbale scelta per il titolo di questo numero di YOD, quasi a voler suggerire l’inesauribilità di un com-pito che non può dirsi concluso dopo una qualche sommaria esecuzione.

Incamminarsi sulla via del dubitare comporta la scelta di verificare le indubitabili certezze che il senso comune ci consegna in eredità. Un passo non facile. A questo primo passo allude l’immagine di copertina: vedere di meno può, infatti, essere una scelta consapevole quando implica la libertà di sottrarsi alla corrente continua che ci lega al mondo delle cose; quando atti-va, proprio in conseguenza della diminuzione della visione, una differente attenzione vigile su quanto ci circonda; quando, infine, ci induce a mettere bene a fuoco quanto ci viene consegnato dalla nuova modalità di visio-ne. Coprire l’occhio può simbolicamente alludere all’attivazione di quello sguardo interiore, riferibile non solo e non tanto ad un oggetto specifico della nostra percezione, ma alla struttura stessa del nostro essere. È questa la radice di quel dubitare inteso come luogo sospeso, ma sempre fungibile, in cui verificare i coefficienti delle cose, al di là di ogni istituita consuetudine.

Gli esperti interpellati in questo numero ci aiutano a cogliere il valore del dubbio in diversi ambiti: nel cinema, nella letteratura, nel linguaggio, nella pubblicità, nella giurisprudenza, nella psicologia, nella medicina, nel-la sociologia, nella filosofia.

Mi sembra allora che proprio il tema del dubbio, colto nelle plurime

declinazioni qui ospitate, ci consenta di intravedere non in termini evasivi il guadagno dell’esser disposti all’ascolto del dialogo tra i saperi.

Nella pratica di tale attitudine è possibile scorgere un ulteriore possibi-le significato della foto di copertina in cui è la mano dell’altro a dare inizio al processo del dubitare. Non è un caso che il termine latino dúbium intrat-tenga una parentela con dúo, sostantivo che indica il numero due.

La derivazione etimologica sembra suggerire come non possa darsi al-cun dubitare autentico se non all’interno di una dinamica relazionale in cui è l’altro che ci aiuta a vedere bene noi stessi.

* * *In questo numero siamo, inoltre, felici di ospitare due esclusive riso-

nanze tematiche, scaturite dal precedente numero di YOD, dedicato alle forme di espressione ibride. Si tratta di un colloquio di Alessandra Pizzi con Randall Kline, direttore del San Francisco Jazz festival e di uno studio di Azzurra Argentieri su Gomorra.

* * *L’apertura di questo numero di YOD è però dedicata alla recente

pubblicazione del Dizionario della Comunicazione, curato da Dario Edoardo Viganò, dopo un lavoro di quasi due anni che ha coinvolto 106 autori, pro-fessori provenienti da più di venti Università italiane e straniere, nonché af-fermati professionisti del mondo della comunicazione. Pubblichiamo così l’Introduzione del Dizionario e la voce sulla “Oggettività dell’informazione” scritta da uno dei Maestri della filosofia contemporanea, Dario Antiseri.

* * *Anche con questo numero di YOD, continua il nostro impegno di

offrire una piattaforma di contenuti per la riflessione, lo studio, la profes-sione. Nel salutare i Lettori, desidero ringraziare tutti coloro che in questi mesi hanno inteso manifestare il loro apprezzamento per il nostro lavoro.

editoriale

Giovanni Scarafile

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Sandro Mancini (Milano 1951) è professore ordinario di Filosofia Morale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo. Ha pubblicato, tra l’altro: “Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dia-lettica dell’espres sione” (1987, II. ediz. accresciuta: Mimesis, 2001), “Umano e nonumano tra vita e sto-ria. Lévi -Strauss, Jonas e la ragione dialettica” (Mimesis, 1996), “Oh, un amico! In dialogo con Montai-gne e i suoi interpreti” (Franco-Angeli, 1996), “La sfera infinita. Identità e differenza nel pensiero di Giordano Bruno” (Mimesis, 2000), “L’orizzonte del senso. Verità e mon-do in Bloch, Merleau-Ponty, Paci” (Mimesis, 2005).

DUBITARE, VEDERE, DECIDERE: LO SCETTICISMO FENOMENOLOGICORiprendendo alcuni motivi ricondu-cibili al pensiero greco e alla fenome-nologia di impronta husserliana, si esa-mina una concezione del dubbio nei confronti della verità concepita come qualcosa e non come qualcuno. Nel ridislocarsi dal registro del ‘che cosa’ a quello del ‘chi’, il dubbio si presenta in tutt’altra luce, ed emerge il suo poten-ziale risvolto maligno, la malafede che può nascondersi in esso e utilizzarlo come comodo paravento per eludere la decisione e l’impegno.

SANDRO MANCINIDARIO ANTISERIGià Professore Ordinario di filoso-fia del linguaggio presso l’Univer-sità di Padova, ha successivamente assunto la cattedra di Metodologia delle scienze sociali alla LUISS di Roma per poi ricoprire l’incarico di preside della Facoltà di Scienze po-litiche della stessa Università tra il 1994 ed il 1998.Nel febbraio del 2002 è stato insi-gnito di una laurea honoris causa presso l’Università Statale di Mo-sca.

L’OGGETTIVITÀ DELL’INFORMAZIONEL’oggettività dell’informazione è un mito, un ideale o un compito possi-bile?

MARIALUISA GIULIANOMarialuisa Giuliano è giornalista pubblicista presso il quotidiano America Oggi. Laureata in Economia a Parma, dopo aver frequentato un Master alla Columbia University, vive a e lavora a New York.

PASSEGGIANDO PER NEW YORKIn “Immagini di città”, Benjamin scri-veva: “Trovare parole per ciò che si ha dinnanzi agli occhi: quanto può essere difficile. Ma quando esse arrivano allo-ra è come se battessero con dei piccoli colpi di martello contro la superficie del reale, sino a sbalzarne, come da una lastra di rame, la forma”.Quando una passeggiata per le vie di Manhattan può diventare cifra del-la possibilità che l’anima di un città ci porti a superare ogni diffidenza e dubbio nell’altro. Con un colloquio con Riccardo Viale, nuovo Diretto-re dell’Istituto Italiano di Cultura di New York.

Dario Edoardo Viganò è professore ordinario di Comunicazione e pre-side dell’Istituto Redemptor Homi-nis, presso la Pontificia Università Lateranense. Insegna Semiologia del cinema e degli audiovisivi alla Luiss“Guido Carli”, dove è anche membro del Comitato direttivo del Centre forMedia and Communication Stu-dies “Massimo Baldini”. Presidente della Fondazione Ente dello Spet-tacolo e direttore della “Rivista del Cinematografo”, è anche membro del Consiglio di amministrazione del Centro Sperimentale di Cine-matografia. Tra i suoi libri: Gesù e la macchina da presa. Dizionario ragionato del cinema cristologico (Roma 2005); Attraverso lo scher-mo. Cinema e cultura cattolica in Italia (con Ruggero Eugeni, 3 voll., Roma 2006); La Chiesa nel tempo dei media (Roma 2008); La musa impara a digitare. Uomo, media e società (Roma 2009).

DENTRO IL COMUNICAREIntroduzione del Dizionario della Co-municazione.

DARIO E. VIGANÒ

indice

contributors&

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Paolo Spinicci (Milano, 1958) si è laureato nel 1982 con Giovanni Piana sulla fenomenologia della logica in Husserl e attualmente in-segna Filosofia teoretica all’Univer-sità degli Studi di Milano. I suoi interessi di ricerca vertono sulla filosofia della percezione e in ge-nerale dell’esperienza, colta in una prospettiva analitico-fenomenolo-gica. Ha scritto lavori su Husserl e Wittgenstein e ha pubblicato da poco un saggio sulla filosofia delle arti figurative (Simile alle ombre e al sogno. Filosofia dell’immagine, Bollati Boringhieri, Torino 2008). Attualmente sta lavorando ad un libro sulla filosofia dell’immagina-zione.

IL REMO SPEZZATO: RIFLESSIONI SUL DUBBIO E SULLE TESTIMONIANZE PERCETTIVENelle sue Meditazioni, Cartesio ci in-vita a pensare alla percezione alla luce di due assunti di fondo. Il primo ci ri-conduce ad una metafora giuridica: se non consideriamo la percezione come un semplice fatto biologicamente uti-le, dobbiamo pensarla come una te-stimonianza che asserisce l’essere così del mondo. Il secondo ci invita invece a pensare alla percezione come una re-lazione mediata: date in una certezza indiscutibile sono le immagini degli oggetti, non la realtà di cui è lecito du-bitare. Scopo di queste pagine è mette-re in dubbio questi due assunti per mo-strare la possibilità di una concezione realistica dell’intenzionalità.

PAOLO SPINICCIPaolo Peverini insegna Semiotica e Semiotica della Comunicazione Visiva nella facoltà di Scienze Po-litiche della Luiss Guido Carli di Roma, svolgendo la sua attività di ricerca all’interno del CMCS (Cen-tre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini”). Tra le sue Pubblicazioni: “Le Immagini raccontano le notizie? Multimedia-lità e nuove frontiere del fotogior-nalismo” (con Marica Spalletta, UCSI-UNISOB, 2007); “Uncon-ventional. Valori, testi, pratiche della pubblicità sociale” (con Mari-ca Spalletta, Meltemi, 2009).

LA RETORICA DEL DUBBIO NELLA PUBBLICITÀ SOCIALE NON CONVENZIONALE UNA PROSPETTIVA SOCIOSEMIOTICANello scenario in continua evo-luzione del social advertising un fenomeno si segnala all’attenzione con intensità sempre maggiore: la pubblicità sociale non convenzio-nale. L’unconventional, nelle sue numerose forme espressive, ricerca il contatto con lo spettatore a pre-scindere dalle modalità tradizionali di comunicazione pubblicitaria. In una prospettiva sociosemiotica la pubblicità sociale non convenzio-nale cerca, nei casi più interessan-ti, di trasformare lo scetticismo del pubblico in una strategia retorica innovativa; Esplorare le logiche comunicative della pubblicità so-ciale non convenzionale suggerisce inevitabilmente una riflessione sul tema del dubbio

PAOLO PEVERINIPol Boucher, dottore in filosofia, ha ricevuto tre premi dall’Acadé-mie des Sciences Morales et Politi-ques per diverse edizioni dei lavori giuridici di Leibniz. Ha curato la pubblicazione dei seguenti testi lei-bniziani: Doctrina Conditionum (Duchemin, 1998), De Conditio-nibus (Vrin, 2001), Des cas perple-xes (Vrin, 2007). Ha attualmente intrapreso la cura dell’edizione di altri tre lavori di Leibniz (Exemple de questions philosophiques tirées du droit, Nouvelle Méthode pour enseigner le droit et la jurispru-dence, De l’art combinatoire). Ha recentemente terminato un lavoro di sintesi sull’utilizzo della dialet-tica da parte dei giuristi dell’ultima scolastica.

IL DUBBIO UN ESEMPIO DEL SUO TRATTAMENTO DA PARTE DEI GIURISTI DEL DIRITTO VECCHIOLa prima funzione del diritto è di defi-nire norme precise per eliminare i casi incerti e garantire la prevedibilità delle soluzioni. Ma quando i fatti sono tal-mente ambigui da poter essere definiti in vari modi, l’obbligo di giudicare con-duce ad utilizzare le risorse della proce-dura e delle distinzioni giuridiche, allo scopo di rendere il caso certo dal punto di vista del diritto, senza poterlo ren-dere certo dal punto di vista dei fatti. Questo è ciò che illustra l’analisi di un celebre duello ad opera di Leibniz.

POL BOUCHERRICCARDO VIALERiccardo Viale, nato a Torino nel 1952, è professore ordinario di Lo-gica e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Sociologia dell’Uni-versità degli Studi di Milano-Bi-cocca. Dal 2002 è Docente Stabile di Politica della Ricerca e dell’Inno-vazione presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione di Roma. Ha svolto incarichi di insegnamento e ricerca presso varie Università straniere (Oxford; Aix en Provence; Rice, Houston; Fri-bourg; Federal University of Rio de Janeiro; Santa Barbara).Il prof. Viale è, tra l’altro, Promo-tore e Membro dell’Associazione Italiana di Scienze Cognitive (dal 2002); Rappresentante naziona-le nel Comitato di Programma “Strutturare lo Spazio Europeo della Ricerca” del Sesto Programma Quadro (dal 2002); Socio fondato-re della “Italian Cultural Founda-tion” (FIAC) for North America (2003); Membro del Gruppo di la-voro su “Trasferimento dei risultati della ricerca” del C.N.R. di Roma (dal 2004); Membro dell’Interna-tional Advisory Panel del New Op-portunities for Research Funding Agency Co-operation in Europe (NORFACE) ERA-NET project (dal 2004).

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Igor Tavilla (1980), insegna storia e filosofia nella scuola superiore ed è iscritto al Dottorato di ricerca in Antropologia e Filosofia presso l’Università degli Studi di Par-ma, dove approfondisce il pensiero di Søren Kierkegaard. Nel 2007 ha pubblicato il volume Ordet di Carl Theodor Dreyer. Il miraggio kierkegaardiano. Pisa: ETS, sulle analogie formali esistenti tra il ca-polavoro del regista danese e lo stile comunicativo di Kierkegaard. Nel 2009 sulla rivista Ciemme. Ricerca e informazione sulla comunicazio-ne di massa 160: 38-49, è apparso un suo contributo dal titolo “Yukio Mishima: il corpo trafitto. Una ta-natologia del cinema giapponese”.

TENEBROSA LANTERNA. LA PARABOLA DEL DUBBIO NELLA CINEMATOGRAFIA DI DREYERAttraverso quali espedienti fotogra-fici Dreyer ha reso presente la pro-blematica del dubbio nel proprio cinema e con quali esiti nei diversi film? Quanto hanno inciso le ango-sce di orfano e autore emarginato sulle sue scelte espressive? Quale si-gnificato riveste il tema del dubbio nella sua opera? Da questi interro-gativi il saggio muove alla scoperta della “tenebrosa lanterna”, sorta di proiettore di ombre a cui Dreyer affida la messa a punto di un’at-mosfera caliginosa e torbida, cifra cromatica delle proprie incertezze. Attraverso un itinerario religioso, sottoposto alla severa censura del dubbio, Dreyer e i suoi film risor-geranno a nuova luce.

IGOR TAVILLA

PABLO CHIUMINATTOPablo Chiuminatto (1965), Dotto-re di ricerca in filosofia, è Professo-re presso la Facoltà di Lettere della Pontificia Universidad Católica de Chile, dove svolge anche la sua at-tività di ricerca. Ha conseguito la sua formazione in Cile, Francia ed in Italia, dove ha collaborato con il Centro interdipartimentale di studi su Descartes e il seicento dell’Uni-versità del Salento. Dal 2004 è Co-editor della Revista de Arte y Literatura (Vértebra, Santiago del Chile).

JACOB SCHMUTZJacob Schmutz è attualmente pro-fessore associato presso l’Università Paris-IV Sorbonne. Ha consacrato la sua tesi di dottorato alla tratta-zione delle modalità nella metafi-sica gesuita spagnola. Lavora a una cartografia della cultura scolastica francese dell’ancien régime (1500-1789) e segnatamente a un catalogo collettivo di manoscritti accademi-ci.

GIULIA BELGIOIOSOGiulia Belgioioso è Professore ordi-nario di Storia della Filosofia presso l’Università del Salento, dove è Di-rettore del Dipartimento di Filoso-fia e Scienze Sociali e Coordinatore del Dottorato Internazionale in Forme e storia dei saperi filosofici. Fondatore del Centro Interdipar-timentale di Studi su Descartes e il Seicento, collegato col Centre Descartes dell’Universitè Paris IV-Sorbonne.

SERGIO GRMEK GERMANISergio Grmek Germani (Trieste 1950). Critico e storico del cine-ma e autore televisivo (tra gli altri programmi “La regola del gioco” e “Fuori orario” per Rai Tre). E’ stato curatore di retrospettive e rassegne monografiche per vari festival inter-nazionali del Friuli Venezia Giulia (sulle cinematografie jugoslave, sul cinema romeno e su Carl Theodor Dreyer), per la Biennale di Vene-zia (sull’area balcanica e Andrzej Munk), a Torino (Augusto Genina, Stavros Tornes) e Locarno (Mario Camerini). Svolge ricerche d’archi-vio per La Cineteca del Friuli, con la quale cura il progetto Cottafavi. Dirige a Trieste il festival “I mille occhi”. Ha fondato e diretto i primi due numeri (il secondo su Dreyer) della rivista “La cosa vista”. Scrive su “Il manifesto” e altri quotidiani e riviste. E’ inoltre autore di volumi monografici, del saggio sul cinema jugoslavo nella “Storia del cinema” edita da Einaudi e di numerose voci (tra cui Dreyer) nel parallelo “Di-zionario dei registi”. Ha curato il volume Carl Theodor Dreyer. L’uni-ca grande passione (Udine 2002) e, con G. Placereani, il volume di studi Per Dreyer. Incarnazione del cinema (Il Castoro, 2004).

Igor Agostini, Dottore di ricerca in filosofia, Ancien pensionnaire étran-ger dell’Ecole Normale Supérieure di Parigi, è Professore a contratto di Storia della filosofia moderna presso l’Università del Salento, dove svol-ge la sua attività di ricerca presso il Centro Interdipartimentale su Descartes e il Seicento. È autore del volume L’infinità di Dio. Il dibatti-to da Suárez a Caterus. 1597-1641 (Roma, Editori Riuniti, 2008) e di numerosi articoli e saggi in italia-no, inglese e francese su Descartes e la storia del cartesianismo. È dal 1999 collaboratore del Bulletin cartésien, lo strumento bibliografi-co di riferimento nell’ambito degli studi cartesiani.

IL MODERNO IN FILOSOFIA: DESCARTES L’«EROE»La definizione del «moderno» in filoso-fia passa attraverso la discussione della questione del perché della storia della filosofia moderna Descartes sia consi-derato il padre. Fra le letture proposte da storici e filosofi, il presente saggio rilancia, richiamandone alcuni aspetti, l’interpretazione «rappresentazionista»: la modernità del pensiero cartesiano e la radice del dubbio sta nella posizione dell’idea quale oggetto immediato del-la conoscenza. Tale interpretazione tro-va ampio supporto nel corpus cartesia-no e, per quel che concerne la posterità, una base testuale non solo negli autori cosiddetti «razionalisti», ma anche in quelli del filone «empirista».

IGOR AGOSTINI

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Dottorando in Cinema presso il Di.Co.Spe. dell’Università di Roma Tre, è saggista, critico cinematogra-fico (carta stampata, web, tv) e fil-maker. Selezionatore e organizzato-re in festival e rassegne. Dal 1998 organizza e conduce seminari teo-rici e laboratori pratici sul cinema e su tecniche e linguaggi dell’audio-visivo per la scuola media superiore e inferiore.

L’ORRORE DI CREDEREIL REGIME DEL DUBBIO IN LOURDES DI J. HAUSNERLourdes non è un film sulla fede ma sull’impossibilità/incapacità di cre-dere; non un’esaltazione del dubbio scettico e neppure una parodia della fede religiosa, un’analisi, piuttosto, del regime di credenza nella con-temporaneità. La narrazione cinematografica di-venta strumento per l’esplorazione del credere e del non credere e più di tutto delle diverse declinazioni del dubitare, colte in un luogo ti-pico della contemporaneità, dove il Vero e il Falso sono affiancati e con-fusi, il Sacro e il Profano si scam-biano continuamente di posto. Il (meta)riflesso del cinema, disciolto nel racconto, serve da palinsesto nel quale sistemare una collezione di appunti, ritratti e schizzi che hanno per oggetto “l’orrore di credere”.Con una intervista dell’ufficio stampa del film a Jessica Hausner e Sylvie Testud.

SILVIO GRASSELLI ALDO CASTOAldo Casto, laureato in medicina e chirurgia, è Specialista in Ortope-dia e Traumatologia ed in Medici-na Fisica e Riabilitazione. Relatore in diversi congressi nazionali ed internazionali, autore di 13 pub-blicazioni su riviste nazionali ed internazionali. Ha eseguito diver-si Cadaver Lab in Europa e negli Stati Uniti. Sposato con Stefania, che lo sopporta quando anche sulla spiaggia porta con sé testi di medici-na da leggere e dalla quale ha avuto una splendida bimba, Giulia, di sette anni.

IL MEDICO COME ARTISTAL’autore cerca di descrivere la difficile arte del medico, muovendo dal vissuto interiore a partire dal quale il medico esercita la sua professione. Se nella me-dicina attuale vengono aggiornandosi continuamente terapie e tecnologia a disposizione, è rimasta invariata la de-ontologia, la perseveranza nello studio e l’approccio caritatevole al malato che soffre.

GIOVANNI SCARAFILEGiovanni Scarafile è Professore aggre-gato di Etica e deontologia della comu-nicazione nell’Università del Salento. Tra gli scritti, si segnalano: “La vita che si cerca. Lettera ad uno studente sulla felicità dello studio”, Effatà 2005; con Dario E. Viganò, “L’adesso del domani. Rifigurazioni della speranza nel cine-ma moderno e contemporaneo”, Effatà 2007; “In lotta con il drago. Male e individuo nella teodicea di G.W. Lei-bniz”, Milella, Lecce 2007; “Paroles entièrement destituées de sens”. Pathic reason in the Theodicee in M. Dascal (Ed.), “Leibniz: What Kind Of Ratio-nalist?”, Spinger 2008.

ARGOMENTARE, VEDERE, SENTIRE. SUL RAPPORTO TRA PATICO ED APTICO NELLA FILOSOFIA DEL CINEMAChe rapporto c’è tra visione e tat-tilità? A quale facoltà dell’umano bisogna riferirsi per mettere in relazione visibile e tattile? Qual è l’importanza della connessione tra questi due elementi e, soprat-tutto, in che rapporto si trova una tale connessione con la struttura dell’argomentazione?

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CORRADO PUNZILaureato in Scienze della comuni-cazione presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bo-logna, è dottorando di ricerca in Scienze giuridiche presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Salento. Qui ha studiato con il Prof. Raffaele De Giorgi e presso il Centro di Studi sul rischio di Lecce ha approfondito la teoria dei siste-mi di Niklas Luhmann e, in parti-colare, la sua concezione del potere come medium della comunicazione. Nel 2007-2008 ha collaborato con la Fondazione Ente dello Spettacolo per la quale ha scritto diversi saggi, alcuni di questi pubblicati in Viga-nò, D. (Ed). 2009. Dizionario del-la Comunicazione. Roma: Carocci.

VEDI BUIO, FORSE È LUCE.I PARADOSSI DELL’OPINIONE PUBBLICA E DELLA DEMOCRAZIACosa si vede quando si osserva la de-mocrazia? Come è possibile capire che ogni verità, e quindi anche quella de-mocratica, è solo un’ invenzione di un bugiardo? Chi è, allora, il bugiardo? Qual è la menzogna che si nasconde dietro democrazia? Quale il suo para-dosso?Indagare questi problemi non signifi-ca risolverli, ma quantomeno vedere di non vedere. Analizzando il principio illuminista della pubblicità del potere è possibile osservare il lato oscuro del pro-cesso di democratizzazione, ampliare la complessità, riconsegnare il problema all’agire politico.

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LUCIANO CANFORALuciano Canfora è ordinario di Fi-lologia greca e latina presso l’Uni-versità di Bari Componente del co-mitato scientifico della “Society of Classical Tradition” di Boston, del-la Fondazione Istituto Gramsci di Roma. Dirige la rivista “Quaderni di Storia” e la collana di testi “La città antica”. Fa parte del comita-to direttivo di “Historia y critica” (Santiago, Spagna), “Journal of Classical Tradition” (Boston), “Li-mes” (Roma).

ENZO NATTAGiornalista, critico cinematografico di “Famiglia Cristiana” e di “Cro-nache & Opinioni”. Fondatore e direttore responsabile della rivista “Filmcronache”. Direttore del-la collana “Studi e ricerche” edita dall’Ancci (Associazione nazionale circoli cinematografici italiani). Fra i suoi ultimi libri “Uno sguardo nel buio – Cinema, critica, psicoa-nalisi” (Effatà Editrice) e “Una pol-trona per due – Cinecittà fra pub-blico e privato” (Effatà Editrice).

RIVAMAREUn racconto a ritroso alla ricerca delle origini de Il graffio della regina.Con una introduzione alla collana di Ernesto Laura.

LUIGI ALICI CLAUDIA PEDONEClaudia Pedone è dottoranda all’Università del Salento, dove frequenta il corso dottorale in Eti-ca e antropologia in cotutela con l’EHESS. Nata a Lecce nel 1985 si è laureata in Storia della filosofia con una tesi in Filosofia teoretica diretta da Fabio Minazzi. Le sue ricerche ruotano principalmente at-torno all’opera di Paul Ricœur, di cui ha approfondito l’aspetto episte-mologico durante gli studi universi-tari. A Parigi ha collaborato presso il Fonds Ricœur per l’archiviazione dei testi inediti lì lasciati in eredità dal filosofo francese.

LA LINGUA CHE CREA E PENSA PER TEALCUNE OSSERVAZIONI SULL’UNIVERSO LINGUISTICO DELLA GERMANIA NAZISTASulla scia dell’analisi filologica di Vic-tor Klemperer si propone una riflessio-ne sulla lingua della Germania nazista. Lo studio delle parola diviene il punto di accesso per la comprensione degli eventi che hanno avuto luogo nel cuore dell’Europa nella metà del Novecento e che hanno condotto all’assassinio di massa di dodici milioni di persone. Qual è il dominio che un potere to-talitario può estendere sulla sfera del linguaggio? Quali sono le sue caratte-ristiche e quali conseguenze compor-ta? È possibile opporre una resistenza a questa sottile forma di violenza? La testimonianza diretta di Klemperer offre alcune risposte ed apre a nuove domande.

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Luigi Alici è professore ordinario di filosofia morale e Coordinatore del Dottorato di ricerca in Filosofia e teoria delle scienze umane nell’Uni-versità di Macerata. Dirige la se-zione filosofia della Collana “SUB – strumenti universitari di base” per l’editrice La Scuola di Brescia e la Collana “Percorsi di etica” per l’editrice Aracne di Roma. Tra le sue pubblicazioni, si segnala: L’al-tro nell’io. In dialogo con Agostino, Città Nuova, Roma 1999; Il terzo escluso, San Paolo, Cinisello Bal-samo 2004; La via della speran-za. Tracce di futuro possibile, Ave, Roma 2006.

VERSO L’ALTO. PERCORSI DEL SENSO E IDOLATRIE DEL CONTEMPO-RANEOColloquio con Giovanni Scarafile sul-le nuove idolatrie contemporanee, a partire dai temi affrontati nell’ultimo libro, Cielo di plastica.

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FABIO MINAZZIOrdinario di Filosofia teoretica presso l’Università dell’Insubria, Fabio Minazzi ha insegnato presso l’Università del Salento, l’Accade-mia di architettura dell’Università della Svizzera italiana e l’Universi-tà di Cordoba. Autore di oltre cin-quanta volumi e di circa duecento studi nei quali ha affrontato, tra gli altri, il problema del realismo, la storia del pensiero filosofico ita-liano del Novecento, il dibattito epistemologico contemporaneo, la rivoluzione scientifica galileiana, il pensiero di Giulio Preti e di Lu-dovico Geymonat. Il dramma dei campi di sterminio è al centro dello studio svolto nel volume “Filosofia della Shoah” (2006).

PENSARE AUSCHWITZ?Una riflessione ai limiti del pensiero sulla possibilità di pensare il male ra-dicale.

SERGIO SALVATOREProfessore ordinario di Psicologia dinamica presso Università del Salento. Co-direttore delle riviste: Integrative Psychological and Beha-viour Science, European Journal of School Psychology Psicologia Scola-stica. Membro dell’Editorial Board di Culture & Psychology, di Inter-national Journal of Idiographic Science, Rivista di Psicologia Clini-ca. Presidente della Società scienti-fica italiana di studi e ricerca per lo sviluppo della psicologia in ambito scolastico e formativo (SIRPAS). È autore o co-autore di circa 140 pubblicazioni scientifiche tra libri, curatele, articoli su riviste naziona-li o internazionali.

DUBITARE IN PSICOLOGIA PER NON DUBITARE DELLA PSICOLOGIALo sviluppo della psicologia passa per la revisione delle premesse fon-danti la disciplina. La prima parte del lavoro discute una tra le più ri-levanti di tali premesse: la nomote-ticità dei fenomeni psicologici. La seconda parte del lavoro intro-duce una distinzione tra due forme di dubbio: il dubbio costruttivo, che opera all’interno delle premes-se fondative del proprio oggetto e il dubbio decostruttivo che assume come proprio riferimento tali pre-messe.

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ALESSANDRA PIZZIAlessandra Pizzi si è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Firenze. È direttrice della collana di poesia della casa editrice “Sulla rotta del sole – Gior-dano Editore”, per la quale ha cu-rato l’edizione di numerosi volumi. Ha collaborato con diverse riviste letterarie, come la «Rassegna Eu-ropea della Letteratura Italiana», diretta dal prof. Michelangelo Pico-ne. Ha fondato e dirige, insieme al dott. Angelo Sconosciuto, la rivista letteraria «Rigel».Attualmente collabora in maniera stabile con il quotidiano «La Gaz-zetta del Mezzogiorno» e insegna italiano e storia nella scuola secon-daria superiore di II grado.

LE NOTE DELL’INFLUENZA

DAVID HARRINGTONDavid Harrington, trentasei anni fa, nel 1973, fonda il Kronos Quartet, un quartetto d’archi com-posto dallo stesso Harrington e da John Sherba, Hank Dutt e Jeffrey Zeigler. Ad oggi il Kronos Quartet ha tenu-to migliaia di concerti in giro per il mondo; ha inciso più di quaranta cd e ha ricevuto numerosi premi.Il gruppo, fin dalla sua nascita, ha ricercato una visione artistica ori-ginale, grazie ad uno spirito ardito di esplorazione e ad una volontà di sperimentazione costanti in tutti i campi musicali. Questi elemen-ti rappresentano la peculiarità del gruppo, considerato uno dei più ce-lebri e autorevoli dei nostri tempi.

RANDALL KLINENel 1983 Randall Kline diede vita ad una manifestazione dal tito-lo Jazz in the City. Nel 1999 da quell’esperienza nacque la SFJazz Organization, un’organizzazione non-profit della quale Kline è fon-datore e direttore artistico esecutivo e che comprende il SFJazz Festival, il SFJazz Spring Season, il SFJazz Summerfest, il SFJazz Education Programs e il gruppo musicale SFJazz Collective.Il Festival costituisce oggi una delle manifestazioni più importanti del mondo, con oltre cento tra concer-ti ed eventi culturali l’anno e più di 100.000 appassionati del jazz ed estimatori che giungono da ogni parte del pianeta per assistere ai concerti.

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GUGLIELMO FORGES DAVANZATIGuglielmo Forges Davanzati (Na-poli, 1967) è professore associato di Storia dell’analisi economica e titola-re dell’ insegnamento di Giornalismo Economico nell’Università del Salento di Lecce. I suoi interessi di ricerca ri-guardano le dinamiche del mercato del lavoro, la modellistica postkeynesiana, l’ istituzionalismo, i rapporti fra etica ed economia. Fra le sue più recenti pubblicazioni si segnala la monografia Ethical codes and income distribution: A study of John Bates Clark and Thor-stein Veblen. London-New York: Rout-ledge 2006.

LA COMUNICAZIONE DELLE TEORIE ECONOMICHE Quali sfide l’economia deve affrontare quando voglia porsi il problema della comunicazione?

AZZURRA ARGENTIERIAzzurra Argentieri è nata a Brindisi nel 1982. Si è laureata a pieni voti in “Arti e Scienze dello Spettacolo” presso l’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi dal titolo Dentro Gomor-ra: dal romanzo al film. Quando la realtà si fa cinema.Nel 2006, dopo aver conseguito l’atte-stato di “Digital Video Director”, ha scritto, diretto e montato un cortome-traggio dal titolo “Calma apparente”, in concorso al “Mestre film fest” e al festival “O’ Curt” di Napoli. Ha fon-dato, insieme ad altri artisti, il gruppo collettivo Molecular Project, con cui è attualmente impegnata nell’allesti-mento di una mostra dal titolo “Sine-stesia” che si terrà a Tsagkarada-Mou-resi (Grecia).

GOMORRA O LA QUESTIONE DEL GENEREUna riflessione su sintonie e distonie tra il libro di Saviano ed il film di Garrone. Con una riflessione di Enzo Natta.

ANTONELLA RICCIARDELLIAntonella Ricciardelli (Varese, 1982) è laureata in Scienze dello Sviluppo presso l’Università del Sa-lento. Attualmente è Cultrice della Materia di Storia dell’analisi eco-nomica e di Economia del Lavoro presso la Facoltà di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio dell’Uni-versità del Salento. È inoltre dotto-randa del Dipartimento di Studi Storici, Geografici e delle Relazioni Internazionali per l’indirizzo Pa-esaggio, Ambiente e Territorio tra Gestione delle Risorse Locali e Pro-cessi di Integrazione.

RICCARDO REALFONZORiccardo Realfonzo (Napoli, 1964), economista, professore ordinario, è Direttore del Dipartimento di Ana-lisi dei Sistemi Economici e Sociali dell’Università del Sannio. È auto-re di numerosi libri e saggi su temi di economia del lavoro, teoria mo-netaria, storia dell’analisi economi-ca. Recentemente ha curato: L’eco-nomia della precarietà (con P. Leon, Manifestolibri, 2008), Qualità del lavoro e politiche per il Mezzogior-no (Franco Angeli, 2008). È Segre-tario dell’Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico nonché membro dell’editorial bo-ard di alcune riviste scientifiche. È membro della consulta economi-ca nazionale della FIOM-CGIL. È coordinatore della rivista online

“Economia e politica” (www.econo-miaepolitica.it).

VITO COMISOLucano, fotografo free lance, lavora tra Milano, Barcellona e Tokyo.

LA CERIMONIA DEL TÈPrima che tutto accada, l’attimo so-speso tra il qui e ora e l’immediato che deve avvenire, in questo momento so-speso, un incontro può suggerire uno scarto del destino.

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Scritti di: Umberto Laffi, Kenneth Seeskin,Robert W. Wallace, Bruno Centrone, Enrico Giaccherini,Gianfranco Fioravanti, Stefano Perfetti, David M. Posner,

Regina M. Schwartz, Tiziano Raffaelli, Martin Zelder,Alessandro Balestrino, Cinzia Ciardi , Christine Helmer,

Flavia Monceri, Eva De Clercq, Adriano Fabris

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Metamorphoses of LoveMetamorfosi dell’amore

T E O R I ARivista di filosofia

fondata da Vittorio SainatiXXIX/2009/2 (Terza serie IV/2)

Edizioni ETS

Com’è stato vissuto e pensato ciò che siamo soliti chiamare«amore»? Quali sono le trasformazioni, le metamorfosi,che questo sentimento, ben presto istituzionalizzato,

subisce dal mondo antico, attraverso il medio evo e l’età moder-na, fino alla riflessione contemporanea? E cosa cambia nellatrattazione di esso, a seconda che la prospettiva che lo considerasia primariamente storica, oppure filosofica, letteraria, economi-ca, religiosa?I contributi che vengono raccolti in questo fascicolo di «Teoria»,pubblicati sia in inglese che in italiano, offrono un vero e propriodizionario dei mutamenti concettuali che questo termine, unavolta sottoposto a riflessione, subisce nel corso della storia: daPlatone alla dimensione transgender.

� 18,00

Collana: Teoria. Rivista di filosofia fon-data da Vittorio Sainati (8)Pagine: 216Prezzo: € 18,00Anno: 2009ISBN: 9788846725523Formato: cm.17x24Autore: AA.VV.

Com’è stato vissuto e pensato ciò che siamo soliti chiamare “amore”? Quali sono le trasformazioni, le metamorfosi, che questo sentimento, ben presto istituzionalizzato, subisce dal mondo antico, attraverso il medio evo e l’età moderna, fino alla riflessione contemporanea? E cosa cambia nella trattazione di esso, a seconda che la prospettiva che lo considera sia primariamente storica, oppure filosofica, letteraria, economica, religiosa?I contributi che vengono raccolti in questo fascicolo di “Teoria”, pubblicati sia in inglese che in italiano, offrono un vero e proprio dizionario dei mutamenti concettuali che questo termine, una volta sottoposto a riflessione, subisce nel corso della storia: da Platone alla dimensione transgender.

Scritti di: Umberto Laffi, Kenneth Seeskin, Robert W. Wallace, Bruno Centrone, Enrico Giaccherini, Gianfranco Fioravanti, Stefano Perfetti, David M. Posner, Regina M. Schwartz, Tiziano Raffaelli, Martin Zelder, Alessandro Balestrino, Cinzia Ciardi , Christine Helmer, Flavia Monceri, Eva De Clercq, Adriano Fabris

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EVENTO EDITORIALE

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Dopo due anni di lavoro, con il coinvolgimento di ben 106 autori,

di professori provenienti da più di 20 Università italiane e straniere,

nonché di affermati professionisti del mondo della comunicazione, arriva nelle librerie il

Dizionario della Comunicazione.YOD presenta in esclusiva

l’Introduzione del Dizionario, scritta dal curatore Dario Edoardo Viganò e la voce

sull’«Oggettività dell’informazione» scritta da Dario Antiseri.

Dario E. Viganò

DENTRO IL COMUNICARE

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Obiettivi e finalitàIntraprendere il lavoro per

la pubblicazione di un Dizio-nario della comunicazione è im-presa titanica. L’obiettivo di tale iniziativa editoriale è quello di realizzare un’opera che coniughi l’esattezza scientifica, il rigore metodologico e una marcata tensione all’approfondimen-to con la chiarezza espositiva, l’esaustività e l’agevolezza di consultazione proprie di un effi-cace strumento di formazione.

L’opera con tali caratteristi-che è concepita anzitutto come sussidio didattico per gli stu-denti universitari che, nel corso della propria formazione acca-demica, intendono accostarsi alle scienze della comunicazio-ne, ma anche come valido sup-

porto informativo e critico per tutti coloro che, a diversi livelli e per motivi differenti, operano nel settore della comunicazione o a questo, più in generale, ri-volgono il proprio interesse.

Al fine di corrispondere più adeguatamente di un diziona-rio tradizionale alle rinnovate strategie di costruzione e tra-smissione dei saperi derivate all’individuo e alla collettività dall’impiego massivo dei nuovi media, nonché con l’intento di sollecitare nei lettori strategie molteplici, flessibili e personaliz-zabili di fruizione (dallo studio sistematico, all’aggiornamento, all’approfondimento di temi e prospettive, alla più semplice lettura selettiva), questo lavo-ro presenta una strutturazione interna moderna e funzionale,

incentrata sulla ripartizione per ambiti disciplinari e sull’orga-nizzazione modulare del mate-riale informativo.

In tal senso, il Dizionario della comunicazione si avvale di interventi propriamente specia-listici di natura storico-critica e metodologica e di un’ampia offerta di percorsi tematici e concettuali autonomi (eppure variamente interrelabili).

Articolazione dell’operaLa comunicazione è ana-

lizzata anzitutto a partire da ambiti disciplinari differenti (Approcci), ciascuno dei quali fornisce un inquadramento ge-nerale e sistematico degli argo-menti di seguito affrontati, in-troduce temi e problemi interni o esterni che hanno in preva-lenza segnato lo specifico oriz-zonte interpretativo, definisce i paradigmi teorico-critici e le procedure metodologiche di ri-ferimento, tratteggiando gli svi-luppi cronologici e le personali-tà di spicco della disciplina. Gli autori del saggio di approccio, provenienti dal mondo accade-mico o specialisti di spicco nel panorama italiano, hanno avu-to cura, nel proprio contributo, di individuare e di privilegiare aspetti particolari per attualità o rilevanza.

La differente provenien-za degli autori contribuisce al disegno di un caleidoscopio di metodiche che arricchiscono l’approccio al mondo della co-municazione.

Gli Approcci sono:• Storia della comunicazio-

ne, Massimo Baldini (Università luiss “Guido Carli”);

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• Forme della comunicazio-ne mediale, Mariagrazia Fanchi (Università Cattolica di Mila-no);

• Economia e management della comunicazione, Giuseppe Richeri (Università della Svizze-ra italiana);

• Semiotica e scienze dei lin-guaggi, Ruggero Eugeni (Uni-versità Cattolica di Milano);

• Sociologia della comunica-zione, Marco Accorinti (Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del cnr, Sa-pienza Università di Roma);

• Psicologia della comunica-zione, Alessandro Amadori (Isti-tuto Coesis Research, Università degli studi di Padova);

• Educazione mediale, Pier Cesare Rivoltella (Università Cattolica di Milano);

• Teologia della comunica-zione, Dario Edoardo Viganò (Pontificia Università Latera-nense);

• Etica della comunicazione, Adriano Fabris (Università di Pisa);

• Comunicazione e politica, Michele Sorice (Università lu-iss “Guido Carli”).

Ogni Approccio è a sua volta articolato in Ambiti. Si tratta di saggi di taglio spiccatamente in-formativo, capaci di coniugare completezza e concisione, attra-verso i quali vengono presentati, nei loro tratti salienti, argomen-ti, temi, percorsi e nodi con-cettuali (già emersi nell’analisi condotta negli Approcci o per la prima volta affrontati nel volu-me) fondamentali per indagare il mondo della comunicazione a partire dalla prospettiva disci-plinare di riferimento. La cura degli Ambiti è stata opportu-namente ripartita tra specialisti

di provenienza accademica ed esperti operanti come professio-nisti nel mondo della comuni-cazione.

Accanto agli Ambiti trovano spazio quelli che qui abbiamo denominato Focus ovvero sche-de informative che presentano correnti culturali, movimenti di opinione, invenzioni, ope-re, eventi e fatti di varia natura inerenti il singolo Ambito. Con-cepito come parte integrante dell’intero volume, strumento essenziale per orientare e rio-rientare i destinatari nel corso delle diverse occasioni di frui-zione dell’opera, è l’Indice dei nomi che conclude il lavoro.

RingraziamentiUn ringraziamento anzi-

tutto a Massimo Baldini, cui quest’opera è dedicata, per aver accolto da subito e con entusia-smo l’idea di tale progetto edi-toriale e avviato una serie di rap-porti, le cui tracce sono presenti in questo lavoro. Grazie a tutti i professori amici e colleghi e ai professionisti che hanno reso

possibile questa opera mettendo a disposizione specifiche com-petenze e tempo prezioso.

L’Approccio di Massimo Baldini Storia della comunica-zione è l’ultimo suo scritto e rappresenta anche il passaggio di testimone al gruppo di giova-ni ricercatori che con lui hanno condiviso la tenacia della ricerca rigorosa e onesta. Un ringra-ziamento particolare al Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini” (lu-iss), luogo di custodia della me-moria e di testimonianza dello stile nella ricerca; al Comitato direttivo di cui mi onoro di far parte con i professori Da-vid Forgacs, Matthew Hibberd e con gli amici Paolo Peverini (vicedirettore) ed Emiliana De Blasio (coordinatrice). Uno spe-ciale ringraziamento al diretto-re, il professor Michele Sorice, perché ha voluto confermarmi la stima di Massimo Baldini e per la sincera amicizia. Il volu-me non avrebbe potuto vedere la luce senza la preziosa, costan-te e precisa collaborazione reda-zionale di Sergio Perugini.

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INFORMAZIONE

Dario Antiseri

L’OGGETTIVITÀDELL’INFORMAZIONE

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In un supplemento dell’“Espres-so” del 13 luglio 1969, intitola-to Il lavaggio dei lettori, Umberto Eco scriveva che l’obiettività è un

“mito”, una «manifestazione di falsa coscien-za, ideologia», intesa come «struttura teorica elaborata per coprire altre cose». Per l’Eco di allora «il giornalista non ha un dovere di obiettività. Ha un dovere di testimonianza. Deve testimoniare su ciò che sa e deve testi-moniare dicendo come la pensa lui. Compito del giornalista non è quello di convincere il lettore che gli sta dicendo la verità, bensì di avvertirlo che egli sta dicendo la “sua” verità. Ma che ce ne sono anche altre. Il giornalista che rispetta il lettore deve lasciargli il senso dell’alternativa».

Il 15 marzo del 1972, al momento di as-sumere la direzione del “Corriere della Sera”, Piero Ottone nell’articolo di fondo – dal titolo Il nostro compito – dichiarava: «l’informazione libera e obiettiva costituisce il contributo del-la stampa affinché la società italiana sciolga il dilemma in senso positivo, cioè migliorando il sistema democratico, non rinunciandovi [...]. Nulla è più benefico della verità, anche se amara [...] Il giornale deve essere creduto da tutti, quali che siano i colori politici di chi lo legge».

Nel 1978 nel saggio L’obiettività dell’in-formazione: il dibattito teorico e le trasforma-zioni della società italiana Eco cambia idea: l’obiettività finisce di essere un mito per diven-tare un ideale concreto. L’informazione deve configurarsi come «storiografia del presente», come informazione science oriented. Nel 1982 Giovanni Bechelloni, nel Mestiere del giorna-lista, insiste: «secondo noi [...] l’obiettività deve essere un traguardo a cui mirare costan-temente, un obiettivo da perseguire con tena-cia. Dietro l’idea dell’obiettività, ci deve stare la consapevolezza che sia possibile dare, teo-ricamente, un’interpretazione oggettiva di ciò che accade: l’obiettività diventa così un con-cetto ideal-tipico (nel senso di Max Weber), come tale non esistente ma la cui presenza è riconoscibile: una tensione permanente verso la verità»1. E, infine, nel 1995, Furio Colom-bo (in Ultime notizie sul giornalismo) fa pre-sente che l’adorazione e il rifiuto dell’obiet-tività costituiscono due pericolose trappole: l’adorazione dell’obiettività porterebbe «a un progetto impossibile», il rifiuto dell’obiettivi-tà condurrebbe «a un progetto sbagliato». La via giusta del giornalismo, afferma Furio Co-lombo, è «il percorso, onesto e testardo, dei fatti verificati con indipendenza, utilizzando

le fonti per quanto autorevoli solo come uno dei possibili materiali di costruzione della notizia»2.

Ecco, dunque, il problema: l’oggettività dell’informazione è un mito, un ideale o un compito possibile?

«D’accordo, non tutti i giornalisti italiani mentono. Ma una parte di noi, in epoche di-verse, ha sempre mentito. Abbiamo mentito per conto del padrone del giornale, soprattut-to quando l’interesse numero uno del padrone non era quello di vendere notizie. Abbiamo mentito per riguardo al potere politico domi-nante. Abbiamo mentito per favorire l’oppo-sizione. Abbiamo mentito quando ce lo chie-deva qualche club così poco presentabile da esser segreto, come accadde con la Loggia P2. Abbiamo mentito per favorire o contrastare la politica e la magistratura. Abbiamo mentito per tornaconto personale. Abbiamo menti-to anche per quelle che ci apparivano nobili ragioni, ragioni alte e forti, ossia per spinta ideologica, per scelta di campo. E talvolta, onore al merito, abbiamo avuto il coraggio di testimoniare l’errore. Con un po’ di ritardo, ma, vivaddio! con sincerità»3. Questo scrive Giampaolo Pansa in Carte false.

Dunque: esistono giornalisti asini, gior-nalisti ciechi, giornalisti venduti, giornalisti opportunisti ecc. ecc. Ma esistono anche giornalisti onesti e perbene, ci dice Pansa. E non c’è ragione per dubitarne. Tanto più che ci sono stati giornalisti che hanno pagato con la vita la loro onestà e il loro coraggio. Ma c’è una domanda che qui non possiamo eludere: è reale – per dirla con Ugo Ronfani – il fetore delle bugie che si leva dalle redazioni; è ben vero cioè che esistono giornalisti che mento-no per le ragioni più diverse, ma i giornalisti onesti e perbene sono forse infallibili? Qui, insomma, c’è da distinguere tra obiettività e oggettività. La prima è un predicato delle per-sone oneste e in buona fede, la seconda è un predicato di proposizioni, teorie, argomenta-zioni. L’obiettività è una virtù personale; l’og-gettività è una questione pubblica, di pubblico controllo. Il prodotto non è il produttore. E una informazione o argomentazione che presu-me di descrivere e spiegare qualche fatto è ogget-tiva quando è pubblicamente, cioè intersoggetti-vamente, controllabile, e quindi falsificabile.

Se questo è vero, allora come nella scienza la strada verso più verità o verso una migliore verità è la stessa strada degli errori individuati ed eliminati – cioè come nella scienza l’indi-viduazione dei fatti contrari alle teorie è tra gli ingredienti più importanti della ricerca –

L’oggettività dell’informazione è un

mito, un ideale o un compito possibile?

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così nel giornalismo l’individuazione dei fat-ti e degli argomenti contrari alle tesi esposte dal giornalista dovrebbe essere un punto di orgoglio di ogni giornale serio. Un punto di orgoglio di ogni giornale serio e non un atto di coraggio o un gesto di contrizione (sempre ben-venuti) di qualche singolo giornalista.

Il problema delle fonti Se valgono le cose dette sul metodo scien-

tifico da Karl Popper4 e sul procedimento er-meneutico da Hans Georg Gadamer5 – e cioè che: non possiamo mai essere certi di aver raggiunto una teoria o una interpretazione vera; che più idee sono una ricchezza e non una miseria; che l’ipotesi o interpretazione migliore è, di volta in volta, quella che risolve più problemi e che riesce a resistere ai con-trolli più severi; che la verità non è un pos-sesso – quanto piuttosto un ideale regolativo; che il fatto puro o libero da teoria è una idea che non regge; che la “logica” della ricerca è la “logica” del “dissenso” – della discussione, e su tutto – se valgono, dunque, queste cose, diventano allora comprensibili le considera-zioni che, nel secolo scorso, John Stuart Mill ha sviluppato nel suo grande libro Saggio sulla libertà6, specie nel secondo capitolo intitola-to: Della libertà di pensiero e di discussione.

«Proibire di accogliere un’opinione perché la si reputa falsa, equivale ad affermare che si ha la certezza assoluta, impedire che venga di-scussa, è una presunzione dell’infallibilità»7.

«Ogni uomo sa bene che è fallibile, ma pochi trovano necessario prendere le pre-cauzioni contro la propria fallibilità; pochi ammettono la supposizione che la cosa, sul-la quale sono convinti di aver ragione, possa essere uno degli esempi della fallibilità cui si riconoscono soggetti»8.

«La libertà illimitata di contraddire e disapprovare è appunto la condizione, senza cui non potremmo mai stabilire un’opinio-ne vera. Un essere umano non ha alcun altro mezzo per assicurarsi razionalmente che tro-vasi dalla parte del vero»9.

Per Mill «la fonte di tutto quanto avvi di rispettabile nell’uomo, sia come essere intellet-

tuale che come essere morale, è la capacità di correggersi. L’uomo – egli scrive – può rettifi-care i suoi errori per mezzo della discussione e dell’esperienza. Non della sola esperienza: oc-corre anche la discussione, per mostrare come l’esperienza debba essere interpretata»10.

Gli uomini, il cui giudizio ispira fiducia, sono uomini – afferma Mill – i quali «pre-starono attenzione ad ogni critica mossa sulle loro opinioni e sulla loro condotta: si abitua-rono ad ascoltare pazientemente tutto quello che poteva dirsi contro di loro, e a profittarne in quanto era giusto [...]. La costante abitudi-ne di correggere e di completare le nostre opi-nioni ponendole a confronto di quelle degli altri, lungi dal generare dubbi e irrisolutezze, è il solo fondamento stabile d’una ragionevo-le fiducia nelle opinioni medesime»11.

Teorie sempre migliori e interpretazioni sempre più adeguate non hanno fonti privile-giate; non sono frutto di editti, esse sono esiti di una costruzione senza sosta. Anche «la più intollerante delle chiese, la Chiesa cattoli-ca romana – dice Mill – ammette e ascolta attentamente l’avvocato del diavolo, persino nei processi per la canonizzazione dei santi. Il più degno dei mortali non è innalzato agli onori postumi, se non viene prima sentito e vagliato tutto quello che il diavolo può dire contro di lui [...]. Le nostre credenze, di qua-lunque natura, non possono riposare sopra migliore guarentigia, che sopra quest’invito permanente al mondo intero di confutarle e di mostrarne la falsità»12.

Se non esistono fonti privilegiate di veri-tà, nemmeno questo o quel giornale può pre-tendere o può venir visto come una fonte pri-vilegiata di verità. E non esistono giornalisti probi, colti e intelligenti che siano immuni da errori. Per questo non dovrebbe esistere un gior-nalismo fiduciario; dovrebbe piuttosto esistere un giornalismo responsabile e controllabile: disposto a correggere gli errori diffusi e talvol-ta anche difesi; e ad accogliere interpretazioni contrapposte. Questo anche in considerazio-ne del fatto che un lettore è lettore, in genere, di un solo giornale.

La libertà di stampa è garantita: questa libertà è libertà per la verità, ma permette la menzogna. Chi difende il diritto del cittadino

a essere informato in maniera veritiera? Me-glio: come è possibile pensare a una qualche istituzione in grado di difendere questo di-ritto? Io non vedo altra soluzione che quella adottata dagli stessi scienziati: la discussione tra giornalisti, certo, ma anche – e auspicherei soprattutto – tra il giornalista che espone la te-oria (descrizione e spiegazione dei fatti) e quelli che la leggono. E pertanto le lettere di smentita dovrebbero diventare una pagina importantissi-ma del giornale. Si tratta, insomma, di intro-durre e favorire un costume in grado di tra-sformare il giornale da strumento di consenso in organo di costruzione di interpretazioni via via più adeguate dei problemi discussi, in un organo, dunque, nel quale è il “dissenso” a essere la cosa più importante.

In un suo saggio dal titolo Il mondo del giornalismo contemporaneo13 Giovanni San-tambrogio registra appelli alla responsabi-lità, inviti a non abdicare alla propria iden-tità, sferzate contro il conformismo, difese dell’indipendenza dai centri di potere politici e finanziari, le difficoltà (che talvolta paiono insormontabili) del giornalista politico, am-monimenti contro il dogmatismo e prese di posizione a favore del pluralismo delle opi-nioni, insistenze su di una migliore prepara-zione culturale del giornalista. In ogni caso, l’interrogativo di fondo che ritorna riguarda la natura e le condizioni (psicologiche, istitu-zionali, politiche ed economiche) dell’infor-mazione giornalistica. Per quel che concerne la natura dell’oggettività dell’informazione giornalistica, Santambrogio nel suo saggio chiede: Obiettività: un mito o un ideale? E nel Problema dell’oggettività dell’informazio-ne giornalistica14 risponde che proprio nella controllabilità delle informazioni si persegue l’oggettività, ovvero l’avvicinamento al vero.

La presunzione del sostenitore della te-oria cospiratoria della società (secondo cui tutti gli eventi negativi sono frutto di malvagi cospiratori); l’iniezione di ipotesi ad hoc per salvare una teoria in pericolo; la presunta on-niscienza dell’“ideologo” – sono tutti fattori che proibiscono il conseguimento dell’og-gettività dell’informazione – giacché l’ogget-tività delle informazioni, dal punto di vista epistemologico, equivale, appunto, alla loro

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controllabilità.

Considerazioni di natura epistemo-logica

Di seguito alcune considerazioni conclu-sive di natura epistemologica.

a) In primo luogo, è più che opportuno distinguere tra l’obiettività di una persona e l’oggettività di una informazione o proposi-zione. Una persona obiettiva è una persona “onesta”, che non vuole ingannare, sincera in quel che dice. L’oggettività di una proposizione equivale, invece, alla sua controllabilità fat-tuale. In questa prospettiva l’obiettività non è garanzia di oggettività.

b) Una descrizione di qualche fatto o evento ovvero una spiegazione di esso è sempre parziale, prospettica, operata da un punto di vista di una teoria. Una informa-zione, quindi, è sempre parziale. Al pari della smentibilità, la parzialità è il requisito di una informazione. La parzialità non è affatto da confondersi con la faziosità.

c) Ogni informazione (descrizione o spiegazione di fatti o eventi) science oriented è, pertanto, sempre parziale e, insieme, control-labile tramite il ricorso a “fatti” ben vagliati. Siffatta controllabilità delle informazioni per mezzo del ricorso ai fatti implica la smenti-bilità di ogni e qualsiasi informazione: delle ipotesi esplicative come anche di quelle pro-posizioni che, per quanto se ne possa all’epo-ca sapere, descrivono fatti o eventi, aspetti di pezzi di realtà. Una informazione per poter es-sere vera deve poter essere anche falsa.

d) Non regge la difesa di chi dice «ogni giornalista propone la propria verità». Qual-siasi giornalista può e deve proporre la propria ipotesi. Ma, nel confronto con le altre idee e con i fatti, deve essere altrettanto pronto ad abbandonare la “propria” verità se questa si rivela falsità e a fare propria la verità “di un altro”. La verità non sopporta padroni.

e) Il giornalista nel suo lavoro procede (e non può fare diversamente) nello stesso modo dello scienziato: affronta i suoi pro-blemi avanzando congetture controllabili sui fatti. E i fatti possono confermare come anche

possono smentire, mostrare falsa – cioè falsificare – qualsiasi descrizione e qualsiasi spiegazione.

f ) Esattamente nella controllabilità – vale a dire nella falsificabilità – delle informazio-ni consiste la loro oggettività. L’oggettività di un’informazione non equivale alla sua definiti-vità o incontestabilità.

g) Né l’oggettività di una informazione può venir confusa con la comprensione totale dell’og-getto o dell’avvenimento indagato: «noi non possiamo conoscere nella sua totalità nem-meno il più piccolo pezzo di mondo» afferma Popper.

h) Due informazioni differenti su aspetti diversi di qualche fatto o evento sono com-patibili, necessarie per “sapere di più”. Due informazioni differenti sul medesimo aspetto di qualche realtà non possono, invece, convivere: possono essere entrambe false, ma non possono essere entrambe vere.

i) Fallibile Isaac Newton, fallibile qualsia-si giornalista – anche il più preparato, il più cauto, il più responsabile. È nella continua discussione che gradualmente si costruisce l’in-formazione o interpretazione migliore: nel con-tinuo contrasto tra ipotesi e ipotesi, e tra ipotesi e quelli che di volta in volta si pensa essere i fatti.

j) È dagli errori individuati e corretti che si impara. E il comportamento più tipi-camente umano è esattamente quello di ap-prendere dai nostri errori. Sbagliano gli scien-ziati, sbagliano i giornalisti. Niente di strano. E va aggiunto che l’errore giornalistico è tante volte forse più facile di quello dello scienziato: quasi sempre il giornalista ha poco tempo per scrivere l’articolo, non sempre può vagliare con tutta la cautela necessaria le notizie ecc. Tutto questo torna a scusante per il giornali-sta. Ma il giornale ha canali preziosi per cor-reggere i propri errori – uno di questi canali è costituito dalle opinioni degli altri giornali. Un altro canale sono le lettere di smentita. È penoso vedere pubblicate le lettere di smen-tita in ultima pagina, in corpo più piccolo e magari con repliche “verificazionistiche” del giornalista.

k) Quanto detto non significa affatto che le lettere di smentita siano informazioni dotate di verità certa; significa solo che esse possono rappresentare utili strumenti (chiara-

mente: non incontrovertibili) per una profi-cua critica per l’avvio o l’ampliamento di una discussione tesa alla scoperta degli errori e al conseguimento di informazioni più solide, maggiormente esplicative. Il giornalista non muore soltanto con l’acquiescenza ai padroni di turno; muore anche a causa della perdita di fiducia generata da una tanto pervicace quanto inutile copertura di errori e menzogne.

l) Il grande clinico bolognese Augusto Murri osservava che tra i trattati che si stu-diano nella facoltà di Medicina mancava (e manca) quello forse più importante: il ma-nuale degli errori. Chiedo: la stessa cosa non dovrebbe valere anche per il giornalismo? Un manuale degli errori (dei tipi di errori) dei gior-nalisti non dovrebbe forse far parte di una rigo-rosa e approfondita formazione epistemologica del giornalista?

Endnotes1 G. Bechelloni (a cura di), Il mestiere

del giornalista. Sguardo sociologico sulla pratica e sull’ideologia della professione giornalistica, Liguori, Napoli 1982.

2 F. Colombo, Ultime notizie sul giornali-smo. Manuale di giornalismo internazionale, Later-za, Roma-Bari 1995, p. 52.

3 G. Pansa, Carte false, Rizzoli, Milano 1986, pp. 44-5.

4 K. R. Popper, The Logic of Scientific Di-scovery, Hutchinson, London 1959, trad. it. Logi-ca della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1971.

5 H. G Gadamer, Wahrheit und Metho-de. Grundzuge einer philosophischen Hermeneutik, Mohr, Tubingern 1965, trad. it. Verità e metodo, Fabbri, Milano 1972.

6 J. Stuart Mill, On Liberty, 1859, trad. it. Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 2002.

7 Ivi, p. 21.8 Ibid.9 Ivi, p. 23.10 Ivi, p. 24.11 Ivi, pp. 24-5.12 Ivi, p. 25.13 Cfr. G. Santambrogio, Il mondo del gior-

nalismo contemporaneo, in AA.VV., Storia del gior-nalismo italiano, UTET, Torino 1997.

14 Cfr. G. Santambrogio, Il problema dell’oggettività dell’informazione giornalistica, in D. Antiseri, G. Santambrogio (a cura di), Giornali. L’informazione dov’è?, Rubbettino, Soveria Man-nelli 1999.

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La funzione insostituibile svol-ta dal dubbio, quale principio metodico della conoscenza e habitus di ogni pratica teorica e

sociale, è una conquista della coscienza laica, stabilmente acquisita. Si prenda uno dei più alti momenti del dubitare scettico, gli impe-rituri Saggi di Michel de Montaigne, che si dispongono all’alba della modernità: Sergio Solmi, nella nota posta a introduzione della bella traduzione italiana degli Essais curata da Fausta Garavini, ha connotato il dubbio mon-taignano racchiuso nel celeberrimo motto Que sais-je? (Che cosa so?) come «nulla più di un semplice metodo individuale, quasi si di-rebbe igienico, di dare aria ai pensieri» (Solmi 1996: XIX); bene, assunto in tale prospettiva, chi potrebbe contestarne la preziosa e insosti-tuibile funzione disintossicante?

Tuttavia, se non c’è dubbio sulla validità del dubbio, allora con ciò stesso il dubitare si smentisce nel momento in cui si erge a dubbio ultimativo e insormontabile: per sprigionare le sue potenzialità euristiche e la sua carica an-tidogmatica, il dubbio esige di essere prolun-gato in ulteriori movimenti di pensiero, aperti

proprio dalla sua capacità di introdurre delle cesure nella compatta continuità dei significa-ti consolidati. Inoltre, e più sostanzialmente: se è ancora pertinente l’asserto di Hegel, per cui il pensare muove dall’esercizio prelimina-re del rendere estraneo il noto, allora anche le vie del dubbio filosofico giunte fino a noi vanno sì accolte come eredità vivente, ma an-che problematizzate alla luce delle urgenze del presente che ci interpellano, e che ci chiedono di essere raccolte nelle loro cifre di senso. Di-versamente, si rischia di limitarsi a una rico-gnizione storica al riguardo, peraltro sempre opportuna, ma che si limita a reiterare quanto si è già acquisito. Merleau-Ponty scriveva che nel costituito “la filosofia si annoia”, e che solo il senso nascente, incastonato negli interval-li delle parole, chiama la filosofia a trovare i varchi per esprimerlo. Alla luce del suo invi-to, tornare a interrogarsi sul dubbio diventa difficile. Limitiamoci allora a uno sguardo pa-noramico, a volo d’uccello, sull’itinerario filo-sofico del dubbio scettico, per soffermarci poi su un passaggio privilegiato del dubbio filoso-fico, l’epochè nella fenomenologia di Husserl, e per concludere indicando il punto d’arresto

del dubbio, oltrepassato il quale esso diventa l’alibi che sottrae alla scelta dell’impegno per l’altro e con l’altro.

Che il dubbio sia uno dei principali fili conduttori della ricerca filosofica, da Socrate fino a noi, è cosa che si apprende sui banchi di scuola al liceo, se si ha la fortuna di trovare un buon insegnante, e comunque dalla lettu-ra da un buon libro di storia della filosofia1. Legato nel pensiero greco all’esperienza della meraviglia, in un quadro manifestativo in cui soggetto e oggetto non si sono ancora distac-cati e contrapposti, il dubitare svolge una fun-zione maieutica nell’inscienza socratica, quale sapere di non sapere. Esso quindi si radicalizza in due percorsi paralleli (ricostruiti come tali aposteriori, e strettamente intrecciati nel loro svolgimento storico): su una sponda nel cam-mino dello scetticismo dell’Accademia, che lo declina efficacemente nel segno del probabi-lismo, rendendolo compossibile con la fede filosofica promanante – allora come oggi – dall’ispirazione platonica; sull’altra sponda in quello più coerente, ma ultimamente sterile dello scetticismo pirroniano, che nell’appro-do finale della impossibile ricerca della verità

FILOSOFIA

Sandro Mancini

Dubitare, vedere,decidere:

lo scetticismo fenomenologico

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include il dubbio stesso, anch’es-so risucchiato nel vortice del non sapere. È nota la confutazione di tale esito formulata da Agosti-no; questi nel Contra Academi-cos fa leva sul dato esperienziale dell’indubitabilità del sentire e sull’evidenza che chi dubita sa di dubitare. Il guadagno speculativo di Agostino sarà trasmesso lungo tutto il ricco itinerario del plato-nismo cristiano, che trova il suo vertice nella docta ignorantia di Nicola Cusano, con l’asserto del-la insormontabile congetturalità di ogni venatio sapientiae.

Il motivo agostiniano verrà rinnovato nel dubbio metodico di Cartesio, che nell’esperienza dell’iperbolico dubitare attin-ge la certezza indistruttibile del Cogito; poi ancora ritornerà agli inizi del Novecento, con il tema dell’epochè nella fenomenologia trascendentale di Edmund Hus-serl. Nell’intervallo tra loro si situa una fitta trama di profonde rise-mantizzazioni delle fonti antiche del dubbio ora abbozzate (l’in-scienza socratica, lo scetticismo accademico e pirroniano, il dub-bio fenomenologico agostiniano). Hume rinnoverà, moderandolo, lo scetticismo pirroniano; Kant riformulerà il Cogito cartesiano alla luce della svolta trascenden-tale; Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, insedierà il dubbio nel cuore dell’esperienza, allargata fino a comprendere sia l’integra-lità del vissuto individuale, sia il percorso collettivo dell’umanità, sia infine lo stesso cammino prov-videnziale dell’Assoluto nella sto-ria. Con tale ampliamento del suo campo di applicazione, il dubbio si trasformerà da gnoseologico a esistenziale, fino a configurarsi come un dubbio disperato, in cui nulla più sta saldo: né l’oggetto, né

il sapere dell’oggetto e, da ultimo, neppure il soggetto stesso della conoscenza e dell’azione, anch’es-so sempre diverso dalle immagine di sé che si va costruendo. Il dub-bio disperato è un filo conduttore di tutta la prima parte del capo-lavoro hegeliano del 1807. Com-mentando la complessa figura del “mondo invertito” (die verkehrte Welt) nel capitolo sull’Intelletto, Gadamer rimarca che qui non ne va solo di questa figura, ma vi si palesa qualcosa di più profon-do, che contraddistingue l’intera esperienza dell’uomo: tutto acca-de sempre in modo diverso, anzi rovesciato, rispetto alle aspettati-ve che avevano suscitato l’azione (Marietti 1973).

Dalla fenomenologia hegelia-na della coscienza traiamo dunque l’insegnamento che è votato allo scacco il tentativo di rinchiudere il cammino dialettico dell’Assolu-to nei quadri categoriali, allestiti dall’uomo al fine di rassicurarsi della propria opinata centralità: se vi è una salda certezza categoriale nel cammino di ricerca della verità è appunto questa, per cui allorché crediamo di scoprire in un nuo-vo scenario di senso un’adeguata corrispondenza tra teoria e prassi, dobbiamo fortemente dubitarne, e ricercare l’occulto fattore di di-suguaglianza che spezzerà quella apparente simmetria.

La disperazione della coscien-za dubitante ritorna al centro del-la riflessione di Kierkegaard nel Johannes Climacus o De omnibus dubitandum est, del 1843, in una convergenza con l’anima feno-menologica di Hegel. Fu merito di alcuni pensatori francesi, tra gli anni ’20 e gli anni’40 del ‘900 (tra tutti Jean Wahl) l’avvertire tale intreccio fecondo, al di là de-gli esiti antitetici delle prospettive

hegeliana e kierkegaardiana, la prima sfociante nella trasparenza dell’idea, dunque in un trionfan-te panlogismo, e la seconda ap-prodante all’antitesi insuperabile insita nel cuore dell’esistenza, di-midiata tra la tensione al finito e quella all’infinito. Ma nel punto di partenza, ossia nell’assunzione dell’esperienza come coinvolgen-te l’integralità del vissuto, Hegel e Kierkegaard convergono: anche il dubbio tematizzato dal pensatore danese non rimane relegato alla sfera gnoseologica. In quest’ulti-ma, peraltro, esso si mostra come intrinsecamente aporetico; infatti, mentre il dubbio quale inizio del pensare filosofico si configura per il suo contenuto come un prin-cipio negativo, esso deve essere posto anche come un principio positivo, prescrivente appunto l’imperativo del dubitare: in tal modo la radicale negatività del dubitare si smentisce da sola. La

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forza del dubbio, per Kierkegaard, non consi-ste nell’ergersi a principio del filosofare, ben-sì nel condurre a manifestazione l’esperienza della contraddizione e dell’impossibilità come intimamente costitutiva della coscienza, im-possibilitata a sintetizzare le antitesi in cui si dibatte. Heidegger in Essere e tempo e Sartre ne L’essere e il nulla riprenderanno questo snodo kierkegaardiano. Tornano così a intrecciarsi i percorsi di Hegel e di Kierkegaard; ma tra gli uni e gli altri si colloca Edmund Husserl, l’ul-timo grande classico della filosofia europea, che con la sua fenomenologia trascendentale svetta sulla scena filosofica della prima metà XX secolo, rinnovando ancora una volta l’ide-ale della filosofia come scienza rigorosa.

In Husserl il percorso della fenomenolo-gia trascendentale è inaugurato dall’operazione preliminare dell’epochè, che sospende il giudi-zio sull’intero campo di validità del sapere e dà inizio con ciò alla ricerca del senso dell’espe-rienza. Tale ricerca esige infatti che si metta tra parentesi tutte le datità, per aprire un nuovo spazio di manifestazione alle predatità, ossia alle evidenze aurorali, antepredicative, in cui si schiudono i fenomeni originari dell’esperienza vissuta e nelle quali ogni volta, sempre di nuo-vo, un senso nascente e sconosciuto zampilla, sorprendendoci e distaccandoci dalle creden-ze cui fino ad allora si aveva aderito. Ora, per attingere tale dimensione fontale di senso oc-corre rimodulare lo sguardo ispezionante, ri-traendo l’assenso a tutto ciò che pretende di imporsi solo in quanto si presenta come già costituito, in forza della sua mera fattualità: agli apparati come alle credenze e ai saperi. Il dubbio fenomenologico consente appunto di sottrarre al costituito la sua presunta ovvietà, fluidificando ciò che nell’esperienza si presen-ta come cristallizzato; svolge quindi una fun-zione maieutica, nel solco ideale dell’inscienza socratica.

L’epochè avvia in tal modo il processo di riduzione delle datità categoriali al piano sog-giacente dei fenomeni originari. Tuttavia ciò non configura l’esito della riduzione feno-menologica; questa infatti si rilancia in una seconda riduzione, la riduzione eidetica: essa raggiunge le essenze connesse ai fenomeni col variarli immaginativamente, e attraverso

eliminazioni successive raggiunge il nucleo di invarianza inscritto nei fenomeni, la loro es-senza (eidos). La riduzione eidetica non segna però una mera riformulazione del platonismo. In sintonia con Heinrich Rickert da un lato e coi neokantiani della Scuola di Marburgo dall’altro lato Husserl separa, nella determina-zione dell’ambito delle idee, i piani dell’essere e della validità: per adempiere alla loro funzio-ne gnoseologica, insomma per valere, le idee non hanno bisogno di consistenza ontologica; anzi, se glielo conferissimo saremmo ricon-dotti all’insuperabile aporia del principio di individuazione, che riconosce all’individuo una pregnanza ontologica solo nella misura in cui partecipa a superiori entità universali (l’umanità, la natura intelligibile, l’Ente su-premo). Di contro, Husserl assume la rigorosa prospettiva monadologica leibniziana, attinta per il tramite di Rudolph H. Lotze, per il qua-le solo i soggetti concreti, individuali, hanno essere, e lo hanno a motivo della loro singo-larità. In questa stessa direzione Husserl non esita a qualificare l’intersoggettività come in-termonadicità.

Che cosa designino le essenze nel movi-mento di pensiero husserliano lo ha colto in profondità Merleau-Ponty, nelle folgoranti note che accompagnano la sua ultima e in-compiuta opera, Il visibile e l’invisibile. Le idee sono la “fodera invisibile” dei fenomeni il loro risvolto di intemporale validità. Nelle stesse note Merleau-Ponty coglie acutamente una convergenza al riguardo con Proust. Il distac-co scettico del Narratore della Recherche dalla vanitas che avvolge la vita dei salotti parigini, descritti nei loro dettagli per denunciarne più efficacemente la vacuità, produce l’effetto di spalancare i reconditi paesaggi della memo-ria, in cui abitano per sempre i biancospini e i campanili esperiti nel tempo trascorso; in modo analogo la skepsis esercitata dalla feno-menologia sul mondano dischiude uno spa-zio di manifestazione ai fenomeni originari dell’esperienza insieme alla loro trama eideti-ca.

Ma la riduzione eidetica, che disvela l’in-terna intelligibilità delle evidenze fenomeni-che, la loro intemporale quiddità, non configu-ra l’approdo conclusivo della fenomenologia;

essa infatti si prolunga in una terza e conclusiva tappa, nella quale la riduzione eidetica si eleva alla riduzione trascendentale, attingendo infi-ne nell’io puro l’ultima, indistruttibile fonte di senso. L’io trascendentale è pensato da Hus-serl non come una funzione anonima e im-personale di conoscenza, ma come un centro monadico di costituzione del senso, universa-le e al contempo singolare, perché immanente a ogni coscienza individuale (Husserl pensa non solo agli uomini, ma anche agli animali superiori, agli abitanti degli altri mondi e alle possibili intelligenze angeliche). Innalzandosi a questo vertice, l’espressione del senso trova la sua più profonda consistenza veritativa, che travalica la stessa opposizione di essere e non essere, non venendo quindi minata neppure dall’ipotesi dell’irrealtà del mondo. Così le onde del dubbio scettico che avevano solleva-to e sospinto l’epochè si frangono sui rocciosi contorni dell’io assoluto, e ciò avviene proprio quando il dubbio si fa più radicale, ponendo tra parentesi la stessa tesi naturale dell’esisten-za del mondo: il mondo potrebbe anche es-sere solo un sogno, una cornice insostanziale dei fenomeni che si presentano alla coscienza, ma l’atto dell’io che esperisce quel campo di relazioni fenomeniche è esso stesso irrelativo e irriducibile: la sua incondizionatezza si im-pone all’io stesso come il residuo ultimo della riduzione, che non si lascia ulteriormente so-spendere, perché coincide con la stessa apper-cezione trascendentale dell’io, col suo muto autoavvertirsi, in cui tutto si concentra e poi si espande nella sfera delle sue esplicazioni in-tenzionali. In questa direzione Husserl parla di raggi intenzionali centripeti e centrifughi e nella Krisis tematizza questa seconda fase della riduzione trascendentale come quella in cui le evidenze primigenie del mondo-della-vita (Lebenswelt) si palesano quale regno della soggettività trascendentale2.

Non si deve credere che in tal modo la fe-nomenologia husserliana sfoci, al pari del pan-logismo hegeliano, nel trionfo della coscienza sull’inconscio, del volontario sull’involontario. Infatti il senso è tanto senso esplicito, consa-pevole, quanto, e ancor più pregnantemente, corrente profonda di senso “fungente” (cioè operante a prescindere dal suo essere consape-

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vole) al di sotto della coscienza desta. Proprio a motivo della centralità conferita all’inten-zionalità fungente Paul Ricoeur ha accostato la fenomenologia husserliana alla psicoanalisi freudiana, pur salvaguardando la distanza che separa i due ambiti ben distinti della filosofia e della psicologia analitica3.

Il campo di applicazione della temati-ca husserliana dell’epochè non è ristretto alla conoscenza, ma investe anche la sfera etica. Anche nella condotta morale la persona deve neutralizzare il principio d’autorità, porre in discussione tutto l’acquisito e convalidarne solo ciò che viene riattinto a titolo di evidenza originaria. Ciò non significa che Husserl ri-tenga ingenuamente che l’io personale possa neutralizzare il proprio contesto storico e la propria situazione emozionale. Sotto questo profilo, la critica che gli è stata rivolta in tale direzione da parte di Heidegger e poi di Ga-damer non centra l’obiettivo. Husserl infatti è ben avvertito che quella dell’epochè è un’ope-razione incompiuta e proprio per ciò sempre ricominciante, perché è impossibile fare tabu-la rasa della precomprensione, così come del-la tonalità emotiva, per dirla con Heidegger: l’epochè non è solo un ideale regolativo kantia-no, ma è soprattutto una áskesis, un esercizio di purificazione dello sguardo che ci chiama allo sforzo di abitare i paesaggi quotidiani con gli occhi di un morto che vi ritorni e odori la fragranza del pane che una volta sentiva pas-sando davanti al panificio all’uscita di scuola.

Fin qui ci siamo soffermati su quello che c’è dentro la tematica husserliana dell’epochè. Ma bisogna indicare anche quello che rimane fuori, ed è precisamente il motivo del dubbio disperato, che esperisce la vertigine del venir meno del senso nel non senso, nell’urto con-tro l’impossibilità dell’esistenza ad autofondar-si. Ora, proprio questo motivo, agostiniano quanto kierkegaardiano, è ripreso dall’allievo più grande di Husserl, Martin Heidegger. Si è appena visto la non pertinenza della critica che egli rivolge al suo maestro riguardo all’epo-chè; ma la sua forza è stata nel riprendere lo stile e il procedimento del pensare husserliano in un’originale ontologia fenomenologica del negativo, lumeggiante la soglia in cui il vissu-to esistenziale del dubitare diventa angosciosa

scoperta della colpevole inautenticità dell’es-sere umano (il Dasein, Esser-ci) che esperisce la propria finitezza e tenta di sottrarvisi col ri-fugiarsi nella comoda impersonalità dell’ano-nimo ‘si’.

Questa rapidissima incursione in Essere e tempo ci consente, in conclusione, un colpo d’occhio sul versante inautentico del dubbio, anzi sulla vera e propria malignità che si può celare in esso, subdola quanto inavvertita. In-fatti, fin qui il dubbio lo abbiamo seguito nel suo esercitarsi sulla verità intesa come un ‘qual-cosa’, ma in ben altro aspetto esso si presenta quando la verità risiede non in un ‘che-cosa’, ma in un ‘chi’: sia che si tratti del prossimo, con cui abbiamo contratto vincoli di solida-rietà, sia che si tratti di un dio personale, qua-lora lo si sia incontrato nel nostro cammino, un “Dio umano” proponentisi come nostro “partner” (così appunto Karl Barth qualifica la relazione istituita da Dio con l’uomo en-tro la storia che egli ha prescelto per la nostra salvezza). Qui il dubbio che si insinua dopo l’accoglimento per fede della grazia non è af-fatto innocente, ma mira a porgere alla mente e al cuore quegli interrogativi che ci vulnerano nei nostri punti deboli, al fine di farci vacillare nella decisione presa, e di impedirci di conti-nuare a vivere nell’amore ricevuto dall’alto. I Sinottici presentano il dubbio appunto in tale deleteria accezione (Mt 14, 31; 21, 21; 28, 17; Mc 11, 23; Lc 24, 38).

Certo, questa possibilità riguarda soltan-to colui che si sia posto nel cammino della fede, raggiunto dalla Parola che lo sottrae al suo muro di impossibilità. Ma riguarda invece tutti il dubbio che incrina la fiducia nell’altro e allenta i vincoli di intesa e obbligazione isti-tuiti insieme a lui, o mira a impedire una deci-sione, inducendo a indugiare in una comoda e compromissoria situazione di inazione. Il dubbio, allora, diventa la maschera della ma-lafede, intesa come l’arte di arrangiare le no-stre convinzioni ai nostri interessi. Al torpore di un tale perfido dubitare ci invita a sottrarci l’esempio e il pensiero di Dietrich Bonho-effer. La scelta, che lo porterà al martirio, di impegnarsi in prima persona per contrastare il nazismo e il suo Führer conseguiva da una preliminare decisione per il senso della vita,

attinto con l’attivare uno sguardo “dal basso” sulla società.

Ben venga, insomma, il dubitare catartico e antidogmatico, che sospende l’assenso alle credenze e ai fatti, dubitando che essi siano veri per il solo fatto di imporsi in primo pia-no sulla scena dell’espressione. Ma quando la decisione ci pone al bivio, se aderire all’ido-latria che identifica la verità con la fattualità dell’esistente e si identifica con gli apparati di potere consolidati, oppure alla vita sofferente dei “dannati della terra”, allora il dubbio deve tacere, e lasciare posto alla fede nel senso e alla conseguente decisione per la solidarietà.

Riferimenti bibliograficiHusserl, E. 1961. La crisi delle scienze europee

e la fenomenologia trascendentale. Mila-no: Il Saggiatore.

Kierkegaard, S. 1966. Johannes Climacus o De omnibus dubitandum est. Pisa: ETS.

Gadamer, H. G. 1996. La dialettica di Hegel. Genova: Marietti.

Popkin, R. H. 2008. Storia dello scetticismo. Milano: Mondadori.

Ricoeur, P. 1967. Dell’interpretazione. Saggio su Freud. Milano: Il Saggiatore.

Solmi, S. 1966. La salute di Montaigne. In M. de Montaigne. Saggi Milano: Adelphi.

Endnotes1 Per una focalizzazione del tema nelle

sue matrici classiche e nei suoi sviluppi cf. Popkin 2008.

2 «Se ora […] rientriamo nell’atteggia-mento trascendentale, nell’epochè, e consideriamo il mondo della vita da un punto di vista filosofico-trascendentale, esso si trasforma nel mero ‘fenome-no’ trascendentale. Esso rimane, nella sua essenza propria, ciò che era, ma si rivela, per così dire, come una mera “componente” nella concreta soggettività trascendentale; simmetricamente, il suo a-priori si rivela uno “strato” nell’a-priori universale della tra-scendentalità» (Husserl 1961: 200).

3 «Nessuna filosofia riflessiva si è accostata all’inconscio freudiano quanto la fenomenologia di Husserl e di alcuni continuatori, principalmen-te Merleau-Ponty e de Waelhens» (Ricœur 1967: 410).

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«Qui niente è im-possibile: sei a New York»,

cantano Jay-Z e Alicia Keys nel nuovo tormentone americano Empire State Of Mind. La sco-perta sembra essere all’ordine del giorno. Può succedere di uscire per una passeggiata e poi ritro-varsi a chiacchierare con quattro sconosciuti al tavolo di un bar.

Sono le 10 di sabato matti-na, esco di casa per fare un giro delle gallerie d’arte di Chelsea, il quartiere di Manhattan punto di partenza dei futuri grandi artisti. Il freddo pungente mi aneste-tizza la faccia mentre cammino verso la fermata della metropo-litana. Ad ogni angolo si sente l’odore speziato dei baracchini di hot dog, per quei turisti alla ricerca dell’America on the road, ma troppo unti per i newyorkesi che preferiscono quelli dei fast food.

Salgo sul treno, c’è un ra-gazzo di colore che sulla musica proveniente da una radiolina scassata si esibisce in una break dance spericolata: salta, gira, ad un certo punto si lancia sul palo di fronte a me. Riesco a scalzarlo per un pelo. Stava per rompermi il naso, mi fa un sorriso, quasi a scusarsi di aver preso male le distanze. Lo perdono perchè è

davvero bravo. Dopo quattro fermate arrivo,

sono a Chelsea. Entro nella gal-leria dove sono esposti i grandi, da Picasso a Richard Serra. Ci sono poi le gallerie d’arte con-temporanea. Qui trovi di tutto.

Ogni cosa può diventare arte, penso: trovo sculture dalle bizzarre forme geometriche, pez-zi di metallo colorato intrecciati con dischi di plastica, tele «tutta una tinta», direbbe mia nonna, fotografie di donne nude in pose sensuali e divertenti (la descri-zione sarebbe censurata).

Davanti ad una libreria psi-chedelica, composta da lampade a forma di libri colorati, uno stra-no personaggio si avvicina e mi chiede se la libreria mi piace. Gli rispondo che mi sembra interes-sante e lui ribatte che un’opera d’arte può piacere o non piacere, non può essere interessante.

Capisco allora che si tratta di un artista: indossa una giacca di tweed verde, jeans attillati, e sciarpa rossa, porta gli occhiali stile Woody Allen. Comincia a disquisire dei suoi gusti artistici, parliamo delle bellezze artistiche dell’Italia, lui è di New York .

Dopo quindici minuti, sen-tendo di cosa stavamo parlando, si avvicinano due ragazze, una

stilista di Tokyo e una personal shopper di Amsterdam, che sarà per il freddo o per una nuova tendenza modaiola, indossa un vestito strappato al di sopra dei pantaloni. Restiamo lì ancora un po’, poi il ragazzo, David, pro-pone di continuare il giro tutti insieme. «Ci sto», rispondiamo in coro.

Ripensando a quel preciso momento, mi viene in mente che è come se la paura dell’altro, onnipresente nei giornali, nella tivù, fosse stata superata, come in una folgorazione istantanea, da un sentimento più forte, la fiducia.

New York, crogiuolo di cul-ture, di persone, di realtà, quel giorno mi stava regalando una grande lezione di vita: aprirsi all’altro, superare ogni possibile timore e sospetto.

E così andiamo, insieme: io cammino avanti con Michelle, la ragazza giapponese, David e Darya ci seguono. Parliamo del-le nostre diverse culture, dei dif-ferenti tipi di lavoro: gli schermi paranoici cadono. Il dubbio, la paura del nuovo viene spazzato via dal piacere di scoprire e di scoprirsi.

E dai discorsi, dai racconti di ognuno di loro, mi sento un po’ americana, un po’ giapponese,

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un po’ olandese, ma in fondo tanto italiana. Diventa più forte in me la convinzione che bisogna cambiare, adeguarsi. Ed è sorpren-dente quanti e quali ruoli possiamo vivere.

Darya racconta di aver da poco finito una storia, e di essersi trasferita a New York per ricominciare da capo. Michelle lavora nello studio di uno stilista di Soho. Anche lei voleva cambiare vita, quando 8 anni fa arrivò nella Grande Mela, e direi che ce l’ha fatta, visto che prima faceva la cameriera d’albergo.

Dopo cinque isolati ci ritroviamo di fronte al Chelsea Market, una sorta di cen-tro commerciale in un palazzo che ricorda certi prefabbricati industriali di tanti anni fa. Il bello di New York è anche la capacità e la volontà di trovare nuovi utilizzi per luoghi altrimenti abbandonati a se stessi.

Un ragazzo all’entrata ci chiede un quar-to di dollaro, aveva dimenticato il portafogli a casa e voleva comprare una bottiglia d’ac-qua. David gli dà una pacca sulle spalle e gli dice di venire dentro con noi a prendere un caffé. Lui sorride e accetta. Anche questo episodio, che sarebbe un errore considerare insignificante, mi lascia sbalordita: è come se la gentilezza facesse parte del codice geneti-co di questa città.

Dopo circa tre ore ci siamo salutati, au-gurandoci vicendevolmente buona fortuna.

Quella sera, tornando a casa, non potei fare a meno di accorgermi che tutta la gente che incontravo mi sembrava degna di inte-resse, piacevolmente diversa.

Sì, è vero: qui niente è impossibile: sei a New York.

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FIVESTEPSWITH

Ci sono città come New York che per vocazione e forse più di altre sono chiamate ad essere “la casa di tutti”. Cosa succede in un tale contesto quando il sentimento di paura di chi è diverso da te sembra superare la voglia di stare insieme?

La paura per il diverso a NY è un fatto contingente che verrà presto digerito dall’al-chimia delle mille culture ed identità che scorrono nelle sue arterie e la nutrono.

Negli ultimi tempi, vanno crescendo esponenzialmente controlli ed allar-mismi a fronte di una accresciuta potenziale minaccia esterna. D’altro canto, il lasciarsi prendere dalla paura non rischia di far venir meno il collante della fiducia, imprescindibile virtù civica?

La paura ed il timore della diversità sarebbe la morte di NY. Sarebbe come se NY rinnegasse se stessa ed esaurisse la linfa vitale che la rende così innovativa e creativa oltreché accogliente.

Come si pone nei confronti di questa realtà?Come qualcuno che ha da intercettare i suoi umori nascosti ed i suoi fiumi sotter-

ranei che spesso anticipano le tendenze internazionali, ma al contempo come qualcuno che ha da contribuire con la ricchezza della cultura italiana.

Lei è stato da poco nominato dal Ministro degli Esteri, Franco Frattini, nuovo Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York. Come pensa di promuovere la cultura italiana in un contesto così prestigioso?

Facendo emergere ciò che di speciale ed eccellente l’Italia ha da offrire, senza stec-cati culturali, senza distinzioni artificiose fra le due culture, scientifica ed umanistica.

Quali sono le Sue speranze e aspettative?Grandi speranze di mettere l’Italia sul piedistallo, come primo dei Paesi capace di

coinvolgere NY nell’immaginario del suo stile di vita, dei suoi valori estetici e della qualità dell’Italian Behavior.

Direttore, cosa farà da grande?Il futuro è incerto ed imprevedibile e, come diceva Jac-

ques Monod, caratterizzato dal caso e dalla necessità. Quindi chissà quale biforcazione mi aspetta fra qualche anno dopo questa esperienza newyorchese (?). Senz’altro continuerà la mia attività di ricerca come epistemologo e studioso di scienze cognitive che cerca di capire come la mente umana sia in gra-do di conoscere se stessa ed il mondo che la circonda.

RICCARDO VIALE | L’eccellenza italiana nel mondo

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FILOSOFIA | PERCEZIONE

Riflessioni sul dubbio e sulle testimonianze percettive

IL REMO SPEZZATOPaolo Spinicci

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1. Una premessa cartesianaQuando ci si interroga sul ruolo del dub-

bio nella riflessione filosofica è difficile non sentirsi costretti a rendere omaggio al nume tu-telare di questo rapporto – a Cartesio che nella prima delle sue Meditazioni metafisiche ci invita ad un dubbio radicale che vorrebbe in linea di principio abbracciare ogni conoscenza che non abbia in se stessa il fondamento della sua indu-bitabilità.

Si tratta di pagine molto belle e molto note, ma per quello che concerne il problema che intendiamo discutere – il dubbio percettivo – sembrerebbe di primo acchito che Cartesio non abbia poi molto di nuovo da insegnarci. Lo si è detto più volte: le Meditazioni recuperano il vecchio armamentario scettico sulla percezione e ci invitano a indugiare ancora una volta sui consueti esempi che la tradizione filosofica ha consacrato – la torre squadrata che da lontano ci appare rotonda, i colossi che, elevati su quelle torri, ci appaiono a riguardarli dal basso piccole statue, il Sole che alto nel cielo non ci sembra più grande di una moneta. E dagli stessi esem-pi sembra possibile trarre le stesse conclusioni: qualche volta, appunto, la percezione ci ingan-na e non si può dunque pretendere di fondare sulle sue testimonianze un sapere effettivo.

Sarebbe tuttavia un errore credere che le pagine cartesiane non facciano altro che ri-petere un copione già scritto e basta riflettere un poco per rendersi conto che il problema è mutato e che gli stessi esempi sono chiamati a sorreggere un peso nuovo. Per lo scetticismo antico, gli errori della percezione dimostravano

che non le è possibile spingersi al di là di ciò che è opinabile, ma negare alla percezione un suo legittimo posto nell’episteme non significa af-fatto mettere in questione l’esistenza del mon-do. Lo scetticismo antico non ritiene in fondo che il filosofo sia costretto dai suoi ragionamen-ti ad una solitudine metafisica insopportabile: il dubbio, così formulato, non tocca le nostre opinioni e la dimensione ingenua della vita, ma stende la sua ombra solo sulla possibilità della scienza, del sapere effettivo. Per Cartesio la posta in gioco è diversa e, in un certo senso, più inquietante: il fatto che la percezione possa ingannarci non mette infatti in questione sol-tanto la possibilità della conoscenza, ma è parte di un argomento più ampio che ci costringe a riconoscere che il mondo potrebbe non esserci perché in linea di principio le nostre esperienze sensibili potrebbero rimanere così come sono anche se non vi fosse il mondo di cui crediamo ci parlino. Sono assolutamente certo di esperire così – di avere queste e queste altre immagini mentali – ma posso sempre dubitare che alle percezioni di cui sono consapevole corrispon-da un oggetto reale nel mondo: «Non per un giudizio certo e premeditato – scrive Cartesio – ma solo per un cieco e temerario impulso ho creduto esservi cose al di fuori di me».

Come è noto, le Meditazioni metafisiche ci propongono una via per abbandonare il terre-no del dubbio e per riguadagnare una rinno-vata certezza del mondo, ma di questo aspetto così importante della filosofia cartesiana pos-siamo qui disinteressarci, per riflettere invece sulla natura dell’argomento che Cartesio ci

Riflessioni sul dubbio e sulle testimonianze percettive

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propone per tacitare quel “teme-rario impulso” che ci spinge ad affermare l’esistenza del mondo. L’argomento (per il vero: il primo di una batteria di argomenti) suo-na così: tutto ciò che sappiamo del mondo, lo sappiamo grazie alla percezione; ora la percezione non è sempre veridica, ed è regola di prudenza non fidarsi intera-mente di chi ci ha già ingannato anche soltanto una volta; ne segue che non abbiamo nessuna fonda-ta ragione per affermare l’esisten-za del mondo esterno. Chi legge quest’argomento cartesiano può credere di primo acchito che a determinarne la forma esteriore sia un succedersi di metafore e quindi anche un tributo al gusto seicentesco per le immagini: la ra-gione è un tribunale al cui giudizio devono essere vagliate le esperien-ze sensibili che proprio per questo dovranno assumere l’aspetto di testimonianze di cui il soggetto

deve vagliare la validità. Ma non è così: per Cartesio, le percezioni cui diamo il nostro assenso sono davvero testimonianze e questa convinzione poggia su due assun-ti su cui vorrei riflettere.

Il primo potremmo formu-larlo così: dire che la percezione è una testimonianza significa intenderla come se fosse necessa-riamente animata da una pretesa conoscitiva, come se ogni perce-zione fosse sempre la constata-zione di un fatto. Alle sensazioni che hanno una valenza soltanto biologica si contrappongono così le percezioni che pretendono di parlarci del mondo e che possono farlo solo perché sono giudizi im-pliciti, proposizioni che – come un testimone – rispondono alle domande di un giudice, dicendo ora il vero, ora il falso.

Il secondo assunto allude ad un tema che è caratteristico di molte filosofia della percezione:

dire che le percezioni sono testi-monianze significa sottolineare il carattere mediato delle percezioni, il loro parlarci del mondo attra-verso le immagini che da esso ci giungono, proprio come una te-stimonianza ci parla di un evento solo attraverso le parole di chi vi ha assistito. Proprio come le te-stimonianze, anche le percezioni sembrano consentirci di sapere qualcosa del mondo solo per sen-tito dire ed anche se questo non significa che siano false, ci co-stringe a porre fin da principio ad interrogarci sulla loro affidabilità.

Su questi due assunti vorrei cercare di riflettere, sia pure bre-vemente e senza troppe pretese, per cercare di chiarire se, al di là delle pagine cartesiane, si può davvero lasciarsi guidare dal con-cetto di testimonianza per inten-dere la natura della percezione.

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2. Le percezioni sono, come le testimo-nianze, constatazioni che ci consentono di accertare un fatto?

Un primo modo per chiedersi se le perce-zioni siano davvero testimonianze ci invita a rammentare la funzione che viene loro attribu-ita nelle aule del tribunale. Il giudice non sa come sono andate le cose e cerca una verità che sia suffragata da indizi e prove che la rendano sufficientemente solida e per questo si avvale di testimonianze che debbono essere a loro volta vagliate e discusse. C’è una domanda – che cosa è realmente accaduto? – cui si deve risponde-re e le testimonianze servono a questo poiché sono per loro natura una risposta a un possibile dubbio.

Anche nel caso della percezione talvolta le cose possono andare così: non sono certo che la figura che mi indichi in lontananza sia il rifugio di cui mi parli e per questo guardo bene, per

fugare ogni dubbio. La percezione è chiamata a testimoniare: c’è un dubbio che deve essere tacitato e per farlo chiediamo ai sensi una testi-monianza che ci tranquillizzi. Qualche volta il dubbio è esterno alla percezione, qualche vol-ta sorge in seno ad essa, ma in un caso come nell’altro, la percezione è chiamata a testimo-niare: le si chiede di sciogliere un dubbio e di pronunciare un verdetto – deve dire «è così!» per mettere da canto gli interrogativi che ci ave-vano infastidito.

Talvolta appunto le cose stanno così, ma possiamo davvero pensare che la percezione sia sempre questo – la risposta ad un dubbio? A questa domanda si deve rispondere negativa-mente. Un dubbio presuppone molte certezze: posso dubitare che la persona che vedo in lonta-nanza sia l’amico che attendo, ma perché abbia un senso affidare ad una percezione il compito di testimoniare che le cose stanno così, debbo

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fare affidamento sul fatto che le scene percet-tive che si susseguono sappiano mantenere la presa sullo stesso oggetto, che i movimenti che compio per veder meglio quel viso siano volti nella direzione giusta e io sia certo della scena percettiva entro cui mi muovo e che sorregge il mio tentativo di veder meglio qualcosa che le appartiene. Il remo immerso nell’acqua sembra spezzato, ma il tatto che constata il suo essere integro può testimoniare questa sua verità solo perché non si chiede se sia vera la mano che funge da giudice e perché non mette in que-stione che ciò che la mano avverte sia proprio ciò che la vista mostra. Per constatare che così stanno le cose sono presupposte molte certezze che non possono essere a loro volta constatate: proprio come non posso misurare il metro di cui mi avvalgo per constatare la lunghezza di un determinato oggetto, così non posso dispor-mi interamente sul terreno delle constatazioni perché ogni percezione che pretenda di valere come una testimonianza assume uno sfondo di certezze su cui poggia e che funge da metro di ogni sua misurazione.

Del resto, un terreno di certezze soltanto percepite e non constatate non è presupposto soltanto dalla possibilità di attribuire alla perce-zione il valore di una testimonianza, ma anche dalla stessa possibilità di dubitare di ciò che la percezione ci mostra. Il remo sembra spezzato, ma proprio questo dubbio così antico presup-pone molte certezze che non possono esse-re messe da canto perché senza di esse non è possibile formulare il contesto entro il quale il dubbio si pone come un dubbio che verte su un mondo di oggetti, su uno sfondo la cui certezza non chiede di essere affermata perché è comun-que presupposta da ogni affermazione. Posso dubitare dell’integrità del remo solo perché vedo che proprio questo remo appare spezzato e proprio qui, in un punto che si colloca in un luogo determinato del mio spazio circostante.

Di qui la tesi che vorrei sostenere: non è vero che ogni percezione possa assumere la forma di una testimonianza perché – per po-ter fungere da testimonianza – una percezione deve poggiare sulla certezza di uno sfondo che non può essere messo a sua volta in discussio-ne e che si costruisce in una molteplicità di percezioni che non sono affatto constatazioni,

poiché si limitano a rendere presente per noi un mondo, senza pretendere di rispondere a un possibile dubbio. Almeno in questo, dunque, lo scetticismo antico era in fondo mosso da un’intuizione condivisibile: la percezione non si muove fin da principio sul terreno dell’episte-me e non può pretendere di contrabbandare i contenuti che ci porge come se fossero credenze vere, testimonianze in cui si esprimono consta-tazioni che tacitano i nostri dubbi conoscitivi. La conoscenza, sia pure soltanto la conoscenza sensibile, presuppone che ci sia dato un mon-do e che sia disponibile per noi, prima di ogni dubbio teorico, ma anche prima di ogni pretesa conoscitiva.

3. Le percezioni sono, come le testimo-nianze, conoscenze soltanto indirette?

Affrontiamo ora il secondo assunto e chie-diamoci se si può sostenere che le percezioni, proprio come le testimonianze che ascoltiamo in un processo, ci consentono di venire a sa-pere qualcosa solo per sentito dire. Il senso di quest’affermazione è chiaro: le percezioni ci parlano del mondo, ma se constano solo di im-magini e se queste immagini sono connesse agli oggetti solo in virtù di una qualche relazione causale, allora la percezione non ci apre al mon-do, ma ce ne offre un resoconto sulla cui bontà spetta a noi decidere.

Alla radice di questa tesi vi è una riflessione che si intreccia strettamente con la possibilità del dubbio. Immergiamo ancora una volta il remo nell’acqua e chiediamoci che cosa pro-priamente vediamo. A questa domanda si può rispondere nel modo più ovvio: in questo caso diremo semplicemente che vediamo un remo e che lo vediamo in modo indistinto perché l’ac-qua in cui è immerso rende incerti i contorni. Possiamo rispondere così, ma forse potremmo ragionare diversamente, seguendo un corso di ragionamenti che è, almeno in parte, legittimo. Quando il remo è immerso nell’acqua sembra spezzato, e anche se non vogliamo dire che le cose nel mondo stiano proprio così non per questo ci sembra lecito dubitare del nostro espe-rire così. Possiamo sbagliarci su come stanno le cose nel mondo – questo è certo, ma possiamo

per questo credere che ci si possa sbagliare an-che su ciò che crediamo di percepire? A questa domanda sembra necessario dare una risposta negativa: comunque stiano le cose nella realtà, non posso dubitare del fatto che il remo lo vedo così – che lo vedo come se fosse spezzato.

Ora, quest’osservazione sembra condivisi-bile e ci spinge proprio per questo a formulare le nostre considerazioni in una forma nuova e apparentemente più perspicua: se da un can-to non possiamo dubitare di vedere così come vediamo e se dall’altro non siamo certi che le nostre percezioni siano veritiere, ciò acca-de perché l’oggetto proprio della visione non è il remo che forse esiste nel mondo, ma un oggetto immanente che gli corrisponde e che esiste necessariamente nella nostra mente. An-che quando ci inganniamo, qualcosa vediamo e su questo qualcosa non possiamo ingannarci: il dubbio percettivo che ci costringe a sospen-dere il giudizio sul mondo ci consente così di accedere a un terreno sicuro in cui non sembra esservi spazio per l’errore.

Nella storia della riflessione filosofica le considerazioni che abbiamo proposto hanno dato il nome ad un argomento vero e proprio – l’argomento dell’illusione. Vi sono molte ra-gioni che sembrano schierarsi a favore di questo argomento. La prima è di carattere psicologico-naturalistico: percepire qualcosa significa essere modificati dalla realtà esterna e questo fatto indiscutibile sembra schierarsi a favore dell’ipo-tesi di oggetti mentali. Fuori, nel mondo, vi è la causa materiale delle nostre sensazioni, ma in noi – nella nostra mente – non può che esservi una traccia dell’oggetto – una peculiare ogget-tualità immanente, dunque. A questa prima ra-gione se ne affianca una seconda. Le percezioni sono testimonianze e parlano del mondo, ma sono innanzitutto eventi che accadono in noi e su cui, proprio per questo, non sembra possi-bile ingannarsi. Se tuttavia le percezioni sono in quanto tali certe, la possibilità del dubbio per-cettivo deve valere come una riprova del fatto che gli oggetti reali non appartengono al con-tenuto descrittivo della mia esperienza: la con-statazione della certezza apodittica della sfera del cogito può convivere con il dubbio scettico sul mondo solo se l’esperienza percettiva è una testimonianza indiretta, – solo se ciò che perce-

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piamo sono rappresentazioni e non oggetti nel mondo.

Qualche volta accade che una riflessione che ci appare convincente e persuasiva sia in realtà il frutto di un intreccio di errori e io cre-do che così stiano le cose nel caso delle rifles-sioni che abbiamo appena proposto. Queste ri-flessioni pretendono infatti di spiegare troppo e ci sottraggono invece proprio per questo ciò di cui abbiamo bisogno. Pretendono di spiegare troppo: all’origine delle riflessioni che culmi-nano nell’argomento dell’illusione vi è, come abbiamo osservato, il desiderio di accordare la dimensione descrittiva dell’esperienza con la dinamica causale dei processi percettivi. Vedo il remo perché fuori di me c’è un remo che cau-sa il mio percepire e questo fatto è certo, per quanti problemi possano poi sorgere quando ci interroghiamo sulla natura reale della cau-sa di cui discorriamo – i remi non sono certo gli oggetti di cui la fisica ci parla! Le difficoltà più rilevanti stanno tuttavia dalla parte degli effetti: la luce che giunge dall’oggetto modifica i miei recettori e produce, come ultimo anello di una catena causale, uno stato cerebrale che, a sua volta, determina il mio percepire così. Il senso della mia percezione, tuttavia, non ha bi-sogno di essere spiegato causalmente: deve es-sere invece descritto e descriverlo significa dire ciò che vedo e io vedo un remo che, per fortu-na, non è affatto nella mia mente, ma poggia più ragionevolmente sullo scalmo. Interrogarsi sulle cause è importante, ma può essere fuori luogo. È giusto chiedersi quali siano le cause che mi consentono di pensare che 7 e 5 som-mati danno 12, ma non ha senso pretendere che la concatenazione di eventi che abbiamo messo in luce ci dica qualcosa sulla natura di quell’operazione: ci sono ragioni, ma non cau-se per le quali è vero che 7+5 è eguale a 12 e sarebbe curioso dire di questa somma che si trova da qualche parte nel cervello o nella men-te. Uno stesso discorso vale per la percezione: ci sono cause del mio vedere proprio ora que-sto remo sullo scalmo e qualcosa accade nella mia mente (o meglio: nel mio cervello) quan-do vedo quel remo, ma questo non vuol dire che ciò che vedo sia un accadimento mentale: l’evento della percezione non coincide con il suo valore conoscitivo che, sia detto per inci-

so, non può essere affatto spiegato poiché ogni spiegazione dovrebbe necessariamente fare ap-pello a processi ed eventi che dovremmo avere già conosciuto.

Del resto, ricondurre la percezione al pos-sesso di oggetti immanenti vuol dire tentare di spiegare troppo anche per un’altra ragione. Torniamo al nostro remo che, questa volta, ci attende immerso nell’acqua. Il remo sembra spezzato alla vista e integro al tatto, ma questa contraddizione, se la formuliamo nel linguag-gio degli oggetti immanenti, deve rivelarsi ap-parente: ciò che in senso proprio vedo non è ciò che in senso proprio tocco e nulla ci costringe a sostenere che due differenti oggetti mentali debbano essere identici. La spiegazione ci rap-pacifica e tiene lontano lo spettro della con-traddizione – troppo lontano, perché la con-traddizione c’è e deve esserci poiché appartiene al senso delle nostre percezioni: se la mano cor-re a saggiare la forma del remo è proprio per sciogliere un dubbio che sorregge e dà senso ai nostri decorsi percettivi. La contraddizione c’è e non può essere sciolta interpretativamen-te, poiché spetta alla percezione toglierla in un processo di esperienza il cui senso si dispiega nel mostrarci meglio ciò che abbiamo di fron-te a noi. Proprio questo remo è descritto male quando dico che è spezzato e che sia descritto male me lo dice la mano che lo sente integro.

L’argomento dell’illusione pretende di spiegare troppo, ma ci nega poi proprio ciò di cui abbiamo bisogno poiché l’apoditticità del-la sfera del cogito ha come prezzo la negazione del nesso cognitivo che stringe la percezione al mondo. Ci troviamo così in una sorta di paradosso: si sostiene – ed anche per ragioni descrittive – che quando vedo p nulla muta in ciò che mi si manifesta se p esiste realmente o no, ma poi per salvare quest’asserto di natura descrittiva si è costretti ad abbandonare la più evidente delle datità fenomenologiche – la ve-rità del realismo diretto, la certezza di vedere il remo e l’acqua in cui si immerge, e non ombre che esistono nella mente.

Da questo paradosso ci si può liberare se si osserva che il senso di una percezione non coincide con ciò che si manifesta. Nella prima delle Lezioni sulle sintesi passive, Husserl scrive-va che la percezione racchiude una promessa

che non può essere interamente mantenuta e quest’immagine programmatica è importante perché ci invita a distinguere tra i vissuti che si danno all’io e il senso che alla percezione com-pete – una percezione che non può comunque essere descritta se non indicando l’oggetto reale di cui ci parla. Ciò che si dà alla coscienza è pro-prio ciò che appare comunque stiano le cose, ma ciò che appare non è ciò che percepisco ed il senso della mia percezione non può essere colto se non nel rimando all’oggetto reale di cui ci parla e che è poi l’unico che può dav-vero mantenere la promessa cui il percepire ci impegna.

Ne segue che il senso della mia percezio-ne non è racchiuso in ciò che appare e che è che è vissuto dalla coscienza, ma dipende dalla presenza reale dell’oggetto: se mi sono ingan-nato rispetto all’oggetto che la percezione mi prometteva mi sono ingannato anche rispetto a ciò che credevo di aver percepito e il corso delle mie percezioni che mi costringe a venire a patti con una realtà che è diversa da come me la figuravo è insieme una correzione di ciò che credevo di aver percepito. Qualche volta posso ingannarmi e se ciò accade è perché – per usare un’altra espressione di Husserl – la cambiale che la percezione emette sull’intuizione non è mai interamente pagata. Vedo questo libro e lo vedo così, ma potrei ingannarmi perché ciò che vedo mi parla di un oggetto e mi impegna dunque in un rapporto che è innanzitutto un rapporto di dipendenza dal mondo reale e dal suo essere fatto così: che sia davvero un libro ciò che vedo e che sia proprio come lo vedo non è qualcosa che mi sia dato nella sua interezza e che appartenga allo spazio chiuso della co-scienza, ma è una tesi che si decide passo dopo passo nelle mie percezioni – è una tesi che viene decisa dal mondo che passo dopo passo esperisco.

Qualche volta, dunque, l’esperienza ci in-ganna e quando ci inganna abbiamo ragione di dubitare anche di ciò che credevamo di avere percepito. Ma non è il caso di lamentarsene troppo: del resto, se possiamo dubitare di ciò che vediamo e se possiamo riconoscere che ci siamo sbagliati è solo perché ora vediamo me-glio lo stesso oggetto che prima avevamo colto in modo impreciso.

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PUBBLICITÀ | SEMIOTICA

Paolo Peverini

LA RETORICA DEL DUBBIO

NELLA PUBBLICITÀ

SOCIALE NON

CONVENZIONALEUna prospettiva sociosemiotica

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Una esplorazione delle nuove strategie di comunicazione

seguite dalle pubblicità sociali

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L’evoluzione non convenzionale del social adver-

tisingNello scenario complesso e

mutevole del discorso pubblici-tario il social advertising da tem-po si segnala all’attenzione per la capacità di dare forma in modo innovativo e spesso controverso a temi drammatici di rilevanza sociale. Nella prospettiva della semiotica del testo la pubblici-tà sociale viene concepita come una

attività mediatica cha utiliz-za formati analoghi a quelli della pubblicità commercia-le per portare all’attenzione dei suoi lettori o spettatori certi temi urgenti di rilevan-za per l’appunto “sociale”, per sollecitare la presa di coscienza della loro impor-tanza, per incoraggiare o scoraggiare comportamen-ti o atteggiamenti legati a questi temi, per raccogliere finanziamenti a favore delle organizzazioni che se ne oc-cupano (Volli 2005: 117)

I testi e le pratiche pubblici-tarie che trovano una collocazio-ne all’interno di questa defini-zione, se da un lato condividono una logica di base che ne con-sente facilmente l’identificazione nel panorama caotico delle for-me di comunicazione promozio-nale, dall’altro si differenziano notevolmente in funzione delle strategie testuali impiegate per costruire e rafforzare nel corso del tempo il legame strategico di fiducia con il pubblico. In parti-colare, i protagonisti della pub-blicità sociale sperimentano con un’evidenza sempre maggiore a

livello internazionale strategie non convenzionali di costruzio-ne dei testi e delle iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. L’esigenza di promuo-vere un valore e non un prodotto, come avviene nel caso della pub-

blicità commerciale, le profonde trasformazioni che investono i consumatori dei testi pubbli-citari, sempre più assuefatti ai linguaggi e alla retorica della seduzione, costringono infatti a ripensare profondamente le

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logiche della pubblicità sociale. La visibilità del testo pubblicita-rio e l’intensità drammatica della rappresentazione del tema su cui ruota una campagna da tempo non sono più sufficienti, come sostengono studiosi e numerosi

addetti ai lavori, a garantire la costruzione di un contatto effi-cace tra emittenti e destinatari, tra l’universo composito delle istituzioni, del non profit, delle ONG e il tessuto sociale dei cit-tadini. Inevitabilmente, dunque, il social advertising rinnova stra-tegie e tattiche, esce dai confini ristretti dei media tradizionali, tenta di fare presa sulla sensibili-tà del lettore affidando la propria voce a un vero e proprio arsenale di tecniche.

L’espressione unconventio-nal, spesso utilizzata con ecces-siva disinvoltura dagli addetti ai lavori nell’ambito pubblicitario e del marketing, designa nella realtà un complesso insieme di variabili che entrano in gioco nell’evoluzione delle forme te-stuali di promozione. In partico-lare una definizione sufficiente-mente larga e condivisa dell’un-conventional advertising delinea una serie articolata di caratteri-stiche relative alla costruzione dei testi, alle logiche della loro diffusione mediale, all’atteggia-mento attivo degli spettatori nei confronti della messa in scena dell’azione pubblicitaria. Una campagna unconventional dun-que:

seleziona accuratamente il • proprio target, ritagliando il profilo di uno spettato-re modello alfabetizzato ai linguaggi e alla retorica dei testi pubblicitari canonici;analizza e cerca di simulare • i fenomeni espressivi con i quali il pubblico si iden-tifica, in particolare tenta di riprodurre le dinamiche comunicative spontanee, orizzontali, dal basso;

dissimula la sua presenza e • la sua stessa natura. Non si impone all’attenzione del pubblico come una pausa, un’interruzione all’inter-no di attività in corso, ma si presenta senza preavviso come una provocazione lu-dica, surreale; affida la forza della sua voce • al passaparola, si innesta all’interno della rete dei social network, richiede la collaborazione attiva del pubblico, il coinvolgimen-to nel ruolo di emittente delegato;concepisce l’efficacia • dell’iniziativa pubblicita-ria non in funzione della quantità immediata degli spettatori raggiunti ma della qualità sociale dei messaggi impiegati per fare presa sull’interesse.

Nella ridefinizione del patto di fiducia con il lettore diviene dunque essenziale l’effetto sor-presa, la pubblicità sociale valo-rizza la forza della propria voce celando a prima vista la sua stes-sa presenza. Adesivi mimetizzati nel tessuto metropolitano, per-formance di attivisti nascosti tra i passanti, oggetti fuori posto ca-lati nello spazio d’uso delle città che creano situazioni apparente-mente nonsense, spot virali che invadono i territori dei media digitali e i ‘corpi’ che abitano i social network: alla classica mo-dalità del fear arousing appeal, dello shock visivo, subentra con un’evidenza sempre maggiore una dialettica della comunica-zione incentrata sul paradosso e sull’ironia.

È esattamente in questo

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passaggio che il tema del dubbio si intreccia inevitabilmente con la logica semiotica delle nuove forme del discorso sociale. La nostra ipotesi infatti è che l’evoluzione del social ad-vertising nella prospettiva del marketing non convenzionale sia il prodotto di un comples-so di fenomeni che muovono proprio a par-tire dalla logica del sospetto. Non si tratta, banalmente, di ragionare solo sulla sfiducia degli spettatori nei confronti delle intenzio-ni che a monte guidano l’ideazione di una campagna di sensibilizzazione; in questo senso, infatti, è evidente che il social adverti-sing, essendo per natura un genere di discor-so disforico, lontano dai toni rassicuranti e dal tone of voice entusiastico della pubblicità commerciale suscita reazioni difensive da parte del pubblico. Piuttosto, mantenendo la presa sui testi, crediamo che l’evoluzione delle forme espressive del social advertising possa essere letta come una risposta socio-semiotica alla disaffezione del pubblico nei confronti della retorica usurata della pub-blicità sociale tradizionale. In altri termini, come vedremo, le forme più innovative di social advertising definiscono le proprie stra-tegie a partire dallo scetticismo del pubblico, non semplicemente tentando di sottrarsi al dubbio, ribadendo con veemenza l’auten-ticità delle buone intenzioni che guidano l’azione comunicativa, ma trasformando lo scetticismo in un’arma retorica, traducendo le logiche del sospetto direttamente in stra-tegie testuali che prendono in contropiede il lettore, rovesciando lo scetticismo di parten-za nel piacere inaspettato dell’interpretazio-ne e della scoperta del senso.

A ben guardare, dunque, non deve sor-prendere che l’ambito della pubblicità socia-le si stia trasformando rapidamente in una palestra per la sperimentazione di soluzioni espressive inedite all’interno della sfera di-scorsiva della pubblicità, poiché il movimen-to dialettico che lega i soggetti dell’enuncia-zione ai destinatari delle campagne di comu-nicazione non solo è particolarmente deli-cato, ma costituisce un elemento strutturale di questo genere di testi. In questo senso il social advertising non convenzionale è una forma promozionale di comunicazione il cui

meccanismo generativo prevede e orienta il dubbio interpretativo del proprio pubblico.

Ecco dunque che iniziano a delinearsi nella prospettiva sociosemiotica almeno due grandi direzioni attraverso cui esplorare il tema del dubbio nella pubblicità sociale: da un lato l’analisi delle forme di assimilazione/repulsione dei testi da parte del pubblico (è qui pertinente lo sguardo dell’enunciatario), dall’altro lo studio dei testi pubblicitari che i soggetti dell’enunciazione predispongono per aggirare le ‘difese’ dei propri interlocu-tori (è pertinente a questo livello l’analisi del livello dell’enunciazione e dell’enunciato). Come appare evidente, sotto la superficie delle numerose forme espressive che com-pongono il panorama del social advertising, agisce una logica del conflitto che può essere ricostruita ricorrendo a una serie di metafo-re derivate dal linguaggio militare. In questa prospettiva, infatti, i testi vengono concepiti dai loro stessi autori, committenti, creativi e strateghi del marketing, come ‘armi semio-tiche’, strumenti di una tecnica di ‘guerrilla’ che cerca di ‘colpire’ alla sprovvista il ‘target’, con ‘armi leggere’, agendo direttamente sul suo territorio, praticando l’arte del ‘mimeti-smo’ e dell’ ‘imboscata’, privilegiando il ‘cor-po a corpo’ rispetto allo ‘scontro a distanza’. Questo processo complesso e fragile di mos-se e contromosse può essere letto interamen-te come il prodotto sociosemiotico di una logica del dubbio che a monte definisce la relazione tra i soggetti del processo di comu-nicazione.

Pianificare una campagna significa infat-ti definire in partenza il profilo del proprio lettore, ricostruire le abitudini di consumo dei testi pubblicitari, studiare le pratiche di appropriazione e di rifiuto che definiscono l’atteggiamento interpretativo del pubblico nei confronti di un messaggio sociale. In questi termini, dunque, si chiarisce il pre-supposto che guida l’ideazione e la realizza-zione delle campagne più radicali di social advertising: non rispondere frontalmente allo scetticismo del pubblico con un’offen-siva comunicativa su larga scala, dispendiosa in termini economici e fragile dal punto di vista dei risultati, ma aggirare le difese del

destinatario costruendo una situazione di-scorsiva imprevedibile, una ‘trappola semi-otica’ tanto più efficace quanto più in grado di trasformare il dubbio, l’indifferenza e i pregiudizi dei lettori in un gioco dialettico originale che consente di fare emergere con forza la dimensione sociale dei temi e dei valori.

Prima di entrare nel merito dell’analisi di alcuni casi specifici di social advertising è im-portante sottolineare che lo sguardo semioti-co sull’architettura dei singoli testi non può prescindere dallo studio delle forme concrete di consumo; una semiotica della pubblicità sociale non convenzionale, nella nostra pro-spettiva, non può che combinarsi, dunque, con una pragmatica della comunicazione, con l’osservazione delle risposte del pubbli-co alle azioni di sensibilizzazione. Come è noto, la semiotica concepisce le passioni dei lettori nei confronti dei testi come degli ef-fetti di senso. In quest’ottica le reazioni del destinatario alle sollecitazioni del discorso pubblicitario sono il prodotto di meccani-smi interni alle forme espressive, innescati da precise strategie dell’enunciazione. Ed è proprio la teoria dell’enunciazione che ci consente di ripensare analiticamente il tema dell’utilizzo strategico del dubbio nell’ambi-to del social advertising. Nella prospettiva di una teoria dell’enunciazione, infatti, è pos-sibile ripensare il sospetto dell’enunciatario nei confronti della pubblicità sociale non convenzionale come il prodotto di una stra-tegia della veridizione, vale a dire della capa-cità dei testi di produrre effetti di realtà e di finzione. In questo senso il social advertising non convenzionale, nelle sue numerose for-me, può essere concepito come un universo discorsivo che ricerca e costruisce il contatto con il pubblico coinvolgendo gli spettatori in un gioco di simulazione e svelamento. L’efficacia di una campagna pubblicitaria di sensibilizzazione consiste così nella capacità di svincolare la messa in scena del tema da una serie di stereotipi figurativi e narrativi, rispondendo allo scetticismo dello spettato-re con una strategia enunciativa che richiede uno sforzo di cooperazione interpretativa; per ricostruire la coerenza di una situazione

sociosemiotica

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comunicativa apparentemente paradossale o insensata, in cui le immagini, gli slogan, la collocazione dell’annuncio nello spazio sem-brano privi di logica, lo spettatore è chia-mato a misurarsi con la densità di un testo apertamente ambiguo che non si sottrae al dubbio ma, al contrario, lo sollecita con for-za, istituendolo come condizione necessaria per attivare la dialettica del processo di co-municazione.

Una recente campagna di sensibilizza-zione proposta da Calm, una ONG neoze-landese, sul tema dei danni provocati dalle mine anti-uomo costituisce un caso esem-plare della tattica dell’ambient marketing, una forma di pubblicità non convenzionale che sfrutta i comportamenti abituali dei sog-getti all’interno dello spazio per dare forma in maniera imprevedibile e con grande effi-cacia all’azione di social advertising.

Figg. 1, 2: Nuova Zelanda. Agenzia creativa: Publicis Mojo. Cliente: Calm

All’interno dei contenitori in vetro di-sposti sui tavoli di alcuni ristoranti sono state inserite delle confezioni monodose di ketchup. Un gesto banale e puramente stru-mentale come afferrare e aprire la bustina di plastica viene improvvisamente rovescia-to in un’azione di pubblicità sociale che si dispiega senza preavviso davanti agli occhi del consumatore. Sulla confezione, infatti, l’immagine del prodotto, il logo e lo slogan dell’azienda che normalmente producono la salsa sono sostituiti dalla fotografia rea-listica di un paio di gambe. La costruzione del contatto visivo con il consumatore è istantanea, sul piano pragmatico l’ambi-guità della figura sollecita l’interesse, attiva una richiesta di senso. In corrispondenza di un piede dell’anonima figura è stata posta la linea tratteggiata che occorre tagliare per fare uscire il ketchup; un gesto che nella re-altà quotidiana è desemantizzato, del tutto automatico, viene qui impiegato per dare forza al realismo del racconto pubblicitario. Il consumatore è ormai preso all’interno del meccanismo discorsivo della strategia di sensibilizzazione, dal punto di vista nar-rativo non può che assumere il ruolo del ‘carnefice’, del responsabile potenziale di una tragedia di vaste proporzioni. Come accade sempre con il social advertising non convenzionale l’efficacia dell’azione comunicativa si articola in due tempi po-sti in rapida sequenza: una prima fase ‘di attacco’ volta a fare presa sulla sensibilità del pubblico in cui il visual è predominan-te rispetto alle parole e dunque si sottrae a una comprensione diretta, a cui segue un secondo momento argomentativo in cui sono illustrati l’identità del committente, il tema della campagna, gli obiettivi da rag-giungere e il tipo di impegno richiesto al lettore. In questa installazione il retro della confezione di ketchup contiene la risposta agli interrogativi innescati nel momento iniziale del contatto, slogan, body copy e logo dell’organizzazione illustrano infatti il senso dell’operazione: “in 89 countries wal-king on a mine is still routine”. In una va-riante della campagna pubblicitaria le gam-be sono sostituite dal primo piano di un

ragazzo che attraverso la figura dello sguar-do in camera chiama direttamente in causa il punto di vista del lettore; in questo caso la linea tratteggiata da tagliare attraversa di-rettamente la testa della ‘vittima’, mentre lo slogan chiarisce il senso della provocazione, sciogliendo l’ambiguità semantica del vi-sual: “every 22 minutes someone is injured because of a mine”.

Questo esempio aiuta a ripensare la natura non convenzionale del social ad-vertising come il prodotto di una pratica narrativa che ricerca il contatto diretto con lo spettatore, ne raccoglie lo sguardo, pro-vocando la sua intelligenza interpretativa. In questo complesso gioco di posizioni e di sguardi, la forza del testo non consiste nella capacità di imporsi all’attenzione per il grado di realismo, ma al contrario nel rovesciare le attese del pubblico, che viene sollecitato proprio a dubitare della reale na-tura della situazione comunicativa in cui è coinvolto, mettendo in discussione il livello di realismo e di finzione del racconto pub-blicitario. Il dubbio, pianificato a monte dal soggetto dell’enunciazione, è l’effetto di senso che guida l’intera operazione di messa in scena del testo, è il gancio che consente di fare presa sull’indifferenza del passante, innescando il processo di interpretazione. Il social advertising non convenzionale non è un genere di discorso assertivo, perentorio, monolitico, al contrario esso si pone nei confronti del pubblico come un racconto destabilizzante che sollecita interrogativi e perplessità, dissimula le proprie intenzioni, nasconde in un primo momento il proprio obiettivo dietro una strategia retorica in cui immagini, parole e suoni sono utilizzati per rappresentare in modo indiretto, laterale, il tema di fondo.

Spostando lo sguardo sul versante della ricezione del testo, è importante evidenzia-re che un primo effetto di senso decisivo nella costruzione dell’efficacia complessiva della campagna consiste nel costringere lo spettatore a dubitare della verosimiglianza del racconto, come accade regolarmen-te nelle azioni di ambient marketing. Sul piano della veridizione, la forza delle azio-

guerrilla

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ni pubblicitarie sul territorio consiste nel fare ricorso a un ampio arsenale di giochi ottici e prospettici, per restituire l’il-lusione di una situazione in atto all’interno dello spazio reale in cui si trova il soggetto. Adesivi incollati sul fondo delle piscine che riproducono con assoluta fedeltà scene di annegamento oppure inondazioni metropo-litane colpiscono inevitabil-mente il pubblico dei bagnanti perché si innestano senza pre-avviso all’interno delle comuni pratiche di uso degli spazi e al tempo stesso, pur essendo vi-sivamente realistiche non sono logicamente plausibili. Gli ade-sivi si impongono in maniera improvvisa all’attenzione, ma al tempo stesso nascondono la propria intenzione, relegano la parola ai margini del testo o in secondo piano. La funzione di ancoraggio che le parole svolgo-no nei confronti delle immagi-

ni è dosata minuziosamente: la posizione e la dimensione dello slogan, del copy e del logo del committente sono accurata-mente misurati per non com-promettere la presa visiva del testo sullo spettatore. Il dubbio, infatti, è essenziale per costrin-gere l’enunciatario a misurarsi con le intenzioni dell’enuncia-tore, il sospetto sulla reale na-tura del testo è indispensabile per innescare la curiosità che prelude al racconto verbale del problema e della sua possibile soluzione.

Il trompe-l’œil è, ovviamen-te, solo una delle forme testuali che si rivelano efficaci per colpire la sensibilità dello spettatore, in alcuni casi infatti i protagonisti del racconto non sono immagi-ni, ma oggetti reali che entrano in relazione con lo spazio in cui sono inseriti provocando la rea-zione dei passanti. Estate 2009: un esercito di piccole figure di

ghiaccio che riproducono esseri umani sistemati con ordine sul-la scalinata di un edificio pub-blico si scioglie inesorabilmente davanti agli occhi dei curiosi. La performance, apparentemente priva di senso, suscita scalpore e curiosità, si sottrae a una com-prensione immediata, sollecita l’interesse attivo dei passanti. L’impossibilità di dare un senso a una situazione di grande im-patto, di stabilire con sicurezza una connessione diretta tra un piano dell’espressione (le figure con le loro dimensioni, il ma-teriale di cui sono composte, la posizione che occupano nello spazio) e un piano del conte-nuto a prima vista volutamen-te ambiguo, innesca il piacere dell’interpretazione. In questa semiosi che si dispiega improv-visamente nello spazio metro-politano, il sospetto irrompe nella routine delle vite quoti-diane modificando radicalmen-

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te l’orizzonte delle attese dei passanti. Solo il passaggio alla pragmatica della comunicazio-ne consente di sciogliere l’am-biguità di una situazione che in realtà costituisce un vero e pro-prio testo pubblicitario. Avvici-nandosi alle figure di ghiaccio, infatti, è possibile ricostruire la ratio semiotica dell’intera ope-razione di social advertising. Le sagome silenziose e anonime ac-quistano improvvisamente una forza di interpellazione notevo-le, l’installazione si rivela infatti

un’azione di ambient marketing promossa dal WWF per solleci-tare in modo non convenziona-le il dibattito pubblico sul tema drammatico del riscaldamento globale.

Questi primi esempi che hanno riscosso a livello inter-nazionale un notevole succes-so, attirando anche l’interesse dei media che hanno dato alle iniziative di sensibilizzazione un’ampia copertura, aiutano a comprendere l’evoluzione in-terna al social advertising che

oggi intrattiene con il pubbli-co una relazione sempre più confidenziale e dialettica. Se è senz’altro vero, come sosten-gono numerosi studiosi, che da tempo la pubblicità non vende più prodotti ma stili di vita che prendono forma all’interno di mondi possibili, nelle forme promozionali della comunica-zione sociale, l’obiettivo è rin-novare l’interesse del destina-tario nei confronti di un tema e di un’iniziativa di sensibiliz-zazione allestendo situazioni

narrative enigmatiche, testi in cui la scoperta del senso nasce dal sospetto e dall’assemblaggio ludico degli indizi. Esplorare il contesto internazionale forte-mente dinamico dell’unconven-tional social advertising significa dunque ripensare il tema del dubbio in una chiave socio-semiotica, situare la riflessione sulle reazioni del pubblico nei confronti di veri e propri assalti pubblicitari, all’interno di un ragionamento di ampia portata dedicato alle strategie testuali e interpretative su cui si reggono le campagne di comunicazione.

In primo luogo, come ab-biamo visto, esiste una forma di dubbio che a monte definisce la relazione comunicativa di fon-do tra enunciatori e pubblico della pubblicità sociale. Si tratta qui del dubbio che lo spettato-re spesso proietta nei confronti delle intenzioni e della credibi-lità del soggetto dell’enuncia-zione e delle sue richieste, un atteggiamento di sfiducia con il quale il social advertising è co-stretto necessariamente a fare i conti. Il dubbio in questa pri-ma accezione è inteso come lo sfondo su cui si innesta la dia-lettica della comunicazione, è lo scenario con cui deve misu-rarsi l’intelligenza narrativa e stilistica dei committenti e dei creativi che disegnano la strate-gia della campagna.

Accanto a questa sfiducia che orienta il legame tra i sog-getti situati ai due estremi del testo pubblicitario che anima-no il funzionamento del social advertising, il dubbio si presta a essere analizzato, come si è detto, in un’ottica differente, non più focalizzata sull’enun-ciazione, ma sull’enunciato,

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sull’utilizzo strategico del dubbio inteso come effetto di senso che prende forma nei testi. In questa seconda accezione, il dubbio viene impiegato come strumento di una retorica del discorso pubblicitario non convenzionale che mira ad aggirare le dife-se del pubblico a partire dalla costruzione di testi sociali ambigui, imprevedibili. Qui il testo si sottrae a una facile e immediata comprensione, la messa a fuoco di tutti gli elementi che entrano in gioco nella costru-zione della pubblicità sociale viene voluta-mente ostacolata, accuratamente ritardata; l’obiettivo che inquadra il senso dell’intera azione pubblicitaria è dilatare il momento dell’interpretazione sfruttando in maniera strategica e innovativa l’incertezza della vi-sione. Con ogni evidenza è qui del tutto legittimo parlare di una retorica del dub-bio, dal momento che le azioni di guerrilla marketing messe in campo per attrarre e colpire il pubblico fanno affidamento su un vero e proprio sistema di figure retoriche che agiscono tanto sul piano dell’espressio-ne quanto sul versante dei contenuti.

Chiaramente le logiche del dubbio che agiscono a questi due livelli sono tra loro intimamente collegate, dal momento che l’innovazione espressiva della pubblicità sociale non può che essere concepita come il prodotto, in alcuni casi davvero sor-prendente, della relazione fragile che lega i protagonisti del sociale ai destinatari delle azioni di comunicazione.

Non si può tuttavia concludere una riflessione sulle strategie di rafforzamento del rapporto tra enunciatori e pubblico nel social advertising senza prendere in esame una terza dimensione del dubbio che entra in scena alla fine del processo di comuni-cazione e che si configura come un giudi-zio di valore, che molto spesso avvolge le azioni di guerrilla marketing. Parliamo qui del dubbio inteso come dibattito pubbli-co che chiama in causa il rapporto tra la non convenzionalità del tone of voice, im-piegato nella costruzione della campagna, e la drammaticità dei temi rappresentati. Si tratta a ben vedere di una duplice forma di scetticismo che sottopone a una critica

serrata le strategie di funzionamento della pubblicità sociale più radicale. Da un lato, infatti, alcune campagne di social adverti-sing divengono argomento di un’accesa di-scussione, che verte sull’equilibrio etico tra il linguaggio impiegato nel testo pubblicita-rio e il tema portato all’attenzione del pub-blico. Molte iniziative di sensibilizzazione, infatti, sono oggetto di critiche che met-tono in discussione la legittimità dei toni e delle argomentazioni impiegati nei testi. Nei casi di visual particolarmente impres-sionanti e drammatizzanti o di slogan vee-menti che si rivolgono al lettore utilizzando toni accusatori, viene sollevata la questione dell’opportunità etica di rappresentare in modo scioccante temi di rilevanza sociale. Parallelamente, non sono rari i casi in cui le azioni di guerrilla marketing, che nell’ambi-to del sociale privilegiano l’ironia e il para-dosso come strumenti di argomentazione, vengono criticate per la non conformità tra la ‘leggerezza’ della confezione del testo e la tragicità del tema messo in scena.

Accanto a questa forma di dubbio oc-corre infine distinguerne una seconda che riguarda non più il giudizio morale sul rap-porto che si instaura tra la forma-racconto della pubblicità sociale e il tema veicolato, ma l’efficacia della strategia di comunica-zione, il reale funzionamento dell’azione di sensibilizzazione sociale. Si tratta qui di mettere in discussione la reale forza di impatto della campagna di social adverti-sing nei confronti degli atteggiamenti e dei comportamenti del pubblico coinvolto. A questo livello, la discussione chiama in causa non le intenzioni degli enunciatori, né la legittimità delle strategie di guerrilla marketing da un punto di vista etico. Piuttosto, il dubbio ri-guarda le ricadute sul piano pragmatico delle scelte creative di comu-nicazione che guidano la realizzazione del testo. Il sospetto, infatti, è che a un’indubbia originalità

dal punto di vista semiotico nella costru-zione dei testi non corrisponda una reale capacità di modificare idee e abitudini. Si tratta di un passaggio decisivo nel dibattito che inevitabilmente accompagna le cam-pagne di pubblicità sociale più controver-se e dispendiose sotto il profilo dei costi di ideazione e realizzazione. Ovviamente, concentrare l’attenzione sulla forza che la pubblicità sociale esercita nei confronti de-gli atteggiamenti e dei comportamenti del pubblico è un’operazione che riveste un ruolo di primo piano nel processo di messa a punto di un genere di comunicazione che per la natura degli obiettivi, dei linguag-gi, dei mezzi e del pubblico non può che ridefinire costantemente le proprie stra-tegie. Occorre tuttavia stare attenti a non investire i testi, anche i più originali sotto il profilo della narrazione e della messa in scena, di una funzione e di un potere che necessariamente travalichino i confini del-la provocazione pubblicitaria. Il social ad-vertising, infatti, non va dimenticato, deve essere concepito come uno degli elementi costitutivi di una strategia del cambiamen-to sociale, in cui la funzione della sfera po-litica e dell’informazione sono preminenti. Nessuna azione di guerrilla marketing può, isolatamente, contribuire a trasformare at-teggiamenti e comportamenti radicati; la pubblicità sociale non va intesa come un fine, ma come uno strumento di sollecita-zione del pubblico all’interno di un proces-so dialogico ben più ampio.

Infine, come accade con tutte le forme più innovative e, in alcuni casi, controverse

pubblicità sociale

In libreria l’ultimo libro di Paolo Peverini

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di comunicazione, il social advertising non convenzionale rischia di essere vittima del-le sue stesse logiche; le soluzioni espressive che rendono efficaci adesivi, sagome, per-formance metropolitane hanno una durata spesso decisamente contenuta all’interno del sistema dei media, infatti maggiore è il livello di creatività e di diffusione del te-sto, minore si rivela la capacità di resistere all’usura del senso. A livello internazionale le strategie impiegate nella sensibilizzazio-ne e nel coinvolgimento attivo dell’opinio-ne pubblica sono ricorsive, in molti casi il concept dell’azione pubblicitaria viene man-tenuto e si interviene solo nel livello di su-perficie, modificando alcune caratteristiche del visual e dello slogan. La provocazione, intesa come effetto di senso prodotto dal testo, viene rapidamente indebolita, addo-mesticata. Il dubbio, legittimo, riguarda la capacità del social advertising non conven-zionale di mantenere nel tempo la propria efficacia come discorso e come insieme di pratiche. Le forme di guerrilla marketing, nate dall’arte di sovvertire la retorica del-la pubblicità tradizionale, sono costrette a una mutazione continua, a un confronto serrato con un rischio inevitabile: quello di scivolare rapidamente nella retorica, in un uso infine convenzionale della provocazio-ne.

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42

DIRITTO

Alla metà del ‘600, Vaillac e La Motte, due ufficiali francesi al servizio di Johann Friedrich,

duca di Hannover, si sfidano a duello. In assenza di testimoni, però, lo stesso verificarsi

del duello diviene oggetto di contesa. Un difficile caso giuridico che affascinò i

contemporanei, risolto dal filosofo Leibniz con uno strumento eccezionale: il dubbio.

IL DUBBIO Un esempio del suo trattamento

da parte dei giuristi del Diritto Vecchio

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Trattare la nozione di dub-bio dal punto di vista giuridico appare difficile a causa della complessità

delle sfide e delle implicazioni che entra-no in campo. Si offrono risposte diverse in base al punto su cui si pone l’accento: se si pone sulle condizioni di sviluppo del dubbio o sulla determinazione del-le conseguenze giuridiche da trarre per risolvere un affare. Le argomentazioni utilizzate, inoltre, saranno differenti in questi due casi, poiché nel primo po-tranno essere di natura ontologica o epi-stemologica (quali sono gli elementi che si considerano come incerti e quali sono le argomentazioni che permettono di eli-minare il dubbio?), mentre nel secondo caso saranno completamente normative (quali conseguenze giuridiche devono essere tratte dagli elementi incerti in un affare?).

Questa complessità è complicata ulteriormente dal fatto che le posizioni antinomiche sembrano essere giustifica-te. Da un lato, infatti, è impossibile non sottolineare il carattere incerto di una buona parte delle decisioni giuridiche e di non rintracciarne l’origine nell’im-possibilità di trattare l’infinita diversi-tà delle situazioni riconducendole alla semplicità delle categorie giuridiche.

Dall’altro lato, è inevitabile non ricor-dare che l’esigenza di prevedibilità delle soluzioni e la funzione di decisione del diritto impongono di trattare con giusti-zia i casi di specie, riportandoli ai quadri generali della legge. È quindi necessario collegare i casi di specie a categorie di riferimento, sia ampliandoli sia distin-guendone le circostanze, attraverso l’uti-lizzo di tutte le norme sintattiche e se-mantiche immaginate dai Glossateurs e dai commentatori del Diritto Vecchio1 nel panorama dell’interpretatio legis.

Infine, si deve risolvere la difficile questione delle relazioni tra il fatto e il diritto. Se è possibile giudicare i fatti a partire da una teoria della prova fondata sulla stima dei gradi di probabilità (o di dubbio) della conoscenza dei fatti stessi, bisogna, allo stesso tempo, distinguere i fatti dal diritto, non soltanto perché il principio d’imputazione di Kelsen proi-bisce di operare la deduzione delle nor-me a partire dai dati materiali, ma an-che perché il diritto contiene procedure come la presunzione e la finzione che permettono di trarre delle conclusioni giuridiche a partire da una conoscenza dei fatti parziale, incerta o anche oppo-sta rispetto alle stesse conclusioni.

Tutti questi problemi furono affron-

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tati da Leibniz in un testo del 1678-1679 dedicato alla soluzione di un caso, famoso al suo tempo per il carattere in-certo delle soluzioni che erano proposte. Si trattava del duello tra Vaillac e La Motte, due ufficiali francesi al servizio di Johann Friedrich, duca di Hannover, di cui Leibniz stesso era bibliotecario e consigliere.

Ecco i tratti principali di questo caso assai aggrovigliato di cui Leibniz deter-minò la soluzione dopo avere distinto le componenti e valutato le ragioni: dopo avere vinto contro Vaillac al “gioco del palmo”, un antenato del tennis, La Mot-te festeggiò la vittoria con gli amici, ri-dendo dello sconfitto. Vaillac venne a conoscenza dell’accaduto ed annunciò alla sua affittacamere e al suo servo di andare a vendicarsi dell’affronto in un duello con La Motte. Si recò a casa di quest’ultimo dove incontrò alcune per-sone e vide La Motte senza testimoni. Dichiarò in seguito di essere andato nel luogo convenuto per il duello ed avere aspettato La Motte. Questi arrivò poco dopo con il suo servo che fu fatto subi-to allontanare. Vaillac affermò di essersi allora battuto con La Motte e di essere riuscito a disarmarlo dopo essere stato ferito alla mano ed avere rotto la spada in un attacco. Ne diede per prove la sua ferita, in seguito trattata da un chirur-go, il guanto perforato dalla lama di La Motte e la punta della spada, ritrovata più tardi da un contadino nel posto in-dicato come luogo del combattimento. Concluse il suo racconto affermando di aver promesso di non raccontare della sconfitta di La Motte.

Trascorsero tre mesi durante i qua-li Vaillac raccontò a quanti glielo chie-dessero come aveva sconfitto La Motte. Infine, La Motte venne a conoscenza di questa storia e si presentò al loro supe-riore, il Maresciallo, per sostenere pub-blicamente, in presenza di Vaillac, che non c’era stato alcun combattimento.

Vaillac lo insultò e gli diede del bugiar-do. La Motte si presentò allora dal duca di Hannover e gli chiese giustizia. En-trambi furono arrestati e la questione fu esaminata nei dettagli.

Il caso era particolarmente incerto, poiché nessuno dei fatti poteva offrire certezze assolute circa la realtà del duel-lo. Mentre era innegabile che La Motte avesse riso di Vaillac prima del presunto duello e che quest’ultimo avesse fatto lo stesso successivamente, la realtà del duello, o la sua inesistenza, si basava sol-tanto sulle dichiarazioni verbali dei due protagonisti. Si poteva immaginare che Vaillac volesse vendicarsi delle beffe di La Motte inventando un duello da cui sarebbe uscito vittorioso e si fosse così costruito delle prove relative alla sua vo-lontà di battersi (annuncio alla sua affit-tacamere e al suo servo), al fatto di esser stato ferito (la mano tagliata e il guanto perforato), e relative infine al luogo dove avrebbe avuto luogo il duello (la sua lama ritrovata dal contadino). Tuttavia, si poteva anche immaginare che il duello avesse effettivamente avuto luogo e che La Motte avesse approfittato dell’assenza di testimoni diretti e della presenza di sole prove indirette per negare un episo-dio disonorante. D’altra parte, si sa che una serie di prove indirette può dare una forte probabilità, o una quasi-certezza, quando queste sono tra loro concordi.

La psicologia dei personaggi, d’altro canto, sarebbe potuta essere una com-ponente importante per la soluzione del caso, poiché l’assenza di una prova diretta e la possibilità di revocare tutte le prove indirette, ipotizzando una co-spirazione da entrambe le parti, condu-cevano l’inquirente a dover misurare il grado di credibilità delle versioni. Ma, come osserva Leibniz, occorrerebbe che Vaillac fosse straordinariamente vile e stupido per inventare tale storia, poi-ché l’avrebbe confezionata per evitare di battersi con La Motte per riparare ad un

oltraggio, sapendo che il suo vanto dopo la lotta presunta e gli insulti in presen-za dal Maresciallo avrebbero inevitabil-mente causato il duello temuto. Allo stesso modo, occorrerebbe supporre che La Motte fosse un individuo astuto do-tato di una sfrontatezza incredibile, poi-ché avrebbe approfittato dell’assenza di testimoni a favore di Vaillac per negare la realtà del combattimento e chiedere giustizia al duca.

Oltre ad esaminare il grado di pro-babilità dei fatti per eliminare il dubbio su ogni affermazione, occorre misurare la coerenza delle motivazioni a parti-re dalla mentalità di ciascuno dei due personaggi e sapere se tutti i fatti, ma-teriali e psicologici, costituiscono uno o più fatti giuridicamente qualificati che legittimano un’azione legale capace di risolvere il caso.

Se la questione di fatto deve essere assolutamente distinta dalla questione di diritto, per non confondere i rispet-tivi settori e non applicare all’una le proprietà dell’altra, ciò non significa che in questo caso si possa separarle comple-tamente. Certo, la natura dubbia delle affermazioni del (presunto) duello di Vaillac contro La Motte può portare ad un vero dubbio ontologico, giustificato dal fatto che la vera natura degli eventi è in gran parte sconosciuta, come for-se non era mai accaduto in alcun caso precedentemente esaminato. Ciò non implica, tuttavia, che la natura radicale di questo dubbio ontologico si estenda al settore giuridico e che la sospensione della decisione risultante sia qui appli-cata.

La sospensione del giudizio che si raccomanda nel caso delle conoscenze empiriche è impensabile nel diritto per tre ragioni: le necessità della vita sociale costringono ogni giudice ad affrontare qualsiasi questione gli venga sottoposta, senza potere sostenere che l’oscurità dei

duello | prove

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testi o dei fatti lo autorizzi a non ren-dere giustizia. Inoltre, il requisito della prevedibilità delle soluzioni lo costringe a determinare le categorie di riferimento che permettono di giustificare il tratta-mento della causa sino in fondo, poi-ché, contrariamente a ciò che dicevano i Dottori del XVI secolo come Tiraque-au, le vecchie soluzioni dell’estrazione a sorte, della “soluzione per l’amico” o dell’indefinito rinvio del caso, non sono soluzioni giuridicamente accettabili.

Infine, un sistema di diritto positivo ha la particolarità di potere essere reso completo, sia in modo restrittivo, di-chiarando che tutti i casi incerti o non previsti dalla legge non possono essere affrontati, sia in modo estensivo, consi-derandoli tutti permessi (e dunque pre-visti) perché conformi al significato di una legge compresa in senso lato. Ma questa completezza è in parte il risulta-to di una definizione dei fatti ai quali il diritto conferisce la proprietà di essere certificati da un sistema di prove o di in-dici, perché manifestazioni di un diritto già riconosciuto.

Consideriamo il caso di una persona portatrice di handicap che chiedesse al controllore di essere aiutata a prendere il posto occupato da un’altra persona portatrice di handicap, perché il suo handicap è chiaramente più grave. In mancanza di una disposizione di legge che indichi il livello di handicap sui do-cumenti delle persone handicappate, il controllore dovrebbe limitarsi a ricorda-re in modo informale la regola romana prior tempore potior jure, assegnando la preferenza al primo occupante. E se il reclamante, a differenza dell’altra parte, non possedesse il suddetto documento, il controllore dovrebbe respingere la sua istanza in modo ancora più radicale, perché agli occhi della legge l’unica per-sona portatrice di handicap è quella con un documento che attesti il suo deficit. Questo solo fatto giuridico serve a dissi-

pare i dubbi che si possono riscontrare sulla gravità reale dei disabili, perché qui non si tratta di valutare la gravità fisica dei portatori di handicap, ma di ricono-scere l’esistenza ufficiale di un handicap, attestato dal fatto materiale e giuridico del possesso di un documento.

Con queste affermazioni non si eli-mina dal settore giuridico la questione del dubbio legata alla valutazione di una realtà empirica in movimento. Neanche volendolo lo si potrebbe fare, perché le istanze che stabiliscono i criteri ufficiali dell’handicap, gli esperti incaricati di va-lutare gli handicap reali rispetto a questi criteri, i giudici che devono determinare la categoria sussunta a caso di specie, in-termedio tra due categorie, ed i giudici le cui decisioni diventano giurispruden-za si confrontano tutti ogni giorno con questo dubbio. Ci si limita soltanto a ricordare che l’esigenza di prevedibili-tà e di completezza del diritto positivo conduce a definire la natura e la portata delle prove, delle presunzioni, delle con-getture e degli indici ammessi nel dirit-to, in modo che tutto ciò che non ne fa parte e non può essere integrato tramite un’estensione legittima (cioè, una buona parte degli elementi incerti dal punto di vista empirico) ne resti escluso. Si trae dunque la conseguenza che tutte le cir-costanze materiali che rendono incerto un caso devono integrarsi nel sistema delle prove giuridicamente ammesse o essere considerate inesistenti.

Applicata al caso Vaillac contro La Motte, questa conclusione conduce all’idea che una soluzione, elaborata con gli strumenti giuridici del XVII secolo, deve risultare sia dalla ricerca “di prove, presunzioni, congetture ed indici” con-tenuti nei fatti, sia da una procedura in-dipendente dalla loro esistenza.

Nel primo frangente si procederà come i giureconsulti che esaminavano questi elementi nell’ordine così presen-

tato da Leibniz: [Ci sono prima] le prove intere, o che sono ritenute tali, a partire dalle qua-li si pronuncia un giudizio, almeno in materia civile, ma rispetto alle quali in alcuni aspetti si mantengono delle ri-serve in materia criminale; e non è sba-gliato chiedere prove più che piene e soprattutto ciò che si chiama corpus de-licti, secondo la natura del fatto. Dun-que, ci sono prove più che piene e vi sono anche prove piene ordinarie. Poi vi sono le presupposizioni, che sono considerate provvisoriamente come prove intere, finché non è dimostrato il contrario. Ci sono prove più che semi-piene (a dire il vero) che permettono a colui che si fonda su esse di giurare per compensarle (si tratta del juramentum suppletorium); ve ne sono altre meno che semi-piene che, al contrario, fan-no attribuire il giuramento a colui che nega il fatto, per purgarsi (è il juramen-tum purgationis). Oltre a questi casi, vi sono molti gradi di congetture e indici. E tutta la forma della procedura nella giustizia non è altro, infatti, che una specie di logica applicata alle questioni di diritto (NE: IV.16.5).

Nel secondo frangente, al contrario, si utilizzeranno le norme di procedura che permettono di esimersi dalle prece-denti prove.

Nel caso in cui le congetture e gli indici abbondano, però, i fatti riportati restano dubbi, perché non vi è né una prova piena (per assenza di testimone indiscutibile), né una presunzione juris o de jure, né una prova più che semi-piena, che permette ad una parte di confermare una dichiarazione per giu-ramento (poiché ognuno dei due può farlo) e neppure prove meno che semi-piene, che permettono ad una parte di confermare una negazione con un giura-mento di purgazione (per la stessa ragio-ne). Occorre dunque riferirsi al secondo metodo che, a questo punto, restringe la scelta tra la procedura inquisitoria ex officio judiciis, equivalente a quella del nostro diritto continentale, e la proce-

procedure

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dura accusatoria o per azione criminale, equivalente a quella del diritto anglosas-sone.

Leibniz dimostra facilmente che la prima ipotesi non può essere applicata, perché il danno è trascurabile ed i fatti sono incerti e/o difficili da scoprire. La massima romana de minimis non curat praetor, proibisce di spendere il denaro pubblico per risolvere casi senza impor-tanza o per risolvere casi i cui elementi sono così incerti che non si può ragio-nevolmente sperare di ottenere pro-ve dopo un’indagine ex officio judiciis. Quindi, bisogna utilizzare la procedura accusatoria e permettere ad ogni parte di fare valere i suoi diritti e le sue pretese davanti a un giudice che svolge il ruolo d’arbitro. Il caso si riassume allora nei due punti successivi:

1° Vaillac chiede che La Motte sia condannato per diffamazione e La Mot-te chiede che Vaillac sia obbligato, sia a provare la verità del suo resoconto del duello immaginario (ciò che non può fare in mancanza di prove indubitabili), sia a riconoscere pubblicamente di avere inventato una storia.

2° Gli indici a favore della verosimi-glianza del racconto di Vaillac sono più convincenti di quelli a favore del raccon-to di La Motte, perché la bugia di Vaillac supporrebbe che egli abbia faticato mol-to per organizzare prove false, mentre la menzogna di La Motte supporrebbe solo che egli non si sia dato questa pena.

Le uniche due questioni a cui bi-sogna rispondere per risolvere il caso sono :

1° se l’esistenza di un difetto di pro-ve o di indici, come quello che influisce sul resoconto di La Motte, sia sufficiente a falsificare il racconto;

2° se per affermare la falsità di una tesi e condannare a morte il suo autore ci si possa fondare sul presupposto che egli, in questo caso Vaillac, non possa provare la veridicità del suo resoconto.

Leibniz ricorda che esiste una norma “fondata nella ragione ed osservata nel-la pratica” secondo la quale “nell’azione di ingiuria o in qualsiasi altra accusa, l’accusatore che non riesce a provare in-teramente la sua intenzione, ma che ha fornito indici considerevoli, non è puni-to dalla pena di calunnia, anche se l’im-putato è assolto dalla sentenza” (Leibniz 1677-1689: 655). In altri termini, ab-biamo bisogno di prove piene in materia criminale per condannare una persona, mentre prove non piene bastano ad as-solverla. Poiché questa regola può essere estesa ai semplici indici, la differenza di verosimiglianza tra i resoconti di Vaillac e di La Motte non basta a dare ragio-ne al primo ed a condannare il secondo. D’altra parte, come fa osservare Leibniz, è sufficiente immaginare una situazione estrema nella quale si passi da un reso-conto che contiene elementi incerti ad un resoconto puramente immaginario per mostrare chiaramente che non è possibile esigere dall’autore una prova di veridicità per non essere condannato per diffamazione. Un resoconto immagina-rio non è tuttavia un resoconto diffama-torio.

La conclusione di questo caso intri-cato è in ultima analisi molto semplice: ciascuno dei due protagonisti deve esse-re lasciato libero a vantaggio del dubbio dell’accusa che l’altro formula contro di lui.

Il dubbio, in questo modo, non è più l’elemento che sospende la soluzio-ne, ma, al contrario, l’elemento che la determina.

Quest’esempio, tipico del modo in cui i giuristi del Diritto Vecchio si muo-vevano per risolvere i casi in cui i dati fat-tuali erano vaghi, non rientra ovviamen-te nei quadri della dottrina ciceroniana della topica, secondo la quale l’accerta-mento della nostra ignoranza riguardo le vere cause materiali conduce a sotto-lineare l’imprevedibilità della decisione

giudiziaria e l’importanza della retorica come arte di convinzione. Questo caso dipende dall’atteggiamento opposto che consiste nell’utilizzare le risorse della dialettica per utilizzare il dubbio per fini dimostrativi, in mancanza del potere di eliminarlo. Ed è in questo quadro che il caso trova tutto il suo pieno valore di prototipo.

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Endnotes1 Il Diritto Vecchio a cui si fa riferi-

mento nel presente saggio è il diritto della tradizione giuridica derivata da Bartole (di solito definita il mos italicus per distinguer-la dal mos gallicus che caratterizza il metodo d’esposizione tipico dei giuristi francesi). Questa tradizione derivata da Bartole sarà ereditata soprattutto dai giuristi tedeschi, in particolare dalla scuola di Leipzig a cui appartiene Leibniz. Essi, tuttavia, intro-durranno la classificazione e l’impiego delle categorie astratte per proporre una dottrina che tende alla codificazione: la dottrina che sintetizza i lavori leibniziani di diritto posi-tivo.

Leibniz

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Georges Didi-Huberman, L’ immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Bruno Mondadori, Milano 2008

Questo libro interroga le relazioni antropologiche cruciali che le immagini intrattengono con il corpo e la carne, al di là delle usuali nozioni di antropomorfismo o di rappresentazione figurativa. Vi sono analizzate le diverse modalità con cui le immagini guardano alla carne, che sia la carne di Afrodite formata dalla schiuma del mare o quella di Cristo sacrificato sulla croce. Paganesimo e cristianesimo, ognuno con i suoi contesti di pensiero, avrebbero, in effetti, entrambi cercato di raggiungere, o forse trasgredire, i limiti dell’imitazione: da una parte le metafore diventano metamorfosi, dall’altra i segni che rappresenta-no diventano dei sintomi che incarnano. Si scoprirà questa potenza straordinaria dei corpi allorché in essi la carne guarda all’immagine, a esempio nella stigmatizzazione di San Francesco del XIII secolo, la crocifissione dei Convulsionari di San Medardo del XVIII secolo o le

“attrazioni” isteriche della Salpétrière del XIX secolo.

A. Pinotti, A. Somaini, Teorie dell’immagine, Raffaello Cor-tina Editore, Milano 2009

Si dice abitualmente che viviamo nella “civiltà delle immagini”, esposti a un flusso di impressioni visive che ci sollecita incessante-mente. Ma essere immersi in una dimensione non è la posizione mi-gliore per rendersi conto né della nostra condizione né della natura dell’ambiente che ci avvolge. Sopraffatti dalle immagini, non sappia-mo dire più che cosa sia davvero un’immagine, quali siano le sue fun-zioni e i suoi poteri. Sono dunque necessari strumenti che ci aiutino a interpretare la “cultura visuale” in cui viviamo, senza relegarci nella posizione di spettatori passivi. “Teorie dell’immagine” risponde a que-sta esigenza. Proseguendo e al contempo trasformando in profondità la tradizione delle indagini intorno all’immagine (arti visive, fotografia, cinema, televisione, nuovi media), dieci saggi degli esponenti più si-gnificativi di quel nuovo campo di studi conosciuto sotto i nomi di vi-sual culture studies e Bildwissenschaft presentano al pubblico italiano le più interessanti linee di ricerca su quella che potremmo chiamare Viconosfera contemporanea.

M. Colombi, S. Esposito, L’ immagine ripresa in parola. Letteratura, cinema e altre visioni, Meltemi, Roma 2008

Questo volume analizza il lavoro che cinema e letteratura svolgo-no su e con le immagini. I saggi raccolti nella prima parte - Poetiche del cinema - si occupano di diverse rappresentazioni cinematografi-che, riflettendo su come e perché i temi di vari film siano stati struttu-rati attraverso un certo tipo di immagini. La seconda parte prende in esame un genere particolare di tema letterario e cioè il cinema rap-presentato dalla letteratura. La prefazione dei curatori e l’introduzione di Massimo Fusillo suggeriscono percorsi di letteratura fra i diversi saggi e le due sezioni (ad esempio il problema della “realtà”, il corpo, lo spazio, il passaggio da modernismo a postmoderno).

F. Muzzarelli, L’ immagine del desiderio. Fotografia di moda tra arte e comunicazione, Bruno Mondadori, Milano 2009.

Moda e fotografia sono territori che si sviluppano in osmosi, at-tingendo l’uno dall’altro suggestioni e idee capaci di alimentare l’im-maginario collettivo e influenzare comportamenti sociali, cultura visua-le e ricerca artistica. Seguendo l’intrecciarsi di questi mondi, l’autrice racconta i percorsi dell’immagine di moda attraverso l’individuazione di idee chiave che da sempre appartengono all’identità e alla filosofia del fotografico: il recupero della memoria tra album di famiglia e mo-

dalità snapshot, il voyeurismo e il gossip divistico, la fuga fantastica nelle dimensioni filmica e teatrale. Una ricognizione ampia e trasver-sale in grado di cogliere quegli incroci tra arte, moda e fotografia che costituiscono lo scenario della nostra contemporaneità.

C. Saba, Alfred Hitchcock. La finestra sul cortile, Torino, Lindau 2009

“La finestra sul cortile” è un saggio dedicato al racconto cinema-tografico a suspense. Le relazioni che il suspense intrattiene con la narrazione sono presentate attraverso il racconto del mondo possi-bile “abitato” dal protagonista, Jeff (James Stewart). La condizione di Jeff, che si trova “in uno stato d’impotenza motrice” - costretto, temporaneamente, su una sedia a rotelle - è ricondotta “a una situa-zione ottica pura”, assimilabile alla condizione dello spettatore cine-matografico, caratterizzata da una “ipomotricità” (immobilità senso-motoria) che si scarica nella “iperattenzione”. Jeff è uno spettatore che vede passare, come fosse un film, sulle finestre-schermo di un appartamento, un ambiguo “racconto per immagini”, di cui intuisce la

“storia”. Il film “racconta” le sue mosse interpretative circa il contenuto di quella “storia” virtuale, intuita, sulla cui base egli decide di dare coerenza interpretativa non solo a ciò che vede, ma anche a ciò che non vede.

M. Padula, Immersi nei media. Il nuovo modo di essere vivi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.

Tra le tante manifestazioni della cultura contemporanea, i mass media esigono una profonda e sempre rinnovata riflessione. È questo il punto di partenza del libro che, attraverso le lenti parallele della so-ciologia e della mediologia, disamina i comportamenti, le ritualità, gli spazi e i tempi costruiti da vecchi e nuovi media. L’opinione discutibile che i mezzi di comunicazione siano soltanto mere tecnologie viene fagocitata dalla convinzione che essi stiano interpretando il mondo, accompagnandolo in una realtà altro, fatta di nuovi territori ospitanti individui totalmente ridefiniti. Tale interpretazione sfocia nell’ipotesi dell’ambiente mediale, decifrato come quello spazio in cui gli individui sono immersi e nel quale si muovono senza alcun disagio od ostili-tà. Un ambiente normale, che sta diventando addirittura invisibile agli occhi delle due categorie di uomini che per adesso lo abitano: i nativi e gli immigrati digitali. Lo studio ed il racconto dell’ambiente mediale diventano omnicomprensivi della sua radice temporale e, nello stesso tempo, dei bagliori teorici che hanno illuminato il pensiero sui media. Un’occasione preziosa per guardare con consapevolezza a questo nuovo ambiente. Senza dare nulla per scontato perché i media “sono il nuovo modo di essere vivi”.

R. De Gaetano, L’ immagine contemporanea. Cinema e mondo presente, Marsilio 2009

Eyes Wide Shut, Millennium Mambo, Lost in Translation, Ele-phant, In the Mood for Love, A History of Violence, Kill Bill, Il caimano, sono i film di cui si parla in questo piccolo volume. Partire dalle opere per pensare la contemporaneità, costruirne una mappa concettua-le e stilistica, non significa tornare indietro alla questione del testo e dell’autore. Tutt’altro, significa partire dall’espressione, dai segni, per-ché è solo lì, nel gioco fra prossimità e distanza istituito dal segno, che vediamo e sentiamo l’emergere del contemporaneo. Una cartografia del cinema contemporaneo non può che essere anche una cartogra-fia del mondo contemporaneo, dei sentimenti e delle immagini che lo compongono.

blackboard

consigli di lettura | cinema, arte e media

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René Descartes è un eroe, che ricominciò da capo l’impresa, e

restituì alla filosofia quel terreno al quale essa tornò soltanto adesso

dopo trascorsi mille anni. Non ci si può rappresentare in modo del tutto adeguato l’azione che

quest’uomo esercitò sull’età sua e sulla formazione della filosofia in

generale (Hegel 1981: 70).

FILOSOFIA

IL MODERNO IN FILOSOFIA: DESCARTES L’«EROE»

Igor Agostini

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1. PremessaLa questione oggetto del mio interven-

to, la modernità di Descartes ed il problema del dubbio, è non solo troppo complessa per poter essere adeguatamente affrontata all’in-terno dei limiti quantitativi e strutturali di un saggio, ma ancora aperta, troppo aperta, perché su di essa si possa pretendere di dare, in qualsiasi sede, giudizi definitivi. Eppure, mi è parso che ritornare sulla questione po-tesse essere interessante per almeno due mo-tivi d’attualità scientifica. Il primo è il sem-pre maggior numero degli studi dedicati, in questi ultimi anni al rapporto di Descartes con la tradizione, in particolare quella sco-lastica, che l’ha preceduto; il secondo sono i contributi più recenti provenienti sul pia-no delle edizioni di testi cartesiani. L’ultimo di questi è la pubblicazione, presso l’editore Bompiani, della prima traduzione integrale mondiale di tutte le opere di Descartes, a cura di Giulia Belgioioso, in collaborazione con un gruppo di giovani ricercatori, fra cui il sottoscritto, che svolgono la propria attivi-tà presso il Centro Interdipartimentale di stu-di su Descartes e il Seicento dell’Università del Salento (Belgioioso 2009 a b); edizione che fa seguito a quella, curata dalla stessa équi-pe per i medesimi tipi, della corrispondenza del filosofo (di cui esce ora, contempora-neamente alle opere, la seconda edizione) (Belgioioso 2009 [2005]). Con queste due pubblicazioni, è adesso a disposizione degli studiosi l’intero corpus di Descartes tradotto in italiano con testo a fronte stabilito sulle edizioni più affidabili1.

Lo scopo che mi propongo è quello di evidenziare alcuni aspetti di quella che, dal mio punto di vista, costituisce ancora la griglia ermeneutica più potente per la defi-nizione della modernità di Descartes: l’in-terpretazione cosiddetta «rappresentazioni-sta» (ma anche, variamente, «fenomenista» o «idealista»), secondo la quale Descartes, appunto, è il padre della filosofia moderna in quanto ha posto nella rappresentazione (idea, nella sua terminologia) l’oggetto im-mediato della conoscenza.

Cercherò di dimostrare la validità di

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FIVESTEPSWITH

C’è ancora spazio, nella cultura di oggi, per la filosofia?L’idea di pensare un luogo per la filosofia, a mio avviso, descrive l’isolamento nel

quale la filosofia stessa, e le scienze umane in generale, si sono ridotte da sole. Ritor-nando all’immagine di Platone che pensava l’arte e la poesia espulse, entrambe, dalla città, si può dire che, in un certo senso, oggi, anche la filosofia sia stata ricacciata ai margini. E tuttavia evoco questa metafora proprio per motivare l’obbligo di ritrovare una forma di ascolto, all’interno della pratica filosofica, di tutto ciò che è stato emarginato dalla filosofia stessa. Forse, quel senso di élite creato attorno alla capacità di ragionare, di vedere, di giudicare si è rivoltato contro la filosofia stessa, condannata a una sorta di soliloquio.

Quali sono le note che caratterizzano la peculiarità – se, ne riconosce una

– della storia della filosofia all’interno dell’attività filosofica? La peculiarità è quella che fonda la catena riflessiva, suscitata dalla meraviglia. Ma

sebbene questo atteggiamento originale sia tanto potente da determinare tutti i principi della conoscenza umana, allo stesso tempo sappiamo che è fragile. Basti pensare a cosa ha conseguito questo isolamento vissuto da alcune forme di filosofia che descrive-vo prima. Tutti sappiamo che questo atteggiamento aristocratico (ma anche lo sviluppo della filosofia “professionale”), se tenuto lontano da alcuni processi fondamentali della vita umana come la mitologia, le credenze, le immagini, le metafore, la retorica, etc. finisce nell’isolamento.

Ha dato il suo contributo all’edizione, a cura di Giulia Belgioioso, delle let-

tere e delle opere di Descartes: riconosce un valore specifico all’attività di edi-zione e traduzione dei classici della storia della filosofia?

Per me è stata una opportunità incomparabile e indimenticabile. Ci sono aspetti del pensiero del filosofo che troviamo soltanto nelle sue lettere. Il lavoro portato a termine da Adam e Tannery per l’edizione nazionale francese è fondamentale, ma, per un studente madrelingua spagnolo, questa versione in italiano, comprensiva del testo a fronte, dà la possibilità effettiva di discutere su ogni nozione. Questo, soprattutto se consideriamo che, nel contesto ispano-americano, il corpus cartesiano non è ancora integralmente tradotto. Il lavoro dell’equipe di Lecce sarà di stimolo per gli studiosi di tutto il mondo.

Pongo le ultime due domande guardando anche allo studioso di estetica

che ho avuto il piacere di ascoltare personalmente. La prima, più gravosa ed aperta al rischio di generalizzazione, è a mio avviso cruciale: esiste un ele-mento comune che consenta di identificare come “moderne” le varie teorie sull’immaginazione proposte dopo Descartes?

Secondo me, il problema più complesso nel parlare dell’immaginazione in Descar-tes è quello di confondere la dottrina cartesiana elaborata nelle opere di metafisica, Meditationes prima fra tutte, con quella di altri scritti come Les Passions e Le Monde. In questo senso c’è ancora molta strada da fare per tornare verso l’opera di Descartes con una nuova lettura aperta a referenti letterari, artistici e scientifici diversi da quelli consueti. Credo, senza volerne negare l’importanza, che la discussione metafisica e teologica non debba determinare tutto il pensiero di un autore come Descartes, in cui si integrano elementi di epistemologia, psicologia, antropologia e, certo, estetica. L’idea di un Descartes fondatore di un pensiero che lo lega ad autori come Leibniz, Wolff, Bau-mgarten, permette di distinguere la scienza del bello da quella del gusto, quest’ultima determinante nella direzione di Kant, ma lontana dalla tradizione delle poetiche classiche. Il fatto che Baumgarten abbia costrui-to un sistema estetico fondato sui criteri della chiarezza e della distinzione è indicativo.

Per chiudere, una questione più leggera: se doves-

se scegliere un titolo – uno solo – di un testo di estetica che meriterebbe di divenire un classico ed ancora non lo è, quale nome farebbe?

Certo... il titolo del libro sul quale lavoro: Idea, Concetto e figura: fondamenti di una estetica cartesiana.

PABLO CHIUMINATTO

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questa interpretazione attraverso la rico-gnizione di alcuni testi che mi pare possa-no sorreggerla. Concretamente, procederò, dopo le presenti osservazioni di carattere introduttivo, a richiamare i tratti principali dell’interpretazione suddetta (1), per poi ri-ferirmi ai testi di Descartes che la legittima-no (2) e, infine, svolgere alcune riflessioni sui suoi successori (3). Metodologicamente, sarebbe stato forse più corretto muovere dall’autore alla sua posterità; ma anche col-locare i testi al centro del piccolo trittico che qui presento mi è sembrato sensato; ed alla fine ho scelto così. Consegnerò alcune brevi riflessioni su alcuni dei limiti di questa in-terpretazione (da me qui sostenuta al di fuo-ri di ogni pretesa di dimostrarla come dotata di una validità incondizionata) all’apposito Eradication file. Proprio non sono riuscito ad affrontare, invece, problemi più generali, ma cruciali per la questione, anche per come storicamente si è di fatto svolta la storia delle interpretazioni (mi viene in mente – per re-stare, una volta tanto per gli studi cartesiani, in Italia – il dibattito fra Eugenio Garin e Gustavo Bontadini2), primo fra tutti, quello del rapporto fra filosofia e storia della filoso-fia; questo, ed altri ancora, ho però messo a tema nelle domande rivolte agli interlocuto-ri, dove il lettore potrà trovare un approfon-dimento del mio saggio.

2. L’interpretazioneIndicando, nelle sue Lezioni sulla storia

della filosofia moderna, le ragioni per le quali in Descartes dovesse essere individuato l’ini-ziatore della filosofia moderna, Hegel scri-veva:

In filosofia Cartesio iniziò un indirizzo affatto nuovo: con lui ha cominciamento la nuova età della filosofia, per opera della quale fu dato alla cultura di poter coglie-re il principio. Cartesio prese le mosse da questo, che il pensiero doveva procedere dal suo stesso interno; tutto il precedente modo di filosofare, specialmente quello che muoveva dall’autorità della Chiesa,

moderno

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FIVESTEPSWITH

Che posto occupa, per lei, la filosofia nella cultura?Io non credo che la cultura sia da intendere come un contenitore di saperi diversi

disposti uno sull’altro, o, peggio ancora, conglobati uno nell’altro. Le graduatorie pongono scale di valori che, soprattutto in questo ambito, mi sembrano fuori luogo. La filosofia (e qui do per scontato ciò che scontato non è, ossia che esista un oggetto unitario chiamato ‘filosofia’), insieme alla letteratura, alla musica, al teatro, alla matematica, alla medicina, alle ‘arti’ e ‘mestieri’, alla politica, alla religione ecc., definisce un’epoca. La cultura è, in questa prospettiva, solo il nome dell’insieme di queste diversificate attività umane. Da sola, non spiega neanche se stessa: è esercizio retorico sterile del quale Descartes (e non è stato il solo) ha sottolineato i paradossali esiti.

In cosa consiste la peculiarità, che ho avuto spesso modo di ascoltarla ri-vendicare, di quella disciplina che è la ‘storia della filosofia’ all’interno del più ampio dominio della ‘filosofia’?

Se nella risposta precedente ho avanzato delle perplessità sulla definizione univoca dell’‘oggetto’ ‘filosofia’, qui non capisco bene come possa intendersi una storia della fi-losofia parte del più ampio dominio della ‘filosofia’. Forse lei intende qualcosa di simile a quanto intendeva Ferdinand Alquié quando affermava che “divenire filosofo e comprende-re i filosofi sono una sola e medesima cosa”. Ma questa riduzione della filosofia alla meta-fisica pone l’esistenza di una philosophia perennis, nega la pluralità delle ‘filosofie’ e, infine, riduce i filosofi ad epifenomeni. Si può forse negare che non solo vi sia una differenza tra una filosofia ed un’altra, ma anche dentro una stessa filosofia?

Tale convinzione implica anche il riconoscimento di una specificità del me-stiere di ‘storico della filosofia’?

Lo storico deve porre una distanza tra sé e il suo oggetto. Solo così farà emergere le peculiarità. Lo hanno detto con molta chiarezza Delio Cantimori, Tullio Gregory ed Henri Gouhier, che si è spinto a dire che non si può fare la storia dei filosofi propri contempora-nei. Ma lo storico deve essere capace di adeguare le proprie categorie interpretative al fi-losofo (di volta in volta diverso) del quale studia la filosofia: Aristotele, ad esempio, richiede conoscenze, competenze, metodologie di approccio non richieste per studiare Vico. Non si studia in astratto la filosofia, ma i filosofi.

Questo implica anche il riconoscimento di un’importanza del tutto partico-lare al lavoro di edizione e traduzione?

È un lavoro fondamentale, per lo storico. Consente un approccio (mi viene da dire ‘in-timità’) all’autore, e alla sua evoluzione, che passa attraverso il possesso delle sue parole e dei suoi concetti che nessun altro approccio può dare. Consente di correggere interpre-tazioni consolidate basate su traduzioni sbagliate (o volutamente distorte), di verificare la sua appartenenza ad un linguaggio condiviso al suo tempo, la sua capacità di innovare. Affiancato al lavoro negli archivi, è quello che può restituire immagini non ‘ideologiche’ dei filosofi.

Autorevoli storici hanno identificato il carattere distintivo del cosiddet-to‘moderno’ in filosofia nell’identificazione, operata da Descartes, dell’oggetto immediato della conoscenza con l’idea. Una tale lettura, con tutta la sua proble-maticità, resta a mio avviso, ancora oggi, la meno inadeguata griglia ermeneuti-ca per una definizione unitaria di quel composito movimento che è la storia della filosofia moderna. Qual è la sua opinione?

Qui sono pienamente d’accordo. La rivoluzione della mo-dernità è stata posta nella sua capacità di mostrare che ‘i sensi’ inducevano in errore: la Terra non è ferma; il Sole non è più piccolo della Terra, ecc. E nel mostrare, contemporaneamente, che gli strumenti per pervenire ad una conoscenza che si po-tesse definire vera erano mentali. Qui risiede la critica più forte che il pensiero moderno nel suo insieme ha rivolto ad Aristotele; qui risiede anche la critica più forte che Descartes ha rivolto ai ‘critici’ di Aristotele, mostrando che lo Stagirita andava criticato non in quanto filosofo ‘razionale’, ma perché aveva elaborato un programma ‘razionale’ sbagliato.

GIULIA BELGIOIOSO

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fu da allora in poi abbandonato (Hegel 1981: 73).

Oltre un secolo dopo, Bontadini osser-vava:

La situazione in cui la coscienza filosofica si trova con Cartesio, e con l’epoca carte-siana, è […] posizione fenomenistica […]. L’idea assume le caratteristiche proprie del fenomeno – nel senso nuovo o mo-derno – in quanto è presupposto l’essere formale come suo correlativo estrinseco (Bontadini 1996: 12).

Non è questa la sede per entrare a fondo nella interpretazione hegeliana, né in quel-la di Bontadini, peraltro divergenti l’una dall’altra sotto molti aspetti. Quel che mi interessa notare, invece, è come siffatte in-terpretazioni convergano nel riconoscimen-to della modernità del pensiero di Descartes nell’identificazione dell’idea ad oggetto im-mediato del pensiero.

Che cosa siffatta identificazione signi-fichi concretamente si può desumere, per contrasto, dal confronto con la posizione che Descartes ribalta edificando la propria: quel-la cosiddetta «aristotelico-tomista», secondo la quale oggetto immediato della conoscenza umana è la realtà extramentale, e non l’idea, o species intellegibilis. Quest’ultima, secondo Tommaso d’Aquino, non è l’id quod, ma l’id quo cognoscitur: «E per questo si deve dire che la specie intelligibile sta, all’intelletto, come ciò mediante cui (quo) l’intelletto co-nosce» (Tommaso d’Aquino 1988: 412)3.

Scendendo appena un po’ di più nei particolari, abbozzando un modello ideale di interpretazione rappresentazionista (nella consapevolezza che anche siffatta operazione è, a sua volta, un’interpretazione, che rac-coglie sotto un’etichetta unitaria esegèsi in realtà solo parzialmente convergenti), essa sarebbe connotata dall’attribuzione a De-scartes delle due seguenti tesi:

1) L’oggetto immediato della conoscen-za umana è il contenuto rappresentativo dell’idea (in termini cartesiani: la «realtà obiettiva»);

2) La realtà extramentale (in termini

EFFRAZIONIL’interpretazione della modernità cartesiana che si è qui proposta, pur lar-

gamente condivisa fra gli storici della filosofia, non costituisce certo una verità accettata universalmente. Ridotta ai termini essenziali, la motivazione delle diver-genze interpretative è che non si possa effettivamente qualificare : 1) come «non rappresentazionista» tutta la tradizione filosofica precedente a Descartes; ciò che vale non solo per la Scolastica dell’età moderna, ma anche per Tommaso d’Aqui-no; 2) come «rappresentazionista» la posizione cartesiana.

Fra i sostenitori di 2), va almeno ricordato un esimio studioso di Locke: John Yolton.

Nel suo Perceptual acquaintance from Descartes to Reid (1984), recuperando, ed estendendo quasi all’intero ciclo della filosofia moderna da Descartes a Hume, le conclusioni stabilite relativamente a Locke in John Locke and the way of ideas (Yolton 1956: 110-111), Yolton sostiene che l’interpretazione rappresentazionista («standard», come la definisce), pur avendo ampio supporto testuale a suo van-taggio, risulta inadeguata a fronte di un esame accurato degli scritti di Locke, di Descartes e dei loro seguaci (Yolton 1984: 5).

In questa sede non è possibile entrare in una discussione specifica mirata a una difesa dell’interpretazione rappresentazionista; si potrà tuttavia accennare ad alcuni limiti di essa riscontrabili, per così dire, al suo stesso interno.

Se è vero che Descartes è il padre della filosofia moderna perché ha enunciato la tesi secondo la quale oggetto immediato della conoscenza è l’idea, è altresì vero che, nelle modalità in cui tale tesi è da lui enunciata, non possiede quella fisiono-mia così nitida e, direi, prominente, che sembrerebbe assumere nel seguito della storia della filosofia moderna e che l’interpretazione sopra proposta pretende di fissare rigidamente relativamente a Descartes stesso.

Dei molti motivi che inducono ad utilizzare cautela uno è centrale: nelle Meditationes Descartes sembra in più punti far coincidere senz’altro la tesi rap-presentazionista col dubbio del dio ingannatore della prima meditazione. Questo avviene, ad esempio, nelle Quartae responsiones rivolte contro le obiezioni di An-toine Arnauld:

Fra i dubbi iperbolici che ho avanzato nella prima meditazione uno si spinge-va sino a mettere in questione che proprio di questo (cioè che le cose siano in verità tali quali le percepiamo) io potessi esser certo, fino a quando supponevo di ignorare l’autore della mia origine (Belgioioso 2009 a: 987).

In realtà, l’argomento del dio ingannatore aveva solo valore ipotetico: di-cendo che un Dio potrebbe far sì che non esistano né cielo né terra, si ipotizza, e nulla più, che quanto è dato alla mente siano solo rappresentazioni. Col che non è escluso, ma solo messo fra parentesi, che tale dato coincida di fatto, supe-rato il dubbio, con la res extramentale; mentre in tale esclusione consiste esatta-mente l’importo della tesi rappresentazionista, che stabilisce un’opposizio- n e assertoria tra ordine della percezione ed ordine della realtà. Il supera-mento del dubbio della prima meditazione, e dunque il recupe-ro dell’ordine reale nella quinta e sesta meditazione, non equivale all’eliminazione della tesi rappresentazionista: le cose esterne sono bensì accessibili, ma indiretta-mente, ossia, come Descartes scriveva a Gibieuf, par l’entremise des idées.

idea | rappresentazione

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cartesiani: «la realtà formale») non è im-mediatamente data e, quindi, è soggetta al dubbio.

Occorre adesso verificare la base testuale che consente l’attribuzione, a Descartes, di una tale posizione, prendendo le mosse da quella che, delle tre esposizioni pubbliche della sua metafisica, Descartes ha sempre considerato la più importante: le Meditatio-nes de prima philosophia, del 16414.

2. La base testualeAll’inizio della terza meditazione, rica-

pitolando i risultati conseguiti dal meditante sino al punto in cui egli si trova attualmente, vale a dire dopo la scoperta della prima cer-tezza che sola, ancora, si sottrae alle proce-dure del dubbio messe in atto nella prima meditazione, e cioè l’esistenza dell’io guada-gnata attraverso il cogito, Descartes scrive:

Prima ho ammesso come del tutto certe e manifeste molte cose che, successivamen-te, ho tuttavia scoperto essere dubbie. Quali erano, dunque? La Terra, il cielo, le stelle e tutte le altre cose che coglie-vo con i sensi. Che cosa, però, percepivo chiaramente di esse? Che le idee (ideae), ossia i pensieri (cogitationes), di tali cose (rerum) erano presenti alla mia mente. Ma neppure adesso metto in questione che quelle idee siano in me. Qualcos’al-tro, invece, era quel che affermavo e che, anche per la consuetudine a credervi, ritenevo di percepire chiaramente e tut-tavia in realtà non percepivo: che fuori di me ci fossero cose dalle quali tali idee derivavano, ed alle quali erano in tutto simili. Ed era questo ciò su cui mi ingan-navo (Belgioioso 2009 a: 725).

In questo passaggio si riscontrano, in una terminologia che è già tecnica, le due tesi dell’interpretazione rappresentazionista: 1) L’oggetto immediato della conoscenza umana non sono le cose (res), bensì le idee (ideae), o i pensieri (cogitationes) delle cose; 2) Le cose esterne non sono immediatamen-te date e, quindi, vanno messe in questione, ossia sottoposte al dubbio. Parlando di un «prima» in cui egli aveva ammesso come cer-

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FIVESTEPSWITH

Quale la peculiarità della storia della filosofia rispetto alla ‘filosofia’?Apparentemente, la storia della filosofia ha il solo ruolo di eterna ancilla: per alcuni,

apporta argomenti, per altri, più pretenziosi, fa piazza pulita di argomenti, di cui non ab-bisogna più. Questa seconda sprezzante attitudine è oggi sfortunatamente diffusissima. La storia della filosofia, come quella delle scienze, sarebbe un cimitero di dottrine false e datate, di cui non si avrebbe più bisogno, ma di cui si assapora ancora il valore estetico. Io penso si possa riconoscerne il carattere ancillare, eppure considerarla indispensabi-le. La storia della filosofia deve finalmente convincerci che non esiste creatio ex nihilo, che ogni idea sorge in qualche dove, in una terra più o meno fertile che lo storico della filosofia deve documentare.

Quale la specificità del mestiere di ‘storico della filosofia’? La specificità, se c’è, è appunto di essere il mestiere di uno storico col quale lo

storico della filosofia condivide obblighi e difficoltà da cui il “puro” filosofo crede potersi dispensare. Non si può spazzar via in un colpo solo insegnamenti di due secoli di erme-neutica filosofica: noi stessi siamo il risultato di un’evoluzione storica e contempliamo altri esseri storici. La storia della filosofia è scuola di rigore quasi infinito per chi inten-de praticarla correttamente: questi deve padroneggiare il contesto, la lingua, persino il supporto materiale in cui gli argomenti sono stati formulati. Lo storico della filosofia è il guardiano del tempio, deve battersi affinché si continui ad insegnare e studiare le lingue classiche, la paleografia, l’archivistica, oltre alla storia nel senso più ampio.

Il progresso degli ultimi decenni negli studi di scolastica moderna, nei quali lei è unanimemente considerato uno dei massimi esperti, conferma o ri-dimensiona l’interpretazione per cui la modernità filosofica starebbe nell’iden-tificazione dell’oggetto immediato della conoscenza all’idea?

È una questione difficile. Io auspico l’abbandono definitivo di queste «grandi nar-razioni» che presumono di spiegare la genesi della modernità nel suo insieme. Hegel, Gilson e poi soprattutto Heidegger elaborarono questa tesi per convincersi della su-premazia esplicativa della filosofia su ogni altra disciplina. Per loro studiare storia della filosofia permetterebbe di spiegare il destino dell’occidente (Hegel) oppure la vittoria storica di quanto essi in fondo detestavano: l’«idealismo» di cui parla lei, che condurreb-be all’ateismo (Gilson) o alla tecnica (Heidegger). Non sono sicuro che la filosofia sia la quintessenza di una società o di un’epoca e si debba quindi cercare nei filosofi la fonte delle grandi trasformazioni tecniche, sociali e politiche. Uno studio empirico dettagliato dell’evoluzione delle dottrine filosofiche puó dare un’altra immagine dello sviluppo stori-co: posso farle decine di esempi di scolastici che, ancora in pieno Settecento, polemiz-zano convincentemente contro questa riduzione dell’oggetto della conoscenza all’idea. Lo spagnolo Luis de Losada (1681-1748) lo dice altrettanto chiaramente della scuola scozzese del senso comune. La Scolastica, un po’ come la tradizione talmudica, non ha nulla di specificamente «medievale» o «moderno»: è una tecnica argomentativa che può impossessarsi di qualsivoglia questione e sviluppa i propri strumenti tecnici.

Quali i limiti di uno studio della scolastica moderna nell’ottica retrospettiva di una definizione dei suoi rapporti con la filosofia moderna?

L’agenda della ricerca futura per lo studio della Scolastica va radicalmente modifi-cata. Quella stabilita dal famoso Index scolastico-cartésien (1913!) di Gilson (ma che era già quella di von Hertling, Freudenthal, Bohatec) ha dominato un secolo di ricerca. Ci si interessa ad uno scolastico solo per il suo influsso su un autore canonico come De-scartes, Spinoza, Leibniz. Bisogna abbandonare questo modello e, come lei dice, studiare la Scolastica senza alcuna considerazio-ne retrospettiva, con la libertà di lavorare su tradizioni letteral-mente morte o senza influssi storici effettivi. Il mio lavoro sulla scuola gesuita d’Alcalá cerca di dimostrarlo: è una tradizione priva d’influsso, ma dalla creatività forse molto superiore a quella della famosa scuola domenicana di Salamanca che tutti conoscono ed un influsso effettivamente l’ha esercitato. È un approccio più democratico alla storia della filosofia, senza più geni, o aristocratici, ma con una molteplicità di uomini e donne che producono argomenti.

JACOB SCHMUTZ

storia della filosofia

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te e manifeste molte altre cose, Descartes si riferisce alla condizione prefilosofica in cui il meditante si trovava all’inizio dell’iter delle Meditationes, demolita dal dubbio della pri-ma meditazione, ora reiterato.

Sennonché, l’identificazione dell’idea a oggetto immediato della conoscenza, se da un lato ricapitola e rilancia i risultati del dubbio della prima meditazione, dall’altro costituisce la pietra angolare della comples-sa costruzione attraverso la quale il filosofo programma il recupero della realtà extra-mentale: questa identificazione è infatti, a un tempo, una reificazione dell’idea, in senso tecnico, vale a dire che implica l’at-tribuzione sul piano rappresentativo all’idea di una vera e propria realtà (obiettiva), indi-pendente sia da quella della cosa extramen-

tale, sia da quella che la stessa idea possiede in quanto atto mentale; e siffatta reificazione è ciò che rende operativa la dimostrazione dell’esistenza di un ente altro dall’io e, con questo, l’uscita dal solipsismo.

Limiti di spazio non consentono di ri-portare il complesso passaggio in cui De-scartes opera siffatta dimostrazione (cf. Bel-gioioso 2009 a: 733-735), la quale può for-se, in estrema sintesi, essere così condensata: le idee, considerate quanto al loro contenuto rappresentativo, non sono un nulla, ma han-no una loro realtà (obiettiva); tutto ciò che include realtà necessita di una causa conte-nente almeno altrettanta realtà; dunque, le idee, considerate quanto al loro contenuto rappresentativo, necessitano di una causa contenente almeno altrettanta realtà di essa.

L’esistenza, nell’io, dell’idea di Dio dimostra così ipso facto l’esistenza di Dio: perché aven-do una realtà obiettiva infinita, tale idea, e solo essa, non potrà che avere una causa infi-nita, vale a dire Dio realmente esistente.

Fra i punti che, sin da subito, risulta-rono controversi, c’era quello che qui inte-ressa: la dipendenza del valore della prova dal riconoscimento di una realtà obiettiva all’idea. Riconoscimento inaudito: perché, fino a prima di Descartes, nessuno mai ave-va sostenuto che il contenuto rappresentati-vo dell’idea fosse una realtà interna all’idea stessa («idea» come id quod cognoscitur) e non, invece, la realtà extramentale («res» come id quod cognoscitur) rappresentata at-traverso l’idea («idea» come id quo cognosci-tur). Tutta la gnoseologia aristotelica e, poi,

PERC

ORS

I

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immagine | filosofia

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quella tomista, si edificava sul presupposto che oggetto immediato del pensiero fossero le res, non le ideae, considerate un nulla al di fuori della loro realtà psicologica («formale», ma intramentale).

Ed il filosofo non dovette attendere molto perché si avessero le prime, scanda-lizzate, reazioni. Così, il teologo Caterus, che alla tradizione scolastica si era formato, osserverà:

A questo punto, però, mi vedo costret-to a fermarmi un po’, per non stancarmi troppo. Il mio ingegno, infatti, barcolla ormai da una parte e dall’altra, come l’Euripo fluttuante: affermo, nego, ap-provo e, di nuovo, disapprovo; non vo-glio dissentire da quest’uomo, ma non posso assentire. Chiedo infatti: quale causa richiede un’idea? Oppure mi si dica che cosa è un’idea […]. Perché […] ri-cerco la causa di ciò che non è in atto, di ciò che è una nuda denominazione ed un nulla? (Belgioioso 2009 a: 803).

Descartes, nel rispondergli, non si muo-verà di un passo dalla propria posizione; anzi, la espliciterà in modo ancor più netto5. Ma, anche, renderà al suo avversario l’onore delle armi, riconoscendogli esplicitamente d’avere visto nel giusto:

Egli […] dopo aver brevemente concesso le cose che ha ritenuto esser state dimo-strate in modo sufficientemente chiaro, ed averle così confermate con la sua au-torità, ha proceduto ad indagare solo su quella da cui dipende la difficoltà princi-pale: che cosa mai si debba intendere qui col nome di idea, e quale causa una tale idea richieda (Belgioioso 2009 a: 813).

Caterus è il primo degli obiettori: lo scontro fra la filosofia di Descartes e quella tradizionale, nelle Meditationes, si consuma dunque subito. E come la replica a Caterus enfatizza la realtà dell’idea, così altri luoghi delle Responsiones ribadiscono la comple-mentare identificazione di essa ad oggetto immediato della conoscenza. Esemplare è il quinto assioma delle Rationes more geome-trico dispositae annesse da Descartes in calce alle Secundae responsiones:

Donde sappiamo, infatti, ad esempio,

che il cielo esiste? Forse perché lo vedia-mo? Ma questa visione non tocca la men-te se non in quanto è un’idea: un’idea, dico, che inerisce alla mente stessa, e non un’immagine dipinta nella fantasia. Ed attraverso questa idea non possiamo giudicare che il cielo esiste se non perché ogni idea deve avere una causa realmente esistente della sua realtà obiettiva; la qual causa giudichiamo essere lo stesso cielo; e così per ogni altra cosa (Belgioioso 2009 a: 899).

Ma, di questa tesi, la formulazione forse più nota non si trova nelle opere a stampa, bensì nella corrispondenza, vale a dire nella lettera al Padre oratoriano Guillaume Gi-bieuf del 19 gennaio 1642:

Infatti, essendo certo di non poter ave-re alcuna conoscenza di ciò che è fuori di me se non attraverso le idee (par l’en-tremise des idées) che ne ho, mi guardo bene dal riferire immediatamente i miei giudizi alle cose e dall’attribuire ad esse alcunché di positivo che non abbia prima percepito nelle idee che ne ho; ma credo pure che tutto ciò che si trova in queste idee sia necessariamente nelle cose (Bel-gioioso 2009 [2005]: 1563).

Dove c’è, in poche righe, tutto l’itine-rario che, nelle Meditationes, conduce dal dubbio alla certezza sulle cose esterne: le cose esterne non sono conosciute immedia-tamente, ma solo attraverso idee; occorre dunque sospendere il giudizio di conformi-tà tra idea e cosa (vale a dire: dubitarne), sino a quando non sia stato individuato un criterio di verità; a quel punto, però, si po-trà senz’altro operare la transizione dall’or-dine della rappresentazione a quello della realtà.

Transizione che non è se non l’opera-zione compiuta da Descartes nella quinta e nella sesta meditazione (recupero dell’es-senza e dell’esistenza delle cose esterne, gua-dagnata mediante il ricorso della veracità di Dio6) e che costituisce la soluzione specifi-camente cartesiana al problema posto dal rappresentazionismo: la realtà extramentale è conoscibile mediatamente, par l’entremise des idées.

3. Dopo DescartesLa vulgaris divisio con cui i manuali sono

soliti presentare il grande ciclo della filosofia moderna è nota: da un lato il razionalismo che, con a capo Descartes, passando per Spi-noza, Malebranche e Leibniz, giunge, imme-diatamente alle spalle di Kant, alla sistema-tizzazione di Wolff; dall’altro, l’empirismo che, con Locke, preceduto da Bacone ed Hobbes, arriva, passando per Berkeley, alle sue estreme conseguenze, tratte da Hume. Di questa suddivisione, pur così efficace, anch’essa, in ordine ad un’interpretazione complessiva della storia della filosofia mo-derna, due sono i limiti, ed opposti fra loro. Il primo, invero strutturale, è l’impossibilità di racchiudere in uno schema interpretativo rigido un movimento tanto composito. Il secondo è che essa tende ad oscurare il dato comune nel quale, al di sotto della diver-genza relativa al problema dell’origine della conoscenza, convergono senz’altro empiristi e razionalisti: l’identificazione, su cui ho più volte sopra insistito, dell’idea ad oggetto im-mediato della conoscenza.

Perché questa è tesi che si ritrova asserita non solo da Descartes, non solo dai cosid-detti razionalisti, ma anche dagli empiristi. Il quarto libro del Saggio sull’intelletto uma-no (1690) di Locke, dominato, nel libro pri-mo e secondo, dall’istanza ideogenetica che pone, in contrasto dichiarato con l’innati-smo, l’origine di tutte le idee nell’esperienza, è un documento della massima importanza per il modo in cui palesa l’esistenza di una sicura coincidenza con la prospettiva, dise-gnata da Descartes, secondo la quale l’og-getto immediato della conoscenza umana è da identificarsi all’idea. L’incipit stesso del libro, che cito qui per la sua nettezza anche nell’originale inglese, esprime tutto lo spiri-to delle pagine che seguiranno:

Since the The Mind, in all its Thoughts and Reasonings, hath no other immediate Object but its own Ideas […] it is evident, that our Knowledge is only conversant about them/Poiché la Mente, in tutti i suoi pensieri e ragionamenti, non ha al-tro oggetto immediato se non le proprie Idee […] è evidente che tutta la nostra

fenomenismo

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conoscenza ha a che fare solo con esse (Locke 1975:525)7.

L’intero libro è incomprensibile all’in-fuori di questa prospettiva. E non è di se-condaria importanza ricordare quale fu l’orientamento delle primissime reazioni su-scitate in terra inglese dall’opera di Locke: di critica nei confronti del presunto idealismo che contaminava l’opera, come, forse con maggior forza d’ogni altro, argomenterà il vescovo Edward Stillingfleet, condannando il new way of ideas inaugurato da Locke in Inghilterra come promiscuo al rappresen-tazionismo cartesiano. Della posizione di Locke, del resto, prenderà senz’altro atto colui che, nella tradizionale classificazio-ne manualistica dell’empirismo moderno, sempre lo segue, George Berkeley, che, nei suoi Philosophical Commentaries, appunterà, alla lettera (cito ancora dall’inglese dall’agile edizione «Everyman»): «All knowledge about ideas. V. Locke B. 4 c. 1/Ogni conoscenza ri-guarda idee. Vedi Locke, Libro IV, capitolo 1» (Ayers 1975: 301)8. Con ciò era asserita la piena continuità fra pensiero lockeano e cartesiano, sul punto che qui interessa e che costituisce ciò che si chiama «moderno» in filosofia.

Terminologia, in questo caso, tutt’altro che applicata retrospettivamente, ma atte-stata negli stessi autori dell’epoca a designa-re esattamente questa concezione dell’idea. Così, ancora in Berkeley, si legge nel Saggio per una nuova teoria della visione: «Prendo la parola ‘idea’ per ogni immediato oggetto del senso o dell’intelletto, nel significato am-pio con il quale questo termine viene usato comunemente dai moderni» (Parigi 2007: 110).

Dopo Berkeley, farà sua la tesi fenome-nista anche David Hume, che, nel suo Trat-tato sulla natura umana, scriverà: «All’in-fuori delle percezioni non c’è altro che sia presente alla mente» (Lecaldano 2008: 80). Ma anche il filosofo che tenterà di superare, con la filosofia trascendentale, l’opposizione fra empirismo e razionalismo, e cioè Imma-nuel Kant, asserirà che «noi abbiamo a che fare soltanto con il molteplice delle nostre rappresentazioni» (Kant 2004: 1215); dove

il termine utilizzato è Vorstellung, data la ripulsione mostrata da Kant nei confronti dell’utilizzazione del termine «idea» operata da Locke, che con esso (la cui dignità obbli-ga invece, secondo Kant, a restringerne l’uso a Dio, mondo ed anima) designava anche le rappresentazioni aventi contenuto sensibile.

La genesi del criticismo è, anzi, legata strutturalmente alla formulazione del pro-blema della corrispondenza fra idee ed og-getto, come risulta dalla lettera a Marcus Herz del 21 febraio 1772:

Durante le mie lunghe ricerche metafisi-che, io (così come altri) non l’avevo pre-so in considerazione, ma esso costituisce in realtà la chiave di tutti i misteri della metafisica, che finora è rimasta celata a se stessa. Mi chiesi cioè: su quale fonda-mento poggia la relazione di ciò che in noi si chiama rappresentazione con l’og-getto (Meo 1990: 65)..

Sennonché, la risoluzione di questo pro-blema implicherà il ribaltamento dei suoi stessi termini: la questione fondamentale del criticismo verrà risolta affermando bensì la corrispondenza fra pensiero ed oggetto, ma concepito senz’altro come fenomeno9. Dal punto di vista dei vecchi (e precritici) ter-mini del problema, la soluzione kantiana, come noto, sarà invece senz’altro negati-va, con la negazione della conoscibilità del noumeno. E la conclusione principale della Critica della ragion pura può anche essere vista come l’enunciazione della conseguenza estrema, non tratta da Descartes, della tesi rappresentazionista che proprio quest’ulti-mo aveva inaugurato: se le cose in se stesse non sono oggetto immediato della nostra conoscenza, che ha a che fare solo con idee, o rappresentazioni, esse non saranno cono-scibili neanche indirettamente, ma saranno ipso facto inconoscibili. Resoconto, questo, estremamente semplificante, certo, ma per cui non manca un supporto testuale, come nel seguente passaggio tratto dalla prima edizione dell’opera:

Tutte le rappresentazioni possiedono in quanto tali il loro oggetto e possono essere a loro volta esse stesse oggetti di altre rappresentazioni. I fenomeni sono

gli unici oggetti che possono esserci dati immediatamente […] Ora però que-sti fenomeni non sono cose in se stesse, ma appena delle rappresentazioni (Kant 2004: 1219).

Indubbiamente, altro è il singolo testo, altro è l’interpretazione di un’opera intera; ma è certo estremamente efficace un approc-cio ermeneutico che, valorizzando questo aspetto, permetta, rispetto alla storia della filosofia che aveva preceduto la prima Criti-ca, di connetterne la riflessione, ben oltre la problematica ideogenetica su cui si consumò la divisione fra empirismo e razionalismo, al presupposto che le due correnti avevano in comune. Un presupposto che dovevano a Descartes.

Endnotes1 Fra le altre edizioni parziali della cor-

rispondenza cartesiana degli ultimi anni sono da ricordare, almeno, Bordoli 1997 e, soprattutto, Bos 2002, Bos, Ven 2003.

2 Cf. Bontadini 1995: II 328-379. 3 Trad. mia. Per un’interpretazione radi-

calmente alternativa della posizione di Tommaso, in termini di un rappresentazionista cf. Panaccio 1992, Panaccio 2001. A Jacob Schmutz va il me-rito di avere mostrato gli antecedenti scolastici di un dibattito sull’effettiva posizione di Tomaso in proposito: cf. Schmutz 2008.

4 Le altre due sono la quarta parte del Discours de la méthode, del 1637, e la prima dei Principia philosophiae, del 1644. Per maggio-ri ragguagli sulla storia delle Meditationes e sul rapporto con le altre due esposizioni metafisiche, soprattutto la prima, mi permetto di rinviare a Nota Introduttiva a Meditazioni, a cura di G. Belgioioso e del sottoscritto (Belgioioso 2009 a: 661-677).

5 Cf. il testo delle Primae responsiones in Belgioioso 2009 a: 815-817.

6 Si scuserà qui la sintesi estrema in cui ho racchiuso l’itinerario cartesiano. Per un’espo-sizione analitica delle Meditationes cf., ancora oggi, Gueroult 1968; mentre, fra i contributi più recenti, spicca Di Bella 1997.

7 Trad. mia.8 Trad. mia.9 Cf. anche i rilievi, sulla lettera a Herz,

in Philonenko 1969.

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CINEMA

Attraverso quali espedienti fotografici

Dreyer ha reso presente la problematica del dubbio nel proprio cinema e con quali

esiti nei diversi film?

Igor Tavilla

TENEBROSA LANTERNA

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La parabola del dubbio nella cinematografia di Dreyer

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PremessaIl nostro contributo intende inscrivere

l’opera di Carl Theodor Dreyer (1889-1968) nel cono d’ombra definito dalla problemati-ca del “dubbio”, avendo cura di indagare le soluzioni formali in cui essa si rende visibile, con uno sguardo privilegiato per la compo-nente fotografica dei suoi film. La “messa in luce”, o più correttamente la “messa in om-bra”, appare infatti quale momento strategi-co nell’ ostensione delle alternative spirituali che attestano i dubbi del regista.

Passeremo pertanto in rassegna i capisal-di della cinematografia di Dreyer, a partire da La Passion de Jeanne d’Arc (1928) sino ad Ordet (1954) cercando di evidenziare gli esiti cromatici a cui la fotografia dreyeriana perviene e guardando alla vicenda personale del regista come a quel grumo di contraddi-zioni irrisolvibili da cui ogni scelta espressiva trae alimento. Nella filigrana delle pellicole, infatti, come scrutando l’autore negli occhi, «si intuisce […] la lotta [che egli vive e sof-fre] per uscire da se stesso, per oltrepassare se stesso, si intuisce la violenta collisione tra il mondo esteriore e quello interiore, si in-tuiscono le crisi e gli tensioni, il dubbio e la fede» (Ulrichsen 1955: 8)1.

Al termine di questa analisi potremo ricondurre proprio al dubbio, quale deno-minatore comune, l’esperienza personale e artistica di Dreyer.

Diremo anzitutto che il dubbio, ovvero l’incertezza psicologica tra due o più alternative, trova nella scala dei grigi, fra bianchi e neri puri, asilo e rappresentanza2. Per Dreyer, come per altri autori accomunati da Deleuze nella categoria dell’«astrazione lirica» (Sternberg e Bresson), l’ombra cessa infatti di connotare lo spazio dell’opposizione, del conflitto, della lotta, come invece avveniva nel cinema espressionista; essa rivela piuttosto che l’«atto dello spirito non è lotta, ma un’alternativa, un “Aut…Aut…” fondamentale» (Deleuze 1984: 136)3.

1. La mosca su Jeanne: prolegomeni alla presenza del dubbio nella cinemato-grafia di C. Th. Dreyer

A voler dunque considerare la parabola del dubbio nel cinema di Dreyer il propa-garsi inesorabile di una zona d’ombra che aggredisce il confine esistente tra bianco e nero, la Passion de Jeanne d’Arc può rappre-sentare solo il prodromo a una presa di co-scienza linguistica ed estetica che maturerà e si realizzerà in forma compiuta posterior-mente al capolavoro muto del 1928. Alcuni passi topici del copione, tuttavia, ci paiono rivelatori dell’emergenza della questione ed esemplari di quella “patologia” che Dreyer assumerà come costante nella sua plurienna-le meditazione del dubbio.

È l’Arcivescovo Cauchon a provocare l’incertezza di Jeanne, insinuando che non sia Dio a ispirare la sua condotta bensì il de-monio.

Un mutamento si è prodotto in Giovan-na. Mano mano che Cauchon le parla, ci si rende conto che è in preda ai dubbi – dubbi che le si sono certo costantemente presentati nelle ore della solitudine. Dio le ha promesso di liberarla. Com’è che questa liberazione promessa non arriva? Perché Dio non mantiene la promessa che le ha fatto? Perché la lascia sola con-tro tutti questi uomini di chiesa, questi dottori sapienti? Dubita fortemente e si domanda se ha il diritto di parlare come parla davanti a tutti questi uomini abili e colti. Sarebbe vero che è piena d’orgoglio? Che fosse proprio il diavolo a ispirarla e a dirle tutto ciò ch’ella credeva provenisse da Dio? (Dreyer 1967: 46).

La lotta interiore che tormenta la prota-gonista, si conclude in prima battuta con la vittoria di una fede piena e senza macchia: «[…] una luce celestiale rischiara il viso di Giovanna […] il viso le splende di bellezza e chiaroveggenza […]» (Dreyer 1967: 47). Tuttavia, sotto la minaccia di una violenza brutale, la ruota dentata che gira vorticosa-mente su se stessa, anche una volontà tena-ce come la sua vacilla. Jeanne cade, priva di coscienza, in preda a un accesso febbrile e si teme per la sua vita. Astutamente i giudici

sopraggiunti al capezzale cercano di persua-derla ad abiurare, promettendole l’estrema unzione a patto che essa rinneghi la propria vocazione guerriera.

C’è un’espressione di miseria e d’infeli-cità sul viso di Giovanna, seduta com’è, malata, in preda alla febbre, vittima dei dubbi. Da una parte vede il sacramento che per lei vale più della vita, dall’altra vede il documento che vuole farle am-mettere d’essere l’inviata del demonio (Dreyer 1967: 47).

D’ora innanzi il dubbio sarà sempre accompagnato e al tempo stesso ricondotto da Dreyer a uno stato d’infermità e debolezza, fisica o mentale. Avendo ceduto ai propri inquisitori di fronte alla macabra visione del teschio dissotterrato e roso da un verme, Jeanne è aggredita dai rimorsi, eppure il semplice ricordo del boia la scoraggia, lasciandola «esitante, torturata, la testa fra le mani» (Dreyer 1967: 62). Ma un attimo dopo la decisione è presa, ella ripudia l’abiura e si dispone a subire il martirio, in cui finalmente intravede la tanto attesa liberazione ad opera della Provvidenza. Il lucore della pellicola dissipa l’incertezza di Jeanne e Dreyer sembra risolvere la crisi di coscienza della propria eroina in un “lieto fine” teologico. Il dubbio, una fugace apparizione, effimera come la mosca che per due volte si posa sul volto di Renée Falconetti, viene allontanato da un moto spontaneo dell’animo. Bisognerà attendere anni più cupi nella vita del maestro per vedere l’incertezza spirituale sondata dalla cinepresa con sofferta consapevolezza.

2. Le tenebre dell’inconscioVampyr (1932) è senz’altro il film più

anomalo o «avanguardistico-sperimentale» (Tone 1978: 54) di tutta la cinematografia dreyeriana. Assistito dall’operatore Rudolf Maté, Dreyer approntò una fotografia ine-dita ai suoi lavori precedenti, soprattutto in palese controtendenza rispetto alla sua ul-tima creazione, La Passion de Jeanne D’Arc. Scrisse a proposito del diaframma cromatico

Aut…Aut…

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che separa le due pellicole Parrain:

Jeanne ha accettato e compiuto la sua missione: se il dubbio s’insinua in lei, altro non è che un’ultima prova, ma sin dalla prima inquadratura ella è avviata sul cammino della salvezza e della veri-tà, seppure di questo cammino non co-nosca ogni svolta. Perciò tutto il film è orchestrato in bianco. La martire vestirà proprio un abito bianco alla fine, allor-ché dovrà subire la propria passione per intero e dunque perverrà, al termine del proprio cammino, alla conoscenza diret-ta della verità. (Parrain 1967: 59).

Il regista allestì Vampyr ricorrendo a capitali estranei ai convenzionali canali di produzione, cercando in questo modo di superare l’emarginazione in cui era sta-to confinato dopo il clamoroso insuccesso commerciale rappresentato proprio da La Passion de Jeanne D’Arc4. La crisi di Dreyer, come autore, ma non solo, si aprì dunque con Vampyr e si protrasse per ben dieci anni di inattività forzata, culminanti nel ricove-ro in una clinica psichiatrica (Drouzy 1993: 68-83). Maurice Drouzy, il biografo che ha raccontato con il linguaggio della psicoa-nalisi la personalità e l’opera del regista, se-gnate entrambe dal trauma dell’abbandono materno e della successiva adozione, scrisse a proposito di Vampyr:

[…] quest’ultimo film introduceva un’in-quietante novità: le cose non si presen-tavano più così chiaramente come nei precedenti. Joséphine [madre naturale di Dreyer, morta avvelenata per l’ingestione di capocchie di fiammifero, ritenute abortive, in seguito a una seconda gravidanza inde-siderata] non era più la martire completa-mente innocente, né Marie [madre adot-tiva] la perfida megera. […] L’universo in bianco e nero in cui aveva vissuto fino a Vampyr non corrispondeva più alla real-tà, alla sua realtà. Ora sta scoprendo nel suo intimo contraddizioni inesplicabili (Drouzy 1990: 186).

Dunque Dreyer sperimentò il dubbio angosciante alla radice del proprio sé, nella camera oscura dell’inconscio.

Il crepuscolarismo della pellicola, per-meata di ambiguità come da una bruma

caliginosa, conferisce ai personaggi che la popolano le movenze incongruenti dei fan-tasmi5. Si pensi all’ombra che riproduce al contrario, sovvertendo l’ordine naturale di consequenzialità, i movimenti di un affos-satore mentre scava una buca nel terreno; a quella dell’uomo dalla gamba di legno, in apparenza svincolata dal corpo che la pro-ietta e, ancora, all’inquietante valzer di om-bre, oscuro riflesso di un altrove inesisten-te e incorporeo. Le anomalie narrative che affliggono la pellicola vengono accumulate da Dreyer in una studiata ricerca dell’equi-voco che rende lo spettatore, tanto quanto il protagonista del film, vittima di logoranti sospetti6.

Vampyr è il film delle candele, delle lampade e delle lanterne. Eppure è la not-te a dominarlo. I lumi sono inefficaci, non hanno alcun potere sulla tenebra, che anzi incrementa la propria oscurità al loro co-spetto7. Da ciò è forse possibile arguire una morale irrazionalista: la ragione è inadeguata a sostenere il confronto con le forze sovran-naturali che la insidiano. Lume che precede l’uomo in senso figurato, essa è debole e pal-lida, insufficiente a dirigere i suoi passi.

Fra «gli uomini-grigi dell’incertezza» Deleuze annoverava, a buon diritto dun-que, il protagonista di Vampyr, David Grey (Deleuze 1984: 138). Dotato di un sesto senso che lo porta a vivere situazioni al li-mite dell’ignoto, David Grey è un individuo aperto alla quinta dimensione dello spirito. Nello stato di dubbio e incertezza in cui il protagonista è sospeso come in un elemento fluido, il confine tra reale e virtuale pare stin-to, così come sbiadita è la luce che sorveglia la soglia dell’inconscio. Proprio attraverso quel ingresso, lasciato incustodito dalle forze della rimozione, rifluiscono nella pellicola i fantasmi di Dreyer.

3. I chiaroscuri della scelta etica Se per la padronanza assoluta del bianco

e nero e per la vasta gamma di grigi speri-mentati dalla sua “tavolozza” Dreyer ottenne in pellicola risultati paragonabili a quelli del

pittore e compatriota Vilhelm Hammershøi, Vredens Dag [Dies Irae] (1943) è sicuramen-te fra i suoi film «il più curato quanto agli effetti di illuminazione» (Neergaard 1950: 35)8.

Scrisse Parrain: «In Dies Irae, Anne deve scegliere tra due strade agli antipodi, il bianco e il nero assoluti si contrappongono senza tregua, lacerandola, costringendola a una scelta» (Parrain 1978: 59). L’alternati-va esistente fra i termini estremi della scel-ta etica, bene e male, non viene comunque appiattita su banali simbolismi: «Il bianco che imprigiona la luce non è più valido del nero, che le resta estraneo. In fin dei conti l’alternativa dello spirito non concerne mai direttamente l’alternanza dei termini, sebbe-ne quest’ultima le serva da base» (Deleuze 1984: 137). L’eroina di Vredens Dag cerca di evadere dall’atmosfera rigida e opprimente del presbiterio, e assecondare la passione che la natura le ispira. La peccaminosa relazione con Martin, figlio di primo letto del suo an-ziano marito Absalon, è una mescolanza di bianco e di nero che mette apertamente in discussione la dogmatica antitesi di bene e male, su cui riposano le certezze di ogni mo-rale manichea. L’autorità religiosa condanna la promiscuità dei colori. Bianco e nero deb-bono conservare la loro sterile purezza. Ogni grigio è al bando, a cominciare da Marta di Herlof. L’omogeneità flou della luce nel la-boratorio dell’anziana strega contrasta con il geometrismo severo che domina nella ca-nonica, dove lo spazio appare rigorosamente pavimentato e suddiviso in caselle stagne di bianco e di nero (Cf. Deleuze 1984: 137).

Anche la natura, nelle sembianze di una vegetazione lussureggiante, ha tanta par-te nell’illecita confusione tra luce e ombra, ammiccando all’intimità degli amanti con un chiaroscuro palpitante, ingraziato dalle fronde degli alberi agitate al vento. Dreyer effonde con complicità una velata cortina sulle immagini così che le silhouettes dei due giovani possano celebrare il loro stiliz-zato erotismo al riparo da una luce troppo indiscreta. In natura, insegna Dreyer, i co-lori non rispettano mai nessuna gerarchia o conformismo. Così pure, per quanto l’uomo

irrazionalità

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si sforzi di tenerli separati, di conservarli ri-conoscibili e puri, il bene e il male tornano ogni volta a confondersi e a contaminarsi.

È dunque Anne il personaggio che ve-ste l’ambiguità e l’incertezza. Nell’«ombra indiscernibile» ella riscopre la propria fem-minilità avvilita dal «bianco presbiteriano» (Deleuze 1984: 137). Le tenebre profilano e al tempo stesso custodiscono lo sguardo malefico di Anne, potente retaggio della sua defunta madre, strega anch’essa come Marta di Herlof ma protetta in vita dall’omertà di Absalon. Ancora, il viso di Anne è perturba-to da un raggio d’ombra capace di invalidare la confessione che Martin le estorce in un primo tempo. Infatti, proprio mentre Anne si dichiara innocente della morte di Absalon, l’ombra proiettata dal suo amante le oblitera la bocca, revocando in dubbio l’autenticità del giuramento.

Anche Absalon, come Anne, è personag-gio visitato dal chiaroscuro, morale oltre che cromatico. La sua ampia fronte è attraversata da torbidi pensieri, ombre veloci ma ricor-renti, che spengono in lui ogni entusiasmo per il ritorno del figlio alla propria dimora. Così Absalon supplica il soccorso divino:

Mio Dio, ti prego con tutto il cuore, vienimi in aiuto in quest’ora di dubbio. Sono un servo fedele e seguo i tuoi co-mandamenti e adesso mi sento scosso dal dubbio profondo e atroce. Dio, Signore che la tua luce venga affinché io possa trovare la via per uscire dall’oscurità che mi tortura. Ascoltami, in nome di Gesù. Amen9.

Il dubbio che tormenta Absalon è in-tuito da sua madre Merete: «merete: Verrà il giorno in cui dovrai scegliere… absalon: Scegliere fra che cosa? merete: Fra Dio… e Anna» (Dreyer 1967: 163). Per la verità, Absalon ha già scelto. Era suo dovere con-dannare anche la madre di Anne, conclama-ta strega, ma si astenne dal farlo ben sapendo che il processo avrebbe ostacolato le sue se-conde nozze. A ciò si aggiunge la consape-volezza, che l’anziano parroco matura solo col ritorno del figlio Martin, della propria senescenza: «Quando li vedo insieme, loro due, per la prima volta mi rendo conto di

quanto io sono vecchio e di quanto lei è gio-vane» (Dreyer 1967: 178). La caratterologia offerta da Dreyer in questo film trova un compendio nel temperamento altalenante di Martin, combattuto tra l’amore per Anne e la soggezione verso il matriarcato dispotico di Merete, a cui si arrende nel finale.

Se la chiave di volta del film risiede dun-que nell’intreccio di tonalità fotografiche, psicologiche, morali, è attraverso l’invoca-zione di Absalon che Dreyer rende manife-sto il proprio simbolismo cromatico. C’è nei suoi film una luce, al di là del bianco e del nero, che significa saldezza, fede, dirittura, e un’oscurità che è sinonimo di dubbio, in-ghiottimento, abisso.

4. Il dubbio e la fede La persistenza della tematica del dubbio

si conferma anche nella sceneggiatura del Jesus, l’opera su Cristo che Dreyer conside-rava il «film della sua vita» ma che, a nostro imperituro rammarico, non riuscì mai a gi-rare10. Proprio in Jesus Dreyer mette a fuoco il carattere ambivalente che il dubbio rive-ste nell’esperienza religiosa. Quando dubita l’individuo resta aperto all’alternativa della fede o del suo rifiuto. Dubitare è persiste-re in un equilibrio prossimo alla rottura, la tortuosa gestazione che precede il credere o la rinuncia a farlo, l’anticamera della fede o dello scandalo. Dreyer ha l’occasione di mo-strarci tutto questo in Jesus, attraverso alcuni personaggi che passando per il crogiolo del dubbio si sono salvati o si sono persi irrime-diabilmente.

La prima figura di “dubitante” presen-tata da Dreyer è Nataele, il futuro apostolo Bartolomeo.

filippo: Abbiamo trovato colui di cui scrisse il Profeta. nataele: Chi è colui? filippo: Gesù… (dopo una pausa) di Nazareth. nataele: Di Nazareth? Può forse venire qualcosa di buono da Naza-reth? filippo: Vieni a vedere. Nataele si alza con un’espressione di dubbio sul volto e segue Filippo. […] gesù: Ecco un vero giudeo, in cui non c’è frode. nataele: Da che mi conosci? gesù: Prima che Filippo

ti chiamasse ti ho veduto sotto il fico. I dubbi di Nataele si dissolvono rapidamen-te. Capisce che mai prima di allora era sta-to al cospetto di una persona simile. Parla lentamente. nataele: Adesso io credo che tu sei il figlio di Dio. gesù: Tu credi per-ché io ho detto che ti avevo visto sotto il fico. Tu vedrai cose maggiori di queste (Dreyer 1969: 12).

Se nel caso di Nataele l’esperienza del dubbio è transitoria e coronata dal possesso della fede, nell’apocrifo dreyeriano la figura che illustra in maniera esemplare l’influs-so deleterio del dubbio è Giuda. Il Giuda di Dreyer non è il traditore del Cristo, ma l’apostolo che dubita e alla fine perde la fede nel proprio Rabbì.

All’inizio nutriva per Gesù fede e devo-zione sincera. Scettico di natura, dopo qualche tempo incominciò a guardarlo con occhio critico. Interpretava le parole di Gesù alla lettera, senza una apertura spirituale, e aveva notato con dispetto quanto spesso Gesù lo contraddicesse. Nelle discussioni tra Gesù e i farisei era sovente incline a convenire con quest’ul-timi piuttosto che con il Maestro, il cui pensiero era al di sopra della sua com-prensione. Il dubbio si insinuò nella sua mente (Dreyer 1969: 164).

I dialoghi del film sono disseminati di indizi dai quali è possibile inferire l’irrever-sibile progredire del dubbio nell’anima di Giuda. Come cancrena, lo scetticismo e l’in-credulità si fanno sempre più grandi al co-spetto della fede fino a determinarne la pa-ralisi definitiva. «primo fariseo: Sei ancora suo discepolo? Giuda lo guarda sorpreso. pri-mo fariseo: Hai ancora fede in lui? giuda (esitando): Sì… primo fariseo: …e no. Hai dei dubbi? giuda: speravo che fosse colui che avrebbe redento Israele» (Dreyer 1969: 168-169). Giuda si arrenderà all’argomento specioso secondo il quale se Gesù fosse stato davvero il Figlio di Dio non avrebbe cer-to potuto subire alcun male, nemmeno da parte dei romani che minacciavano di cro-cifiggerlo11. È pertanto la mancanza di fede a far sì che Giuda si persuada a denunciar-lo alle autorità. Non sono dunque evocati

chiaroscuro

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i trenta denari della tradizione evangelica. Per Dreyer egli non è traditore, ma uomo di poca fede che pretende dal suo Maestro un segno in cui credere12.

Il dubbio costituisce dunque un rischio assoluto per la fede, come appunto dimostrerebbe la vicenda di Giuda, eppure Dreyer non tace del valore propedeutico che il dubbio rappresenta per la fede autentica, in quanto cimen-to, prova in senso biblico, vaglio, certamente ignoto al manichei-smo degli inquisitori, sconosciu-to alla fede stereotipata dei fari-sei ed estraneo al cristianesimo anagrafico dei tiepidi.

5. La notte oscura dell’anima e la risurrezione della luce

Proprio la forza corrosiva e smascheratrice che il dubbio esercita al cospetto delle ipocrisie che nidificano nella vita religiosa è raffigurata nel film Ordet dal personaggio di Johannes. «pa-store: Un amore? mikkel: No, no, è stato Søren Kierkegaard. pastore: Come? mikkel: Sì, Jo-hannes studiava teologia. Tutto andava bene in principio, poi è stato tormentato da pensieri, dubbi…» (Dreyer 1956: 35) 13.

Johannes è un altro degli

«uomini-grigi» di Dreyer. Alie-nato, emarginato, debole di mente, come a sottolineare che la dimensione del dubbio, nella quale il personaggio è immerso, corrisponde anzitutto a un’in-fermità dello spirito14. Eppure il dubbio sembra averlo preservato da una serie di affezioni degene-rative ben più gravi, che hanno invece corroso alla radice la fede di coloro che gli stanno attorno: l’ateismo di Mikkel, l’agnosti-cismo del medico, il settarismo del sarto Peter Skrædder, il dog-matismo di Morten Borgen, l’indifferenza di Anders, la fede burocratica del pastore. Con

psicoanalisi

Die

s Ira

e, 1

943

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gestualità ieratica Johannes sembra misurare il perimetro dell’incre-dulità che lo circonda e che tiene reclusa la sua fede in una folle ago-nia. Egli appoggia due candelabri al davanzale della finestra nell’intento smisurato di rischiarare la notte che sta oltre il vetro. «Io sono la luce del mondo, ma le tenebre non lo capi-scono. Sono venuto presso i miei, ma i miei non mi hanno ricevuto» (Dreyer 1967: 224).

La notte oscura dell’anima, sede del rapporto dialettico tra l’uomo e Dio, è ritratta in una tonalità sfu-mata di grigio, tipica del tenebrore boreale. Essa occupa rispetto alla luce solare una durata di gran lunga superiore. In questa perpetua noc-te il raggio artificiale proiettato dai fanali dell’automobile sulle pareti di Borgensgaard anima un teatro di ombre vagamente sinistre e premo-nitrici. Con esse Johannes instau-ra un contatto extra-visivo da cui prende avvio il paradossale dialogo con il padre Morten, seduto al cen-tro della scena:

johannes: Guarda! Non lo vedi? È là! borgen: Chi? jo-hannes: L’uomo con la falce. È venuto per portar via Inger. borgen: Taci, infelice. johan-nes: Ancora tu mi respingi! borgen: No… no… è follia… eppure… che cosa è follia, e che cosa è ragione?… johannes: Tu ti stai avvicinando a Dio. Non ti costerà che una sola parola. borgen: No, no, vattene! jo-hannes: Cercano uva tra i rovi, e passano avanti alla vigna sen-za fermarsi. borgen:Vattene, ti dico, o farai impazzire anche me! (Dreyer 1956: 53).

Il dubbio si apre una breccia nella spessa scorza del dogmatismo dell’anziano fattore e risuscita in lui nientemeno che il sentimento della fede autentica, che crede possibile ciò che è assurdo per la ragione. Ma,

zona d’ombra

EFFRAZIONISebbene il tema del dubbio sia stato recepito e trattato sotto molteplici an-

golature da critici e divulgatori dell’opera di Dreyer, nei diversi contributi si è preferito presentare i rispettivi argomenti a margine di più ampie e altre consi-derazioni. Pertanto, utilizzare o anche solo censire questa diffusa e variegata pre-senza nell’ambito della letteratura specifica risulterebbe impresa ardua e dall’esito incerto.

Constatata la disponibilità verso una formulazione organica della questio-ne presso alcune forbite eccezioni, purtroppo tanto succinte in ampiezza quanto eminenti in statura (Masoni 1994 e Sémolué 2004), crediamo di potere indivi-duare almeno un paio di circostanze che costituirebbero oggi un deterrente alla messa a fuoco del problema.

Da una parte, il “superamento” dell’interpretazione spiritualista di Dreyer. Questa compagine, di lunga e autorevole tradizione, animata da estimatori e cri-tici di provenienza e cultura cattoliche (Agel 1959; Ayfre 1964 e 1969; Baragli 1957; Lucano 1975), sebbene storicamente in antitesi con i fautori di una visione agnostica e materialistica dei film di Dreyer (Amengual 1968; Comolli 1968), ha visto diminuire considerevolmente il proprio prestigio e la propria credibilità con la pubblicazione del dossier di Maurice Drouzy (Drouzy 1990). Col supporto della psicoanalisi il biografo francese avrebbe sconfessato, in una documentata ricostruzione dell’infanzia del regista, il pregiudizio religioso con cui si era soliti corroborare l’interpretazione cristiana del cinema di Dreyer, ovvero la supposta appartenenza della famiglia adottiva del regista, al luteranesimo ultra ortodosso della Indre Mission. In seguito a questa “rivelazione”, il tema del dubbio, subendo un destino comune a quello di altre categorie affini all’esperienza religiosa, verso le quali oggi si registrerebbe nella critica una diminuita sensibilità a favore di una prospettiva psicologista, rischierebbe di essere rimosso dal dibattito.

Dall’altra, il “contenutismo” che pretende di discutere temi e problematiche svincolandole dalle forme in cui esse hanno preso corpo. Questo secondo approc-cio, sebbene originariamente radicato in un preciso orizzonte ideologico, marxi-sta-lukàcsiano, legato alla rivista Cinema Nuovo e alla firma di Guido Aristarco, viene riproposto oggi in una formula “debole” da quelle riflessioni sul cinema di Dreyer che, dedite a indagare le proiezioni filosofiche certamente presenti in esso, perdurano tuttavia nella prassi di discutere le proprie tesi sulla scorta della trama dei film o al massimo di qualche stralcio di copione. Questo approccio ha prodot-to risultati pregevoli sotto il profilo dialettico e fecondi dal punto di vista euristi-co (Modica 2001), ma la profondità analitica di queste interpretazioni si sconta con la disattenzione programmatica verso quelle componenti cinematografiche (inquadrature, movimenti di macchina, montaggio, fotografia, messa in scena, etc.) che conferiscono al film i propri connotati estetici e morali; col rischio, amplificato nella fattispecie dal fatto che Dreyer era solito operare traduzioni cinematografiche di fonti letterarie preesistenti, che il tema in questione, reciso dal suo sostrato filmico, evapori in astratte dispute, estranee a Dreyer in quanto non ricon-ducibili ai coefficienti stilistici in cui risiede tanto l’autenticità dell’artista quanto la peculiare identità dell’opera d’arte.

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alla fine, a Morten manca il coraggio per osare il salto della fede, perciò soccombe, si scandalizza.

I dubbi nei quali Johannes resta avvolto – tale è forse la funzione simbolica del lungo cappotto grigio-scuro che il personaggio di-smette solo nel finale – vengono fugati dalla risurrezione della cognata, attraverso la qua-le Johannes prova concretamente di avere superato l’impotenza dello spirito in cui fino a quel momento era parso relegato. Eppure solo pochi istanti prima constatava amara-mente: «Inger, devi marcire perché i tempi sono marci». L’ostilità che si concentra su di lui è tale infatti da rendergli impossibile qualunque taumaturgia15. Può solo attende-re che un avvenimento esterno gli venga in

soccorso. Ed è appunto la fede di Maren a destarlo dal torpido stato di rassegnazione in cui è sprofondato. Il finale è il «trionfo della luce» (Aprà 1970: 153) in cui «la verità esplode» (Parrain 1967: 60).

All’evanescente grigiore del Vampyr e al contrasto fortemente chiaroscurale del Dies Irae è succeduta così una luminosità omogenea e compatta. All’immagine fi-nale di David Grey e Gisèle che avanzano fino sull’orlo di una radura verso una luce naturale che traspare oltre un filare di piante, o al fotogramma fissato sul nudo di una immobile croce, è subentrato l’ab-braccio vitale di due esseri che respirano e vivono in Dio: e con essi è Dreyer stesso che finalmente ritrova la sua pace (Pesce 1959: 151).

La risurrezione che il film mette in scena è al tempo stesso quella del suo regista. Così Deleuze conclude la propria originale con-cezione dell’alternanza cromatica nei film di Dreyer:

Si era partiti da uno spazio determinato degli stati di cose, fatto da un’alternanza bianco-nero-grigio, bianco-nero-grigio… E si diceva: il bianco segna il nostro do-vere, o il nostro potere; il nero, la nostra impotenza, o la nostra sete del male; il grigio, la nostra incertezza, la nostra ri-cerca o la nostra indifferenza. E ci s’in-nalzava poi fino all’alternativa dello spi-rito, c’era da scegliere tra alcuni modi di esistenza: gli uni, bianco, nero o grigio, implicavano il fatto che non avessimo scelta (o che non avessimo più la scelta);

“prova” biblicaPE

RCO

RSI

Sul dubbio nel cinema di Dreyer si veda-no:

Masoni, T. 1994. Carl Theodor Dreyer: l’assoluto e il dubbio. Cineforum 339: 14-17.

Sémolué, J. 2004. I film di Dreyer: am-biguità e certezze. In S. Grmek Germani e G. Placereani

(Eds), Per Dreyer. Incarnazione del cine-ma. Milano: Il castoro, pp. 21-35.

Per un confronto tra Dreyer, Bresson e Bergman si vedano:

Amengual, B. 1954. Bresson et Dreyer. Image et Son 69: 18.

Laura, E. G. 1965. Tre voci spiritualiste del cinema contemporaneo. Bresson, Dreyer, Bergman. Cineforum 45: 356-365.

Aristarco, G. 1965. Il dissolvimento della ragione. Milano: Feltrinelli, pp. 541-578.

Il rapporto tra il cinema di Dreyer e la fi-losofia di Kierkegaard è protagonista di una ricca bibliografia. Tra i contributi più recenti sull’argomento si segnalano:

Adinolfi, I. (Ed.). 2003. L’arte dello sguar-do. Kierkegaard e il cinema. Roma: Città Nuova.

Modica, G. 2001. Ordet di Dreyer. Per-corsi kierkegaardiani. Giornale di Metafisica 1: 5-34.

Tavilla, I. 2007. Ordet di Carl Theodor Dreyer. Il miraggio kierkegaardiano. Pisa: ETS.

Sulle analogie tra C. Th. Dreyer e Vilhelm Hammershøi si veda:

Ciment, M. 1998. Vilhelm Hammershøi et Carl Dreyer, entretien avec Maurice Drouzy. Positif 445: 73-77.

Tybjerg, C. 2006. Carl Th. Dreyers fil-mkunst og Hammershøis eksempel [Il cinema di C. Th. Dreyer e l’esempio di Hammershøi], København: Ordrupgaard.

Le opere dell’artista danese sono con-sultabili sul sito internet del Dansk Kulturar-chiv (http://www.kulturarv.dk/kid/VisKunstner.do?kunstnerId=63).

Tra le fonti di ispirazione del cinema di Dreyer sono state riconosciute illustri firme della narrativa irrazionalista: Franz Kafka, Ed-gar Allan Poe, Pierre Anderzel, Guy Endore e Walter della Mare. A tale proposito si vedano:

Ulrichsen, E. 1955. Et come back? [Un ritorno?]. Kosmorama 5: 11.

Trolle, B. 1955. Eneren i dansk film [L’ec-

cezione del cinema danese]. Kosmorama 9: 4-11.

Non sono mancati neppure accostamenti al decadentismo di D’Annunzio, Huysmans e Swinburne. Si veda a questo proposito:

Di Giammatteo, F. 1956. Profili di registi: Dreyer. Comunità 41: 77-80.

Il predominio dell’oscurità sulla luce e del-la notte sul giorno sembra captare nell’Ordet di Dreyer quella peculiare dimensione mistica che Juan de la Cruz designava come notte oscura dell’anima. Si veda pertanto:

Giovanni della Croce. 2001. La notte oscura. Milano: San Paolo.

Più in generale sul misticismo e la spiri-tualità dell’opera di Dreyer si vedano:

Agel, H. 1959. Les grands cineastes. Paris: Editions Universitaires, pp. 89-94.

Ayfre, A. 1964. Conversion aux images? Paris: Les Édition du Cerf, pp. 95-99.

Ayfre, A. 1969. Le cinéma et sa vérité. Paris: Les Édition du Cerf, pp. 173-180.

Baragli, E. 1957. Il mondo religioso di Dreyer. La Civiltà Cattolica 2557: 49-63.

Lucano, A. L. 1975. Cultura e religione nel cinema. Roma: ERI, pp. 241-183.

Per l’interpretazione materialistica del ci-nema di Dreyer si vedano invece:

Amengual, B. 1968. Les nuits blanches de l’âme. Cahiers du Cinéma 207: 52-62.

Comolli, J. L. 1968. Rhétorique de la Ter-reur. Cahiers du Cinéma 207: 42-44.

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ma un altro implicava che scegliessimo di scegliere, o che avessimo coscienza della scelta. Pura luce immanente o spirituale, aldilà del bianco, del nero e del grigio. Appena pervenuti a questa luce essa ci re-stituisce tutto (Deleuze 1984: 141).

Dunque in Ordet Dreyer archivia l’om-bra, lasciandosi definitivamente alle spalle il tunnel dei dubbi esistenziali e le tenebre ci-nematografiche in cui era disceso trenta anni prima con Vampyr.

6. Il dubbio ovvero la “tenebrosa lanterna” nel cinema di C. Th. Dreyer

Nell’ambito di un’intervista radiofonica concessa proprio durante la lavorazione del film Ordet, Dreyer si concesse alcune con-siderazioni sull’uso dell’illuminazione nel cinema contemporaneo, altrettanto preziose però per chi volesse conoscere la cifra foto-grafica del suo cinema:

In altri tempi l’operatore usava il verbo “illuminare”; oggi dice ancora “illumina-re”, ma dice anche “oscurare”; e “oscu-rare” in realtà è altrettanto importante che “illuminare”. Un volto nell’ombra può essere, in certi casi, più efficace e più espressivo che se fosse completamente il-luminato (Dreyer 1967: 409).

Dreyer riscuote così la paternità di un singolare brevetto, la “tenebrosa lanterna”, organo fotosensibile di grigi amletici, di-spositivo di illuminazione opportunamente tarato al rovescio, che proietta sui soggetti dell’inquadratura ombre anziché luci.

La messa in scacco della ragione, luce illusoria che si contrapponeva alla tenebra “vampiresca” senza sortire alcun effetto, impone al regista di abdicare la propria sal-vezza alla notte profonda del dubbio, non più oscuro impedimento, ma ventre gravido di verità dalla cui matrice scaturisce la pura luce dello spirito. In questa ricerca di sé per via negativa, dettata da circostanze di ordine biografico, che coinvolsero però magistrali soluzioni in ambito estetico, Dreyer si avval-se sempre, come abbiamo cercato di mostra-re, del dubbio ovvero dell’ombra per rendere

testimonianza alla serietà dell’indagine e per certificare l’autenticità degli esiti16.

Riferimenti bibliografici Aprà, A. 1970. Dreyer: artificio, spazio, luce.

Cinema & Film 11-12: 144-154.Baumann, R. H. 1897. Hammershøi, Vil-

helm. In C. F. Bricka (udgave af ), Dansk biografisk lexicon. Kjøbenha-vn: Gyldendalske boghandels forlag, pp. 550-551.

Cortese, A. 1976. Nota introduttiva. In S. Kierkegaard, Enten-Eller, vol. 1, Mi-lano: Adelphi, pp. 25-44.

Deleuze, G. 1984. L’immagine-movimento. Milano: Ubulibri.

Dreyer, C. Th. 1956. La parola. Roma: Bianco e Nero.

Dreyer, C. Th. 1967. Cinque film. Torino: Einaudi.

Dreyer, C. Th. 1969. Gesù. Racconto di un film. Torino: Einaudi.

Drouzy, M. 1990. Carl Th. Dreyer nato Nils-son. Milano: Ubulibri.

Drouzy, M. 1993. Les années noires de Dreyer. Cinémathéque francaise 4: 68-83.

Kierkegaard, S. 1963. Discorsi cristiani. To-rino: Borla.

Munk, K. 1993. Ordet. L’Ambra. Rivista di cultura scandinava 2: 7-66.

Neergaard, E. 1943. The story of Danish film. Copenhagen: det Danske Selskab.

Neergaard, E. 1950. Carl Dreyer. A film director’s work. London: the British film institute.

Parrain, P. 1967. Dreyer. Cadre et mouve-ments. Paris: Minard.

Pesce, A. 1959. Da Dies Irae a Ordet: iti-nerario spirituale di C. Th. Dreyer. Humanitas 2: 147-151.

Solmi, A. 1956. Carl Dreyer. In A. Solmi, Tre maestri del cinema. Milano: Vita e Pensiero, pp. 11-73.

Tone, P. G. 1978. Carl Theodor Dreyer. Fi-renze: La Nuova Italia.

Ulrichsen, E. 1955. Carl Theodor Dreyers Verden [Il mondo di Carl Theodor Dreyer]. Berlingske tidende, 20 Ja-

nuar, pp. 8-9.

Endnotes1 Nostre le parentesi quadre, ora e in se-

guito. Sempre nostra la traduzione degli articoli e dei saggi di cui non viene segnalata l’edizione italiana.

2 «L’interpretazione elementare del nero come immagine del male e del bianco come im-magine del bene non deve essere rifiutata senz’al-tro, ma deve essere considerata da un punto di vista metafisico piuttosto che morale: il nero rap-presenta le tenebre, l’errore, e il bianco la luce, la verità; fra questi due estremi, il grigio appare come l’incertezza, l’erranza alla ricerca della ve-rità, a volte anche l’indifferenza» (Parrain 1967: 59).

3 In questo passaggio, per altro, Deleuze accrediterebbe Søren Kierkegaard, il filosofo da-nese che aveva opposto alle categorie hegeliane di mediazione e conciliazione una dialettica quali-tativa di alternative irriducibili, quale fonte del cinema di Dreyer. L’esordio letterario di Kierke-gaard (1843) porta il titolo Enten-Eller, tradotto alla lettera con «Aut-Aut», ovvero con «o…o». Si veda a tale proposito l’introduzione al primo vo-lume della traduzione italiana dell’opera, a cura di Alessandro Cortese (Cortese 1976: 25-44). Come avremo modo di accertare in seguito, lo stesso Dreyer sembrerebbe legittimare l’ipotesi deleuziana, alludendo esplicitamente alla filoso-fia di Kierkegaard nella diagnosi del personaggio antonomastico del film Ordet, Johannes.

4 Scriveva Ebbe Neergaard: «Ma cosa è stato di Dreyer? Non vi erano occasioni di im-piego per lui. Un destino ironico e crudele fece sì che il film che lo consacrò alla fama mondiale, La Passion de Jeanne d’Arc, allontanasse da lui i pro-duttori cinematografici danesi. Troppo costoso, troppo difficile e troppo sperimentale. Sebbene importanti critici lo supportassero: come speri-mentatore poteva andar bene, ma come regista di “film d’uso comune” – Dio li scampasse!» (Neer-gaard 1943: 71-72).

5 Per ottenere l’effetto luminoso che caratterizza lo stile del film venne applicata all’obiettivo della cinepresa una garza nera. Cf. Solmi 1956: 48.

6 «D’altra parte il regista si ostina quasi con divertimento ad accumulare gli errori che non si devono commettere se non si vuole essere bocciati a un esame di cinema. Moltiplica i fal-si raccordi, le immagini soggettive che in realtà non lo sono, i movimenti di macchina che vanno

infermità dello spirito

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dall’alto verso il basso mentre la logica esigerebbe il contrario, i frammenti di dialogo inaudibili, gli accessori bizzarri, i particolari incomprensibili» (Drouzy 1990: 173).

7 «Le tenebre diventano invulnerabili» come recita La storia curiosa dei vampiri di cui David Grey entra in possesso.

8 Vilhelm Hammershøi (1864-1916). Pittore figurativo danese. «I suoi temi sono assai semplici, spesso si tratta di una donna anziana solitaria vestita di nero e con una mantella bianca oppure una stanza dai mobili frugali, ma che di-ventano particolarmente attraenti per la colora-zione delicata e il trattamento quasi poetico della

luce. La colorazione è a sua volta tanto semplice quanto lo sono i motivi figurativi. Raramente ci si spinge oltre tonalità di bianco, grigio, marrone e nero, ma la loro reciproca relazione è orchestra-ta con grande maestria» (Baumann 1897: 550-551).

9 Della preghiera di Absalon non vi è traccia nella sceneggiatura; essa dovrebbe comun-que collocarsi nella scena 228, che si apre, dopo il rogo di Marta di Herlof, con una dissolvenza sul diario di Absalon. Cf. Dreyer 1967: 160.

10 Si veda l’intervista rilasciata a Henrik Stangerup nel giugno 1964. Cf. Dreyer 1967: 447-448. L’idea di girare un film su Cristo risale al biennio 1930-31, ma la stesura definitiva della sceneggiatura fu ultimata nel 1950. Cf. Drouzy 1990: 226-227.

11 Tale argomento sembra riformulare la seconda tentazione del Cristo nel deserto. Cf. Mt 4,5-6 e Lc 4, 9-11.

12 «Per quanto tempo ci lascerai nel dub-bio? Se sei il Messia dillo chiaramente» avevano gridato a Gesù. Cf. Dreyer 1969: 169.

13 Anche nell’omonimo dramma di Kaj Munk (1925), da cui il film è stato tratto, si segnala la presenza del dubbio quale stigma del personaggio di Johannes. Cf. Munk 1993: 19.

14 La figura di Johannes dimostra una lontana parentela con l’indemoniato del film Jesus. Dreyer aveva descritto quest’ultimo come un malato di mente in preda ad attacchi isterici. Il suo demonio era la «dualità mentale […]. Da una parte egli è attratto da Gesù e desidera esse-re guarito. Dall’altra ha un senso di repulsione e non vuole aver nulla a che fare con lui» (Dreyer 1969: 15). L’alienazione delle facoltà psichiche è dunque ricondotta a un’alternativa radicale e la-cerante che sconvolge l’esistenza di chi ne è pos-seduto «perché dubitare, come dice la parola, si-gnifica essere in disaccordo con se stesso, significa essere diviso, essere in due» (Kierkegaard 1963: 97).

15 Scrisse Dreyer nella sceneggiatura del Jesusfilm a proposito della resurrezione della fi-glia di Giairo: «Gesù ha fatto uscire dalla stanza parenti e amici per creare un’atmosfera di fede, eliminando qualsiasi elemento di dubbio e incre-dulità. Per la stessa ragione solo i suoi tre disce-poli più fedeli [Pietro, Giovanni e Giacomo] sono stati ammessi nella camera dell’ammalata» (Dre-yer 1969: 50).

16 «Era necessaria questa esperienza dell’ombra, l’affascinamento della notte polare per poter affrontare non teoricamente l’esperien-za della luce […]» (Aprà 1970: 153).

\

FIVESTEPSWITH

In quale film di Dreyer emerge con più forza il tema del dubbio?«Premetto che apprezzo l’identificazione del dubbio come filo conduttore in

un’opera troppo spesso riportata a certezze, pur non avendo usato questo termine nel-la frequentazione che le ho dedicato. Essendo quella del regista un’opera di crescente intensificazione, non potrei che vedere in Gertrud anche il culmine di questa chiave: dove è lo stesso discorso d’amore che ne costituisce la base (e che muoveva gli esiti di Ordet) a essere osservato nel suo mutare tra forza e vulnerabilità».

Nel mio saggio ho cercato di mettere in evidenza gli esiti cromatici scatu-riti dalla meditazione dreyeriana sul dubbio. Questo approccio consente di da-tare al film Vampyr la genesi del dubbio nel cinema di Dreyer. Per una questione di fotografia, lo stesso Parrain nel suo studio su Dreyer (1967) non reputava la vicenda di Giovanna d’Arco assimilabile al travaglio interiore di altri eroi dreye-riani, come David Grey. Cosa pensa a tale proposito?

«Avrei qualche dubbio, mi scusi la battuta. Ritengo la fase giovanile dell’opera di Dreyer molto più collegata a quella matura di quanto non si sia rilevato. Non è già Blade af Satans Bog una pratica di dubbio teologico? O Du skal ære din hustru una perlustra-zione del dubbio dei sentimenti, come peraltro Michael?».

Nella Sua introduzione al volume “Per Dreyer. Incarnazione del cinema” (2004), riguardo al riferirsi di Dreyer alla dimensione religiosa ha scritto che «il cinema di Dreyer è anche tra le testimonianze più considerevoli sulla vicenda cristiana ed ebraica, ma né l’una né l’altra diventano il codice del film. Il suo ci-nema le ripensa». Bisogna dunque tornare alle pellicole di Dreyer, sospettando di analisi tematiche che rendano il regista danese ostaggio delle presunte fonti culturali e ideologiche del suo cinema?

«Ne sono convinto: le fonti culturali e religiose vi sono presenti in tutta la ricchezza ma il cinema di Dreyer arriva a soluzioni che nascono dal suo interno, non applicandovi invece quelle preesistenti».

Ritiene che il nodo problematico del dubbio possa giocare un ruolo stra-tegico nel «recuperare quel rapporto con la storia e con il tempo in cui entra l’esperienza religiosa» di Dreyer (cito ancora dalla Sua introduzione)? Penso alla possibilità che il tema del dubbio offre di conciliare il resoconto biografico di Drouzy con la tensione religiosa che traspare in gran parte dell’opera dre-yeriana.

«Ho in parte risposto alla prima domanda e condivido la sua ultima osservazione: apprezzo Drouzy al di là di ogni apparente eccesso di laicizzazione (comprensibile per chi sa che egli era stato un domenicano che ha scelto lo stato laicale), ritengo che l’acribia biografica del suo studio sappia riferirsi a come la tensione religiosa traspare nell’opera».

Il dubbio rappresenta l’ultima parola dei film di Dreyer?

«L’ultima parola è, nonostante tutto, «Amor omnia», come Gertrud chiede di scrivere sulla sua tomba».

SERGIO GRMEK GERMANI

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Mazza G.; Perego G. (a cura), Pedagogie della parola. L’emer-genza educativa, tra universo biblico e cultura della comunicazio-ne, San Paolo Edizioni 2010

Una semplice ricerca in internet ci rende puntualmente partecipi di quanta rilevanza assuma oggi il tema dell’educazione e - di ritorno, o forse anche per contrasto - di quanta risonanza sia capace il riscontro mediatico di tante (dis)educazioni quotidiane. In un’epoca surriscaldata dai dibattiti sui crocifissi nelle scuole, ci si interroga - ed è un bene che lo si faccia - su quanto si possa davvero educare, su dove lo si debba fare, su chi abbia il diritto di farlo, e perché

Aime Marco; Severino Emanuele, Il diverso come icona del male, Bollati Boringhieri 2009

L’uomo tende a interpretare tutto quanto non rientra nella propria esperienza diretta o nel cerchio rassicurante della tribù come un pericolo, una minaccia anche mortale. Di qui i suoi atteggiamenti aggressivi, per cui il diverso e l’altro vengono intesi come un nemico potenziale o reale. Un pregiudizio che continua ad alimentare i tanti conflitti che squassano le società contemporanee. (Introduzione di Ernesto Ferrero)

Nancy Jean-Luc, Sull’amore, Bollati Boringhieri 2009Jean-Luc Nancy si interroga sulle modalità di vivere l’amore in un

mondo in cui il desiderio sembra mutarsi in obbligo igienico e risorsa commerciale. Inquietudine e irritazione non sono risposte adeguate, so-stiene il filosofo: è opportuno riflettere su come la nostra eredità dell’amo-re sia composta da due patrimoni, quello antico e quello cristiano, che non sono omogenei e che anzi spesso si contraddicono l’un l’altro. Una simile prospettiva di divenire temporale è la sola che può consentirci di comprendere le deformazioni e i limiti delle nostre rappresentazioni dell’amore e di inventare nuove forme per questo sentimento. (Introdu-zione di Matteo Bonazzi)

Petit Philippe; Serra Michele, Credere nel vuoto, Bollati Bo-ringhieri 2008

Il 7 agosto 1974 un giovane funambolo percorre, a quattrocentodo-dici metri di altezza, lo spazio che separava le Torri gemelle dal World Tra-de Center. Oggi vive in una cattedrale e il decano che lo ospita dice di lui:

“Philippe non crede in Dio, ma Dio crede in Philippe”. Il punto di vista di un uomo che percorre il vuoto. Philippe Petit (1949), artista e autodidatta del funambolismo, si esibisce in tutto il mondo da trentacinque anni, più o meno clandestinamente. Oltre a scrivere, tiene seminari sulla creatività e la motivazione, disegna, pratica l’arte dello scasso, è un esperto di vini francesi, ama gli scacchi e padroneggia la tecnica settecentesca della carpenteria in legno. È stato arrestato più di cinquecento volte mentre faceva il giocoliere per strada. Divide il suo tempo fra la Cattedrale di St. John the Divine, dove è Artist in Residence e il suo rifugio nei monti Catskills. Sono stati tradotti in Italia “Trattato di funambolismo” (Ponte alle Grazie 1999), il libro che ha affascinato artisti e intellettuali di tutto il mondo (tra gli altri il regista tedesco Werner Herzog), che ha scritto il testo che appare sulla quarta di copertina, e lo scrittore statunitense Paul Auster, che ha redatto la prefazione) e “Toccare le nuvole” (Ponte alle Grazie 2003). Introduzione di Michele Serra.

Eco Umberto; Carrière Jean-Claude, Non sperate di liberarvi dei libri, Bompiani 2009

“La gaia scienza: raramente l’espressione nietzschiana è stata così azzeccata per un libro... un libro sui libri! Dal papiro ai supporti elettronici, percorriamo duemila anni di storia del libro attraverso una discussione contemporaneamente erudita e divertente, colta e personale, filosofica e aneddotica, curiosa e gustosa. Passiamo attraverso tempi diversi e diversi luoghi; incontriamo persone reali insieme a personaggi inventati;

vi troviamo l’elogio della stupidità, l’analisi della passione del collezionista, le ragioni per cui una certa epoca genera capolavori, il modo in cui funzio-nano la memoria e la classificazione di una biblioteca. Veniamo a sapere perché ‘i polli ci hanno messo un secolo per imparare a non attraversare la strada’ e perché ‘la nostra conoscenza del passato è dovuta a dei cretini, degli imbecilli o degli avversari’. Insomma, godiamo della ‘furia letteraria’ di due appassionati che ci trascinano nella loro folle girandola in cui ogni giro sorprende, distrae, insegna. In questi tempi di oscurantismo galoppante, forse è il più bell’omaggio che si possa fare alla cultura e l’antidoto più efficace al disincanto.”

Bianchi Enzo; Kepel Gilles, Dentro il fondamentalismo, Bol-lati Boringhieri 2008

Il fanatismo è la possibile aberrazione all’origine di ogni credo e di ogni ideologia, un rischio che oggi appare spesso inevitabile. Ci si doman-da se nasca da una volontà di semplificazione, da una pigrizia intellettuale, dall’esigenza di organizzare il mondo morale in buoni e cattivi, o se sia la risposta a un’accelerazione della storia e del progresso. Capirne le origini significa indagare il denominatore comune di tanti fenomeni socio-politici della nostra epoca. Introduzione di Alberto Melloni.

Rorty Richard, Un’etica per i laici, Bollati Boringhieri 2008In questo libro, le definizioni di etica e laicità non sono poste - come

spesso si intende - in un ruolo ancillare rispetto alle religioni, ma in una loro precisa autonomia, come vera e propria risorsa in grado di garan-tire il futuro spirituale dell’umanità. Una riflessione di grande acutezza e modernità sulla falsariga di quella filosofia della concretezza che ha caratterizzato il pensiero del grande filosofo americano. Introduzione di Gianni Vattimo.

Erspamer Francesco, La creazione del passato, Sellerio Edi-tore 2009

“La questione cui questo libro cerca di rispondere, è come mai la cultura nel suo significato d’insieme di convinzioni, usi, mentalità - conti-nui a resistere al cambiamento invece che agevolarlo. Come mai insom-ma continui a essere così efficace il ricatto hobbesiano dei conservatori

- sicurezza morale e gnoseologica in cambio di meno libertà e di meno eguaglianza. Identità invece di coscienza. Colpa della gente? O non piut-tosto di una cultura che educa la gente, e abitua le sue élite intellettuali, alla paura del nuovo? In sostanza: come mai la cultura fa il gioco della destra? La mia tesi è che la cultura moderna in quanto istituzione (e cioè non le opere letterarie o artistiche di per sé, ma il sistema e il potere che le organizza e dà loro significato) sia sempre stata conservatrice, per de-finizione: che sia un apparato di produzione di passato e di valori assoluti, capace di operare con successo all’interno di una struttura in trasforma-zione quale la modernità ma con finalità antimoderne, una sorta di virus che si adatta all’ambiente della cellula ospite per obbligarla a replicarlo.”

Proietti P.; Boccali R. (a cura), Le frontiere dell’alterità, Selle-rio Editore 2009

Il prossimo, l’estraneo, l’esotico: sono le tre filiere che circoscrivono, oggi, la contemporaneità del dibattito sull’identità e, per converso, sul multiculturalismo. Ciascuna di esse ha il suo focus nella relazione mu-tevole, che fonda l’ontologia stessa del rapporto tra un Io immaginario e un Altro immaginario, soggetti e oggetti contestuali di una dialettica aporetica, dove la domanda è fondativa di una risposta muta. Il tessuto connettivo della relazione è la struttura portante di tutto questo discorso: l’Immaginario. Questa ricerca, mettendo a confronto temi ed autori di scuole e di formazioni diverse, offre un panorama equilibrato e aderente allo stato dell’arte della situazione internazionale, pur cosciente della sua

“funzione strumentale” rispetto alla complessità della materia.

consigli di lettura | saggistica

blackboard

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68Silvio Grasselli

Lourdes di Jessica Hausner. Quando la narrazione cinematografica diventa strumento per l’esplorazione del credere e del non credere e, più di tutto, delle diverse declinazioni del dubitare, colte in un luogo tipico della contemporaneità, dove il Sacro e il Profano si scambiano continuamente di posto.

IL MIRACOLO DEL DUBBIO

CINEMA

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1. Introduzione

Credere e dubitare sono due mo-menti non contraddittori del compren-dere: senza porre interrogativi sulle cose non posso afferrarne il senso, e senza credere che esse siano dotate di un sen-so, nemmeno posso credere che esse meritino un’esistenza. Com-prendere il mondo è il più naturale e radicale tenta-tivo dell’uomo per stabilire e mantenere una relazione con esso.

Nel 1982 Jean Luc Godard, interro-gato da Wim Wenders sul destino della settima arte1, dichiara alla m.d.p.:

I film creano delle immagini proprie che noi non vediamo. L’incredibile è questo, quello che non riusciamo a

vedere. Ciò che non si può vedere è incredibile. Il cinema è mostrare l’in-credibile. Mostrare ciò che non si vede, ecco quello che è incredibile (Wenders 1982).

Mostrare quel che non si vede e che perciò sembra incredibile significa porre sulle cose e sul mondo il dubbio circa il senso della loro esistenza. Il cinema (diversamente dall’indistinto e sempre meno distinguibile flusso audiovisivo) è dunque dispositivo del credere e del dubitare insieme, medium della cono-scenza.

La sessantaseiesima Mostra del Cine-ma di Venezia ha presentato in concor-so Lourdes, lungometraggio di finzione

della giovane austriaca Jessica Hausner. Il film mette in scena la storia (pura-mente fittizia) di un evento straordina-rio accaduto a una ragazza nel corso di un pellegrinaggio al santuario mariano del titolo: la narrazione cinematografica diventa strumento per l’esplorazione del credere e del non credere, e più di tutto delle diverse declinazioni del dubitare, colte in un luogo tipico della contem-poraneità, dove il Vero e il Falso sono affiancati e confusi, il Sacro e il Profano si scambiano continuamente di posto. Il (meta)riflesso del cinema, disciolto nel racconto, serve da palinsesto nel qua-le sistemare una collezione di appunti, ritratti e schizzi che hanno per oggetto

Perché la scelta di Lourdes per ambientare il suo film?

Jessica Hausner: Prima di tutto mi è venuta l’idea di girare un film su un miracolo. Il miracolo rap-presenta un paradosso, un’incrinatura nella logica che ci conduce verso la morte: l’attesa di un miracolo allude alla speranza che alla fine tutto vada per il meg-lio e che ci sia qualcuno che veglia su di noi. Ho fatto molte ricerche per trovare il luogo giusto dove ambi-entare la storia di un miracolo. La mia scelta è caduta su Lourdes perché m’interessava molto il fatto che i pellegrini ci vadano con la speranza di ricevere il mira-colo. La prima cosa che viene in mente pensando a un miracolo è che sia una cosa positiva: un paralitico è improvvisamente sanato. Tuttavia, durante le mie ricerche sulle storie di guarigione, mi sono imbattuta in casi in cui la persona guarita, in un secondo tempo, ha subito una ricaduta: I casi in cui il miracolo non è durato. Allora mi sembra che in questo si possa tro-vare un parallelo con l’arbitrarietà della vita: alcune di quelle cose che sembrano meravigliose, miracolose perfino, finoscono con il diventare orribili o più sem-plicimente insignificanti.

Nel suo film, i miracoli sono associati an-che con l’idea del successo

J.H.: Certo. Le persone che guariscono mira-colosamente spesso finiscono con il chiedersi cosa hanno fatto per ottenere questo “successo”, per es-sere “premiati” con questo miracolo. È possible es-sere ambiziosi, comportarsi da buoni Cristiani per ottenere la guarigione, oppure i miracoli avvengono casualmente? Il fatto che, nel mio film, i malati sperino e si comportino coerenetemente rispetto alla loro speranza ma anche che non siano mai certi di rice-vere una ricompensa costituisce una contraddizione molto importante. Quando Christine è miracolosa-mente sanata si chiede subito: “Perché io? – lei per

di più non è una convinta credente quando arriva a Lourdes. Si domanda se le sia richiesto di fare qual-cosa per legittimare il suo miracolo.

Il suo film si spinge oltre Lordes e il Catto-licesimo. Che tipo di fede interpella?

J.H.: Il film s’interroga su come possiamo dare senso alla vita attraverso i nostri atti. A quest’idea con-trappone la paura che il mondo sia freddo e desolato, privo di un senso profondo, e che si nasca per caso e per caso si muoia e che nulla di ciò che si fa el corso della vita abbia alcun peso. È difficile scoprire la verità: la vita è a un tempo meravigliosa e insignificante.

Il film si pone in prospettiva più filosofica che religiosa…

J.H: Sì, solleva un interrogativo generale. Tut-tavia a me interessa l’emozione che accompagna il sentimento religioso. Avere fede significa credere che esiste qualcosa che non si può spiegare e che supera i limiti della comprensione. I credenti lo chiamano dio. La fede consente di accettare che i miracoli possano accadere, è questa l’essenza della fede. Nel mio film il miracolo esiste: accade qualcosa di “miracoloso”, che però in seguito diventa abbastanza banale. Allora ci si rende conto che questo “miracolo” non racchi-ude necessariamente una morale o un senso… che forse è soltanto un caso. È solo una tappa, poiché nulla è scontato. Lourdes non è il racconto di una guarigione, ma piuttosto una scatola cinese, in cui le scatole si aprono senza lai arrivare la centro…

Si può intepretare il miracolo – stile Lazza-

ro, oppure «Alzati e cammina» - come un tributo al potere della fede?

J.H.: No, perché la persona che viene guarita non è dotata di una fede particolarmente forte. Nel mio film il miracolo è meraviglioso, ma è quasi come

se non avesse una causa, un autore.

Il suo stile è contraddistinto da lunghe sequenze molto controllate, spesso statiche, tranne che per le scene di folla. Quali son i mo-tivi di questa scelta?

J.H.: Non ci sono solo inquadrature statiche ma anche movimenti di macchina e zoom. Cerco immag-ini che mostrino come funziona il gruppo. A un certo punto, nel film arriva il momento della foto di gruppo: gli individui sembrano fondersi dentro l’insieme. La composizione della foto dice: sulla sinistra ci sono le donne (dell’Ordine di Malta), al centro i malati e sulla destra i cavalieri. Appena la foto è stata scattata il gruppo si scioglie tornando al disordine. Quuesta pic-cola sequenza contiene tutto quello che voglio rac-contare.

Perché mostra le preghiere, le visite alla grotta e I bagni secondo la loro durata e non in modo più elleittico?

Il miracolo,incrinatura nella logica.

Colloquio con la regista Jessica Hausner

orizzontale | mistero

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“l’orrore di credere”.

2. Un motivo, tre movimenti.

Christine, la protagonista, è costretta sulla sedia a rotelle da una malattia che ormai le permette di muovere solo la te-sta. Non è a Lourdes per cercare la guari-gione o per coltivare la propria fede, ma perché la via dei pellegrinaggi è l’unica possibilità che le rimane per viaggiare. Seduta e immobile, Christine guarda il mondo scorrerle davanti; turista sco-pica, Christine allora sembra aderire all’archetipo dello spettatore-flaneur2. Inizialmente immobile e incapace d’in-teragire attivamente con le cose intorno

a sé a causa del proprio scetticismo (lo spettatore seduto davanti allo schermo), Christine gradualmente inizia a muo-versi, proiettandosi fuori dalla propria condizione d’impotenza (proprio nel buio e nell’isolamento della sua stanza di notte); contemporaneamente in lei aumenta la fiducia e in breve la ragazza esprime la convinzione di essere prota-gonista di un miracolo vero. Durante la festa si celebra l’apoteosi: la premiazio-ne sul palco, il discorso alla platea, il ballo con il volontario concupito dalle colleghe sane e belle, ma conquistato da lei, bruttina di nuovo abile all’amore (la proiezione dello sguardo dello spettato-re nello schermo, il suo precipitare den-

tro il film). La caduta in mezzo alla sala spezza la certezza e rigetta la ragazza, sospingendola di nuovo nella sua fragile impotenza. Christine si rialza, il suo ca-valiere si allontana lasciandola sola; lei, dopo una lunga resistente attesa, torna sulla sua sedia a rotelle. Forse niente è davvero accaduto o forse la caduta è solo un’insignificante incongruenza. Ora però Christine, isolata in una stret-ta inquadratura, fissa sgomenta oltre il margine del quadro, nel fuoricampo, l’incredulità sospesa riacquista forza e il dubbio affiora rapido, svuotandole lo sguardo.

Cécile è la donna che dirige gli ac-

J.H: Ho mostrato gli elementi del pellegrinaggio: i riti, I luoghi…Le vere ellissi sono altrove dal momento che il film realizza un’economia dell’essenziale: il mo-mento di crisi della logica, il motivo del miracolo.

Perché le tende bianche sono così impor-tanti?

J.H: Gioco con l’idea che qualcosa sia nas-costo dietro la tenda. Che cosa con esattezza? Parlo dell’ignoto, di ciò che sfugge alla nostra razionalità, che ci è emotivamente estraneo. Poi quando si guarda di-etro una tenda chiusa si scoprono cose terribilmente banali. Nel mio film Hotel, la protagonista scopre un parcheggio dietro una tenda, e in Lourdes la tenda nasconde solo il rito di purificazione con l’acqua mira-colosa. Si tira la tenda ma dietro non si trova alcuna risposta. Ancora una volta il senso ci sfugge.

In alcuni momenti in Lourdes la luce sembra “illuminare” I suoi personaggi senza immerg-erli in un’atmosfera sacrale

J.H.: Ho tentato di evitare in ogni modo che la luce creasse un’atmosfera sacrale o evocasse esseri o forze superiori. Ho anche cercato di evitare di alludere a una forza su-periore con l’uso del dolly, per esempio. Preferisco soluzioni simili a quelle scelte da Dreyer nel suo Ordet: quando I fari di un’auto passano su una parete, un pazzo prevede la morte, la famiglia com-prende che sta arrivando la macchina del dottore. Il medico arriva, e cinque minuti dopo il pazzo è morto. Nessuno aveva torto: la luce sulla parete era tanto un presagio di morte quanto la traccia dei fari di un’auto. Credo che sia davvero magnifico che un regista riesca a trovare una forma estetica

che rifletta questo genere di parados-sale ambiguità…

Si pottrebbe dire in sintesi che il suo film ruota intorno a un mistero?

J.H.: Un miracolo solleva la questione del senso delle cose. Posso influenzare il corso delle cose con le mie buone azioni, o non sono altro che un palloncino nelle mani del caso? Questo contrasto tra il senso e l’arbitrarietà è il cuore della storia. È per questo che dopo essere stata miracolosamente guarita, Christine dice “Spero di essere la persona giusta”.

credenza | dubbio

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Cosa ti ha spinto a interpretare questo ruolo?

Sono sempre in cerca di un mon-do diverso dagli altri. Ho trovato che la sceneggiatura avesse una certa grazia, una certa aria di “favola scomposta” che non sfida i miracoli a Lourdes, ma sorride appena sulla relazione che cia-scuno ha con la religione. Lourdes è in controtendenza rispetto al cinema con-temporaneo: non è un attacco fronta-le alla religione, questo lo trovo molto elegante. Le critiche grossolane non m’interessano – sul piano dell’arte tro-vo la derisione e l’insolenza molto più interessanti.

Per quale motivo il suo personag-gio sceglie di andare in pellegrinaggio a Lourdes?

Va a Lourdes per distrarsi. Si dice “Andiamo e stiamo a vedere cosa succe-de”. Quando si ritrova miracolosamen-te guarita getta tutti nello sgomento. La persona che ha ottenuto il miracolo è l’unica che non va mai a messa. Non c’è giustizia a Lourdes. Succede quel che ac-cade altrove: chi non fuma e non beve, si ammala, un bambino crolla sotto il peso d’un grave malanno…In questo senso il film è tutto sommato giusto.

Qual è stato il suo modo di avvi-cinare questo personaggio che è para-lizzato, apparentemente impotente e sottomesso agli altri?

Ho proceduto per tappe. Mentre mi preparavo per il film, ho iniziato a conoscere la malattia del mio perso-

naggio, la sclerosi multipla. Siamo en-trambe state molto prese, io e Jessica. Durante le riprese il personaggio si è rivelato veramente complesso. Dopo tutto eravamo a Lourdes – non potevo semplicemente uscire per una sigaretta, non potevo scendere dalla sedia a rotelle davanti agli altri pellegrini o alle com-parse che erano veri disabili…Sarebbe stato un insulto, considerando la loro sofferenza. Quando vedi i genitori spin-gere i figli in sedia a rotelle, non puoi dire, con la scusa di fare cinema: “ Sono come voi” e poi renderlo solo uno gio-co. Così sono rimasta nella mia sedia a rotelle per ore. Le persone si spostavano quando passavo con la sedia. Pensavano fossi davvero paralizzata. Ero tesissima ed è stato davvero opprimente… Non ho mai lasciato la sedia a rotelle. Una volta, durante le riprese, qualcuno mi ha parcheggiato accanto alla parete. È in queste situazioni che capisci che le persone paralizzate rimangono dove vengono lasciate, senza nemmeno la possibilità di tornare indietro. È stato durissimo, ho avuto dei momenti di estrema solitudine.

Che cosa pensa del fenomeno Lourdes?

Quando a Lourdes, vedi nella not-te le tante piccole candele dei pellegrini realizzi che la fede ha il potere di uni-re le persone. È davvero commovente perché è così difficile unirle in nome di qualche altra causa. Allo stesso tem-po però è deprimente peché in fondo tutto questo rappresenta una relazione

egoistica con Dio. Lo si invoca qundo se ne ha il bisogno. Lourdes è una città sacra e al contempo un orribile super-mercato religioso: con tutte quelle im-magini di Cristo crocifisso che apre un occhio, i posaceneri e le matite scolpiti con l’immagine della Madonna… Ho avuto sensazioni contrastanti a Lourdes. Quel luogo può provocare tutto e il suo opposto. Ci sono anche molte cose sor-prendenti, come per esempio le persone che sfilano davanti ai medici per vedere convalidato il proprio miracolo.

Crede che il film sia più filosofico o religioso?

Direi piuttosto che è deliberata-lente infantile. Una provocazione come fare una smorfia o la linguaccia a un sa-cerdote. Il film non nasconde affatto la sua parte irriverente e usa apertamente argomenti lodevoli. Jessica sostanzial-mente non fa che evocare la fiaba quan-do dice “Infatti Cenerentola è brutta, ma dopotutto il suo piede calza perfet-tamente nella scarpetta”. Il mio miraco-lo nel film è simile a quello che potreb-be accadere in una favola – Cenerentola col suo piede sporco, e tutto a un tratto il suo piede calza nella scarpetta. Nessu-no le aveva concesso alcuna attenzione prima di allora, ma alla fine è lei che sposa il principe. All’inizio il “principe” non è davvero interessato al mio perso-naggio. Cosa può farsene di una ragazza handycappata? Andare in vacanza? Fare l’amore? Ma quando lei viene guarita inizia ad avere dubbi.

Si è interrogata sulla sua fede

mentre interpretava questo ruolo?Mi sono interrogata per così tanto

tempo. Ero una ragazza del coro e sono stata sul punto di diventare suora. Ho fatto tutto quell che potevo fino an-che non ho capito che questo percorso m’interessava solo relativamente… Ave-vo 17 anni, i ragazzi comparvero nella mia vita… Nella religione si cerca un modello, una famiglia, l’abbandono di sé. Si ascolta quella musica meraviglio-sa, si ammirano le chiese e le cattedrali, si resta affascinati dalle vesti del culto, dalle icone e da tutta l’arte sacra. C’è qualcosa di grandioso e pieno di grazia nella religione. Adesso di tanto in tanto affondo le mani nell’acqua benedetta e mi dico “Non si sa mai”. Ma non voglio più saperne della ragione o del torto di credere in qualcosa oppure no. Mi ri-chiede troppi sforzi e mi provoca troppi problemi. Se mi sono sbagliata duran-te la mia vita chiedo che mi si perdoni quando arriverò lassù.

Lourdes può provocare tutto.

E il suo opposto.

Colloquio con la protagonista Sylvie Testud

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compagnatori – uomini e donne, giovani e adulti che prestano servizio volontario sotto le insegne dell’Ordine di Malta – che assistono i pellegrini durante il sog-giorno al santuario. Rigida ed efficiente, la capo-volontaria, fin dalla prima scena e per più della metà del film, attira a sé gli sguardi dell’intera micro-comunità. La donna, la sera del penultimo giorno di pellegrinaggio, si sente male, scio-gliendo così il segreto che si cela dietro la sua fin troppo manifesta empatia con i “malati”: un grave morbo la sta invisi-bilmente divorando.

I personaggi di Cécile e Christine sono strettamente e reciprocamente connessi. La prima e l’ultima inquadra-tura del film costruiscono un gioco di corrispondenze incrociate che prean-nuncia, conferma e chiarisce la dinami-ca della relazione che le lega3. La prima sembra quasi vegliare l’arresa passività della seconda, preservandone la doloro-sa inerzia fino alla rivoluzione del mira-colo. Alla parabola ascendente di Chri-stine, costellata di “segni premonitori”, di piccoli e grandi miracoli s’intreccia quella di Cécile, nella quale invece una serie di graduali cedimenti, di rifiuti di-screti e di frustrazioni segrete conduce verso la letterale scomparsa. Il male che distrugge la donna l’estromette dallo schermo, sottraendola alla platea della piccola comunità di pellegrini e volon-tari, e permette a Christine di prenderne letteralmente il posto4. Non solo le due donne incrociano insistentemente i loro “sguardi diurni”, ma condividono pure le visioni oniriche notturne. Uno stesso sogno simbolico e profetico, preannun-cio al miracolo, viene sognato due volte dalle due donne che, nel sonno, assisto-no alla stessa unica scena (la Madonna che annuncia a Christine la guarigione miracolosa), ciascuna secondo la pro-pria soggettiva. I sogni non sono mo-

strati, ma descritti dai racconti incrocia-ti che le due si scambiano. Poi Cécile ha il malore che la conduce in ospedale.

La guarigione della sua “sostituta” è graduale (tanto quanto lo è la sua “ca-duta”), ma il miracolo si manifesta in un momento preciso: nell’oscurità e nel silenzio della notte, Christine si alza dal letto e si dirige verso lo specchio.

2.1

Intorno alla coppia formata da Chri-stine e Cécile gravitano altri tre gruppi di personaggi. Il sacerdote e i due volon-tari veterani, la coppia di amiche scetti-che, e la vecchia che condivide la camera con la protagonista. L’empio terzetto che trascorre appartato i momenti di sosta, dentro la piccola comunità, rappresenta l’Istituzione: i tre dedicano il riposo al gioco delle carte, alle barzellette teologi-che, al pettegolezzo, nelle loro parole il birignao di una religione disincarnata e accomodante, l’irrisione del Sacro e del Tragico. Alle destabilizzanti interroga-zioni poste dall’Altro, i tre reagiscono con atti di conservazione, farisaicamen-te ricorrendo al dubbio come strumento non d’analisi ma d’assimilazione, disin-nesco del Senso e della Differenza.

La coppia di scettiche incarna in-vece la “religione dell’incredulità”. Nei fitti scambi delle due donne ogni pro-digio, ogni evento incomprensibile o stupefacente sembra a un tempo possi-bile e tuttavia irreale. Le due chiedono a Dio e al Mondo le prove per credere: che Christine si alzi se è guarita, che le gambe sanate del testimone nel docu-mentario mostrato ai pellegrini siano mostrate nell’inquadratura, che ne sia dimostrata evidentemente l’efficienza; che il miracolo capitato alla protagoni-sta sia certificato dalla commissione me-dica per mutarne la carica interrogativa PE

RCO

RSI

Per un’esaustiva trattazione della condizione dello spettatore/flaneur si veda:

Friedberg, A. 1991, Les Flaneurs de Mal(l): Cinema and the Postmodern Condition. New York: PMLA, Journal of the Modern Language Association.

Per un’analisi della situazione spettatoriale secondo gli strumenti della psicanalisi si veda:

Metz, C. 1980. Cinema e psicanalisi. Venezia: Marsilio.

Per un’analisi dello stile di R. Bresson e L. Buñuel si veda:

Schrader, P. 2002. Il trascendente nel cinema. Roma: Donzelli

Cardelli V., De Giusti L. (a cura di) 2001. L’occhio anarchico del cinema. Luis Buñuel. Milano: Il Castoro.

Per una trattazione sulla credenza nella società della comunicazione si veda:

Perniola, M. 2009. Miracoli e traumi della comunicazione. Torino: Einaudi.

Chiaromonte, N. 1971. Credere e non credere. Milano: Bompiani.

Filmografia essenziale sul tema del miracolo:

El angel exterminador di L.Buñuel (1962)La voie lactée di L.Buñuel (1967)Gostanza da Libbiano di P. Benvenuti

(2000)Il miracolo di E. Winspeare (2003)Ordet di C. T. Dreyer (1955)Procès de Jeanne d’Arc di R. Bresson

(1962)Pickpocket di R. Bresson (1959)

immagine | vuoto

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in forza assertiva. La vecchia che condivide la stanza

con la protagonista sembra infine occu-pare l’estremo opposto alle due amiche5. La sua compunta e quasi ininterrotta preghiera, più che dalla fede, sembra ali-mentata da una convinzione elementare e schematica. Il Credere si lega diretta-mente all’Avere, senza coinvolgere l’Es-sere6. Pronta a recepire qualsiasi indica-zione, da qualsiasi fonte essa provenga, la donna è in cerca d’un premio ai propri sforzi d’adesione alla norma (religiosa). Per lei come per gli altri, quel che conta non è la Salvezza, ma la conservazione dello status quo; difendere la propria po-vera inerzia.

3. L’indistinto orizzont(al)e

Jessica Hausner per il suo film sembra scegliere uno stile a metà tra la blasfema ironia sacra di Luis Buñuel e il trascen-dentale realismo materialista di Robert Bresson: come nel caso dei due maestri, l’attenzione della regista austriaca sem-

bra centrarsi non tanto sulla differenza fra Alto e Basso, né fra dimensione sa-cra e spazio profano, quanto piuttosto sulla relazione/interazione tra l’inerzia dell’insignificanza e la straordinarietà del Senso. Mentre però nel cinema di Buñuel e in quello di Bresson il “gio-co dei materiali” punta alla definizione e distinzione dei due livelli, Hausner sembra voler ottenere una densa amal-gama nella quale Senso e non-senso, Sacro e Profano, soggettivo e oggettivo siano versati, dispersi e indistinguibili. Basta pensare alle due lunghe scene che aprono e chiudono il film: nell’incipit un brano di musica sacra7 dal ritmo ie-ratico introduce l’ingresso nel refettorio e le prosaiche istruzioni di Cécile ai pel-legrini; prima della festa che chiude il

film il sacerdote accompagnatore prova il microfono usando una benedizione rituale8 poi il (presunto) miracolo vie-ne premiato sullo stesso palco sul qua-le, pochi attimi più tardi, un cantante intona il suo repertorio da balera; così, anche nel risveglio miracoloso di Chri-stine, l’oggettività della distanza della m.d.p. sembra ambiguamente alludere alla soggettività del sogno.

In uno sguardo ossessivamente oriz-zontale le cose si mostrano pezzo dopo pezzo, lungo tappe cadenzate. Negli ampi totali la m.d.p si mantiene visto-samente lontana, spingendo i soggetti dentro un’angosciante indistinzione, la visione si fa incerta, le singole figure appena riconoscibili; nei piani più rav-vicinati elementi architettonici o la stes-sa disposizione dei corpi impediscono l’organizzazione, l’esaurimento e l’im-mediata comprensione degli elementi interni all’inquadratura. Nascondendo e svelando solo per gradi, alludendo alla presenza di un mistero che non si trova mai esplicitato, che non è mai nomina-to, né mai risolto si produce e si alimen-

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ta lungo l’intero arco del film una sottile e costante inquietudine.

4. Il tempo della malafede

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, so-prattutto, in mancanza di altre genuine (Chiaromonte 1971:185).

In questo consiste la malafede contem-poranea […]: nel tenersi alla forma di quella che fu una credenza autentica senza più assumerne la sostanza, ma solo perché non ce ne è un’altra alla quale ci si possa affidare. Ciò vuol dire che non si crede a nulla, ma ci si lascia andare sul filo degli eventi come su una corrente precipitosa e fatale. (Chiaro-monte 1971: 196)

Lourdes non è un film sulla fede ma sull’impossibilità/incapacità di credere; non un’esaltazione del dubbio scettico e neppure una parodia della fede religiosa, un’analisi, piuttosto, del regime di cre-denza nella contemporaneità.

Tutto sembra giocarsi – come nota Chiaromonte – sullo svuotamento e sul conseguente rovesciamento dell’espe-rienza. Al presente dell’attimo aperto, dell’attesa e del ricordo, della tridimen-sionalità temporale agostiniana (cf. Ago-stino 1984) si sostituisce – prendendone il posto ma conservandone la medesima forma – il “presentismo” nel quale mira-coli e casualità, eventi e pseudo-eventi si mescolano e confondono. Più di tutto, credere sembra paradossalmente coin-cidere – in un vertiginoso slittamento – con il sapere (impossibile); all’oppo-sto il dubitare, invece che produrre uno sbilanciamento dinamico diretto alla comprensione delle cose, è usato come strumento di difesa e controllo, come via alla restaurazione e conservazione di

uno stato di rassegnata indigenza dell’es-sere, di comoda, stabile incertezza.

Anche lo statuto delle immagini in-tra-diegetiche sembra ripetere lo stesso modello di svuotamento e rovesciamen-to dell’apparente. Nel film non com-paiono altro che poche sculture a tutto tondo, statue e statuette che riproduco-no la Madonna di Lourdes e una scena della Passione di Cristo nella via crucis presso il santuario mariano. L’icona – l’immagine ispirata che allude, indica e rimanda al divino attraverso il segno stilizzato – non c’è; meglio, essa cambia e si tramuta in oggetto tridimensiona-le, spazialmente localizzato, fisicamente presente, accessibile al corpo oltre che allo sguardo. L’immagine così regredisce al funzionale perdendo la sua forza e ric-chezza, la sua potenza significante; viene meno l’alterità che separa e distingue spazio sacro e spazio profano (quotidia-no), soggetto e oggetto dello sguardo; tra essi s’instaura una relazione d’uso.

Del resto anche la foto commemo-rativa scattata più volte (e mai mostrata) al gruppo di pellegrini e la video-intervi-

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sta mostrata a scopo didattico sembrano condividere un simile ristretto statuto: persa ogni forza (tanto centrifuga quan-to centripeta), la loro finalità si riduce all’amplificazione dell’attimo, alla sua dilatazione che giunge fino all’oblitera-zione del passato e del futuro. Le foto e il video non sono che prove, oggetti testimoniali in un reale caotico e sfug-gente, gesti assertivi di certificazione dell’evento (straordinario).

Lo sguardo come il pensiero sono appiattiti sull’evidenza dell’hic et nunc, ossessionati dal possesso e dal controllo del mondo attraverso la sua continua ve-rifica. Dubbi, quesiti, tormenti e turba-menti sembrano tutti puntare all’accesso alla Verità e allo stesso tempo negarne l’esistenza. Ma anche in questo caso, dentro un involucro svuotato sta il ro-vesciamento dell’apparenza esplicita. La verifica dei fatti non coincide mai con la Verità, tra vero e falso non c’è salto qualitativo ma differenza quantitativa: al vero si sostituisce l’evidente, al falso l’enigmatico, l’ambiguo, l’anunivoco, l’incerto, l’interpretabile. Il Mistero di-venta grottesco, ridicolo,in quanto inat-tingibile (e non misurabile) per defini-zione (cf. Perniola 2009).

I fatti sono tutti equivalenti come pure le identità personali, le storie esi-stenziali. “Perché Christine? Perché non qualcun altro?” la guarigione ormai sta-bilizzata “vale” tanto quanto l’accidente di una caduta. Il palpabile disagio che la miracolata genera nei compagni di viaggio non si riduce a semplice invi-dia, la sua (temporanea) felicità desta lo scandalo: l’insostenibile oltraggio, il vulnus fatale al comune senso del pudore Christine lo compie rompendo il tabù dell’incredulità. Credere non è lecito, soprattutto quando la verifica dei fatti sembra concedere le conferme necessarie (attese e mai ottenute dagli altri).

Christine conclude la sua parabola tornando a sedere sulla sua sedia. L’im-

possibile eppure reale (il miracolo) sem-bra finire per coincidere con il possibile tuttavia irreale. Né l’esperienza-limite della malattia né quella della grazia (l’inspiegabile guarigione) hanno spinto Christine là dove forse arriva a condurla un semplice inciampo. Passata attraver-so le due precedenti condizioni senza mai credere fino in fondo né mai dav-vero dubitare (quando la ragazza cade in mezzo alla sala da ballo in realtà è appe-na sul punto di credere di poter iniziare a credere), Christine incontra il dubbio nel ritorno allo sguardo da spettatore.

Dopo la caduta, appena prima dei titoli il vecchio cavaliere di Malta am-mette: “Peccato, c’avevo quasi creduto”. Dietro di lui le due amiche compongo-no l’ennesimo teorema: “Se non è vera-mente guarita allora non è un miracolo, e se non è un miracolo allora non è Dio a essere responsabile”. La vecchia signo-ra intanto è già accanto al suo premio, pronta a tornare alla guida della sedia a rotelle.

Quando Christine esce dal quadro scomparendo nel fuori campo lo sgo-mento nei suoi occhi è il segno dell’ul-timo nascosto rovesciamento: la vacuità del suo sguardo non viene come tentati-vo di risposta all’interpellazione che sor-ge dalle cose. È forse la manifestazione più esplicita del sentimento che appa-renta tutti i personaggi del film, l’orrore di credere.

Riferimenti bibliograficiAgostino. 1984. Le confessioni. Torino:

Paoline.Chiaromonte, N. 1971. Credere e non

credere. Milano: Bompiani.Friedberg, A. 1991. Les Flaneurs de

Mal(l): Cinema and the Postmo-dern Condition. New York: PMLA, Journal of the Modern Language Association.

Perniola, M. 2009. Miracoli e traumi della comunicazione. Torino: Ei-naudi.

Wenders, W. 1982. Chambre 666. Fran-cia-Germania.

Endnotes1 L’intervento di Godard è compreso nel

documentario Chambre 666, film che Wenders realizza in occasione del Festival di Cannes del 1982, invitando alcuni illustri colleghi a espri-mersi sul destino del cinema davanti alla m.d.p.

2 Sulla condizione dello spettatore post-moderno come flaneur cf. Friedberg 1991.

3 Nella prima scena, accompagnata da musica sacra, Cecile occupa il centro del refet-torio e parla alla piccola assemblea. Il volontario Kuno le è accanto in qualità di assistente. Nella scena finale, accompagnata dalle canzonette per il ballo, Christine è prima sul palco, dove riceve il premio come miglior pellegrino dell’anno, poi in mezzo al salone, impegnata a danzare con Kuno.

4 All’escursione in montagna prevista per l’ultimo giorno dei pellegrini a Lourdes Christi-ne non potrebbe partecipare perché il suo nome non compare nella lista degli iscritti, dal mo-mento che fino a poche ore prima la ragazza non avrebbe potuto materialmente prendervi parte. Ma Cécile, regolarmente iscritta nella lista, non è più lì, è in ospedale. Così il suo nome viene sostituito con quello della ragazza miracolata.

5 Un’inquadratura nella prima parte del film sintetizza questa opposizione: la vecchia è inginocchiata e assorta in preghiera davanti a una statua della Madonna coronata da un’aureola al neon significativamente simile all’insegna lumi-nosa della vicina vetrina di souvenir; le due ami-che, che ammirano la chincaglieria in vetrina, si accorgono dell’orante a terra appena in tempo per non calpestarla e la scansano con sdegno.

6 Il compenso che sembra giungere alle richieste della vecchia non è “materiale”, ma molto concreto: il possesso affettivo della prota-gonista compagna di stanza.

7 Si tratta dell’Ave Maria di Franz Shu-bert.

8 Salito sul palco, il religioso dice al mi-crofono: “Il Signore sia con voi” e alla risposta della platea “E con il tuo spirito”, sorride soddi-sfatto.

Le immagini sono tratte dal film Lourdes (Austria, Francia, Germania 2009) di Jessica Hausner.

conoscere | presente

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Pitteri Daniele; Pellegrino Anna, Advertmarketing: nuove for-me di comunicazione d’impresa, Carocci 2010

Come sono cambiati i rapporti fra impresa e mercato nelle società globali? Come si è evoluto il ruolo del consumatore nel suo rapporto con le merci? Come si sono trasformati il marketing e la comunicazione per adeguarsi a tali cambiamenti? Il testo, alla luce delle evoluzioni dell’ultimo decennio, illustra e descrive l’AdvertMarketing, tutte le nuove forme di comunicazione non convenzionale, in cui le attività di marketing, e quindi le strategie di mercato delle imprese, si basano sostanzialmente su pro-cessi comunicativi.

Cherubini S.; Pattuglia S. (a cura), Co-opetition. Coopera-zione e competizione nella comunicazione e nei media, Franco Angeli 2010

Lo sviluppo della comunicazione d’impresa e delle istituzioni, di marketing come finanziaria, globale e locale, stimola gli operatori a fare sempre meglio ma possibilmente a costi contenuti. In questa prospetti-va, assai spesso - nel settore della comunicazione e dei media - risulta opportuno sviluppare attività in collaborazione con altri operatori per po-tenziare l’efficacia, ridurre i costi, aumentare la rapidità e la credibilità. Tali collaborazioni trovano delle difficoltà nel momento in cui è fondamentale scegliere bene i partner, definire i ruoli e i compiti, monitorare l’andamen-to delle attività anche al di fuori della propria organizzazione. Bisogna sviluppare alcune specifiche skill che partono dalla capacità di capire i vantaggi delle alleanze fino ad arrivare all’attitudine nell’operare lealmen-te ma senza superare i giusti limiti di riservatezza e interesse aziendale. In altre parole, sviluppare una capacità di co-opetition (cooperation and competition), competenza che sempre più caratterizzerà il mondo delle imprese e delle istituzioni e, nello specifico, quello della comunicazione e dei media, mondi sempre più integrati e convergenti. Questo volume vuole far riflettere, attraverso la presenza di autorevoli esperienze, sulle opportunità, ma anche i rischi, che la co-opetition può presentare.

Cristante Stefano, Comunicazione (è) politica. Scritti sull’opi-nione pubblica e sui media, Bepress 2010

La comunicazione, da quando esistono i mass-media, è diventata veicolo e territorio fondamentale della politica. Ma l’avvento delle strate-gie comunicative a fini politici non è certo un fatto nuovo nella costruzione del potere. Attraverso una serie di saggi che spaziano dalla preistoria della comunicazione politica ai fatti e alle notizie dei nostri giorni, questo volume intende proporre un terreno d’indagine per lo studio dell’opinione pubblica che proponga sintesi concettuali e modelli operativi, sostenuti dall’analisi di eventi rappresentativi del complicato percorso politico della realtà occidentale e, in particolare, del nostro paese. Il modo di comuni-care di leader, istituzioni, partiti, movimenti, sindacati e associazioni viene analizzato in stretto rapporto all’evoluzione dei mezzi di comunicazione tradizionali e digitali, sempre più parte in causa di una doxasfera in cui i diversi attori agiscono determinando convergenze e conflitti che segnano la contemporaneità.

Rossi Gina, La comunicazione aziendale, Franco Angeli 2010

Ogni azienda - qualunque sia la sua natura economica, la forma giuridica o l’attività che in essa si svolge - comunica costantemente con i propri interlocutori per reperire i mezzi e le risorse che le consentono di perpetuare le condizioni della propria sopravvivenza. Il carattere pervasi-vo e la natura sempre più poliedrica e complessa del fenomeno invitano a riflettere su quelli che sono i fini della comunicazione aziendale, i prin-cipi ai quali le informazioni trasmesse devono rispondere, i requisiti che esse devono possedere per dimostrarsi utili in relazione agli obiettivi posti. Sono queste le categorie alla luce delle quali va letta la convenienza per l’azienda a colmare le asimmetrie informative che le attribuiscono una posizione di vantaggio rispetto ai suoi interlocutori o a mantenerle e a potenziarle, distorcendo la comunicazione nei suoi aspetti di forma e di

contenuto, al fine di carpire maggiore consenso e legittimazione presso il pubblico sulla base di un rapporto fiduciario falsato.

Errante Salvatore; Mancinelli Andrea, Dal brief di agenzia al piano mezzi. Scrivere i documenti della strategia di comunicazio-ne, Franco Angeli 2010

Sulla comunicazione sono stati scritti numerosi trattati da parte di svariate categorie coinvolte, da filosofi a sociologi, da linguisti a esponenti del marketing. Questo libro si differenzia dagli altri testi teorici e vuole essere una concreta alternativa per tutti coloro che intendono sapere cosa scrivere nei documenti della strategia di comunicazione e come scriverlo. Una guida preziosa per il lettore nella stesura dei documenti indispensabili al communication manager, che si sofferma a: individuare gli obiettivi di comunicazione dell’azienda; comprendere la funzione di tutti gli “attori” interni ed esterni; definire le necessarie attività di comuni-cazione; trasformarle in documenti strategici al servizio dell’azienda; sce-gliere gli strumenti pratici di azione. Un manuale di rapida e facile lettura, corredato da numerosi esempi pratici, case history, modelli e schemi di riflessione rivolto a tutti coloro che, ai diversi livelli e nelle differenti funzioni aziendali, hanno il compito di comunicare la comunicazione e di condivi-derla: responsabili marketing e comunicazione, product e brand manager, responsabili relazioni esterne, agenzie di pubblicità ed imprenditori.

Mazza G.; Perego G. (a cura), Pedagogie della parola. L’emer-genza educativa, tra universo biblico e cultura della comunicazio-ne, San Paolo Edizioni 2010

Una semplice ricerca in internet ci rende puntualmente partecipi di quanta rilevanza assuma oggi il tema mediatico di tante (dis)educazioni quotidiane. In un’epoca surriscaldata dai dibattiti sui crocifissi nelle scuo-le, ci si interroga - ed è un bene che lo si faccia - su quanto si possa davvero educare, su dove lo si debba fare, su chi abbia il diritto di farlo, e perché.

Davide Borrelli, Pensare i media. I classici delle scienze so-ciali e la comunicazione, Carocci 2010

Se Simmel fosse stato un consumatore di mass media e Weber avesse potuto conoscere lo star system hollywoodiano? Se Benjamin avesse avuto la possibilità di navigare in internet e Mead di partecipa-re ad una chat online? Se Foucault avesse assistito a una puntata del Grande Fratello e Luhmann all’espansione dei mondi virtuali? Che cosa ne avrebbero potuto scrivere e quali riflessioni ne avrebbero tratto questi grandi maestri delle scienze sociali? Questo libro approfondisce le ragioni dell’attualità dei classici alla luce delle scienze della comunicazione.

Battista M. Antonietta, Dal salotto al ring televisivo. Comuni-care e interagire in televisione, Rubbettino 2009

Talk show, informazione, intrattenimento e infotainment, sono oggi le arene mediatiche preferite dagli attori politici e più seguite dal pubblico. Le performance dei politici nei diversi programmi televisivi mostrano una politica nuova, trasformata nelle sue storiche funzioni d’integrazione, for-mazione e rappresentanza, impegnata in una ricerca spasmodica della visibilità e della prevaricazione. Il rapporto tra televisione e politica in que-sto contesto assume nuove vesti discostandosi dalle logiche del going public per dare spazio a logiche che si avvicinano più ad un going politic. La politica oggi in gran parte è fatta di rissosità e di scontro personale e politico trasformando il palcoscenico televisivo da salotto di conver-sazione e dibattito in un ring dove prevale l’aggressività a discapito del confronto formativo e informativo. Il libro tratta il tema della comunicazio-ne politica, tracciando in una prima parte un excursus storico dall’Italia del dopoguerra a oggi, e si concentra poi sulla comunicazione televisiva, analizzando le strategie comunicative dei leader politici negli schermi te-levisivi attraverso le relazioni e le interazioni tra questi, il conduttore e il pubblico.

consigli di lettura | comunicazione

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ARGOMENTA

REVEDERESENTI

REGiovanni Scarafile

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Sul rapporto tra patico ed aptico

nella filosofia del cinema.

Che rapporto c’è tra visione e tattilità? A quale facoltà

dell’umano bisogna riferirsi per mettere

in relazione visibile e tattile? Una riflessione sul sentiero dischiuso

dal dubbio nel cinema a partire dal film Doubt (2008) di

John Patrick Shanley

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Osservare, guardare e poi ancora guardare; il risultato: un essere tra-sportati dentro l’oggetto osservato.

L. Binswanger, Sulla fenomenologia

Ogni visione si effettua in qualche luogo dello spazio tattile.

M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile

1. L’argomentazione, un fenomeno stratificato

Un passaggio tratto dal Trattato dell’argomentazione di Perelman-Tyteca costituisce ai fini delle mie considerazioni un particolare motivo di interesse. Condi-zione necessaria – scrive Perelman - perché ci sia una argomentazione è che si crei un «contatto tra le menti» (§2), aggiungendo che «Non basta parlare o scrivere, occorre pure essere ascoltati o letti». Inoltre, come a precisare questo concetto, l’autore ag-giunge che «la conoscenza dell’uditorio non può essere concepita indipendente-mente da quella dei mezzi capaci di agire su di esso, anzi il problema della natura dell’uditorio è legato a quello del suo con-dizionamento», ribadendo nel §10 che: «un’argomentazione è efficace se riesce ad accrescere questa intensità di adesione in modo da determinare presso gli udi-tori l’azione voluta» (Perelman 2001:48). Queste parole di Perelman richiamano le parole con cui nella Retorica (III, 1403b) Aristotele introduce il discorso sullo stile dell’argomentazione: «non basta possedere gli argomenti che si devono esporre, ma è anche necessario esporli in modo appro-priato».

Si danno perciò due distinte ed intera-genti componenti all’interno di una argo-mentazione: la componente di contenuto

(ciò che viene detto) e la componente di modo (il modo in cui si dice ciò che viene detto). La inestricabilità tra i due momen-ti dell’argomentazione garantisce dell’ef-fettività dell’argomentare stesso, sancita dal contatto tra oratore e uditorio che «non riguarda soltanto le condizioni preliminari all’argomentazione, ma è essenziale anche per l’intero sviluppo di questa» (Perelman 2001: 20).

Ciò che mi propongo di mostrare in queste note, seppure per cenni, è il modo in cui il cinema possa rendere visibile l’inestricabilità tra i due momenti dell’ar-gomentazione appena richiamati. Proverò, inoltre, a raggiungere questo obiettivo in modo induttivo, muovendo da un film, Doubt (2008) di John Patrick Shanley, la cui forza argomentativa può essere rintrac-ciata proprio nel lavoro congiunto tra la componente di contenuto e la componen-te di modo.

2. Lo spettatore modificato

Propedeutico allo sviluppo della tesi precedentemente illustrata è il richia-mo ad alcuni aspetti, in verità piuttosto noti, delle riflessioni sul cinema proposti rispettivamente dal regista sovietico Lev Vladimirovič Kulešov (1899 – 1970) e dal critico italiano Ricciotto Canudo (1877 – 1923).

2.1 Aumento di significazione indipen-dente dal contenuto

In un modo forse troppo schematico, ma ammissibile come punto di partenza del discorso, potremmo dire che in ogni film, come in un’argomentazione, posso-no essere distinti due elementi. Il primo, il più comune da cogliere, concerne ciò che potremmo indicare come contenuto (la sceneggiatura, il plot narrativo, ecc.), mentre il secondo riguarda lo stile attra-verso cui si cerca di rappresentare quel medesimo contenuto. Ovviamente in un

film questi elementi si presentano con-giuntamente ed essi sono qui indicati se-paratamente solo per maggiore chiarezza espositiva. Tecnicamente parlando, con riferimento a questi due aspetti, un film non funziona in modo diverso da un ro-manzo scritto.

Questo, allora, significa che non esiste una differenza specifica tra un film e un romanzo?

La domanda è ovviamente retorica, dato che non solo una tale differenza esi-ste, ma essa è proprio ciò che costituisce la specificità del linguaggio filmico. Può essere utile richiamare una tale differenza a partire da uno dei primi luoghi in cui essa diventò manifesta. Mi riferisco al ce-lebre esperimento condotto nel 1918 da Kulešov, narrato da Pudovkin ne La set-tima arte.

Da un film dell’epoca zarista, Kulešov aveva selezionato un’immagine del viso dell’attore principale, non particolarmen-te espressivo. Successivamente, aveva mes-so in sequenza questa immagine con altre tre immagini raffiguranti rispettivamente un piatto di minestra, il cadavere di una donna e una donna nuda e proiettato le tre diverse sequenze di fronte ad un pub-blico selezionato.

La visione delle tre diverse sequenze (1. viso attore-piatto di minestra; 2. viso attore-cadavere donna; 3. viso attore-don-na nuda) aveva condotto ad un referto per certi versi inaspettato. Interrogati, infatti, su ciò che avevano effettivamente visto, gli spettatori avevano affermato che nel pri-mo caso gli occhi dell’attore denotavano la fame; nel secondo, una grande tristez-za; nel terzo, una grande eccitazione. Non solo, dunque, nessuno si era accorto che l’immagine dell’attore era sempre la stes-sa, ma tutti si erano incredibilmente detti concordi nel sottolineare l’indubitabile ta-lento dell’attore.

Il richiamo dell’esperimento di Kulešov è funzionale agli scopi del presente scritto, dato che in estrema sintesi, esso dimostra,

argomentazione

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ad un livello generale, che un determinato contenuto, organizzato secondo una par-ticolare sequenza, può produrre significati diversi. Più in particolare, , la messa in se-quenza di immagini diviene responsabile di un aumento di significazione rispetto al semplice dato di partenza. Detto altrimen-ti, il significato di uno stesso contenuto può variare a seconda del modo in cui è mostrato.

È soprattutto in conseguenza di un tale conseguimento cognitivo che gli stu-di registici hanno dovuto prevedere delle tecniche in grado di padroneggiare e di-rigere il più possibile il sopravanzare della significazione rispetto ad un contenuto prestabilito all’interno di un contesto se-gnato dalla ormai dimostrata interconnes-sione sistemica tra contenuto e suo modo di presentazione.

2.2 I segni invisibiliUn altro interprete su cui vorrei soffer-

marmi brevemente è Ricciotto Canudo, uno dei primi critici che assistettero alla nascita del cinematografo. Farò riferimen-to a tre aspetti della sua articolata proposta teorica.

2.2.1. Per Canudo, che vive nei pri-mi anni ’20 del secolo scorso, il cinema rappresenta l’arte assolutamente moderna, adeguata alla nuova epoca. Sarà proprio Canudo ad inventare il neologismo écra-niste per riferirsi all’artista che si orienta secondo la nuova arte1. Canudo distingue tra arti del tempo (musica, poesia e, più tardi, anche danza2) ed arti dello spazio (architettura, scultura, pittura). Le prime sono arti mobili e ritmiche, le seconde arti immobili e plastiche. Il cinema va colloca-to al vertice in quanto riesce a conciliare entrambi i tipi di arte ed è così «arte tota-le» e spazio-temporale, adeguata al dina-mismo ritmico della cultura moderna.

2.2.2 La forza del cinema risiede inol-

tre nella capacità, incarnata dall’ecraniste, di coinvolgere non solo gli intellettuali, ma il più vasto pubblico: «è il desiderio – scrive Canudo – di una Festa nuova, di una nuova umanità gioiosa, realizzata in uno spettacolo, in un luogo dove gli uo-mini si trovino tutti insieme, dove attinga-no, in misura più o meno grande, l’oblio della loro individualità isolata» (Canudo 1908: 3).

2.2.3 Il terzo momento è dato dal seguente passaggio, che riporto per inte-ro: «Noi assistiamo alla nascita di questa sesta arte. Una simile affermazione in un’ora crepuscolare come la nostra, ancora mal definita, incerta, come ogni epoca di transizione, ripugna alla nostra mentali-tà scientifica. […] soltanto occhi esercitati dalla volontà di scoprire i segni invisibili o originari degli esseri e delle cose possono orientarsi in mezzo alla visione offuscata dell’anima mundi. Tuttavia, la sesta arte s’impone allo spirito inquieto e scrutatore. Ed essa sarà la superba conciliazione dei Ritmi dello Spazio (le Arti Plastiche) e dei Ritmi del Tempo (Musica e Poesia)»3 (Bar-bera – Turigliatto 1978: 15-24).

Sintetizzando i riscontri fin qui emer-si, potremmo dunque dire che Canudo coglie una specificità del cinema, non ri-conducibile a nessuna delle arti preesisten-ti; in ragione di tale specificità è possibile un più ampio coinvolgimento del pubbli-co; entrambi questi fattori vengono infine ricondotti ad una modalità che, propria-mente parlando, accade nello spettatore a fronte di una manifestata disponibilità al superamento del visibile.

Nel caso di Kulešov, invece, l’apparen-te semplicità dell’esperimento condotto in realtà nasconde un risultato importante, riferibile, come già accennato, al guada-gno di significazione che accade nello spet-tatore, indipendentemente da ciò che può essere considerato come contenuto.

Entrambi gli autori, per vie diverse,

giungono ad evidenziare un fattore, re-sponsabile di una modificazione operan-tesi nello spettatore.

Se volessimo tentare di ascrivere ad una qualche regione dell’umano un tale accadere, cercando di risalire come dall’ef-fetto alla causa, dovremmo fare riferimen-to alla «facoltà patica».

Sul versante filosofico, quando non sia stato inteso alla stregua di un horri-dum pudendum, il termine pathos (come pure i suoi equivalenti, affectio, Erlebnis), è chiamato a designare una facoltà, il sen-tire, che difficilmente può essere messa da parte senza con ciò rinunciare ad una delle condizioni di possibilità del pensare stesso4.

E noi potremmo senz’altro ritenere come appartenenti al patico, seppure a diverso titolo, quegli elementi ricondu-cibili al modo contrapposto in un certo senso al contenuto segnalati all’inizio di questo scritto con riferimento alla teoria dell’argomentazione di Perelman, così come negli accennati riscontri di Kulešov e Canudo.

3. Patico ed aptico nel film Doubt Segnalati i momenti costitutivi dell’ar-

gomentazione e gli effetti della funzione patica, possiamo ora provare a contestua-lizzare i riferimenti emersi all’interno del film Doubt5.

Bisogna ammettere, infatti, che una volta che la sfera del patico sia stata indi-viduata, non è ancora provata la sua effi-cacia. Può essere utile, pertanto, provare ad isolare un contesto (un film, nel nostro caso) per verificare efficacia e specificità d’azione di una tale facoltà.

La scelta di Doubt non è casuale. Si tratta infatti di una pellicola in cui ciò che all’inizio indicavo come componente di con-tenuto è molto importante. La ricerca del ruolo del patico all’interno di un impianto filmico fondato su una tale componente

sentire

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rappresenta un test di per sé significativo per testare la mia ipotesi di lavoro.

In Doubt, si narra una vicenda am-bientata nel 1964, nel Bronx, nel collegio della Parrocchia di St. Nicholas. Il ’64 è l’anno successivo all’uccisione di Kennedy, la società americana vive ancora il trauma della perdita, ma è anche l’anno in cui si annunciano le novità del Concilio Vatica-no II, le aperture della Chiesa finalmente non impaurita di andare incontro al mon-do.

Se questo è lo sfondo in cui si colloca la vicenda narrata dal film, sono proprio le parole pronunciate durante un’omelia da uno dei protagonisti, Padre Flynn, in-terpretato da Philip Seymour Hoffman, a fungere da detonatore della intera vicen-da.

«I want to say to you: Doubt can be a bond as powerful and sustaining as certain-ty. When you are lost, you are not alone»6. Il dubbio – dice Padre Flynn – può essere un legame comunitario rassicurante quan-to la certezza. Si tratta di parole che an-nunciano un possibile sdoganamento del dubitare stesso, ovvero il venir meno della concezione che identifica il dubbio con un errore da evitare il più possibile.

La presenza di una tale idea del dub-bio non è appannaggio soltanto degli am-bienti religiosi retrivi descritti nel film. Già nel nostro senso comune, il dubbio è considerato alla stregua di una parentesi passeggera, un’ombra da lasciarsi rapida-mente alle spalle: non diciamo che le no-stre scelte sono effettivamente tali quando non lasciano dubbi?

Le parole di Padre Flynn ci consento-no di inquadrare visivamente le caratteri-stiche dell’altro personaggio principale del film, Suor Aloysius, interpretata da Meryl Streep. Proprio durante l’omelia, infatti, Suor Aloysius viene ripresa mentre me-todicamente inibisce e autoritariamente reprime la distrazione di alcuni bambini seduti in chiesa. La prima scena del film è, in questo senso, una sineddoche, in

grado di farci cogliere l’intero film basa-to sulla contrapposizione tra un atteggia-mento non pregiudizialmente chiuso nei confronti della vita, incarnato dal giovane sacerdote, e un atteggiamento di orgoglio-sa chiusura personificato dalla suora. Un atteggiamento, quest’ultimo, di autosuffi-cienza insulare, consistente nell’essere così radicati nelle proprie posizioni da non de-siderare di vedere oltre. In simili situazio-ni, non solo tutto sembra essere in nostro possesso, addirittura i criteri stessi del vero e del falso, ma su tale rimozione del filtro con il mondo si è esercitata una forma di autogiustificazione assoluta7.

Nel film, in mezzo a queste due figu-re così diverse, si porrà la giovane e for-se troppo ingenua Sorella James (Amy Adams), all’apparenza così facilmente in-fluenzabile.

Il prosieguo dello sviluppo narrativo del film porterà a dubitare della correttez-za dell’atteggiamento di Padre Flynn nei confronti di Donald Miller, l’unico allievo di colore della scuola. Il chiarimento che ne segue, e che riporto dallo Script origi-nale del film, è il teatro in cui si mettono in scena, in occasione dell’accusa mossa al sacerdote di aver molestato il ragazzo, gli stessi atteggiamenti dei protagonisti nei confronti della vita.

Flynn: [...] You had a fundamental mi-strust of me before this incident! It was you that warned Sister James to be on the lookout, wasn’it?Sister Aloysius: That’s true.Flynn: So you admit it!Sister Aloysius: CertainlyFlynn: Why?Sister Aloysius: I know people.Flynn: That’s not good enough!Sister Aloysius: It won’t have to be.8

Nonostante i numerosi motivi di inte-resse insiti nel violento scambio verbale tra Suor Aloysious e Padre Flynn, mi pare che se noi persistessimo a rivolgere esclusiva-mente la nostra attenzione su tali caratteri non riusciremmo a cogliere un’altra carat-

teristica del film, collocata piuttosto sul piano profilmico della specifica posizione della spettatore.

Come ricorda Barthes, il rapporto spettatore-film è, in un certo senso, un rapporto a doppio canale. Da un lato, deve aver luogo una forma di fascinazio-ne in grado di catturare l’attenzione e di coinvolgere, dall’altro questa caratteristi-ca ha senso nella misura in cui si riesca a prendere le distanze da essa.

Bisogna che io sia nella storia (la vero-simiglianza mi richiede), ma bisogna anche che io sia altrove. […]. Ciò di cui mi servo per prendere le distanze dall’im-magine, ecco, in fin dei conti, ciò che mi affascina: sono ipnotizzato da una distanza; e tale distanza non è critica (in-tellettuale); è, per così dire, una distanza amorosa (Barthes 1994: 148-150).

Lo scambio di accuse del dialogo pre-cedente tra Padre Flynn e Suor Aloysius risulta di grande interesse perché consente di gettare uno sguardo proprio sulla dina-mica che si attiva nella mente dello spet-tatore con riferimento all’ambito tema-tico del dubbio. Trova dunque conferma l’inestricabilità tra componente semanti-ca e componente non semantica (prima indicate come componente di contenuto e componente di modo) cui facevo cenno in precedenza a proposito delle caratteristi-che dell’argomentazione. È per il tramite della prima che la seconda si afferma.

Da questo punto di vista, allora, la di-stanza temporale che ci separa dalla vicen-da specifica raccontata nel film (il 1964, il Bronx, il piccolo collegio della Parrocchia di St. Nicholas), passa in secondo piano.

È proprio per mezzo della incarnazio-ne nello spettatore di questa eccedenza del-la dimensione non semantica sulla dimen-sione semantica che diventa possibile per lui prendere posizione, cioè non rimanere indifferenti rispetto alle opzioni mostrate sul versante narrativo del film.

Nello specifico, in seguito all’attiva-zione nello spettatore del livello patico, e

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muovendo dallo scambio di battute tra i due protagonisti, risultano più chiare talu-ne caratteristiche dello stesso concetto del dubitare. In altri termini, l’esposizione ad una situazione concreta in cui il dubbio viene rappresentato (nel nostro caso, lo scambio di battute tra i due protagonisti del film riportato sopra), mentre attiva la modalità patica, dà modo allo spettato-re stesso di cogliere aspetti essenziali del dubitare, come tali non più episodici o riferibili ad un solo contesto come quello del film. Il film permette di scorgere de-terminazioni concettuali del dubitare che altrimenti potrebbero rimaner celate ad

una considerazione puramente verbale. In questo senso, potremmo dire che il film permette di vedere meglio.

Nel caso specifico, qual è il risultato di questa visione potenziata delle cose?

A mio avviso, mi sembra che diventi più chiaro, proprio a livello concettuale, il riferimento alla dinamica dello scegliere. Una scelta infatti si compie quando si è in grado di operare una cernita, di isolare uno scarto: ciò che è scelto è ciò che si è riusciti a separare da quanto rimane non scelto. In questo senso, vi è, in ogni scelta, un’elezione. Non è un caso che proprio il verbo eligere, composto da ex e legere, as-

suma il significato di «scegliere tra». In tal senso, la pro-pensione, ciò che dà avvio ad una scelta, è un processo graduale, si impone gradualmente nella misura in cui un elemento, divenuto più chiaro, viene progressivamente identificandosi, e quin-di distinguendosi, rispetto ad uno sfondo di incertezza. È così che scegliere compor-ta il propendere a favore di una determi-nata opzione. Tuttavia, anche la scelta più compiuta, se segna una presa di distanza da ciò cui si è rinunciato, non può mai convertirsi in una rinuncia tout court alla stessa possibilità del dubbio, anche even-tualmente sullo stesso ambito su cui la

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scelta originaria sia già stata esercitata.Sia rispetto alla singola scelta, sia ri-

spetto allo scegliere in generale, il dubbio ha una funzione irrinunciabile. Tale istan-za rimane invariata a scelta avvenuta, qua-le fonte di verificazione di quanto scelto.

Nello spettatore, il venir meno della di-stanza da Padre Flynn o Sorella Aloysius è esercitabile nella misura lo spettatore stes-so può rivivere ed inverare quei contenuti messi in scena nell’interpretazione dei due attori. È così che, nella «distanza amoro-sa» (Barthes) propria dello spettatore, assi-stendo alla rappresentazione dialogata del rapporto tra dubbio e scelta, scopriamo quanto può essere facile essere collocati dentro i propri pregiudizi e quanto diffici-le e faticoso prendere le distanze da ciò che sembra facile e naturale credere. In altre parole, è come se nel dialogo tra i prota-gonisti noi potessimo toccare i concetti lì rappresentati. È come se di quei concetti noi avessimo un’esperienza tattile.9

È nel raggiungimento di questo tra-guardo che noi tocchiamo con mano la po-tenza dell’argomentazione dischiusa dal dispositivo filmico.

Lo spettatore è, dunque, non soltan-to chi assiste alla rappresentazione, ma in un certo senso chi ne prende parte. Il ci-nema, di conseguenza, non è soltanto un momento di evasione o un pre-testo, ma ciò che con una straordinaria forza espres-siva proietta noi stessi nei pressi della cosa, come confermato da Gadamer con riferi-mento all’immagine:

L’immagine adempie alla sua funzione di rimando solo attraverso il suo proprio contenuto. Quanto più uno si immerge in essa, tanto più anche è in rapporto con il rappresentato. L’immagine riman-da in quanto trattiene. Quanto più uno si immerge in essa, tanto più anche è in rapporto con il rappresentato (Gadamer 1983: 37).

Guardare due personaggi del film che discutono animatamente di certezza e di dubbio non è un’operazione statica e sen-

za conseguenze. Lo sguardo ci fa entrare nel mondo del film, ci permette di viverlo non più soltanto a distanza, in un senso che richiama da vicino ciò che solitamente intendiamo con abitare10.

Una tale dialettica è stata riscontrata in modo preciso da Didi-Huberman quando si chiede:

Che cosa significa abbandonarsi alla cosa? Essere sul posto, di certo. Vedere sapendosi guardati, coinvolti, implicati. E più ancora: restare, rimanere, abita-re un certo tempo in quello sguardo, in quell’implicazione. Fare di questa durata un’esperienza. Poi, fare di quest’esperien-za una forma, esplicare un’opera visiva. […]. Non solo la conoscenza conosce a sua volta dei momenti d’emozione, ma certe cose – le cose umane – sono inoltre suscettibili d’interpretazione e di esplica-zione solo attraverso il percorso necessa-rio di una comprensione implicativa, di una “presa su di sé”, di una prensione quasi tattile dei problemi trattati […] in quel momento, l’oggetto della conoscen-za è riconosciuto per essere intimamen-te all’opera nella costituzione stessa del soggetto che conosce (Didi-Huberman 2009: 254; 260).

Siamo così giunti nel punto in cui il patico si converte in aptico, dove – detto in altri termini – ciò che è visto e sentito può essere toccato: è come se anche noi fossimo in quella stanza dove si svolge il confronto tra Padre Flynn e Suor Aloysius. Una so-glia, quella accennata in queste note, già segnalata da Merleau-Ponty quando osser-vava che «Dobbiamo abituarci a pensare che ogni visibile è ricavato dal tangibile, ogni essere tattile è promesso in un certo qual modo alla visibilità; e che c’è sopra-vanzamento, sconfinamento, non solo fra il toccato e il toccante, ma anche fra il tan-gibile e il visibile che è incrostato in esso. […]. Ogni visione si effettua in qualche luogo dello spazio tattile» (Merleau-Ponty 1993: 150-151). Si tratta di una proiezio-ne partecipativa resa ancor più evidente dal dispositivo filmico.

Come scrive Giuliana Bruno,

il cinema è un fantasioso giocattolo ar-chitettonico, una casa di “trasporti”. È una macchina che espande la nostra ca-pacità di mappare il mondo ampliando il nostro apparato sensorio. Mettendoci a confronto con il nostro ambiente, il ci-nema offre visioni toccanti e al contempo esplora la relazione tra moto ed emozio-ne, spazio voluttuoso dell’emozione. [...]. Il cinema ha dotato il soggetto moderno di una nuova tattica per orientarsi nello spazio e per dare un “senso” questo mo-vimento, che include il moto delle emo-zioni. [...]. In quanto dimora delle im-magini in movimento, il cinema, come la casa in cui viviamo è profondamente abi-tabile. [...]. Fa appello alla sua emozione per diffonderla. E lo fa tangibilmente. (Bruno 2002: 183; 227)11.

Conclusioni

Il percorso seguito in queste note è partito, a) dalla considerazione della stra-tificazione operante all’interno dell’argo-mentazione in cui possono essere distinti due momenti, piano semantico, relativo ai contenuti, e piano non semantico, ri-feribile alla presentazione dei contenuti e al loro effetto sull’uditorio. Due aspetti distinti, come si è visto, ma indistricabili. Si è cercato, b) con riferimento ad alcuni momenti specifici della storia del cinema (Kulešov e Canudo) di mostrare la rile-vanza delle dimensioni non semantiche operanti nella significazione filmica. Infi-ne, si è provato, c) a verificare, muoven-do dal film Doubt, il modo in cui le due dimensioni, semantica e non semantica, interagiscono consentendo l’azione della funzione patica.

Mentre si pone come un capitolo di fi-losofia del cinema, il discorso affrontato in questa sede rinvia, dunque, ad un aspetto più generale di una teoria del conoscere resa possibile per la congiunzione di due aspetti, sentire e capire12.

Al di là delle scelte terminologiche, l’universo concettuale richiamato da que-sto scritto risulta denso di significative

Canudo

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attestazioni. Ad una delle più alte testimo-nianze di questo universo, alle parole di Maria Zambrano, vorrei fare riferimento nel congedarmi dal lettore:

Ci dev’essere stato un momento iniziale in cui sentire e capire non erano separati, quel momento iniziale del conoscere che è abbastanza indifferente situare o no in un tempo determinato, in un illo tem-pore più o meno preciso, dato che ogni inizio è insieme una meta: dove esso si dà in tutta la sua purezza attiva, lì è il luogo della “conoscenza che si cerca”. All’inizio del conoscere, il capire e il sentire non avrebbero potuto vivere separati; e il con-trapporli, giocando sulla separazione de-terminatasi in seguito, dà la misura della distanza che separa chi così si conduce da questa conoscenza che si cerca – e che è presente fin dall’inizio (Zambrano 1992: 93-94).

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Endnotes1 Contestualmente Louis Delluc conierà

con significato analogo ed intenti simili il termi-ne di cinéaste.

2 È questo il motivo per cui all’inizio Ca-nudo parla del cinema come della nuova “sesta” arte.

3 Corsivo mio. Si veda anche (Mossetto 1973).

4 Aggiungerei infatti che senza il ricorso alla paticità non potrebbe esserci esserci l’esperienza (experientia, Erfahrung), colta in uno dei suoi prin-cipali significati, nel senso di costituzione di un og-getto, idealità di una rappresentazione.

5 Doubt (USA 2008) di John P. Shanley. Con Meryl Streep, Philiph Seymour Hoffman, Amy Adams, Viola Davis, Lloyd Clay Brown.

6 Script del film Doubt, p. 8. Lo script è rinvenibile all’indirizzo: miramaxhighlights.com/uploads/Doubt_Script%5B1%5D.pdf

7 Un’ulteriore declinazione di questo atteggiamento è rinvenibile nel film The Visitor (USA 2007) di Thomas McCarthy.

8 Script di Doubt, p. 82.9 La caratterizzazione di una tale espe-

rienza era già intuibile dalla corrispondente spa-zializzazione delle metafore con cui sono venuto indicando il progressivo avvento della facoltà pa-tica nello spettatore: «prendere posizione», «venir meno della distanza».

10 Del resto, il verbo latino habitare pre-senta un raccordo con habere, significativo pro-prio per il fatto di implicare il possesso, l’avere. Si tratta di una dimensione che esplicita quel venir meno della distanza cui alludo in questa parte dello scritto.

11 Il completamento del discorso con-dotto in questo saggio dovrebbe passare per una interrogazione sullo statuto stesso dell’immagine filmica. Se, infatti, come Barthes aveva avvisato, «L’immagine è lì, davanti a me, per me: coale-scente (significante e significato ben fusi insie-me). […]» (Barthes 1994: 148), occorre torna-re ad interrogarsi sulla valenza e la struttura di una tale coalescenza. Come ho indicato altrove (Scarafile 2004, ma anche 2003), la specificità di funzionamento dell’immagine filmica può essere indagato con profitto richiamando la distinzio-ne tra «segni indicativi», o segnali (Anzeichen) e i «segni espressivi» o espressioni (Ausdrücke) di cui Husserl parla nella Prima della Ricerche logi-che. In tal senso, l’immagine fornisce dunque un esempio di percorso necessario per un approccio fondativo di una filosofia del cinema, che pur riconoscendo piena validità al fenomeno ritiene di non potersi soffermare ad esso. L’immagine filmica, dunque, è essa stessa un segno espressi-vo: perché, mentre mostra la possibilità di una processione oltre il puro dato fenomenico è, essa stessa, prova provata dell’esistenza di un ordine eidetico.

12 Vorrei segnalare che lo stesso tema del patico consente un rinvio alla struttura stessa dell’espressione che, come ha sottolineato Fran-zini, segna «una sintonia affettiva tra l’essenza del mondo e in sentire precategoriale dei soggetti» (Franzini 2005: 5)

Kulešov

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MEDICINA | TESTIMONIANZA

IL MEDICO COME ARTISTA

Aldo Casto

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I dubbi del medico. Quando la professione diviene vocazione di ricerca della verità.

«L’età dell’uomo scorre velocemente ed in più è difficile ed in-certa, mentre al suo

confronto la medicina non ha confini es-sendo basata completamente su congettu-re e legata ad elementi instabili», scrisse Plinio.

Se la medicina è un’arte, questo non esime il medico dal conoscere il “tutto” di tante discipline, fuggendo dalla pri-gione costruita dall’abitudine, per tentare sempre, studiando, di migliorare coloro – come sostiene Galeno - «che perdono tem-po tergiversando e mettendo in seconda linea l’essenziale».

Avrei dovuto conoscere queste citazio-ni prima di decidere di studiare per diven-tare un medico: forse avrei cambiato idea ed avrei studiato qualcos’altro. Ma per me iniziare la scuola elementare e voler diven-tare un medico è stata una azione simul-tanea. Non sapevo ancora scrivere, ma ho iniziato la scuola elementare con un sogno: diventare un medico.

Non so come mi sia venuta questa passione. Ho però la piena consapevolez-za che essa è stata alimentata da un sacro fuoco interiore il cui carburante proveniva dal profondo della mia anima. Un fuoco che non si è mai spento, anche quando ho incominciato a guardare il mondo non più con gli innocenti occhi di un bambino, ma con quelli di un adolescente sognatore prima e poi con quelli di un adulto disin-cantato. Ancora oggi esso arde e riscalda la mia anima, mi sorregge la mente e man-tiene caldo il cuore anche quando verrebbe voglia di ritirarsi in silenzio, amareggiati dallo scadimento del rapporto umano e professionale fra medico e paziente.

In questi anni, è cambiata in me l’idea che avevo della medicina in qualità di

scienza. Ho sempre pensato, come credo tutti i pazienti immaginano, che la medi-cina fosse una scienza esatta. Ebbene, non lo è.

Mi spiego meglio. Ho sempre credu-to che a un corredo sintomatologico cor-rispondesse una diagnosi e quindi una terapia. Niente di più sbagliato. Esistono svariate malattie che possono manifestarsi con lo stesso sintomo ed esistono numero-se modalità di curare una stessa malattia. E poi, il corpo umano, questa meravigliosa e straordinaria macchina, non reagisce in modo uguale allo stesso insulto patologico e ad una medesima terapia.

E l’aspetto più divertente di questa sco-perta è che io mi ritrovo ad essere non uno scienziato alla Galileo Galilei o alla Isaac Newton, secondo i quali se una mela si stacca da un albero, deve necessariamen-te cadere al suolo, se siamo sulla terra. Mi ritrovo piuttosto ad essere un artista, tipo un musicista, che ascoltando le note emes-se da un essere umano (corredo sintomato-logico) deve avere la capacità di comporre uno spartito (fare la diagnosi) che sia orec-chiabile (la giusta terapia) ed accattivante (guarigione della malattia).

Per me è stato uno shock molto vio-lento aver capito di non poter fondare l’attività di medico sulla certezza di tipo matematico, ma di dover agire costante-mente con la metodologia del ragionevole dubbio. Avrei dovuto leggere prima l’opera di Leonardo Botallo, famoso medico asti-giano del ‘500 che scriveva «L’Arte è ben riuscita nel suo compito quando per tutto il decorso della malattia non è stato omes-so nulla di quanto comanda, o compiuto quanto essa vieta».

In un primo momento vi è stata la de-lusione di non essere uno scienziato, ma

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solo un artista seppur non nell’acce-zione comune del termine. In seguito si è aggiunta la scoperta di quanto sia stressante l’esercizio dell’Arte Medica.

Provate ad immaginare di essere invisibili in modo da poter assistere ad una visita. Poniamo il caso che si pre-senti in ambulatorio un paziente che ci riferisce della comparsa di un sinto-mo molto comune come può essere la tosse. Tutti sappiamo che la tosse può essere la spia di una banale faringite, oppure di una bronchite o l’esordio di una neoplasia polmonare o del cavo oro-faringeo. Oppure, peggio anco-ra per me, il sintomo di una malattia psichica o l’espressione di un disagio psicologico. Bene, di fronte ad un pa-ziente che tossisce, cosa dovrei fare? Visitarlo, è ovvio, raccogliere un’ac-curata anamnesi, è banale, ma devo prescrivere al paziente tutti gli esami possibili ed immaginabili per escludere o confermare una patologia? Un tale modo di agire sarebbe improponibile. Saremmo infatti la causa di un ulte-riore allungamento delle liste di attesa per eseguire un esame. Non mi rimane dunque che cercare di scoprire quale sia l’eziologia della tosse del paziente, dando il via all’apertura di tutti i files della mia memoria. Questo però può non essere sufficiente ed allora via ad aprire i files dei documenti salvati nella galleria-immagini, nella quale abbiamo immagazzinato tutti i volti dei pazienti che abbiamo visitato e che presentava-no quello stesso sintomo (esperienza personale diretta). Ma a volte anche questo non basta e allora apriamo altri

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files, quelli della memoria condivisa, tutto ciò che ci si scambia durante la partecipa-zione a corsi, congressi e stages (esperienza clinica indiretta).

Tutto questo lo devo necessariamente eseguire mentre visito l’ammalato, mentre gli parlo e prima che io dica anche soltanto una parola: il paziente vuole una risposta che io devo dare alla fine della visita. Non può tornarsene a casa senza che io abbia formulato un’ipotesi diagnostica. Il pa-ziente deve andare via con una certezza che io potrei ancora non avere. È quello che io chiamo la rappresentazione del dramma della diagnosi: nonostante ci si possa affan-nare a studiare, a leggere, ad aggiornarsi, si

è pienamente consapevoli di avere una co-noscenza limitata. Questo al paziente non lo si può dire e nel contempo non si può essere così superficiali da tranquillizzare o allarmare inutilmente l’ammalato, che se-duto di fronte a te sta osservando ogni mi-nima espressione del tuo viso e ogni infles-sione della tua voce, per cercare di capire se sia affetto da una malattia grave o lieve.

E mentre l’ammalato ti sta osservan-do in trepida e speranzosa fiducia nelle tue capacità divinatorie, il medico che è in te piomba nella tragedia nel momento in cui si chiede quanto sia grande e completo il suo sapere. Infatti, la consapevolezza che ogni singolo medico possiede una cono-scenza limitata non solo della medicina in toto, ma anche della singola specializzazio-ne che egli possiede plana sulla tua anima e come un’aquila rapace ghermisce la tua baldanzosa sicurezza, raggiungendo l’acme del tormento interiore quando si scopre che la cosiddetta medicina ufficiale non cono-sce l’eziologia di tutte le malattie né cono-sce la terapia per ogni malattia. Per chiarire le cose, illustro un esempio che riguarda la mia specializzazione. Le cause del mal di schiena (il cosiddetto low back pain, per chi volesse cimentarsi in una ricerca in in-ternet) sono tante, alcune ben conosciute e che hanno un iter diagnostico terapeutico ben definito e standardizzabile, tale da far ripensare che la medicina potrebbe essere una scienza esatta (ernia del disco, instabi-lità vertebrali, stenosi del canale vertebrale ecc. ecc.: diagnosi-trattamento-guarigione), ma anche altre cause non conosciute, non documentabili (esami strumentali negati-vi), non responders alle terapie farmacolo-giche e fisioterapiche tradizionali. Eppure, queste cause sono poi trattate e guarite da osteopati o agopuntori.

Purtroppo oggi si è indotti a credere

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che il medico si diventato il Signore della vita e della mor-te, grazie ai numerosi progressi della biotecnologia. Le molte trasmissioni televisive ci fanno apparire imbattibili ed invin-cibili, facendoci dimentica-re quello che Galeno diceva: «L’età dell’uomo scorre veloce, oltre che ad essere difficile ed incerta, mentre al suo confron-to la medicina non ha confini, basata com’è completamente su ipotesi e legata ad elementi in-stabili, soggetti a numerosi ed improvvisi mutamenti».

Il medico allora deve fare la sua parte, che è quella di stu-diare, imparare, esercitarsi, spe-rimentare e confrontarsi con il mondo scientifico. Tutto que-sto e molto altro deve fare un medico per essere apprezzato e per perfezionarsi nell’esercizio dell’arte medica. Ma il rappor-to medico-paziente è influen-zato da tante variabili. Riporto un altro passo del Botallo: «Ma neanche è sufficiente che il me-dico non si perda in frivolezze, che si dedichi ai fondamenti dell’arte e viva rettamente; la sua corretta applicazione ri-chiede ben altre qualità oltre a queste, in modo da essere ac-colto con fiducia e gratitudine dagli ammalati e da quanti li assistono. Il medico, a sua vol-ta, riesce a procurarsi la fiducia dei pazienti, quando felice-mente applica con la sua arte le conoscenze apprese nelle lezio-ni e nei libri. Ma non sempre l’aver riacquistato la salute fa lodare il medico, né un decesso ne diminuisce il prestigio, ma ambedue - lode e diminuzione di prestigio - possono essere ge-nerati sia dall’uno che dall’altro

esito. Non vi è lode per il medi-co quando, invece della morte precedentemente pronosticata, sopravvenga la guarigione op-pure che una malattia prevista di lunga durata abbia un decor-so rapido o che invece di uno breve abbia un lungo decorso e anche quando nessun effetto produca una medicina, oppure sia il malato sia coloro che gli sono vicino ricusino un qual-che procedimento curativo che il medico abbia dichiarato esse-re il solo capace di guarire”.

Non mi rimane che descri-vere un medico perfetto degli anni 2000 facendolo fare anco-ra una volta ai maestri del pas-sato: «Il medico saggio, onesto ed esperto, che non cerca facile popolarità, ma saldo prestigio, non solo non deve raccontare frottole, ma cercare con tutte le sue forze di essere franco con parole ed azioni. In tal caso i pazienti e coloro che li assistono gli attribuiranno una meritata fiducia. A far sì che un medico sia perfetto è colui che sbaglia di meno ed esercita nel miglior modo la sua arte non trascu-rando ciò che solitamente ha influenza sul paziente e cioè il portamento, il modo di parla-re, l’aspetto, l’abito, il taglio dei capelli, le unghie, l’odore della persona». Ed ancora «È di per se stessa una ricompensa presta-re la propria opera ai derelitti. Puoi considerare povero colui che, pur riconoscendo di dover pagare il medico con otto, tre, una liretta, e anche meno, non abbia sottomano o custodito il denaro per l’onorario e per ac-quistare ciò che si è prescritto; se questi non è un indigente, consideralo allora un avaro; in

entrambi i casi comunque ti conviene prestare la tua opera senza pensare a qualche vile ri-compensa, se non vuoi appari-re più povero del povero e più avido di denaro del più sordido avaro».

Come avevo detto all’ini-zio, dunque, la figura ideale del medico descritto dal Bo-tallo nel XVI secolo continua ad esercitare il suo fascino per tutti noi, soprattutto quando veniamo a trovarci nella condi-zione di non essere più in per-fetta salute.

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Debenedetti Franco; Pilati Antonio, La guerra dei trent’anni. Politica e televisione in Italia (1975-2008), Einaudi 2009

Quattro quesiti referendari, diciotto sentenze della Corte costituzio-nale, un paio di crisi di governo: per trent’anni, la questione televisiva si è intrecciata con le vicende politiche italiane. Non è successo in nessun altro Paese occidentale; in nessuno il proprietario di quasi metà dei canali televisivi nazionali si presenta alle elezioni cinque volte in quattordici anni, per tre volte le vince e diventa capo del Governo. Più di trent’anni è du-rata la “guerra” televisiva. Le sue radici affondano nella critica all’industria culturale. Le sue battaglie sono state parte di un gioco che aveva per posta l’assetto politico del Paese: gli anni Ottanta, l’ascesa del Cavaliere, il formarsi dell’Ulivo e la sua fine con la caduta del Governo Prodi, le leggi Maccanico, Gasparri e Gentiloni, la travagliata esistenza del PD, il naturale alternarsi dei cicli politici. E, ora, i giorni scuri in cui alcuni potrebbero per-dere fiducia nel futuro del capitalismo. Da trent’anni la questione televisiva ingombra la scena politica italiana. Può essere piantata come bandiera dell’opposizione al centrodestra berlusconiano. Oppure può essere stu-diata per capire le cause delle tante anomalie italiane, di cui fa parte.

Fazioli Biaggio Erina, Video dipendenti o videointelligenti? Per un uso corretto della televisione, Red Edizioni 2009

La televisione ha invaso le nostre case con una presenza ingom-brante, dominante, soprattutto sui bambini. Televisori sempre più tecno-logici sono entrati in tutte le stanze e una miriade di canali, digitali e non, fornisce un’offerta praticamente illimitata a ogni ora del giorno. Ma non è detto che sia una sciagura, occorre semplicemente imparare a utilizzarla con intelligenza, senza demonizzarla. Questo libro è un aiuto per imposta-re un rapporto con la televisione maturo e consapevole partendo da tante situazioni quotidiane diffusissime. È rivolto ai genitori, ma grazie ai dise-gni può catturare anche l’attenzione dei bambini un po’ più grandi. Oltre ai consigli e alle riflessioni dell’autrice raccoglie citazioni di Anna Oliverio Ferraris, psicologa; Giancarlo Rigon, neuropsichiatra infantile; Vera Slepoj, psicologa; Bruno Bettelheim, psichiatra; Cristina Lastrego e Francesco Testa, scrittori, e molti altri..

Marinozzi Francesco, Lo schermo del quotidiano. Lo spetta-colo nella neo-televisione, Effatà 2009

La televisione è, oggi più che mai, un linguaggio spettacolare, una simulazione volta a mettere in scena la vita: l’ordinario, il consueto, il quo-tidiano, presentato come tale. Nel tentativo di avvicinarsi allo spettatore, dunque, il broadcaster parla con il linguaggio dell’esistenza, cioè porta, riproduce e fa rivivere la vita di tutti i giorni. È questo lo spettacolo nella televisione contemporanea, né più né meno che una “simulazione della quotidianità”. La tv tende a diventare uno strumento di puro intratteni-mento, pienamente e felicemente inserito in un regime di concorrenza, in un regime, cioè, dove quasi ogni mezzo è lecito per “rosicare” ascolti all’avversario, dove il divertire dev’essere un servizio a portata di mano, un servizio accessibile in qualunque momento della giornata. Il testo analizza le caratteristiche attuali del medium televisivo a confronto con la tv delle origini, segnata da un forte intento pedagogico. E suggerisce allo spetta-tore chiavi di lettura e interpretazioni per un utilizzo critico del mezzo.

Demattè Claudio; Perretti Fabrizio, Economia & management della televisione. Nuova edizione de «L’impresa televisiva», Etas 2009

La televisione rappresenta ancora lo strumento di comunicazione più diffuso in tutto il mondo, assorbe gran parte del tempo libero delle persone ed è il mezzo di informazione e intrattenimento più utilizzato. Per questo non stupisce il gran numero di libri che ne parlano - dei suoi pro-

grammi, degli effetti sui comportamenti sociali, dei rapporti con la politica, del suo impatto su questo o quel fenomeno della vita quotidiana... Pochi sono però i testi che analizzano la televisione come fenomeno di imprese che perseguono obiettivi economici. Che cosa significa gestire un’impre-sa televisiva? Quali sono le attività e le logiche per fare arrivare sugli scher-mi quello che vediamo tutti i giorni? Su quali componenti economiche si regge l’attività televisiva e come condizionano i programmi da trasmet-tere e le relative fasce orarie? Nuova edizione completamente rivista ed aggiornata (anche nel titolo) del primo testo sull’argomento, “L’impresa televisiva”, il volume risponde a queste domande e offre a tutti coloro che studiano, lavorano o sono interessati alla televisione uno sguardo ampio e profondo sulla dimensione economica e manageriale della sua realtà complessa.

Ercolani Stefania, Rognoni Carlo, Da mamma Rai alla Tv fai da te. Guida alla televisione di domani, RAI-ERI 2009

C’era una volta la televisione... e sempre ci sarà. Quello che cambia è il modo di vederla. Siamo passati “da mamma Rai alla tv fai da te”, da un consumo passivo a un uso interattivo, dall’idea di un televisore caminetto intorno al quale raccogliere tutta la famiglia a uno schermo in ogni stanza. Di più, alla tv sul computer, sul telefonino, a casa, in ufficio, in mobilità. Se una volta si manteneva solo con il canone e poi con la pubblicità, adesso si nutre e divora milioni di abbonamenti a pagamento. La pay tv, la pay per view, il video on demand raccolgono ormai un terzo di tutte le risorse del sistema radiotelevisivo. È una rivoluzione: che parte dalle tecnologie digi-tali, dalla convergenza fra tv, telefono e computer, per arrivare a sconvol-gere le abitudini, il costume, l’economia degli individui. Non va dimenticato mai che dopo il sonno e il lavoro guardare la tv è ancora oggi in assoluto l’attività che ogni giorno occupa più tempo. Che cosa è e come si costrui-sce un palinsesto? Perché si parla di meticciato dei generi tv? Che cosa è

“la stagione di garanzia” e chi se l’è inventata? Quanto pesa aggiudicarsi i diritti sportivi? Perché nella battaglia degli ascolti la fiction rende di più di un film? Che cosa è un mux? Serve ancora il servizio pubblico e se sì come dovrebbe cambiare la Rai? Siamo sicuri che le leggi che abbiamo siano all’altezza dei nuovi tempi? Perché il rapporto fra partiti e televisione continua a creare problemi?

Maio Barbara, La terza golden age della televisione, Edizioni Sabinae 2009

La serialità televisiva, la cosiddetta “fiction”, rappresenta oggi un te-sto dal valore altissimo in termini di prodotto culturale ed economico. Dal 1996, anno in cui Robert J. Thompson pubblicava “Television’s Second Golden Age”, le produzioni di “tv di qualità” sono sempre più diventate la norma nei palinsesti contemporanei. Questo volume analizza la seria-lità televisiva contemporanea alla luce di elementi produttivi, autoriali e di cultura popolare in un’era che è possibile definire Terza Golden Age della Televisione.

Sensi Giulio, Informazione, istruzioni per l’uso. Vademecum per un consumo responsabile di giornali, radio e televisioni, Terre di Mezzo 2009

Viviamo il paradosso di una società in cui siamo in grado di raggiun-gere ogni angolo del pianeta attraverso i mezzi di comunicazione, eppure siamo sempre meno informati. I grandi mezzi di comunicazione sono in mano a pochi gruppi multinazionali, e dipendono sempre più dalle pubbli-cità e dagli inserzionisti. Questa piccola guida spiega come districarsi nel panorama dei media, come “difendersi” dall’informazione, ovvero come

“leggere” le notizie e come selezionarle, e indica le fonti migliori dove trova-re quello che giornali e tv trascurano o censurano.

consigli di lettura | televisione

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SOCIOLOGIA

I paradossi dell’opinione pubblica e della democrazia

VEDI BUIO, FORSE È LUCE

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1. José Saramago: una decostruzio-ne allegorica della democrazia

«Non fidarti dei tuoi occhi/delle orec-chie tue diffida/ vedi buio/ forse è luce» (Brecht 2005: 112).

Quando Brecht scrisse questi versi an-cora la società non era così complessa come oggi, ancora il mondo si poteva esperire in modo più immediato, ancora la nostra conoscenza della realtà non era così affida-ta ai media della comunicazione di massa. Brecht, però, probabilmente già pensava che «ciò che conosciamo quando cono-sciamo la realtà, è tutt’altro che la realtà» (Luhmann 2000: 12). Già pensava che fos-se necessario approcciarsi in modo diverso alla realtà, estraniarsi da essa, adottare un altro punto di vista, raggiungere una di-stanza critica.

I paradossi dell’opinione pubblica e della democrazia

VEDI BUIO, FORSE È LUCE

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Probabilmente lo scrittore premio No-bel José Saramago aveva in mente questo verso di Brecht, quando ha pensato agli abitanti di un paese che così, all’improv-viso, perdono la vista, a causa di una in-spiegabile epidemia di Cecità. Poteva essere nera, come ogni cecità, ma Saramago, non a caso, ha pensato alla luminosità di una ce-cità bianca: forse proprio perché aveva letto quel verso di Brecht e pensava che nella ce-cità, paradossalmente, si potesse vedere di più o, quantomeno, vedere di non vedere. Per comprendere appieno il senso di questo libro è però necessario leggere anche la sua continuazione ideale: Saggio sulla Lucidità. Dalla sintesi di queste due allegorie, infat-ti, si può rintracciare una narrazione degli inganni dell’Illuminismo, del fallimento di un progetto che mirava a democratizzare il potere politico a partire dall’invenzione dell’opinione pubblica, cioè di un nuovo soggetto in grado di vedere il mondo tra-mite i lumi della ragione. Raccontando la cecità della modernità, Saramago nega l’utopia illuminista di pensare che la critica razionale di ogni cosa consentisse anche la presa su ogni cosa e quindi anche la presa del potere: dalla ragione universale al pote-re universale, come se la critica e il trasferi-mento della sovranità al popolo fosse dav-vero il potere del popolo. Nel secondo libro Saramago riprende i protagonisti di Cecità probabilmente perché, dopo aver criticato le capacità critiche dell’opinione pubblica, sente l’esigenza di criticare le possibilità di partecipazione che sono offerte al popolo dalla democrazia rappresentativa. Raccon-tando l’assurdo di un intero popolo che va a votare e vota scheda bianca, Saramago vuole dimostrare come il potere dell’opi-nione pubblica è consentito fino a quan-do l’opinione pubblica si attiene ad essere funzionale alla conservazione del sistema politico. Invece, la sua utopia eversiva è che tutti partecipino e votino, ma tutti scheda bianca. È come se la cecità bianca avesse consentito a tutti di vedere cosa si nascon-de dietro la democrazia e di trovare l’unico modo non violento per rendere evidente il suo paradosso. Questo è il saggio di Sara-

mago sulla democrazia, il suo Saggio sulla Lucidità. È chiaro che quella descritta dallo scrittore portoghese è una lucidità altamen-te improbabile, se non impossibile, ma è il suo modo estremo per vedere e far vedere buio. O forse luce.

Cosa si vede, allora, quando si osserva democrazia? Come è possibile capire che ogni verità, e quindi anche quella democra-tica, è solo un’invenzione di un bugiardo? (Von Foerster, Porsken 1994). Chi è allo-ra, il bugiardo? Qual è la menzogna che si nasconde dietro democrazia? Quale il suo paradosso?

2. L’illuminismo sociologico dei paradossi

I paradossi sono sempre stati giudicati come ostacolo all’argomentazione, fino a quando una teoria, quella dei sistemi, non li ha utilizzati come piedi di porco per scar-dinare quella che le dogmatiche chiamano realtà, e per scoprire che dentro, o sotto, non c’è poi niente. O forse c’è tutto, e tutto quello che ogni osservatore ci vuole mettere per conservare il suo potere di auto-legit-timare le sue descrizioni e decisioni, come vincolanti. Paradossi sono, pertanto, quei termini che nascondono in sé il contrario di ciò che presentano. Essi vengono accettati solo perché resi delle autoevidenze e quindi non problematizzati. Se si assume, invece, che i concetti non designano significati, ma hanno solo la funzione di ridurre un pro-blema tramite la percezione di chi l’osserva, si comprende come il concetto di democra-zia presenti solo l’abbagliante idealità della partecipazione del popolo al potere, ma oc-culti la fattualità di una partecipazione che è limitata al procedimento elettorale, alla scelta di scelte già pre-selezionate. Osserva-re i paradossi non significa proporre solu-zioni, ma quantomeno vedere di non vedere, capire che ogni descrizione della realtà ope-ra per distinzioni e ogni distinzione preve-de un’altra parte che ogni volta viene elusa. Osservare il paradosso significa illuminare l’altra parte e quindi descrivere i paradossi

della democratizzazione vuol dire osservare il lato oscuro di quel processo che ha portato gli uomini dall’obbedienza alla tradizione o al carisma di un sovrano all’obbedienza alle norme poste dalla ragione. Il lato oscuro è quel lato che se fosse stato visto avrebbe inceppato il sistema, bloccato le sue opera-zioni, perché avrebbe chiarito che le con-dizioni della possibilità di un’operazione sono contemporaneamente anche le con-dizioni della sua impossibilità. Osservare il paradosso, pertanto, non significa risolvere un problema, ma ampliarlo, riconsiderarlo nella sua complessità, consegnarsi nuova-mente al buio.

Il processo di democratizzazione del potere politico occidentale è descrivibile in infiniti modi. Qui, però, presenteremo brevemente soltanto due di questi, perché essi consentono anche di strappare il cielo di carta dietro cui si nasconde il paradosso di questo processo. Il primo modo ci permette di osservare il paradosso del principio illu-minista di pubblicità ed è l’analisi dell’evo-luzione del rapporto tra il concetto di po-tere e quello di pubblico; il secondo modo consente invece di descrivere la funzione di controllo attribuita dal potere all’opi-nione pubblica, a partire da una possibile relazione tra i sistemi politici occidentali e il sistema religioso cristiano. La genealogia della democrazia rappresentativa, cioè, può essere descritta a partire dal momento in cui il pubblico borghese, cioè il pubblico dei privati proprietari, percepisce come problema la sua non-autonomia dal potere del sovrano e percepisce gli arcana imperii come ostacolo all’obiettivo della propria in-dipendenza. Chi osserva il potere assoluto del sovrano come un problema è quindi la razionalità illuminista del nascente pubbli-co borghese, che è anche il “bugiardo” che inventa e presenta all’altra parte del pubbli-co, quella dei non-proprietari, una nuova forma di potere: la democrazia. Con essa, da una parte si concede libertà e sovrani-tà e, dall’altra, imitando i dispositivi della pastorale cristiana, si adottano le discipline affinché il potere concesso resti un potere docile.

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3. Il paradosso della pubblicità del potere

A partire dal XVIII secolo, quando i concetti di pubblico e di potere si diffe-renziano, cioè quando pubblico smette di coincidere con potere e di essere un suo at-tributo, si frantuma la struttura gerarchica del potere e si forma una nuova struttura circolare. Circolarità è possibilità di preve-dere giuridicamente non solo un potere del potere politico sul pubblico, ma anche un potere del pubblico sul potere politico, se si indica, con pubblico, «la popolazione con-siderata dal lato delle sue opinioni, dei suoi modi di fare, dei suoi comportamenti [...]» (Foucault 2005: 66). Un punto di vista in-trodotto dalla nuova filosofia utilitarista e dal nascente pensiero liberale.

Intorno a questa nuova idea di pub-blico, tuttavia, non è stato solo possibile costruire una nuova struttura del potere, o una nuova costruzione normativa, ma an-che il cielo di carta che occulta i paradossi delle nascenti democrazie. Da pubblico, in-fatti, si sono derivati concetti come pubbli-cità e opinione pubblica che hanno avuto la funzione di presentare la democratizzazione del potere, ma anche di coprire i paradossi della nuova struttura circolare. Pubblicità e opinione pubblica nascondono in sé, cioè, il problema degli arcana e quello della so-vranità popolare.

La differenziazione tra potere e pub-blico, e quindi la democratizzazione del potere, è possibile solo nel momento in cui, in età liberale, la sfera privata, contem-

poraneamente all’economia, guadagna la propria autonomia dalla regolamentazio-ne mercantilistica dello Stato. Nello stes-so momento il concetto di pubblico può evolvere semanticamente e funzionalmen-te, acquisendo anche una nuova referenza, che rende anch’esso autonomo dal potere. Prima, invece, pubblico era un termine che non poteva essere scisso dal concetto di po-tere. Durante l’assolutismo, infatti, pubbli-co si riferiva esclusivamente a tutta la sfera che atteneva lo Stato, così come, durante il Medioevo, publicus era addirittura sinoni-mo di signorile.

Solo a partire dal XVIII secolo, con la diffusione della filosofia utilitarista e del pensiero liberale, pubblico smette di coin-cidere esclusivamente con potere. Pubblico

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non indica più soltanto il potere statale, ma anche quei privati che, in possesso di pro-prietà e di cultura, si riuniscono come pub-blico letterario prima, e politico poi. Sono questi privati che, in segreto, si riuniscono come pubblico e portano avanti la lotta alla struttura gerarchica del potere. La moderna società civile, presupposto di un potere de-mocratico, è infatti, come sostiene Lessing, frutto della Libera Massoneria, cioè di quel-le associazioni segrete di privati che aspira-no a frantumare la struttura gerarchica del potere e il particolarismo dei privilegi con-nessi a quella struttura: «per sua natura, la massoneria è tanto antica quanto la società borghese. Entrambe non potevano che na-scere contemporaneamente, se addirittura la società borghese non è un rampollo della massoneria» (Koselleck 1972: 87). Da que-sta prospettiva, l’opinione pubblica come soggetto storico riesce a imporsi come terzo potere accanto allo Stato e alla Chiesa non grazie alla pubblicità, ma piuttosto grazie

al segreto. L’opinione pubblica, pur criti-cando i misteri della Chiesa e gli arcana del sovrano, nasce ad imitazione di entrambi, perché anch’essa si fonda sul segreto. Il pa-radosso è che il principio illuminista della pubblicità, fondato sulla visibilità e l’acces-sibilità, da un parte si contrapponesse agli arcana imperii e dall’altra fosse professato nelle riunioni segrete di privati: la lotta al segreto, in sostanza, inizia col segreto. An-cor più paradossale è che questi privati, nel-la costruzione del moderno Stato di dirit-to, non hanno dimenticato la loro passata esperienza del segreto e anziché distruggere gli arcana imperii, hanno fatto in modo che potessero nascondersi in una forma più moderna e civile, nonché legittima: il se-greto di Stato. I privati, una volta divenuti pubblico, hanno potuto, cioè – dietro un sistema di norme – mettere a frutto, la loro passata esperienza del segreto, nella moder-na giuridica costruzione paradossale, che include contemporaneamente pubblicità e

Segreto di Stato, ma che esclude il segreto fuori dallo Stato (arcana seditioniis). Il po-tere visibile dello Stato ha diritto a rendersi invisibile in base al diritto, invece le nuove associazioni (di privati) non hanno diritto ad essere segrete. La società civile, nata dal-la Massoneria, con la costruzione dello Sta-to di diritto, si difende quindi dal rischio che altri privati, riuniti in segreto - così come essa alla sua origine - possano mi-nacciare il nuovo potere visibile; e, nel frat-tempo, si autogarantisce di poter ripetere la propria esperienza del segreto, ma questa volta all’interno del nuovo Stato civile. Il potere moderno ha diritto ad essere potere (pubblico), ma ha diritto anche ad essere segreto, nei limiti posti dal diritto, che a sua volta è posto dal potere. Nonostante il principio della pubblicità, quindi, solo le associazioni segrete (dei nuovi privati) sono vietate (art. 18 della Costituzione italiana), mentre gli arcana imperii continuano ad esistere, e legittimamente: ciò che cambia

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Per un approfondimento dei temi del saggio si veda:

Bernini, L. 2008. Le pecore e il pastore. Napoli: Liguori.

Cristante, S. 2009. Comunicazione [è] politica. Lecce: Bepress.

Kelsen, H. 1995. La democrazia. Bolo-gna: Il Mulino.

Lippmann, W. 2004. L’opinione pubbli-ca. Roma: Donzelli.

Luhmannn, N. 1978. Stato di diritto e

sistema sociale. Napoli: Guida.Noelle-Neumann, E. 2002. La spirale del

silenzio. Roma: Meltemi.Sartori, G. 2004. Homo videns. Bari: La-

terza.Sartori, G. 2006. Democrazia: cosa è.

Milano: Bur.Watzlawick, P. 1976. La realtà della real-

tà. Roma: Astrolabio.

Letteratura:Borges, J.L. 2005. Finzioni, Torino: Ei-

naudi.Durrenmatt, F. 2007. La panne. Una sto-

ria ancora possibile. Torino: Einaudi.Durrenmatt, F. 2005. Giustizia. Milano:

Marcos y Marcos.Kafka, F. 2005. Il processo. Torino: Ei-

naudi.Pirandello, L. 2007. Uno, nessuno e

centomila. Milano: Garzanti.Saramago, J. 2004. Saggio sulla Lucidi-

tà. Torino: Einaudi.Saramago, J. 1998. Cecità. Torino: Ei-

naudi.

Film:Indagine su un cittadino al di sopra di

ogni sospetto. Regia di Elio Petri. Con Gian Maria Volonté, Florinda Bolkan, Orazio Orlan-do, Gianni Santuccio, Salvo Randone. Italia 1970.

L’onda. Regia di Dennis Gansel. Con Jürgen Vogel, Frederick Lau, Max Riemelt, Jennifer Ulrich, Jacob Matschenz. Germania 2008.

Pasolini, un delitto italiano. Regia di Marco Tullio Giordana. Con Claudio Amen-dola, Giulio Scarpati, Nicoletta Braschi. Italia 1995.

Piazza delle Cinque Lune. Regia di Ren-zo Martinelli. Con Donald Sutherland, Stefania Rocca, Giancarlo Giannini, Nicola Di Pinto, F. Murray Abraham. Italia 2003.

Quarto potere. Regia di Orson Welles. Con Everett Sloane, Paul Stewart, Joseph Cotten, Alan Ladd, Agnes Moorehead. USA 1941.

Sbatti il mostro in prima pagina. Regia di Marco Bellocchio. Con Gian Maria Volonté, Laura Betti, Jacques Herlin, Carla Tatò, Fabio Garriba. Italia 1972.

Segreti di Stato. Regia di Paolo Benvenu-ti. Con Antonio Catania, David Coco, Sergio Graziani, Aldo Puglisi, Francesco Guzzo. Italia 2003.

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è che il segreto statale non è più connesso all’arbitrarietà del sovrano, ma è regolato da un sistema di norme. La differenza è che ora è possibile stabilire, mediante re-gole, i casi in cui sia lecito, da parte dello Stato, l’impiego di segreto. L’oscurità degli arcana imperii è sostituita dalla luminosità dei nuovi segreti-pubblici. Un ossimoro che indica la possibilità paradossale del segreto di Stato.

4. La domesticazione cristiana del-la biopolitica

Così come l’idea di pubblicità ha oc-cultato il nuovo diritto al segreto di Sta-to, allo stesso modo l’opinione pubblica ha reso possibile e legittima l’attribuzione della sovranità al popolo, ma ha nascosto l’artificialità di questa attribuzione e la re-altà di un pubblico che non solo non può avere nella sua totalità opinioni su tutti gli affari della res publica, ma soprattutto non ha alcuna sovranità.

L’occultamento del paradosso della sovranità popolare è stato reso possibile grazie alla combinazione di due filosofie apparentemente contrastanti: da una parte, la nuova filosofia utilitarista e liberale che ha scoperto visibilità, accesso universale e quindi Libertà e, dall’altra, la vecchia filo-sofia pastorale cristiana che ha inventato la disciplina. In sostanza, si può ipotizzare che i Lumi abbiano concesso la libertà e il potere al popolo, quando sono stati suffi-cientemente sicuri che l’acquisizione politi-ca della filosofia pastorale cristiana potesse garantire la docilità politica del popolo, tra-mite l’adozione di dispositivi disciplinari.

Se, in modo formale, il regime rappre-sentativo permette che direttamente o indirettamente, con o senza sostituzio-ni, la volontà di tutti formi l’istanza fon-damentale della sovranità, le discipline forniscono alla base, la garanzia della sottomissione delle forze e dei corpi. Le discipline reali e corporali hanno costi-tuito il sottosuolo delle libertà formali e giuridiche (Foucault 1993: 242).

Foucault propone l’ipotesi che il po-tere politico occidentale abbia mutuato le funzioni del potere pastorale cristiano e che quindi la politica occidentale sia sostan-zialmente un affare da ovile. A suo avviso, cioè, la nascita di un biopotere che si occupa non solo dell’essere, ma anche del ben-essere della sua popolazione è possibile solo per-ché esso è contemporaneamente un potere disciplinare che nell’idea del governo degli uomini riproduce l’idea cristiana della con-dotta delle anime e la figura del pastore che conduce il proprio gregge verso la salvezza. Questo nuovo potere è modesto, se con-frontato con i rituali maestosi e gli eccessi trionfanti dello Stato assoluto, ma è perma-nente e non pensa a distruggere in modo evidente e repentino, ma a manipolare in modo discreto e lento. La sua costanza e la sua attenzione per il dettaglio, inoltre, consentono che la manipolazione dell’in-dividuo possa diventare una vera e propria fabbricazione disciplinare della persona. Questa idea è molto vicina a quella di Elias Canetti della domesticazione del comando, cioè della capacità umana di rendere docili alcune specie animali, in modo da consen-tire loro l’ingresso nella domus. Paragonan-do i due approcci analitici completamente differenti, si potrebbe infatti sostenere con maggiore convinzione che Foucault ritenga che la trasformazione del suddito in citta-dino, cioè il suo ingresso nella domus della sovranità politica, sia stato possibile a parti-re dall’invenzione delle discipline e quindi dall’imposizione alle forze del corpo uma-no dell’utilità economica e soprattutto del-la docilità politica. Del resto l’ipotesi fou-caultiana della trasformazione della politica occidentale in un affare da ovile converge anche in altri punti con l’analisi che Ca-netti svolge in Massa e potere sul cristiane-simo e sull’addomesticamento delle masse religiose, sulla loro trasformazione in «un gregge duttile» (Canetti 2004: 29).

Secondo Canetti, caratteristica di ogni massa naturale è il suo desiderio di accre-scimento e la sua capacità di costituirsi come un corpo unico, che consente l’ab-battimento di tutte le distanze sulle qua-

li si fonda ogni aspetto della vita sociale. Una volta terminato questo accrescimen-to e raggiunto l’obiettivo prefissato, però, questo tipo di massa aperta, si estingue. Queste masse non hanno un unico luogo di ritrovo e sono caratterizzate da impreve-dibilità. È per questo che il cattolicesimo, come religione di condotta, ha preferito sostituirle con masse chiuse, più interessate alla durata che alla crescita: la massa vie-ne istituzionalizzata. Tramite la ripetizione dei riti e dei luoghi (le chiese), è possibile «catturare la massa» ed assicurarle «una sor-ta di esperienza addomesticata di se stessa» (Canetti 2004: 25): è possibile, cioè, che i fedeli eliminino le distanze tra loro – come avviene in ogni altra massa – evitando il rischio, però, che essi abbiano una condot-ta autonoma e indipendente dal volere del pastore. La messa ha proprio questo scopo: annullare l’imprevedibilità della massa. Per questo nel cattolicesimo la massa più importante è quella degli angeli e dei be-ati, cioè la più innocua e mite delle mas-se: una massa che non ha né obiettivo, né direzione. Il suo stato è definitivo, perché non attende e non vuole nulla. La diffiden-za della Chiesa per le masse terrene, però, non deriva solo dalla loro imprevedibilità e facilità ad eccedere, ma soprattutto dal-la soppressione delle distanze su cui invece si fonda la gerarchia ecclesiastica. L’addo-mesticamento della massa religiosa per-ciò, non deve limitarsi alla sua chiusura in luoghi, tempi e modalità pre-definite, ma anche nella sua gestione da parte di un pa-store che non è nella massa, ma è al di sopra della massa, su un altare, a orientare i fedeli verso l’unico obiettivo possibile: la comune venerazione. La massa dei fedeli non agisce, prega. E così alla massa dei fedeli è esclu-sa anche qualsiasi ipotesi di trasformarsi in massa di rovesciamento, cioè in un tipo di massa rivoluzionaria, un’ipotesi sempre altamente possibile o desiderabile da qual-siasi altra massa terrena. La massa cristia-na viene così trasformata in un gregge che non può mai ribellarsi al suo pastore, ma assoggettarsi sempre di più, nell’attesa del raggiungimento dell’obiettivo della massa:

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la sua salvezza. La massa religiosa può du-rare nel tempo perché allontana l’obiettivo nell’aldilà, il solo luogo dove è possibile che gli ultimi diventino i primi; in base a que-sto principio, anzi, è necessario accettare le spine dei poteri terreni e attendere con la pazienza e l’obbedienza pura degli umili.

Si potrebbe sostenere, quindi, che il potere pastorale abbia insegnato al potere politico il modo per mitigare la massa dei cittadini. Le istituzioni statali, allo stesso modo di quelle religiose, tramite i propri rituali politici riescono infatti a fornire alla massa dei cittadini una esperienza ad-domesticata di se stessa. I tempi, gli spazi e i modi del sistema politico sono le sue procedure, giuridiche ed elettorali. Allo stesso modo del potere pastorale, il potere politico, in primo luogo si accontenta «di una passeggera finzione di eguaglianza tra i [suoi] fedeli, la quale però non è mai rea-lizzata troppo severamente» (Canetti 2004: 30); in secondo luogo, tramite il procedi-mento crea la «disponibilità generalizzata ad accettare, entro certi limiti di tolleran-za, decisioni il cui contenuto sia ancora indeterminato» (Luhmann 1995: 174). In questo modo, anche il sistema politico può durare nel tempo perché, da una parte, le-gittima il suo potere grazie a promesse elet-torali (di “salvezza”) altamente generalizza-te e, dall’altra, allontana la loro verifica (e quindi l’obiettivo) in un aldilà terreno.

Pertanto, il popolo, come altra parte del potere, è un’invenzione del potere, e può essere sovrano solo come costruzione della politica. Il popolo sovrano è il popolo che non ha più potere, che non può più correre alle armi: è il popolo di singoli che vengono riconosciuti solo come volontà. Grazie alla democratizzazione del potere non si ha quindi un trasferimento di potere dal sovrano al popolo, ma solo delle nuove forme di potere e di legittimazione: si vuole impedire, in sostanza, che la sovranità di-venti potere, ma resti invece, solo fonte del potere. La sovranità popolare costituisce, perciò, solo una finzione giuridica che ha la funzione di legittimare il potere politico. È per questo che la democratizzazione del

EFFRAZIONIJurgen Habermas è sicuramente uno dei sociologi che meglio ricostruisce la

nascita dell’opinione pubblica, ma contemporaneamente la sua idealizzazione. In Storia e critica dell’opinione pubblica, infatti, descrive l’opinione pubblica come quel nuovo soggetto politico, critico e razionale, che ha reso possibile la trasformazione del potere e la costruzione delle democrazie rappresentative parlamentari. Ciò che lo distanzia maggiormente dal cosiddetto post-modernismo è proprio lo scopo della sua ricostruzione: reperire nell’opinione pubblica il sostegno normativo della demo-crazia. Egli, pertanto, utilizza una descrizione normativa della stessa democrazia, preoccupandosi più di ciò che essa dovrebbe essere e non effettivamente di ciò che essa è. Il suo progetto, d’altra parte, è risollevare la ragione dall’attacco del pensie-ro post-moderno, tant’è che il suo testo sull’opinione pubblica viene interpretato come una critica nei confronti della Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno. Questi ultimi, infatti, contrariamente ad Habermas, rientrano nel post-modernismo poiché manifestano incredulità nei confronti delle metanarrazioni, cioè nell’idea di storia come progresso. Habermas, invece, non ritiene che la modernità abbia fallito, ma che essa rappresenti un progetto incompleto. Il percorso scientifico del sociologo tedesco costituisce quindi un tentativo di comprendere le possibili-tà di completare quel progetto: esse risiedono nella capacità di salvare la ragione come base della validità del processo di democratizzazione. Tale validità è spiegata a partire dalle procedure di libera concorrenza delle argomentazioni e quindi da un potenziamento del ruolo della comunicazione: solo la forza non coercitiva della mi-gliore argomentazione determina l’individuazione dell’interesse generale. Ciò che in Storia e critica dell’opinione pubblica era una ricostruzione storica diventa una teoria di salvataggio della modernità nella Teoria dell’agire comunicativo (1981) e in Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992).

In sintesi, mentre Habermas crede nei valori dell’Illuminismo e intende pre-servare le promesse auree di quell’epoca, la maggior parte di coloro che si occupano della democrazia in modo descrittivo e non normativo, osservano la dialettica dell’Il-luminismo o i suoi paradossi. Ecco perché Foucault, ad esempio, scava nelle ceneri dell’Illuminismo per comprendere, dalla sua prospettiva, ciò che Luhmann chiama il valore del valore e le funzioni latenti di quelle promesse, il buio nascosto dai lumi. Il filosofo francese, infatti, trova nostalgico e anacronistico il tentativo habermasiano di completare il progetto della modernità e legittimare la democrazia partecipativa attraverso il ruolo attivo dell’opinione pubblica.

Quello che fa Habermas mi interessa molto, […], ma vi è qualcosa che, per me, resta problematico: quando attribuisce un posto così importante e, soprattutto, una funzione che definirei “utopica” alle relazioni comunicative. Mi sembra che l’idea che possa esistere uno stato di comunicazione tale che i giochi di verità potranno circolare senza ostacoli, senza vincoli e senza effetti coercitivi appar-tenga all’ordine dell’utopia (Foucault 1998: 91).

Secondo Foucault, non solo è impensabile raggiungere il consenso sull’interesse generale tramite la libera concorrenza delle argomentazioni, ma è anche im-possibile che le stesse argomentazioni possano essere libere, cioè aliene da giochi di potere. Egli non crede né al valore del consenso, né a quello della libertà, ma non per questo si può ritenere che egli sia contro il consenso, né ovviamente contro la li-bertà. Infatti, in una delle ultime interviste afferma che «non bisogna essere per la consensualità, ma contro la non-consensualità» (Foucault 2001: 202).

domesticazione

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potere non indica alcun incremento della partecipazione popolare al potere. Demo-crazia è solo partecipazione ai procedimen-ti elettorali; indica partecipazione senza partecipazione, una nuova forma della pla-tonica teatrocrazia. Tramite il procedimen-to elettorale è quindi soltanto avvenuta la sostituzione dell’arcaico favor romano de-gli dei con il moderno favor dell’opinione pubblica.

D’altra parte, quando si parla di potere del popolo, è sufficiente anche solo rifarsi alla descrizione classica weberiana del pote-re come capacità di trovare obbedienza, per comprendere che il popolo non ha alcun potere. Il popolo è stato reso sovrano solo quando il potere è stato sicuro di aver tro-vato tutti i meccanismi per addomesticarlo. Tramite il procedimento, infatti, il popolo partecipa per escludersi: questo è ciò che si nasconde dentro il concetto di rappre-sentanza. Partecipando ci si auto-vincola ad accettare il risultato, che rimane sempre aperto durante il procedimento: la fun-zione del procedimento è principalmente, quindi, quella di assorbire protesta, far par-tecipare per addomesticare. D’altra parte è troppo difficile la possibilità di dissenso, anche perché tramite l’istituzionalizzazione delle aspettative, operata dal sistema politi-co, viene presupposto il consenso genera-le, al punto che, come sostiene Luhmann, «quasi tutti presuppongono che quasi tutti siano d’accordo» (De Giorgi 1998: 232). Su questa carenza di comunicazione tra gli elettori, e sulla loro semplificante pre-supposizione di consenso generalizzato, il sistema politico stabilizza il suo potere.

[…] è necessario che il consenso degli altri sia fittizio, presupposto, che “gli al-tri” non siano determinati, ma restino anonimi, non valutabili, e che non sia possibile interrogarli sulle loro opinioni. Le istituzioni allora si reggono su una sopravvalutazione del consenso effetti-vamente disponibile nel sistema sociale, e sul fatto che questa sopravvalutazione riesca ad avere successo […] (De Giorgi 1998: 232).

Qual è allora il potere del pubblico?

Che potere hanno le opinioni dell’opinio-ne pubblica?

Se democrazia non è, come non è, po-tere del popolo, è quantomeno – si dice – controllo del popolo sul potere politico. Da questa prospettiva, se la democratizzazione del potere delude le aspettative sul potere del popolo, quantomeno non deludereb-be le aspettative nella capacità del popolo di esercitare una funzione di controllo sul potere politico. Se democrazia non indica una vera sovranità popolare, indicherebbe quantomeno una nuova struttura del pote-re politico: una struttura circolare. Circola-rità, però, dovrebbe essere almeno presenza di un’opinione pubblica capace di esercita-re una funzione di controllo sul potere po-litico. Tuttavia, se si esce da una logica del dover essere e, strappando il cielo di carta normativa, si osserva ciò che sta dietro, si può vedere che anche l’opinione pubblica è una finzione giuridica, che ha la funzione politica di rendere irrilevante l’opinione del singolo, di assorbire la protesta. Il concetto di opinione pubblica è funzionale, perciò, non tanto a fornire legittimità al potere del popolo, ma a fornire al potere politico la possibilità di invocare sempre la volon-tà dell’opinione pubblica, di rifugiarsi nel dichiararsi suo legittimo rappresentante. Secondo quanto si affanna ripetutamente a ricordare il potere politico, infatti, è l’opi-nione pubblica a volere il potere del potere politico, cioè le sue decisioni: come se il consenso iniziale fosse esso stesso garanzia di democrazia e presupponesse un consen-so per qualsiasi decisione, anche ai confini del quadro costituzionale. La generalizza-zione delle aspettative dell’opinione pub-blica, infatti, consente al sistema politico di prendere decisioni autonomamente e di rendere auto-evidente la propria legittimi-tà. Adottando una logica riflessiva, però, e chiedendosi qual è l’opinione dell’opinione pubblica o chi fa l’opinione che poi diventa pubblica (Sartori 1995: 182), si può facil-mente comprendere – come fa Bourdieu – che l’opinione pubblica non esiste.

Qual è allora la funzione di controllo dell’opinione pubblica? Quale il potere del

pubblico?

5. L’opinione pubblica: un sorve-gliante sorvegliato.

Si dice che i Lumi abbiano scoperto la Libertà e con essa, sulle fondamenta del principio di pubblicità, abbiano costrui-to la democrazia. Eppure la storia recente italiana, tutta la sua democrazia, più che essere illuminata dal principio di pubbli-cità, è stata spesso illuminata dai bagliori accecanti di esplosioni che – come lo stesso potere visibile dello Stato ha chiarito sen-za chiarire – erano la base sanguinaria di una più generale strategia della tensione. Una strategia che il visibile governo statu-nitense, a partire dal dopoguerra, ha inse-gnato in apposite scuole militari a tutti gli apprendisti strateghi sudamericani e euro-pei, che aspiravano a difendersi contro il comunismo allora, e l’islamismo oggi: en-trambi descritti come nemici e minacce per la salvezza della popolazione, della sua vita biologica, ma anche spirituale, perché ogni nemico esterno o interno è anche un peri-colo per la condotta delle anime, un mo-dello di contro-condotta. La costruzione del nemico, d’altra parte, è finalizzata a giu-stificare o occultare un altro paradosso del biopotere contemporaneo: un potere che da un lato si occupa di proteggere e inclu-dere la vita della popolazione, ma dall’altro esclude alcuni individui e disciplina le loro anime e i loro corpi fino a «sospingerli nel-la morte» (Foucault 1978: 122). Come è possibile, in sintesi, che un potere che ha sostituito gli arcana con la pubblicità, la re-pressione con la produzione, la morte con la vita, adotti delle tattiche e delle strategie che prevedono le antiche armi del segreto, della disciplina, del supplizio? E’ difficile negare, infatti, che anche nella democrati-ca Italia non sia stato applicato il principio dei teorici della ragion di stato: per rendere giustizia alle cose grandi, bisogna a volte ne-garla a quelle piccole. Un tema mutuato dal paradosso cristiano della salvezza che porta il pastore a sorvegliare omnes et singulatim,

arcana imperii

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tutti e ciascuno, e ad essere disposto a sacri-ficare se stesso (cioè i suoi principi) per la salvezza di tutte le pecore o anche a sacrifi-care tutto il gregge per la salvezza della sua parte “migliore”.

In uno Stato di diritto, la compatibilità tra servizi segreti statali e democrazia do-vrebbe essere possibile tramite il controllo del potere invisibile dei servizi segreti da parte del potere visibile del governo che, a sua volta, deve essere controllato dall’opi-nione pubblica. Tuttavia, non si può dire che il popolo sovrano italiano, così come tanti altri nel mondo, sappia ciò che è ac-caduto, o abbia la possibilità di formarsi – come si dice – un’opinione. Né, semmai do-vesse accadere, di rendere questa opinione capace di esercitare la sua funzione di con-trollo. Controllare, del resto, non significa nulla se non può avere una sua effettività, o se può averla, minima, solo ad ogni elezio-ne. E comunque, anche se la maggior parte degli elettori riuscisse ad informarsi – cosa che nell’attuale società mediatica sarebbe, in linea di principio, più semplice – la sua possibilità di azione, e quindi il suo con-trollo, si ridurrebbe, al limite, solo al rifiu-to di quei rappresentanti in carica ritenuti responsabili di un mal governo. Perché, se è vero che l’opinione pubblica può conserva-re o destituire determinati rappresentanti, è altrettanto vero che il suo controllo è limi-tato solo all’accettazione o al rifiuto all’in-terno di possibilità già pre-selezionate dal sistema politico. D’altra parte, in casi ecce-zionali come quelli delle stragi di Stato, ne-anche un’opinione pubblica informata può esercitare un vero controllo, se il controllo è limitato alla possibilità di destituire i rap-presentanti ritenuti responsabili. Anche la possibilità di cambiamento, infatti, è pre-selezionata. L’effettivo controllo – quello che è capace di produrre anche un cambia-mento effettivo - si ha quando, non solo si determina la caduta di un governo, ma si riesce a provare giuridicamente le sue re-sponsabilità e a modificare anche i mecca-nismi di potere di quello che Bobbio chia-ma sottogoverno: quella parte semi-pubblica che continuerebbe ad operare secondo le

\

FIVESTEPSWITH

Hans Kelsen ha analizzato il processo a Gesù come simbolo dell’anta-gonismo tra assolutismo e relativismo. Egli, cioè, ritiene che Gesù, in quanto possessore della verità, sia assolutista, mentre Pilato sia un relativista scettico che, per questo, si affida al procedimento democratico. Lei condivide l’idea kelseniana di una congenialità tra sistema politico democratico e relativismo empirico da un lato, e tra autocrazia e assolutismo metafisico dall’altro?

Non ho mai pensato che i personaggi storici siano “simboli”.

Lei condivide l’idea foucaultiana che il potere politico occidentale abbia mutuato le funzioni del potere pastorale cristiano e quindi che la politica mo-derna sia sostanzialmente un affare da ovile?

Il potere pastorale è in evidente declino in Occidente mentre cresce nel mondo islamico.

Lo scrittore Josè Saramago, nel libro Saggio sulla lucidità, ha immaginato utopicamente e paradossalmente un paese in cui tutti gli elettori si ribellano al potere costituito e votano scheda bianca, provocando un ritorno alla ditta-tura. Il sociologo tedesco Niklas Luhmann ritiene, invece, che in un sistema democratico sia troppo difficile la possibilità di dissenso perché, tramite l’isti-tuzionalizzazione delle aspettative, viene presupposto il consenso generale, al punto che “quasi tutti presuppongono che quasi tutti siano d’accordo”. A suo avviso, se invece quasi tutti presupponessero che quasi tutti siano in di-saccordo, sarebbe possibile il dissenso generalizzato, cioè rendere probabile l’improbabile?

Credo che l’ipotesi di Saramago non stia in piedi. È verissimo ciò che scrive Luh-mann: “viene presupposto il consenso generale”. Aggiungo che la macchina TV-giornali etc. consolida quotidianamente questo presupposto.

La storia della democrazia italiana più che essere illuminata dal principio moderno della pubblicità, è stata accecata dalle esplosioni della strategia della tensione. Tentativi di golpe, stragi politiche e mafiose, presidenti del consiglio iscritti a logge massoniche o processati per associazione mafiosa, finanzia-menti illeciti ai partiti: come è possibile non nutrire dubbi su questa forma di governo? Come è possibile credere ancora alla “favola” della funzione di con-trollo dell’opinione pubblica?

Solo chi si era illuso può ora essere deluso. Da Eduard Meyer, a Lenin, a Gramsci, a Pareto, a Michels sono venute per tutto il XX secolo analisi illuminanti contro l’illusione che l’astratta forma delle procedure democratiche comportasse anche dei contenuti democratici.

La democrazia, come processo razionale di creazione dell’ordine socia-le, prometteva di porre fine all’età delle individualità, a un potere fondato sul riguardo alle persone. In realtà, nella microfisica del potere sembra che conti-nuino a prevalere logiche arcaiche, un sottopotere fondato sulle appartenen-ze familiari, politiche o economiche. Spesso, infatti, nei concorsi o nei servizi pubblici (ad esempio la prenotazione di una visita o di un ricovero in un ospedale) vigono dinamiche occulte che trascurano il principio dell’impersonalità e delle eguali possibilità di accesso, ricadendo nel familismo amora-le. Si può ritenere che prima di risolvere i macroproble-mi della sovranità democratica, è necessario occuparsi della democraticità nel sistema del lavoro e, più in gene-rale, degli uffici pubblici?

Non saprei. Il legame interpersonale è, per ogni individuo, la realtà più immediata e visibile; e perciò tende a prevalere se non ci sono forti correttivi esterni.

LUCIANO CANFORA

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proprie modalità anche dopo un restailing parlamentare. Perché, come aveva già chia-rito Weber, gli stessi apparati burocratici, possono servire forme e persone di potere tra loro completamente differenti.

Oggi non c’è più nessuno che creda ri-solto il problema della governabilità per il solo fatto che una coalizione di gover-no succeda ad un’altra, al posto di una coalizione di due partiti ce ne sia una di tre o quattro o cinque, il ministro di una corrente venga sostituito dal ministro di un’altra. Il segreto della governabilità sta nell’esistenza e nella robusta vitalità del sottogoverno. Il bosco muore senza il sottobosco (Bobbio 1981: 185).

Sapere (l’esistenza del sottobosco) non basta, così come non basta andare a vota-re sapendo. Un voto informato, così come milioni di voti (idealmente) informati, sono solo dei sì o dei no a scelte operate da altri. In uno Stato di diritto, perché l’opi-nione pubblica abbia la possibilità di eser-citare un controllo effettivo sul governo, è necessario che abbia la possibilità non solo di stabilire una verità soggettiva – ottenibile tramite la faticosa ricerca di informazioni sulla res (più o meno) publica – ma anche di stabilire una verità oggettiva, cosa che in un sistema sociale è possibile soltanto nel sottosistema giuridico, attraverso il proce-dimento penale che si avvale anche delle prove e quindi della verità prodotta dal sa-pere, cioè nel sottosistema scientifico.

Pierpaolo Pasolini sapeva, e col suo sa-pere sorvegliava il potere. Ma Pasolini non aveva le prove. E non avendo le prove, come era cosciente, non aveva alcuna possibilità di rendere effettivo il suo controllo e la sua verità. I procedimenti giudiziari hanno la funzione di accertare la verità: eppure, sulle stragi italiane, sui misteri della democrazia, sono stati avviati molti procedimenti, ma la verità è rimasta ancora opaca, come gli schermi televisivi che presumono di tra-smetterla, come, purtroppo, la democra-zia. Il potere, come medium del sistema politico, ha corrotto i media del sistema del diritto e del sistema della scienza e così i procedimenti hanno avuto solo la funzio-

ne di mascherare la realtà e di continuare a legittimare il sistema politico, la sua par-te visibile. Paradossalmente, anche la fine di un uomo che lottava contro i misteri è stata avvolta nel mistero. Nonostante ciò, è difficile negare che Pierpaolo Pasolini sia stato assassinato (anche) perché si era per-messo di sorvegliare il sorvegliante. Assas-sinato per quello che sapeva: e non perché al sapere di un singolo si possa attribuire una temibile funzione di controllo (un voto informato non conta poi nulla); ma perché Pasolini non era uno come gli altri, era un poeta, uno che poteva convincere: un opi-nion leader, come si dice. E certe cose non si limitava a riferirle al suo gruppo di amici, ma le scriveva sulle prime pagine dei gior-nali: «Io so, ma non ho le prove» (Pasoli-ni 2001). Pasolini è stato assassinato forse perché, qualcuno, da qualche parte, magari ha potuto temere che un’intera popolazio-ne, vissuta sempre in uno stato di Cecità, potesse improvvisamente imparare, grazie agli occhi di un poeta, a guardare quella che si dice sia la realtà. E, come in un roman-zo, acquisire d’improvviso quella Lucidità che consente di vedere di non vedere e di andare a votare, ma di non accettare alcu-na pre-selezione. Votare, ma votare tutti, scheda bianca. Spremere la spugna proce-durale che ha assorbito protesta, scoprire il paradosso e, da ciechi, vedere, per una volta, che è possibile anche abbandonare le presupposizioni, o invertirle, in modo che quasi tutti possano presupporre che quasi tutti siano in disaccordo. Aspettarsi e ren-dere probabile l’improbabile. Inventarsi il proprio modo per partecipare senza parte-cipare, per togliersi la corona di plastica di sovrani e rendere effettiva la propria fun-zione di controllo.

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In Cielo di plastica di Luigi Alici, due uomini, guidati da un prezioso invito, danno inizio ad un viaggio alla scoperta di se stessi, sulla via dell’autenticità, prendendo gradualmente coscienza delle più subdole idolatrie contemporanee.

CASO LETTERARIO

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VERSO L’ALTOCOLLOQUIO LUIGI ALICI | GIOVANNI SCARAFILE

PERCORSI DEL SENSO E IDOLATRIE DEL CONTEMPORANEO

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«L’uomo con-temporaneo ascolta più

volentieri i testimoni che i ma-estri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».

In queste parole di Pao-lo VI viene indicata in modo esplicito la distinzione tra una ricerca fine a se stessa ed un ap-proccio intellettuale in grado di rendere testimonianza non solo all’oggetto del proprio sa-pere, dato che «la critica non è il dissolvimento di ciò che si studia in un’amorfa e dilettevo-le concettuosità: è, e dev’essere, l’impiego di una verità, d’una conoscenza per valutare, per scoprire altre verità, altre cono-scenze. Ruminare non basta; assimilare, vivificare bisogna» (Montini 1982:68). Quando questo obiettivo sia raggiun-to o, per lo meno, quando verso di esso ci si incammini, allora la ricerca diventa «cari-tà intellettuale» (Sertillanges 1998:101)1.

La testimonianza risiede allora nella capacità di con-templare approfonditamente l’oggetto delle proprie ricerche e, nel contempo, nella capacità di trascendere quel particolare dato, in un approccio per così dire sinfonico in grado di vede-

re la parte ed il tutto. Si tratta di un movimento niente affat-to scontato, se è vero che le due tentazioni ricorrenti consistono o nel sostare in modo perenne nel proprio specialismo o, vice-versa, nel fare dell’ascolto della propria stessa voce il fine del cercare, convinti di poter fare a meno dell’inutile fardello della fatica del pensare e così dispen-sando a buon mercato concetti tanto pensosi quanto ininfluen-ti.

Nel caso del filosofo, come se non bastasse, le cose si com-plicano. Già nel nome stesso della propria disciplina, infatti, egli trova l’indicazione di un inevitabile abbinamento: da un lato, sophia, sforzo teoretico di esercitare una prensione con-cettuale sull’esistente, dall’altro philo, un tipo di atteggiamento personale in grado di inverare nella propria vita i coefficien-ti teorici acquisiti, a partire dall’avvertimento di Platone (Lettera VII, 340d), secon-do cui la ricerca filosofica non poteva essere ridotta a «verni-ciature di formule, come la gente abbronzata dal sole»2.

È dunque proprio sulla via di quella non facile conciliazio-ne tra l’ambito delle ricerche, la via del maestro, e la propo-sta di inveramento dei risulta-ti di quelle ricerche, la via del testimone, che ci imbattiamo in Cielo di plastica (San Paolo Edizioni, 2009) di Luigi Alici, professore ordinario di filosofia morale nell’Università di Ma-cerata.

Si tratta di un libro in cui mediante il sapiente uso di risorse narrative, l’Autore rie-

sce nella non facile operazio-ne di conciliare, e per giunta in modo brillante, quei due aspetti accennati poc’anzi.

Risulta così interessante provare a capire, ascoltando proprio le parole dell’Autore, come è giunto ad intuire que-sta speciale forma letteraria, ma anche il modo in cui egli riesca a conciliare l’attività profes-sorale (Alici è, tra l’altro, fra i maggiori esperti di Agostino) con l’impegno di scrittore e di intellettuale, impegnato nel mondo ecclesiale oltre che nel-la società civile.

Dal colloquio viene fuori un intellettuale il cui modello di riferimento è in grado di confutare le parole di Steiner quando in Lesson of the Masters osservava in modo alquanto sconsolato: «Allo stato dei fatti, come sappiamo, la maggioran-za di coloro ai quali [...] guar-diamo come guida ed esempio nell’accademia, più o meno non sono che amabili becchi-ni» (Steiner 2003: 18).

Prof. Alici, il leitmotiv di questo numero di YOD è desunto da un passaggio del De Trinitate di Agostino da cui sembrerebbe emergere un’analogia con Cartesio pro-prio in merito alla questione della rilevanza del dubbio nella vita di un uomo. Tut-tavia, è stato proprio Lei ad avvertire dei rischi insiti in una generica equiparazione tra la posizione di Agostino e quella di Cartesio. Ci può spiegare in che cosa consiste l’originalità della posizione

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CASO LETTERARIO

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agostiniana sulla questione del dubbio?

Si deve certamente ad Agostino l’attribuzione di una nuova centralità strategica al “paesaggio interiore”, rispetto al mondo esterno, come fon-te di quella meraviglia da cui scocca la scintilla della doman-da filosofica (e di ogni altra do-manda, nel senso più autenti-co del termine). La possibilità di esplorare i “vasti quartieri” della memoria e dell’interiori-tà pone la persona umana di-nanzi alla scoperta di un’enig-matica e stupefacente capacità riflessiva, di relazione dell’io con se stesso, che non dev’es-sere oscurata o trascurata dal rapporto tra ego e alter ego, e meno ancora dal rapporto con il cosmo. Queste dimensioni relazionali non sono alternati-ve, né reciprocamente riduci-bili; la trama complessa della vita personale si tesse piutto-sto in un andirivieni inces-sante fra l’una e l’altra, anche se Agostino è particolarmente affascinato dall’originarietà irriducibile della dimensione interiore. A differenza di ogni altra relazione, la dinamica ri-flessiva dell’autocoscienza ha una natura del tutto anomala: non solo perché in questo caso il soggetto che interroga e l’og-getto interrogato finiscono per coincidere, ma ancor più per-ché in questa coincidenza l’io si scopre radicalmente messo in gioco. Factus eram ipse mihi magna quaestio: «Proprio io ero diventato questione a me stes-so», si legge nel IV libro delle Confessioni. Prendendo le di-stanze dalla illusione gnostica

di poter proiettare la radice di ogni conflitto in una lotta co-smica tra due principi opposti, come pure dalla pretesa stoica di stendere un cordone sani-tario intorno alla “cittadella dell’anima”, intesa come un ri-fugio rassicurante e pacificato, Agostino ci invita a riconoscere la radice interiore del conflit-to, a misurarci con l’enigma del cor inquietum. In questo modo, per un verso ci mette in guardia contro ogni eva-sione naturalistica, teorizzan-do l’impossibilità di risolvere l’insecuritas dell’animo umano negli equilibri esterni del ko-smos; per altro verso, introduce una distinzione di principio tra interrogazione filosofica e sapere empirico: quello scarto tra soggetto e oggetto che per la scienza è un irrinunciabile principio metodologico, per la riflessione filosofica è inve-ce un segno inequivocabile di inautenticità. Nella modernità si perde soprattutto il senso di questa tensione tra interiorità e trascendenza: Descartes cerca un punto zero, sterilizzato e asettico, in cui la ragione possa accreditarsi in un atto, assolu-tamente trasparente, di auto-affermazione. La sconfitta del dubbio si situa invece in Ago-stino dentro un cammino di riscoperta e di combattimento interiore, che attinge il suo li-vello più alto quando si apre a un rimando trascendente, al quale la fede attribuisce un volto personale. Per Descartes, invece, la ragione è in grado di autolegittimarsi perfettamente, una volta per tutte, in modo chiaro e distinto. Basterà far

cadere ogni rimando estrinseco a Dio, per mettere il pensiero moderno sui binari dell’imma-nentismo.

Prima di prendere in con-siderazione alcune tematiche tratte da Cielo di plastica, se permette, vorremmo rivolger-Le una domanda più genera-le relativa alle sue attività. Scorrendo il Suo curriculum, infatti, si rimane impressio-nati dal loro numero, dalle pubblicazioni accademiche e

extra accademiche così come dalle attività extra accademi-che (non ultimo, l’impegno come Presidente Naziona-le dell’Azione Cattolica dal 2005 al 2008). Qual è la Sua idea di intellettuale e, se pos-siamo essere un po’ indiscreti, quali sono le sue “abitudini” di scrittura?

Qualcuno ha detto che la vita di un intellettuale – a maggior ragione se cristiano – è un’altalena incessante fra l’impegno e il disimpegno. Se

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per impegno intendiamo la capacità di coinvolgerci nella storia, in modo cordia-le e critico, disinteressato e responsabile, mettendo alla prova le nostre idee e la no-stra capacità di contribuire ad un esercizio condiviso di discernimento culturale e di progettualità lungimirante, credo che nes-suno possa esimersi da questo dovere; anzi, più che di dovere, mi piacerebbe parlare di riconoscenza nei confronti di chi ci ha pre-ceduto. Il bene comune è, prima di tutto, un bene che ci accomuna – il più delle vol-te immeritatamente – a chi ci ha lasciato in eredità il panorama naturale e culturale in cui viviamo. Eppure su questo impegno che nasce da un doveroso atto di gratitudi-ne pesa una sorta di riserva critica (che nel cristiano diventa anche riserva escatologi-ca), particolarmente importante per chi riconosce un valore strategico al mondo della cultura. Dinanzi ad ogni impegno, dovremmo sempre poter dire: «Questo è molto importante, ma non è tutto qui. C’è dell’altro». C’è sempre dell’altro: questa te-stimonianza in favore dell’ulteriorità è un vaccino prezioso contro il virus ideologico, che può attaccare chiunque, per stanchez-za o per fanatismo, facendogli prendere la scorciatoia della semplificazione intolle-rante.

Non so se ho abitudini vere e proprie

di scrittura. Posso dire, però, che il servizio nell’Azione Cattolica in questi ultimi anni mi ha messo a contatto con tanta gente: gente semplice, autentica, esemplare nella testimonianza della fede e nella responsa-bilità verso il proprio paese. Ho detto una volta che ho iniziato questo servizio come professore e l’ho terminato come allievo. Imparare ad ascoltare tante persone, a sa-per leggere non solo le parole scritte, ma anche quelle parlate, e ancor più quelle testimoniate con la vita è forse il primo, fondamentale esercizio di scrittura. Scrive-re avendo davanti a sé tanti volti e tante storie, volti e storie che la televisione o i giornali di rado riescono a interpretare e raccontare fedelmente, molto meno di cinema e letteratura: ecco il primo passo che c’impedisce di parlare a noi stessi, o alla cerchia esibizionistica dei soliti noti, per restituire la parola a chi ha veramen-te qualcosa da dire. Per questo, da qualche anno, scrivere è diventato per me sempre più un atto di restituzione, di fedeltà e di gratitudine.

La prima cosa che mi ha colpito, leggendo Cielo di plastica, è la struttura del libro, «rileggere – come Lei dice - in chiave narrativa il ‘68», ma anche «trac-ciare, in chiave espositiva, una mappa

delle tendenze idolatriche dominanti». Non è difficile cogliere proprio nell’ele-mento narrativo una sorta di filo rosso in grado di collegare Cielo di plastica ad almeno altri Suoi due scritti, Il terzo escluso (San Paolo, 2004) e La via della speranza (Ave, 2006). Nel capitolo Ter-tium datur de Il terzo escluso si trova una magistrale descrizione narrativa della dialettica pianto/riso nel volto di un bambino, che – a mio avviso – nessuna analisi concettuale avrebbe potuto ren-dere con pari efficacia, «un istante in cui il tempo e l’eternità si sono miracolosa-mente incontrati, racchiusi in un grumo irripetibile di elegante bellezza»; inoltre, nella terza parte de La via della speran-za, Lei racconta «episodi di vita quoti-diana, più o meno immaginari, dentro i quali affiorano tracce di un modo nuovo di porsi dinanzi al futuro».

Mi sembra che oggi uno dei primi compiti di un intellettuale consista nel non dare per scontato l’ascolto dell’udi-torio cui si rivolge. Questo obiettivo, propedeutico in un certo senso rispetto ad ogni possibile declinazione dell’im-pegno, può essere perseguito nella mi-sura in cui si sia in grado di raccogliere la sfida di frequentare territori espressivi un tempo ritenuti inconsueti. Lei, che ha

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raccolto con successo questa sfida, può illustrarci, a quale esigenza risponde il ricorso a registri stilistici differenti?

Ho sempre pensato che la ricerca filosofica debba esse-re il frutto di un mix arduo e sapiente di rigore e di passio-ne; ricorrendo all’immagine fortunata introdotta da Ro-bert Pirsig in un libro famoso di qualche anno fa (Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta), si potrebbe an-che dire che la Qualità deve sempre tenere insieme il pa-radigma tecnico della manu-tenzione e quello creativo del brivido della velocità. Negli ultimi decenni, mi pare che l’istituzione universitaria abbia favorito in modo particolare il primo, lasciando morire per asfissia il secondo. Come tene-re insieme questi due aspetti, che costituiscono il fascino e la responsabilità dell’impegno speculativo? A volte, leggendo

alcuni libri di giovani ricerca-tori si ha come l’impressione di una grande perizia meto-dologica, posta a servizio del nulla. Si scava senza alzare mai la testa; si passa accanto ad un filone d’oro e non lo si vede. Nessuno stupore, nessu-na meraviglia, nessuna altezza. Il risultato è davanti agli occhi di tutti: un’ipertrofia inutile di dotte banalità. I grandi classici c’insegnano invece a coniugare con equilibrio (appunto, un equilibrio classico) i due aspet-ti, cercando instancabilmente di lavorare anche sulla forma espressiva in cui si incarna la riflessione.

Si avverte subito quando la forma si aggiunge dall’esterno al contenuto, come un insop-portabile esercizio cosmetico, con cui si chiede alla retorica di mascherare l’età e nasconde-re le rughe del pensiero. Il lin-guaggio, come ci ha ricordato anche Wittgenstein, non è mai

un vestito che si fa indossare in modo estrinseco ai propri pensieri, coltivati e maturati fino allo stadio adulto in forma neutra e impersonale. Non si tratta solo di cercare un con-tatto – il più possibile in pre-sa diretta – con il lettore, ma di attribuire un vero e proprio valore euristico alla scrittura: quello che troviamo nel sot-tosuolo del pensiero dipende anche dagli strumenti con cui scaviamo. Il badile o la trivella non sono adatti ad ogni terre-no… I grandi autori c’invitano a cercare instancabilmente una cifra stilistica personale; quan-do questo ci risultasse troppo difficile, ci offrono anche esem-pi altissimi di contaminazione fra generi letterari differenti: basterebbe ricordare, per fare solo qualche esempio, i grandi dialoghi platonici, il modello agostiniano della confessio, i diari di Kierkegaard, i romanzi di Sartre o di Camus… Mo-

delli certamente ineguagliabi-li, ma che non dobbiamo mai perdere di vista.

Luciano Fiorini e Carlo Liberati, due dei tre prota-gonisti del libro, incarnano atteggiamenti profondamen-te diversi di fronte alla vita. Tale differenza, tuttavia, non è pregiudiziale rispetto alla ricezione del messaggio di P. Agostino Aureli, il terzo pro-tagonista. Potremmo dire, dunque, che nonostante ogni differenza, la possibilità di «sgonfiare quel cielo di plasti-ca che ci impedisce di allun-gare lo sguardo» è una possi-bilità reale per ogni uomo? A cosa allude il cielo di plastica che dà il titolo al libro?

Confesso che la scelta del titolo mi è stata suggerita da una delle scene finali di “Tru-man Show”, quando il prota-gonista raggiunge in barca il confine estremo di un gigante-

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sco teatro di posa, in cui la sua vita si era svolta sino allora, e sperimenta il momento magico in cui può aprire la porta che gli consente finalmente di uscire all’aperto e non vivere più sotto un cielo di plastica. Ma ognuno di noi ha davvero questa possi-bilità? Per rispondere, credo sia necessario sdoppiare la domanda, distinguendo fra il piano antropologico e quello etico. Anzi-tutto, sarebbe una sorta di clamoroso au-togol, sul piano antropologico, anche solo ipotizzare che l’apertura all’infinito possa essere un optional facoltativo e ininfluente nella vita di una persona, una sorta di op-zione supererogatoria che non toglie e non aggiunge nulla di sostanziale alla vocazione dell’essere umano. Se qualcuno, di fatto, ordina la propria esistenza in rapporto ad un orizzonte trascendente è perché tutti ne hanno la facoltà; se qualcuno può impe-gnare la propria libertà ai confini tra finito e infinito, è perché tutti possono farlo! Del resto, come poter circoscrivere questa pro-iezione metafisica, senza con questo declas-sarla ad una semplice moda culturale, che solo alcuni individui potrebbero sperimen-tare, come se si trattasse del possesso di una lingua o di una abilità specialistica? Non sarebbe questa, oltre tutto, la forma più odiosa e intollerabile di discriminazione? Eppure, ciò che in linea di diritto appare come un fondamentale antropologico, in linea di fatto si rivela estremamente pro-blematico, chiamando in causa la sfera eti-ca e la lotta incessante fra bene e male che ognuno di noi ingaggia ogni giorno. Se ci spostiamo a questo livello, la risposta si fa problematica e incerta: chi può dire di vi-vere davvero all’altezza della propria voca-zione? Qui siamo rinviati al grande enigma del male, che per definizione è esattamente questo: un deficit di infinito, che si cerca invano di surrogare con un investimento disordinato nell’ordine del finito. L’eccesso idolatrico nasce da qui. È dinanzi all’eccel-lenza infinita del bene e all’abisso nichili-stico del male che si gioca la nostra vita; il cielo di plastica è il misero surrogato con

cui si vorrebbe disattivare la tensione irri-ducibile fra finito e infinito.

La nostra, Lei sostiene, è una terra di mezzo, sospesa tra finito e infinito. Nel corso del libro, la possibilità di valicare il confine angusto del finito, decidendo di non affidare la propria sorte al caso, è frutto di un invito ad una esplicita ade-sione all’opzione religiosa cristiana.

In realtà, la possibilità di essere ar-tefici del proprio destino, è stata riven-dicata anche in molte altre contrade del pensiero. Solo per fare un esempio, nella Oratio de hominis dignitate, composta alla fine del ‘400, Pico sosteneva che l’uomo può dirsi tale perchè può «for-giare il proprio destino». Qual è, per così dire, il valore aggiunto dalla propo-sta illustrata da P. Agostino?

Questo è un aspetto particolarmente delicato e importante dell’intera questio-ne. Ancora una volta, in linea di principio l’appello alla dignità e all’autonomia della persona umana deve trovare consenzienti – e, in una certa misura, alleati – creden-ti e non credenti. C’è un lato certamen-te nobile e positivo di quest’appello alla verticalità metafisica e spirituale dell’es-sere umano; l’importante, tuttavia, è non nascondere dietro tale appello (ma non è il caso di Pico) una celebrazione autore-ferenziale del soggetto umano e della sua insuperabile autonomia, perché questo mortificherebbe ogni apertura eterono-ma all’infinito, alimentando l’illusione di un autosalvataggio, come nella favola di Raspe, in cui il Barone di Münchausen può uscire incolume dalle sabbie mobili, tirandosi su per i capelli. Su questo pun-to la lezione di Levinas è particolarmente preziosa: l’infinito filtra nell’incontro con il volto dell’altro, che irrompe sulla scena della nostra vita e in quest’urto inaudito ci fa scendere dal nostro piedistallo. Il va-lore aggiunto della fede cristiana consiste, per un verso, proprio in questo: nel fatto che essa, prima ancora che una domanda

religiosa di salvezza, è la risposta a un in-contro; un incontro che avviene sotto il se-gno di un’alleanza gratuita e di un riscatto dalle nostre debolezze, che promette cieli nuovi e terra nuova alla nostra fame e sete d’infinito. Per altro verso, anche chi non è cristiano può trovare nel confronto con la rivelazione cristiana degli anticorpi formi-dabili contro ogni involuzione idolatrica e contro ogni degenerazione prometeica del giusto desiderio di essere artefici del nostro destino. Questo “valore aggiunto”, in fon-do, è un invito ad oltrepassare il “cielo di plastica” della nostra autonomia: ogni vero incontro è sempre eteronomo. Per questo, può stupirci o ferirci. La vera sfida, allora, consiste nel riconoscere la natura liberan-te e non alienante del rapporto fra finito e infinito. L’eteronomia può essere assoluta, quando nasce dal contatto inaudito con il trascendente, senza essere però estrinseca: l’Altro, in questo caso, sta dentro una re-lazione costitutiva e liberante con l’io, in cui assoluta estraneità e assoluta intimità coincidono. Eteronomia non estrinseca: è questa la possibilità che Nietzsche non ha preso in considerazione.

Come dicevamo, il libro contiene una precisa mappatura di alcune tra le più devastanti e subdole idolatrie con-temporanee (l’avere senza essere, il pote-re senza responsabilità, solo per indicar-ne alcune). Al tempo stesso, determinati atteggiamenti su cui la cultura contem-poranea rivolge uno sguardo accondi-scendente e benevolo presentano non meno motivi di preoccupazione proprio per la rarefatta percezione dei rischi deri-vanti dalla loro acritica assunzione. Par-lerei forse di quella placida mediocrità, fatta di piccole cose, vissute nella totale assenza di uno sfondo in grado di ridi-mensionarne il valore: «qualche avven-tura sentimentale, weekend program-mati con cura, la mia boutique preferita, vacanze pianificate con la pignoleria di un contabile, il comfort sempre al primo

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posto» (Alici 2009: 66).Il vero rischio sembra es-

sere non tanto la professione di una eterodossia rispetto ad una norma razionalmente accettata quanto l’assenza di ogni ragionamento, il venir meno del senso del senso. Come ci si sottrae ad un tale scenario?

È vero: la patologia idola-trica diventa tanto più subdola e pervasiva quando si nascon-de, quando cerca di mimetiz-zarsi, trasformandosi in una forma parassitaria della fede. La rinuncia all’ultimo altera irrimediabilmente anche il no-stro rapporto con il penultimo, conferendogli un sovraccarico di senso che il finito non riesce a reggere. Questo cortocircuito non si manifesta necessaria-mente, però, nelle forme cla-

morose di un titanismo pro-meteico, ma anche in quelle – solo apparentemente meno disperanti e autodistruttive – della banalità e della routine. C’è una “idolatria al ribasso” che è forse uno degli effetti più immediati dell’indifferen-za postmoderna, la quale non

è atea solo perché è molto più che atea. Dostoevskij ha detto che l’ateo assoluto non è troppo lontano dalla fede, poiché con-divide con il credente almeno le stesse domande (dando ad esse, tuttavia, una risposta di segno contrario), mentre l’in-differente non ha più nessuna

fede. Non è difficile riscontrare nel vissuto quotidiano questa preoccupante “anestesia” della domanda di senso.

Spostando il discorso sul piano religioso, si potreb-be dire che questa è l’essenza stessa del diabolico: spingere la pulsione narcisistica fino al punto estremo in cui essa ap-pare completamente metabo-lizzata; si è talmente identifi-cata con il nostro ego, che alla fine è diventata invisibile, pro-prio come un paio di occhiali, che ci fanno vedere senza essere visti. In questo senso, l’occul-tamento del male è forse la forma estrema del male stesso. Per questo abbiamo bisogno di recuperare una nuova umiltà e una nuova capacità di inter-locuzione critica. Non ci può

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essere nessuna progettualità senza discer-nimento; la rinuncia al futuro va sempre di pari passo con la rinuncia al giudizio critico. La conseguenza è che oggi viviamo tutti abbarbicati al presente (Life is now!) e alle nostre false sicurezze, quasi sempre di natura ideologica, dietro le quali si profila la “malattia mortale” della disperazione, come Kierkegaard magistralmente ci ha insegnato.

Il venir meno dell’indifferenza ri-spetto ai valori, auspicato dalle parole di P. Agostino, sembra richiedere uno specifico terreno di coltura, una sorta di basilare disponibilità a lasciarsi coin-volgere dalle cose. A parti invertite, mi chiedo se proprio tale prerequisito non costituisca il principale limite rispetto alla adozione di una conversione della propria vita.

Che cosa è effettivamente in gra-do di schiodare un uomo dall’adesione all’atteggiamento naturale in cui si tro-va, ovvero di fare cogliere che esistono dimensioni esistenziali più significative? In altri termini, il riconoscimento del valore è ciò che fa uscire dall’atteggia-mento naturale o è ciò che l’uomo trova alla fine del suo cercare?

Si potrebbero citare, a questo pro-posito, le parole di fuoco dell’Apocalis-se: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitar-ti dalla mia bocca». Come avviene il sal-to dal nonsenso dell’indifferenza al senso della differenza? Platone ci ha richiamato all’enigma di Eros per poter dare una ri-sposta, e i Padri hanno raccolto pronta-mente questa intuizione: non esiste mai un grado zero dell’amore; amare significa esplicitare un legame atematico e impli-cito, portarlo ad un soglia vincolante di riconoscimento. Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato! Oggi tendiamo invece a concepire ogni relazione secondo

il modello contrattualistico dominante, come un atto convenzionale, stipulato in uno spazio sterile di perfetto bilanciamen-to simmetrico: sempre negoziabile, sem-pre revocabile. Facciamo invece fatica ad accettare – e persino a concepire – la logica del primo passo, figlia di una gratuità obla-tiva capace di generare una reciprocità di tipo asimmetrico: ogni incontro avviene perché qualcuno, in modo assolutamente gratuito, ci ha detto sì per primo. La mia vita, la vita di tutti è cominciata così. In senso assoluto, il primo passo è un atto infinito che ci precede, a partire dal quale tutto quello che appartiene all’ordine fini-to dell’esistere comincia. Possiamo sperare ragionevolmente di trovare alla fine solo quello che, da sempre, è all’inizio e che, proprio per questo, da sempre ci interpella e può far scoccare la scintilla della ricerca; il problema è non averne una precompren-sione contrattualistica, quasi si trattasse di uno spazio che noi possiamo prefigurare e dominare arbitrariamente. Lo stupore è forse la condizione necessaria – anche se non sufficiente – per riconoscere l’enig-ma dell’originario; solo se sappiamo libe-rarci prima di tutto dal velo mortificante dell’ovvietà, possiamo lasciarci toccare dal mistero della trascendenza che ci precede e ci sovrasta.

Un’ultima domanda. Il terzo esclu-so si chiude con le seguenti parole: “La filosofia non può darci il paradiso, ma può dirci se ne abbiamo bisogno e dove non possiamo cercarlo”. A Suo avviso, quali compiti attendono la riflessione filosofica oggi?

Questa è una domanda particolarmen-te impegnativa, che non merita risposte af-frettate e superficiali. Dovendo limitarmi a suggerire qualche semplice spunto di ri-flessione, potrei proprio partire da qui: La filosofia deve tenere a distanza, soprattutto oggi, risposte affrettate e superficiali. Nella nostra cultura sembra che si stia passan-do dalla perdita delle risposte alla rinuncia

alle domande. Se questo è vero, il primo compito della riflessione filosofica è ritro-vare la passione contagiosa per le domande grandi. Sono le domande grandi, in ulti-ma analisi, che rendono grandi le risposte piccole. Questo compito suppone, prima di tutto, una pars destruens, in cui è essen-ziale ritrovare il potere critico della ragio-ne umana e impegnarlo coraggiosamente in un’opera di radicale demistificazione di tutto gli assoluti terrestri, di tutti i paradisi artificiali. Oggi si ha come l’impressione che la ricerca filosofica si stia disperdendo in mille rivoli analitici, mentre tutti abbia-mo bisogno di una scossa forte e salutare. La pars construens esige poi un passo avanti ancora più arduo, che chiama in causa una vera e propria “conversione dell’intelligen-za”, da condurre in modo più paziente e meno appariscente, più sistematico e meno estemporaneo. Senza nulla togliere alla genialità del pensatore, che non può es-sere pianificata a tavolino, dobbiamo però tornare a pianificare a tavolino – questo sì – un progetto alto e condiviso, capace di ricreare uno spazio di rispetto intorno alla ricerca intellettuale (non solo filosofica), predisponendo le condizioni strutturali e istituzionali perché in questo spazio sia possibile un autentico ed esigente dialogo intergenerazionale. Solo una semina lun-gimirante e generosa, proiettata nei tem-pi lunghi, senza la pretesa di raccogliere frutti effimeri e prematuri, può salvare la ricerca dalla miopia e dall’insipienza. In questo campo forse è il caso di ricordare ai nostri politici il detto evangelico: “Uno semina e l’altro miete” (Gv 4,37), perché a volte si ha l’impressione sgradevole che si voglia mietere anche là dove non si è seminato.

Riferimenti bibliograficiAlici, L. 2009. Cielo di plastica. Cinisello

Balsamo: San Paolo EdizioniMontini, G.B. 1982. Coscienza universita-

ria. Roma: Edizioni Studium

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Rigobello, A. 2001. Complessità di me-todo e pluralismo metodico. In L’estraneità interiore. Roma: Edizio-ni Studium

Sertillanges, A-D. 1998. La vita intellet-tuale. Roma: Edizioni Studium

Steiner, G. 2003. Lesson of the Masters. Harvard: Harvard University Press.

Weber, M. 1948. La scienza come professio-ne. Torino: Einaudi

Endnotes1 Continua Sertillanges: «Non deve

temere nessun egoismo colui si isola gelo-samente [...], Non ascoltate nessuno, né gli amici indiscreti, né i parenti incoscienti, né i passanti. Voi appartenete alla verità: le dovete il vostro culto. Eccetto i casi che non si discu-tono, niente deve essere per voi più importante della vostra vocazione».

2 Ha significativamente ossercato Ri-gobello (Rigobello 2001:167): «ciò significa pensare, ragionare, discorrere all’interno di un coinvolgimento esistenziale e non “esistentivo” [...] innalzandoci (o allargandoci) all’universa-lità, un trascendersi che è tuttavia mosso da una esigenza interna alla concretezza del vissu-to in prima persona».

Crediti fotograficiThese Stairs Go All The Way Down | Kevin

Lawver | licenza Creative CommonsSuspended stairs | ndanger / Dave Gingrich

| licenza Creative CommonsThe Truman show (1998) di P. WeirOur Delxue room @ The world-famous Stei-

genberger Hotel Frankfurter Hof - Frankfurt/Main - Germany - The grand dame of the city - one of the best hotels in the country and Europe! 02/2010 - Enjoy!:) | UggBoy ( have fun doing it ) | licenza Creative Commons

The Crystal Boat Seafood Restaurant | info-matique / William Murphy | licenza Creative Commons

Sunset Party Dancing Girl Silhouette | Pink Sherbet Photography / D. Sharon | licenza Creative Commons

Terri Mannarini, La cittadinanza atti-va. Psicologia sociale della partecipazio-ne pubblica, Il Mulino 2009

Partecipare a un consiglio di quartiere, aderire a un comitato cittadino di tutela del territorio, intervenire in una assemblea dei cittadini su inquinamento e sicurezza sono alcune delle espressioni più comuni della par-tecipazione pubblica e della cittadinanza attiva. Ma che cosa significa partecipare? Quali sono le motivazioni che spingono le persone verso iniziative pubbliche? Questo volume affronta le principali dimensioni e dinamiche psicolo-giche implicate nei processi di coinvolgimento dei cittadini in decisioni di interesse collettivo, riassumibili sotto l’etichetta di “partecipazione pubblica”. Dopo una sintetica introduzione che delinea i tratti distintivi della democrazia deliberativa, vengono analizzati gli aspetti fon-damentali della partecipazione pubblica: dalle motivazioni ai processi cognitivi, agli ancoraggi alla base della conoscenza di senso comune, fino al ruolo delle disposizioni individuali e agli effetti di alcune forme di influenza sociale sul cambiamento di opinione e di atteggiamento.

Cacciatore Giuseppe; D’Anna Giu-seppe, Interculturalità. Tra etica e politica, Carocci 2010

Gli orizzonti sociali attuali impongono sempre più all’attenzione della riflessione etico-politica la questione dell’altro e delle differenze culturali. L’interculturalità sorge dall’esigenza di progettare uno spazio aperto all’interno del quale le differenze tra gli individui e tra le comunità possano trovare un terreno di nego-ziazione, in cui la possibilità del vivere comune non sfoci né nell’annullamento delle specificità individuali e collettive, né in conflitti insanabi-li. Questo libro offre una prospettiva ampia e articolata delle tematiche che un pensiero dell’interculturalità si trova a dover affrontare. Il problema della universalità dei valori e del-le norme etiche, le questioni di genere, i diritti umani, le forme di governo rappresentano tutti plessi tematici della riflessione sull’intercultura-lità, che il presente volume affronta anche nella loro specifica natura teorica.

Stefano Semplici, Undici tesi di bio-etica, Morcelliana 2009

Il progresso della scienza pone interro-gativi sempre nuovi sul senso, sui modi del nascere e del morire, mentre il pluralismo delle prospettive morali amplifica la difficoltà di tro-vare risposte adeguate e condivise. Le undi-ci “tesi” suggeriscono un percorso attraverso i principali capitoli della bioetica - l’aborto, la fecon-dazione in vitro, l’eugenetica, la speri-

mentazione sugli embrioni, l’eutanasia, il testa-mento biologico - nella consapevolezza che essa è luogo di dubbi, più che di conclusioni. E per questo anche di grandi responsabilità. Per le persone e per la politica.

Meccariello Aldo; Baccarini Emilio; Cuomo Vincenzo, La plurivocità del male, Aracne 2009

Il male, sfida o scandalo? Da sempre la filosofia e la teologia hanno dibattuto la que-stione senza però offrire soluzioni rassicuranti e univoche. Il presente volume, che nasce da un seminario tenutosi a Napoli nella primavera del 2008, organizzato dalla rivista “Kainos” e dedicato a “Le parole del Novecento”, non intende proporre una riflessione metafisica o morale sul tema del male ma piuttosto vuole dare conto dei molteplici luoghi in cui esso tende a manifestarsi. I saggi raccolti tentano, a partire da riflessioni su Bataille, Kracauer, Baudrillard, Wittgenstein e Arendt, un’esplora-zione del male nella crisi novecentesca. I testi sono affiancati dagli interventi visivi di sei ar-tisti contemporanei (Luc Fierens, Robin Kahn, Angelo Ricciardi, Anton Roca, Vincenzo Ru-sciano, Nello Teodori) selezionati da “Codice Ean”, associazione per l’arte contemporanea. Con un saggio introduttivo di Emilio Baccarini. Contributi di: Vincenzo Cuomo, Eleonora de Conciliis, Leonardo V. Distaso, Aldo Meccariel-lo, Felice Ciro Papparo.

Adriano Fabris, TeorEtica. Filosofia della relazione, Morcelliana 2010

Il titolo - TeorEtica - allude fin da subito alla posta in gioco: ridefinire i rapporti tra pen-siero e azione, tra teoresi ed etica. Se nelle tra-dizioni filosofiche per lo più queste sfere sono state separate o addirittura opposte, pensan-dole fino in fondo non si trova un implicarsi re-ciproco che impone una loro ridefinizione? Di qui la rivisitazione di luoghi classici sui princìpi primi - in Aristotele, Anselmo, Cartesio, Kant, Hegel, Heidegger per mostrare come in essi l’impensato sia proprio il concetto di relazio-ne: il coinvolgimento del soggetto nella teoria e nella decisione morale. Coinvolgimento che significa responsabilità del pensiero perché è sempre, più o meno consapevolmente, scelta di un’azione. La filosofia, in tal modo, è un’”eti-ca della relazione”, dove il filosofare, in quanto offerta di senso, è esso stesso un agire: “da ciò nasce il progetto di una TeorEtica: l’esposi-zione di un pensiero che si fa nel suo fare coin-volgente”. Una filosofia che - andando oltre gli sterili dualismi di ermeneutica e razionalismo, continentali e analitici - invita il lettore a ripen-sare il suo abitare il mondo.

consigli di lettura | saperi

blackboard

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La storia raccontata nel Il graf-fio della regina (Iris4Edizioni, Roma. Pagg. 146. € 15,50) è un

omaggio al primo “mistery” della storia del romanzo poliziesco.

Era il novembre del 1862 quando sul settimanale “Once a Week” apparve la prima puntata di The Notting Hill Mystery, roman-zo a puntate di Charles Felix , non firmato e poi raccolto in volume nel 1865. Un delitto

perfetto, che l’investigatore delle assicurazio-ni Ralph Henderson riuscirà a svelare, ma non a provare. Il graffio della regina prende le mosse dallo stesso soggetto, ma ha una con-clusione diversa, perché questa volta l’inve-stigatore (o meglio gli investigatori, perché gioco di squadra e pluralismo dei soggetti dominano la scena) troverà il modo per in-chiodare il colpevole (o meglio i colpevoli). L’intreccio funge però soltanto da cornice,

LETTERATURA | intervista agli autori

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Come nasce un libro?L’autore de Il graffio della regina racconta la genesi del suo libro

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perché il quadro è multiforme, attraversato da un costante gioco della memoria, dove si confrontano più personaggi, ma soprattut-to il protagonista e il suo alter ego che, se da una parte lo completa, dall’altra ne rivela limiti e manchevolezze. Come nel Sosia di Dostoevskij, il protagonista si specchia e si confronta nell’altro fino a vedere meglio se stesso soltanto in questo modo. Un proces-so che, ovviamente, è sempre accompagnato dal dubbio, dominante di tutto il racconto. Dal dubbio che si accompagna al corso delle indagini, insinuandosi fra un tassello narra-tivo e l’altro, all’interrogativo che tormenta il protagonista (la sua nomina a Rivamare, ridente cittadina della Riviera ligure di po-nente, è un premio o una punizione?), via via fino ad un conflitto di sentimenti che si intrecciano, ora repressi e respinti, ora com-promessi e sottoposti a nuove prove.

D’altra parte, come diceva Chesterton, che cosa sarebbe il poliziesco senza il dub-bio? Già Pirrone di Elide, tre secoli prima di Cristo, sosteneva che a causa del dubbio tut-to è relativo e che, nell’impossibilità di pro-nunciarsi, sia in modo positivo sia in modo negativo, ogni giudizio va sospeso. Porta aperta allo scetticismo, dunque. Ma se nel dubbio Pirrone trovava la pace e la felicità, perché quando nulla ha un valore oggetti-vo allora tutto risulta indifferente, Cartesio non si accontentò di lavarsi pilatescamente le mani di fronte al problema e si propose di procedere per esclusioni, fino a convincersi che, tutto sommato, il dubbio finale non è poi tanto disprezzabile poiché, se non altro, dà la certezza della propria esistenza.

Cartesio utilizzò un’argomentazione che già sant’Agostino aveva rivolto contro gli scettici e se egli vivesse oggi, sosteneva an-cora Chesterton, sarebbe il re degli investi-gatori. Non a caso Padre Brown, il suo per-sonaggio più famoso, nelle indagini si affida puntualmente al metodo cartesiano.

Che cos’è infatti il romanzo poliziesco se non un “doubt in progress”, un’esemplifica-zione del “dubbio metodico” quale strumen-to di eliminazione di tutte le supposizioni mal fondate? Un “giallo” o un “noir” inizia di solito con un mistero (per lo più un de-

litto) da risolvere. Mentre i più si arrendono di fronte a interrogativi che paiono insolu-bili, l’eroe di turno (Sherlock Holmes, Nero Wolf, Rex Stout o Montalbano) prende di petto la situazione e, Discorso del metodo alla mano, segue le quattro regole dell’evidenza, dell’analisi, della sintesi e dell’enumerazione.

Qual è il detective che nella storia del po-liziesco non si sia affidato alle quattro regole cartesiane? Anche nel Graffio della regina il commissario Pollini e la sua squadra eteroge-nea seguono questo percorso, dove il dubbio invade la scena fin dall’inizio. L’evidenza è il fatto (la morte di una donna), ma come sia avvenuto il fatto non è chiaro. L’analisi passa in rassegna le successive indagini e le catalo-ga accuratamente. La sintesi valuta le diverse prospettive che si sono delineate e le con-fronta fra loro per cercare di vedere quale fra tutte si avvicini maggiormente a una solu-zione razionale. L’enumerazione cerca di non trascurare nulla e di essere il più completa

possibile, pronta a fissare la sua attenzione su un nuovo indizio che, improvvisamente, si rivela meritevole di interesse.

Su queste basi dovrebbe svilupparsi Il graffio della regina. Ma, almeno per quanto riguarda l’autore, resta il dubbio che il me-todo abbia funzionato. “Noir” o “giallo”? Anche qui all’inizio regnava il dubbio. Poi, di concerto con l’editore e con il curatore della collana, si è optato per il “noir”. Da non confondersi con lo “splatter” o il “pulp”, efferate e sanguinarie variazioni del “grand-guignol”, spettacoli macabri in cui trionfano l’orrore e il raccapriccio del mattatoio. Se il “giallo” è l’indagine su un delitto, il “noir” è qualcosa di più: è una condizione dello spi-rito, un colore dell’anima; è il buio nel quale sprofonda la coscienza smarrita nei labirinti del male e nei bassifondi della psiche. E pro-prio di questo status si occupa Il graffio della regina.

Variante del “giallo” tradizionalmente inteso, il “noir” sottende al colore cupo e angoscioso, spesso metafisico, di cui si contorna una realtà ispirata a crimini brutali ed efferati del-la cronaca nera. Ma il “noir”, nella linea di un interscambio fra letteratura e cinema, fra romanzo sociale francese e “hard boiled” hollywoodiano, è anche una condizione dello spirito. Condizione che emerge dal Graffio della regina di Enzo Natta e dagli altri romanzi della collana “Arcanum” di Iris4Edizio-ni, Dannati di Giovanna Mulas e Subbuglio in metropoli di Fabio Bernardini. Tre romanzi che hanno in comune storie e destini che si intrecciano in una sequenza di inganni e dubbi, enigmi e misteri che si contrappongono all’affannosa ricerca della verità, eppure profondamente diversi l’uno dall’altro. E infatti, se Dannati è la metafora di un viaggio dove i “dan-nati” sono le anime di uomini del nostro tempo nell’eterno traghetto di Caronte verso gli Inferi, romanzo sperimentale in cui si condensano i simulacri di tutte le avanguardie del ‘900, Subbuglio in metropoli è un realistico spaccato della Roma d’oggi, dove eroi e e antieroi, carnefici e vittime sono figli della stessa esistenza disillusa.

Ernesto G. LauraDirettore della collana Arcanum

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Che tipo di dominio un potere totalitario può estendere sulla sfera del linguaggio? Nella testimonianza offerta dal filologo Victor Klemperer, un modello di resistenza al venir meno del potere del dubbio insito in ogni linguaggio.

La lingua che crea e pensa per te

Claudia Pedone

Osservazioni sull’universo linguistico della Germania nazista

1. Rubare le parole per far tacere il pensiero

Furto di parole. Arbeit macht frei, la scritta che sovrastava

l’ingresso del lager di Auschwitz è stata ruba-ta. Pochi giorni dopo la polizia l’ha ritrovata, ma era stata smembrata in tre pezzi. I ladri non sono legati ad ambienti neonazisti e la loro azione è stata motivata da un interesse molto più banale di una qualsivoglia temibi-le riaffermazione ideologica. Hanno rubato

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per poter rivendere la refurtiva ad un colle-zionista. Un furto che ha lasciato sgomenti per il suo valore simbolico. Eppure, nel suo movente, profondamente banale, banale come il male raccontato da Hanna Arendt durante il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann.

Il furto della scritta supera, nel suo si-gnificato, il crimine di profanazione di un luogo di memoria o di sottrazione di un bene culturale. Sono state rubate le parole attraverso le quali si varca la soglia di un mondo che continua, pur sempre, a celare in sé l’inesprimibile.

Non è stata trafugata soltanto una tar-ga in ferro battuto: con la scritta che apre le porte di Auschwitz è stato portato via un frammento di documentalità – come affer-merebbe Maurizio Ferraris – una pagina del libro della storia dell’umanità, poiché gli eventi diventano storia grazie alle parole scritte che li custodiscono e li trasformano in documenti.

Parole rubate e fatte a pezzi. Un episo-dio d’attualità che illumina i fatti accaduti sotto il regime hitleriano.

Ben prima dell’invasione dell’Austria e della Polonia, infatti, un’altra invasione aveva già avuto luogo nella Germania che si preparava a combattere la Seconda Guerra Mondiale: l’invasione della lingua e, attra-verso questa, l’invasione del pensiero. E il metodo utilizzato non era differente rispetto a quanto narrato dalla cronaca del furto di Arbeit macht frei: appropriarsi della lingua, farla a pezzi, e restituirla smembrata, defor-mata nel suo significato, ma celata da un si-gnificante innocuo e familiare. Niente di più di ciò che hanno messo in atto i cinque ladri dopo sessantacinque anni dalla liberazione di Auschwitz.

Nella rilettura simbolica di queste azio-ni si fa nuova luce su un passato a cui non è stato posto ancora un punto e che, sem-pre attuale, si riaffaccia alla nostra riflessione presente.

Ecco allora trasparire una particolare possibilità di comprensione dell’orrore che ha fatto irruzione nel cuore della nostra cultura: studiare il fenomeno del nazismo a

partire dal varco aperto dal linguaggio. Per-ché la tragedia non si esaurisce nel conto a sei zeri del numero delle vittime e nelle sof-ferenze subite dal popolo ebraico e dagli altri internati nei campi di sterminio. Tentare di comprendere il male, così assoluto e così ba-nale che ha spadroneggiato nel terzo Reich, chiede di ascoltare la voce fioca di chi ha vis-suto questi avvenimenti e trova il coraggio di raccontarli, di consultare gli archivi, ma anche di delineare uno studio filologico sul-la trasformazione del linguaggio avvenuta in epoca nazista e sul suo impiego, ad opera dei carnefici e delle stesse vittime.

2. Klemperer: testimonianza di un filologo

Di fronte alle grandi tragedie dell’uma-nità il tribunale della storia si attrezza per chiamare fatti e persone al banco degli im-putati. Tra i grandi protagonisti chiamati a dividersi meriti e responsabilità degli eventi non si deve dimenticare di chiamare in causa la testimonianza chiave offerta dal linguag-gio.

È proprio questa l’intuizione di Victor Klemperer.

Filologo, vissuto a Dresda negli anni in cui la Germania era dominata dal nazismo, Klemperer soffre in prima persona, sulla propria pelle – e nella propria lingua –, il pervasivo insinuarsi della violenza della dit-tatura di Hitler. Ebreo, figlio di rabbino, si converte al protestantesimo dopo il matri-monio con Eva Schlemmer. Durante il regi-me nazista, Klemperer gode della condizione di “privilegiato”, poiché ha contratto matri-monio con una donna ariana. La condizione di “privilegiato” non lo solleverà dalle conti-nue umiliazioni e dalle violenze cui sarà co-stantemente sottoposto, tuttavia, particolare non da poco, gli permetterà di sfuggire alla deportazione e, grazie ad una serie di fortuiti eventi, di sopravvivere ai terribili anni della guerra.

I dodici anni di governo del Führer riducono Klemperer in una situazione di estrema miseria e povertà. Costretto ad ab-

bandonare l’insegnamento e la propria casa, dopo aver gradualmente perduto il possesso di ogni altra proprietà, compresa l’automo-bile e perfino il gatto, Klemperer deciderà di impedire al nazismo di privarlo anche della propria umanità. In un momento in cui la sua vita era costretta a spogliarsi gra-dualmente di ogni cosa, la sua professione e il suo animo di filologo diventano l’asta di equilibrio a cui tenersi ben stretto per non cadere giù. L’asta a cui aggrapparsi in un’esi-stenza continuamente in bilico, sempre so-spesa tra la vita e la morte.

L’opera filologica cui dedicherà la vita, fino a rischiare di comprometterla, consiste nella registrazione puntuale e meticolosa della lingua parlata nel mondo nazista: le trasformazioni dei significati, le espressioni divenute cliché, la formazione di un codice standardizzato. Il linguaggio dell’oppressore diviene, in tal modo, la finestra da cui affac-ciarsi per osservare gli eventi che hanno in-tessuto la trama della storia negli anni della dittatura.

Da questa prospettiva, Klemperer offre un’analisi dettagliata dei lemmi maggior-mente adoperati e un’interpretazione dei fatti vissuti in prima persona. Una ricerca che focalizza l’attenzione sul linguaggio: strumento apparentemente innocuo, eppu-re capace di celare un’inaudita pericolosità, perché “come un cavallo di Troia” penetra e distrugge dall’interno. “Come minime dosi di arsenico” non rivela immediatamente il proprio effetto tossico e agisce indisturbato dopo essere stato assunto1.

Le vicende biografiche di Klemperer si intersecano coi suoi studi e danno vita ad una minuziosa ricerca filologica. Solo la decisione di compiere un atto eroico può permettere all’ormai ex docente di filologia – destituito dall’insegnamento dal regime – di continuare a vivere in modo dignito-so: testimoniare. Testimoniare fino all’ultimo diverrà la sua personale missione, il suo atto di eroismo2.

Il dramma che Klemperer vuole descri-vere attraverso l’analisi linguistica non si compone di pochi apocalittici eventi, è la tragedia del quotidiano, del dileguarsi, gior-

linguaggio

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no dopo giorno, della normalità della vita. La sua è una «trage-dia fatta di particolari», perché «migliaia di punture di zanza-ra – come spiega nei suoi diari – sono peggio di un colpo sulla testa» (Klemperer 2000: 815) e il dramma di quegli anni non risulta comprensibile restrin-gendo il campo di osservazione ai crimini più efferati, poiché la “soluzione finale” è l’epilogo di una storia più lunga, scritta quo-tidianamente con parole nuove.

Strumento indispensabi-le in questa lotta: un taccuino. Nascosto con estrema dovizia, poiché il suo ritrovamento si sarebbe trasformato inevitabil-mente in una condanna a morte. Infatti, annotare metodicamente la trasformazione della lingua tedesca sul suo taccuino di un fi-lologo non era un’operazione per nulla semplice. I rischi e le diffi-coltà si registravano assai elevati. E finanche il reperimento del materiale necessario a tale studio risultava un’impresa ardua. Agli

ebrei era vietato conservare con sé libri e giornali o sostare per strada per leggere lo Stürmer, il quotidiano affisso ai muri del-le città. Sebbene l’accesso degli ebrei alla pubblica informazio-ne fosse ostacolato da numero-se norme e divieti, Klemperer proseguì nella compilazione de-gli appunti, pubblicati alla fine della guerra in LTI. Taccuino di un filologo3. Un taccuino della lingua del terzo Reich che offre un ampio materiale, seleziona-to dalla fine intelligenza di uno specialista, per avviare una rifles-sione sul tema del linguaggio in epoca nazista.

3.1. LTI: Il linguaggio della menzogna

Come il re Mida trasforma in oro tutto ciò che tocca, così il nazismo tramuta in menzogna ogni realtà cui si avvicina, spiega Klemperer esaminando la Spra-chregelung.

La Sprachregelung è l’insie-me di regole linguistiche su cui i nazisti si sono tacitamente ac-cordati, codificando un vero e proprio gergo, un’inattaccabile corazza per difendere se stes-si dal contatto con il male cui prendevano parte direttamente in prima persona.

Utilizzare il nuovo codice, anziché nominare fatti e cose con il loro significante più con-sueto, permise alla comunità dei parlanti di assegnare, con mag-giore facilità, un nuovo significa-to ad azioni e valori. Il rapporto tra i fatti e la loro ascrizione ad una dimensione assiologica fu stabilito su basi del tutto nuove, capaci di ribaltare ogni più ovvia definizione di bene e di male: «le cose sono giunte al punto che la bugia ha il suono della verità, e la verità il suono della bugia» (Adorno 1994: 121). Verità e menzogna confondono i loro suoni, si scambiano di posto e si rendono irriconoscibili. La men-zogna, in questo contesto, non è

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più un’affermazione pronuncia-ta con la consapevolezza di dire una falsità, «il tedesco è una per-sona che non può dire una bugia senza crederci» (Adorno 1994: 124), la menzogna, allora, altro non è che quella stessa realtà a cui si crede ciecamente. La realtà totalitaria contiene, nel suo stes-so essere, un inganno totale.

Sfogliando il Taccuino è possibile osservare come il lessi-co inerente la deportazione e lo sterminio assunse una codifica-zione del tutto particolare, volta ad attenuare e a nascondere co-stantemente le atrocità compiu-te. Bisognava mentire, mentire anche a se stessi, fino a non ri-conoscere più il confine tra bene e male, tra menzogna e realtà e trasformare così la realtà stessa in una menzogna.

Il progetto destinato ad eli-minare dalla faccia della terra i nemici del nazismo, e che portò all’uccisione di dodici milioni di persone in una manciata d’anni, assunse l’innocua denomina-zione di Endlösung, soluzione finale. Un’espressione che non lascia trasparire nulla dell’orro-re e della violenza delittuosa del progetto nazista. Il termine En-dlösung permette di sottolineare la genialità del provvedimento che permise di risolvere l’annosa questione ebraica che, fino a quel momento, non aveva visto altro che soluzioni provvisorie.

Anche le singole azioni che compongono la tragedia della soluzione finale non sfuggono allo stesso mascheramento. Le SS e la Gestapo avevano il po-tere di “prelevare”, holen, o di chiedere a qualcuno di “pre-sentarsi”, melden, al Comando. Holen e melden, però, sono due verbi che, nella loro consueta

semplicità, celavano l’inizio del dramma della deportazione. Nella richiesta di “presentarsi” o nell’improvviso “essere preleva-ti” si compiva il primo passo che avviava l’inarrestabile cammino, di sola andata, verso i campi di sterminio.

Questi stessi campi della morte conservarono un nome di vecchia data: Konzentrazion-slager, campi di concentramen-to, luoghi già noti alla pubblica opinione e destinati all’incarce-razione di prigionieri politici e di soggetti da rieducare attra-verso il lavoro forzato. I campi di sterminio di Auschwitz, Da-chau, Mauthausen, Theresien-stadt, Treblinka, insieme ad altri, com’è noto, furono adoperati per una finalità ben diversa dalla de-tenzione, eppure conservarono

lo stesso nome dei precedenti, Konzentrazionslager.

L’analisi di Klemperer ci permette di osservare come le più evidenti iniquità potevano essere spacciate per delle ine-zie. Le SS, infatti, rubando e rapinando, affermavano di star “mettendo al sicuro” i beni sot-tratti al legittimo proprietario. Allo stesso modo, il divieto go-vernativo che impediva a miglia-ia di ebrei di svolgere il proprio lavoro non era riconosciuto come una brutale segregazione o una violazione dei diritti perché, utilizzando il linguaggio nazi-sta, si parlava esclusivamente di “pensionamento” o di “esonero dal lavoro”.

Seguendo lo stesso procedi-mento di deformazione del si-gnificato attraverso l’incessante,

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insistente e incontestabile iterazione della menzogna, il ghetto diveniva una Judenhau-se, casa degli ebrei e Hitler poteva ben van-tarsi di non essere un dittatore, bensì uno statista capace di aver “semplificato la demo-crazia”. Il Führer poteva anche aumentare i propri motivi di vanto urlando in radio di non aver “mai cercato il conflitto armato” e di voler ottenere solo “ciò che appartiene alla Germania”.

Chi mai avrebbe potuto allarmarsi per la censura che colpiva i mezzi d’informazio-ne? Hitler lo dichiarava senza mezzi termini, la sua azione non aveva nulla a che vedere con la censura, si trattava di un contributo per “disciplinare la stampa”.

Chiunque sospettasse che i nazisti commettevano ingiustificati furti e rapine ai danni dei cittadini avrebbe certo dovuto ricredersi: si “mettevano al sicuro” i beni della Germania. Anzi, c’è di più, chiunque osasse riferire, a terzi, simili ‘infondati’ pen-sieri avrebbe certo corso il rischio di dover rispondere della frequentissima, e altrettan-to temibile, accusa di Greuelpropaganda, la propaganda degli orrori, crimine imputabile a chiunque riferisse fatti sgradevoli sul go-verno.

3.1.1. Il superlativismo: oltre ogni misura

Una particolare forma di penetrazio-ne della menzogna nel linguaggio nazista è quella che Klemperer definisce superlati-vismo. L’uso e l’abuso di forme iperboliche e di espressioni esagerate costituiva il pane quotidiano della parola nazista.

È pur vero che un simile uso delle ag-gettivazioni quantitative, a tratti esaspera-to, poteva essere rintracciato anche nello stile americano, tuttavia, le finalità proprie dei due universi linguistici si dimostravano profondamente differenti. Alla vanagloria americana, secondo Klemperer, faceva da contraltare l’intenzione del linguaggio nazi-sta di confondere: «privo di scrupoli e con consapevole perfidia, si propone sempre di ingannare e stordire le menti» (Klemperer

1998: 270). La dismisura scompagina ogni metro di

valutazione. E l’assenza di misura nell’uso della lingua fa da specchio e dà forma all’as-senza di limite nella ferocia della violenza. Un unico stile accomuna l’universo lingui-stico e il mondo della prassi, «stando ai re-soconti dei testimoni, si torturava e si assas-sinava senza piacere, e forse proprio perché oltre ogni misura» (Adorno 1994: 115).

Il numero di esempi e di situazioni in cui si rileva la presenza del fenomeno del superlativismo è talmente elevato che Klem-perer non esita a definirlo «la forma lingui-stica della LTI più frequentemente usata» (Klemperer 1998: 273). L’uso esasperato del superlativo si evidenzia secondo differenti modalità: numerico-quantitativa, aggettiva-le-qualitativa e discorsivo-sintagmatica. Si esagera sulla quantità delle conquiste e dei successi in guerra, sugli anni di vita dell’Im-pero nazista, “eterno” e “millenario”, ma an-che sulle straordinarie qualità dei caduti in guerra, le becere meschinità dei nemici e la maestosità di ogni nazista, fino a impregnare ogni discorso ed ogni frase di una ridondan-za e di una magniloquenza tale da eliminare ogni parvenza di una normalità espressiva e imporre un punto esclamativo al termine di ogni dichiarazione.

Lo stile del nazismo non ammette vir-gole e punti e a capo, né tantomeno i medi-tabondi punti e virgola, tipici di una ricerca dell’aurea mediocritas. Solo punti esclamati-vi, urla imperative che richiamano la forza del fulmine e del tuono, proprio come la stessa grafia adottata per scrivere la sigla del-le SS: non due lettere sinuose, ma due ful-mini, presi in prestito dall’alfabeto runico e trasformati in simbolo dell’impetuosa forza del corpo paramilitare nazista.

Groβ, grande, welt, mondiale, einmalig, unico: tutto ciò che accade nella Germania di metà Novecento è privato di qualsiasi sentore di ordinarietà o banalità per essere ricoperto dalla veste dello straordinario e apparire grandioso, degno di essere citato tra gli avvenimenti annotati negli Annales. Ogni incontro diplomatico e ogni discorso di Hitler sono celebrati come momenti di

importanza storica per il Reich. Nell’impero hitleriano non esiste l’ordinario, nulla può essere ridotto al rango di normalità, tutto deve essere urlato e riecheggiare incessante-mente: ogni fatto è un evento, ogni novità una notizia.

L’effetto provocato dall’uso di queste forme di esagerazione verbale è devastante. Klemperer non indugia nel denunciare la “maledizione del superlativo”: «è una male-dizione che lo segue necessariamente in tut-te le lingue. Infatti, dappertutto accade che un’esagerazione permanente porta necessa-riamente a ulteriori e maggiori esagerazioni, le cui conseguenze inevitabili sono agno-sticismo, scetticismo e, infine, incredulità» (Klemperer 1998: 276).

Nell’esagerazione, nel superlativismo, il filologo di Dresda rintraccia uno tra i più evidenti strumenti della menzogna che, giorno dopo giorno, urla dopo urla, trasfor-ma il mondo del linguaggio e dell’azione.

3.2. Il linguaggio della violenza e la violenza del linguaggio

Quella della violenza appare una cate-goria capace di abbracciare numerose pagi-ne delle osservazioni e delle annotazioni qui prese in considerazione. La violenza, infatti, attraversa come un fil rouge tutti i dodici anni della storia dell’uomo e del filologo, raccontata da Klemperer come estremo atto per attestare il suo essere ancora vivo.

Al linguaggio della violenza, che trova in calci e bastonate alcune delle sue principali argomentazioni, si affianca la violenza del linguaggio, nell’uso spregiudicato di insulti, volgarità e umiliazioni verbali di ogni sor-ta. Ai pugni assestati in pieno volto duran-te gli interrogatori e alle nerbate distribuite durante le perquisizioni fa eco un modo di parlare triviale, ricolmo di irrisioni e di offe-se nei confronti di coloro su cui si abbatteva l’efferatezza della discriminazione.

Il sopruso verbale, così come l’oltrag-gio fisico, era divenuto talmente abituale da rendere assolutamente inconsueta l’ela-borazione di un discorso politico privo di

violenza | superlativismo

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denigrazioni a carico degli ebrei e delle altre fasce di popolazione discriminate. Insultare l’ebraismo era divenuta una prassi talmen-te consueta che, come afferma Klemperer, «non c’è una volta in cui Hitler o Goebbels parlino dell’ebreo senza aggiungere attributi quale scaltro, astuto, imbroglione, vigliacco; né mancano le ingiurie, che la mentalità po-polare riferisce all’aspetto fisico: piedipiatti, naso ricurvo, allergico all’acqua» (Klemperer 1998: 226).

I diari del filologo di Dresda sono ricol-mi di annotazioni riguardanti i ‘fantasiosi’ insulti nei confronti degli ebrei: “profana-tori della razza”, “assassini”, “i più schifosi bastardi”, “la razza più stomachevole”, per non annoverare la tassonomia escrementi-zia divenuta il modo comune, e addirittura ufficiale, per rivolgersi al popolo semita. La martellante ripetizione che gli ebrei sono “sudici”, “scimmie”, “animali”, “infami” de-molisce l’immagine dell’altro come uomo e fa procedere a passi spediti verso la ghettiz-zazione e il definitivo annientamento. Con l’assassinio di massa ciò che non è più vi-sto come uomo viene trasformato in cosa. Cadavere già prima di essere morto, perché annientato e reso inumano nella trasforma-zione della propria immagine (quella collet-tivamente riconosciuta e quella di un corpo spogliato e deturpato all’ingresso del Lager).

Secondo la cultura ebraica, per appro-priarsi di qualcuno o di qualcosa bisogna possederne il nome. Varcata la soglia del campo di sterminio il proprio nome rima-neva soltanto un ricordo di tempi felici. Si veniva spogliati di tutto, anche del nome e, con esso, della propria identità e della pro-pria umanità. Al suo posto un segno di rico-noscimento univoco: il numero marchiato in modo indelebile sul braccio. La cancella-zione del nome era l’atto finale di un ben più lungo processo di spoliazione, teso a spazza-re via ogni traccia d’identità e a trasformare le persone in cose.

La privazione del nome e la sua sosti-tuzione con un numero di serie realizza il massimo livello di una forma di violenza già subita, in nuce, da tutti gli ebrei ancora in città, costretti ad abbandonare i propri nomi

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Nel suo libro Filosofia della Shoah lei dichiara, sin dal sottotitolo, l’inten-zione di voler pensare Auschwitz. Ma dell’annientamento nazista che cosa può essere effettivamente pensato e che cosa, invece, si pone decisamente al di là di questa possibilità?

La sua domanda dà per scontato l’esistenza di un presunto iato metafisico tra “ciò che può essere pensato” e “ciò che non può essere pensato”. Tuttavia, perlomeno a mio avviso, occorre superare criticamente una diffusa ed egemone concezione in nome della quale, quando si parla dei campi di sterminio nazisti, si entrerebbe in un ambito che eccede la pensabilità umana. Ma perché mai? Se i campi di sterminio nazisti sono stati progettati, costruiti e infine gestiti da uomini in carne ed ossa come noi, perché mai non potremmo allora pensare a ciò che è accaduto in quei luoghi?

Tra i dati analitici e le testimonianze dirette, tra l’elaborazione concettuale e una sofferta empatia, si pone la delicata questione della didattica della Sho-ah. In che modo spiegare ai giovani che cosa accadde nei campi di sterminio?

Penso che occorra dire ai giovani la verità: nei campi di sterminio nazisti sono stati assassinati circa dodici milioni di uomini, donne e bambini. Per spiegare poi la sorgente originale del complesso processo storico e sociale che ha condotto alla costruzione e gestione di queste “fabbriche della morte” occorre insistere sul nucleo fondante del nazismo: il suo razzismo. La negazione dei diritti inalienabili di ciascun uomo ha infatti costituito la strada maestra che ha portato ad Auschwitz.

La riflessione su quanto avvenuto nella Germania del terzo Reich chiede di discernere gli elementi di unicità e di universalità dell’orrore dello sterminio nazista. Lei dove individua questo discrimine?

Non penso che gli assassini di massa perpetrati dai nazisti costituiscano un evento “unico” ed irripetibile nell’ambito della storia umana. Certamente le modalità specifiche con le quali i nazisti hanno operato il loro sterminio di massa vanno considerate as-sai analiticamente nella loro specifica peculiarità storica ed ideologica, tuttavia la storia umana è purtroppo costellata da una innumerevole quantità di altri stermini e di altri svariati crimini contro l’umanità. Lo sterminio perpetuato dai nazisti nel XX secolo, nel cuore dell’Europa, non deve affatto farci dimenticare gli stermini posti in essere da altri movimenti politici in altre situazioni storiche e in altri contesti geo-politici: basterebbe per esempio pensare ai crimini contro l’umanità e agli autentici stermini di massa operati dal colonialismo in Africa ed in Asia. E bisognerebbe ricordare che anche l’Italia ha com-messo tali odiosi crimini.

L’analisi del linguaggio nazista conduce ad un’attenta disamina dei termini da utilizzare per dare un nome a questo indicibile. Quali sono le parole da lei scelte per parlare di questo drammatico evento?

Nel Vangelo si afferma che le nostre parole devono essere «si si, no no», giacché tutto il resto viene dal Maligno. Pertanto per parlare di quanto è successo nei campi di sterminio nazisti penso che occorra usare una sola espressione: assassini di massa. In quei luoghi i nazisti, grazie alle proprie “fabbriche della morte”, hanno assassinato dodici milioni di persone, cancellando dalla faccia della terra tutte le persone che ritenevano, sia pur per molteplici ragioni, razzialmente inferiori, diversi, asociali, oppositori politici, immorali e, comunque, del tutto inadatti al loro regime nazista.

Tesi negazionista, processo di beatificazione di Pio XII, furto della scritta all’ingresso di Auschwitz, celebrazione della giornata della memoria, a sessan-tacinque anni dalla liberazione di Auschwitz l’orrore nazista riecheggia ancora nel nostro quotidiano. Quale la sua attualità?

La sua attualità è l’attualità di qualunque tendenza razzista che voglia negare i di-ritti fondamentali ed inalienabili degli uomini per introdurre differenze razziali ed inique disuguaglianze giuridiche tra gli uomini. Ogni volta che si menomano, in vario modo, i diritti inalienabili ed universali degli uomini ci si colloca sempre su una strada che conduce, passo dopo passo, agli orrori di Auschwitz e allo sterminio dei diversi. Per questo occorre sempre difendere i diritti degli uomini, operando per una loro continua e sistema-tica diffusione planetaria, estendendoli anche a tutti i viventi (anche quelli non umani), tutelando un delicato e complesso patrimonio di civiltà che costituisce, invero, il nostro bene più prezioso e irrinunciabile.

FABIO MINAZZI | Pensare Auschwitz?

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per assumerne altri chiaramente identifica-bili come nomi ebraici. Tutti gli uomini, pertanto, erano costretti ad anteporre al pro-prio nome il più ebraico “Israel” e le donne “Sara”.

Gli ebrei dovevano essere immediata-mente riconoscibili.

Il 19 settembre 1941, il giorno in cui fu introdotto l’obbligo per gli ebrei di indossa-re la stella di David, è ricordato da Klempe-rer come il giorno più terribile di quei dodici anni: «ogni ebreo con la stella portava con sé il proprio ghetto, come la chiocciola la sua casa» (Klemperer 1998: 214).

La classificazione dell’ebreo appare una metodica ossessione nazista. Oltre ad essere immediatamente identificato, l’ebreo dove-va trovare anche la sua giusta collocazione in una sorta di griglia di catalogazione. Un ebreo non era solo un ebreo, poteva essere un Weltjude, l’ebreo mondiale, un artfremd, estraneo alla specie, se possedeva il 25% di

sangue non ariano, ma anche un Volljude, ebreo totale o Halbjude, ebreo per metà, un Mischlinge, cioè un misto di primo grado o uno Judenstämmlinge un discendente da ebrei o, ancora, un privilegiato, condizione più vantaggiosa riservata a coloro che ave-vano contratto un matrimonio misto e i cui figli erano stati educati come tedeschi.

Questa è l’occupazione della lingua de-nunciata da Klemperer. Un’occupazione che permette di esercitare la violenza nazista anche attraverso le parole e che nello stesso tempo esercita su queste parole tutta la vio-lenza propria dell’invasore, manipolando la lingua per i propri scopi, come argomenta Aldo Enzi:

È destino di tutte le parole trasformarsi nel volger del tempo secondo una diago-nale di forze: da un lato la costanza, o il peso, della tradizione, di questa forza di inerzia dei valori conoscitivi, che agisce nel senso della diacronia, della storia;

dall’altro le spinte laterali di nuove esi-genze espressive che agiscono nella con-temporaneità, nella sincronia. Però men-tre nella vita per così dire democratica del segno linguistico il significato muta, si adegua, si trasforma entro l’ambito di un equilibrio naturalmente determinato da un gioco libero e spontaneo di atti-vità diacronica e di pressione sincronica, e i nuovi valori si originano come da un intimo misterioso intercambio, nella so-cietà totalitaria l’equilibrio può spezzar-si sotto l’assalto di una volontà esterna, alienante, di una forzosa interpretazione politica, dando luogo ad una coartazione dei valori simbolici, a una semanticità strumentalizzata. Le parole allora trasfor-mano in eventi le follie ideologiche.

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Dunque la lingua riflette sempre in ritar-do le mutazioni semantiche dovute alla evoluzione delle correnti di pensiero; in

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Qual è la forma espressiva più adatta per raccontare che cosa accadde nei campi di sterminio? Un intenso confronto si è svilup-pato a partire da questa domanda e le diver-se risposte hanno dato vita ad una feconda produzione artistica e letteraria.

TestimonianzeLe testimonianze dirette raccolte dal

dopoguerra ad oggi sono numerosissime e imponenti archivi custodiscono i racconti dei sopravvissuti e il dramma intimo e individuale da essi subito.

Si segnalano, pertanto, solo alcuni titoli particolarmente significativi tra i numerosissi-mi altrettanto rilevanti:

Amèry, J. 2002. Intellettuale a Au-schwitz. Torino: Bollati Boringhieri.

Padoan, D. 2004. Come una rana d’in-verno. Conversazioni con tre donne soprav-

vissute ad Auschwitz. Milano: Bompiani.Springer, E. 1997. Il silenzio dei vivi.

All’ombra di Auschwitz, un racconto di mor-te e di resurrezione. Venezia: Marsilio.

Wiesel, E. 2007. La notte. Firenze: La Giuntina.

Poesia È barbaro scrivere poesie dopo Au-

schwitz? Le affermazioni del filosofo franco-fortese trovano nei versi di Umberto Saba e di Paul Celan una valida risposta ai suoi afo-rismi.

Celan, P. 1997. Fuga di morte. In An-tologia della poesia tedesca. Milano: Mon-dadori.

Saba, U. 1988. La capra. In Saba, U., Tutte le poesie. Milano: Mondadori.

FumettiLa storia di una famiglia e la tragedia

della Germania nazista si intrecciano come la trama di immagini e parole che danno vita

ad una storia illustrata. In Maus gli ebrei, rap-presentati dai topi, sono in balia della furia dei nazisti, sotto le specie di gatti.

Spiegelman, A. 2000. Maus. Torino: Ei-naudi.

FilmGli sguardi dei registi si posano sui campi

di sterminio per far vedere che cosa avvenne lì dentro, attraverso punti di vista molto diffe-renti: quello di un bambino, di un documen-tarista, di chi sogna una storia diversa, di chi impara a conoscere la violenza che anticipa l’epilogo nei Lager.

Il nastro bianco. Regia di Michael Ha-neke. Con Christian Friedel, Leonie Benesch, Ulrich Tukur, Ursina Lardi, Burghart Klaußner, et al. Austria, Francia, Germania 2009.

Jona che visse nella balena. Regia di Roberto Faenza. Con Juliet Aubrey, Jean-Hugues Anglade, Jenner Del Vecchio, Fran-cesca De Sapio. Italia, Francia 1993.

Train de vie - Un treno per vivere. Regia di Radu Mihaileanu. Con Agathe De La Fon-taine, Lionel Abelanski, Rufus, Clément Ha-rari, Marie José Nat, Bruno Abraham-Kremer, Michel Muller, Johan Leysen. Francia, Belgio, Romania, Germania 1998.

Shoah. Regia di Claude Lanzmann. Francia 1985.

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altre parole le trasformazioni dei valori simbolici sono sempre in ritardo rispetto agli avvenimenti. Ora, invece, nel nazi-smo assistiamo a un intervento imme-diato della potenza politica che inserisce d’autorità significati e parole nuovi nel tessuto sociale, sicché in molte parole si rivela non la motivazione inconscia, ma l’imposizione di un significato provoca-ta da esigenze mistificatrici (Enzi 1971: 2,3).

3.3. Iterazione e aforisma: la morte del dubbio

Il totalitarismo annulla in sé ogni possi-bilità dialettica. L’alterità e la negatività sono dissipate nella totalità strutturata dal siste-ma. Il pensiero critico è messo al bando, ma si rinforzano i muscoli delle braccia pronte ad operare ciò che è stato ordinato. Per ob-bedire non serve pensare. Anzi, per obbedire al meglio è di tutto vantaggio esimersi dalla responsabilità di un pensiero proprio. Servo-no ingranaggi, non sistemi intelligenti. Non bisogna porre domande, si deve agire.

La morte della domanda è il primo pas-so che segna il distacco dall’esercizio della ragione.

Nessuna ricerca può essere avviata lì dove la certezza si palesa in tutta la sua inte-grità. Rimuovere ogni dubbio e cancellare i punti interrogativi.

La LTI non offre parole a chi vorrebbe porre domande o intraprendere una ricerca guidato dalla propria coscienza, è la lingua di un fideismo cieco, che rinuncia alla ragio-ne e al discernimento personale e fa appello al sentimento: «non ha senso – protestava una donna al cospetto di Klemperer e delle sue argomentazioni – perché tutte le sue do-mande provengono dalla ragione […] deve abbandonarsi al sentimento» (Klemperer 1998: 139).

Lo stile che contraddistingue il linguag-gio nazista è l’estrema povertà. Povero perché continuamente identico a se stesso. Povero perché frutto di un pensiero povero e perché capace di impoverire il pensiero stesso.

L’ostinata ripetizione di frasi sempre

uguali e degli stessi identici cliché favorisce il formarsi di un solo sentire comune. La tecnica è quella dello slogan facilmente ri-petibile, con un continuo martellamento di teorie semplicistiche e incontestabili.

La frequenza della ripetizione delle stes-se frasi permette di riconoscere con estrema evidenza l’incontestabile limitatezza di que-sta lingua, «la sua è una povertà di princi-pio: è come se avesse fatto voto di povertà» (Klemperer 1998: 37). Tutte le persone, di qualunque professione o estrazione sociale, colte o ignoranti, ricche o povere, parlavano in un identico modo. Anche le stesse vittime avevano assimilato e utilizzavano quelle pa-role che le costringevano ad indossare le len-ti del carnefice: «perfino in coloro che erano le vittime più perseguitate […], altrettanto onnipossente quanto povera, resa anzi onni-possente dalla sua povertà, regnava la LTI» (Klemperer 1998: 38).

L’arte dell’aforisma accorre a svolgere la sua funzione di freno rispetto al ragiona-

mento e al dialogo. Come insegna Sandro Briosi:

[gli aforismi] nascono dal rifiuto del dia-logo, dalla paura del logos, da un atto di terrorismo intellettuale. […] Indurre l’ascoltatore a cogliere quella verità per così dire qualche tempo dopo che egli ha compreso il senso primo ed evidente dell’affermazione: e nel frattempo l’auto-re dell’affermazione si è come allontana-to, il dialogo è divenuto impossibile, la verità si impone come un atto di violenza anonima (Briosi 1998: 38).

Il meccanismo delle “frasi fatte” non permette nessuna forma di dialogo. Anche il dialogo con se stessi è arduo di fronte ad un’affermazione aforistica che offe al pensie-ro un porto sicuro, al riparo della sua neces-sitante verità. Una verità così mirabilmente forgiata in una frase, che è impossibile met-tere in discussione, e come un prezioso gio-iello ha solo da essere ammirata ed esibita.

Nata in ambito medico con Ippocrate,

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allo scopo di riassumere massime compor-tamentali benefiche per la salute, la storia dell’aforisma si articola in modo assai vario e la sua strumentalizzazione ad opera dei regimi totalitari è solo una particolare ra-mificazione delle sue complesse vicende. La scrittura aforistica non è certo prerogativa esclusiva dei regimi dittatoriali, tuttavia in tali circostanze si è testata l’evanescenza del suo statuto aletico, a fronte di una forza per-suasiva straordinaria, come straordinaria è la sua brevità. Lo stile più adatto a rappresen-tare una personalità esplosiva ed energica, come quella modellata per l’abito nazista a cui sono invisi gli scrittori flemmatici e son-nacchiosi.

Importante strumento conoscitivo, se preso a scatola chiusa per la seduzione della sua forma, «l’aforisma si presenta come l’ul-timo rifugio per chi non vuol pensare […] ci dice quello che già credevamo o già deside-ravamo credere» (Eco 2004: 159). Le pillole di ipse dixit, rassicuranti e ingurgitate senza fatica, durante il dominio nazista hanno de-cretato la morte della coscienza di un intero popolo. Hanna Arendt ascolta le deposizioni di Adolf Eichmann, osserva lo sgomento che lo assale davanti alla richiesta di rispondere a dei perché: la sua coscienza era come un contenitore vuoto priva di un proprio lin-guaggio, capace solo di articolare la lingua della ‘società rispettabile’4.

Nella Germania di metà Novecento l’appello all’impiego di uno stile aforistico non coincide con la nietzscheana volontà di sottrarsi allo spirito di sistema: il totalitari-smo non è totalitario nella sua teorizzazione, predilige il frammento capace di mostrare i muscoli e pretendere ubbidienza5.

3.4. In lingua veritas«Il nazismo si insinuava nella carne e nel

sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute mi-lioni di volte, imposte a forza dalla massa e da questa accettate meccanicamente e incon-sciamente» (Klemperer 1998: 32). In que-ste pagine si è tentato un accenno al modo

in cui il nazismo si è insinuato nel corpo e nella lingua del popolo tedesco, ma questo esempio particolare, seppur nella sua unicità storica, ci permette di stabilire dei criteri di fondo della trasformazione del linguaggio ad opera dei sistemi dittatoriali. In un contesto storico completamente differente, nella Ro-mania degli anni Settanta-Ottanta, anche il premio Nobel Herta Müller porterà avanti la sua lotta contro la “lingua di legno” del re-gime comunista di Ceausescu: per resistere, afferma la Müller, per non lasciarsi penetrare dalla violenza della dittatura.

Il nostro filologo ci propone un esperi-mento: provare a sostituire Stalin a Hitler, bolscevismo a nazionalsocialismo e osservare che i discorsi sono esattamente gli stessi

Nel controllo del linguaggio si ritrovano le chiavi per il dominio della realtà. Attra-verso l’esperienza del totalitarismo è possi-bile ricomprende il valore squisitamente po-litico del linguaggio e sviluppare un nuovo orizzonte di pensiero che nel linguaggio na-zista e in altre particolari situazioni storiche ritrova delle importanti fucine per una più ampia riflessione.

Nella lingua siamo immersi ed essa ci scorre nelle vene, come l’aria che respiriamo entra nel nostro corpo e diventa il nutrimen-to del nostro sangue. Così la lingua plasma incessantemente la realtà esterna e il mondo interiore. È la lingua, per concludere con Klemperer, che «crea e pensa per te».

Riferimenti bibliograficiArendt, H. 2005. La banalità del male. Eich-

mann a Gerusalemme. Milano: Feltri-nelli.

Briosi, S. 1998. Simbolo. Firenze: La Nuova Italia.

Eco, U. 2004. Note sull’aforisma. Statu-to aletico e poetico del detto breve. In G. Ruozzi (ed.), Teoria e storia dell’aforisma. Milano: Mondadori, pp. 152-166.

Enzi, A. 1971. Il lessico della violenza nella Germania nazista. Bologna: Riccardo Patron.

Klemperer, V. 1998. LTI. La lingua del terzo Reich. Taccuino di un filologo. Firenze: La Giuntina.

Klemperer, V. 2000. Testimoniare fino all’ul-timo. Diari 1933-1945. Milano: Mondadori.

Kershaw, I. 2004. Hitler e l’enigma del con-senso. Bari: Laterza.

Müller, H. 2009. Lo sguardo estraneo. Paler-mo: Sellerio.

Viviani, C. 2004. Note sull’aforisma. Statu-to aletico e poetico del detto breve. In G. Ruozzi (ed.), Teoria e storia dell’aforisma. Milano: Mondadori, pp. 149-151.

Endnotes1 Tesi sostenuta in Enzi, A. 1971. Il lessi-

co della violenza nella Germania nazista. Bologna: Riccardo Patron. Aldo Enzi, nell’opera qui cita-ta, offre uno straordinario strumento di ricerca: un vero e proprio glossario dei lemmi coniati e alterati dal nazismo, le sigle utilizzate, i termini militari, le parole e locuzioni popolari e dell’op-posizione, per un totale di quasi settemila voci.

2 Il proposito di testimoniare fino alla fine è espresso emblematicamente nel titolo dei diari pubblicati postumi nel 1995 a Berlino: Klemperer, V. 2000. Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945. Milano: Mondadori.

3 Klemperer, V. 1998. LTI. La lingua del terzo Reich. Taccuino di un filologo. Firenze: La Giuntina. LTI è un titolo canzonatorio per prendersi gioco del vezzo nazista di inventare una quantità esasperata di sigle. LTI, secondo l’inven-zione klempereriana, significa Lingua Tertii Im-perii, annotazioni sulla lingua del terzo Reich, il cosiddetto “millenario impero tedesco”.

4 La voce della propria coscienza era mes-sa a tacere e sostituita dalla voce del Führer, capa-ce di risuonare nell’intimo di ogni nazista. C’era una volontà più grande di quella del singolo che bisognava realizzare ad ogni costo: la «volontà del Führer» alla luce della quale era d’obbligo ope-rare e interpretare la stessa legge (cf. Kershaw, I. 2004. Hitler e l’enigma del consenso. Bari: Later-za).

5 Viviani, C. 2004. Note sull’aforisma. Statuto aletico e poetico del detto breve. In G. Ruozzi (ed.), Teoria e storia dell’aforisma. Milano: Mondadori, pp. 149-151.

Victor Klemperer

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PSICOLOGIA

Sergio Salvatore

DUBITARE IN PSICOLOGIA PER NON DUBITARE DELLA PSICOLOGIA

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IntroduzioneVi sono molteplici, fondati ele-menti per esprimere dubbi sulla psicologia, sulla capacità di tale

disciplina di generare conoscenza scientifi-ca innovativa, capace di gettare un nuovo sguardo sulle faccende umane.

Il tema della crisi della psicologia è ampiamente discusso all’interno del suo stesso campo disciplinare. Molti sono co-loro che hanno sottolineato lo stallo in cui si ritrova la ricerca psicologica contempo-ranea (Smedslund 1987, Valsiner 2009). Si lamentano il debole fondamento teoretico e la frammentazione del linguaggio discipli-nare, la sua contiguità con il senso comune, la scissione tra ricerca e teoria, l’incapacità di pervenire a risultati rilevanti. La ricerca psicologica sembra non riuscire ad andare oltre la produzione di conoscenze che siste-matizzano e danno fondamento empirico a ciò che già appartiene al patrimonio comu-ne di esperienza e di senso. Tali conoscenze, proprio per la loro coerenza con il senso comune, riescono a trovare spazio sui mass media, a solleticare curiosità nell’opinione pubblica; in alcuni ambiti (ad esempio nel marketing, nel campo dell’intervento clini-co) si traducono in criteri operativi e stru-menti che hanno mostrato una certa utilità. Tuttavia nulla di tutto ciò è sufficiente per mettere la psicologia al passo con scienze quali la fisica, la chimica, ma anche la lin-guistica, nel loro potere di costruire la visio-ne che la contemporaneità ha del mondo e di se stessa.

A ben vedere, la stessa immagine del-lo stallo ha una valenza consolatoria. Essa implicitamente qualifica come contingen-te la situazione a cui si riferisce. Come se fossimo alle prese con una parentesi critica di interruzione di un movimento normale capace di ben altro dinamismo. Il caratte-re retorico di simile immagine sta nel fatto che di crisi della disciplina se ne parla da quasi due secoli (Teo 2005)!

Chi scrive è tra coloro che ritengono che questa situazione di crisi permanente non si risolve continuando ad accumulare

dati empirici, frutto di ricerche sempre più sofisticate sul piano dei modelli di analisi, ma sempre meno fondati e proiettati su concetti di respiro generale. Ciò che serve è un ripensamento profondo e sistematico degli assunti posti a fondamento della psi-cologia contemporanea. Soltanto un simi-le sforzo di riflessione epistemologica e di analisi concettuale può aprire prospettive di sviluppo, permettendo alla disciplina di andare oltre l’empiricismo acefalo in cui versa. Si tratta, in definitiva, di rimettere in discussione assunti che la maggior parte de-gli psicologi contemporanei dà per acquisi-ti, per creare lo spazio per nuove opportu-nità di conoscenza. Questa è la prospettiva che il titolo di questo lavoro richiama: per-seguire il dubbio sistematico sui fondamen-ti disciplinari per evitare che la psicologia sia messa in dubbio come forma di sapere scientifico. Nelle pagine che seguono mi ri-propongo di offrire un esempio di analisi critica dei fondamenti. Lo farò in relazione a un aspetto centrale: il modello di cono-scenza. D’altra parte, esercitare il dubbio sistematico implica un modello psicologi-co del dubbio. La seconda parte di questo saggio è dedicata a tracciare i lineamenti di tale modello.

1. Il modello di conoscenzaLa psicologia contemporanea è identi-

ficata con l’immagine di scienza nomotetica (Lamiel 1998 e Salvatore, Valsiner 2010). Tale identificazione si è realizzata tuttavia sulla base di una concezione riduttiva della nomoteticità, che è stata intesa come equi-valente alla affermazione del carattere er-godico dei fenomeni psicologici (Molenar 2004 e Molenar, Valsiner 2009). In termini generali, l’ergodicità è la proprietà di un fe-nomeno in base alla quale la variabilità con cui tale fenomeno si manifesta entro gli in-dividui è strutturalmente identica entro la popolazione di tali individui. Conseguen-temente, tale variabilità può essere interpre-tata come soggetta a mere variazioni casuali che possono dunque essere contrastate at-

traverso procedure statistiche e/o di cam-pionamento.

Sulla base dell’assunto dell’ergodicità dei fenomeni di cui si interessa, la psicologia ha realizzato una scissione tra un’ontologia individualista (l’assunto secondo il quale l’oggetto della psicologia è l’individuo nella sua dimensione di processualità psichica) e una metodologia in buona sostanza sociolo-gica, basata sulla nozione fondamentale di popolazione. È la centralità della nozione di popolazione, come fondamento metodolo-gico della costruzione del dato empirico ad aver portato al trionfo dell’empiricismo in psicologia. La stragrande maggioranza del-le miriadi di ricerche che si realizzano nei diversi ambiti della disciplina psicologica hanno per obiettivo lo studio di meccani-smi in ultima istanza relativi all’individuo (il funzionamento della mente come feno-meno psicologico individuale), ma operano in tal senso attraverso la produzione di dati ricavati da aggregati di soggetti (gruppi, campioni), assunti come rappresentativi di popolazioni.

Le popolazioni sono aggregati. A dif-ferenza degli essere umani che sono radica-ti in una corporeità vincolata a specifiche coordinate spazio-temporali, le popolazioni sono macchine concettuali prive di vincoli spazio-temporali, dai confini teorici volati-li. Le popolazioni non esistono in natura. Sono piuttosto il prodotto di generalizza-zioni: ogni volta che viene definita una pro-prietà, ipso facto si sta costituendo un in-sieme di oggetti che sono raggruppabili da tale proprietà. La proprietà assume la fun-zione logica di criterio distintivo, una clas-se. I membri della classe possono variare dal punto di vista della quantità della proprietà distintiva, ma il possesso della proprietà in quanto tale è concepito come dato e per-manente, in quanto elemento distintivo ri-spetto alle altre classi-popolazioni. Da qui a definire una certa classe una popolazione il passo è breve. In ultima istanza dipende dalla plausibilità culturale della proprietà assunta a riferimento. Il repertorio di po-polazioni che caratterizza la ricerca psico-logica sta lì ad indicarlo: uomini, omoses-

scienza nomotetica

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suali, portatori di cultura asiatica, studenti, campo dipendenti, lavoratori, sportivi, figli adottivi, adolescenti, nevrotici, e così via.

La “popolarizzazione” della psicologia facilita enormemente – almeno sul piano logico – il compito di produrre dati. È suf-ficiente assumere un determinato criterio e trattarlo come una essenza, in quanto tale presente in ogni membro della collezione definita da tale criterio. In questo modo la collezione diventa classe e la classe popo-lazione. A questo punto, si selezionerà un campione da tale popolazione e, sulla base del presupposto che tale insieme di sogget-ti posseggono per definizione la proprietà di interesse, si assumerà che la conoscenza prodotta su di essi concerne la popolazione nel suo complesso. La nozione di popola-zione, dunque, ha offerto alla psicologia la possibilità di adottare la generalizzazione induttiva come modello di conoscenza. Grazie a tale modello, la ricerca psicologica (ovviamente non tutta, ma una parte rile-vante di essa) ha potuto saltare a piè pari il problema concettuale e metodologico, mai pienamente risolto, di modellizzare la va-riabilità intra-individuale, vale a dire la di-namica temporale che caratterizza il singolo soggetto nella propria relazione con il con-testo. L’assunzione di ergodicità risolve alla base tale problema concettuale, afferman-done sul piano teorico la sua negazione.

Si tenga conto che il principio di ergodi-cità non nega la variabilità intra-individuale sul piano fenomenico. Anche perché a tale variabilità il soggetto può dare due risposte diverse allo stesso stimolo in due momenti diversi considerati in sé non differenzianti. Al contrario, l’ergodicità offre un’interpre-tazione della variabilità intra-individuale come aspetto contingente, residuale e ca-suale, distribuito in modo omogeneo tra gli individui della popolazione, privo dunque di valore concettuale (Molenaar, Valsiner 2009). La variabilità intra-individuale vie-ne così trasformata nella quota di errore che accompagna inevitabilmente la variabilità tra i soggetti della popolazione, in quanto tale controllabile attraverso le opportune procedure di analisi dei dati.

Un esempio può aiutare a rendere chiaro il punto. Si pensi ad un ricercatore interessato a comprendere l’effetto di una psicoterapia. Tale ricercatore costruirà un campione della popolazione dei pazien-ti. In quanto membri di tale popolazione, assumerà che tali soggetti posseggono la “pazientità” come specifica proprietà carat-terizzante. A questo punto dividerà i sog-getti dotati di “pazientità” in due gruppi, uno sottoposto a psicoterapia e l’altro no. Dal momento che tale divisione è fatta in modo casuale, si assume che mediamente i due gruppi siano uguali. Non perchè siano uguali i singoli individui che li compongo-no, ma perchè le differenze tra essi si distri-buiranno casualmente tra i due gruppi. A questo punto sceglierà un determinato in-dicatore come misura della variabile che gli interessa studiare (nel nostro caso, un in-dicatore dell’efficacia della psicoterapia; ad esempio, un indicatore del senso soggettivo di benessere) e misurerà con esso i mem-bri del campione. Se il risultato medio dei pazienti trattati sarà superiore a quello dei pazienti non trattati, allora tale differenza sarà attribuita all’unica differenza che il di-segno della ricerca ritiene abbia distinto i due gruppi: l’aver fruito o meno una psi-coterapia.

Questa logica di costruzione dei dati si basa, a ben vedere, su un assunto tanto for-te quanto in genere lasciato implicito e con-siderato ovvio. L’efficacia della psicoterapia non viene misurata a livello degli individui, ma sul piano aggregato del gruppo, come differenza tra tali aggregati: la sottoclasse dei pazienti in trattamento e dei pazien-ti non in trattamento. Tale risultato viene poi generalizzato agli individui. Nel fare ciò tuttavia, nessun ricercatore si sognereb-be di affermare che ogni individuo riflette perfettamente il risultato medio. Tale affer-mazione è del resto smentita sistematica-mente dal fatto che all’interno di ciascun gruppo i livelli del parametro variano, spes-so anche notevolmente, al punto che non è raro il caso per cui soggetti di un gruppo mostrano valori più vicini a quelli dell’al-tro gruppo che a quelli del proprio. Ci si

potrà allora chiedere: che cosa autorizza a ritenere il dato aggregato rappresentativo dei singoli soggetti? La risposta è data per l’appunto dall’assunto di ergodicità. Grazie a tale presupposto, il ricercatore può tolle-rare che i soggetti siano tra loro differenti, in quanto tale differenza in ultima istanza è concepita come espressione della variabilità intra-individuale. Vale a dire: dal momen-to che i soggetti P appartengono alla stessa popolazione e dunque posseggono la stessa P-ità allo stesso modo, se vi è differenza tra la risposta del soggetto P1 e del soggetto P2, tale differenza è un effetto marginale legato alla contingenza (in termini tecnici: la componente di varianza dovuta all’erro-re della misura). Tale effetto marginale è dunque concepito come legato al caso, per tale ragione distribuito omogeneamente tra tutti i soggetti della popolazione. Il che equivale a dire che tale variabilità si annulla a livello di valori aggregati. Ecco così che la popolazione diventa la macchina con-cettuale, prima ancora che artificio tecni-co, che permette di assimilare la variabilità intra-individuale a quella inter-individuale e dunque di liquidare la prima attraverso e nei termini del controllo computazionale della seconda.

Come abbiamo detto, tale modello di conoscenza ha permesso alla ricerca psico-logica di sviluppare una straordinaria capa-cità di produzione empirica. Ci si potreb-be allora chiedere: se un simile dispositivo funziona così bene e con così grande sod-disfazione da parte della maggior parte dei suoi interpreti, perchè metterlo in dubbio?

La ragione sta nel fatto che l’ergodicità è una proprietà che mal si adatta alle di-mensioni psicologiche. Il che rende impra-ticabile la generalizzazione induttiva come fondamentale modello della conoscenza psicologica. A prima vista questa afferma-zione si presta ad essere interpretata come meramente distruttiva. In realtà essa, nel momento in cui pone dei vincoli alla ripro-duzione dell’ovvio, apre nuove e stimolanti prospettive, nella direzione del recupero di una tradizione di psicologia idiografica (Salvatore, Valsiner 2009 e Salvatore, Val-

generalizzazione induttiva

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siner et al. 2010) che la ricerca degli ultimi cinquant’anni ha progressivamente abban-donato.

L’orientamento idiografico è un ap-proccio metodologico conseguente ad un’analisi critica dell’oggetto della psico-logia e alle implicazioni epistemologiche che da tale analisi scaturiscono. Il punto centrale posto a suo fondamento è dato dal riconoscimento del carattere contestuale dei fenomeni psicologici. La psicologia ha a che fare con fenomeni intrinsecamente contingenti alle condizioni storico-cultura-li e intersoggettive entro cui si dispiegano. Questa campo-dipendenza dei fenomeni ha una conseguenza rilevante: nessuna occor-renza di un fenomeno psicologico può esse-re considerata in sé significativa, in quanto va interpretata in ragione del contesto in cui si manifesta, essendo il suo significato funzione di tale relazione. Ma tale afferma-zione ha una conseguenza di fondamenta-le rilievo dal punto di vista metodologico: nessuna occorrenza può essere considerata intrinsecamente equivalente ad un’altra, per quanto ampia sia la gamma delle loro caratteristiche comuni. Ciò in quanto tali due occorrenze avranno comunque un numero infinito di ulteriori caratteristiche differenzianti, espressione della diversa rela-zione che esse intrattengono con i rispettivi contesti. Si pensi ad esempio a due frasi, identiche nelle parole utilizzate. Dal punto di vista dell’evento singolare della loro oc-correnza, tali frasi sono identiche. Possiamo dunque affermare che sono effettivamente la stessa frase? Evidentemente no, in quanto il loro significato non risiede nelle parole, ma nel rapporto tra tali parole e il contesto in cui sono state prodotte, in ragione del quale esse si qualificano come atto comuni-cativo rivolto a qualcuno, dotato di un cer-to intento in funzione di una determinata regolazione del rapporto. Dal momento che quanto detto a proposito delle frasi vale anche per qualsiasi occorrenza di interesse psicologico, dobbiamo concludere che gli oggetti di interesse di tale disciplina sono intrinsecamente incommensurabili. Dove per incommensurabilità si intende l’im-

possibilità di assumere la loro somiglianza fenomenica – per quanto estesa essa sia – come condizione necessaria e sufficiente di inclusione nella stessa classe (in altri termi-ni come criterio per considerarli esempla-ri equivalenti della stessa popolazione). In questo senso, dunque, gli oggetti psicologi-ci sono unici.

La conseguenza più immediata del principio idiografico dell’unicità è la im-praticabilità del concetto di popolazione in ambito psicologico. Più in generale, tale principio mette in discussione in modo radicale il ruolo della generalizzazione in-duttiva come fondamentale struttura logica della conoscenza psicologica. Se gli esem-plari non sono tra loro commensurabili, non vi può essere attività induttiva, ovve-rossia la trasformazione di una ridondanza tra gli eventi in una regola generale. Più in particolare, la generalizzazione induttiva funziona nei termini dei seguenti quattro passaggi logici (Valsiner 2009):

1. Un determinato esemplare dell’og-getto di analisi (ad esempio, Giorgio in quanto persona che gioca a scacchi) condi-vide aspetti rilevanti con altri oggetti simili (altre persone che giocano a scacchi).

2. Dunque Giorgio è un esemplare del-la classe di tali oggetti (la classe dei soggetti dotati della qualità della “giocatore-di-scac-chità”).

3. Dunque Giorgio è dotato della qua-lità della giocatore-di-scacchità.

4. Dunque analizzando il comporta-mento di Giorgio si studia il funzionamento della qualità della giocatore-di-scacchità.

È interessante osservare come la critica idiografica alla psicologia abbia una pro-pria tradizione in campo psicologico. Tale critica, tuttavia, è stata spesso concepita in chiave meramente destrutturante, come rifiuto – in genere polemico – del caratte-re nomotetico della ricerca psicologica, in favore di una psicologia del caso singolo. La psicologia idiografica si è storicamen-te caratterizzata come critica radicale del-la pretesa della psicologia come progetto scientifico volto alla definizione di cono-scenza generale a valore universale. Questa

visione ha così finito per contrapporre ad una premessa assunta in chiave assoluta – l’ergodicità dei fenomeni psicologici – una opposta ma altrettanto assoluta premessa, in definitiva dipendente dalla prima – la non ergodicità – in tal modo creando due campi contrapposti in grado di alimentare la propria autoriproduzione attraverso la reciproca militanza.

Quanto sopra osservato rende eviden-te come l’esercizio del dubbio sistematico è processo differente dall’attacco distrut-tivo delle premesse fondative del discorso. Al contrario, l’esercizio del dubbio consiste nell’introduzione di un principio di estra-neità come luogo intermedio, necessaria-mente precario e deperibile, tra l’adesione acritica ad una visione scontata del mondo e un rifiuto militante e globale di tale visio-ne, possibile solo a partire ed in funzione di una ulteriore visione, assunta in modo in-dubutabile. Su questo punto torneremo nel prossimo paragrafo. Torniamo ora all’ap-proccio idiografico.

Perchè possa costituirsi come un’in-novazione della nomoteticità la psicologia idiografica deve elaborare un modello di generalizzazione alternativo a quello indut-tivo. Solo in questo caso l’approccio idio-grafico sarà in grado di portare a sintesi il riconoscimento della incommensurabilità degli oggetti della conoscenza psicologica e la sua vocazione scientifica, cioè il suo fine di disciplina volta a produrre conoscenza generali.

Una possibile risposta in tale senso è offerta dall’inferenza abduttiva, così come modellizzata da C. S. Peirce.

…ci sono tre elementari modalità di ragionamento. Il primo, che chiamo abduzione (…) consiste nell’esaminare una massa d fatti e permettere che que-sti fatti suggeriscano una teoria (Peirce 1935, CP 8.209)1.

«Deve essere tenuto presente che l’ab-duzione, per quanto poco vincolata sul piano logico, è comunque una forma di inferenza logica, che asserisce le proprie conclusioni in forma soltanto congettu-rale o problematica. La verità di ciò non

Peirce

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toglie che essa abbia una forma logica perfettamente definita. […] La forma dell’inferenza è la seguente:Il fatto sorprendente, C, è osservatoMa se A fosse vero, allora C sarebbe comprensibileQuindi, c’è ragione per sospettare che A sia vero» (Peirce 1903, CP 5.188-189).

Il modello abduttivo ha già una specifi-ca tradizione nel campo psicologico e più in generale delle scienze umane (cf. Carli, Pa-niccia 2005, Ginburg 1992, Lamiell 1998) come forma del ragionamento scientifico maggiormente coerente con lo statuto dei fenomeni oggetto di tale ambito disciplina-re. Non è possibile in questa sede approfon-dire i termini di tale modello di inferenza. Ci limitiamo a richiamare il punto centrale per la nostra discussione. Come l’induzio-ne, l’abduzione parte dai dati empirici. Tut-tavia essa non è finalizzata alla induzione di una legge generale, ma alla elaborazione di una regola locale in grado di collegare i fatti oggetto di analisi in un quadro unitario. Si pensi ad un investigatore privato che rac-coglie indizi che poi deve mettere insieme in uno scenario sensato, che contemplerà l’identificazione del colpevole. In altri ter-mini, mentre nel caso della generalizzazio-ne induttiva la regola generale è l’assunzio-ne a valore universale di quanto già il fatto contiene (non a caso Peirce definisce l’in-duzione la formazione di una abitudine), nell’abduzione i fatti sono come tasselli di un puzzle non conosciuto che va scoperto attraverso la combinazione dei tasselli, per dare senso ai tasselli stessi. Il che equivale a dire che la omogeneità tra i fatti non è, come nel caso dell’induzione, un presuppo-sto (che, nel caso della psicologia non è pos-sibile assumere) ma il risultato dell’analisi. In altri termini, l’abduzione non generalizza in ragione della somiglianza tra fenomeni (operazione impedita dalla loro incommen-surabilità), ma in termini teorici, attraverso la modellizzazione del fenomeno in termini di una teoria locale (nella terminologia di Peirce, la riconduzione di C ad A), e dun-que del confronto non tra i fenomeni, ma tra i modelli locali (le figure del puzzle) di

cui sono espressione. Si prenda ad esempio lo studio della

psicoterapia. Secondo l’approccio indutti-vo, i casi di psicoterapia sono agglomerati in ragione della loro somiglianza fenome-nica. Ad esempio, tutti i casi di un terapia psicoanalitica aventi per pazienti soggetti con problemi nevrotici. La logica induttiva implica la possibilità di differenziare pro-gressivamente i fenomeni in categorie più dettagliate (ad esempio pazienti nevrotici di tipo fobico piuttosto che ossessivo); ma il dispositivo dell’aggregazione in classi di so-miglianze fondato sul presupposto ergodico della commensurabilità tra gli esemplari in analisi è comunque fondante. Su tale base, i risultati aggregati a livello della classe di casi verranno trattati come un unicum. Gli scarti tra i singoli esemplari sono considera-ti casuali e dunque marginali, non rilevanti. La metodologia idiografica basata sulla ab-duzione assume invece il vincolo della in-commensurabilità tra i casi. In altri termi-ni, assume l’impossibilità di assimilare gli esemplari in una classe omogenea sulla base della loro somiglianza fenomenica. Studia dunque il singolo caso, cercando un model-lo formale o comunque concettuale in gra-do di dare conto della massa di occorrenze in cui esso consiste. Il confronto e l’assimi-lazione si realizza solo a questo secondo li-vello, come comparazione, dialettizzazione, combinazione o sviluppo – in una parola: generalizzazione – dei modelli concettuali locali (Salvatore, Valsiner 2010)

2. Dubbio e contemporaneitàLe considerazioni pur inevitabilmente

sintetiche, sopra svolte in relazione al mo-dello della conoscenza psicologica, offrono lo spunto per sviluppare alcune riflessioni di carattere più generale sul dubbio. Si tor-ni su quanto detto a proposito del movi-mento della psicologia idiografica, della sua tendenza ad interpretare in modo militante la critica dell’impostazione nomotetica del-la psicologia contemporanea. Come sotto-lineato, così impostata, tale critica ha finito

per funzionare da leva della riproduzione della psicologia nomotetica, in ultima istan-za trasformando un tema epistemologico e metodologico in una fonte ideologica di identità che si alimentano attraverso la loro contrapposizione. Di contro, al di là del va-lore di merito della disamina che abbiamo in precedenza proposto, essa mostra come sia possibile interpretare il dubbio sistema-tico in termini tali da pervenire non a ne-gazioni dell’oggetto su cui si esercita, ma ad un suo sviluppo, nei termini di una sintesi che al contempo lo superi e lo comprenda. La psicologia idiografica, in altri termini, può proporsi come prospettiva di sviluppo per la disciplina nella misura in cui non si limiti a negare la nomoteticità ma la superi integrando nella propria proposta l’esigen-za di universalità che essa esprime.

Questa possibilità di differente destino a cui ogni pratica del dubbio può esitare non è un fatto accidentale. Al contrario, essa riposa nella caratteristiche stesse della conoscenza e più in generale della signi-ficazione. Per tale motivo, è materia essa stessa della scienza psicologica. Recupero di seguito in modo sommario i termini della questione in gioco.

2.1 Sul significato e la significazioneIl punto fondamentale da richiamare

riguarda il carattere sistemico-dinamico e gerarchico del significato (inter alia, Salva-tore, Zittoun 2010). A differenza di quanto si ritenga a livello di senso comune, i signi-ficati non sono entità discrete e fisse, imma-nenti ai segni che li veicolano. Al contrario, i segni (le parole, i gesti, le immagini...) co-stituiscono dei campi potenziali, vale a dire degli spettri di possibilità di significazione (Salvatore, Tebaldi, Potì 2006/2009) che si attualizzano in una delle forme ammesse in ragione della rete di combinazioni con gli altri segni che si viene a determinare lo-calmente. Sta in ciò il carattere sistemico-dinamico della significazione: il significato non è un contenuto statico dei singoli ele-menti, ma una proprietà emergente delle

metodologia idiografica

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interazioni dinamiche (cioè, dipendenti dal tempo) intrasistemiche – dove per sistema si intende la rete di relazioni tra i segni. A ciò va aggiunto che tali relazioni non si svi-luppano su un unico piano, ma implicano una molteplicità di livelli – caratterizzati da differenti gradienti di generalizzazione – ciascuno esercitante una funzione rego-lativa su quelli inferiori (Valsiner 2007). Lo stereotipo è un esempio evidente di come una rappresentazione generalizzata di un certo oggetto globale (ad esempio i Tosca-ni) orienta e vincola la significazione delle occorrenze specifiche che possono essere fatte rientrare entro la classe generale (Gio-vanni, nato a Poggibonsi). Va d’altra parte sottolineato che tale processo di regolazio-ne gerarchica tra i livelli della significazione non va inteso come un fatto di mera distor-sione, una sorta di patologia del pensiero. Al contrario, è una fondamentale proprietà del linguaggio e della mente, in quanto tale fondante ubiquitariamente la costruzione del significato.

Le due fondamentali caratteristiche sopra richiamate (sistemicità-dinamicità e organizzazione gerarchica della significa-zione) hanno un corollario particolarmente rilevante ai fini del nostro discorso: il pro-dotto della significazione non si esaurisce – e spesso neanche consiste primariamente – nel contenuto delle affermazioni, in quanto ogni processo di significazione implica ed istantaneizza l’intero sistema di significa-zione che fonda la sensatezza di tale conte-nuto. Definiamo tale caratteristica perfor-matività della significazione.

Vediamo di spiegarci. Prendiamo il caso dell’occorrenza di un segno qualsiasi, diciamo il segno S. Tale segno ci appare fe-nomenicamente dotato di un proprio con-tenuto – diciamo: |s|. Ad esempio, se qual-cuno proferisce la parola “pipa”, chiunque partecipi del codice del locutore attribuirà a tale segno il significato di denotare quel determinato utensile usato per bruciare ta-bacco al fine di aspirarne i fumi. Dunque, quando parliamo, comunichiamo e pen-siamo facciamo come se i segni Sx abbiano uno specifico contenuto |sx|. In realtà tale

connessione non sta a monte della produ-zione del segno, come una propria proprietà immanente; ma è il prodotto, il primo pro-dotto, della significazione stessa, emergente dalla rete di connessioni entro cui il segno va ad impiantarsi (Salvatore, Tebaldi, Potì 2006/2009). Il che in definitiva è un modo diverso di riproporre la definizione wittgen-steiniana del significato di una parola come equivalente all’uso che di essa si fa entro i giochi linguistici. Definiamo contesto la combinazione di segni la cui contingenza qualifica il significato di ciascuno di essi2.

La significazione realizza dunque sem-pre una doppia operazione. Da un lato, la definizione di un’entità denotante e conno-tante – se si vuole: la realizzazione di una presenza resa pertinente – ciò che siamo usi considerare il contenuto del segno, il suo significato, appunto. Dall’altro, tuttavia, il complemento di tale contenuto, in altri ter-mini lo scenario semiotico in funzione del quale, attraverso il quale e nei termini del quale l’interpretandum acquista sensatez-za. La pantomima si offre come una utile analogia di simile modello bidimensionale della significazione. Il mimo opera dei mo-vimenti [di seguito: S – (sistema di) segni.] Lo spettatore vede in tale movimento una determinata azione (C), che rappresenta l’interpretazione del significato di S, il suo presunto contenuto, per l’appunto. Tutta-via, si cadrebbe in errore se si considerasse C il contenuto di S. S sta per C, e C è il significato di S. Tuttavia, la relazione tra C ed S non è la relazione tra un contenuto e il suo contenitore. Al contrario, è l’osserva-tore a costruire C come interpretazione di S. E l’osservatore fa ciò integrando S con tutta una serie di dati di immaginazione che operando come complemento di S de-finiscono la totalità contestuale che rende sensato, cioè pensabile, S. Così, ad esem-pio, il mimo muove le braccia e le mani in un certo modo, ma l’interpretazione di tale S come l’azione del tirare una fune richiede che l’osservatore completi la gestalt con il dato di immaginazione di un oggetto sottile tra le mani del mimo opponente una certa resistenza allo sforzo del mimo. Se definia-

mo segno-complemento tale integrazione (S_C), arriviamo alla seguente formulazio-ne: CON= (S+S_C) – ovverossia, il contesto è dato dal segno prodotto del mimo e dal segno-complemento con il quale l’osserva-tore completa la figura in modo da darle qualità di sensatezza. Solo a tale condizio-ne di integrazione operata dallo spettatore S diventa interpretabile come stante per l’azione del tirare una fune.

In sintesi, quando l’interpretante signi-fica il movimento del mimo, il suo lavoro ermeneutico non si limita alla rappresenta-zione con cui qualifica tale movimento. Per fare ciò deve definire un contesto, o meglio un segno-complemento che vada a comple-tare il contesto. È l’introduzione di simile sorta di silicone semiotico che, permetten-do la chiusura della gestalt (cioè del conte-sto) opera da fonte si sensatezza e dunque di interpretabilità del movimento pantomi-mico.

Due ulteriori considerazioni sono ne-cessarie per cogliere la portata di quanto sopra affermato. In primo luogo, abbiamo parlato di sensatezza, non di verità o giu-stezza o condivisibilità. In gioco, cioè, non vi è un elemento di giudizio connesso ad un qualche criterio normativo. Il processo di significazione si rivolge in primo luogo alla costruzione delle condizioni di pensabilità dell’interpretandum, non al suo contenuto di verità (intendendo tale concetto in sen-so lato). Ciò in altri termini vuol dire che chi raccoglie un segno attiva comunque un contesto interpretante, indipendentemente dal grado di consenso che può esprimere circa la validità normativa del segno stesso. Anzi, per poter esprimere un disaccordo di merito deve prima acquisire l’interpretan-dum come plausibile, in modo da assumer-lo come pensabile. Solo a tale condizione ed attraverso tale passaggio si può costruire il dissenso. Il che in ultima istanza significa che ogni critica implica una adesione: ogni conflitto di merito una cooperazione conte-stuale. O ancora, se si vuole: si può essere in disaccordo nel merito, ma non si può non aderire alla dinamica di significazione immanente al linguaggio e alla comunica-

cooperazione contestuale

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zione.A quanto ora affermato si collega il se-

condo punto che merita di essere eviden-ziato. L’attivazione di ciò che abbiamo de-finito come cooperazione contestuale non va intesa come un aspetto marginale, una sorta di dimensione volatile del linguaggio che si esaurisce nel momento in cui il con-tenuto emergente tramite essa si stabilizza. Sarebbe così se la mente operasse in termi-ni esclusivamente sequenziali. In tal caso la collaborazione contestuale funzionerebbe come un cantiere, che rimane aperto fino a quando i lavori di costruzione dell’edifi-cio lo rendono necessario, per poi chiudersi una volta esaurito il proprio compito. In re-altà, la mente opera in parallelo: i suoi stati da un alto vengono elaborati e riconfigura-ti dagli stati che da essi conseguono. Allo stesso tempo, tuttavia, essi persistono nella loro salienza entro lo spazio mentale. Sta in ciò, in ultima istanza, l’idea psicoanalitica di una parte del funzionamento mentale (il processo primario, in genere assimilato al concetto più generico di inconscio; cf. Bucci 1997) impermeabile alla nozione del tempo.

Poste tutte queste premesse – vale a dire: il contesto interpretante che chi scri-ve propone al lettore – siamo ora in grado di tornare sul dubbio e sulla sua funzione semiotica.

Partiamo da che cosa si intende, nel linguaggio di senso comune, con espres-sioni del tipo “mettere in dubbio quanto ho detto”, “dubito che sia effettivamente così”, e così via. Questo tipo di espressio-ni rivelano come la semantica elementare del concetto di dubbio riguardi la messa in discussione di un determinato conte-nuto nelle sua valenze di volta in volta di verità, esattezza, condivisione. Tali valenze non vengono tout court negate, ma in un certo qual modo sospese nella loro validità, nel loro grado di certezza. Chi dubita ritira il sostegno alla validità dell’affermazione, senza per questo assumere una posizione opposta. Da questo punto di vista il dubbio esprime l’atteggiamento di autonomia del pensiero, in quanto esercizio di una posi-

zione intermedia che si colloca tra le due opposte euristiche militanti della adesione pregiudiziale (in senso etimologico, di pre-cedente il giudizio) e della altrettanto pre-giudiziale negazione. Molta psicologia, così come la teoria psicoanalitica, si è sviluppata assumendo come criterio normativo questa concezione del dubbio come sospensione del pregiudizio. Si pensi, ad esempio, a come entro il setting psicoanalitico l’anali-sta non rinneghi il contenuto di verità del paziente, ma si limiti piuttosto a dubitarne, non aderendo alla sua scontatezza, riflesso dell’adesione ad un canone di significazio-ne (il senso comune) la cui relativizzazione costituisce la fondamentale missione della funzione dell’analisi. Dubitare, in questo senso, significa posizionarsi intersoggettiva-mente nella regione dell’estraneità, lo spazio intermedio ed angusto, difficile da creare e ancor più da mantenere, dove la disattesa del canone condiviso non si traduce in usci-ta persecutoria dalla relazione ma assume la funzione di proposta di rapporto (sul con-cetto di estraneità in ambito psicologico, si rimanda a Carli, Salvatore 2001 e Carli, Paniccia 2005).

2.2 Dubbio costruttivo e dubbio decostruttivo

La concezione che stiamo proponen-do del dubbio come pratica ermeneutica dell’estraneità, ha una conseguenza rile-vante. Da essa discende la necessità di di-stinguere due modelli, che per comodità di discorso indicherò come dubbio costrut-tivo e dubbio decostruttivo. Tale distinzio-ne rimanda alla articolazione tra S (segno) e S_C (segno-complemento) operata in precedenza. In corrispondenza con tale ar-ticolazione, possiamo differenziare il dub-bio relativo a S e il dubbio inerente S_C. Il dubitare del primo tipo è la messa in di-scussione della validità di S, così come esso è consensualmente interpretato da chi lo ha proposto (di seguito: il proponente) e da chi lo raccoglie, sia pure in forma dubitativa (di seguito: il dubitante). Definiamo tale for-

ma del dubitare come dubbio costruttivo in quanto esso richiede la cogenza di un con-testo condiviso tra proponente e dubitante che fonda l’interpretazione consensuale di S in modo da renderla oggetto del dubbio. In questo senso, il dubbio relativo ad S, se a livello superficiale stabilisce un conflitto comunicativo tra proponente e dubitante (vale a dire il conflitto relativo allo statu-to di validità del contenuto di S), per altro verso, con il suo stesso porsi, genera una regione latente, più profonda e generaliz-zata, di commensalità semiotica tra propo-nente e dubitante relativamente al contesto interpretante. In altri termini, dubitare di S implica istituire la condivisione del segno-complemento di S. Il che equivale ad affer-mare che dubitare è sempre l’esercizio di un presupposto indubitato che rende sensato l’atto del dubbio agli interlocutori in gioco. Si prenda la seguente espressione: “Dubito che Fuffi sia un cane”. A livello superficiale il dubitante sta costituendo una situazione di conflitto comunicativo con chi, eviden-temente, afferma la caninità di Fuffi. Ci si può chiedere, tuttavia, quale sistema di se-gni-complemento sono richiesti come con-divisi tra il dubitante e il suo interlocutore affinché tale atto dubitativo sia pertinente, sensato e plausibile (indipendentemente dalla sua condivisibilità). Richiamiamo di seguito alcuni dei piani su cui si articola tale sistema di segni-complemento.

In primo luogo, dubitare del fatto che Fuffi sia un cane implica che il dubitante consideri rilevante la differenza tra Fuffi cane e Fuffi non cane. Il che assume plausi-bilità – tanto per il dubitante che per il de-stinatario del dubbio – nella misura in cui l’opposizione cane/x-non-cane sia inscrivi-bile in una qualche relazione semantica tale per cui l’affermare uno degli elementi della relazione acquista potere di conoscenza (ad esempio: Fuffi è un gatto!). Se così non fos-se, se cioè non si assumesse in premessa una relazione semantica tra cane e x-non-cane, tale opposizione non avrebbe semplicemen-te senso, configurandosi come assurda – ad esempio, “Dubito che Fuffi sia un cane. Da quanto vedo a me fa venire in mente che

dubbio decostruttivo

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sia la Toscana”, è una frase tendenzialmente assurda, a meno di non costruire un conte-sto di plausibilità tale da mettere semanti-camente in relazione Toscana e cane.

In secondo luogo, per considerare sen-sato il proprio atto dubitativo il dubitante ha necessità di assumere come pertinente – e non solo esercitabile – la produzione di conoscenza veicolata dal proprio atto. Le persone non dubitano su tutto quanto è potenzialmente dubitabile. Si dubita di ciò che si considera in qualche modo rilevante, o comunque meritevole dell’ attenzione del dubitante e del suo interlocutore. Si pensi, ad esempio, ad una persona che incontra un amico e gli racconta di come la sera prima sia riuscito a prendere per un pelo l’ultima corsa del metro e così facendo ad evitare di rimanere fuori casa per la notte. Si immagini che l’altro, dopo aver ascolta-to il racconto affermi qualcosa del genere: “Non sono così convinto che tu abbia ac-quistato il biglietto del metro con moneta spicciola. Ho elementi per pensare che tu l’abbia acquistato usando una banconota”. Probabilmente il narratore a quel punto guarderebbe l’altro in modo interrogativo, chiedendosi o forse chiedendogli che rilievo possa mai avere nell’economia della vicenda un simile particolare. Il punto, cioè, non è se il dubitante ha ragione o torto. Il pun-to è perchè pone la questione. Da ciò se ne conclude che il dubitante deve condividere con il proponente il contesto in ragione del quale si risponde a tale interrogativo; in al-tri termini, il contesto che rende pertinente il dubbio come atto di conoscenza.

Aggiungiamo un terzo livello che per brevità ci limitiamo a richiamare somma-riamente. La pertinenza non riguarda solo la dimensione epistemica; concerne anche la relazione sociale tra proponente e du-bitante. L’atto del dubbio, come qualsia-si altro atto comunicativo, è un processo intrinsecamente sociale. Di conseguenza, praticare un dubbio implica la cogenza condivisa di una mappatura della relazione tra proponente e dubitante tale per cui tali attori possano interpretare l’iniziativa co-municativa del dubitante come l’esercizio

di un dubbio. Il che equivale a dire che la relazione tra dubbio e dubitante è circolare: se da un lato è il dubitare che qualifica l’at-tore che veicola tale azione come dubitan-te, è altrettanto vero che è la qualificazione come dubitante della posizione dell’attore nella relazione con il proponente a rende-re un determinato atto comunicativo un esercizio di dubbio. L’esempio più eclatante che viene in proposito alla mente riguarda la connotazione a cui viene oggi sottoposta l’attività inquirente della magistratura nel nostro Paese. Un certo ceto politico non riconosce a tale attore la posizione di du-bitante e, di conseguenza, non concepisce le iniziative che da tale attore scaturiscono come un esercizio del dubbio, connotando-le piuttosto come un attacco alle persone o come una forma di progetto politico o altro.

Rispetto al primo tipo di dubbio, il dubbio decostruttivo si indirizza al conte-sto interpretante, piuttosto che al segno. In altri termini, si propone non di metter in discussione il contenuto del segno, ma più radicalmente il codice condiviso che rende il segno stesso interpretabile. Da questo punto di vista, il dubbio decostruttivo è la leva ed insieme l’esercizio dell’estraneità, cioè della pratica dell’alterità come metodo e come scopo. Il dubbio decostruttivo non si propone di confliggere con chi comunque rimane all’interno dello stesso orizzonte di senso. Il dubbio decostruttivo, piuttosto, è la rinuncia al mondo di significati istituti-ti che fonda la sensatezza e pensabilità dei segni entro un enclave culturale ed al con-tempo il legame di appartenenza che tale sensatezza nutre. È una posizione al con-tempo epistemica, metodologica e in senso lato etica, che assume la distanza dall’altro come lo spazio di umanizzazione dei rap-porti, in quanto campo aperto generato dalla rinuncia alla assimilazione dell’alterità entro schemi semiotici pre-istituiti. Infine, il dubbio decostruttivo non può che indi-rizzarsi in termini riflessivi, focallizarsi sulle premesse istituite del dubitante, che nel de-terminare il contesto interpretante sostan-ziano l’identità individuale e collettiva, così

facendo vincolando il visibile e il pensabile a specifici posizionamenti intersoggettivi. Il dubbio decostruttivo, in altri termini, deri-va dallo spostamento – sottile ma di por-tata radicale, foriero di conseguenze – dalla (in)validazione dell’oggetto alle premesse di senso condivise sul piano sociale poste a fondamento (ed al contempo a vincolo) della costruzione semiotica dell’oggetto stesso.

Un richiamo al campo della psicologia può contribuire a dare il senso di quanto sopra proposto. Un’area disciplinare della psicologia – la psicologia clinica – si inte-ressa di intervento. Il suo scopo fondamen-talmente è di attrezzare la professione psico-logica di metodi e strumenti per rispondere alla domanda sociale, nei diversi campi in cui essa si manifesta (scuole, sanità, mondo del lavoro, individui, ecc.). In tale area il dubbio è pane quotidiano. La disciplina è attraversata da una quantità ampia di teorie e modelli, ognuno dei quali, nell’afferma-re una certa concezione, di fatto mette in dubbio le concezioni concorrenti. Il fatto è che tutto questo dubitare si mantiene ri-gorosamente sul versante rassicurante del costruttivo, esprimendosi come una attivi-tà di volta in volta negoziale e conflittuale tra affermazioni inerenti i diversi oggetti disciplinari (come intervenire, come in-tendere nozioni quali affetti, motivazioni, psicopatologia). E così facendo, di dubbio in dubbio, la disciplina riproduce se stessa, lasciando che le proprie premesse sussistano come invarianti fondanti – ma al contempo costringenti – identità e orizzonte di senso. Quelle premesse che determinano la co-struzione degli oggetti disciplinari (costrut-ti quale emozione, inconscio, sofferenza psichica), il modo di trattarli (ad esempio, nei termini dettati della combinazione tra individualismo ontologico e nomoteticità). E ancor prima: sulla sensatezza e le finalità implicate della idea stessa di una psicologia che da scienza di traduce in contenuto di un sistema professionale. Dubitare a par-tire da tali premesse, piuttosto che di tali premesse ha ovviamente dei vantaggi sul piano della efficienza locale. Rende tuttavia

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impraticabile la possibilità stessa di innova-zione paradigmatica, che per realizzarsi ri-chiede di affrontare alla radice le questioni concettuali fondative, che determinano la stessa costruzione dei fenomeni assunti ad oggetto del discorso scientifico.

In conclusione, confidare nel dubbio decostruttivo non significa pensare in modo onnipotente di azzerare tale zona inesauri-bile di con-fusione, ma di proiettarsi nella direzione asintotica della sua sistematica elaborazione e ridefinizione, come sforzo generativo di nuove opportunità di senso.

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(Endnotes)1 Traduzione mia.2 Va osservato che il contesto, per come

qui definito, si qualifica in ragione di tre fonda-mentali profili richiesti come condizione di plau-sibilità per l’interpretazione del segno (di seguito: interpretandum). In primo luogo, come l’insieme delle occorrenze configuranti la circostanza inter-soggettiva in ragione della quale l’interpretandum si rende sensato. In altri termini, ogni interpre-tazione di un segno presuppone e si basa su una concezione delle reciproche posizioni degli atto-ri in gioco. È tale concezione che qualifica una determinato interpretandum come pertinente. Ad esempio, se una persona si presenta ad una partita di calcetto con gli amici in pantaloncini e maglietta, tale occorrenza non trova pertinenza, in quanto ovvia ed attesa. Dunque la sua inter-pretazione risulterebbe insensata. Se al contrario la stessa persona, con gli stessi amici, andasse a teatro in tale tenuta, susciterebbe un notevole fuoco interpretativo. In secondo luogo, l’organiz-zazione gerarchica dei livelli della significazione operanti da premessa vincolante la significazione stessa. Il che equivale a dire che ogni interpre-tazione presuppone una rappresentazione sovra-ordinata che la regola e la orienta, per esempio nella definizione degli aspetti dell’oggetto su cui focalizzare la tensione interpretativa. Ad esem-pio, si può parlare di una persona qualificando-ne le virtù morali, le capacità sportive, l’aspetto estetico, le doti di lavoratore, ecc. La scelta di quale aspetto pertinentizzare dipende dall’orga-nizzazione più generale del discorso, regolativa delle procedure interpretative specifiche. In terzo luogo, la struttura semantica che configura le op-portunità della significazione. Va infatti tenuto conto che i contenuti semantici non sono entità individuali, ma relazionali. Il concetto di bianco non esiste in quanto tale, ma in quanto parte di una struttura opposizionale che implica il nero. Di conseguenza, ogni significazione è affermare qualcosa in ragione della contemporanea nega-zione di qualche altra cosa. Il che equivale a dire che tale “qualche altra cosa” viene comunque at-tivato a livello di segno-complemento (vedi sotto per la definizione di segno-complemento). Ad esempio, affermare che Fuffi è un cane implica anche attivare il contesto di tutte le altre cose che Fuffi avrebbe potuto essere (vale a dire l’insieme infinito dei significati in relazione semantica con il concetto di cane), tale per cui affermare la sua caninità è fonte di conoscenza.

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MUSICA | JAZZ | SAN FRANCISCO

Le note dell’influenzaCOLLOQUIO ALESSANDRA PIZZI | RANDALL KLINE

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La possibilità di dare vita a creazioni ori-ginali e armoniose, nate dalla fusione di elementi diversi, è propria dell’arte e, in particolare, di quelle forme artistiche che

agiscono in maniera immediata sui sensi, come la pittura o la musica.

Si tratta di realizzazioni istintuali, a volte ricercate inconsapevolmente, con una prerogativa che è tale pro-prio in quanto scaturita dalla sfera inconscia. La speri-mentazione, in questo caso, è una conseguenza ovvia del processo: provare a scoprire cosa può nascere dall’incon-tro di elementi contrastanti che possono, inaspettata-mente, coesistere e dare forma a punti di arrivo originali, armoniosi, non artefatti.

Incontriamo Randall Kline nella sua casa di San Francisco, in una mattina d’agosto. Fuori fa freddo e c’è la nebbia, come sempre qui in questo periodo, in casa, invece, respiriamo una piacevole aria familiare che ci ri-scalda e ci mette a nostro agio. Il padrone di casa ci fa ac-comodare nell’ampio e luminoso salone della sua abita-zione, dove campeggia un grande pianoforte a coda e una foto in bianco e nero di Charlie Parker. Un lungo tavolo pieno di sedie dà l’idea di quanto la famiglia Kline ami la compagnia degli amici. Prima di cominciare a parlare ci viene offerto dell’ottimo caffé, rigorosamente espresso: Kline ci spiega che ha cercato a lungo una macchina che ne facesse uno veramente buono, cremoso e denso come piace a lui. La cosa, chiaramente, ci disegna sul viso un sorriso di sorpresa e, felicemente, accettiamo.

Randall Kline si siede di fronte a noi e ci sor-ride, è un uomo pacato, silenzioso, ma solo fin quando non comincia a rispondere alle nostre domande. Solo allora ci rendiamo conto che potrebbe parlare per ore, che la sua passione per la musica è viva e che per lui, tutto sommato, il lavoro non è un’incombenza, ma una possibilità quotidiana di conoscere e scoprire.

Secondo Lei, quando si può parlare di ibrido nel-la musica ed in particolare nel jazz?

Quando studiavo musica avevo un insegnante di te-oria che affermava che non si può comprendere la musica senza capire la storia del tempo che l‘ha generata. Facevo parte di una classe di composizione e di teoria musica-le e l’insegnante era solito dire che bisognava riuscire a scrivere nello stile del tempo, capire come tecnicamen-

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te Bach componeva e comporre l’armonia come Bach avrebbe composto, con la stessa tecnica stilistica. Stravinskij realizzò una rivoluzione nella musica classica perché lui era, in quel momento, la persona giusta per farlo, così come, Ornette Coleman fu nel jazz, nel suo periodo, la persona giusta per cambiare le cose.

Il jazz in particolare è ibrido perché la sua nascita negli Stati Uniti fu data da una combina-zione di differenti culture: la cultura africana, le culture del Bacino caraibico, degli indigeni di quei Paesi (Portorico, Vene-zuela, Cuba), l’influenza degli schiavi e della loro musica. Tut-te queste culture si sono ibridate con gli strumenti a fiato dei colo-ni tedeschi, francesi, e inglesi, in un’enorme miscela.

Il jazz si sviluppa nelle dif-ferenti aree seguendo lo stile del periodo.

Nella musica è possibile rin-tracciare frequentemente una se-rie di influenze che la generano; il jazz nasce sempre quale il frut-to di una serie di influenze che si mischiano, tradizioni popolari, antiche e moderne, tutto in una nuova forma. La maniera in cui si sviluppa il blues, per esempio, con la forma di chiamata e ri-sposta: qualcuno che esegue un ritmo o una frase e qualcun altro che risponde con un ritmo o una frase differente, è chiaramente di ascendenza africana e rappresen-ta una forma di comunicazione. Anche se in altri generi musicali la comunicazione è importante, nel jazz è fondamentale perché nell’improvvisazione è indispen-sabile ascoltare e capire quel-lo che gli altri componenti del gruppo fanno e la direzione in cui vogliono andare.

Esistono differenti livelli

di percezione dell’ibrido. Ibri-do può essere dato dal musici-sta che, per esempio, nella vita svolge un’altra attività profes-sionale (e così, molto spesso i due mondi finiscono per in-contrarsi e compenetrarsi); o da musicisti che fanno musica utilizzando strumenti diffe-renti e unendo al suono dello strumento “rumori” vari, come nel caso dell‘italiano Antonello Salis; o, ancora, da musicisti la cui composizione musica-le può avere le caratteristiche dell’ibrido, come nel caso delle esecuzioni jazz che molto spes-so richiamano altri brani della musica classica o dello stesso repertorio jazz, per esempio.

Partiamo dal primo caso. Credo che sia molto raro che ci siano persone che possano eccel-lere in due carriere differenti.

Perché essere un bravo mu-sicista ritengo si debba studiare molto.

Infatti, ci sono pochi casi, come, per esempio, quello di Denny Zeitlin che è un noto psichiatra, ma anche un grande compositore e musicista jazz; o Charles Ives, che era un assicura-tore e anche uno dei più impor-tanti compositori americani di musica classica. C’è un altro li-vello di ibrido, ed è rappresenta-to da quella categoria di persone che sono manager della musica e che per fare questo lavoro hanno comunque studiato musica per anni, come nel caso di Herb Al-pert, che è un uomo d’affari in campo musicale e anche il leader della band Tijuana Brass,

Fare il musicista è qualcosa di molto difficile, che richiede una dedizione assoluta, è mol-to duro. E’ per questo che non ci sono molti esempi di questo tipo.

Per quanto riguarda, inve-ce, il secondo caso?

In merito posso parlare per la mia esperienza di produzio-ne di musica dal vivo. Mi piace la sperimentazione e quindi io cerco sempre, quando possibile, di mischiare esperienze differen-ti, di mettere insieme musicisti che vengono da posti differenti. Questo è quello che c’è dietro il San Francisco Jazz Collec-tive, tante persone che hanno background musicali differenti. I componenti che giungono da diversi luoghi e hanno, quindi, le più disparate esperienze musi-cali. Ci sono musicisti che ven-gono da Portorico, dal Canada, dalla Nuova Zelanda, dagli US; ci sono musicisti giovani e musi-cisti anziani. Gente che non ave-va mai suonato insieme e che ha una percezione musicale propria e originale. Tutto ciò fa sì che si ascoltino tra loro con sensibilità

differenti. Tutti i musicisti devo-no fare uno sforzo per allargare la propria percezione e comprende-re nuove suggestioni.

Anche la possibilità di cam-biare il luogo in cui ci si esibisce è importante.

Abbiamo organizzato dei concerti del SFJF nella cattedrale neogotica di SF, che ha una sto-ria importante. La Chiesa com-missionò, infatti, proprio a Duke Ellington una composizione per consacrare la cattedrale, nel 1975. Egli scrisse un pezzo che richiedeva la partecipazione della sua big band, di ballerini di tip tap, cantanti di gospel, coro go-spel. La sua composizione è di-ventata il primo concerto sacro. La cattedrale si imbevve dell’es-senza del jazz, che era la musica del periodo.

Quando andai per la prima volta nella cattedrale per organiz-zare i concerti, il maestro d’or-

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gano, che era anche il direttore musicale della chiesa, mi parlò di un concerto di Frans BrŸggen, uno dei più grandi musicisti di flauto dolce del mondo. Brug-gen cercava, prima del concerto, di trovare il modo di suonare lo strumento inserendo il suono nel contesto del luogo e lo face-va provando a suonare in diverse posizioni all’interno della catte-drale: sull’altare, vicino al fonte battesimale, nel posto dove si posizionava il coro, dove era l’or-gano. Cominciai allora a riflette-re su come si potessero realizzare dei concerti jazz in un luogo del genere, su come i musicisti jazz si sarebbero potuti inserire in quell‘ambiente. Dovevamo orga-nizzare molti concerti cercando di inserirci, cercare di creare un tutt’uno con la cattedrale, con il luogo. I problemi erano sia di carattere estetico, poiché quello era un ambiente inusuale per un

concerto jazz, ma anche di carat-tere acustico, c’era, infatti, un’eco molto elevata, di sette secondi, (il concerto di Bruggen fu mol-to bello perché fu eseguito da un solo strumento. Far suonare in-sieme tanti strumenti con un’eco così avrebbe generato confusione, e sarebbe stato difficile da ascol-tare). Abbiamo pensato, così, di fare concerti per uno, al massimo due musicisti. Hanno suonato in quel luogo Roy Hargrove e James Carter; Jackie Mc Lean e Steve Lacy, Greg Osby e Joe Lovano, Joe Henderson e Zakir Hussain. Persone che facevano musica dif-ferente e che si sono incontrate, fuse tra loro e con il luogo, con la cattedrale; qualche volta con ri-sultati eccellenti, altre meno. Roy Hargrove e James Carter, che si conoscono dal tempo del liceo, hanno chiuso il concerto con una canzone tradizionale “Let it shine” cominciando a suona-

re sull’altare e camminando poi con la tromba e il sax per la cat-tedrale. Si sono separati lungo le navate per poi ritrovarsi insieme sull‘altare. Si è creata un’atmosfe-ra molto particolare. Tutte queste cose sono molto semplici, ma la situazione, la musica, la cattedra-le, il pubblico, i musicisti hanno reso il momento memorabile e, nella mia professione, quan-do questo accade, è impagabile. Quando riesci a mettere insie-me gli ingredienti, sperando che siano quelli giusti, qualche volta funziona molto bene, altre volte meno…

Tornando al mio lavoro, cer-chiamo di estendere la definizio-ne di jazz. Sono sempre alla ricer-ca sperimentazioni che sono in-fluenzate dal jazz, estendendone i confini. Il Kronos Quartet è una formazione con la quale lavoria-mo molto ed è un gruppo molto innovativo, che ha modificato l’immagine del quartetto d’archi dedicato alla musica contempo-ranea. Essi hanno cercato di ren-dere questo tipo di formazione e la musica classica contemporanea accessibili al pubblico. Sia con la loro immagine sul palco, sia con la musica che suonano, cercano sempre di allargare i loro orizzon-ti. Il primo concerto che abbiamo fatto con loro era con musiche di Thelonious Monk. Noi abbiamo anche commissionato al batteri-sta jazz Tony Williams un pezzo che avrebbe suonato insieme al Kronos Quartet. Williams era un ottimo compositore e l’idea che un batterista jazz componesse un pezzo per un quartetto d’archi di musica contemporanea era qual-cosa di innovativo. Negli anni abbiamo fatto molti concerti con il Kronos Quartet, con differenti generi musicali, dalla musica mi-nimalista di Terry Riley, al jazz di

Joe Henderson e Denny Zeitlin. E veniamo alla terza even-

tualità Ci sono tanti tipi di ibri-

dazione nel jazz: il jazz rock, la fusione con la musica classica, negli ultimi tempi anche jazz e hip hop. Ma oltre ai differenti ibridi in questo senso c’è da dire che nel tempo ci sono state ibri-dazioni di strumenti musicali in-trodotti da altri contesti nel jazz, come l’organo a canne, che ve-niva utilizzato per commentare le immagini nei film muti degli anni ’20, e che fu introdotto da Fats Waller nel jazz. Con l’inven-zione dell’Hammond, un organo portatile, questo strumento subì una vera rivoluzione diventando uno strumento orientato verso il blues e quindi ci fu un passaggio dall’organo da chiesa all’organo da palco. Questo passaggio costi-tuisce a mio avviso una sorta di ibridazione sia della musica che dello strumento.

Adesso una nuova, interes-sante influenza nel jazz è quella del jazz europeo su quello ame-ricano. Per anni i migliori jazzisti sono stati i musicisti americani. Oggi, però, in Europa in parti-colare, ci sono ottimi musicisti che vengono dalla Norvegia, dalla Francia, dall’Italia, dalla Spagna. L’Europa e il Giappone erano i posti dove i jazzisti ame-ricani lavoravano di più, ma ora non è più così. Anzi, addirittura, i musicisti europei che prima si lasciavano influenzare dagli arti-sti americani, adesso portano le loro nuove idee in US, creando un flusso inverso. Per esempio Chano Dominguez, pianista spagnolo, mette insieme il piano con il flamenco, oppure come Astor Piazzolla che ha unito il tango argentino con il jazz e la musica contemporanea.

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“Senza trasformazione non ci può es-sere sviluppo” diceva Ovidio. Possiamo trasporre in musica questa affermazione?

Per rispondere a questa domanda è ne-cessario pensare a quali fattori si combinano insieme per creare un momento di trasforma-zione. In tutte le arti si cercano dei momenti di mutazione, dalle arti visuali alla musica. Qual è la combinazione di cose che rende possibili tali momenti? Molto probabilmen-te i musicisti e gli ascoltatori. Essi cercano sempre, nella musica, la possibilità di essere trasportati, di abbandonarsi alla musica. Ma quello che accade durante questi momenti in cui si attua un tentativo di trasformazione ri-guarda soprattutto la comunicazione. Quan-do i musicisti suonano tra di loro per molto tempo e si conoscono molto bene, è molto facile che ci siano frequenti casi in cui si rie-sce a dare vita a qualcosa di nuovo, ad evolve-re. Più le persone riescono a comunicare più si creano i presupposti per la trasformazione. Un esempio può essere il gruppo di Keith Jarrett che suona insieme da 25 anni.

Può succedere, però, che si giunga a sug-gestivi momenti di trasformazione anche in gruppi che durano molto meno, come quelli che avevano come leader Miles Davis, com-posti da musicisti eccezionali ma che dura-vano al massimo quattro o cinque anni e poi venivano rinnovati. Sembra che questi pro-cessi somiglino molto alla comunicazione in un rapporto di coppia: quando dura da mol-to tempo si può giungere a momenti di inte-sa molto forti, lo stesso può accadere, però, se il rapporto è nato da poco, le emozioni forti sono sempre nuove ed originali, e possono generare un’evoluzione intima in chi la vive.

A volte dipende tutto dalle circostanze e dall’ambiente, da come il pubblico rece-pisce, da come i musicisti sentono in quel momento. Tutto ciò non si può prevedere. Capita spesso che le situazioni, durante una performance, cambino. I musicisti riescono subito a capire lo spirito del pubblico che partecipa alla esecuzione. Poi può succedere anche che dapprima ci si trovi davanti ad un pubblico che sembra freddo e distaccato, e che nel corso della performance, poi, cambi ed entri in contatto con i musicisti. Molto spesso è il feedback che modifica l’andamen-to di una esecuzione: ciò che i musicisti per-cepiscono dall’audience. Nel nuovo teatro che stiamo costruendo a San Francisco è pro-prio questo che stiamo cercando di ottenere, PE

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RSI

Per un’idea generale sul Kronos Quartet è possibile ascoltare:

2009, Foodplain, Nonesuch,2008, Terry Riley: The Cusp of Magic,

Nonesuch, 1995, Kronos Quartet Performs Philip

Glass, Nonesuch;1992, Pieces of Africa, Nonesuch;1989, Kronos Quartet Plays Terry Riley:

Salome Dances for Peace, Nonesuch;1991, Five tango sensations, con Astor

Piazzolla, Nonesuch;1986, Music of Bill Evans, Landmark;1985, Monk Suite: Kronos Quartet

Plays Music of Thelonious Monk, Land-mark;

Alcune tra le colonne sonore eseguite dal Kronos Quartet:

2000, Requiem for a Dream, Regia di Darren Aronofsky, Musiche di Clint Mansell, Nonesuch;

1999, Dracula, Regia di Tod Browning, Musiche di Philip Glass, Nonesuch;

1985, Mishima: A Life in Four Chapters, Regia di Paul Schrader, Musiche di Philip Glass, Nonesuch

In merito agli autori citati nel corso delle interviste sono riportati solo alcuni riferimenti tra i più recenti

Bregovic G., 2009, Alkohol. Sljivovica & Champagne, Mercury;

Bregovic G., 2007, Karmen, Mercury;Carter J., 2008, Present Tense, Emar-

cy;Carter J., 2007, Out of Nowhere Live at

Blue Note, Half Note;Coleman O., 2007, Ornette Coleman

Anthology, Intakt, 2 vol.;Coleman O., 2007, Tomorrow is the

question, Concord;Coleman O., 2005, Song X (20th Anni-

versary Edition), con Pat Metheny, None-such;

Davis M., 1957, Birth of the Cool, Ca-pitol;

Davis M., 1959, Kind of Blue, Colum-bia;

Davis M., 1968, Nefertiti, Columbia;Davis M., 1986, Tutu, Warner records;Dominguez C., 2006, Acercate Mas,

Karonte;Dominguez C., 2004, Chano Domin-

guez 1993-2003, Karonte, 2 vol.;Ellington D., 1956, Ellington at Newport,

Columbia;Ellington D., 1962, Duke Ellington &

John Coltrane, Impulse;Ellington D., 1967, Fitzgerald E., Ella

and Duke at the Cote D’Azur, Verve;Hargrove R., 2009, Emergence, Emar-

cy;Hargrove R., 2008, Earfood, Emarcy;Henderson J., 2008, Monterey Jazz

Festival Live 1966 & 1994, Concord;Henderson J., 2007, Relaxin’at Cama-

rillo, Concord;Hussain Z., 2007, Best of Zakir Hus-

sain, ARC;Hussain Z., 1999, Venu, Ryko;Ives C., 2008, American classics. Char-

les Ives; Emi;Ives C., 2009, Songs, Naxos, 4 vol.;Lacy S., 2009, Soprano Sax – Reflec-

tions 1957-1958, Fresh Sound;Lacy S., 2009, Duets. Associates, Fel-

may;Lovano J.- Osby J., 1999, Friendly Fire,

Blue Note;McLean J., 2009, Bluesnick (Rudy van

Gelder), Blue Note;McLean J., 2009, One Sep Beyond

(Rudy van Gelder), Blue Note;Monk T., 1956, Straight, No Chaser,

Columbia; Monk T., 1957, Thelonious Monk/John

Coltrane - The Complete 1957 Riverside Recordings, Riverside;

Monk T., 1959, Thelonious Alone In San Francisco, Riverside;

Riley T., 2008, Keyboard Studies, n. 1, n. 2, Stradivarius;

Riley T., 2008, The Harp of New Albion, Celestial Armonies, 2 vol.;

Tijuana Brass, 2005, The Beat of the Brass, Cadiz distr. Ird;

Tijuana Brass, 2005, Ninth, Cadiz distr. Ird;

Waller F., 2009, Keepin’ out of mischief now, Noble Jazz;

Waller F., 2009, Complete recordings 1938-1940, JSP, 5 vol.;

Zeitlin D., 2005, Solo Voyage, Max Jazz;

Zeitlin D., 2004, Slick Rock, Max Jazz.

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il massimo scambio tra palco e platea. Non c’è niente di peggio, per un musicista, non percepire la partecipazione del pubblico. Si è da poco tenuto un concerto con Goran Bregovic. Da prima del concerto si sentiva già la forte eccitazione del pubblico. Quan-do gli ho chiesto se pensava che avrebbe avuto un buon concerto quella sera lui ha risposto che ne era sicuro. E infatti, di tutta la tournee di Bregovic in America, quella è stata la serata più entu-siasmante, proprio per la pre-senza di un pubblico partecipe, che aveva voglia di comunicare il proprio calore.

L’ibrido tra l’artista, il pub-blico e l’ambiente aiuta a trovare il modo di creare dei momenti di trasformazione. Ben Ratliff, critico del New York Times per il jazz, ha scritto un articolo nel quale sostiene che, dei due o tre concerti che ogni gruppo jazz tiene ogni sera nei club di New York, il migliore è sempre l’ulti-mo, per vari motivi, i musicisti sono più rilassati, il pubblico più disposto all’ascolto, l’ambiente più tranquillo. Il “midnight set” è quindi il concerto che dovreste prenotare per avere le maggiori possibilità di ascoltare un con-certo memorabile nei jazz club.

Nel mio lavoro ho sempre cercato e continuo a cercare di combinare elementi diversi ma complementari (a volte ovvi solo a me), nel tentativo di creare un contesto per un “momento tra-sformativo”. Perché ciò possa av-venire sia il pubblico che il mu-sicista dovrebbero essere rilassati ma allo stesso tempo un po’ tesi ed eccitati (un ibrido in se stes-so); ci dovrebbe essere un senso di aspettativa coesistente con un senso di confort. La possibilità di trasformare molto spesso provoca un certo disagio, ma la “crescita” è, in un certo senso, sempre un po’ disagevole.

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Elementi eterogenei e discordanti, che si uniscono, teoricamente dovrebbero mal coe-sistere. Ma non sempre è così, soprattutto in alcune forme artistiche. In che senso si può parlare di ibrido in musica secondo Lei?

Pensando al mio lavoro ritengo che tutto o niente di ciò che ho fatto e che faccio sia stato e sia un ibrido. Nel senso che potrebbe essere con-siderato ibrido anche il concetto stesso di quartetto d’archi, il contrasto tra strumenti differenti che suo-nano insieme o due violini suonati da due perso-ne, perché lo spazio che hanno le interpretazioni è enorme.

Ma per entrare nello specifico di come lavora il Kronos posso dirti che quello che ho voluto fare è stato rinnovare il concetto originario di quartetto della Vienna di metà Settecento e di cercare di por-tare, in un certo senso, tutto il mondo all’interno del quartetto; di scardinare l’idea dell’ensemble com-posto da due violini, una viola e un violoncello e del repertorio classico che questa formazione esegue solitamente.

La domanda che poni è interessante e non so se ho risposte perché io non penso che le nostre orecchie riescano a recepire tutto ciò che sentono: tutti i ritmi, le sfumature. Il mondo dei suoni e della musica esiste indipendentemente dalle culture, dal-le persone.

È un processo istintuale più che cogniti-vo.

Penso che ogni ascoltatore sia una collezione di tutta la musica e i suoni uditi nella propria vita. Fin dalla nascita ascoltiamo. Alcuni di questi suoni diventano speciali perché ci attraggono. Ogni indivi-duo è predisposto ad essere attratto da determinati suoni e, dunque, li ricerca.

Le vostre peculiarità sono la sperimenta-zione e la ricerca. Negli anni avete collezionato numerose collaborazioni. Come nasce il pro-cesso creativo secondo la Sua esperienza?

È molto interessante pensare a come avvenga il processo creativo. Molte delle migliori idee le ho avute in posti e tempi differenti. Leggendo, conver-sando. Leggo o ascolto un’affermazione e le mie idee vanno in una direzione nuova.

Nasce così l’idea di proporre la stesura di un pezzo a un compositore che non è mai appartenu-to concettualmente al mondo del Kronos prima di allora. Recentemente ho ascoltato un gruppo pale-stinese su MySpace, i RamallahUnderground. Non avevo mai ascoltato musica che suonasse in que-sta maniera. Mi sono messo in contatto con loro e, nel nostro ultimo album, abbiamo inserito uno dei loro pezzi.

Tutti i circa 650 pezzi scritti per il Kronos hanno seguito questo processo. Il desiderio è quello tro-vare qualcosa di originale e di bello, che io ritenga tanto entusiasmante da poter essere trasposto nel mondo del Kronos. È un po’ come pensare ad un tessuto di esperienze significative che tutte insieme

contribuiscono ad arricchire il tuo senso di creati-vità.

Quindi la vostra musica nasce all’ester-no.

Io cerco di tenere le orecchie aperte ventiquat-tr’ore al giorno: guardando la televisione, ascoltan-do produzioni musicali di tutto il mondo.

Ogni tanto, raramente, qualcosa mi attrae. Ho completa fiducia nel processo che consiste nell’essere totalmente affascinato dall’esperienza di ascolto; esperienza che poi stimola il mio processo creativo. Non succede spesso e devo essere com-pletamente convinto per decidere di coinvolgere il Kronos.

Non è una capacità comune essere così aperti e ricettivi.

Penso che l’ascolto richieda esercizio, pratica. Avere le orecchie aperte e lasciare che le influenze, dalle varie componenti dello spettro di cui è com-posta la musica, entrino nella tua vita sia come una disposizione spirituale. Senti che la musica ti porta dove lei vuole andare. Certe volte può accadere lavorando con un costruttore di strumenti musicali che ne realizzi uno particolare, nuovo; altre volte si può giungere ad un suono originale trovando un nuovo modo di suonare gli strumenti. Credo che sia ciò che accade ad un pittore: quando vede un nuovo colore, mai visto prima, o un tipo di luce di-versa, egli desidera ritrovarli, portarli sulla propria tavolozza.

Trovare un suono nuovo, come avete fat-to nelle vostre numerose esperienze con gli artisti più disparati, come Tanya Tagaq, una throat singer; o Alin Qasimov, un cantante azerbaijano.Le vostre collaborazioni e speri-mentazioni hanno un respiro globale.

Il mondo della musica è estremamente fram-mentato, c’è l’opera, c’è la pop music, l’heavy me-tal, il folk. Credo che la mia responsabilità sia quella di cercare di abbracciare tutte queste esperienze. Desidero che quando una persona ascolta una no-stra registrazione, o viene ad un nostro concerto, possa avere esperienza musicale globale. Ci voglio-no differenti punti di vista per creare un mondo di musica. È questo che mi guida. Il dipinto non è mai finito, si forma e si modifica continuamente: è l’es-senza dell’ispirazione musicale.

La musica è come una sostanza vivente che si trasforma e si reinventa e che poi scompare. Il suo-no è un’entità effimera: quando finisce è perso per sempre, tranne che nella nostra memoria. Il lavoro di noi musicisti è quello di realizzare espe-rienze che rimangano nella memoria di chi le ascolta.

DAVID HARRINGTON

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Musica e cinema Forme di un incontro

Claudia Pedone

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Musica sinfonica nel Ci-nema mutoSebbene comunemente si ritenga che esista una

cosiddetta “epoca muta” del cinema, la mu-sica, in realtà, fa parte della storia del cine-ma sin dalla sua nascita.

The Jazz Singer (USA, 1927) è il pri-mo “film sonoro” della storia del cinema, ma anche prima della sua uscita la visione di un film era accompagnata dalla costante presenza della musica. Durante le proiezio-ni, prima dell’invenzione della registrazione del suono sulla pellicola, le immagini erano accompagnate da un’esecuzione musicale in diretta, il più delle volte ad opera di un pianista che lavorava di fantasia, improvvi-sando e inserendo citazioni di un repertorio noto. Una musica che offriva un’indispen-sabile vivacità alla visione del film, sottoli-neando il carico emotivo delle diverse scene con il variare delle sonorità.

Secondo alcune ipotesi più semplifica-trici, la musica, nel cinema muto, svolgeva un compito strettamente funzionale: servi-va per coprire il rumore del videoproiettore. Tuttavia, è stata ampiamente riconosciuta la sua fondamentale importanza nel favorire la visione di un film muto, sottolineando il ritmo del montaggio, intensificando il con-tenuto emotivo delle immagini e destando l’attenzione del pubblico. Il movimento, senza componente sonora, sembra avere un aspetto spettrale, insostenibile, mentre la musica conferisce all’immagine bidimen-sionale una terza dimensione, altrimenti irrecuperabile.

I film di Charles Chaplin sono un mi-rabile esempio di “film muto”. Riedito in forma sonora con un commento scritto in un secondo tempo dallo stesso Chaplin, The Gold Rush (USA, 1925) è uno dei capolavo-ri del maestro del muto, a cui i primi spet-tatori assistettero deliziati da improvvisate esecuzioni di pianoforte. Una pellicola tra-gicomica che narra le vicende di The Tramp (o come lo conosciamo in Italia, di Char-lotte), l’omino vagabondo alle prese con un’avventura in Alaska. Scene divertenti, alcune divenute celeberrime, si intrecciano con momenti più drammatici che toccano i

temi della solitudine e della sopravvivenza. Indimenticabili la scena dello scarpone, qua-le unica prelibatezza cucinata per il cenone di Natale, la scena della danza coi panini, la scazzottata nel bar e le allucinazioni di Gia-comone provocate dalla fame. L’omino, in Alaska, affronta una pericolosa tempesta di neve, soffre la fame e patisce dolorose pene d’amore, ma il tutto avviene all’insegna di un happy end.

Le scene di La febbre dell’oro non sono accompagnate da effetti sonori, che per-metterebbero di sottolineare le sfumature dell’azione in corso. È per questo motivo che gli attori si esprimono con grandi ge-sti, molto accentuati, perché il corpo deve parlare in modo chiaro ed esplicito. Alla mimica del corpo è affidato l’intero com-pito comunicativo, senza l’ausilio di parole e suoni. La musica offre così un ulteriore rafforzamento a quella mimica evidente con cui Chaplin si esprime mettendo in gioco tutto il corpo, dalla mimica facciale alla ti-pica camminata.

Nonostante ciò, la musica, nei primi anni di vita del cinema, non poteva ancora fare parte a pieno titolo dell’opera cinema-tografica, poiché rimaneva soggetta alle con-dizioni variabili dell’esecuzione dal vivo.

Musica colta minimalista contempo-ranea. Per una colonna sonora da disco d’oro

Composta come colonna sonora di Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain (Francia, 2001), la musica di Yann Tiersen ha rag-giunto in pochi mesi il doppio disco d’oro, con oltre duecentomila copie vendute. Le sue sonorità, nate per offrire una particolare dimensione musicale alle vicende di Amélie, hanno continuato a viaggiare anche in com-pleta autonomia, separate dalle immagini del film che racconta di questa deliziosa ra-gazza francese. Accolto dal pubblico e dalla critica con grande favore, il film, campione di incassi del 2001, ha goduto di un am-pissimo successo, raggiungendo ben cinque candidature all’Oscar.

Il rapporto tra musica e cinema lascia trasparire nella musica da colonna sonora tutta la sua particolarità e complessità: mu-

sica e film, nel loro insieme, sono stati co-autori di un medesimo successo che, tutta-via, non ha impedito alla colonna sonora di rendersi autonoma dalle immagini accom-pagnate sulla scena ed essere quindi anche commercializzata separatamente dal film.

Al musicista di Brest, Yann Tiersen, è stato affidato il compito di dare l’anima alla storia del regista Jean-Pierre Jeunette. Tiersen è uno dei massimi artisti francesi contemporanei e nella colonna sonora di Amélie ricompone una vera e propria anto-logia della sua esperienza musicale, a cui ha affiancato la composizione di nuove tracce appositamente per l’occasione. Violino, pianoforte, e fisarmonica sono i protagoni-sti di questo magistrale assaggio di musica colta contemporanea di cui Tiersen se ne fa ideatore e interprete, attraverso il suo stile minimalista.

Musica, immagini, azione, colori e mo-vimenti di macchina si sposano magistral-mente per creare un’atmosfera trasognata e rarefatta, ma al contempo densa di un fasci-no del tutto particolare. La storia narrata dal film è quella di una ragazza a cui piacciono le piccole cose: voltarsi nel cinema al buio e guardare le facce degli spettatori, cogliere particolari che nessuno noterà mai, rompere la crosta della crème brûlée col cucchiaino, tuffare la mano in un sacco di legumi e far rimbalzare i sassi nel canale Saint-Martin. La storia di Amélie è una ribellione alla ma-lattia dell’indifferenza allo scopo di rendere felice la vita degli altri e, pian piano, accet-tare di lasciare entrare la felicità anche nella propria vita.

Una galleria di personaggi costruiscono il tessuto della vita della protagonista, un pesciolino suicida, un impiegato dei treni in pensione che oblitera le foglie delle piante, un pittore che falsifica ogni anno un quadro di Renoir, il padre severo, la portiera vedo-va, un fruttivendolo presuntuoso, i clienti e i colleghi del bistrot in cui lavora, un colle-zionista di fototessere. Tra questi personag-gi si muove Amélie, rimettendo a posto le cose che non vanno nelle loro vite, attraver-so piccoli gesti, fantasiosi e divertenti, che permettono di ritrovare la felicità perduta, o nascosta troppo tempo addietro sotto qual-

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che mattone. Il sound degli anni Trenta e da bistrot

parigino, le musiche malinconiche e i suoni del folk bretone, valzer e suoni crepuscola-ri si alternano sulla scena, conferendo una tonalità del tutto particolare alle atmosfere de Il Favoloso Mondo di Amélie e alla prota-gonista. Entrambe minimaliste: Amélie e la colonna sonora compongono insieme una perfetta armonia di caratteri.

La musica che dà vita alle immagini.Sebastiano Arturo Luciani, un musico-

logo, capovolge nell’esposizione delle sue teorie il rapporto tra musica e immagini. Luciani ipotizza un ribaltamento dei rap-porti, liberando la musica dalla subordina-zione a cui si era assuefatta: non è la musica che accompagna le immagini, ma è il film che funge da “commento” alla musica.

Fantasia (USA, 1940) è un film d’ani-mazione interamente ideato secondo questo principio. Le immagini nascono dai suoni e li esaltano, rappresentando dove è possibile la narrazione ad essi sottesa.

Fantasia, nato da un’idea di Walt Di-sney, debuttò nel 1940 sul grande schermo e nel 1990, in occasione del suo mezzo seco-lo di vita, fu restaurato per la versione home video. La storia di questo esperimento cine-matografico, però, non si è fermata lì, rag-giungendo anche il nuovo millennio con il sequel Fantasia 2000.

Si apre il sipario e sullo schermo com-paiono le ombre degli orchestrali che pren-dono posto sul palco e che, con i loro stru-menti, illumineranno di colori e immagini la fantasia degli spettatori. Tre tipi di mu-siche sono preannunciate dalla voce fuori campo: musica che racconta storie, musica che suggerisce immagini, musica fine a se stessa. Toccata e fuga in re minore di Johann Sebastian Bach, il primo brano, appartie-ne proprio a questa terza categoria: pura musica priva di pretese narrative. Ombre e luci giocano con le note di Bach e con gli strumenti dell’orchestra, moltiplicandone le ombre e restituendo con i diversi colori i differenti effetti timbrici delle varie parti dell’orchestra. Sull’intreccio delle differenti linee melodiche si forma un intreccio di li-

nee e forme astratte: musica pura che gioca con colori e forme.

Lo schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij, il secondo brano, è un episodio che sugge-risce immagini. Fatine, pesci, funghi e fiori danzanti animano la scena di questo ballet-to di disegni. A Lo schiaccianoci segue un altro balletto, quello de La sagra della pri-mavera di Igor Stravinskij. In questo bra-no Stravinskij descrive il rito pagano che festeggia l’arrivo della primavera, mentre Walt Disney si serve del pezzo musicale per raccontare la storia della formazione del nostro pianeta: dalla rinascita della vita in primavera dopo la morte dell’inverno, che ispirava Stravinskij, alla nascita primordiale della vita sulla Terra e l’estinzione dei dino-sauri, che prende forma nel film.

Un’immersione nella mitologia dell’an-tica Grecia accompagna le note della Sinfo-nia n. 6 di Ludwig van Beethoven. Giovani centauri, ninfe, unicorni, satiri, cavalli ala-ti e putti abitano una natura fantastica in cui fanno la loro apparizione anche alcune divinità del monte Olimpo. Bacco e i suoi baccanali, i fulmini lanciati da Zeus, Eolo che soffia sulla Terra, il ritorno del sereno con l’arcobaleno disegnato da Iris, il carro di fuoco di Apollo, l’oscurità sopraggiunta con Morfeo e le stelle illuminate dalle frecce di Diana. Questo brano di Beethoven cele-bra una vita campestre dal sapore arcadico, traducendo in musica le sensazione che la natura suscitava nel compositore.

Danza delle ore di Amilcare Ponchiel-li, è un segmento contenente un comico balletto di struzzi, ippopotami, elefanti e coccodrilli che evocano le ore dell’aurora, le ore del giorno, della sera e della notte in un’animazione molto vivace che cede il pas-so all’oscurità di Una notte sul Monte Calvo di Modest Petrovič Musorgskij.

Chernabog è il protagonista di quest’episodio, un demone che compare nella profonda notte di un villaggio e ri-chiama a sé spiriti maligni, streghe, arpie, risvegliando anche i fantasmi del cimitero. Scene infernali, alte fiamme e creature mo-struose sono ispirate al sabba delle streghe. Al culmine dell’orgia suona una campana che fa disperdere gli spiriti maligni. Il finale

è riservato all’Ave Maria di Franz Schubert che dall’oscurità delle tenebre riconduce agli splendori dell’alba di un nuovo giorno.

Il valore diegetico della musica. Mo-zart e Čajkovskij

La particolarità della musica diegetica nel film consiste nel suo provenire diretta-mente da una fonte sonora interna al film. Essa è udita dagli spettatori, ma in primo luogo dagli stessi personaggi della storia. A differenza della musica extra-diegetica, per-cepita dal solo spettatore, in quanto prove-niente da una fonte esterna al racconto, la musica diegetica non appartiene in senso stretto alla “musica da film”, ma rappresen-ta un’interessante modalità d’incontro tra musica e film.

I personaggi di alcuni tra i più bei film della storia del cinema ascoltano e com-mentano la musica. La musica accompagna le loro azioni, la musica spinge all’azione e alla riflessione gli stessi personaggi. È questo il ruolo del “Signor Mozart” in Le ali della libertà (titolo originale The Shawshank Re-demption, USA, 1994).

Nel carcere di Shawshank si svolge la storia di Andy Dufresne, un innocente in-giustamente condannato all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso la moglie e il suo amante. Nonostante i soprusi e le violenze subite nella situazione di costrizione carce-raria, Dufresne afferma con forza che c’è qualcosa che mai gli potrà essere portato via, qualcosa che nessuno potrà toccare o togliergli senza il suo permesso, è la speran-za. È nel mantenere vivo il ricordo di questa speranza che la musica acquista il suo senso più elevato e il signor Mozart, come la chia-ma Dufresne, può essere un grande compa-gno anche “nel buco”, la cella di isolamento di Shawshank, perché lo si può portare con sé anche nel luogo di massimo isolamento, custodendolo nel cuore e nella testa.

Uno dei momenti più alti del film è la scena in cui Dufresne trova un vinile che fa risuonare dai microfoni del carcere. Le note di Mozart non possono essere fermate dal-le sbarre. Un momento di libertà regalato a tutti i prigionieri che il protagonista pa-gherà a caro prezzo. Il librarsi del canto de

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Le nozze di Figaro nell’aria aveva fatto dis-solvere per un istante la gabbia in cui erano tutti rinchiusi, regalando un prezioso – e inammissibile – istante di libertà.

Anche in V for Vendetta (USA-Germa-nia 2005) la musica udita dai personaggi del film trasporta sulla sua melodia il tema della libertà. Sulle note di Čajkovskij è ricercata la libertà da un sistema dittatoriale, perfido e corrotto che governa un’immaginaria Lon-dra del futuro. Il film entra nel vivo della storia con l’Ouverture solennelle “1812” op. 49 che risuona per tutta la capitale contem-poraneamente all’esplosione di Old Bailey, la Central Criminal Court che ha sede nel cuore di Londra.

Un’esplosione orchestrata da V, il mi-sterioso protagonista mascherato che, sul-la scia della memoria della Congiura delle polveri, decide di liberare il suo paese dal potere costituito, autoritario e intollerante. L’Ouverture segna l’inizio e la fine della vi-cenda di V: due ouvertures, due aperture. Il film termina con un nuovo inizio, quello della libertà dalla dittatura. La distruzione dei palazzi del potere va a braccetto con la costruzione di una nuova storia, con l’inizio di un nuovo corso. Il virtuosismo orche-strale di Čajkovskij trova il culmine nella trionfale conclusione, coronata da colpi di cannone e festosi rintocchi di campane che fanno dell’Ouverture “1812” la musica che accompagna e spinge al cambiamento e alla conquista della libertà e non un sottofondo sonoro funzionale alla partecipazione degli spettatori. La musica in funzione diegetica può essere considerata un personaggio del film, che insieme con gli altri intesse la tra-ma e interagisce con le azioni dei protago-nisti.

Il Musical alla ribalta con la Musica Pop.

Il pop diventa musical. È quanto avvie-ne in Moulin Rouge (Australia, 2001). Da Broadway il musical approda in una Parigi da belle époque per narrare la storia di Chri-stian, uno scrittore squattrinato, e del suo osteggiato e appassionato amore per Satine, la star del Moulin Rouge.

Canzoni e musiche da ballo, nel genere

cinematografico del musical, sono funzio-nali alla storia ed esplicativi della psicologia dei personaggi. Nati come adattamento per pellicola degli spettacoli in scena nei teatri di New York, i musical sono arrivati ai no-stri giorni sempre al grido di “all talking all singing, all dancing”. La coralità della par-tecipazione a canti e danze sembra cancel-lare i confini spazio temporali e amplificare le vitalità fisiche ed emotive in gioco sulla scena.

La storia d’amore tra Christian e Satin, ambientata a Parigi nel 1899, è narrata in Moulin Rouge attraverso alcune tra le più celebri musiche pop del secolo successivo. I classici di fine Novecento perdono nel film la semplicità delle sonorità pop per essere trasformati in canti corali, interpretati con pathos e accompagnati da un ricco ensem-ble strumentale. Nella versione originale di Your song le dita di Elton John danzano da sole sul pianoforte. Lo stesso brano assume ben altri caratteri nel film, dapprima sus-surrato e poi cantato a piena voce, accom-pagnato da un’intera orchestra, si concede anche qualche accenno lirico e un finale trionfale.

Roxanne, di Sting, diviene un tango can-tato con una voce graffiante. Con Roxanne la tensione sale alle stelle e si dà il via ad una danza quasi convulsa, con un incrocio di voci e scene che si svolgono contempora-neamente in luoghi diversi, ricongiunti dal grido esasperato che si leva da ogni parte.

In Moulin Rouge c’è spazio anche per Madonna e il suo Like a virgin che dà vita ad un grottesco balletto con Zidler, l’impre-sario del teatro, che si traveste da donna pia, mentre Satine lotta contro la malattia che la porterà alla morte sulle note del capolavoro dei Queen, The show must go on.

Musica come soggetto. La biografia del re del Soul e la preparazione del più grande evento Rock

Tra i molteplici rapporti intrattenuti tra musica e cinema, riserviamo un accenno fi-nale alla presenza della musica quale sogget-to trattato da un’opera cinematografica.

Della musica si può parlare e raccontare anche attraverso un film.

È questo, ad esempio, il caso di Ray (USA, 2004) che narra la vita di Ray Char-les, il musicista che ha cambiato la musica nera e non solo. Dalla nascita ad Albany fino alla firma di un contratto con la Atlan-tic e l’ascesa di una carriera leggendaria.

La vita privata si intreccia con il palco-scenico e la storia del musicista con la storia di un uomo: un ragazzino afroamericano alle prese col razzismo sud statunitense, la cecità, i vent’anni di dipendenza dall’eroi-na, il rapporto con la famiglia e le infedeltà coniugali. I lati oscuri della vita privata si intrecciano con le prime luci del successo e la sempre più brillante carriera, iniziata sull’onda del Gospel e del Country e cul-minata in una vera e propria rivoluzione musicale.

In Taking Woodstock (USA 2009) la musica come evento sociale diviene il sog-getto del film.

La cinepresa di Motel Woodstock – titolo italiano – non è rivolta verso il palco su cui avrà luogo il più grande concerto rock della storia, ma verso la tenuta che ospita il con-certo: i veri protagonisti sono gli spettatori e, ancor di più, gli organizzatori. Tutti, per caso, al centro di un momento che divente-rà un evento simbolo.

Niente chitarre e microfoni, il regista Ang Lee non vuole raccontare il concerto, ma l’evento musicale: un grande evento collettivo capace di descrivere uno spaccato della società che ha visto l’uomo sbarcare sulla luna ed era ancora solo a metà della disastrosa guerra in Vietnam. Il valore cul-turale della musica, la sua forza di smuovere masse e comunicare un messaggio al mondo intero, capovolgendo il rapporto tra musici-sti e spettatori, in Motel Woodstock si segna la differenza tra brano musicale ed evento musicale.

Il film è ispirato ai diari di Elliot Tiber, un giovane che coglie l’occasione del con-certo per risanare le finanza dell’indebita-tissimo motel dei suoi genitori, vedendo in Woodstock un’opportunità personale, prima di rendersi conto del valore che quei tre giorni avrebbero rappresentato in segui-to.

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GOMORRA O LA QUESTIONE DEL GENERE

CINEMA

È possibile istituire un confronto tra il libro di Saviano ed il film di Garrone?

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1. Gomorra e la “questione del genere”Quando si parla di Gomorra, che si tratti

del libro o della sua trasposizione cinematogra-fica, ci si trova sempre di fronte alla difficoltà di inquadrarli entro un preciso genere letterario o cinematografico; a dover fare i conti con l’irri-ducibilità delle due opere a canoni stilistici de-finiti. Questo disagio deriva in gran parte dalla sua natura ibrida.

Wu Ming 1 nel suo denso saggio sulla New Italian Epic, scrive che Gomorra libro è “UNO’’, acronimo di “Unidentified Narrati-ve Object’’, oggetto narrativo non identifica-to; infatti appena uscito è stato subito messo al centro di una disputa singolare, a momenti anche grottesca, su come dovesse definirsi: se “romanzo” (come dichiarano alcuni scrittori e critici, nonché, sarcasticamente, alcuni camor-risti) o “testimonianza-reportage”, se racconto epico o inchiesta, se opera “di finzione” o rac-conto “vero”.

Per Wu Ming 1, Gomorra non è niente di tutto questo, ma «roba nuova» (Wu Ming 1 2008).

Carla Benedetti, critica e saggista letteraria, docente di letteratura italiana moderna e con-temporanea presso l’Università di Pisa, sottoli-nea questo aspetto in maniera approfondita:

È capitato qualche volta che dei libri di grande tiratura abbiano acceso discussio-ni di tipo valutativo (grande libro oppure grande bluff’?), di tipo sociologico (perché tanti lo leggono?), ma mai di tipo nominali-stico. Invece nel caso di Gomorra la diatriba ha preso proprio questo andamento: “che genere di cosa è questa”? (Benedetti 2008).

Il fatto stesso che il libro sia uscito nella collana “Strade Blu’’ Mondadori, ha provocato da subito confusione fra lettori e critici, incerti se ascrivere Gomorra alla “fiction’’ o alla “non fiction’’. Nonostante il libro presenti innega-bilmente un respiro da reportage, da inchiesta giornalistica sulla camorra, la sua peculiarità e ricchezza fanno sì che nessuna categoria possa contenerlo veramente. Il coinvolgimento per-sonale dell’autore nelle vicende narrate poi, av-vicina il libro più alla testimonianza che all’in-chiesta vera e propria, al pari, per esempio, di Se questo è un uomo di Primo Levi.

Saviano instaura un nuovo tipo di rappor-to con la realtà, mediato da un linguaggio che

non è di mera fantasia, ma che fa riferimento ai dati; la sua è una letteratura documentale in cui le parole diventano strumenti, armi, attraverso cui descrivere la realtà.

Saviano sceglie di raccontarla rimanendo lontano da qualsiasi genere convenzionalizzato, come il noir, per esempio, considerato il più adatto a raccontare l’Italia di oggi e che, negli ultimi anni, ha garantito un buon successo di mercato alle case editrici. Saviano, invece, pre-ferisce non imboccare una strada già percorsa da altri, ma tracciarne una nuova e personale.

Anche Pasolini, in una sua lettera a Mora-via, a proposito di Petrolio, scriveva:

In queste pagine mi sono rivolto al lettore direttamente e non convenzionalmente. Ciò vuol dire che non ho fatto del mio romanzo un ‘oggetto’, una ‘forma’, obbedendo quindi alle leggi di un linguaggio che ne assicurasse la necessaria distanza da me, [...] quasi addi-rittura abolendomi, […] assumendo unila-teralmente le vesti di un narratore uguale a tutti gli altri narratori. No: io ho parlato al lettore in quanto io stesso, in carne e ossa, come scrivo a te questa lettera. (Pasolini 1992: 544).

Allo stesso modo, Saviano decide di rivol-gersi “direttamente’’ al lettore e la sua scelta si rivela fondamentale; se invece avesse deciso di parlare attraverso la convenzione di un genere narrativo, sarebbe venuto meno quel patto sta-bilito con i lettori, in virtù del quale si è sicuri della veridicità di quanto è scritto e che per Sa-viano doveva necessariamente essere scritto.

«Chi scrive un noir (o sceglie un qualsiasi altro genere fortemente convenzionale) non ha bisogno di legittimare la propria parola. Pen-sa già a tutto il genere» (Benedetti 2008); ma si tratta appunto di una legittimità (di parola) concessa per convenzione e non conquistata; la conseguenza è che, fin quando lo scrittore rimane legato a dei vincoli “convenzionali’’, il proprio atto di parola non potrà mai essere percepito come qualcosa di significativo in sé, come una ribellione o una sfida.

Ogni scrittura di genere porta con sé il li-mite di un patto di lettura altamente conven-zionalizzato, in cui la posizione di chi parla non è in gioco, non è problematica, ma è in parte annullata.

Al di là dell’essere o meno finzione, o dell’appartenere a un genere narrativo piuttosto

che a un altro, il merito di Gomorra è di posse-dere la forza agente della letteratura: forza ever-siva, di verità attraverso la parola e di riuscire a comunicare una realtà così irraccontabile ricor-rendo all’unione di elementi semanticamente eterogenei, eccedendo ogni genere e, allo stesso tempo, contenendoli tutti.

A prescindere dalla questione dei generi, comunque significativa, la riflessione deve con-centrarsi sui modi della rappresentazione, sui dispositivi narrativi riattivati con Gomorra.

1.1 Gomorra film: novità di linguaggio

Anche guardando il film, diretto da Mat-teo Garrone, si fatica a collocarlo all’interno di un genere immediatamente riconoscibile. È un film “politicamente schierato’’, “socialmente impegnato’’ come quelli di Rosi? Molte solu-zioni metodologico-linguistiche non apparen-tano forse il film al Neorealismo, in particolare al cinema di Rossellini? O è semplicemente un film a episodi, che ricorda, «per il modo di alternare le storie in una struttura narrativa, i film di Altman»1? O meglio, di Inarritu, con il suo Babel (altra citazione biblica) e soprattutto Amores perros? E non ha forse il ritmo e il re-spiro di un film di Scorsese?

Quella di Garrone è una vera e propria sfi-da stilistica. Egli stesso dichiara di volersi «mi-surare con altri generi, come il gangster movie, in cui ci sono sparatorie e scene d’azione, utiliz-zando però sempre una regia molto semplice, cercando di rendere invisibile la macchina da presa» (Bernacchioni 2008), «ricorrendo per almeno il 70% del film alla camera a spalla, come un reportage di guerra, al fine di accre-scere l’impatto emotivo» (Marrese 2008).

L’attrazione del regista per storie che pos-sano essere riconducibili a «strutture di genere» (De Sanctis 2008: 15) inizia già con L’imbalsa-matore che ricorda il «melodramma noir», pro-segue con una sterzata quasi «horror» con Pri-mo amore, fino al gangster-movie di Gomorra.

Come il libro, quindi, anche il film sfug-ge ogni definizione o categoria precostruita perché, molto semplicemente, è un’altra cosa. Gomorra è un film ibrido, perché non rima-ne intrappolato in un unico genere, ma riesce ad alternarli, a mescolarli tutti: il film ha una struttura a episodi, ma il metodo di lavorazio-

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ne e la ricerca di un’idea figurativa sono sup-portati da un linguaggio documentaristico. Sin dai suoi primi film, Garrone ridefinisce i confini fra documentario e finzione, facendo appello a quest’ultima per soccorrere la realtà fino ad integrarla; Garrone arriva alla finzio-ne – alle emozioni, ai sentimenti – attraverso il reportage, il documento schietto e sincero e

lo fa sempre conservando un solido impianto narrativo, eliminando ogni elemento di spetta-colarizzazione, descrivendo la realtà con onestà, sempre alla ricerca della verità attraverso il pote-re espressivo delle immagini; inoltre, la predile-zione del piano-sequenza (e il conseguente uso della macchina da presa a spalla), l’abitudine a girare in strade e case vere e non ricostruite in

studio, così come il ricorrere spesso all’improv-visazione, avvicinano Gomorra alla tradizione cinematografica neorealista2.

1.2 Strategie narrativeNon è certo la prima volta che in un testo

PERC

ORS

I

Per ritrovare, all’interno del panorama letterario, altri romanzi che riescono ad ab-bracciare più generi narrativi, superando ogni categoria imposta dalle ‘’convenzioni del ge-nere’’, si segnalano:

Saramago, J. 2003. L’uomo duplicato. Torino: Einaudi.

Il romanzo, dall’atmosfera onirico-surre-ale, ha una struttura narrativa che vede due uomini assolutamente identici incontrarsi. L’espediente utilizzato, il topos letterario del doppio, già presente nella letteratura greca come in quella fantascientifica, è tipico anche della letteratura tout court.

Saramago, J. 1998. Cecità. Torino: Ei-naudi.

Qui l’espediente narrativo è l’idea del contagio, tema già presente nell’Eneide di Virgilio, quando il poeta parla del diffondersi della fame, così come ne I promessi Sposi, in cui Manzoni racconta l’epidemia di peste che colpì Milano, fino ad arrivare a L’ombra dello scorpione di Stephen King, horror che racconta la diffusione, per contagio, di un vi-rus mortale.

Mentre gli scrittori citati scrivono attenen-dosi alle convenzioni di un genere ben ricono-scibile, Saramago lo fa all’interno del genere Letteratura, eludendo (e giocando con) ogni specificità legata a un genere facilmente iden-tificabile.

Si consiglia, inoltre, un romanzo che af-fronta sempre il tema della camorra ma che, diversamente da Gomorra, si presenta come un flusso ininterrotto di esperienze e riflessio-ni:

Balestrini, N. 2004. Sandokan, una sto-ria di camorra. Torino: Einaudi.

Un romanzo che racconta la criminalità, mescolando elementi di finzione a riferimenti reali, di non fiction, è

De Cataldo, G. 2002. Romanzo Crimina-le. Torino: Einaudi.

Per approfondimenti sul Neorealismo e per capire nello specifico quali aspetti per-mettono di considerare Gomorra un film ne-orealista, si raccomandano due testi impre-scindibili:

Deleuze, G. 1983. Cinéma 1. L’image-mouvement. Paris: Ed. du Minuit; trad. it. 1984.

Cinema 1. L’immagine- movimento. Mi-lano: Ubulibri.

Deleuze G. 1985. Cinéma 2. L’image-temps. Paris: Ed. du Minuit; trad. it. 1989. Ci-nema 2. L’immagine-tempo. Milano: Ubulibri.

In queste due opere Deleuze dedica molta attenzione al Neorealismo italiano che egli definisce cinema del ‘’veggente’’, dove il protagonista è consegnato ad una visione piuttosto che essere impegnato in un’azione. Il personaggio neorealista, in questo senso, ha la funzione di personaggio-registratore: si limita ad osservare, a registrare la realtà in-torno, senza riuscire ad intervenirvi.

Per quanto riguarda la cinematografia neorealista, un film che, per la sua struttura a episodi e per lo scenario di guerra rappresen-tato, ha influenzato particolarmente Gomorra di Garrone è

Paisà. Regia di Roberto Rossellini. Con William Tubbs, Harriet White, Gar Moore, Car-mela Sazio, Dots M. Johnson, Dale Edmunds, Giulietta Masina. Italia 1946.

Spesso i protagonisti dei film di Rossellini o di De Sica sono dei bambini, secondo De-leuze i più capaci di vedere e sentire perché

ancora incapaci di agire, di reagire. I bambini uccidono e muoiono di ciò che sentono e di ciò che vedono. In Gomorra accade qualcosa di simile col personaggio di Totò che, per la sua incapacità di opporsi all’agguato teso a Maria e per la posizione spettatoriale assunta rispetto agli eventi, incarna la tipica storia ros-selliniana e neorealista. Per i dovuti raffronti, quindi, si vedano:

Germania anno zero. Regia di Roberto Rossellini. Con Franz Kruger, Edmund Moe-schke, Barbara Hintze. Italia 1947.

Europa ’51. Regia di Roberto Rossellini. Con Alexander Knox, Giulietta Masina, Ingrid Bergman, Carlo Hintermann, Ettore Giannini. Italia 1952.

Sciuscià. Regia di Vittorio De Sica. Con Franco Interlenghi, Rinaldo Smordoni, Maria Campi, Aniello Mele, Enrico Cigoli. Italia 1946.

Gomorra ha completamente stravolto l’immaginario cinematografico e l’iconogra-fia ‘’glamour’’ legati alla mafia e propri della cinematografia americana. Si rimanda, a tal proposito, ai seguenti film:

Quei bravi ragazzi. Regia di Martin Scor-sese. Con Robert De Niro, Ray Liotta, Joe Pesci, Lorraine Bracco, Paul Sorvino. USA 1990.

Il Padrino. Regia di Francis Ford Coppola. Con Marlon Brando, James Caan, Al Pacino, Robert Duvall, Diane Keaton. USA 1972.

Scarface. Regia di Brian De Palma. Con Al Pacino, Steven Bauer, Michelle Pfeiffer, Mary Elizabeth Mastrantonio, F. Murray Abraham. Sceneggiatura di Oliver Stone. USA 1983.

Per indagare invece la ‘’nostra’’ criminali-tà, quella dei quartieri popolari, fatta di pover-tà e disperazione, si veda

Accattone. Regia di Pier Paolo Pasolini. Con Franco Citti, Franca Pasut, Adriana Asti, Silvana Corsini, Paola Guidi. Italia 1961.

Gomorra è stato rappresentato anche a teatro, per la regia di Mario Gelardi e dello stesso Saviano.

fiction/non fiction

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letterario si ricorre alla mescolanza di generi, anzi, è una componente essenziale del narrare, ma in Gomorra accade qualcosa di diverso, di inedito.

Saviano ricorre ad una strategia narrativa complicata da vari gradi di simulazione e dissi-mulazione che produce, a partire da un vissuto reale, personaggi e situazioni di natura, invece, “testuale’’, facendo di Gomorra, attraverso l’im-medesimazione, qualcosa di più di un repor-tage, di più vicino alla letteratura che non al giornalismo d’inchiesta.

È necessario, quindi, operare una «rifles-sione non tanto sui generi letterari, quanto sui modi della rappresentazione, proprio perché ogni opera instaura un rapporto col mondo, col fuori, e soprattutto col mutamento dei suoi significati» (Chimenti 2009).

L’uso che nel romanzo si fa dei documen-ti storici è il primo supporto, sia materiale che simbolico, della capacità dell’autore di catturare il reale e testualizzarlo, rendendolo materia let-teraria. Saviano ricorre a una serie di dispositivi narrativi e di retoriche che permettono al ro-manzo di “agganciare’’ la Storia e testualizzarla.

La realtà raccontata si presenta nei testi at-traverso dei riferimenti ad un terzo che è ester-no al testo ma che garantisce per il testo stesso: si pensi, ad esempio, ai documenti giudiziari, agli articoli di giornale, o agli stessi film citati in Go-morra. È abbastanza ovvio che non è necessario che il testo garantisca per questo universo stori-co, perché l’autore fa continuamente riferimen-to ad una realtà, ad un mondo extratestuale pre-suntivamente già noti al pubblico. Il problema sorge quando Saviano inserisce nella narrazione personaggi e storie come quelle di Pasquale e Mariano. Il testo, in questo caso, non può ga-rantire per la loro esistenza. Entrambi possono essere considerati dei personaggi finzionali, non perché non esistano nella realtà – quasi sicura-mente le loro esperienze appartengono ad indi-vidui reali – ma perché ciò che li sostanzia non è la stessa materia documentale di cui sono fatti i personaggi reali, testimoniati da fonti terze e uf-ficiali (giornali, libri, cronache, biografie) come Francesco Schiavone o Cosimo Di Lauro.

Saviano rende così ancor più difficile la po-sizione del lettore, “costretto” ad accettare que-sto patto narrativo in cui gli si chiede, attraverso le continue sovrapposizioni tra dimensione te-stuale e campo del reale, di scegliere, da cittadi-

no, oltre che da lettore, se farsi carico o meno di questa rappresentazione della realtà.

Ma quali sono, allora, le modalità operati-ve, gli espedienti narrativi attraverso cui Gomor-ra, da una parte cattura una porzione di realtà e dall’altra la restituisce all’universo culturale con un sovraccarico di senso?

1.3 Innesti, prelievi e inserti: possibili chiavi interpretative.

Marco Dinoi, giovane docente di teoria cinematografica recentemente scomparso, nel suo libro Lo sguardo e l’evento (2008), ha cer-cato di articolare una «tipologia empirica delle tracce del passato storico che un testo filmico può utilizzare al suo interno» (Dinoi, 2008: 176).

Avvalendosi degli studi compiuti da Di-noi nell’ambito cinematografico, si può capire come spesso Saviano, per Gomorra, si sia servito di alcune figure, rintracciate da Dinoi in deter-minati film, che permettono ad un testo di cat-turare il passato storico ed installarvisi: l’innesto, il prelievo e l’inserto. Certo, si tratta di una tas-sonomia parziale e, soprattutto, concepita per un discorso cinematografico, ma se si sposta l’attenzione sul piano strettamente narrativo e si considerano le categorie proposte come una vera e propria tipologia retorica, molte diffe-renze tendono a scomparire, rendendo queste categorie estremamente utili per la lettura di Gomorra, nel disvelamento della sua natura ibrida.

1.3.1 L’innestoTra quelle proposte, è la figura più ricorren-

te perché appartiene alla tradizione del romanzo storico in generale, in cui è consueto ritrovare episodi della realtà storica, riadattati al conte-sto letterario e connessi a elementi di fiction. Spesso l’elemento di fiction è semplicemente nel punto di vista adottato, come ad esempio in quello di Renzo Tramaglino (personaggio di invenzione) che, nella Milano del 1628, assiste all’assalto ai forni (evento storicamente accadu-to). Manzoni ricorre ad un personaggio finzio-nale, per raccontare un fatto reale.

L’utilizzo dell’innesto in Gomorra si avvici-na spesso a quanto appena descritto: l’elemento

di fiction è in quell’io narrante “sovraccarico” e onnipresente, che permette a Saviano di collocare il proprio sguardo laddove esso non può essere, descrivendo veri eventi di cronaca da punti di vista “ideali”, per ottenere l’effetto desiderato.

Ancor prima del vissuto dei suoi personag-gi, è proprio Saviano, o meglio il suo simulacro testuale, ad essere innestato sotto forma di un io narrante ubiquo: è come se Saviano si mol-tiplicasse e assumesse lo sguardo di mille per-sone diverse, dal giornalista presente sul luogo dell’omicidio, al carabiniere che ne redige il verbale3.

Gli innesti sono eventi ed esistenti che pro-vengono da un campo extratestuale e che sono sottomessi da subito all’operazione di messa in scena del film, da cui sono ri-contestualizzati in vista di effetti di scrittura specifici e più in generale con il risultato di narrare una storia diversa da quella ufficiale (Dinoi 2008: 178).

In Gomorra non ha rilevanza se il materiale innestato sia frutto dell’immaginazione dello scrittore, del suo vissuto personale oppure di ricerche fatte sul campo (di solito è una miscela di tutte queste cose insieme). « È importante invece che sulla narrazione di eventi ed esistenti agiscano delle sequenze narrative, costruite per via puramente testuale» (Chimenti 2009).

Nel capitolo “Kalashnikov”, per esempio, Mariano fa da spola tra il bar, che è un luogo testuale e la casa di Mikhail Kalashnikov che è, almeno presuntivamente, un luogo reale. Ma per dissimulare l’innesto, Mariano viene ridotto a personaggio registratore; è un puro sguardo che può essere staccato dal suo portatore e sul quale possiamo installarci a nostra volta. Non sono infatti le parole di Mariano a descriverci la casa di Kalashnikov, ma la sbobinatura del video che ha girato con la sua telecamera. Il let-tore, quindi, non potrà mai sapere se le pareti della casa di Kalashnikov siano davvero così come Saviano le descrive: «la casa della famiglia Kalashnikov aveva le pareti tappezzate di ripro-duzioni di Vermeer e i mobili erano stracolmi di gingilli in cristallo e legno[…]» (Saviano 2006: 192); così come non saprà mai se Maria-no ha mangiato davvero le mozzarelle di bufala col generale.

innesti inserti prelievi

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1.3.2 L’inserto.L’analisi appena fatta sull’incontro tra Ma-

riano e Kalashnikov, permette di introdurre la seconda figura teorizzata da Dinoi, l’inserto:

L’inserto appartiene ad eventi o esistenti di-rettamente riconducibili alla storia ufficiale, cronologica, ma a differenza del prelievo, è direttamente manipolabile dal testo filmi-co[…]. Può essere la testata di un quotidia-no che tuttavia mostra tra le notizie “vere” anche quelle finzionali che hanno a che vedere con la diegesi del film – tutte occor-renze rinvenibili in Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis, che può essere conside-rato l’esempio paradigmatico di questo tipo di operazioni (Dinoi 2008: 177).

«L’inserto è un oggetto che, pur richia-mandosi alla storia ufficiale, non preesiste alla narrazione» (Chimenti 2009). A differenza dell’innesto, l’inserto manipola gli eventi diret-tamente dall’interno del testo stesso. In altre pa-role, si può dire che l’inserto introduce sempre un personaggio o un elemento finzionale, che “serve” al testo per poter articolare il racconto e renderlo avvincente: benché il video girato da Mariano presenti le stesse modalità con cui sa-rebbe stato prodotto nella realtà extratestuale, esso contiene al suo interno elementi diegetico-narrativi che sono invece creati appositamente all’interno del testo. È lo stesso Mariano, in-fatti, un personaggio finzionale perché piegato alle esigenze narrative del romanzo, che entra letteralmente nel quadro e si mette a tavola a mangiare assieme a Kalashnikov.

1.3.3 Il prelievoSi tratta a questo punto di individuare la

terza e ultima figura in gioco, il prelievo:

È l’oggetto tale e quale si presenta nella realtà extratestuale e come tale, presunti-vamente riconoscibile dallo spettatore[…]. Può essere, per esempio, in Buongiorno, not-te, il telegiornale che annuncia il sequestro di Moro, i giornali dell’epoca…Il prelievo si offre in questo senso come documento del passato, traccia o residuo archeologico che aggancia il testo a una situazione storica (Dinoi 2008: 178).

Con tale termine sono da intendersi tut-

ti quegli oggetti che si presentano tali e quali sono nella Storia: sono i documenti autonomi dalla narrazione, immediatamente riconoscibi-li in quanto tali dal lettore, come le lettere di Don Peppino Diana, gli articoli di giornale, i verbali degli interrogatori, le intercettazioni.

Il prelievo, contrariamente all’inserto, «non manipola il documento inserendovi ogget-ti, personaggi o eventi finzionali» (Chimenti 2009). I documenti si presentano spesso nella loro integrità, oppure vengono sottoposti ad un’operazione di montaggio; comunque sono sempre separati e riconoscibili dal resto del te-sto attraverso una virgolettatura, una sospen-sione o uno spazio.

Saviano, per esempio, riesce ad inserire perfettamente all’interno della narrazione la breve sequenza di sms che si scambiano il gio-vane Francesco Venosa, affiliato al clan degli Spagnoli e la sua fidanzata; i testi degli sms, da un lato funzionano come documento, per-ché informano su alcune dinamiche interne ai clan, dall’altro raccontano la vicenda, attuale e archetipica, di un giovane che sa di non poter sfuggire ad un destino per lui già segnato.

Un documento diviene prelievo solo quan-do viene fatto interagire con elementi te-stuali che ne garantiscono lo svolgimento e l’ampliamento dei significati. È grazie a questo intreccio che il prelievo, pur mante-nendo la letteralità del documento, si apre all’interazione simbolica col testo (Chi-menti 2009).

È evidente che la distinzione tra innesto, prelievo e inserto è di natura puramente forma-le. Spesso è proprio da un prelievo che pren-de origine un innesto. È il caso, per esempio, dell’intercettazione telefonica in cui si parla di provare il taglio dell’eroina su delle cavie umane. Saviano riesce a sviluppare una delle sequenze più riuscite del libro, quella in cui il protagonista assiste ad uno di questi test fatti sugli eroinomani, sui tossici, chiamati “Visi-tors’’. Anche in questo caso la presenza sul po-sto di Saviano non può essere garantita al di là del testo, ma l’effetto di realtà è comunque amplificato dal fatto che il passaggio dal pia-no documentale a quello narrativo-testuale è dissimulato dalla prossimità in cui vengono a trovarsi prelievo (l’intercettazione telefonica) e innesto (la scena dei Visitors), rendendo asso-lutamente verosimile la scena.

In definitiva, la particolarità e il merito di Gomorra-libro sono di riuscire a rendere “lette-rario’’ un documento, sia esso un’intercettazio-ne telefonica, una registrazione o un articolo di giornale, ricorrendo a espedienti squisitamente narrativi. Saviano cerca di ancorare il testo ad un mondo storico, conferendo ai documen-ti una funzione cognitiva che essi prima non avevano. Inoltre, quando Gomorra preleva dei documenti, li trasforma e «trasferisce loro un connotato tipico dei testi artistici, la rileggibili-tà: rileggere Gomorra è infatti un’occupazione molto più naturale che rileggere le fonti usate da Saviano» (Chimenti 2009).

Questa trasformazione però non com-porta certo uno stravolgimento di senso o di contenuto dei documenti riportati; tutt’altro. Spesso è proprio attraverso l’uso dell’immagi-nazione, della creazione letteraria che Saviano riesce a rendere partecipe il lettore di una realtà tanto complessa, ricorrendo talvolta a perso-naggi finzionali, la cui esistenza, a differenza dei boss, è garantita solo all’interno della scrit-tura e di cui l’autore si serve per svelare dina-miche e fatti ben precisi.

1.4 La fiction come documentoIl film non cerca di ripetere o inseguire a

tutti i costi ciò che è accaduto veramente, ma semmai di tradurre in visione la materia incan-descente del libro attraverso una sua reinven-zione. Garrone arriva ad una rappresentazione della realtà dove ciò che è importante non è se i ragazzini si fanno sparare realmente su dei giubbotti antiproiettile, se Pasquale si nascon-da davvero nel portabagagli di un auto, o se dei bambini guidino dei tir, perché ciò che conta è la verosimiglianza, è ridare quel senso di inven-zione continua che è alla base della realtà e che non significa raccontare falsità, ma anzi servirsi della “fiction’’ per rendere la realtà più vera del vero, attraverso il prisma dell’arte.

Non è certo la prima volta che un’opera letteraria viene trasposta in pellicola, ma in Go-morra l’aspetto più affascinante, nonché il più difficile di questo processo, era riuscire a rica-vare un film da un testo che si presentava già in partenza come ibrido. Nel passaggio dal libro al film, c’era il rischio di confondersi nel flusso degli eventi narrati, perdendo la visione gene-rale di un fenomeno così esteso e tentacolare.

io narrante

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La soluzione di Garrone è stata di scarnificare il libro, puntando tutto su cinque storie. Per la sua densità narrativa e ricchezza descrittiva, in-fatti, Gomorra avrebbe potuto dar vita a decine di storie diverse, ma Garrone attua un sapiente lavoro di manipolazione del testo: non copia Saviano, ma ne mutua suggerimenti e segmen-ti; sceglie solo alcune tracce del libro, cercando di non tradire il procedimento a quadri slegati e indipendenti tra loro. Come nel romanzo i fatti narrati non seguono un ordine lineare, con un inizio, uno svolgimento e una fine, così nel suo film Garrone cerca di assecondare quello stesso metodo casuale di sviluppo delle storie, facendo una scelta ben precisa, eliminando già in fase di sceneggiatura personaggi come Fran-cesco Schiavone o Cosimo Di Lauro, solo per citarne alcuni.

Il criterio seguito nella selezione delle sto-rie è quello di «privilegiare solo alcuni episodi di personaggi minori: non protagonisti della storia con la “s” maiuscola, ma al contrario un po’ vittime, figure di secondo piano» (De San-ctis 2008: 122). Garrone sceglie storie e temi della manovalanza e non quelle dei boss, dei piani alti. Mancano insomma tutti i riferimen-ti alla cronaca e alla documentalità che si tro-vano invece in Saviano.

Ma è importante sottolineare che, pur privilegiando l’aspetto figurativo su quello di denuncia, Garrone non tradisce lo spirito del libro inchiesta di Saviano facendone un’ope-razione di puro intento stilistico. Tutt’altro. La violenza viene raccontata senza glamour, senza mai mostrare, come dice Garrone, gli ‘’dèi’’, i boss, senza mai esaltare quel mondo. Qui siamo in guerra, in piena furia scissionista e la manovalanza del crimine è tutt’altro che monumentalizzata; sono esseri umani chiusi in un ingranaggio da cui solo pochi hanno il coraggio e la voglia di evadere.

Possiamo condividere l’analisi di Luca Mastrantonio quando dice che

Gomorra non è un film d’impegno nel senso didascalico del termine. È epico, ma non ha eroi, semmai una folla di anti-eroi [...]. Qui non ci sono i cattivi tradizionali, quelli che si contrappongono ai buoni. Il film non dice quello che si deve o non si deve fare, quello che va e quello che non va fatto […]. Non c’è inferno o paradiso, ma gironi[…] (Mastrantonio 2008).

La denuncia, allora, sempre per usare un’espressione di Mastrantonio, si fa «architet-tonica, in senso fisico: le Vele» (Mastrantonio 2008). Garrone con un campo lungo che si allarga sulle terrazze delle Vele, ci mostra un gruppo di ragazzini che si diverte in piscina mentre due metri sotto o si spara o si spac-cia. Semplicemente, in un’unica, potente in-quadratura, ci ha raccontato un mondo, quel mondo.

Garrone apre degli squarci che a volte ri-sultano essere più eloquenti delle stesse parole sulla pagina.

la sequenza in cui Marco e Ciro, in mu-tande e scarpe da ginnastica, si divertono a provare in un fiume le armi appena rubate, è un’immagine che da sola condensa, sul piano figurativo, la cruda brutalità espressa ovunque nel libro.

La denuncia, in definitiva, non è assente, ma è interna alle stesse scelte di linguaggio, ri-sultando, paradossalmente, più forte e autenti-ca, anche perché, il raccontare un personaggio piuttosto che un altro, impone comunque un problema morale4.

1.5 L’io narrante e il punto di vista: chi parla nel libro? Chi guarda nel film?

Il lavoro di creazione, di re-invenzione, quindi, ha in Gomorra un ruolo fondamentale; è necessario per riuscire a costruire coerente-mente un mondo. È grazie all’immaginazione che Saviano può dire di essere anche laddove non se ne può dare certezza assoluta e Garrone può girare il film riuscendo a «rendere incredi-bilmente vero quel mondo incredibile, cancel-lando ogni traccia di messa in scena» (Ferzetti 2008).

Nel libro tutto è mediato dal racconto in prima persona dello scrittore: c’è il suo corpo, il suo respiro, i suoi moti di rabbia e dispera-zione che schermano e filtrano la realtà accesa davanti agli occhi del lettore. Tra le sue pagine ci sono i nomi dei carnefici e delle vittime, i dati dell’espansione dell’attività criminale, i numeri che misurano il volume di affari del traffico della droga e dello sversamento di ri-fiuti tossici nelle terre campane. Niente rima-ne nascosto tra le righe: tantomeno la voce e il corpo dello scrittore, sempre presente negli eventi raccontati attraverso un io narrante che

si riproduce ogni volta in un nuovo perso-naggio; ma è come se Saviano lo facesse per proteggere il lettore: nella perlustrazione della realtà lo tiene a distanza di sicurezza, in modo da fargli vedere e capire il sistema senza esporlo direttamente al rischio di ferirsi.

Nel film invece non c’è modo di tenersi al riparo: il corpo di Saviano e la sua forza d’in-terposizione scompaiono e lo spettatore rima-ne solo e disarmato davanti alla lava di violenza e sangue che sgorga dallo schermo. Così, se nel libro il lettore può aderire al modello emoti-vo di Saviano, trovando rifugio dietro il suo corpo, guardando la realtà attraverso i suoi oc-chi, con il film tutto cambia e lo spettatore è costretto ad assorbire le radiazioni della realtà in totale solitudine: il film elimina la figura di Saviano come occhio attraverso cui osservare gli eventi, operando un passaggio dalla prima alla terza persona, in cui lo spettatore è l’uni-co testimone a farsi carico dello sguardo della camera. La differenza fondamentale fra il testo letterario e quello cinematografico è che nel film non c’è traccia del “personaggio Roberto Saviano’’ che attraversa con la sua vespa i vari episodi del romanzo; come sottolinea Massimo Gaudioso, nella trasposizione cinematografica non si voleva «assolutamente replicare lo stesso espediente narrativo utilizzato dallo scrittore» (Gaudioso 2008: 122).

Ma chi parla in Gomorra-libro? Di chi è il suo sguardo? È solo quello dell’autore?

L’io narrante è sì l’autore, ma non soltanto e non sempre. L’io che racconta dell’economia cinese in Campania non è lo stesso che insegue don Ciro nelle sue lunghe camminate per di-stribuire la ‘’mesata’’ alle famiglie dei detenuti:

Saviano lo dice, sì, di averlo conosciuto, ma lo dice en passant, non ci facciamo troppo caso perché stiamo già appresso a don Ciro, gli andiamo dietro mentre si infila nei vi-coli stretti, sale scale, percorre pianerottoli, ascolta lamentele. Partecipiamo al suo giro […], poi arrivano tre parole ( “mentre gli parlavo’’) e scopriamo che Saviano cammi-na con noi, anzi, che noi siamo lui. Tutto questo in due pagine. (Wu Ming 1 2008: 16).

È sempre “Roberto Saviano’’ a raccontare, ma egli non è altro che una sintesi, un «flus-so immaginativo che rimbalza da un cervello all’altro, prende in prestito il punto di vista di

dispositivi narrativi

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un molteplice» (Wu Ming 1 2006: 16).Questo non significa che l’autore non ab-

bia vissuto tutte le storie che racconta; le ha vissute tutte e ciascuna gli ha lasciato un livido enorme. Ma un’attenta lettura del testo per-mette di distinguere i diversi gradi di prossimi-tà: a volte Saviano è dentro una storia dall’ini-zio alla fine, è protagonista riconoscibile della vicenda narrata. Quell’io è senza dubbio l’au-tore, testimone oculare dei fatti. Altre volte, invece, «si immedesima e dà dell’io a qualcun altro» (Wu Ming 1 2006: 16) senza rivelarne la vera identità.

Ciò che Wu Ming 1 individua è un vero e proprio processo di sovraccarico dello sguardo che Saviano riesce a mettere in campo; spesso leggendo il libro non si riesce a capire subito se il punto di vista attraverso cui si percepiscono gli eventi narrati sia filtrato dalla percezione di un personaggio, dall’autore o da un narratore esterno.

La prima pagina di Gomorra pone imme-diatamente il lettore in questo stato di incer-tezza, in cui si evidenzia l’inassegnabilità del punto di vista. Inizialmente si potrebbe crede-re che sia quello di un narratore onnisciente o, per dirla in termini cinematografici, quello di un’inquadratura oggettiva, ma poco dopo si legge: «quando il gruista del porto mi raccontò la cosa, si mise le mani in faccia e continuava a guardarmi attraverso lo spazio tra le dita» (Sa-viano 2006: 11). Quello che Saviano racconta nella prima pagina è quindi una testimonianza che lui raccoglie, ma questo lo si scopre soltan-to dopo; nella nostra percezione di lettori ha funzionato invece come una narrazione diretta, una testimonianza che il lettore ha la sensazio-ne di vedere con i propri occhi. Già a partire dalla prima pagina del primo capitolo, quindi, Saviano gioca a nascondere l’io narrante, su-scitando nel lettore sempre la stessa domanda: chi è che dice “io” in Gomorra? È sempre e sol-tanto l’autore? E non ha forse a che fare con l’inafferrabilità di quest’io narrante la capacità di Saviano di passare da un genere all’altro, an-che nell’arco di pochissime pagine?

Quella di Gomorra è allora una voce col-lettiva, un coro di voci attraverso cui urlare.

È politicamente importante interrogarsi su com’è costruito il libro, a cominciare pro-prio dalla natura cangiante dell’io che narra.

Al contempo, l’analisi del film evidenzia la

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FIVESTEPSWITH

Quali sono le differenze tra il libro di Roberto Saviano e il film di Matteo Garrone?

Il testo di Roberto Saviano è una via di mezzo fra l’indagine giudiziaria e quel gior-nalismo investigativo tipico del giornalismo americano. Si pensi a Carl Bernstein e Bob Woodward, i due cronisti del “Washington Post” che smascherarono la responsabilità di Richard Nixon nel caso Watergate. Un testo caratterizzato da uno scrupolo maniacale nella registrazione e nella documentazione dei fatti (proprio come lo erano i servizi firmati da Bernstein e Woodward). Il metodo di lavoro di Saviano segue infatti i canoni della stampa quotidiana che, perseguendo un obiettivo, dedica a un argomento specifico una serie di articoli arricchiti di volta in volta dagli sviluppi conseguenti a nuovi fatti ac-certati. A mano a mano che si procede, sunti e sintesi di fatti già esposti in precedenza sono necessari per ricordare al lettore le necessarie premesse. Quando poi, a inchiesta ultimata, questi servizi giornalistici sono raccolti in un libro (come si è verificato nel caso di Saviano) il pericolo dietro l’angolo consiste in una ripetitività costantemente in aggua-to. Cosa che se si nota con una certa frequenza nel libro di Saviano, nel film di Garrone è evitata grazie a quel prosciugamento del testo letterario che la riduzione cinematogra-fica abitualmente comporta.

Questo significa che il libro di Saviano è più “impegnato” rispetto al film di Garrone?

È nota la posizione di Roberto Saviano per quel che riguarda la funzione dello scrittore, considerato l’intellettuale organico di gramsciana memoria che si pone in un rapporto di confronto diretto con la parte di mondo presa in esame. Per Saviano la let-teratura deve essere al servizio della società e non assolve il suo compito se è separata dall’impegno. Visione storicistica, che rispecchia nella forma letteraria le contraddizioni della società e che attraverso la denuncia ne combatte le deformazioni.

Il film non è così diretto e martellante come il testo letterario, anche perché isola cinque storie cucite assieme dal comune denominatore del crimine organizzato, ma “l’impegno” è sempre e comunque presente nonostante il diversivo dello spettacolo rischi di metterlo in ombra di fronte a letture poco attente.

E qui torna in ballo la “questione del genere”.Perché dobbiamo incasellarli per forza, libro o film che siano, in un genere dai con-

torni precisi? Matteo Garrone è un autore, non un metteur en scène, e come tale vede le cose con il suo sguardo, del tutto personale, anziché con le lenti del genere. E infatti ha ragione Wu Ming quando parla di “oggetto narrativo non identificato”, di “roba nuova”. Allo stesso modo perché cercare parentele o discendenze con altri autori, con Rosi, Rossellini, Iñárritu? Si farebbe un torto a Garrone e a tutto il suo cinema precedente, so-prattutto alla sua produzione iniziale, a film come Terra di mezzo, Ospiti, Estate romana, tutte opere in cui la povertà di risorse finanziarie e di mezzi era compensata da una ric-chezza poetica e da una libertà espressiva straordinarie. In Gomorra Garrone trasforma il reportage in drammaturgia e la non-fiction in fiction, conservando però l’autenticità e lo spirito del testo originario in una narrazione estremamente realistica, così intensa da chiudere il cerchio riconducendola all’inchiesta giornalistica da cui era partita.

Questo significa che siamo di fronte a una fusione di cronaca e affabula-zione, dove i fatti sono tessuti con l’ordito della narratologia?

Mi sembra quanto mai pertinente l’osservazione di tradurre in visione la materia incandescente del libro attraverso una sua reinvenzione. Osservazione del tutto in linea con le ultime tendenze storiografiche in materia, da François Furet, per il quale la storia è una disciplina in cui c’è il 50% dei fatti e il 50% di immaginazione, a Antony Beever, sosteni-tore dell’histo-tainment (storia più intrattenimento), che vede sgretolarsi la barriera tra fatti e finzione al punto che le ca-tegorie storiche devono sempre più spesso appoggiarsi al bastone della fiction. L’io narrante è la conseguenza di questa reinvenzione creativa, non il protagonista ma il testimone che ha assorbito le vicende narrate fino a farsene il custode più attendibile.

ENZO NATTA

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medesima difficoltà, sul piano filmico, nell’at-tribuire il punto di vista della macchina da pre-sa. Garrone attua un lavoro mimetico sulla per-cezione; i movimenti della macchina da presa sono delle soggettive che però non si possono ancorare a nessun personaggio in campo, pre-sentandosi come inassegnabili. Nella sequenza in cui Totò è in macchina, per esempio, lo sguardo della macchina da presa corrispon-de a quello di un terzo passeggero seduto sul sedile posteriore; la macchina da presa non si limita ad inquadrare il personaggio che prende la battuta, anzi, spesso la battuta viene detta quando questo non è inquadrato; i movimenti della macchina da presa diventano quelli di un personaggio dotato di una psicologia propria: quel terzo passeggero siamo noi spettatori.

Nel film capita spesso che ci siano delle combinazioni di punti di vista in cui l’io, il tu e l’egli non sono assegnabili a nessuno sguardo in campo. Garrone sceglie di mettere in scena la soggettiva dello spettatore, affidandogli il ruolo di testimone e protagonista inconsape-vole di quello che accade intorno.

Quello che interessa a Garrone del libro-Gomorra è la “poetica dello sguardo’’ che si può rintracciare nelle sue pagine, ma rispetto al libro, sceglie di affidare il punto di vista ad un occhio senza corpo, che porta lo spettatore a credere di essere veramente dove si pretende di essere.

In conclusione, entrambe le opere, libro e film, utilizzano gli stessi dispositivi narrativi, con la differenza che alle “tecniche letterarie’’ dell’una corrispondono le “tecniche cinemato-grafiche’’ dell’altra. Saviano ricorre a tutta una serie di retoriche che gli permettono di costru-ire la narrazione evitando ogni rigore di gene-re. Pur riconoscendo la fortissima “letterarietà’’ del libro, pur individuando alcuni stratagem-mi, pur rinvenendo le retoriche, nemmeno per un istante si dubita che quanto racconta Savia-no non sia vero. Gomorra è costruito su fonti primarie, scritte e orali, atti di istruttorie, ver-bali di interrogatori, carte di polizia, intercet-tazioni, che permettono di conoscere e capire i meccanismi interni al sistema. Garrone, invece, porta lo spettatore ad una consapevolezza visi-va, che passa attraverso la forza delle immagi-ni, privilegiando l’aspetto emotivo, espressivo e non quello informativo, di denuncia; Garrone ci racconta l’orrore di Scampia catapultando

lo spettatore direttamente dentro quella realtà, conducendolo nelle viscere delle Vele, nei suoi sottoportici acquitrinosi, facendogli sentire l’odore di quei posti, facendolo sentire bersa-glio ogni qual volta si impugna una pistola, fa-cendogli mancare l’aria ogni volta che si entra in una stanza o in una casa.

La lettura di Gomorra-libro e la visione di Gomorra-film possono essere quindi con-siderate come due esperienze a sé stanti, indi-pendenti tra loro; vedendo il film, in un certo senso, si dimentica il libro, quasi che l’uno possa vivere senza l’altro. Il film non tradisce lo spirito del libro, ma riesce a brillare di luce propria, è un’altra cosa rispetto al libro e allo stesso tempo ne è complementare, laddove en-trambe le opere permettono di conoscere quel mondo dall’interno, sortendo l’effetto di due terremoti distinti che si propagano da un epi-centro comune.

Riferimenti bibliograficiDe Sanctis, P., D. Monetti, L. Pallanch (Ed.).

2008. Non solo Gomorra, tutto il cine-ma di Matteo Garrone. Rieti: Edizioni Sabinae.

Dinoi, M. 2008. Lo sguardo e l’evento, i me-dia, la memoria, il cinema. Firenze: Le Lettere.

Wu Ming 1. 2008. New Italian Epic: lettera-tura, sguardo obliquo, ritorno al futuro. Torino: Einaudi.

Pasolini, P. 1992. Petrolio. Torino: Einaudi. Bernacchioni C. Dietro Gomorra. Left: 9 mag-

gio 2008.Crespi A. Gomorra, spiacenti ma è l’Italia.

L’Unità: 13 maggio 2008. Donadio R. Underworld. New York Times: 25

novembre2007.Ferzetti F. Gratta l’Italia e trovi Gomorra. Il

Messaggero: 16 maggio 2008.Marrese E. Così hanno girato il film a Scam-

pia, con i pass forniti dalla Camorra. Il Venerdì di Repubblica: 16 maggio 2008.

Mastrantonio L. Non è un film di impegno civile e Saviano è nei titoli di coda. Il Riformista: 17 maggio 2008.

L’intervento di Dimitri Chimenti, realizzato in

occasione del ciclo di seminari di ricer-ca Lo sguardo e l’evento. Letture incrocia-te. Appunti per una tipologia retorica: inserti, prelievi, innesti in Gomorra di Roberto Saviano, (Siena, Facoltà di Lettere e Filosofia, 3 Febbraio 2009), è consultabile su www.associazionele-vel5.com Centro Studi Marco Dinoi.

Benedetti C. 2008. Le quattro forze di Gomor-ra, in www.ilprimoamore.com. Parte del saggio è stato pubblicato sulla ri-vista «Allegoria» nella sezione “Il libro dell’anno’’ dedicata a Gomorra.

www.wumingfoundation.com www.carmillaonline.com

Endnotes1 «Vogliamo ribattezzarlo Campania Oggi?»

scrive Alberto Crespi nel suo Gomorra, spiacenti ma è l’Italia, «L’Unità», 13 Maggio 2008.

2 Da un punto di vista linguistico, effettiva-mente, molte soluzioni metodologiche adottate da Garrone possono essere messe in relazione, per esempio, con il cinema di Rossellini, che nel ri-correre puntualmente alla tecnica di riscrittura dei copioni in base ai sentimenti e alle storie personali degli attori, ci riporta al sentire di Garrone.

L’importante è che questi facili accostamenti non conducano a deduzioni troppo scontate. Pen-sare che Gomorra sia un film esclusivamente neore-alista è sbagliato, oltre che riduttivo. Garrone quan-do inquadra i protagonisti annulla la profondità di campo, stringe sui volti, per fermarne la rabbia, catturarne la disperazione; ciò che è a due metri è indistinto, ingovernabile, e mette lo spettatore in una condizione di forzata miopia. Il Neorealismo, invece, si accompagna sempre alla profondità di campo, che deriva dall’uso di una focale corta e dal-la relazione che l’occhio dello spettatore può stabili-re con gli elementi di realtà del profilmico.

3 Scrive Saviano in Gomorra: «al funerale di Emanuele c’ero stato», «al porto ci andavo per man-giare il pesce», «frequentavo Secondigliano da tem-po», «stavo per andarmene dal luogo dell’agguato a Carmela Attrice» e così via.

4 Non a caso Garrone decide di ritrarre quei personaggi che si trovano a vivere, loro malgrado, in una condizione di non scelta, in cui si agisce all’in-terno di un contesto di cui non si è responsabili.

punto di vista

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ECONOMIA

Quali sono le sfide che l’economia deve affrontare quando voglia porsi il

problema della comunicazione?

Guglielmo Forges Davanzati

La comunicazione delle teorie economiche

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1 – IntroduzioneCon estrema schematizzazione, si può

affermare che esistono due modi di con-cepire la teoria economica e, conseguente-mente, due modi per comunicarne i con-tenuti. Secondo un primo orientamento, che, seguendo Sen (2002, cap.1) definire-mo ingegneristico, e che ha le sue radici nella tradizione neoclassico-liberista1, l’economia è una scienza senza aggettivi, che si dà uno statuto epistemologico analogo alle scien-ze hard e alla fisica teorica in particolare2. Affinché sia possibile costruire in modo scientifico il discorso economico, occorre sostanzialmente concordare su due assunti: a) l’agire economico è un agire ‘razionale’, secondo un criterio di razionalità strumen-tale in base al quale ciascun operatore mas-simizza una funzione-obiettivo dati i vincoli di moneta e tempo3; b) i presupposti e le conseguenze di queste azioni prescindo-no da condizionamenti di natura storica, sociale, istituzionale. Sul piano epistemo-

logico, ciò porta a ritenere scientifica una teoria economica se, oltre a soddisfare il requisito della coerenza interna, soddisfa anche la condizione di falsificabilità4. A ciò si aggiunge una visione cumulativa della co-noscenza, stando alla quale le idee di oggi sono superiori alle idee di ieri o, detto diver-samente, la scienza economica procede per progressiva eliminazione di errori e dunque per progressiva approssimazione alla realtà. Letta in quest’ottica, vi è ben poco spazio per la comunicazione in ambito economico e, se vi è, è per così dire ristretta alla mera informazione delle più recenti scoperte degli economisti; dal momento che non è dato costruire un dibattito intorno a una verità scientifica utilizzando le medesime categorie che hanno portato a questa verità. Il secondo orientamento, che è prassi definire lato sensu ‘critico’ e che è comunque fin qui minorita-rio in ambito accademico, si può costruire a contrario rispetto al primo. Esso si fonda sul rifiuto del duplice assioma della sovra-

nità del consumatore e della scarsità delle risorse, a favore di un approccio ‘olistico’ o di ‘macrofondazioni della microeconomia’, stando al quale il comportamento economi-co dei singoli operatori è condizionato dalla storia individuale e collettiva, dall’assetto istituzionale nel quale tale comportamento si esercita e, non da ultimo, dall’affiliazione a gruppi (o classi) sociali.

In quanto segue, a partire dalla consi-derazione che è solo accogliendo questo se-condo orientamento che si rende possibile il dibattito economico e dunque la sua comu-nicazione5, si argomenterà a favore della tesi stando alla quale non si dà comunicazione in ambito economico se non presupponen-do una ‘scelta di campo’ di natura – in senso lato – politica. In tal senso, e ferme restan-do alcune necessarie precisazioni deontolo-giche, si accoglie qui la tesi secondo cui la comunicazione in ambito economico riflette – in via diretta o indiretta – interessi sociali specifici. L’esposizione è organizzata come

Keynes

Se tutti gli economisti si stendessero uno in fila all’altro non raggiungerebbero una conclusione.

(J.B.Shaw)

Un economista è qualcuno che conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nulla.

(Oscar Wilde)

Un economista è un esperto che saprà domani perché le cose che ha predetto ieri non si sono avverate oggi.

(L.J.Peter)

Le idee degli economisti e dei filosofi politici, quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto

comunemente si pensa. In realtà il mondo è governato da poche cose all’infuori di quelle… Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche

scribacchino accademico di pochi anni addietro.(John Maynard Keynes)

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152

segue. La sezione 2 presenta lo schema teorico di riferimento per un comunicazione in ambi-to economico di ordine compe-titivo. La sezione 3 fornisce il-lustrazioni di casi che rientrano in questa modalità di comuni-cazione, la sezione 4 affronta il problema della determinazione delle posizioni teoriche domi-nanti e nella sezione 5 vengono proposte alcune considerazioni conclusive.

2 – Un modello di comunicazione competitiva

Che il tema della comuni-cazione in Economia sia della massima rilevanza può testi-moniarlo il fatto che il maggior economista del Novecento – John Maynard Keynes – abbia dedicato molte delle sue energie alla persuasione e abbia scelto come titolo di una raccolta di suoi saggi Essays in persuasion,

con la seguente precisazione che si legge nella Prefazione:

Here are collected the croakings of twelve years -the croakings of a Cas-sandra who could never influence the course of events in time. The vo-lume might have been entitled «Essays in Prophecy and Persua-sion», for the Prophecy, un fortunately, has been more successful than the Persuasion. But it was in a spirit of persuasion that most of these es-says were written, in an attempt to influence opi-nion (Keynes 1932: 5).

Va detto che gli economisti ben di rado si sono occupati del modo in cui trasmettono le loro idee e più diffusamente hanno semmai praticato la persuasio-ne. La riflessione sulla comuni-cazione in Economia, in linea schematica, fa riferimento a due orientamenti.

1) L’economia come “retori-ca”. Il più autorevole esponente di questa posizione è Donald McCloskey, autore di un cele-bre volume dal titolo La reto-rica dell’economia (McCloskey 1988). Come annota Augusto Graziani, nella Introduzione all’edizione italiana, si tratta di «un manifesto contro la logi-ca e un appello in favore della retorica, ossia dell’arte del per-suadere» (McCloskey 1988: IX). Il principale argomento di McCloskey è che la ricerca in ambito economico non ha a che vedere con lo sforzo del ri-cercatore di individuare le cause di problemi (disoccupazione, inflazione), ma semmai con lo sforzo di convincere i propri colleghi. Questo meccanismo è amplificato dal massiccio uso della matematica, così che:

Nel corso della loro con-versione a un modo di esprimersi matematico, gli economisti si sono fatti prendere dalla fede di chi partecipa a una crociata, aderendo a un insieme di dottrine filosofiche che li rende, ora, inclini al fanati-smo e all’intolleranza (Mac-Closkey 1988: 17).

Va detto che questa consi-derazione è in larga misura vera se si considera l’Economia come un corpus unificato: in tal senso, si può condividere l’affermazio-ne secondo cui la gran parte de-gli economisti matematici è in-tollerante, il che è peraltro ‘giu-stificato’ dal fatto che chi crede che l’economia sia una scienza esatta, resa tale dagli strumenti formali di analisi e in quanto tale portatrice di verità scientifi-che, non può conseguentemen-te accettare critiche6. E tuttavia,

comunicazione competitivaN

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la posizione di McCloskey è criticabile alla luce delle seguenti osservazioni:

i) esiste un’ampia platea di economisti, sebbene minoritaria in Accademia, che non ritiene di poter produrre verità scientifiche e non ritiene di poter fornire previsioni cor-rette. In tal senso, l’accusa dell’autore può essere semmai rivolta a quella che si è defi-nita l’Economia ingegneristica.

ii) Come osserva Graziani (MacCloskey 1988: XIV), la convinzione di McCloskey secondo la quale una teoria viene battezza-ta come scientifica se vi è il “consenso de-gli esperti” lascia irrisolto il problema della selezione degli esperti stessi e non chiarisce che, di norma, il processo non è solo inter-no alla comunità scientifica, non essendo esenti ‘incursioni’ di “interessi organizzati”.

iii) Riccardo Bellofiore (Marzola, Silva 1990) fa rilevare che la posizione di McClo-skey non è per nulla neutrale. Sintetizzata nella teoria “tutto è concesso perché nulla conta”, essa costituisce, ad avviso dell’auto-re, il tentativo di condurre il discorso eco-nomico nell’alveo di una precisa posizione filosofica – il post-moderno – che espelle da tutto ciò che è possibile definire scienza la Storia e soprattutto la dimensione politica.

2) La persuasione finalizzata alla politica. Keynes – come osserva Bellofiore «La stra-tegia retorica di Keynes rivendica l’obiettivo di convincere il destinatario come mezzo per trasformare la realtà» (Marzola, Silva 1990: 107). Più in dettaglio, Keynes distingue fra inside opinion e outside opinion, dove la pri-ma attiene al circuito della riproduzione del sapere e, dunque, sostanzialmente, all’opi-nione degli ‘addetti ai lavori’ e degli econo-misti di professione, e la seconda riguarda il circuito della diffusione delle idee economi-che attraverso i media e, dunque, i loro fru-itori. Scrivendo in un contesto storico nel quale l’urgenza è dettata dall’impostazione della Pace di Versailles (e, dunque, secondo Keynes, dalla ricerca di una soluzione che non penalizzi eccessivamente la Germania sconfitta nella prima guerra mondiale), Key-nes ritiene che sia innanzitutto l’opinione esterna a essere oggetto di persuasione: ed è questa convinzione che caratterizza – nelle

sue linee generali – l’impostazione di Key-nes e degli economisti keynesiani in materia di comunicazione/divulgazione delle idee economiche. Una questione che si pone a latere dell’impostazione keynesiana – e che attiene alla persuasione della inside opinion – riguarda la maggiore incisività delle criti-che ‘esterne’ rispetto alle critiche ‘interne’. Le prime riguardano la costruzione di modelli economici alternativi rispetto a quelli domi-nanti; le seconde riguardano l’individuazio-ne di incongruenze logiche ed empiriche delle tesi prevalenti7. Anche all’interno dell’Eco-nomia Politica ‘critica’, non vi è unanime consenso sulla prevalenza dell’una o dell’al-tra strategia, e non si esclude che possano coesistere. Si può osservare, a riguardo, che la tradizione keynesiana ha generalmente fatto propria la prima impostazione. Uno fra i suoi più autorevoli esponenti, Augu-sto Graziani ha motivato questa scelta come segue:

… risulta debole la posizione di coloro che, volendo combattere l’una o l’altra visione, si sforzano di scoprire un erro-re nella costruzione logica della scuola nemica. Debole perché arriva quasi ad ammettere che, se gli errori potessero essere eliminati, la costruzione teorica che si intende criticare risulterebbe ac-cettabile; mentre, trattandosi di visioni contrapposte, ciascuna delle due, anche se riportata alla sua formulazione più ri-gorosa, deve risultare incompatibile con l’altra (Graziani 1997: 17).

In sostanza, e ferma restando quest’ul-tima questione, il discrimen fra le due po-sizioni (McCloskey versus Keynes) verte intorno alla questione se la persuasione in Economia sia, nei fatti, destinata a uso in-terno, e, dunque, faccia proprio il ricorso a espedienti retorici che avvantaggiano solo chi comunica, per propri specifici fini atti-nenti alla sua professione o, per contro, se la persuasione abbia finalità generali, ovvero sia pensata per incidere sugli indirizzi della politica economica. Al di là delle motivazio-ni che sono alla base dell’uso di strumenti retorici in Economia, ciò che maggiormente conta – ai fini del nostro discorso – è che la

prima posizione, su un piano squisitamen-te normativo, è inaccettabile per chi ritiene che la teoria economica abbia una qualche utilità sociale.

Riprendendo quanto qui stabilito ini-zialmente, solo se si accoglie l’idea che esi-stano teorie economiche contrastanti, tutte di pari dignità scientifica, ha senso porsi la domanda che dà il titolo a questo contribu-to, ovvero “come comunicare l’economia?”, se per comunicazione non si intenda la mera informazione relativa alle nuove verità della scienza economica, o il loro aggiorna-mento.

La tesi che si intende qui sostenere può riassumersi nei seguenti punti.

1. La teoria economica è un campo nel quale si esercita il confronto fra posi-zioni contrastanti. Tali posizioni, seguendo Schumpeter (1990), riflettono la “visione pre-analitica” dell’autore e, in quanto at-tengono alla sua ‘visione del mondo’, riflet-tono anche la visione in senso lato politica di chi elabora teorie economiche. A titolo esemplificativo, una teoria economica che ‘dimostri’ che la flessibilità del lavoro crea occupazione non è affatto neutrale rispetto a giudizi di valore, laddove presuppone che chi si è impegnato a ‘dimostrare’ questa pro-posizione fa proprio – sebbene, di norma, implicitamente – un orientamento teorico-politico di matrice liberista. A ciò si può ag-giungere che, soprattutto nei contesti isti-tuzionali nei quali la ricerca è direttamente finanziata da imprese private, si manifesta (implicita o esplicita) una domanda politica di idee economiche, che con ogni evidenza non può confliggere con gli interessi dei quali quelle imprese sono portatrici.

2. Se una teoria economica viene elabo-rata (anche) per influenzare le scelte di poli-tica economica, e il meccanismo di trasmis-sione dalla teoria alla policy passa mediante la comunicazione, la teoria cessa di essere oggetto di disputa sulle riviste accademiche ed entra nel dibattito pubblico. Una volta resosi possibile questo passaggio, si attiva-no meccanismi di persuasione nei confronti dei ‘non addetti ai lavori’ che, per grandi li-nee, si articolano sulla base delle traiettorie

economics

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descritte in fig.1.Sia A una data proposizione e B una

proposizione di segno contrario. Ciascuna delle due proposizioni è già suffragata da argomenti (x , y nel primo caso; α e β nel secondo). Si assuma di riconoscersi nella posizione B. Un modello di comunicazio-ne competitiva impone di persuadere circa la ‘falsità’ della proposizione A. Il che può essere fatto sostanzialmente in due modi. Il primo (1) attiene all’individuazione di fal-lacie di ordine teorico e/o empirico even-tualmente presenti nella tesi A. Il secondo (2) attiene all’individuazione di nuovi argo-menti (γ, δ etc.) a sostegno della tesi che si vuole accreditare.

TESI A - argomenti x,y

(1) (2)

Fig. 1 - Un modello di comunicazione eco-nomica ‘competitiva’

Si osservi che il principale vincolo de-ontologico che occorre rispettare, in questa prospettiva, ovvero quello più immediata-mente proprio della comunicazione econo-mica, attiene alla corretta indicazione del-le fonti dalle quali si attingono i dati per confutare la tesi A. Questo vincolo, oltre ad avere natura ‘etica’, è esso stesso funzionale alla riproduzione della ‘gara’, dal momento che – laddove il vincolo non fosse rispetta-to – il sostenitore della tesi A non sarebbe posto nella condizione di replicare. Inoltre, il rispetto del vincolo è anche funzionale ad accreditare la propria tesi, dal momento che si può ragionevolmente supporre che maggiore è l’autorevolezza della fonte ci-tata maggiore è la capacità di persuasione. È agevolmente comprensibile che un dato riportato dall’ISTAT ha maggiore valore persuasivo rispetto a un dato riportato da un centro di ricerca non ufficiale e meno noto. A riguardo, e incidentalmente, occor-re soffermarsi sul ruolo della Statistica ai fini dell’argomentazione economica. È cosa ben nota ai commentatori economici – e ov-

teoria neoclassica

\

FIVESTEPSWITH

Intervista a Riccardo Realfonzoa cura di Antonella Ricciardelli

Ritieni che esistano verità economiche?Il discorso delle “verità” non può essere affrontato nel campo dell’economia con le

categorie delle scienze esatte. E ciò per il semplice fatto che l’economia politica rientra nel novero delle scienze sociali, le quali, in sostanza, non ammettono la “prova” speri-mentale. Ciò significa che inesorabilmente i fatti economici possono essere interpretati in base alle diverse teorie di cui disponiamo e quindi, in sostanza, in base ai diversi inte-ressi politico-sociali che quelle teorie inesorabilmente finiscono per sottendere.

Qual è (o quali sono) la modalità di comunicazione, in ambito economico, che consideri più efficace?

In fin dei conti dipende dagli obiettivi. Si possono scegliere modalità di comuni-cazione diverse anche quando si fa semplicemente il proprio mestiere di docente uni-versitario. Su larga scala la modalità di comunicazione che io ho scelto di privilegiare è internet. A questo scopo sono stato promotore, tra l’altro, della rivista online www.economiaepolitica.it che parla al grande pubblico proponendo una lettura non neoclassica delle vicende economiche che interessano l’Italia e il Mondo. La rivista, attraverso l’azione coordinata di economisti critici, ha l’intento di rendere i lettori più “smaliziati” di fronte alle scelte di politica economica intraprese dai governi dei nostri tempi. Accade spesso, infatti, che si considerino alcune analisi come “leggi naturali dell’economia”. Lo sforzo compiuto dagli economisti che collaborano alla rivista è inve-ce quello di fornire strumenti critici e scientifici ai propri lettori ponendo attenzione alla duplice esigenza dell’approfondimento e dell’accessibilità.

A tuo avviso, ad oggi, esiste un monopolio della comunicazione economi-ca del neo-liberismo?

Non c’è dubbio che il neo-liberismo esercita una influenza enorme sulla comunica-zione economica. Non proprio un monopolio, ma ci siamo vicini.

A cosa è dovuta questa egemonia?L’egemonia neo-liberista dipende naturalmente dal fatto che i fautori delle logiche

di mercato, e dunque i sostenitori del neo-liberismo, sono naturalmente quelli che il mercato riescono a orientarlo. Insomma il neo-liberismo ha il potere economico dalla sua parte. Per queste ragioni ritengo che vada oggi privilegiato uno strumento come internet. Per creare un canale televisivo servono investimenti da capogiro; per aprire un sito online molto meno. Internet può essere uno strumento straordinario per la difesa del pluralismo.

Secondo quali parametri, in linea generale, andrebbe valutata la ricerca in ambito economico?

Certo non in base ai parametri dell’impact factor, che sono stati creati da una società privata a scopi commerciali. In fondo io credo che l’analisi nel merito di ciascun risultato della ricerca sia in fondo insostituibile. Ad ogni buon conto, in ambito economi-co, un processo di valutazione serio, che prenda ad oggetto la rilevanza della “sede” in cui si è pubblicato il prodotto della ricerca, non può prescindere dal fatto che le diverse scuole di pensiero privilegiano diverse riviste e diverse case editrici. Occorrerebbe pertanto considerare ciò e non assumere come riferimenti validi per tutti le indicazioni di una unica scuola, che sia quella neo-liberista o un’altra.

RICCARDO REALFONZO

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viamente agli statistici – che i dati possono essere ‘manipolati’ al punto da far dire loro ciò che conviene che essi dicano: è questo il senso dell’affermazione ricorrente fra gli ‘addetti ai lavori’ secondo la quale “usia-mo le statistiche come gli ubriachi usano i lampioni: non a scopo di illuminazione, ma a scopo di sostegno”. Il che può essere mostrato con un semplice esempio. Se si intende dimostrare che i cittadini italiani sono sensibili all’igiene dei servizi pubblici, alla domanda “Lei è disposto a pagare per avere servizi pubblici puliti?” si sostituisce la domanda “Lei ritiene che i servizi pubblici debbano essere puliti?”. I risultati dei que-stionari somministrati daranno verosimil-mente una elevata percentuale di risposte positive; il che induce a ritenere che i cit-tadini italiani – come si voleva dimostrare – sono attenti alle condizioni igieniche8.

3 – Esemplificazioni del modelloIn questa sezione si dà conto di alcune

possibili esemplificazioni di comunicazione competitiva in ambito economico, traendo spunto dalla contingenza del dibattito sui grandi temi della politica economica del 2009. E il grande tema sul quale si sono esercitati i commentatori nel corso dell’ulti-mo anno è la crisi economica. Schematica-mente, il dibattito si snoda all’interno delle seguenti posizioni. In ambito liberista, la posizione dominante fa propria la convin-zione che la crisi dipenda, in ultima analisi, dal greed di banchieri e speculatori, ovvero dalla loro avidità e dal perseguimento ‘esa-gerato’ di rendimenti crescenti delle loro at-tività finanziarie. Sul fronte opposto, si ritie-ne che la crisi sia imputabile alla caduta dei salari e al connesso crescente indebitamento privato, che ha dato luogo – in condizioni nelle quali esso è stato finanziato anche in assenza di garanzie reali (i cosiddetti mutui subprime) – a crescenti insolvenze da par-te dei risparmiatori e, a catena, a crescenti sofferenze bancarie, riduzioni dell’offerta di moneta, dunque della produzione e dell’oc-cupazione9. In tal senso, si può affermare

che, nel primo caso, la crisi ha origini nella sfera finanziaria, mentre nel secondo caso la causa ultima va rintracciata nelle dinamiche

dell’economia reale e, in particolare, del mercato del lavoro.

Al di là dei contenuti specifici del dibat-

metodologia economica

EFFRAZIONILéon Walras (1834-1910) rappresenta l’esponente tipico del meccanicismo

positivista in economia, disciplina per lui volta all’individuazione dei prezzi e delle quantità che consentono l’equilibrio – l’eguaglianza fra domanda e offerta – in ogni mercato (il c.d. equilibrio economico generale). Nella sua opera principale, Elementi di Economia Politica Pura (1874), Walras concepisce l’Economia come un ambito scientifico a pieno titolo, che occupa quindi un posto nella classifica-zione delle scienze. Egli distingue in particolare tre tipi di scienze: a) la scienze pura; b) la scienze applicata; c) la scienza sociale. Il passaggio dall’economia come scienza pura (indipendente dal contesto istituzionale) all’economia come scienza applicata comporta, secondo questa visione, di assumere come criterio prevalente l’ulite e aderire al criterio del giusto. Da qui deriva la giustificazione all’utilizzo di strumenti matematici a sostegno dell’analisi economica. Questo approccio, suc-cessivamente definito “ingegneristico” dal Premio Nobel Amartya Sen, si basa sul duplice assioma della scarsità naturale delle risorse e della sovranità del consuma-tore (che orienta, date le sue preferenze, le decisioni di produzione delle imprese). Le attività economiche diventano quindi attività razionali e il metodo sarà quello matematico, inteso come espressione massima della razionalità.

Nella sua teoria Walras distingue i “fatti” matematici in due categorie. I “fatti” esterni, che accadono all’infuori dell’individuo. Questi appaiono a tutti allo stesso modo. Vi è, quindi per essi, un’unità, una grandezza obiettiva per misurarli. E i “fatti” intimi che, accadendo all’interno dell’individuo, sono percepiti soggettiva-mente. Questi ultimi, anche se confrontabili tra loro dal punto di vista dell’inten-sità o della grandezza, sono comunque soggetti ad una comparazione soggettiva.

L’approccio di Warlas, atto ad interpretare e spiegare i “fatti” attraverso gli strumenti matematici, lo porta ad ammettere la comunicazione ed il confronto solo tra studiosi che abbiano compreso che le scienze economiche sono in realtà matematiche, proprio perché trattano di quantità. «[...] Coi primi (gli economisti non-matematici, n.d.a) sarebbe ozioso discutere: loro e noi non parliamo la stessa lingua. Ma coi matematici è diverso: possiamo spiegarci e forse capirci» (Walras 1909 : 313).

In un ulteriore passaggio tratto da Elementi di Economia Politica Pura, Walras sostiene: «È chiaro che, quanto agli effetti delle forze naturali, non c’è altro da fare che riconoscerli, constatarli, spiegarli e che invece quanto agli effetti della volontà umana occorre prima riconoscerli, constatarli e spiegarli, in seguito governarli» (Walras 1974: 149). Si evince così che l’economia ha il compito di spiegare i “fat-ti”. Non è invece sottoposta a critiche. Poiché alla scienza appartiene tutto ciò che non dipende dalla libera volontà, essa non può essere oggetto di valutazione di ordine morale e politico. Inoltre, poiché quantificabile con il supporto del- l e scienze matematiche, non è assoggettabile ad alcun giudizio di valore. L’economia diventa, in questo modo, mezzo per la divulgazione di saperi esatti. Negli anni successivi, per opera di Alfred Marshall, l’Economia Politica diventerà Economics, per sottolinearne la natura propriamente scientifica, espellendo la dimensione politica, sociale e istitu-zionale dal discorso economico.

a cura di Antonella Ricciardelli

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tito, che evidentemente come ogni dibattito di politica economica ha natura strettamen-te contingente, occorre rimarcare che, an-che in questo caso, la direzione di causalità del polemos va dalla posizione critica a quella liberista, nel senso che – dato l’ampio spa-zio riservato agli esponenti di quest’ultimo orientamento – i primi sono costretti, per così dire, a ‘rincorrere’ criticamente l’orien-tamento dominante10. Nel dettaglio, la cri-tica alla tesi del greed sta nella constatazione che la presunta avidità dei banchieri e degli speculatori si sarebbe manifestata, in primo luogo, nel pieno rispetto della legalità e, in secondo luogo, si fa rilevare che non è chia-rito per quale ragione, d’un colpo, questi

operatori sarebbero diventati maggiormen-te propensi al rischio, secondo la direzione (1a) dello schema 111.

Ciò che, in questa sede, merita di essere discusso è soprattutto il fondamento ultimo del confronto. Evitando di addentrarsi in questioni di ordine tecnico relative al fun-zionamento dei mercati azionari, può essere sufficiente considerare che l’implicazione di politica economica che discende dalla tesi dell’avidità consiste in una maggiore regolamentazione dei mercati finanziari ed esclude, di conseguenza, la possibilità di interventi dello Stato per migliorare l’asset-to distributivo. Per contro, è precisamente quest’ultima opzione che viene invocata da-

gli economisti qui definiti critici: in quanto la crisi ha origine nella diseguale distribuzio-ne del reddito e, in particolare, nella caduta dei salari reali, occorre che lo Stato si faccia carico di accrescere la domanda mediante interventi di ridistribuzione del reddito a vantaggio delle fasce sociali più deboli.

Nell’ambito del dibattito sulla crisi, vie-ne ripresa la controversia relativa agli effetti della ‘flessibilità del lavoro’ sull’occupazio-ne. A fronte della vulgata liberista secondo la quale “solo sapendo di poter licenziare le imprese assumono”, gli economisti di orien-tamento critico fanno osservare che ciò non accade per almeno due ragioni. In primo luogo, la flessibilità riduce la propensione al

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I

Cinema The BankRegia: Robert ConnollyProduzione:Austria, 2001Storia di un giovane matematico che

utilizzando la teoria del caos e la geometria frattale, cerca di elaborare una formula che consenta di prevedere gli andamenti di borsa e i crolli di mercato azionario, con l’obiettivo di fare ingenti speculazioni. Si evidenzia in questo caso la ricerca di una razionalità eco-nomica attraverso il supporto delle scienze matematiche.

Letteratura Goethe J. W., Faust, ed. it. Versione di V.

Errante, in Goethe, Opere, a cura di L. Maz-zucchetti, Firenze (1952)

Nella seconda parte del Faust, Goethe utilizza la scena della mascherata a palazzo

come metafora dell’economia moderna (ca-pitalismo) che lui stesso considera “un gran-de ballo in maschera”. In particolare la critica di Goethe è mossa nei confronti dell’introdu-zione della carta moneta portata dal capita-lismo.

SaggisticaDomenighetti (a c. di), Con felice esattez-

za. Economia e Diritto tra lingua e Letteratura, Bellinzona, Casagrande, 1998

Saggio che descrive il modo in cui le te-orie e la comunicazione economica abbiano influenzato la letteratura e di conseguenza i sui fruitori.

Gadda C. E. Meditazione Milanese, Gar-zanti Libri (2001)

Si tratta di un dialogo sul metodo, un testo che aiuta a comprendere le istanze teoretiche sottese alle invenzioni narrative gaddiane. Gadda, sempre attento alla com-ponente economica dei fatti reali e affascina-to dalla particolare evidenza che nel mondo economico ha il gioco delle relazioni («La realtà economica – scrive nella Meditazione milanese – è quella “che più prontamente re-agisce all’errore”»), accoglie in questo saggio la visione Paretiana.

NarrativaPiccolo E., Bloomsbury, Il Raggio Verde

(2006)L’autrice fa rivivere nella versione roman-

zata delle vicende legate in particolare a due protagonisti del Bloomsbury Group: la scrit-

trice Virginia Wolf e l’economista John May-nard Keynes, il cui pensiero ha fortemente influenzato le diverse espressioni artistiche nate all’interno di questo gruppo

TeatroBrecht Berthold - Santa Giovanna dei

MacelliOpera nata in seguito al crollo della bor-

sa di New York (1929). Brecht prova qui a de-mistificare i meccanismi che portano alle crisi per perpetuare l’accumulazione capitalistica, mettendo a confronto tre classi sociali nelle loro articolazioni: i proprietari, il proletariato, gli intellettuali, che fanno da mediatori fra le due categorie. In questo caso la figura degli intellettuali (tra i quali è possibile considerare gli economisti) è vista come il medium comu-nicativo tra le due classi.

ArteShapiro M., Natura dell’Arte Astratta, in

Marxist Quarterly (1937)Il critico d’arte Mayer Shapiro in questo

articolo pubblicato sulla rivista Marxists Quar-terly presenta l’arte astratta in connessione alla storia della società. Secondo il critico non esiste “arte pura” non condizionata dall’espe-rienza. Qualsiasi produzione artistica risente delle condizioni sociali, economiche ed ideo-logiche della società in cui vive, e a ciò non si sottrae l’avanguardia, produttrice sì di nuove forme, ma anche di nuovi contenuti di vita e cultura.

a cura di Antonella Ricciardelli

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consumo dei lavoratori, perché a fronte del-la possibilità di mancato rinnovo del con-tratto, e dunque, della maggiore incertezza sui redditi futuri, i lavoratori reagiscono proteggendosi dal rischio di disoccupazio-ne, dunque riducendo i consumi. D’altra parte, per l’operare dell’effetto di disciplina, la ‘minaccia’ di licenziamento aumenta l’in-tensità del lavoro. L’aumento della produtti-vità e la contestuale caduta della domanda, per effetto della compressione della pro-pensione al consumo, determina, in ultima analisi, la riduzione dell’occupazione. A ciò si aggiunge che l’adozione di contratti fles-sibili, e in generale le politiche di compres-sione dei costi, tendono a disincentivare le innovazioni e la crescita dimensionale delle imprese. Come rilevava Keynes: «se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale» (Keynes, 1983: 5) (cf. Forges Da-vanzati 2005). In più, stando ai dati ufficiali (OCSE, in particolare), l’evidenza empiri-ca mostra che nei Paesi nei quali l’indice di protezione dei lavoratori è più alto sono più alti i salari e, di norma, è maggiore il tasso di occupazione. Stando allo schema 1, la critica muove lungo le direttrici 1a, 1b e 2 e, tuttavia, per le ragioni esposte a seguire, l’opinione dominante – non solo in ambito accademico, ma anche fra i policymaker – continua a essere derivata dall’impostazione neoclassico-liberista.

4 – Come si determinano le posizioni teoriche dominanti

Le esemplificazioni qui proposte costi-tuiscono un chiaro esempio del fatto che la comunicazione in ambito economico ha natura competitiva dal momento che riflet-te ‘visioni pre-analitiche’ (e, dunque, lato sensu politiche) inconciliabili. Il problema che ne deriva attiene all’individuazione dei fattori che portano al successo dell’una o dell’altra visione, intendendo per successo

l’adesione alla tesi A (o B) del massimo nu-mero di lettori e, soprattutto, la traduzione dell’una o dell’altra tesi in provvedimenti di politica economica. In altri termini, ciò che occorre rilevare è il meccanismo che porta alla determinazione delle posizioni teoriche rilevanti. A riguardo, possono essere rappre-sentati due scenari:

a) La comunicazione in regime di alta alfabetizzazione economica. In questo sce-nario, in larga misura ipotetico nel quale si può supporre che coloro che ricevono le informazioni siano in grado di valutarne la correttezza scientifica, la prevalenza della tesi A dovrebbe teoricamente dipendere dal giudizio puramente scientifico formulato da chi ne viene a conoscenza. Questo esito è meramente ipotetico, dal momento che – per le medesime ragioni esposte supra – così come chi comunica lo fa sulla base di visio-ni pre-analitiche, chi riceve la comunicazio-ne ne valuta i contenuti sulla base di ‘visioni pre-analitiche’. In tal senso, si può affermare che, in uno scenario di questo tipo, è mag-giore – rispetto a quello descritto a segui-re – la probabilità che vengano individua-ti possibili errori o incongruenze in una o nell’altra tesi, ma ciò non appare dirimente ai fini dell’esito della controversia.

b) La comunicazione in regime di bassa alfabetizzazione economica. In questo sce-nario, ciò che cambia rispetto al caso pre-cedentemente descritto attiene alla minore probabilità che eventuali errori, imprecisio-ni, incongruenze vengano individuate dai destinatari del messaggio. In tal senso, il secondo scenario lo si può intendere come meno ‘democratico’ rispetto al primo, dal momento che la comunicazione, anche di natura competitiva, è meno soggetta a valu-tazione da parte di terzi. In altri termini, è relativamente più semplice – in questo sce-nario – imporre come vere teorie economi-che suscettibili di confutazione.

Gli scenari ora delineati fanno riferi-mento al modo in cui l’esito della ‘gara’ può essere eventualmente modificato da inter-venti ‘dal basso’. Non si esclude, e appare anzi di massima rilevanza, che l’intervento dal basso possa tradursi in modifiche negli

orientamenti di voto, dal momento che – sulla base di quanto fin qui esposto – gli indirizzi di politica economica sono parte integrante (e di rilevanza crescente) degli indirizzi di politica generale. Realistica-mente, tuttavia, occorre riconoscere che – nel panorama contemporaneo, e non solo italiano – la dialettica prevalente assume un segno diverso: in estrema sintesi, ‘vince’ chi ha più spazio nell’arena comunicativa e lo spazio disponibile è strettamente correlato con le risorse disponibili.

Sebbene questa conclusione possa ap-parire sotto molti aspetti di buon senso, essa poggia su un meccanismo di riproduzione del sapere più complesso, che solo in un se-condo momento diventa comunicazione-di-vulgazione. In altri termini, la disponibilità di risorse è condizione necessaria ma non sufficiente per acquisire egemonia: anche grandi spazi di comunicazione disponibili possono generare esiti inefficaci ai fini della persuasione, se non sono ‘riempiti’ da effi-caci contenuti della comunicazione. L’effica-cia dei contenuti dovrebbe rispondere a un duplice requisito: i) le teorie divulgate de-vono avere un adeguato sostegno teorico ed empirico; ii) devono essere sufficientemente semplici o almeno facilmente semplificabili, e tanto più semplificabili quanto più il con-testo nel quale ci si muove è un contesto di bassa alfabetizzazione economica.

Il problema diventa, allora, l’individua-zione delle ragioni che rendono (o hanno reso fin qui) dominante la teoria economica neoclassico-liberista. La Rivista italiana degli economisti, organo ufficiale della S.I.E. (So-cietà italiana degli economisti) ha dedicato ampio spazio a riflessioni su questi temi. In estrema sintesi, anche in queste sedi, si confrontano due posizioni conflittuali. Da un lato, vi è il richiamo ad un maggior pluralismo nella ricerca economica; dall’al-tro, vi è la convinzione che il pluralismo in Economia porta a difendere – per usare un’espressione di Guido Tabellini – “specie in via di estinzione” (Porta 2007). In que-sta sede, ci si può limitare a individuare due cause dell’egemonia del pensiero liberista: i) quello che viene definito il “riflesso pantale-

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oniano” (Porta 2007: 309), ovvero la con-vinzione – tratta dall’economista italiano Maffeo Pantaloni, attivo gli inizi del Nove-cento – che non esistano teorie economiche alternative, ma una sola verità economica (così che l’Economia si dividerebbe in due scuole: chi la conosce e chi la ignora); ii) la maggiore rispondenza delle implicazioni di policy del mainstream rispetto agli interessi materiali in campo12.

Viene così a configurarsi il seguente circuito di riproduzione del sapere e della relativa comunicazione in ambito economi-co: 1. Il maggiore finanziamento alla ricerca mainstream genera la maggiore numerosità di studiosi impegnati in quell’ambito; 2. Il che produce una maggiore numerosità di ricerche di orientamento neoclassico-liberi-sta; 3. Il che consente, in sede di divulga-zione, di disporre di una più ampia mole di materiale teorico ed empirico a cui attingere per persuadere.

5 – Considerazioni conclusiveIn questo saggio, si è affrontato il modo

in cui gli economisti comunicano le pro-prie teorie ai ‘non addetti ai lavori’. Assunto che l’Economia politica non è una scienza esatta, si è mostrato come sul suo terreno si confrontino teorie alternative e configgenti, che riflettono ‘visioni pre-analitiche’ contra-stanti. Ciò comporta che la comunicazione in ambito economico non può non essere di natura competitiva e che, dunque, ciò che viene comunicato/divulgato non è mera-mente la scoperta di una nuova verità scien-tifica, ma una teoria che, in quanto tale, è sempre suscettibile di essere respinta e alla quale, comunque e di norma, si contrap-pone una teoria alternativa. Si è mostrato come l’acquisizione di posizioni dominanti passi innanzitutto attraverso il canale della comunicazione nell’ambito propriamente scientifico e come, in questo stesso ambito, esistano meccanismi di natura lato sensu po-litica che condizionano la natura e gli indi-rizzi della produzione scientifica.

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Marzola, A., F. Silva. 1990. John M. Keynes. Linguaggio e metodo. Bergamo: Lu-brina Editore.

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Porta, P.L. 2007. Eccellenza con plurali-smo, Rivista italiana degli economisti 2: 308-315.

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Schumpeter, J.A. 1990. Storia dell’analisi economica. Torino: Boringhieri

Sen, A. 2002. Etica ed economia. Bari: La-terza.

Walras, L. 1909. Économique et Mécani-ques. Bulletin de la Société Vaudoise de Sciences Naturelles 45 : 313-325.

Walras, L. 1974. Elementi di economia pura. Torino: Utet.

Endnotes1 Per un inquadramento storico-teorico

di questo paradigma, cf., fra gli altri, Roncaglia (2001).

2 Ciò è reso possibile essenzialmente dall’assioma stando al quale esiste un’unica moti-vazione dell’agire economico, che attiene alla co-siddetta razionalità strumentale: la massimizza-zione di una data funzione-obiettivo, dati i vin-coli di moneta e di tempo, ovvero la ricerca – su

basi individuali – della scelta più conveniente, in condizioni di informazione perfetta e completa.

3 Si osservi che questo assunto incorpo-ra gli assiomi della ‘sovranità del consumatore’ – stando al quale la scala e la composizione mer-ceologica dell’output riflette le preferenze esoge-ne dei consumatori stessi (il che attiene, a sua volta, all’individualismo metodologico ed etico) e della scarsità esogena delle risorse, secondo il quale tutte le risorse disponibili sono scarse re-lativamente ai bisogni per un vincolo di natura esclusivamente naturale.

4 Come è noto, secondo questa posizio-ne, una teoria è scientifica non quando è vera ma quando contiene elementi che possono es-sere oggetto di falsificazione. Il più accreditato esponente di questa posizione in Economia è stato Milton Friedman.

5 In quanto segue, si intenderà per rice-venti coloro che non sono economisti di profes-sione, con particolare riferimento all’opinione pubblica, comunque la si voglia intendere, e i responsabili della politica economica.

6 È possibile anche che l’autore esageri nell’attribuire agli economisti matematici una consapevole visione filosofica.

7 Questa demarcazione riflette la logica del modello di comunicazione competitiva (v. infra, fig.1): il primo ordine di critica riguarda la traiettoria (2), mentre il secondo ordine di critica è riflesso nella traiettoria (1).

8 Ringrazio il collega Enrico Ciavolino per avermi segnalato questo esempio.

9 Per una ricostruzione analitica di que-sta posizione, si rinvia a Brancaccio (2009).

10 Stando alle considerazioni relative al dominio del mainstream nei media che verranno svolte a seguire, si può ragionevolmente affer-mare che – ad oggi, e non solo nel panorama mediatico italiano – il dibattito è fortemente asimmetrico, a danno delle posizioni ‘critiche’.

11 Il tema è trattato, in particolare, da E. Brancaccio, Un’ombra in fondo al tunnel, www.economiaepolitica.it, al quale si rinvia per approfondimenti.

12 A ciò si può aggiungere il fatto che i finanziamenti della ricerca, o anche la sola repu-tazione del ricercatore, in Economia sono cali-brati sulla base di indicatori (in primis, l’“Impact Factor”) che premiano le riviste più lette che, a loro volta, sono le riviste che godono di maggio-ri finanziamenti. Per una critica a questa impo-stazione si rinvia a Realfonzo (2007).

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Il racconto di YOD

«Seduto lontano dal mondo, all’unisono con i ritmi della natura, liberato dai vincoli del mondo ma-teriale e dalle comodità corporali, purificato e sensibile all’essenza sacra di tutto ciò che lo circonda,

colui che prepara e beve il tè in contemplazione si avvicina ad uno stadio di sublime serenità.»

«Trovare una serenità duratura in noi stessi in compagnia d’altri: questo è il paradosso.»

Soshitsu Sen XV. Chado: The japanese way of tea. Tokyo, 1979. Chado, Lo Zen nell’arte del tè. Torino, Promolibri edizioni, 1986, pag. 21.

Erano passati ormai già tre mesi da quando la battaglia aveva avuto inizio. Haruki si svegliò poco prima dell’alba. Contemplò le spesse nuvole scure che ricoprivano il cielo in quei primi giorni di ot-tobre. Non aveva riposato ma era pronto a continuare la battaglia, non si sarebbe risparmiato. Sentiva il peso del valore degli avversari che aveva sconfitto e ucciso premergli sul petto. Erano stati guerrieri valorosi, e si sentiva onorato di averli sconfitti. La sua armatura era ricoperta di fango, polvere e sangue. Il suo volto era irriconoscibile, una maschera di ferite, grumi di sangue rappreso e terra. Le callosità delle mani lacerate dall’uso ininterrotto della spada. Quanto a lungo ancora sarebbe durato l’assedio? Sapeva di avere scorte a sufficienza.

Il nemico lì fuori invece doveva essere oramai allo stremo delle forze. Come avrebbe fatto a procurasi altri soldati e altre provviste dalla posizione in cui si trovava? Non c’erano vie di fuga, il ter-ritorio era interamente controllato dalle sue truppe, i nemici erano accerchiati, eppure continuavano a combattere come il primo giorno, con la stessa intensità e rabbia.

Il cielo iniziava a rischiararsi. Haruki si preparò al nuovo giorno di battaglia. Si lavò il viso e le mani, indossò l’armatura, legò la spada alla cintura. Il chiarore dell’alba iniziava ad irraggiare il giar-dino dietro la casa. Avrebbe fatto una visita al tempio, prima di ogni altra cosa. Rivedere Mamoru e parlargli sarebbe stato di buon auspicio.

Si soffermò alcuni minuti davanti alla porta. Doveva placare l’animo. Si inginocchiò e con il viso rivolto all’ingresso e gli occhi chiusi, respirò lentamente e profondamente finché non avvertì il pro-

La cerimonia del tèVito Comiso

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La nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo.

Albert Camus

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Tra i racconti pervenuti entro il 1° Giugno 2010, YOD sceglierà un racconto da pubblicare nel n.6.

Il tema del racconto è: “Eros/Bellezza”. Il tema può essere declinato da ciascun autore nel modo ritenuto più consono, sia con riferimento al contenuto sia con riferimento allo stile del racconto.

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prio respiro rallentare come prima del sonno. Solo allora sciolse la spada dal fianco, tolse i sandali, si spogliò dell’armatura, e vestito del semplice kimono di tela grezza, si chinò per passare attraverso la stretta e bassa porticina.

L’aria era ferma. La scarsa luce che filtra-va dalle finestre oscurate illuminava appena il piccolo ambiente del tutto spoglio, al centro del quale un capace bollitore collocato in una apertura nel pavimento, teneva l’acqua alla giusta temperatura. Le pareti di legno erano nude. Su un lato era appeso un quadro con una scrittura, una poesia, e un piccolo vaso con un solo fiore. L’odore intenso del legno penetrava profondamente nei polmoni, per-vadeva ogni piccola particella di essere. L’uni-co suono era lo sfrigolio dei carboni e il lieve borbottare dell’acqua nella pentola. Mamo-ru comparve dopo poco, attendeva la visita dell’amico di sempre.

La stagione dell’autunno ha la sua dispe-rata bellezza. Tutto si chiude in se stesso, si avvolge e richiude come per proteggersi da un nemico invisibile e invincibile, contro cui ha l’amara consapevolezza di perdere comun-que.

L’ultimo anelito al cielo azzurro è narrato dai piccoli fiori e dai prati di erbe selvatiche che assorbono gli ultimi tepori prima delle ri-gidità invernali. Anche gli uomini raccolgono le proprie cose, mettono da parte le scorte per i mesi in arrivo, raccolgono i pensieri.

Si guardarono negli occhi ritrovando in quelle oscure profondità delle pupille il volto dell’amico. Quel semplice sguardo diretto e deciso era sufficiente a capire lo stato d’animo dell’altro.

L’acqua dello stagno nel giardino è limpi-da e fredda. Le carpe scivolano lente sotto lo specchio immobile. Solo una foglia ingiallita, staccandosi dal grande albero di canfora, pla-na lieve e increspa appena la superficie di quel piccolo universo silenzioso.

L’armonia è in tutte le cose, dalle più grandi alle più semplici. In ogni piccola foglia di albero di canfora è la perfezione. In ogni mutamento di sfumatura nei colori dell’alba

è il respiro universale delle cose. Ogni petalo di fiore di ciliegio è perfetto in sé, diverso da tutti gli altri, come si dice siano i cristalli di neve, e nonostante questa sua unicità è per-fetto, perché ha in sé la ragione di tutti i petali di tutti i ciliegi di tutte le stagioni. All’uomo basta contemplare questi segni per sentire di essere parte di un grande tutto, per sentire il respiro del mondo e sapere che il proprio re-spiro è consonante, ha lo stesso ritmo lento e inarrestabile della natura, delle piante e degli animali e degli altri uomini, amici e nemici. Anche solo osservare il moto pigro delle carpe nello stagno ti dice che anche tu sei parte di questo tutto, e senti il palpitare unico dell’in-sieme di tutti gli esseri viventi, il movimento incessante costante universale della vita.

Haruki non capiva perché Mamoru gli parlasse proprio ora di cose così distanti, il momento della battaglia era imminente e sen-tiva il bisogno di essere incoraggiato dall’ami-co, spronato alla lotta, sostenuto nell’azione. Avvertiva il pulsare del sangue sotto la pelle, i muscoli contratti e già pronti allo scatto del corpo a corpo, il pugno stretto come avesse tra le dita l’elsa della sua fidata katana.

Attese che l’amico tornasse al silenzio dei gesti rituali della cerimonia, e prese dalle sue mani la coppa fumante che gli porgeva. Abbassò lo sguardo al piccolo specchio tondo del tè nella tazza e vide sul fondo un picco-lo fiore che si schiudeva al calore dell’acqua. Bevve il denso profumo che si sprigionava dalla piccola coppa e assaporò il gusto forte della bevanda.

La cerimonia si concluse senza altre pa-role. Solo prima di ritirarsi Mamoru fece una cosa insolita e del tutto inattesa. Si accostò ad Haruki e lo abbracciò. Quindi senza dire altro chiuse dietro di sé il pannello scorrevole che divideva gli ambienti, e lasciò l’amico da solo.

Haruki inspirò profondamente, raccolse i lembi del kimono, ed uscì dalla stanza.

Fuori l’aria era fredda. Indossò l’armatu-ra e raccolte le armi si diresse verso la polvere e il sangue del campo.

Quell’inverno l’acqua dello stagno gelò.

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lo stile del pensareYOD

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Gli uomini hanno dubitato se attribuire la facoltà di vivere, ricordare, comprendere, volere, pensare, sapere, giudicare all’aria o al fuoco o al cervello o al sangue o agli atomi o a un quinto ignoto elemento

corporeo al di fuori dei quattro elementi conosciuti, oppure se tutte quelle operazioni le possa compiere la struttura e l’armonia del nostro corpo; chi si è sforzato di ricordare, di sostenere un’opinione, chi un’altra. Di vivere, tuttavia, di ricordare, di comprendere, di volere, di pensare, di sapere e giudicare, chi potrebbe dubitare? Poiché, anche se dubita, vive; se dubita, ricorda donde provenga il suo dubbio; se dubita, comprende di dubitare; se dubita, vuole arrivare alla certezza; se dubita, pensa; se dubita, sa di non sapere; se dubita, giudica che non deve dare il suo consenso alla leggera. Perciò chiunque dubiti di altre cose, non deve dubitare di tutte queste, perché, se non esistessero, non potrebbe dubitare di nessun cosa. [...] Lo spirito si conosce anche quando si cerca.

Agostino, De Trinitate

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