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126 Wolfgang Huemer Wittgenstein, il filosofo dei poeti I n queste pagine cercherò di presentare un ritratto di Ludwig Wittgenstein. Come ogni ritratto, anche il mio accen- tuerà alcuni aspetti dell’opera e della vita del filosofo e dovrà tralasciarne altri. Nel caso di Wittgenstein non è difficile indivi- duare un aspetto rappresentativo: nelle sue opere Witt- genstein tratta tanti temi filosofici: la logica, la matematica, la filosofia della mente e la gnoseologia, fino all’etnologia, i colori, la natura dei giochi e la nozione del seguire una regola. In tutte queste riflessioni risuona, però, lo stesso leitmotiv: Wittgenstein riflette sempre anche sul linguaggio, sul modo in cui parliamo di queste cose e proporrei, quindi, di scegliere il linguaggio come filo conduttore di questa esposizione. Ogni ritratto – per usare subito una distinzione witt- gensteiniana – dice qualcosa sulla persona e oltre questo mostra delle cose che non sono strettamente contenute nell’immagine: per esempio, la prospettiva dell’autore del quadro; la sua posizione relativa alla persona ritratta nell’immagine. In questo senso anche la mia introdu- zione al pensiero di Wittgenstein mostrerà la mia pro- spettiva sull’opera, che a sua volta è condizionata dalle mie opinioni e dai miei interessi, filosofici e non. In par- ticolare, in questa esposizione vorrei prendere spunto da un suggerimento del tardo Wittgenstein, che non si

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Wolfgang HuemerWittgenstein, il filosofo dei poeti

In queste pagine cercherò di presentareun ritratto di Ludwig Wittgenstein.Come ogni ritratto, anche il mio accen-

tuerà alcuni aspetti dell’opera e della vitadel filosofo e dovrà tralasciarne altri. Nelcaso di Wittgenstein non è difficile indivi-

duare un aspetto rappresentativo: nelle sue opere Witt-genstein tratta tanti temi filosofici: la logica, lamatematica, la filosofia della mente e la gnoseologia, finoall’etnologia, i colori, la natura dei giochi e la nozione delseguire una regola. In tutte queste riflessioni risuona,però, lo stesso leitmotiv: Wittgenstein riflette sempreanche sul linguaggio, sul modo in cui parliamo di questecose e proporrei, quindi, di scegliere il linguaggio comefilo conduttore di questa esposizione.

Ogni ritratto – per usare subito una distinzione witt-gensteiniana – dice qualcosa sulla persona e oltre questomostra delle cose che non sono strettamente contenutenell’immagine: per esempio, la prospettiva dell’autoredel quadro; la sua posizione relativa alla persona ritrattanell’immagine. In questo senso anche la mia introdu-zione al pensiero di Wittgenstein mostrerà la mia pro-spettiva sull’opera, che a sua volta è condizionata dallemie opinioni e dai miei interessi, filosofici e non. In par-ticolare, in questa esposizione vorrei prendere spunto daun suggerimento del tardo Wittgenstein, che non si

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stanca mai di sottolineare la diversità, la ricchezza e la va-rietà dei modi in cui usiamo il linguaggio. Le sue formepiù sottili, quelle più ricche di sfumature e di nuances, letroviamo a mio avviso nel linguaggio letterario, nei testidei poeti. Vorrei, quindi, schizzare il mio ritratto di Witt-genstein da una prospettiva che prende in considera-zione anche la dimensione letteraria del linguaggio epropongo un percorso che per tanto tempo è stato tra-scurato, ma ha i suoi meriti.

La mia prospettiva è già espressa nel titolo di questosaggio che richiama una citazione di Terry Eagleton, notocritico letterario inglese che è anche autore di una sce-neggiatura per un film su Wittgenstein che fu realizzatoda Derek Jarman. In un articolo intitolato My Wittgen-stein Eagleton scrive:

Frege è il filosofo dei filosofi, Sartre l’idea che i media hannodi un intellettuale, Bertrand Russell l’immagine che ogni ne-goziante ha del saggio […]. Ma Wittgenstein è il filosofo deipoeti e dei compositori, dei drammaturghi e dei romanzieri,e parti del suo grande Tractatus sono addirittura state tradottein musica (Common Knowledge, 3, 1994, p. 153 s.).

Wittgenstein, secondo Eagleton, è il filosofo che piùdi altri ha affascinato poeti e scrittori. La stessa citazionesvela, mi sembra, che anche Eagleton subisce questa fa-scinazione che attribuisce ai poeti: nessun filosofo use-rebbe mai la parola “grande” per caratterizzare un’operadi un altro filosofo. Essa può essere “profonda”, “inte-ressante”, “importante”, “stimolante” o simili, insommatutti aggettivi che mostrano un interesse sobrio e razio-nale per l’argomentazione del testo; mentre la parola

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“grande” svela un approccio più emozionale, una attra-zione che va oltre il valore strettamente scientifico deltesto. È più una glorificazione che non una caratterizza-zione.

Non è da escludere che a volte questa fascinazioneche i poeti – e Eagleton – provano per Wittgenstein nascada un interesse per la biografia del filosofo. Abbiamo ache fare con una persona inquieta che, anziché prestarsial compromesso, vive le tensioni interiori portandole ri-petutamente all’estremo e spesso, come sembra, ai limitidel sopportabile. Il fatto che tale fascinazione continui aesistere e crescere è sicuramente dovuto ad aspetti propridella filosofia di Wittgenstein; e in particolare, appunto,al ruolo centrale che il linguaggio svolge nella sua filoso-fia, e lo fa su almeno tre livelli diversi.

Primo, il linguaggio per Wittgenstein è sempre og-getto di ricerca. In tutte le fasi della sua vita filosoficacerca di mettere a fuoco, in un modo o l’altro, l’«operaredel nostro linguaggio» (Ricerche filosofiche, Einaudi, To-rino 1999, § 109) e dei modi in cui ne facciamo uso: ana-lizza prima la forma logica delle proposizioni, poi quellagrammaticale del linguaggio. Nella sua prima opera, ilTractatus logico-philosophicus, afferma che il compitodella filosofia consiste nello stabilire come dobbiamousare il linguaggio, mentre più tardi suggerisce che essadeve descrivere come effettivamente lo usiamo. E sem-pre s’interroga sul concetto di significato. Si chiede, inaltri termini, com’è possibile che le parole del nostro lin-guaggio si riferiscano a degli oggetti extralinguistici.

Secondo, Wittgenstein non si stanca mai di avvertiredei pericoli e delle trappole inerenti al linguaggio. In par-

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ticolare sostiene che tanti dei «grandi problemi» dei fi-losofi – quei problemi astratti per cui non siamo sicuriche ci possa essere una risposta definitiva – nascono daun uso impreciso, inappropriato o fuorviante del lin-guaggio. Per Wittgenstein ciò implica, però, che il lin-guaggio non sia soltanto la fonte principale dei problemifilosofici, ma che contenga al contempo anche la chiaveper superare tali problemi: se riusciamo a riconoscere –tramite un’analisi della struttura logica o grammaticaledel linguaggio – che i problemi filosofici che ci turbanonascono da un uso inappropriato del linguaggio, alloraquesti problemi potrebbero perdere il loro peso e per-metterci di ritrovare la tranquillità d’animo.

Terzo, oltre la forma logica e grammaticale del lin-guaggio, anche quella letteraria svolge un ruolo fonda-mentale. In effetti, Wittgenstein presta sempre tantaattenzione anche allo stile delle sue opere, curando nonsolo ciò che dice, ma anche il modo in cui lo fa. Tutte lesue opere sono il risultato di un lungo processo di scrit-tura e riscrittura. Wittgenstein ha rivisto i suoi testi varievolte, cambiando continuamente sia la formulazione chel’ordine delle varie parti. Non cerca soltanto di dare uncontributo originale alla filosofia, si affatica molto ancheper farlo in un modo originale.

Nelle pagine seguenti cercherò di approfondireognuno di questi tre aspetti. Prima di entrare in una di-scussione più dettagliata vorrei, però, parlarvi un attimodell’ambiente culturale in cui Wittgenstein è cresciuto.

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Il retroscena culturale

Wittgenstein nasce nell’aprile 1889 in una famigliadell’alta borghesia viennese di radici ebraiche. I nonnierano emigrati dalla Sassonia. Il padre, Karl Wittgen-stein, ha creato un impero nell’industria siderurgica: si ètrovato nel luogo giusto al momento giusto e sembra cheabbia fatto le scelte giuste: cominciando da zero ha ap-profittato del boom economico dell’impero austro-un-garico per diventare uno degli industriali più importantidell’impero. Con sua moglie Leopoldine Kallmus con-divideva una passione per le arti, in particolare per la mu-sica.

Il giovane Ludwig cresce in un periodo in cui Viennavive un enorme progresso culturale che vede tante inno-vazioni in vari campi, nelle scienze naturali, nella medi-cina, nell’architettura, nella musica, nell’arte, nellaletteratura, nella psicologia, ecc. Wittgenstein è testi-mone in prima persona di questo fervore culturale, ancheperché i suoi genitori intrattenevano, in casa propria, unsalotto frequentato da tanti intellettuali e artisti. KarlWittgenstein era mecenate di Gustav Klimt e degli artistidella Secessione viennese, ma il Palais Wittgenstein fu fre-quentato anche da personaggi come Johannes Brahms,Gustav Mahler, Clara Schuhmann, Richard Strauss,Eduard Hanslick, Arnold Schönberg e tanti altri.

Questo periodo aureo di Vienna è dovuto sicura-mente allo sviluppo economico come anche all’ambientemulticulturale e aperto della città. Vienna diventa ilpunto di riferimento economico, culturale e intellettuale

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dell’intero impero asburgico, attirando a sé persone daogni luogo più che in ogni altro periodo precedente. Alcontempo si diffonde anche la sensazione che questo svi-luppo non possa durare e che si viva l’apice di un periodoche sta per finire.

Non a caso un elemento della cultura viennese del-l’inizio secolo è la nascita della psicoanalisi. Con essa,Sigmund Freud sviluppa un nuovo metodo di trattare al-cuni disturbi mentali, comportamentali, della persona-lità, in cui il linguaggio svolge un ruolo centrale: è tramitei dialoghi con il paziente che l’analista cerca di indivi-duare la fonte nascosta o rimossa dei suoi problemi. Inun certo senso l’analista accompagna il paziente non perpoter risolvere i problemi che lo turbano ma per com-prenderli, riuscendo così a superarli. Se il paziente, peresempio, ha la compulsione di lavarsi, non lo aiuta a svi-luppare strategie per lavarsi meglio o in modo più effi-cace. Tenterà piuttosto di ricercare i veri motivi checausano questo tipo di comportamento compulsivo, conla speranza che la ricerca, l’analisi, l’esperienza del pro-blema porti all’accettazione del problema stesso e alladissoluzione del comportamento compulsivo.

Passando alla letteratura viennese d’inizio secolo tro-viamo sovente il tema di una sensazione di crisi chespesso verte sul mezzo espressivo, il linguaggio. Vorreiricordare Hugo von Hofmannsthal, che in un famosotesto, la Lettera a Lord Chandos, esprime la sua sensa-zione di perdita graduale del linguaggio e del significatodelle parole e lo fa con grande forza letteraria. Il testopuò essere considerato come espressione di questa crisidel linguaggio che diventa un motivo letterario ricor-

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rente. Vorrei ricordare anche Karl Kraus che nella sua ri-vista «Die Fackel» denuncia e ridicolizza gli abusi del lin-guaggio nel mondo della politica, del commercio, maanche nella vita quotidiana. Per Kraus, il linguaggio nonè solo un veicolo per esprimere i pensieri, ma proprio ilmezzo del pensare. Gli errori e le aberrazioni linguisti-che – tanto gli errori di virgola, le metafore impropriequanto i luoghi comuni – sono sintomi di problemi piùprofondi nel ragionamento di chi le enuncia.

Il Tractatus logico-philosophicus

È questo il retroscena in cui Wittgenstein inizia a svi-luppare la sua prima opera, il Tractatus logico-philoso-phicus. Wittgenstein, che non era particolarmente bravoa scuola, segue il consiglio di suo padre e studia ingegne-ria a Vienna, Berlino e Manchester, dove tenta di svilup-pare un motore per elicotteri. In questo periodocomincia a interessarsi sempre più di questioni di mate-matica, di logica e di filosofia e va a Cambridge per stu-diare con Bertrand Russell. Nel 1913 muore suo padre.Ludwig rinnega la sua eredità, e dona una cifra notevolea Ludwig von Ficker, che è l’editore della rivista lettera-ria «Der Brenner», per sostenere giovani poeti. Così Witt-genstein, in modo anonimo, diventa mecenate di poeticome Rainer Maria Rilke e Georg Trakl.

Quando inizia la prima guerra mondiale nel 1914Wittgenstein – che avrebbe potuto evitare il servizio mi-litare – combatte con le forze austriache da volontario,

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portando sempre con sé un taccuino, e nei momenti li-beri scrive anche su problemi di logica e di filosofia(anche a Montecassino, dov’è internato alla fine dellaguerra). Nasce così il Tractatus logico-philosophicus, chepubblica nel 1921 in una versione tedesca, e nel 1922 intraduzione inglese con la prefazione di Bertrand Russell(che fa sì che l’opera ottenga attenzione internazionale).

Già nella prefazione egli propone una delle tesi prin-cipali del libro, ovvero che tanti problemi filosofici na-scono da un uso inappropriato del linguaggio:

Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che laformulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimentodella logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro sipotrebbe riassumere nelle parole: tutto ciò che può esseredetto si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può par-lare, si deve tacere. (Tractatus logico-philosophicus, Einaudi,Torino 1998, p. 23).

Wittgenstein sostiene, in altre parole, che i problemidi cui si occupano i filosofi nascono da un uso inappro-priato del linguaggio. Ma dove sbagliano?

Wittgenstein ricorda che il linguaggio serve in primoluogo a descrivere il mondo. Le parole che usiamoquando parliamo si riferiscono a degli oggetti nel mondo:con la parola “fiore” ci possiamo riferire a questo fiore inparticolare; con la parola “vaso” a questo vaso; conl’enunciato “il fiore sta nel vaso” possiamo descrivere ilfatto che il fiore sta nel vaso.

Wittgenstein sposa questa concezione del linguaggiocon una prospettiva ontologica particolare: per lui, le en-tità primarie di cui si compone questo nostro mondo non

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sono gli oggetti, ma i fatti. Se qualcuno si chiede che cos’èil mondo, o meglio, in che cosa consiste il mondo po-trebbe essere tentato di fare un elenco delle cose che cisono: il fiore, il vaso, il tavolo, lo schermo, la finestra ecosì via, finché arriva a un elenco completo, un inventa-rio del mondo. Chi pensa così suggerisce che il mondosia la somma delle cose che esistono; come se il mondofosse un grande magazzino con lunghi corridoi di scaf-fali dove troviamo in un corridoio i fiori, in un altro i vasi,in un altro ancora i tavoli ecc. Detto così si vedono su-bito i limiti di questa concezione: ciò che conta non è ilmero essere degli oggetti, ma il modo in cui essi si rela-zionano gli uni con gli altri. Importa, in altre parole, nonsoltanto che il fiore esista e che il vaso esista, ma che ilfiore stia nel vaso. «Il mondo» – dice Wittgenstein al-l’inizio del suo libro – «è tutto ciò che accade. Il mondoè la totalità dei fatti, non delle cose».

Per descrivere questi fatti ci serviamo, secondo Witt-genstein, delle frasi o proposizioni. Se uno dice: «Il fioresta nel vaso» descrive il fatto che il fiore sta nel vaso. E sinota subito una somiglianza tra la proposizione e il fattodescritto: infatti, Wittgenstein suggerisce che le propo-sizioni siano immagini dei fatti. A ogni elemento presentenel fatto (il fiore, il vaso, lo “starci dentro” nel nostroesempio) corrisponde un elemento della proposizione,la parola “fiore”, la parola “vaso”, l’espressione “sta nel”.Il fatto è caratterizzato da una struttura interna, che de-termina come si relazionano gli oggetti all’interno delfatto (che «il fiore sta nel vaso»); e questa struttura vienerappresentata dalla struttura logica dell’enunciato, chedetermina come si relazionano le parole all’interno della

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proposizione.Questa concezione permette a Wittgenstein di pro-

porre un criterio per distinguere le proposizioni sensateda quelle che sono insensate o prive di senso: una pro-posizione è sensata se e solo se descrive un fatto. Con ciòWittgenstein non vuole negare che frasi di quest’ultimotipo non svolgano un ruolo importante. Alcune di essenon dicono niente (in senso stretto, in quanto non sonoimmagini di un fatto) ma mostrano qualcosa (che non ècontenuto in senso stretto). Pensiamo ai grandi problemidella filosofia, alla domanda «qual è il senso della vita»,ma anche all’etica o all’estetica: il senso della vita nonconsiste in un fatto empirico, quindi non si può parlarnesensatamente. «6.52 Ma v’è del ineffabile. Esso mostrasé. È il mistico». L’etica e l’estetica sono discipline chenon descrivono il mondo com’è, ma come dovrebbe es-sere. Di conseguenza, anche queste sono per Wittgen-stein insensate, ma i discorsi dell’etica e dell’esteticapossono mostrare qualcosa di importante. In un certosenso sono paragonabili ai testi poetici, che non descri-vono fatti esistenti, ma possono mostrare delle cose im-portanti. Wittgenstein scrive in una lettera a Ludwig vonFicker a proposito delle poesie di Georg Trakl: «Non lecapisco, ma il loro tono mi rende felice. [Ich verstehe sienicht; aber ihr Ton beglückt mich.]» (Briefe an Ludwigvon Ficker, a cura di G.H. von Wright, Otto Müller Ver-lag, Salzburg 1969, p. 22).

Anche le proposizioni della logica e della matematica– che sono così importanti per Wittgenstein – non de-scrivono fatti empirici, i quali potrebbero renderle vere ofalse; anzi, sono sempre vere. Due più due fa sempre

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quattro, indipendentemente da com’è fatto il mondo.Quindi anch’esse sono insensate: «6.1 Le proposizionidella logica sono tautologie». «6.11 Le proposizioni dellalogica non dicono dunque nulla». Di che cosa allora do-vrebbero parlare i filosofi?

6.53 Il metodo giusto della filosofia sarebbe propriamentequesto: nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposi-zioni delle scienze naturali – dunque, qualcosa che con la fi-losofia nulla ha a che fare –, e poi, ogni volta che un altrovoglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segninelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno.Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli nonavrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia – ep-pure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto.

I «grandi problemi» della filosofia, quindi, non tur-bano più perché non si può neanche formularli. Gli uniciproblemi che possono essere formulati sono quelli dellescienze naturali. «6.5 L’enigma non v’è. Se una domandapuò porsi, può anche avere una risposta». Magari non èfacile trovarla, ma in linea di principio deve essere sem-pre possibile.

Alla fine del Tractatus Wittgenstein sostiene addirit-tura che anche le proposizioni contenute nel libro, quelleche usa per esporre la sua posizione filosofica e per spie-gare la differenza tra proposizioni sensate e insensate,non sono immagini di fatti empirici e sono, di conse-guenza, insensate anch’esse.

6.54 Le mie proposizioni illuminano così: colui che mi com-prende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – suesse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala

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dopo essere asceso su essa). Egli deve trascendere queste pro-posizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo.

Per concludere subito dopo con la frase famosissima:

7 Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

È interessante notare che la metafora della scala che«si deve gettar via dopo esser asceso su essa» fu citata –senza, ovviamente, fare il nome di Wittgenstein – da Um-berto Eco nel suo romanzo Il nome della rosa (metaforache traduce in tedesco medievale). Il protagonista, Wil-liam of Canterbury, parlando con Adson di Melk, lo at-tribuisce a «un mistico delle tue terre [quindi austriaco].Lo ha scritto da qualche parte, non mi ricordo dove»(Bompiani, Milano 1980, p. 495).

A questo proposito vorrei portare l’attenzione versola forma letteraria del testo che è tanto originale quantorigorosa: Wittgenstein formula le sue riflessioni in unostile piuttosto aforistico, con un elenco di proposizionienumerate in un sistema gerarchico. Anziché svilupparedegli argomenti per elaborare la sua posizione e convin-cere i lettori, presenta uno staccato di affermazioni, unitesoltanto dall’enumerazione. Quest’ultima suggerisce unnesso logico che, però, non viene esplicitato, ma do-vrebbe mostrarsi da sé, come a sottolineare ciò che l’au-tore scrive nella prima frase della prefazione: «Questolibro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua voltaabbia pensato i pensieri ivi espressi». Wittgenstein ag-giunge subito che il libro «conseguirebbe il suo fine seprocurasse piacere ad almeno uno che lo legga com-

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prendendolo».Quest’ultima affermazione può stupire in quanto

sembra rovesciare le aspettative tipiche di un testo filo-sofico: di solito, chi cerca il piacere dalla lettura si avvi-cina a un testo letterario, un romanzo, un racconto o unapoesia, ma non a un trattato filosofico che, se studiatocome si deve, promette piuttosto una lettura impegna-tiva, degna di tale sforzo solo se amplia la propria cono-scenza. Se, in altre parole, presenta degli argomenti (avolte faticosi da seguire) che giustificano dei pensieri cheil lettore non ha già pensato a sua volta.

Si può, di conseguenza, leggere il Tractatus anchecome un’opera letteraria, nella quale l’autore cerca di sta-bilire un’armonia tra contenuto e forma letteraria. Nelpenultimo capoverso della prefazione egli sostiene che ilvalore del libro consiste anche nei «pensieri [che] son quiespressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto me-glio i pensieri saranno espressi. Quanto più si sia còltonel segno»; e in una lettera a Ludwig von Ficker scrive:«L’opera è rigorosamente filosofica e, al contempo, let-teraria [Die Arbeit ist streng philosophisch und zugleichliterarisch]» (Briefe an Ludwig von Ficker, op. cit., p. 33).Per arrivare, quindi, a una interpretazione comprensivadel testo non si deve soltanto prestare attenzione a ciòche viene detto, ma anche alla forma letteraria in cuiviene detto.

La svolta e la filosofia matura

Con il Tractatus Wittgenstein ritiene, come dice nel-

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l’ultimo capoverso della prefazione, «d’avere definitiva-mente risolto nell’essenziale i problemi [filosofici]», maanche d’avere mostrato «a quanto poco valga l’esserequesti problemi risolti». Di conseguenza si ritira dalla fi-losofia per diventare insegnante di scuola elementare inun piccolo paese isolato a quattro ore da Vienna, conpoco successo, come sembra. Si trasferisce due volte enel 1926 si licenzia. Dopo qualche mese di lavoro comegiardiniere in un monastero, aiuta un amico architetto aprogettare una casa per sua sorella in stile moderno,senza ornamenti, con linee chiare, che richiama tantoAdolf Loos, che Wittgenstein ha conosciuto di persona.

In questo periodo ha vari incontri con Moritz Schlicke altri membri del circolo di Vienna, e ricomincia così ariflettere su problemi filosofici. Comincia a rivedere letesi del Tractatus. Quando poi esporrà la nuova posi-zione, lo farà spesso contrastando quella vecchia, inmodo tale che per tanti anni si è parlato di un cambia-mento radicale, di una svolta (distinguendo il primo e ilsecondo Wittgenstein). Solo negli ultimi decenni si è co-minciato a notare la continuità nel pensiero del filosofo.Perciò più che di svolta preferirei parlare di sviluppo. Ilgrande sviluppo che Wittgenstein fa nei tardi anni Ventiè cominciare a vedere che il linguaggio non serve solo adescrivere il mondo ma viene usato invece per tante cosediverse. Naturalmente il cambiamento della sua posi-zione non avviene in un solo momento e ha più di un mo-tivo, ma trovo molto istruttivo un episodio che lo stessoWittgenstein ha raccontato al suo amico Norman Mal-colm. A Cambridge, Wittgenstein aveva fatto la cono-scenza dell’economista italiano Piero Sraffa,

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intrattenendosi spesso a discutere con lui. Un giorno, du-rante un viaggio in treno, Wittgenstein gli parlò dellaforma logica della proposizione (che dovrebbe essere lastessa della forma logica del fatto descritto). Sraffa, cheforse non seguiva con grande entusiasmo, gli fece ungesto che viene descritto come gesto napoletano e chiese:«Qual è la forma logica di questo?». Wittgenstein riferì aMalcom che questo gesto gli avrebbe fatto capire «l’as-surdità» della propria posizione.

In seguito Wittgenstein ha intuito che sarebbe un er-rore ridurre il linguaggio alla funzione descrittiva econcentrarsi esclusivamente sulla forma logicadella proposizione. Egli si convince che il linguaggiosvolge tante funzioni diverse, e sviluppa una grande at-tenzione per le differenze tra i vari usi. Se ci pensate unattimo, sono tante le cose che possiamo fare con il lin-guaggio: descrivere un evento e commentarlo, coman-dare, fare una promessa, rimproverare qualcuno, fareuna battuta, inventare una storia e leggerla, recitare a tea-tro, fare una dichiararazione d’amore, sposare qualcuno,fare causa a qualcuno, chiedere, ringraziare, mentire, im-precare, salutare, pregare e così via.

Nel Tractatus Wittgenstein considera la relazione trail linguaggio e il mondo, e di conseguenza, tra il soggettoche parla e il mondo. Questa posizione lo ha anche por-tato ad affermare una forma di solipsismo. Dice: «5.6 Ilimiti del mio linguaggio significano i limiti del miomondo». Ora invece, concepisce il linguaggio come fe-nomeno intersoggettivo, come modo di relazionarsi conaltre persone. Certo, spesso parliamo anche del mondo,ma parliamo con gli altri.

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Nella sua filosofia matura Wittgenstein insiste moltosul fatto che il linguaggio è possibile soltanto in una co-munità di individui che lo condividono. Condividere unlinguaggio significa condividere un insieme di regole chevanno osservate, a partire delle regole della grammatica,altrimenti non potremmo farci capire. Poi ci sono altreregole che determinano che cosa si può dire in una si-tuazione specifica: al bar, durante l’esame, a un funerale,in corte, ecc. Il linguaggio, in altre parole, è un’attivitàguidata da regole. In un certo senso funziona come ungioco: anche in una partita di scacchi o di calcio ci sonoregole che devono essere osservate (pensate all’arroccoo al fuori gioco) e, per quanto riguarda le mosse legit-time, ci sono delle situazioni nelle quali è sensato fare al-cune mosse e non altre. Per questo motivo Wittgensteinsviluppa la metafora del gioco linguistico, che sostituiscequella dell’immagine che usava nel Tractatus per descri-vere la relazione tra proposizione e fatto descritto. I gio-chi linguistici, per Wittgenstein, fanno parte delle prassisociali, che sono anch’esse attività guidate da regole chedeterminano la nostra convivenza in società. Partendoda questo presupposto, egli sviluppa una posizione assaiimportante e complessa. Accenno a un solo aspetto: ilsuo argomento contro la possibilità di un linguaggio pri-vato modificò il dibattito nell’ambito della filosofia dellamente, in quanto mostrò la insostenibilità delle teorie deidati sensoriali, molto diffuse all’epoca.

Quando Wittgenstein torna a fare filosofia è tormen-tato e profondamente turbato dai problemi che si pone.Nei testi di questa fase troviamo spesso espressioni diuna inquietudine interiore – causata dai problemi filoso-

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fici – e di un desiderio di ritrovare la tranquillità d’animo.Come già nel Tractatus egli suggerisce che i problemi na-scono da un uso impreciso o fuorviante del linguaggio;essi fanno male come «bernoccoli che l’intelletto si èfatto cozzando contro i limiti del linguaggio» (Ricerchefilosofiche, cit., § 119). Ma non si superano i problemi re-golamentando l’uso del linguaggio, come pensava in pre-cedenza:

[…] a noi non è dato costruire alcun tipo di teoria. […] [i]problemi filosofici… non sono problemi empirici, ma pro-blemi che si risolvono penetrando l’operare del nostro lin-guaggio in modo da riconoscerlo: contro una forte tendenza afraintenderlo. I problemi si risolvono non già producendonuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci ènoto. La filosofia è una battaglia contro l’incantamento delnostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio (RF, §109).

L’obiettivo del filosofo in questo periodo è di trovareciò che una volta definisce la parola redentrice [das erlö-sende Wort]: «La vera scoperta è quella che mi rende ca-pace di smettere di filosofare quando voglio. Quella chemette a riposo la filosofia, così che essa non è più tor-mentata da questioni che mettono in questione la filoso-fia stessa». (Wittgenstein non ha mai raggiunto questopunto, visto che ha scritto l’ultima osservazione duegiorni prima della sua morte). La filosofia, quindi, deveessere terapia, ma non potrà risolvere tutti i problemi conun colpo, dovrà analizzare ogni problema: «Vengono ri-solti problemi … non un problema. Non c’è un metododella filosofia, ma ci sono metodi, per così dire, differentiterapie» (RF, §133).

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Questo aspetto si riconosce nei testi pubblicati po-stumi. Essi consistono di sequenze di brevi paragrafi nu-merati – ma non più in un sistema gerarchico – di cuialcuni trattano «il medesimo soggetto; alcuni altri cam-biano bruscamente argomento, saltando da una regioneall’altra». Nella prefazione alle Ricerche filosofiche Witt-genstein parla delle difficoltà incontrate nel trovare laforma letteraria adatta:

Essenziale mi sembrava, in ogni caso, che i pensieri dovesseroprocedere da un soggetto all’altro secondo una successionenaturale e continua. Dopo diversi infelici tentativi di riunire inun tutto così fatto i risultati a cui ero pervenuto, mi accorsiche la cosa non mi sarebbe mai riuscita, e che il meglio chepotessi scrivere sarebbe sempre rimasto soltanto allo stato diosservazioni filosofiche; che non appena tentavo di costrin-gere i miei pensieri in una direzione facendo violenza alla loronaturale inclinazione, subito questi si deformavano. E ciò di-pendeva senza dubbio dalla natura della stessa ricerca, che cicostringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungoe in largo e in tutte le direzioni.

A prima vista, la struttura del testo sembra meno ri-gorosa di quella del Tractatus.

A volte l’autore presenta una serie di paragrafi chetrattano lo stesso punto, per poi cambiare bruscamente iltema e introdurre, senza preavviso, un altro pensiero. Datale successione di osservazioni emerge man mano unpercorso in cui vengono avvicinati, come dice Wittgen-stein nella prefazione, «gli stessi (o quasi gli stessi)punti… sempre di nuovo, da direzioni differenti», comese il testo riportasse «lunghe e complicate scorribande»durante le quali l’autore tenta di fissare le sue impressioni

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in schizzi e abbozzi «in modo da poter dare all’osserva-tore un’immagine del paesaggio. Così questo libro è dav-vero soltanto un album». L’autore di quest’opera nonvuole proporre una teoria o una spiegazione scientificaonnicomprensiva, ma piuttosto una raccolta di osserva-zioni puntuali come una collezione di tasselli che ven-gono raggruppati per far emergere lentamente unarappresentazione perspicua che permetta di vedere chia-ramente, e così «rende possibile la comprensione, checonsiste appunto nel fatto che noi vediamo connessioni».Inoltre, come in ogni mosaico, l’ordine dei tasselli nonsolo fa emergere un’immagine, ma mostra anche l’abilitàdi colui che lo ha ideato e messo in opera.

L’apparente leggerezza con cui Wittgenstein sviluppail corso dei suoi pensieri non deve indurre a pensare chetale percorso sia arbitrario. Il filosofo ha prestato parti-colare attenzione non solo alla formulazione, ma anche alraggruppamento delle sue osservazioni. Le sue operesono il risultato di un lungo processo di revisione: Witt-genstein spesso annotava brevi appunti in piccoli tac-cuini che portava con sé durante le sue passeggiate. In unsecondo momento trascriveva queste annotazioni, riela-borandole, in grossi quaderni, i cosiddetti Manuskript-bände. Rileggendo questi ultimi vagliava le osservazioni,per poi dettare quelle selezionate a un dattilografo. In unmomento successivo (e molto impegnativo) tagliava al-cune osservazioni dai dattiloscritti, poi raggruppava i fo-glietti così ricavati in un nuovo ordine. In seguito facevacomporre un nuovo dattiloscritto che si basava sui fo-glietti selezionati e su alcune osservazioni manoscritteche aveva inserito. Spesso non era contento del risultato,

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così ricominciava a rivedere il materiale e a riempierealtri quaderni. La cura con cui Wittgenstein ha determi-nato e rivisto l’ordine delle osservazioni dimostra chequeste seguono un percorso preciso e studiato. Di con-seguenza, per valutare la forma letteraria dei testi di Witt-genstein non ci si deve limitare ad analizzare le soleformulazioni delle osservazioni, ma anche il loro rag-gruppamento.

Ma cosa emerge da questo ordine? Da questi aspettistilistici e dal fatto che Wittgenstein non adotti una strut-tura argomentativa si vede che egli non mira a convin-cere per forza, ma a proporre. Come se non volesseimporre una conclusione al lettore, ma piuttosto invitarload accompagnarlo nelle sue scorribande. Il ritmo deltesto, il modo in cui i pensieri trovano il loro percorso na-turale – subendo talvolta cambiamenti improvvisi di di-rezione, e succedendo l’uno all’altro a volte facilmente,come in discesa, a volte in modo più stentato e impegna-tivo, come in salita – possono dare la sensazione di pas-seggiare con Wittgenstein, di ascoltare i monologhimentre li sviluppa, camminando. Tale sensazione è raf-forzata anche dal fatto che i testi sono colmi di richiami aldialogo. Diversamente dai grandi dialoghi della storiadella filosofia, dove gli interlocutori sono personaggi chevengono chiamati per nome e di cui il lettore apprendealmeno alcuni particolari, Wittgenstein allude soltanto aun tu impersonale del quale non rivela niente. Scambia ipropri pensieri con questo interlocutore implicitousando la seconda persona singolare come se volesse ri-volgersi direttamente al lettore, o come se ragionasse conse stesso. La mancanza di ogni informazione sull’interlo-

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cutore rende facile al lettore – almeno a quello simpate-tico con il ragionamento del filosofo – un’identificazionecon esso. Nel lettore può sorgere una sensazione di con-fidenza se non di complicità con l’autore.

L’esperienza di leggere Wittgenstein, quindi, non si-gnifica seguire l’esposizione sobria di una teoria filoso-fica, ma è piuttosto paragonabile a un incontro con unapersona reale che, strada facendo, diventa sempre più fa-miliare; che non cerca in primo luogo di convincere, madi condividere i propri dubbi, che si mette in discussionee che invita ad ascoltare, a riflettere le conclusioni chetrae e a trarne di proprie. Lo stile letterario delle sueopere contribuisce a far emergere una personalità con-creta che può evocare una sensazione di immediatezza econfidenza nel lettore. A mio avviso questo aspetto puòspiegare, almeno in parte, il successo che i testi di Witt-genstein hanno avuto con alcuni lettori, in particolarecon quelli che erano privi di una formazione filosofica ac-cademica. Può spiegare inoltre l’attrazione che, secondoEagleton, tanti poeti provano per Wittgenstein (anche iltitolo dell’articolo di Eagleton, My Wittgenstein, indicache Eagleton ha avuto appunto questa sensazione di con-fidenza). Inoltre può spiegare anche perché coloro chenon ne sono affascinati – lettori, per esempio, che siaspettano una sobria esposizione di argomenti a favoredi una posizione filosofica – spesso si mostrano sfavore-voli alla filosofia di Wittgenstein. I suoi testi di solito nonlasciano tranquilli, ma suscitano una reazione di con-senso o di avversione.

Credo che questo effetto sia voluto da Wittgenstein.Nei primi anni Trenta egli ha scritto l’abbozzo di una pre-

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fazione a un testo che è rimasto incompiuto, nella qualesottolinea quanto è importante per lui la confidenza conil lettore:

Questo libro è scritto per coloro che guardano con amiche-volezza allo spirito in cui è scritto […]. Se dico che il mio libroè destinato solo ad una piccola cerchia di persone (se così la sipuò chiamare), non voglio dire, con questo, che, per me, talecerchia sia l’élite dell’umanità; sono però le persone cui mi ri-volgo, e non perché migliori o peggiori delle altre, ma perchéformano la mia cerchia culturale, in certo modo sono gli uo-mini dalla mia patria, a differenza degli altri che mi sono stra-nieri (Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 24, ss.).

Tutto ciò mi permette di concludere che per Witt-genstein i problemi della filosofia non sono problemiastratti ma piuttosto concreti. Condividere questi pro-blemi con il lettore significa, quindi, condividere aspettimolto personali della propria vita con il lettore. In questosenso, i testi filosofici di Wittgenstein possono essere lettianche come una sorta di autobiografia astratta, o vo-lendo, di autoritratto intellettuale.

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SocrateKant

KierkegaardMarx

NietzscheFreud

WittgensteinCamus

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I MESSAGGI DEI GRANDI FILOSOFI

A cura di Ferruccio Andolfi

I messaggi dei grandi filosofi

A cura di Ferruccio AndolfiD

IABASIS

Un distillato dei più grandi filosofi della storia. Brevi saggi di autorevoli commentatori tratti da una serie di lezioni tenutesi a Parma. Emerge così l’attualità del conosci te stesso di Socrate, il dovere kantiano, l’autenticità di Kierkegaard, la morte di Dio nietzschiana, l’ambivalente rapporto di Marx con la modernità, la svolta linguistica di Wittgenstein, l’apertura solidale della ribellione camusiana, le potenzialità del desiderio in Freud. Un libro che non serve a dare risposte, ma a porsi le giuste domande. Per tornare autori e attori del-la propria vita. Un libro per insegnanti, studenti, curiosi.

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Coordinamento editorialeFabio Di Benedetto

Progetto grafico e copertinaAnna Bartoli

I ritratti dei filosofi sono diFrancesca Di Marco

ISBN 978-88-8103-792-6

© 2013 Diaroads srl - Edizioni Diabasisvicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia

telefono 0039.0521.207547 – e-mail: [email protected]

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D I A B A S I S

I messaggi dei grandi filosofi

a cura di

Ferruccio Andolfi

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Introduzione

Socrate, la coscienza inquietaFulvia De Luise

Kant, la felicità e il dovereFerruccio Andolfi

Kierkegaard, la ricerca della vita autenticaAlberto Siclari

Marx e i paradossi della modernitàStefano Petrucciani

Nietzsche e la morte di DioAlberto Meschiari

Freud e l’enigma del desiderioSilvia Vegetti Finzi

Wittgenstein, il filosofo dei poetiWolfgang Huemer

Camus, libertà e solidarietàRoberto Escobar

I RELATORI