Spinicci, Paolo - Lezioni Su Le Ricerche Filosofiche Di Wittgenstein

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    INDICE

    PREMESSA ................................. .................................. ................5

    LEZIONE PRIMA .................................. .................................. .....7

    1. UNIMMAGINE DEL LINGUAGGIO: IL MODELLO AGOSTINIANO.......72. COS SI OPERA CON LE PAROLE..............................................16

    LEZIONE SECONDA......................................................... .........24

    1. UNA MOSSA NEL GIOCO LINGUISTICO........................................242. UNA TEORIA DELLAPPRENDIMENTO LINGUISTICO?...................36

    LEZIONE TERZA .................................. ..................................... 43

    1. IL LINGUAGGIO E IL PROBLEMA DELLA COMPLETEZZA ...............432. LA FORMA E LA FUNZIONE DI UN SEGNO....................................49

    LEZIONE QUARTA .............................. ................................... ...64

    1. LE ANTENNE DEI NOMI DEBBONO POTER TOCCARE GLI OGGETTI:

    DEISSI E INTENZIONE ...................................................................64 2. IO VOGLIO GIOCARE A SCACCHI, ED UNO PONE SUL RE BIANCOUNA CORONA DI CARTA.............................................................69

    LEZIONE QUINTA ............................... .................................. ....76

    1. UNA DIVERSA VIA: I NOMI E GLI OGGETTI SEMPLICI ...................762. UN SAGGIO IMPORTANTE: ON DENOTING(1905) DI BERTRANDRUSSELL ....................................................................................80

    LEZIONE SESTA ................................. ................................... ....88

    1. IL TRACTATUS LOGICO-PHILOSOPHICUS E LA TEORIA GENERALEDELLIMMAGINE .........................................................................88

    2. IL TRACTATUS: LA NATURA DEGLI OGGETTI. .........................96LEZIONE SETTIMA... ................................... ........................... 107

    1. NOME, SIGNIFICATO E PORTATORE .........................................107

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    2. LA RELAZIONE DI RAFFIGURAZIONE........................................114

    LEZIONE OTTAVA.............................. ................................... . 117

    1. IL SEMPLICE E IL COMPLESSO. ................................................1172. LE PROPOSIZIONI COMPLETAMENTE ANALIZZATE E I GIOCHILINGUISTICI ................................... ........................................... 124

    LEZIONE NONA......................... ................................... ........... 129

    1. LOGGETTO E IL PARADIGMA..................................................1292. OGGETTI PLATONICI, OGGETTI PARADIGMATICI.......................136

    LEZIONE DECIMA............................... .................................. ..141

    1. LA FORMA PROPOSIZIONALE E LA MOLTEPLICIT DEI GIOCHI ...1412. SOMIGLIANZE DI FAMIGLIA E IDEE PLATONICHE ...................... 150

    LEZIONE UNDICESIMA........... ................................ ............... 161

    1. CI CHE UNIMMAGINE DICE ..................................................161 2. LIMMAGINE DETERMINA IL SUO IMPIEGO? .............................168

    LEZIONE DODICESIMA...................................... .................... 174

    1. COMPRENDERE UNA REGOLA .................................................174 2. LAPPLICAZIONE DI UNA REGOLA E LA METESSI PLATONICA.....182

    LEZIONE TREDICESIMA............................... ......................... 193

    1. SEGUIRE UNA REGOLA ...........................................................193 2. LA RIPETIZIONE E LACCORDO................................................198

    LEZIONE QUATTORDICESIMA.............................................210

    1. LA CONCORDANZA E LA FORMA GRAMMATICALE ....................2102. VERIT E GRAMMATICA.........................................................220

    LEZIONE QUINDICESIMA.............................. ..................... ..231

    1. LARGOMENTO DEL LINGUAGGIO PRIVATO .............................2312. DI CHE COSA PARLO QUANDO PARLO DELLE MIE SENSAZIONI ...241

    LEZIONE SEDICESIMA.................................. ......................... 250

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    1. UN NUOVO COMPORTAMENTO DEL DOLORE ............................2502. LA PAROLA IO...................................................................260

    LEZIONE DICIASETTESIMA................................................. . 273

    1. GIOCHI LINGUISTICI E MONDO DELLA VITA .............................2732. QUESTIONI DI METODO ..........................................................282

    LEZIONE DICIOTTESIMA...................................................... 287

    1. DUE IMPIEGHI DELLA PAROLA VEDERE................................2872. LE FIGURE AMBIGUE E IL VEDERE COME. .............................296

    LEZIONE DICIANNOVESIMA ................................... ............. 304

    1. VEDERE E PENSARE ...............................................................304 2. IL VEDERE COME E LE SUE CONDIZIONI DI POSSIBILIT.............313

    LEZIONE VENTESIMA............................ ......................... .......323

    1. VEDERE COME E INTERPRETARE .........................................323 2. LA FAMILIARIT E LA COSCIENZA PERCETTIVA........................328

    LEZIONE VENTUNESIMA........... ........................................... 337

    CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ..................................................337

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    PREMESSA

    Lobiettivo di queste dispense pu essere detto in breve: vorrei ripro-porre in una forma un po pi ordinata il contenuto delle lezioni diquestanno accademico (2001/02) sulleRicerche filosofiche di LudwigWittgenstein. Su questo libro cos importante si scritto molto ed esi-stono opere introduttive e commenti testuali, e questo fa s che sia ne-

    cessario chiedersi a quale fine legare la preparazione di un esame anchea queste pagine.

    Vi sono tre ragioni che, forse, giustificano questa scelta.La prima la pi ovvia: per tre mesi, e con grande continuit, un buon

    numero di studenti ha partecipato in modo serio e vivace alle lezioni delcorso di Filosofia teoretica I ed il modo pi semplice per dire che sonosoddisfatto del modo in cui abbiamo lavorato insieme quello di unire ailoro appunti anche i miei.

    La seconda ragione meno personale: volevo mostrare come fossepossibile legare la comprensione dei temi principali della prima parte del-leRicerche filosofiche al commento di alcune osservazioni wittgenstei-niane, che possono segnare alcuni punti fissi negli schizzi paesaggistici

    che Wittgenstein ci offre. Si tratta di una scelta che ha un obiettivo preva-lentemente didattico: troppo spesso ci si dimentica di leggere i testi filo-sofici e ci si accontenta di saperli attraverso ci che raccontano testi dicarattere espositivo. Il risultato , talvolta, sconfortante: possiamo saperemolte cose di filosofia (e pu anche capitare che ci non accada) e pos-siamo studiare per anni, ma non avere il gusto per i problemi filosofici ocredere che semplicemente non ve ne siano pi. Per questo ho cercato dispiegare Wittgenstein, discutendone passo dopo passo le osservazioni ed su questi pensieri che vorrei che ci si soffermasse. Di quilandamento di questeLezioni, il loro continuo rimando alle pagine wit-tgensteiniane e il loro volontario silenzio sulle molte diverse letture chela riflessione critica e filosofica ha ritenuto opportuno dare di questo te-

    sto.Vi, infine, una terza ragione e ci riconduce alla dimensione

    interpretativa che in queste lezioni si cercato di far valere unadimensione interpretativa che ha nellattenzione alla dimensione delradicamento dei giochi linguistici il suo nucleo centrale. in questa luce,

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    giochi linguistici il suo nucleo centrale. in questa luce, del resto, che sigiustifica lattenzione alla tematica del vedere come a cui, in queste le-zioni, si cercato di dare un diverso peso e, anche, un senso diverso daquello che solitamente si ritenuto opportuno attribuirle.

    Unultima parola, infine, deve essere spesa per giustificare limmaginedi copertina. Si tratta di unopera molto bella di Vincenzo Agnetti che cid da pensare, e in vario modo, sulla traccia ironica di un paradosso che

    si annuncia gi nel suo titolo. Per chi la guardi lasciandosi guidare dalleriflessioni wittgensteiniane, questo libro aperto che mantiene la sua pro-messa di dirci qualcosa di sensato senza chiederci di sprofondare nel se-greto delle sue pagine ma incorniciando il mondo che ce lha fatto aprire,pu davvero apparire come un libro filosofico per eccellenza, poich per Wittgenstein la filosofia non una dottrina che possa spiegarci co-se nuove, ma una prassi di chiarificazione concettuale che pu soltantoaiutarci a vedere meglio ci che gi sappiamo.

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    LEZIONE PRIMA

    1. Unimmagine del linguaggio: il modello agostiniano

    LeRicerche filosofiche di Wittgenstein si aprono con una citazione di

    Agostino che, nelle Confessioni, ci propone nella forma di un raccontoin prima persona la genesi del linguaggio nella mente di un bambino.Da una parte vi sono gli adulti (i majores homines) che parlano e agi-scono, dallaltra vi il bambino che osserva attentamente e che cerca diimprimere nella memoria il nesso tra il suono che sente pronunciare eloggetto che essi intendono e che diviene manifesto in virtdellimmediata chiarezza dei gesti e dei comportamenti di chi parla.Poi, allesercizio attento del silenzio seguono i primi gesti linguistici: ilbambino impara a piegare la bocca ai suoni degli altri e linfanziascompare, e con essa il ricordo di quel primo apprendimento. Il bambi-no ora parla ed entra a far parte del procelloso consorzio degli uomi-ni il suo attento e silenzioso osservare il comportamento dei majo-

    res homines gli ha infine indicato la via per far parte di una nuova co-munit, per non sentirsi pi straniero rispetto ai suoi stessi genitori. Co-s , appunto, devono essere andate le cose, almeno secondo Agostino.

    Si tratta evidentemente di un racconto e non di un fatto di cui la memo-ria possa farsi garante, e gi questo un punto su cui siamo chiamati a ri-flettere: anche se ci che Agostino dice sembra plausibile, non si trattatuttavia di unevidenza empirica ma solo di un racconto che abbiamosentito molte volte e che, proprio per questo, ad ogni nuova narrazione ci sembrato insieme pi familiare e pi vero. Ora, ci che un racconto purendere di volta in volta pi persuasivo non un fatto, ma solo la suapossibilit. I racconti mitici dellorigine hanno proprio questa funzione:ci immaginiamo come debbano essere andate le cose in un passato che

    non tollera di essere ulteriormente precisato e la favola che ripetiamo di-viene il luogo in cui si disegna unimmagine della realt, un modello chece ne svela i tratti essenziali. Ci che era in principio diviene ci che inlinea di principio , e questa piega immaginativa che si lega al discorso

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    sullorigine si fa avanti anche in questa antica favola sullapprendimentolinguistico che ci propone unimmagine del linguaggio di cui ci siamonel tempo convinti e che costituisce lo sfondo intuitivo di una molteplici-t di teorie filosofiche e di ragionamenti sulla natura del linguaggio. I no-stri pensieri sono spesso fatto cos : sorgono sullo sfondo di unipotesi, diunimmagine che deriva da una possibile spiegazione di un fatto. Vo-gliamo prepararci il terreno per riflettere sul linguaggio e raccontiamo

    per questo una favola che ci invita a compiere rapidamente il passo dalcos debbono essere andate le cose ad una prima delineazione intuitivadellessenza del fenomeno che ci sta a cuore.

    Ora, quale sia limmagine del linguaggio che Agostino ci invita a con-dividere presto detto:

    In queste parole troviamo, cos mi sembra, una determinata immagine della naturadel linguaggio umano. E precisamente questa: le parole del linguaggio denominanooggetti le proposizioni sono connessioni di tali denominazioni. Inquestimmagine del linguaggio troviamo la radice dellidea: ogni parola ha un si-gnificato. Questo significato associato alla parola. loggetto per il quale la paro-la sta (Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967, 1).

    La discussione di questintreccio di tesi ci occuper a lungo, poich co-

    stituisce il filo conduttore di buona parte delle Ricerche filosofiche, etuttavia opportuno fin da principio raccogliere qualche considerazionesul modello di linguaggio che Wittgenstein coglie nelle pagine di Ago-stino. Questimmagine si articola in due punti: le parole denominanooggetti; le proposizioni sono connessioni di tali denominazioni.

    1) Soffermiamoci innanzitutto sul primo punto. Le parole sono innan-zitutto nomi che stanno per un oggetto e il bambino le impara per-ch vede gli adulti indicarle e insieme pronunciare un suono partico-lare. Quando gli adulti nominavano qualche oggetto e, pronuncian-do quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavo e ri-tenevo che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quandovolevano indicarla Agostino si esprime cos , e in questo modo

    di raccontare le cose implicito che da una parte vi siano gli oggettie dallaltra vi siano le voci che divengono significanti quando ilbambino coglie nei gesti dei genitori una definizione ostensiva chetrasforma quel suono in un nome della cosa. Lorigine del linguag-

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    gio per il bambino tutta qui: in un gesto che gli permette di pensa-re ad una cosa quando sente una voce, e di creare cos le antenne chepermettono al nome di denominare loggetto per cui sta. E ci quanto dire: il gesto crea un ponte che ci permette di accordare inmodo univoco il nome alla cosa, un ponte che ci permette di pen-sare nel segno il designato. Lostensione diviene cos il mezzo chepermette alle parole di toccare gli oggetti del mondo e che ci con-

    sente di attribuire al segno un significato e di raccordare alla formadelloggetto inteso la grammatica del significato che lo intende. Checosa significhi questultima considerazione presto detto: un suonoe il violino che lo genera sono due oggetti che hanno una formamolto diversa che determina quale sia lo spazio delle loro possibilioccorrenze: di due note che ascoltiamo si pu chiedere quale sia piacuta e quale pi grave, ma non avrebbe senso domandare quale siapi pesante il peso una propriet che spetta alle cose come ilviolino, ma che non pu essere attribuita ai suoni. Ora, quando os-serviamo un oggetto non abbiamo certo una conoscenza compiuta ditutte le sue propriet, ma dobbiamo comunque averne gi colto laforma: nella definizione ostensiva il nome acquista cos , insieme al

    suo riferimento alloggetto, una forma che circoscrive lo spazio del-le sue occorrenze dotate di senso.

    2) Siamo ricondotti cos al secondo punto cui abbiamo dianzi fattocenno: le proposizioni constano di nomi e hanno un senso proprioperch ci dicono come stanno le cose, mostrandoci in quale relazio-ne stiano i nomi che le denominano. Le proposizioni sono immaginiche raffigurano uno stato di cose, e i nomi sono i punti in cuilimmagine tocca la realt, divenendo cos applicabile ad essa. Nellaproposizioni i nomi stanno tra loro in una certa relazione ed suffi-ciente accostare i nomi agli oggetti perch si asserisca qualcosa: nonappena i nomi toccano gli oggetti, la proposizione dice che le cosestanno tra loro proprio cos , come la proposizione mostra. E diremo

    che sono vere quelle proposizioni che ci dicono che le cose stannoproprio come stanno, false quelle che propongono una relazione tra inomi che non ha invece luogo tra le cose denominate.

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    Non vi dubbio che queste brevi considerazioni potrebbero essere ulte-riormente arricchite e che limmagine agostiniana del linguaggio da cuiabbiamo preso le mosse potrebbe essere trasformata in una teorizzazio-ne effettiva se solo ci liberassimo dal velo delle citazioni e lasciassimoparlare il testo cui Wittgenstein pensa quando scrive queste prime os-servazioni: il Tractatus logico-philosophicus. Ma non questa la viache le Ricerche filosofiche ci propongono; tuttaltro: Wittgenstein non

    ci invita a cercare di costruire una teoria che dia consistenza aquestimmagine, ma ci chiede invece di saggiarne con calma la percor-ribilit. Agostino ha troppa fretta:

    Di una differenza tra tipi di parole Agostino non parla. Chi descrive in questo modolapprendimento del linguaggio pensa, credo, anzitutto a sostantivi come tavolo,sedia, pane, e ai nomi di persona, e solo in un secondo tempo ai nomi di certeattivit e propriet; e pensa ai rimanenti tipi di parole come a qualcosa che si aggiu-ster (ivi)

    Per Agostino, lorigine ci mostra che lessenza del linguaggio nellatto del nominare, ed anche se nelle nostre lingue non ci sono sol-tanto nomi, dobbiamo aver fiducia nel fatto che prima o poi le cose siaggiusteranno: il filosofo trover il modo per riscoprire il nome e la sua

    relazione significante anche dietro alle forme grammaticali pi com-plesse. Se cos che dobbiamo avere un tempo appreso il linguaggio, cos che dovr essere la sua forma anche se non tutto sembra sin daprincipio accordarsi con limmagine che ci domina.

    Da questimmagine dobbiamo liberarci almeno per Wittgenstein, eci significa in primo luogo rendersi conto che limmagine che domina lepagine agostiniane frutto di una conclusione affrettata e insieme dellacertezza che vi sia davvero una forma del linguaggio, una sua essenzache si dispiega nel nome e nel suo connettersi ad altri nomi nellunitproposizionale.

    Ma le cose forse non stanno cos , e per insinuare nel lettore il dubbioche sia falsa limmagine che Agostino sa rendere cos persuasiva Wit-

    tgenstein lo costringe ad immaginare un diverso esempio. Dobbiamo li-berarci da un modo di pensare e per farlo non possiamo semplicementeproporre argomenti, ma dobbiamo anche mostrare che possibile orien-tare diversamente le nostre riflessioni. Ci serve innanzitutto un nuovo

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    punto di avvio e per farlo siamo invitati ad immergersi nelle pieghe di unnuovo racconto:

    Pensa ora a questimpiego del linguaggio: mando uno a far la spesa. Gli do un bi-glietto su cui stanno i segni: cinque mele rosse. Quello porta il biglietto al frutti-vendolo; questi apre il cassetto su cui c il segno mele; quindi cerca in una tabel-la la parola rosso e trova, in corrispondenza ad essa, un campione di colore; poirecita la successione dei numeri cardinali supponiamo che la sappia a memoria fino alla parola cinque e a ogni numero tira fuori dal cassetto una mela che ha

    il colore del campione. Cos , o pressappoco cos , si opera con le parole (ivi, 1).

    Di primo acchito, non facile comprendere che cosa si debba fare diquesta strana storiella. Ma alcune differenze balzano agli occhi.

    La prima differenza concerne la natura della narrazione che ci vieneproposta. Agostino ci invita ad immaginare un racconto per rispondere aduna domanda empirica: ci chiediamo come di fatto abbiamo imparato aparlare ed immaginiamo una spiegazione di questo lontano evento inconformit con unimmagine del linguaggio che a sua volta corroboratadalla concretezza del racconto che ci viene proposto e dal suo porsi comeun ricordo che ci solo fattualmente negato. La scena su cui Wittgen-stein richiama la nostra attenzione non ha queste pretese: non chiede diessere letta come narrazione di un evento reale e non intende spiegarenulla, ma ci mostra un possibile uso del linguaggio, sia pure di unlinguaggio semplicissimo che non va al di l di poche parole, coltetuttavia nella loro funzione comunicativa. Cos , ad unipotesi che assumela forma incerta di un mito dellorigine, Wittgenstein contrappone unafinzione che ci consente di vedere il linguaggio allopera: ci che vienenarrato assume dunque la forma di un esperimento mentale che mette allaprova la grammatica dei nostri concetti, descrivendo le forme della loroapplicazione.

    Vi tuttavia una seconda differenza su cui dobbiamo riflettere un pocoe che traspare nellapparente semplicit dellesempio proposto. Vi unfoglio su cui qualcuno ha scritto tre sole parole o, come Wittgenstein siesprime, tre segni diversi: cinque, mele, rosse. Ognuna di questeparole dovrebbe ricondurci, secondo il racconto agostiniano, adunidentica origine: ad una definizione ostensiva che dovrebbe essere ingrado di mostrarci che mele il nome di un frutto, rosse il nome diun colore, cinque il nome di un numero. Eppure, a questa pretesa e-

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    guaglianza che accomuna i segni nel mostrare la loro comune natura dinomi, fa da contrappunto la diversit delle reazioni che accompagnano lalettura di quel biglietto:

    Il fruttivendolo [] apre il cassetto su cui c il segno mele; quindi cerca in unatabella la parola rosso e trova, in corrispondenza ad essa, un campione di colore;poi recita la successione dei numeri cardinali supponiamo che la sappia a memo-ria fino alla parola cinque e a ogni numero tira fuori dal cassetto una mela cheha il colore del campione (ivi).

    Le reazioni sono appunto diverse. Quando legge la parola mele ilfruttivendolo apre un cassetto: quel segno dice di prendere degli ogget-ti, che sono accomunati dallappartenere ad un certo tipo di cose; la pa-rola rosso invece permette di trascegliere tra le mele del cassettoquelle che hanno una stessa propriet sensibile e ci implica il confron-to con un campione che valga come metro di quella propriet; cinqueinfine un segno che ci costringe ad una prassi complessa: indica sinoa che punto dobbiamo procedere nel porre in corrispondenza biunivocale mele che leviamo dal cassetto e le parole della cantilena dei numeriche ripetiamo uno dopo laltro. Ed evidente che loperazione che laparola cinque ci invita a compiere ha in questo caso un senso solo

    perch abbiamo gi circoscritto un insieme di oggetti: per poter contaredobbiamo sapere gi quali sono gli oggetti che vanno contati, e ci appunto quanto dire che le operazioni cui quelle tre parole ci invitanodebbono essere eseguite secondo un certo ordine. Di qui la differenzacon la prospettiva agostiniana risulta con chiarezza: Agostino crede cheil linguaggio consti di nomi e che i nomi siano come le antenne checonsentono al linguaggio di toccare la realt, fissandola ai suoi costi-tuenti ultimi gli oggetti. Ma questimmagine del linguaggio sembradissolversi non appena ci poniamo sul terreno dellimpiego concretodei segni, poich gi da un esempio cos semplice si mostra che le paro-le non si usano tutte nello stesso modo: se descriviamo le parole nel lo-ro uso concreto risulta quanto poco si sia detto quando si osserva che

    cinque il nome di un numero e rosso il nome di un colore.Del resto, nella norma il linguaggio non serve affatto come uno stru-mento per dare un nome alle cose: classificare gli oggetti pu essere tal-volta importante, ma non che una tra le diverse funzioni del linguaggio,

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    e se a questa funzione si attribuisce un peso cos significativo, ci accadesoltanto perch lenfasi portata sulla nozione di denominazione ci per-mette di dimenticare il nesso che il linguaggio stringe con la prassi. Nonvi dubbio che la prospettiva delleRicerche filosofiche sia ben diversa.Per Wittgenstein il linguaggio parte di un agire, e pu essere inteso solose lo si coglie nella sua valenza strumentale. Grazie al linguaggio fac-ciamo molte diverse cose, e questa diversit caratterizza anche le forme

    linguistiche anche se rimane celata al di sotto della relativa eguaglianzaesteriore delle parole:

    Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c un martello unatenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, chiodi e viti. Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto diverse sono le funzio-ni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e l). Naturalmente quello che ci con-fonde luniformit nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, oche troviamo scritte o stampate. Infatti, il loro impiego non ci sta davanti in modoaltrettanto evidente. Specialmente non quando facciamo filosofia (ivi, 11).

    Qui, con lefficacia che caratteristica di molte sue analogie, Wittgen-stein ci invita a pensare al linguaggio come ad una cassetta degli stru-menti, che racchiude secondo un ordine vario utensili che alludono adiverse funzioni: proprio come gli strumenti della cassetta servono peravvitare, inchiodare, incollare e limare, cos le parole servono per no-minare cose, per indicare luoghi, per esprimere uno stato danimo, perimpartire ordini, per minacciare, per pregare e cos via. Dire che tutte leparole denotano qualcosa dunque unespressione tanto generica da es-sere del tutto inutilizzabile, a meno che non si voglia con essa distin-guere le parole dai balbettii:

    Dicendo: ogni parola di questo linguaggio designa qualcosa, non abbiamo ancoradetto proprio niente; a meno che non si sia precisata la distinzione che intendiamo fa-re. (Potrebbe ben darsi, per esempio, che volessimo distinguere le parole del linguag-gio da parole senza significato, come quelle che troviamo nelle poesie di Lewis Car-roll (ivi, 13).

    Certo, la forma delle parole non sempre tradisce la loro effettiva diver-sit e Wittgenstein osserva che quello che ci confonde luniformitnel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che trovia-mo scritte o stampate. Infatti, il loro impiego non ci sta davanti in modoaltrettanto evidente. Ma questuniformit ovvia. Le parole hanno tut-

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    te la stessa forma, poich tutte sono usate dalluomo, e cos come nellacabina di un treno la differente funzione delle leve mascheratadallavere tutte unimpugnatura che si adatta alla nostra mano, cos ladiversa funzione delle parole scompare se ci limitiamo ad osservare laloro forma esterna.

    Ricompare invece, e con estrema chiarezza, se teniamo sotto gli occhinon la forma esterna delle parole, ma il loro impiego. Qui la diversit di-

    viene immediatamente avvertibile, perch diverso il modo in cui la pa-rola si lega alla prassi, chiarendosi in essa e motivandone il decorso. Co-s , possiamo anche dire che tutte le parole del linguaggio designano qual-cosa, proprio come possiamo dire che ogni strumento nella cassetta servead un qualche scopo, ma evidente che al di l di questa astratta genera-lit non possibile andare e che appena ci si discosta da essa comincianodi fatto le differenze. Assimilando la descrizione degli usi delle parole commenta Wittgenstein non si rendono per questo tali usi pi simi-li. Ma se ci accade, se effettivamente vi la tendenza ad assimilare leune alle altre le parole, la ragione ricorda Wittgenstein non sol-tanto nella relativa eguaglianza della forma grammaticale delle parole; vi infatti un secondo motivo: che, quando facciamo filosofia, tendiamo a

    dimenticarci delluso concreto delle parole. Il filosofo si pone cos difronte al linguaggio: guarda le parole di cui consta e si chiede come siapossibile che un segno possa significare qualcosa. Ecco, le parole stannoper un significato; qualcosa di meramente sensibile sta per ci che vi dipi chiaramente ideale, ed il filosofo di fronte a questa inaudita commi-stione di genere deve pensare e proporre una spiegazione. La domandacome pu un segno significare qualcosa? sembra finalmente proporgliun compito che alla sua altezza, anche se in realt si tratta soltanto diuna mossa sbagliata la mossa che consiste nel prendere le distanzedalla descrizione dellimpiego concreto del linguaggio, del suo occorrerecome momento di una prassi pi ampia

    Lattenzione per il momento operativo ci invita del resto a rivolgere lo

    sguardo su una terza differenza notevole tra il racconto di Agostino e ilbreve interludio che Wittgenstein ci propone. Agostino vuole mostrarcicome possiamo imparare a legare le voci alle cose: il primo segno lingu i-stico dunque necessariamente il nome, poich nel nome che la parola

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    trova il suo punto di contatto con il mondo. Quanto alla proposizione, es-sa appunto una connessione di nomi e ha quindi come suo necessarioprerequisito che le parole abbiano gi un significato. Questo problema singolarmente assente dalla prospettiva wittgensteiniana che nel suo e-sempio non parla n di nomi n di parole, ma di segni e che sembra invi-tarci ad intendere ci che su quel foglio si legge come un ordine e quindicome una mossa compiuta nel gioco comunicativo. In principio la pro-

    posizione, non il nome, e che cos stiano le cose per Wittgenstein lo siscorge con chiarezza se ci disponiamo ancora una volta sul terreno di unafinzione consapevole:

    Immaginiamo un linguaggio per il quale valga la descrizione dataci da Agostino.Questo linguaggio deve servire alla comunicazione tra un muratore, A, e un suoaiutante, B. A esegue una costruzione in muratura; ci sono mattoni, pilastri, lastre etravi. B deve porgere ad A le pietre da costruzione, e precisamente nellordine incui A ne ha bisogno. A questo scopo i due si servono di un linguaggio consistentedelle parole: mattone, pilastro, lastra, trave. A grida queste parole; B gliporge il pezzo che ha imparato a portargli quando sente questo grido. Consideraquesto un linguaggio completo (ivi, 2).

    Un equivoco deve essere fin da principio messo da parte: Wittgensteinci chiede di immaginare un linguaggio che possa essere descritto senza

    oltrepassare i limiti che Agostino sembra tracciare intorno al nucleo ul-timo dei fatti linguistici e cos ci imbattiamo in una finzione in cui nonvi posto se non per parole che ci riconducono ad oggetti concreti chesi possano indicare e toccare con mano le pietre e i pilastri, appunto.Ma anche se accettiamo di mettere provvisoriamente da parte i numera-li o i nomi dei colori la differenza resta, perch nel breve racconto cheWittgenstein ci propone mattone, pilastro, trave o lastra nonsono soltanto nomi e non indicano soltanto il punto in cui il linguaggiotocca la realt, ma sono invece mosse complete in un gioco che si arti-cola in richieste e risposte: quando A grida queste parole, B deve ri-spondere portando ci che gli di volta in volta richiesto. Comprendereil significato di quelle parole vuol dire allora descrivere come esse ope-

    rino nel contesto dialogico in cui occorrono, e se ci poniamo in questaprospettiva la nostra attenzione non pi rivolta a cogliere il nesso chenel nome lega un segno al mondo, ma deve piuttosto dirigersi sulla fun-zione che i segni queste cose tra le altre svolgono nel contesto

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    della comunicazione, in un contesto fatto di cose, persone e scopi chesono parte di quel mondo in cui comunque ci muoviamo. Ma ci quanto dire che dal problema agostiniano abbiamo preso commiato.Ora non ci chiediamo pi come sia possibile pensare nel segno la cosa ela soluzione del nostro problema non deve pi rendere conto di comesia possibile tenere insieme nel nome tre cose tanto diverse quanto unavoce, una cosa ed un pensiero che la significa, poich la descrizione

    delluso linguistico ci invita ad una riflessione differente: dobbiamomostrare come nella scena stessa e nel gioco delle richieste e delle ri-sposte nel grido lastra! e nel gesto di chi la porge si definisca ilsenso delle nostre parole.

    2. Cos si opera con le parole

    Le considerazioni che abbiamo proposto sin qui ci hanno permesso dimettere in luce alcune significative critiche che Wittgenstein rivolge almodello agostiniano. Queste critiche sono connesse le une alle altre, ela dimensione descrittiva e il richiamo alla concretezza dellesempio silegano alla constatazione che le parole si usano, ed in vario modo.

    Del resto, proprio a partire da questo ordine di idee che diviene pos-sibile far luce su una quarta significativa differenza che separa il ricordoimpossibile di Agostino dallesempio che Wittgenstein ci propone. Ri-leggiamo il passo delle Confessioni da cui abbiamo preso le mosse: Ago-stino ci invita ad assumere il punto di vista di un bambino che vuole im-parare a parlare e che, proprio per questo, ritiene di dover assumere ilruolo dello spettatore, di chi osserva ci che gli altri fanno nel tentativo dirisolvere passo dopo passo lenigma della corrispondenza tra suoni epensieri. Per dirla con Agostino: da una parte vi il procelloso consor-zio degli uomini, dallaltra un bambino che osserva e ragiona, ma nonper questo partecipa ancora alla vita sociale che lo attornia. E ci quan-to dire: il bambino che impara a parlare si dispone rispetto al linguaggio

    come linterprete si pone di fronte ad un codice, ad un insieme di segniche debbono essere interpretati, e che possono esserlo solo perch ilbambino che osserva attentamente il comportamento degli adulti imparaa risalire dal segno a ci che sta dietro di esso al pensiero che lo rende

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    significante.Il quadro che Wittgenstein traccia ben diverso. Nella scena che Wit-

    tgenstein ci invita ad immaginare il linguaggio si lega ad una prassi con-creta, di cui le singole parole sono parte integrante, ad un agire in cui nonvi sono spettatori, ma attori coinvolti in un compito che li impegna. In al-tri termini: la vicenda cui Wittgenstein ci invita a pensare, contrapponen-dola alla narrazione agostiniana, appartiene al procelloso consorzio de-

    gli uomini e ci significa che in questo caso il linguaggio non lamoneta che si deve pagare per poter finalmente accedere ad unacomunit, ma ci appare come un momento che appartiene ad una prassiconsolidata che presuppone un accordo. Allo spettatore che osserva unmondo cui ancora non appartiene si sostituisce il racconto di un agire cheper giungere in porto costretto ad avvalersi anche del linguaggio.

    Wittgenstein lo dice chiaramente e fin dalla prima battuta: non dob-biamo pensare al linguaggio ma ad un suo impiego effettivo, e la descri-zione cos minuziosa delle reazioni che accompagnano la lettura del bi-glietto volta a suggerire che il senso del gesto linguistico cui assistiamonon al di l dei segni, ma racchiuso nella prassi che si lega al loro im-piego. Leggiamo rosso e andiamo a consultare una tabella, per poi sce-

    gliere un oggetto il cui colore corrisponda a ci che la tabella ci dice, e laparola cinque ci invita ad una prassi ancor pi complessa alla prassidel contare. Cos, o pressappoco cos , si opera con le parole scriveWittgenstein, e questo insistere sul momento operativo non casuale, maci invita a pensare alle parole come a strumenti la cui funzione pu esserecolta soltanto se la si dispone allinterno del contesto operativo cui ineri-sce.

    Una differenza importante, non vi dubbio, ma di fronte a queste con-siderazioni la nostra prima reazione potrebbe essere improntata ad uncerto fastidio. Certo, chi legge la lista della spesa pu comportarsi pro-prio cos , e tuttavia difficile sottrarsi allidea che un simile comporta-mento altro non sia che la conseguenza del fatto che chi legge ha comun-

    que compreso il messaggio ricevuto e ha tradotto i segni nei pensieri cor-rispondenti. in questa direzione che si orientano le obiezioni che Wit-tgenstein stesso si rivolge, dando come di consueto un ritmo dialogico al-le sue riflessioni:

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    Ma come fa a sapere dove e come deve cercare la parola rosso, e che cosa devefare con la parola cinque?. Bene suppongo che agisca nel modo che ho de-scritto. A un certo punto le spiegazioni hanno un termine. Ma che cos il signi-ficato della parola cinque? Qui non si faceva parola del significato; ma solodel modo in cui si usa la parola cinque (ivi, 1).

    Alla chiarezza della domanda non sembra far eco una risposta soddisfa-cente. Si chiedono le ragioni per le quali il commerciante dellesempiosi comporta proprio come noi ci attendiamo che si comporti e si rispon-de soltanto che si suppone che cos agisca, per poi rifiutare ogni altraspiegazione. Quanto poi alla richiesta di chiarire quale sia il significatodei termini in questione si oppone un diniego che insieme un ricono-scimento del fatto che ci che si detto non concerne i pensieri che ac-compagnano i nostri gesti linguistici. Sembra dunque che al suo inter-locutore Wittgenstein non possa che opporre un imbarazzato silenzio.

    Si tratta di unimpressione sbagliata, da cui ci si pu liberare se ci sidomanda che cosa voglia dire Wittgenstein quando afferma che le spie-gazioni [Erklrungen] hanno un termine. Nella norma, spiegare vuol direricondurre qualcosa a qualcosaltro, che pu divenire a sua volta oggettodi spiegazione, dando vita ad una vera e propria concatenazione di spie-gazioni. Ogni spiegazione, tuttavia, deve arrestarsi quando giunge sul ter-

    reno dei dati primitivi: per esempio, posso spiegare che cos un tavolodicendo che un insieme di pezzi di legno tagliati ad arte e disposti se-condo una certa regola. Ma se mi si chiedesse poi che cosa intendo conlegno, con superficie rettangolare, con angolo retto, e cos via, dovreiprobabilmente fare ricorso ad esemplificazioni intuitive: dovrei cio mo-strare un pezzo di legno, una superficie di quella forma, un angolo diquella grandezza e rendere evidente che cosa intendo accompagnando imiei gesti con una prassi pi articolata, proprio come fa il maestro quan-do vuole spiegare a un bambino che cosa sia un angolo e quando sia ret-to, che forma abbia un rettangolo e cos via. Certo, potremmo tentare dispingere pi in l le nostre spiegazioni ma ci imbatteremo comunque indati primitivi, in relazioni che non possono pi essere spiegate e definite,

    ma che si colgono poich mostrano sotto i nostri occhi.Di qui dobbiamo muovere per comprendere che cosa spinga Wittgen-

    stein ad affermare proprio in questo contesto che le spiegazioni hanno untermine. E la conclusione che dobbiamo trarre chiara: se dobbiamo ri-

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    nunciare ad offrire una spiegazione del motivo per cui si reagisce in uncerto modo ad un certo atto linguistico ci accade perch siamo gi giuntisul terreno di quel fenomeno originario di cui non sono possibili spiega-zioni, ma solo illustrazioni esemplari.

    Ma qual questo fenomeno originario di cui non si pu pi dare spie-gazione? In questo suo primo pensiero Wittgenstein ce lo dice soltanto amezza voce, quando ci invita a rinunciare a dire che cos il significato

    della parola cinque, per concentrarsi invece sul modo in cui la parolacinque si usa. E proprio questa affermazione, che sembra voler abbas-sare le pretese di una riflessione appena abbozzata, ci invita invece acompiere una mossa teorica le cui conseguenze filosofiche hanno in real-t un respiro assai ampio: il filosofo che si dispone di fronte al linguaggionon deve cercare di far luce su un presunto significato delle parole (e cisignifica: su un qualche pensiero o su una qualche immagine che occupila mente del parlante), ma deve invece comprendere che il senso checompete ad ogni gesto linguistico non qualcosa che stia al di l dellaprassi che lo accompagna, ma gi dato insieme con essa. Cos, senellesempio proposto non si fa parola del significato ma solo del modoin cui si usa una determinata parola ci non accade perch Wittgenstein

    intenda ricondurre in uno spazio pi angusto le sue riflessioni, ma perchvuole fin da principio insinuare il dubbio che le parole non abbiano unsignificato, se per significato si intende unidea che ad esse corrisponda,ma solo un uso.

    Per richiamarci allesempio che Wittgenstein ci propone: ci che inquel breve racconto deve colpirci che non abbiamo alcun bisogno di in-terrogarci sul significato della parola cinque, se per significato inten-diamo qualcosa che stia al di l della prassi del contare. Per comprendereche cosa si intenda con il segno 5 non abbiamo bisogno di chiederciquale sia il pensiero che attraversa la mente di chi quel segno comprende,ma ci basta osservare il modo in cui si comporta quando impiega quelsegno, reagendo al gesto linguistico che gli rivolto. E se questo suffi-

    ciente, se possiamo dimenticare che cosa pensiamo quando sentiamo opronunciamo quella parola, per rivolgere lo sguardo alluso che ne fac-ciamo, allora lecito avanzare un sospetto che potremmo formulare cos :se di un significato della parola cinque si vuole parlare, allora si dovr

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    riconoscere che il significato di quel termine non un pensiero che stia alriparo nella nostra testa o, ancor pi in alto, in qualche platonico cielosopra il cielo, ma la forma di una prassi codificata intersoggettivamen-te: la forma della prassi del contare, e quindi dellaccompagnare in uncerto modo il nostro ripetere la cantilena dei numeri da uno a cinque.

    Possiamo allora dare un nome al fenomeno originario oltre il quale non possibile spingersi: per Wittgenstein, il terreno primitivo che non pu

    essere ulteriormente indagato circoscritto dalla necessaria inerenza del-le parole al contesto del loro uso. E se parliamo di una inerenza necessa-ria perch Wittgenstein non intende affermare che ogni parola ha un va-lore semantico che si definisce nelle sue sfumature di senso soltanto invirt della situazione concreta del suo occorrere. La tesi di Wittgensteinnon ci riconduce alla distinzione linguistica tra valore stabile e significatooccasionale delle parole, ma si muove fin da principio su un piano pro-priamente filosofico: ci che Wittgenstein intende affermare che le pa-role non hanno un significato perch stanno per un pensiero racchiusonella soggettivit di chi parla, ma in virt del loro essere parti di unaprassi sensata e socialmente codificata.

    Su questa tesi dovremo ritornare pi volte, poich in essa si esprime

    lorizzonte teorico delleRicerche filosofiche. Una prima conclusione puessere tuttavia tratta fin dora: possiamo infatti affermare che la teoria se-condo la quale ogni parola avrebbe un significato perch ad essa corri-sponderebbe un pensiero racchiuso nella mente di chi parla deve esseremessa da parte come segno di unimmagine falsa del linguaggio limmagine di un codice che serve soltanto per rendere sensibilmentepercepibile ci che percepibile non il pensiero:

    Se si considera lesempio del 1, si pu forse avere unidea di come il concetto ge-nerale di significato della parola circondi il funzionamento del linguaggio di una ca-ligine, che rende impossibile una visione chiara. La nebbia si dissipa quando stu-diamo i fenomeni del linguaggio nei modi primitivi del suo impiego, nei quali sipu avere una visione chiara e completa dello scopo e del funzionamento delle pa-role. Tali forme primitive del linguaggio impiega il bambino quando impara a par-

    lare. In questo caso linsegnamento del linguaggio non spiegazione, ma addestra-mento (ivi, 5).

    una citazione questa che getta uno sguardo allindietro ed uno in a-vanti, e che ci propone due temi su cui riflettere. Da un lato infatti Wit-

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    tgenstein ci permette di rammentare un passo della nostra citazione ini-ziale, su cui non ci siamo ancora soffermati, il passo in cui Wittgen-stein osserva che la narrazione agostiniana sembra alludere a una con-cezione del linguaggio fatta solo di nomi. In questa concezione possia-mo ora scorgere la pi ovvia espressione di quellimmagine del lin-guaggio come codice da interpretare che per Wittgenstein deve essererifiutata. Quanta parte delle riflessioni di Wittgenstein sar dedicata ad

    espungere questo errore teorico una scoperta che dovremo fare insie-me. Ma nel 5 vi anche, daltro lato, il rimando ad un tema nuovo: cisi dice infatti come possa sorgere la rete di regole che fissa luso delleparole e, insieme ad esso, il senso che loro compete. Allorigine dellinguaggio non vi sono spiegazioni, ma vi la prassidelladdestramento linguistico.

    Su questo tema dovremo tornare nella prossima lezione. Ora, prima dilasciare questo primo pensiero che ci ha cos a lungo impegnati, vorreiinvitarvi ad una breve digressione di natura stilistica. Non bisogna arric-ciare il naso: anche se in filosofia conta pi ci che si dice di come lo sidica, le scelte stilistiche hanno comunque un significato su cui opportu-no richiamare lattenzione. E allora vi invito a rileggere ancora una volta

    lesempio che Wittgenstein ci propone.Mando uno a fare la spesa ma si possono anche soltanto pensarequeste cose quando si fa filosofia? La spesa, e di cinque mele rosse, pergiunta! In fondo siamo pur sempre filosofi ed quindi naturale chiedersise abbia davvero senso costringere il lettore ad immergersi in queste bas-sure dopo averlo sollevato allaltezza delle Confessioni di Agostino?

    Rispondere a questa domanda significa cogliere sin da principiolironia che attraversa questa pagina di Wittgenstein. Lironia comelumorismo sono abituali compagni di viaggio nella lettura delle Ricer-che filosofiche, e sarebbe un errore credere che ad esse non spetti unafunzione filosofica. Vi una funzione filosofica dellumorismo sulla qua-le dovremo in seguito soffermarci; ma vi anche in Wittgenstein

    una funzione filosofica dellironia, anche se il compito che viene affidatoa questa personcina invisibile, che vive nello spazio angusto che di voltain volta si apre nel gesto della negazione, molto diverso da quello cheSocrate ci ha insegnato.

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    Lironia socratica ha una funzione precisa: sgombera il campo dallepretese di un sapere che in realt soltanto opinione ed opera semprenello stesso modo fingendo di credere che la doxa possa soddisfare lerichieste dellepisteme, per sorridere poi di questo fallimento annunciato.Lironia , in altri termini, larma del filosofo che si libera, ridendo, di unsapere non filosoficamente fondato. Diversa la matrice dellironia wit-tgensteiniana. Certo, anche qui siamo chiamati a sorridere, ma delle pre-

    tese del filosofo nelle cui mani i problemi tendono a divenire sublimi.Ecco, ci chiediamo che cosa possa mai significare comprendere i segnilinguistici e siamo ricondotti agli sforzi di un bambino che pu superarelisolamento di cui prigioniero solo perch pu imparare a scorgere laspiritualit dei pensieri nella sensibilit dei gesti e delle voci. Basta che ilfilosofo si impossessi di questa scena perch allorigine della parola siapra un baratro che la speculazione deve colmare: come pu una voceesprimere il pensiero, come pu il sensibile ospitare ci che sovrasensi-bile? Non dunque un compito da poco quello che Agostino affida aquesto bambino cos disperatamente gi adulto e ragionatore, e se cia-scuno di noi ha potuto a suo tempo superarlo ed essere maestro a se stes-so solo perch si legge nelle Confessioni dio ci ha dato

    lintelligenza necessaria per colmare il baratro che separa le voci sensibilidai significati nella loro spiritualit. Cos , quasi insensibilmente, Agosti-no ci invita a risalire dai gesti ai pensieri, dai pensieri allintelligenza e daquestultima a dio. Nelle mani dei filosofi i problemi si fanno eterei e ciconducono stranamente verso lalto.

    Nulla di tutto questo si pu scorgere nelle gesta dimesse di un uomoche va a fare la spesa, e a fronte della seriet con cui ragionando suAgostino ci era sembrato necessario sottolineare il balzo che dal sen-sibile conduce al significato non possibile non scorgere lironia con cuiWittgenstein descrive il comportamento del commerciante un com-portamento da automa: apre cassetti lasciandosi guidare da un segno o daun icona, sfoglia un catalogo sino a quando non giunge al campione de-

    siderato, recita a memoria la cantilena dei numeri fino a quando non ripe-te la parola che ha letto e infine ad ogni parola della sua cantilena estraeuna mela dal cassetto. Qui davvero non sembra essere richiesto alcunpensiero, e del resto simili operazioni si fanno comunque senza pensare.

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    Ma allora perch questesempio, perch cercare laccesso alla nozione disignificato in gesti che potrebbero essere compiuti anche da una macchi-na?

    Per una duplice ragione, io credo: per mostrare in primo luogo che delsignificato come di unentit mentale cui si debba infine accedere non vi davvero bisogno, perch il senso delle nostre parole si mostra nel giocoche con esse facciamo. Ma anche, in secondo luogo, per colpire con la

    forza dellironia la presunzione del filosofo, il suo tentativo di sublimarei problemi e di spiritualizzarli per trarre un vantaggio dalla constatazioneovvia che se quei problemi ci riguardano dovremo pure essere alla loroaltezza. Cos , nelle pagine di Wittgenstein, la punta velenosa dellironiaassume una piega etica e si volge a colpire la boria del filosofo che, pro-prio l dove non capisce, crede di poter sfiorare con mano una profonditche lo riguarda. Dellironia, dunque, vi bisogno, perch ci consente disorridere dellapologia che lo spirito tesse per cantare le proprie lodi e discorgere dietro alla profondit apparente dellenigma la semplicit dellarisposta.

    Del resto, lo si legge anche nel motto che apre le Ricerche filosofiche:il progresso ha di caratteristico questo, che sembra pi grande di quanto

    non sia in realt. In filosofia le cose stanno spesso cos : venire a capo diun problema filosofico significa dipanare un groviglio, per scoprire chedi l del viluppo non vi altro che un tratto di corda.

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    LEZIONE SECONDA

    1. Una mossa nel gioco linguistico

    Le considerazioni che abbiamo svolto nella lezione precedente avevano

    una funzione introduttiva, volta a far luce su due diversi modi di inten-dere il linguaggio, su cui Wittgenstein attira la nostra attenzione in mo-do esemplare gi nella prima delle sue osservazioni. Ci siamo cos sof-fermati dapprima sulla tesi secondo la quale comprendere il linguaggiosignifica interpretare un codice e quindi riconnettere segni di varia na-tura alle idee per cui stanno, ed abbiamo indicato nelle pagine delleConfessioni di Agostino una possibile esemplificazione di questa teoria.A questa prima esemplificazione ne abbiamo affiancata unaltra, chenon tuttavia animata principalmente dallintento di mostrare la falsitdella via agostiniana, ma dal desiderio di convincerci che unaltra via percorribile e che ragionevole guardare al linguaggio come ad unaprassi in cui le parole si legano alle azioni in un unico comportamento

    sensato.Di qui il primo passo che Wittgenstein ci invita a compiere e che po-

    tremmo formulare cos : non pensare al linguaggio come se fosse un codi-ce che comprendiamo perch sappiamo quale pensiero deve essere postodietro ogni singolo segno, ma cerca invece di cogliere le parole che pro-nunciamo come se fossero momenti di una prassi complessa cui siamostati addestrati. Di questo cammino ti facciamo intravedere fin dora lapercorribilit: il significato delle parole ci si mostra infatti nelle forme delloro uso e il criterio che ci permette di decidere se siamo stati compresi simanifesta nel modo in cui gli altri reagiscono alle nostre parole quando lesentono pronunciare. Qualcuno porge al fruttivendolo un foglio su cuisono scritte varie parole, e questi apre cassetti, controlla una tabella su

    cui vi sono i campioni dei colori, poi ripete a memoria una serie di nume-rali, prendendo dal cassetto per ogni nome di numero che pronuncia unamela del colore del campione. E noi che assistiamo alla scena diciamo:ecco, questo significa comprendere lespressione cinque mele rosse!.

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    Una volta mostrata la percorribilit di un differente cammino, Wittgen-stein ci invita a compiere un secondo passo: le proposizioni 3, 4 e so-prattutto 5 ci invitano a domandarci se limmagine del linguaggio cheabbiamo ricavato dalla lettura delle Confessioni di Agostino non avesse asua volta come condizione della sua plausibilit la riconduzione del lin-guaggio nelle sue molteplici forme allunicit del rapporto di denomina-zione. Agostino, osserva Wittgenstein, pensa a nomi come tavolo, se-

    dia, pane, e pensa agli altri tipi di parole come a qualcosa che si ac-comoder. E ci quanto dire: Agostino crede che nei nomi sia racchiusalessenza del linguaggio. Ma come abbiamo gi osservato (e come do-vremo pi volte ancora osservare) non tutte le parole sono eguali e nontutte si legano alla prassi in un identico modo. Di fronte alla parola me-le il commerciante dellapologo reagisce in modo molto diverso dallaparola cinque, ma queste differenze che ci sembrano cos evidentiquando osserviamo lutilizzo concreto del linguaggio vengono menoquando ci poniamo la domanda generalissima sulla natura del significato.Questa domanda ci invita a trascurare tutte quelle differenze e a pensareche il problema essenziale sia un altro: il filosofo deve poter venire a ca-po della teoria generale del significato, deve in altri termini mo-

    strare come ogni parola possa essere ricondotta a quel modello che benesemplificato da termini come tavolo, sedia, pane. Ma cos facen-do il filosofo, nel suo tentativo di scorgere una meta lontana, trascura ledifferenze che sono a portata di mano. Saliti in cima alla vetta, i moltidettagli che caratterizzano il luogo da cui siamo partiti ci appaiono con-fusi e persi per la distanza. E allora forse opportuno ripercorrere a ritro-so i nostri passi per restituire al nostro sguardo la sua dimensione:

    Se si considera lesempio del 1, si pu forse avere unidea di come il concetto ge-nerale di significato della parola circondi il funzionamento del linguaggio di una ca-ligine, che rende impossibile una visione chiara. La nebbia si dissipa quandostudiamo i fenomeni del linguaggio nei modi primitivi del suo impiego, nei quali sipu avere una visione chiara e completa dello scopo e del funzionamento delle pa-role. Tali forme primitive del linguaggio impiega il bambino quando impara a par-

    lare. In questo caso linsegnamento del linguaggio non spiegazione, ma addestra-mento (ivi, 5).

    Sulle parole conclusive di questosservazione ci siamo gi brevementesoffermati, ma forse opportuno ritornarci ancora, poich anche in

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    questo caso anche se non ci viene proposto un argomento risolutivo ci imbattiamo in una serie di considerazioni che rendono pi plausi-bile la via che Wittgenstein ci addita. Linvito rivolto chiaro: dobbia-mo mettere da parte, per il momento, la teoria generale del significato,poich essa getta ombra sul funzionamento del linguaggio, costringen-doci a pensare ai fatti linguistici come se fossero interamente dominatidalla relazione che unisce le parole alle cose. Una volta che questo

    compito sia stato assolto, dobbiamo ritornare sulle forme del linguaggioinfantile, per constatare la natura peculiare dellapprendimento lingu i-stico: quando il bambino impara a parlare non ha bisogno di spiegazio-ni come dovrebbe invece accadere se il suo rapporto con il linguaggiofosse da intendere come una relazione ad un codice che deve essereinterpretato.

    Le cose, nella norma, non vanno cos , poich il bambino viene innanzi-tutto addestrato a svolgere una prassi di cui le parole sono soltanto unaparte. La parola che Wittgenstein usa abrichten un termine che non del tutto normale in questo contesto, poich di solito lo si impiega sol-tanto quando ci si riferisce agli animali. Per imparare a parlare questacapacit cos squisitamente umana il bambino deve essere ammaestra-

    to, e se di questo termine ci si avvale perch si vuole sottolineare chelinsegnamento linguistico non passa per spiegazioni e non implica daparte di chi apprende un faticoso processo di interpretazione, ma chiedesoltanto la ripetizione intelligente di un comportamento, e quindi anchela condivisione di un certo stile di azioni e di reazioni.

    Ancora una volta il rimando ad Agostino pu essere ricco di insegna-menti. Agostino ci invita a riflettere sul fatto che nellapprendimento lin-guistico

    non mi ammaestrarono gli anziani, suggerendomi le parole con un insegnamentometodico, come dopo poco per la lettura e la scrittura, ma fui io stesso il mio mae-stro con lintelligenza avuta da te, Dio mio (Confessioni, I, 9, 13).

    Il bambino impara a parlare perch ha ricevuto da dio il dono

    dellintelligenza, e quindi ha in s le chiavi per aprire il senso delle pa-role, in una congettura di ordine interpretativo. Da queste altezze siamotuttavia invitati a discendere, poich Wittgenstein ci chiede di pensareallapprendimento come al formarsi di una consuetudine: apprendere

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    vuol dire innanzitutto saper ripetere un insieme di gesti, saper ripropor-re al momento opportuno un comportamento che appartiene ad unaprassi socialmente codificata. Imparare a parlare vorr dire allora, per ilbambino, sforzarsi di partecipare ad un gioco pi volte ripetuto, ad unaconsuetudine verso cui sospinto dal desiderio di salvaguardare il ter-reno di un possibile accordo.

    Imparare il linguaggio vuol dire dunque aderire ad un insieme di con-

    suetudini. Nulla, tuttavia, sarebbe pi falso che credere chelapprendimento linguistico consista semplicemente nellimparare a ripe-tere certe parole: necessario infatti imparare a renderle momenti di ungioco in cui ogni singola mossa conforme a una regola. Wittgenstein ciinvita a rammentare il linguaggio del muratore e dellaiutante:

    Questo linguaggio deve servire alla comunicazione tra un muratore, A, e un suoaiutante, B. A ese gue una costruzione in muratura; ci sono mattoni, pilastri, lastre etravi. B deve porgere ad A le pietre da costruzione, e precisamente nellordine incui A ne ha bisogno. A questo scopo i due si servono di un linguaggio consistentedelle parole: mattone, pilastro, lastra, trave. A grida queste parole; B gliporge il pezzo che ha imparato a portargli quando sente questo grido. Consideraquesto un linguaggio completo (ivi, 2).

    Che cosa voglia dire in questo caso imparare questo linguaggio prestodetto: non significher imparare a ripetere certi suoni (B, tra le altre co-se, non deve dire nemmeno una parola), ma vorr dire essere addestratia comportarsi in un certo modo che comunque motivato dalla situa-zione generale in cui il gesto linguistico di A occorre. Ora,laddestramento consister nella ripetizione dei gesti che debbono esse-re compiuti (nel portare una lastra quando si sente gridare lastra!) esar eventualmente scandito da parole che sottolineino positivamente lerisposte corrette e da rimproveri che rendano fastidioso lerrore. Impa-rare a parlare il linguaggio che abbiamo appena descritto vorr dire al-lora apprendere una regola di comportamento che da un lato richiestada un obiettivo concreto e che dallaltro garantisce la possibilit di unaccordo:

    Potremmo immaginare che il linguaggio esemplificato nel 2 sia tutto quanto illinguaggio di A e B; anzi, tutto il linguaggio di una trib. I bambini vengono educa-ti a svolgere queste attivit, a usare nello svolgerle queste parole, e a reagirein questo modo alle parole altrui (ivi, 6).

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    Nellestrema semplificazione di questo esempio unimmagine nitida sifa avanti. Innanzitutto vi una comunit di persone, che sono unite daun insieme di comportamenti che scandiscono le cure quotidiane delvivere. Poi vi sono i bambini, che debbono essere gradualmente chia-mati a partecipare alle occupazioni che riempiono la vita dei grandi:educare i nuovi nati vorr dire allora coinvolgerli nelle attivit degliadulti, costringendoli a ripetere i gesti di una prassi solidificata. Ed in

    questa prassi che il linguaggio si inserisce: al fare si lega il dire, che sipone cos come un momento di una prassi complessa. Al dire si legapoi lascoltare, in un nesso che si mostra in modo evidente e cuilabitudine attribuisce la saldezza di una regola. E che lapprendimentodel linguaggio sia, in questo caso, un addestramento ben chiaro. Nellinguaggio primitivo della nostra immaginaria trib, imparare a parlarevuol dire infatti imparare ad accompagnare a determinate parole deter-minati gesti, ripetendo una regola consolidata da una prassi socialmentecondivisa.

    Fin qui ci siamo spinti nella prima lezione, e forse le considerazioni diWittgenstein hanno almeno parzialmente raggiunto il loro primo obietti-vo: quello di mostrarci se non lunicit, almeno lesistenza e la percorri-

    bilit del sentiero in cui abbiamo appena cominciato ad avventurarci. Etuttavia quando si cerca di comprendere qualcosa bisogna ogni tantoconcedersi la libert di dar voce ai propri dubbi, e quanto pi ripercor-riamo le riflessioni di Wittgenstein, tanto pi sembra farsi plausibileunobiezione che potremmo formulare cos : il manovale che sente urlarelastra! potrebbe non sapere che cosa rispondere, perch non affattodetto che sappia che cosa con quella parola si pretende da lui. E se cosstessero le cose, il muratore dovrebbe per un attimo vestire i panni delmaestro ed indicare una lastra mentre pronuncia appunto la parola la-stra, dando vita cos a ci che potremmo chiamare un insegnamento o-stensivo. Che questa mossa sia lecita davvero difficile negarlo, ed unfatto che molte volte ci capita appunto di comportarci cos . Ma allora, se

    il manovale deve sapere che cos una lastra per poter portare una lastra,perch non dire che innanzitutto il linguaggio consta di nomi e poi, nelcaso dellesempio di cui discorriamo, di quel punto esclamativo che tra-sforma il riferimento alloggetto in un ordine?

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    Del resto, accanto a questa prima obiezione, sembra sorgerne unaltra. Idiversi esempi su cui siamo stati chiamati a riflettere ci hanno infatti mo-strato come parole come lastra! o mattone! non traggano il loro si-gnificato da un pensiero che le accompagni, ma dal loro appartenere aduna prassi che abbiamo appreso e che si dipana secondo una regola che ci nota e che sappiamo seguire. Ma ci sembra suggerire unimmagine dellinguaggio che non facile accettare: sembra infatti che le singole parole

    non abbiano un significato e siano soltanto momenti di un gioco pi am-pio, di cui soltanto sembra che si possa dire che ha senso. In altri termini:Wittgenstein ci parla del linguaggio come se fosse un rito che dobbiamocompiere in vista di un certo fine, ma di cui ci sono oscure le singolemosse. Quando parliamo, invece, non abbiamo affatto limpressione dicondurre una strana danza: del linguaggio abbiamo una comprensioneanalitica, e questo giustifica il desiderio di chiedere per ogni parola checosa essa significhi. Come reagire allora a questa difficolt, come supera-re lo iato che sembra aprirsi tra ci che normalmente chiamiamo lin-guaggio e gli strani rituali cui Wittgenstein sembra condannarci? La ri-sposta sembra ovvia: sarebbe sufficiente indicare per ogni parola ci cheessa significa, ottenendo cos quella comprensione analitica di cui avver-

    tiamo la mancanza.Ora, non vi dubbio che linsegnamento linguistico possa assumereanche la forma di un procedimento ostensivo: indichiamo un oggetto e,insieme, pronunciamo ad alta voce il nome che siamo soliti usare per de-notarlo, e cos facendo richiamiamo lattenzione sul nesso che lega le pa-role alle cose, secondo una via che non sembra in linea di principio dis-simile da quella additata dalle Confessioni di Agostino. Quali siano delresto gli obiettivi che potrebbero spingerci ad attribuire a questo proce-dimento un significato filosofico generale non difficile dirlo: la manoche di volta in volta addita un determinato aspetto del mondo che espe-riamo ci permetterebbe infatti di scoprire il significato di ogni singolamossa linguistica, liberandoci da un lato dal disagio cui dianzi alludeva-

    mo limmagine del linguaggio come una danza di cui conosciamo lafunzione complessiva ma di cui non comprendiamo i singoli passi mariproponendo dallaltro un insieme di argomenti che sembrano corrobo-rare quella teoria generale del significato da cui Wittgenstein intende al-

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    lontanarsi. Ecco, ora indico un oggetto e pronuncio un nome, e dora inpoi il nome star per un certo pensiero che a sua volta si correla con uncerto oggetto. Tutto qui.

    Come reagire di fronte a questa duplice obiezione che addita tuttavia adunidentica meta? Innanzitutto osservando che non dobbiamo aver frettae che i dubbi che abbiamo appena sollevato stringono in un unico nodocose molto diverse che debbono essere invece tenute distinte. Si deve di-

    stinguere, in primo luogo, la spiegazione ostensiva dallinsegnamento o-stensivo, e per una ragione ben chiara: che io chieda il nome di qualcosache indico o che mi si risponda dicendo che una parola significa loggettoche mi si addita, in entrambi i casi ci muoviamo gi allinterno del lin-guaggio ed anzi facciamo riferimento ad una sua mossa relativamenteavanzata. Si pu domandare il nome di qualcosa solo se sappiamo giparlare questo chiaro.

    Ma ci quanto dire che si deve distinguere la spiegazione di una paro-la dalladdestramento linguistico che ci permette di usarla:

    linsegnante indica al bambino determinati oggetti, dirige la sua attenzione su di es-si e pronuncia, al tempo stesso, una parola; ad esempio, pronuncia la parola lastrae intanto gli mostra un oggetto di questa forma (Non chiamer questo procedimentospiegazione o definizione ostensiva, perch il bambino non pu ancora chiede-re il nome degli oggetti. Lo chiamer insegnamento ostensivo delle parole) (ivi, 6).

    Dobbiamo quindi fare un passo indietro e non pensare di avere davantia noi una proposizione da chiarire nelle sue singole parti come voleva ilsecondo dei nostri dubbi, ma una situazione assai pi primitiva: vi unbambino e vi un genitore che pronuncia una parola mentre tocca unoggetto questo linsegnamento ostensivo [hinweisende Lehren] dicui Agostino ci parla e di cui anche Wittgenstein disposto a ricono-scere limportanza. Ma qual la funzione che esso svolge? Gli spettauna parte importante nelladdestramento linguistico o rappresenta come voleva Agostino il gesto istitutivo del linguaggio, leventoprimitivo che lo fonda?

    Si tratta di affermazioni molto diverse che non debbono essere confuseluna con laltra. Da una parte abbiamo infatti la tesi secondo la qualeprima del linguaggio vi il gesto ostensivo che permette al pensiero di

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    fissare la propria meta e di poter cos attribuire ad un segno il suo signif i-cato, dallaltra una tesi molto meno impegnativa: la tesi secondo la qualelinsegnamento ostensivo ha un suo ruolo importante nelladdestramentolinguistico ma non ne il gesto istitutivo poich non si d al di fuori diuna qualche contesto proto-linguistico.

    Una volta che questa distinzione sia stata tracciata non difficile scor-gere da che parte si orientino le riflessioni wittgensteiniane: per Wittgen-

    stein linsegnamento ostensivo non pu in alcun modo essere inteso co-me lorigine del linguaggio, come il gesto che lo fonda, e che le cosestiano cos risulta con sufficiente chiarezza non appena ci rammentiamodi un fatto di cui ci siamo appena convinti e cio che il linguaggio nonconsta soltanto di nomi e che il suo impiego non , nella norma, ricondu-cibile allatto del catalogare. Parlare non vuol dire attribuire nomi allecose, e questo fatto getta un primo sospetto sul senso e sulla funzione chesi pu attribuire allinsegnamento ostensivo.

    Di qui la prima mossa di Wittgenstein. Al tentativo di ancorareladdestramento linguistico alla prassi dellinsegnamento ostensivo si de-ve rispondere rammentando (come gi avevamo fatto nella scorsa lezio-ne) la diversit delle forme che caratterizzano il linguaggio:

    Consideriamo ora un ampliamento del linguaggio (2). Oltre alle quattro parolemattone, pilastro, ecc., supponiamo che esso contenga una serie di parole chevengono impiegate nello stesso modo in cui il negoziante del 1 impiega i numera-li (pu essere la serie delle lettere dellalfabeto); inoltre contiene due parole che po-trebbero suonare l e questo [] le quali vengono usate insieme con un gestoindicatore della mano; e infine un certo numero di campioni di colore (ivi, 8).

    Ora, possiamo ben immaginare un contesto in cui ci si avvalga di que-ste parole che potranno essere apprese come di consueto nel ripetutoesercizio di un gioco linguistico particolare: vi saranno ancora una voltaun muratore e un manovale, ma le esigenze di costruzione chiederannoche si debbano portare pi pezzi alla volta e che materiali di diversi co-lori debbano essere portati in luoghi diversi. Per tutto questo servonoappunto numerali, una tabella dei colori ed espressioni deittiche, del cuisenso possiamo impadronirci in virt di un addestramento che di fattocoincide con la frequente ripetizione della prassi cui abbiamo fatto cen-no. Ma se poi ci chiediamo quale ruolo possa in questo caso svolgere

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    linsegnamento ostensivo, sorge necessariamente pi di una perplessit,poich imparare ad usare un numerale non significa affatto associareuna parola ad un oggetto e ci rende davvero difficile intendere che co-sa voglia dire in questo caso indicare. Come faccio ad indicare di treoggetti che sono appunto tre e non semplicemente che sono? Che cosadebbo fare per indicare ci che voglio? Vi forse un modo di tendere ilbraccio e la mano che corrisponde allindicare ci che intendo quando

    pronuncio la parola tre? Naturalmente pu capitare che in un paesestraniero qualcuno, per spiegarci il significato della parola drei indi-chi appunto tre oggetti e che noi lo si comprenda perfettamente. Ma inquesto caso chiaro che ci che mi manca non il linguaggio, ma soloun nome del linguaggio, e che il gioco del linguistico del contare mi gi interamente chiaro talmente chiaro da porsi come sfondo perrendere del tutto non ambiguo il gesto deittico che mi spiega il signifi-cato della parola drei.

    Un discorso simile vale anche per i deittici. Anche in questo caso non facile dire quale ruolo linsegnamento ostensivo possa svolgere nel casodi termini come qui o l:

    anche l e ques to si insegnano ostensivamente? Immagina in quale modo si

    pu insegnare il loro uso! Indicando luoghi e oggetti, ma qui lindicare ha luogoanche nelluso delle parole, e non soltanto nellapprendimento delluso (ivi, 9).

    La mano che addita il luogo, non addita insieme il suo essere l, propriocome in generale il mio indicare tre oggetti non sufficiente per indica-re il loro essere tre. In tutti questi casi lindice della mia mano sembrapuntare nel vuoto, poich se non vi un contesto specifico che rendaconto di ci che intendo, la deissi non si realizza. Un insegnamento o-stensivo che pretendesse di prescindere da un contesto che lo renda e-vidente dunque necessariamente votato al fallimento.

    Su questo problema dovremo nuovamente tornare. Ora dobbiamo inve-ce osservare che anche l dove abbiamo a che fare soltanto con lastre emattoni e con le parole corrispondenti non affatto detto che

    linsegnamento ostensivo sia lunico mezzo per apprendere il linguaggio.Perch mai non potremmo imparare ad usare la parola lastra sempli-cemente nel contesto dellagire, anche se chi ci rivolge ordini non si fer-masse mai ad indicarci pazientemente che questa una lastra?

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    Possiamo anche immaginare che lintero processo delluso delle parole, descrittonel 2, sia uno di quei giochi mediante i quali bambini apprendono la lingua ma-terna. Li chiamer giochi linguistici (ivi, 7).

    E ci quanto dire che linsegnamento ostensivo una delle forme incui avviene laddestramento linguistico, ma non lunica.

    Forse queste considerazioni sono gi sufficienti a tacitare i nostri dubbi.Ma forse ancora non ci bastano ancora poich in realt il dubbio che ab-

    biamo sollevato ha origine da una confusione pi profonda. Certo, se perinsegnamento ostensivo si intende il gioco in cui il bambino viene in-vitato a ripetere una parola e a indicare un oggetto dopo che il maestro hafatto altrettanto, allora abbastanza evidente che si tratta di un gioco deltutto paragonabile a quello che ha luogo quando al grido lastra! accor-riamo portando quel pezzo da costruzione. Ma forse possibile fermarsiprima ed osservare che qualcosa come un insegnamento ostensivo haluogo tutte le volte che di fronte ad un bimbo pronunciamo una parola eindichiamo un oggetto, senza pretendere alcuna risposta. Questo vor-remmo dire il vero luogo dorigine del linguaggio poich qui accadeil fenomeno originario da cui tutto prende le mosse: nella mente delbambino si forma un nesso associativo che lega la parola alla cosa. Ed

    questo nesso che d alla parola il suo significato.Ora, Wittgenstein non intende certo negare che linsegnamento osten-sivo sia allorigine di questo nesso associativo ed convinto, io credo,che linsorgere di una rappresentazione mentale sia uno dei processi con-comitanti che favoriscono luso significativo del linguaggio. Ma ci nonvuol dire che il significato di una parola sia riconducibile a quel nesso as-sociativo. Tutte le volte che sento la parola tavolo mi rappresento untavolo, ma questo mio rappresentarmi qualcosa davvero ci che laparola significa? Il significato un evento empirico che semplicementeaccade nella mia testa, in virt di un nesso abitudinario, ogni volta chequalcuno dice una certa parola? Nella mia testa possono accadere moltecose o anche nulla quando ascolto chi mi parla, ma questo non sembranecessariamente avere a che fare con il fatto che io abbia o non abbia ca-pito ci che mi si dice, ma sembra piuttosto parlare della mia reazionepsicologica ad un certo evento. Il fruttivendolo dellesempio ha certocompreso ci che il biglietto recita: ma ne saremmo ancora sicuri se, le g-

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    gendo il biglietto, non facesse assolutamente nulla ma non riuscisse atrattenere la sua immaginazione dal figurarsi vividamente cinque melerosse? Ci basterebbe prendere atto di questo evento rappresentativo perdire che conosce il significato delle parole che legge?

    A tutte queste domande si deve dare per Wittgenstein una rispo-sta negativa, e la si deve dare per molte ragioni, ma innanzitutto perch ilfatto che io mi rappresenti qualcosa quando tu mi parli un evento tra gli

    altri e non come tale una risposta alla tua mossa linguistica. Quando tuparli accade che io mi rappresenti qualcosa, ma questo accadere di per snon diverso da un qualunque altro fatto che dipenda causalmente da unqualche evento. E invece, per Wittgenstein, si pu dire che io abbia com-preso solo se reagisco come si deve a ci che tu dici e quindi secondo unaregola che determina il criterio che ti permette di decidere se tu abbiadavvero capito. Quando il manovale reagisce al grido lastra! ha capitose ci porta una lastra, non ha capito se ci porta un mattone; che poi sirappresenti un mattone o una lastra, importa poco. Ma ci quanto direche il nesso associativo non basta, perch lega solo fattualmente la parolaad una rappresentazione; perch la parola assuma un senso necessario ilfarsi avanti di una regola, di un gioco in cui il mio gesto linguistico, e la

    risposta che ne scaturisce, siano possibili mosse:Una parte importante delladdestramento consister in ci: linsegnante indica albambino determinati oggetti, dirige la sua attenzione su di essi e pronuncia, al tem-po stesso, una parola; ad esempio, pronuncia la parola lastra e intanto gli mostraun oggetto di questa forma []. Si pu dire che questo insegnamento ostensivodelle parole stabilisce una connessione associativa tra la parola e la cosa [] Ma selinsegnamento ostensivo produce questo effetto, devo dire che ha per effetto lacomprensione delle parole? Non comprende il grido lastra! chi, udendolo, agiscein questo modo cos e cos? Certo, a ci ha contribuito linsegnamento ostensi-vo; per solo in quanto associato a un determinato tipo di istruzione. Connessocon un tipo di istruzione diverso, lo stesso insegnamento ostensivo di questa parolaavrebbe avuto come effetto una comprensione del tutto diversa. Aggiusto un frenocollegando una barra ad una leva. Certo, se dato tutto il resto del meccani-smo. Solo in connessione con questo, la leva la leva di un freno; isolata dal suosostegno non neppure una leva; pu essere qualsiasi cosa possibile, e anche nulla(ivi, 6).

    Un pensiero che ci pu sembrare, di primo acchito, oscuro, come molteosservazioni di Wittgenstein. Eppure, se ci pensiamo un momento, ci

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    accorgiamo che loscurit tutta dalla nostra parte. Perch una leva euna barra facciano insieme un freno non affatto sufficiente che sianoagganciati luna allaltra: necessario che vi sia una macchina di cuibarra e leva siano a loro volta parti, perch solo in virt diquestappartenenza barra e leva assumono una funzione nuova in vistadella quale diviene appunto necessario che siano collegati. In caso con-trario, chiamare freno quella leva e quella barra sarebbe del tutto gra-

    tuito. Ma ci che vale per barre e freni, vale anche per linsegnamentoostensivo: posso ripetere ogni volta che indico un oggetto un certo no-me, ma questo frequente ricorrere delluno e dellaltro evento (per e-sempio, della percezione di una lastra e della parola lastra) pu mot i-vare un nesso associativo, non una connessione linguistica. La connes-sione sorge quando quel nesso associativo gioca allinterno di una pras-si sorretta da regole: ora ti mostro una lastra e tu devi ripetere lastra(o portarmela) ed in questo contesto quella parola assume un significa-to. Solo allora lasta fa perno sul punto di appoggio e si connette allamacchina, divenendo un freno.

    Possiamo allora introdurre un termine nuovo e pronunciare una primasignificativa tesi filosofica. Il termine nuovo ben noto, ed il termine

    gioco linguistico [Sprachspiel]. Wittgenstein lo definisce cos :Possiamo anche immaginare che lintero processo delluso delle parole, descrittonel 2, sia uno di quei giochi mediante i quali bambini apprendono la lingua ma-terna. Li chiamer giochi linguistici e talvolta parler di un linguaggio primitivocome di un gioco linguistico (ivi, 7).

    Lintero processo delluso delle parole cos si esprime Wittgenstein,ed il senso di questaffermazione ormai ben chiaro: egli intende infattiparlare di gioco linguistico proprio per sottolineare la necessaria appar-tenenza di ogni gesto linguistico allinterno di una prassi socialmentecodificata e sorretta da regole, di un insieme di attivit che al linguag-gio si legano. Scrive Wittgenstein: chiamer gioco linguistico anchetutto linsieme costituito dal linguaggio e dalle attivit con cui si intra-

    ma (ivi, 7) una definizione che vi inviterei a leggere dimentican-dovi di quellanche da cui possono soltanto sorgere inutili dubbi.Di qui la tesi cui alludevamo: se parliamo di giochi linguistici pro-

    prio perch intendiamo richiamare lattenzione sul fatto che una parola

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    ha un significato solo se la intendiamo come una mossa allinterno di undeterminato gioco.

    2. Una teoria dellapprendimento linguistico?

    Siamo giunti ad una conclusione significativa che merita senzaltro diessere sviluppata e approfondita. E tuttavia il nostro compito di lettori

    ci costringe ancora una volta ad intrecciare il tema che dobbiamo af-frontare ai nostri dubbi. Ad uno, in particolare: Wittgenstein ci invita adimmaginare i dinamismi impliciti nellapprendimento linguistico, manon vi dubbio che non si preoccupi di sapere come di fatto i bambiniimparino a parlare. Ora, lapprendimento linguistico un fatto come al-tri e pu essere compreso solo empiricamente: pensare di risolverlo in-tingendosi la penna nel cervello e decidendo a colpi di filosofia comestiano le cose per lo meno rischioso.

    I rischi talvolta si pagano: oggi la ricerca linguistica tende sempre pidecisamente a sostenere che del processo dellapprendimento non si purendere conto se non riconoscendo il ruolo che i meccanismi computa-zionali giocano nella determinazione della grammatica del linguaggio. La

    psicologia a tavolino di Wittgenstein sembra essere cos non soltanto unazzardo ma un vero e proprio errore, un fatto questo che ci costringe-rebbe a declinare al passato molte delle considerazioni che attraversanole sueRicerche filosofiche.

    Come si deve reagire a questo ordine di considerazioni? Riconoscendo,io credo, che vi sono davvero molti punti in cui le scoperte (pi o menocerte) della psicologia cognitiva indicano un cammino diverso da quelloche si potrebbe desumere dalle riflessioni wittgensteiniane e insiemeconstatando che vi , in generale, nelleRicerche filosofiche una sostan-ziale cecit rispetto al problema dei vincoli computazionali che il funzio-namento del cervello pone alla struttura delle nostre lingue. E tuttavia ri-conoscere che cos stanno le cose non deve impedirci di cogliere la speci-

    ficit della posizione wittgensteiniana che pu essere effettivamente coltasolo se si comprende che nelle Ricerche filosofiche una teoriadellapprendimento non vi , e quindi non vi nemmeno in linea di prin-cipio una qualche decisione rispetto alle domande classiche

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    dellempirismo e dellinnatismo. In unosservazione tratta daZettel Wit-tgenstein scrive:

    faccio forse della psicologia infantile? Ma no, mi limito a porre in connessione ilconcetto di insegnamento con il concetto di significato (Zettel, 412)

    Si tratta di unaffermazione che va presa alla lettera. Anche se, quandoci invita a riflettere sul ruolo dellapprendimento linguistico, Wittgen-stein non ritiene probabile unipotesi di stampo innatistico, ci non si-gnifica che egli intenda negare o affermare che le cose stiano cos e nonsi preoccupa di come di fatto il bambino apprenda il linguaggio: nessu-na delle brevi storielle che ci vengono proposte pu davvero sobbarcar-si il carico di sorreggere una teoria dellapprendimento. Il punto su cuivertono le sue analisi un altro: Wittgenstein intende sostenere che nelconcetto di significato implicito un momento che pu essere compre-so con relativa facilit se ci si dispone sul terreno dellapprendimentodei giochi linguistici e della loro sanzione intersoggettiva. Ora ci rivol-giamo a un bambino e gli diciamo cinque mele rosse, e poi guidiamoi suoi movimenti incoraggiando quelli corretti e disapprovando quellisbagliati, in un gioco che naturalmente deve essere ripetuto sin quandoil bambino sapr soddisfare quellordine, sottomettendo la sua prassi al-

    la possibilit di una sanzione e vincolando i suoi gesti allapprovazioneo alla disapprovazione della regola. Certo, proprio perch il bambinoimpara, dopo vari tentativi, ad accordare le sue azioni alle richieste chesono avanzate dal gioco diviene evidente per lui la dimensione norma-tiva che si sovrappone al suo agire; in linea di principio, tuttavia,lefficacia reale delladdestramento potrebbe anche venir meno: po-tremmo immaginare (in unipotesi di innatismo estremo) un bambinoche sin dalla nascita sappia gi connettere i segni linguistici alle rappre-sentazioni degli oggetti intesi, ma questo suo sapere non lo esimerebbedalla necessit dellapprendimento poich un segno diviene una mossanel gioco linguistico solo quando il suo esserci conforme a una rego-la.

    In altri termini: ci che nellapprendimento si viene determinando non soltanto una qualche connessione fattuale tra le nostre rappresentazionied i segni linguistici, ma la dimensione normativa che viene cos attri-buita al gesto linguistico. Se vuoi comprendere la parola lastra devi u-

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    sarla cos, come ti mostro devi, cio, orientare il tuo comportamentosecondo un modello che ti stato mostrato e che vale proprio per questocome pietra di paragone e come criterio valido per decidere se tu hai ef-fettivamente capito. Se poi, perch sei fatto cos , questa connessione per te gi ovvia sarai certo facilitato nel tuo compito che tuttavia permanelo stesso: reagire, come ti si chiede e come devi, ad una qualche mossadel gioco linguistico.

    Vi , poi, una seconda ragione che rende cos interessante agli occhi diWittgenstein il linguaggio infantile, ed la sua grande semplicit. Anchein questo caso la dimensione reale dellapprendimento pu essere fin daprincipio messa da parte, poich ci che attira Wittgenstein il fatto chela scena dellapprendimento una scena facilmente dominabile che con-sente di vedere allopera il linguaggio senza smarrirsi nella complicazio-ne delle sue articolazioni. Il rimando al terreno dellapprendimento lin-guistico si configura cos come il luogo di un esperimento mentale checonsente di cogliere nella loro esemplare semplicit le regole su cui pog-giano i significati e di coglierle nel momento della loro istituzione.

    Avremo modo di tornare su molti di questi temi ed in modo particolaredovremo senzaltro riflettere nuovamente sul concetto di regola e sulla

    diversit tra il seguire una regola e il mero comportarsi in accordo conuna regola su cui ci siamo dianzi brevemente soffermati. Ora vorrei inve-ce richiamare lattenzione sul nesso che lega le riflessionisullapprendimento del linguaggio alla nozione di gioco linguistico cheWittgenstein introduce nel 7 delle Ricerche filosofiche e che di fattouno dei termini pi caratteristici della riflessione wittgensteiniana.

    Questo nesso in qualche misura ovvio e basta leggere le pagine delLibro blu in cui Wittgenstein introduce per la prima volta questa nozioneper rendersene conto:

    In seguito, richiamer reiteratamente la tua attenzione su ci che chiamo giochi lin-guistici. I giochi linguistici sono modi di usare i segni, modi pi semplici di quellinei quali noi usiamo i segni nel nostro complicatissimo linguaggio quotidiano. Igiochi linguistici sono le forme di linguaggio con le quali un bambino comincia ad

    usare le parole. Lo studio dei giochi linguistici lo studio delle forme di linguaggioprimitive o dei linguaggi primitivi. Se vogliamo studiare i problemi della verit edella falsit; della concordanza e della non concordanza delle proposizioni con larealt; della natura dellasserzione, dellassunzione, della domanda, sar opportuno

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