IL TRIANGOLO GRAMSCI-SRAFFA-WITTGENSTEIN

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    IL TRIANGOLO GRAMSCI-SRAFFA-WITTGENSTEINSECONDO FRANCO LO PIPARO.ALCUNE CONSIDERAZIONI A MARGINE

    Marco Trainito

    Il piccolo e denso volume di Franco Lo Piparo, Il professorGramsci e Wittgenstein (2014), è un gioiello di storiografia filosofica poliziesca che tenta di mettere in luce un nodo storico-filosofico crucialedel pensiero del Novecento sulla base sia di circostanze precise edocumentate sia di vari indizi temporali, filologici e concettualiinterpretati sulla base di un'ipotesi investigativa. In particolare, a) i bennoti rapporti di amicizia - arricchiti da una fitta rete di scambiintellettuali ed epistolari - dell'economista Piero Sraffa da un lato conAntonio Gramsci e dall'altro con Ludwig Wittgenstein; b) il fatto chel'ultimo dei Quaderni dal carcere   (n. 29, 1935), incentrato su una teoria

    storico-pragmatica della grammatica, sia sostanzialmente coevo allaconcezione delle Ricerche filosofiche (la prima stesura manoscritta deiparagrafi 1-188 della prima parte risale al 1936 e segue di poco il Libroblu, 1933-1934,  e il Libro marrone , 1934-1935), cioè il testo-chiave chesegna la svolta antropologico-pragmatica del cosiddetto "secondoWittgenstein", nonché c) l'aria di famiglia concettuale e persino lessicale(si pensi a un termine come praxis) che sembra accomunare Q. 29 e RF,spingono Lo Piparo a proporre una tesi inedita e ardita: Sraffa è stato ilmediatore di idee che, facendo nei primi anni Trenta la spola tra i due

    amici (uno si trovava in carcere in Italia e l'altro insegnava aCambridge), li ha messi in comunicazione determinando il verificarsi diforti influenze reciproche tra due grandi pensatori del Novecento chenon solo non si conobbero mai di persona ma forse non seppero mail'uno dell'altro (quel che è certo è che nessuno dei due fa mairiferimento esplicito all'altro negli scritti a noi noti fino ad ora).

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    Lo Piparo, da studioso di Gramsci e filosofo del linguaggio,prende le mosse dallo stato della questione in letteratura. Da una parteci sono alcuni fatti noti:1) per una serie di circostanze, Sraffa ha accesso a molti dei Quaderni

    dal carcere sin dal 1934, cioè mentre Gramsci è ancora vivo;2) Sraffa si incontra regolarmente e si scrive frequentemente con

    Wittgenstein sin dal 1930 (la prima traccia scritta in nostro possesso,non citata da Lo Piparo, è un biglietto di invito a cena da parte diWittgenstein datato da Brian McGuinness "18.2.1931", in cuicuriosamente è specificato l'argomento della discussione: lavivisezione. Cfr. L 1911-1951, n. 139), fino alla rottura tra i due

    avvenuta nel 1947 e testimoniata da una lettera drammatica diWittgenstein, che Lo Piparo riproduce integralmente alle pp. 25-26(è la n. 373 di L 1911-1951);

    3) il confronto intellettuale tra Sraffa e Wittgenstein è di tale portatache quest'ultimo renderà omaggio all'economista italiano scrivendonella Prefazione di RF che a lui deve le idee più feconde del libro (egli studiosi di Wittgenstein in genere non mancano di sottolineareche il passo è così esagerato da risultare misterioso). A tal proposito,Lo Piparo ricorda a p. 10 la testimonianza di G. H. von Wright, al

    quale Wittgenstein avrebbe confidato che dalle discussioni conSraffa usciva come un albero privato di tutti i rami; e si potrebbeaggiungere anche la testimonianza di Rush Rhees, riferita da RayMonk (1990, p. 260) ma non citata da Lo Piparo, secondo la qualeWittgenstein ammetteva di aver mutuato da Sraffa l'approccio"antropologico" ai problemi linguistici e filosofici;

    4) infine c'è il celeberrimo aneddoto, riferito in modo diverso daNorman Malcolm e von Wright, del gesto "napoletano" di disgustoscettico (le dita passate sotto il mento con movimento versol'esterno) che Sraffa avrebbe mimato davanti a Wittgensteinsfidandolo a darne una spiegazione alla luce della teoria dellinguaggio come raffigurazione sostenuta da quest'ultimo nelTractatus e inducendolo così a vederne l'infondatezza e quindi adabbandonarla (Sraffa, però, sembra non aver mai confermato lastoria, e ad Amartya Sen confessò: «I can't remember such a specificoccasion», in Sen 2003, p. 1242, e in Sen 2009, p. 120).

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    Dall'altra parte ci sono le congetture   sugli aspetti specificidell'influenza di Sraffa su Wittgenstein, e a tal proposito Lo Piparo usacome unico punto di partenza quella avanzata dall'economista premioNobel Amartya Sen, il quale, come ricordato, ha avuto la possibilità diinterrogare sulla questione direttamente Sraffa (suo maestro e collega alTrinity College), sopravvissuto di molti anni ai suoi due amici. Comenota Lo Piparo (pp. 11-12), la tesi di Sen si può porre nei terminiseguenti. Prescindendo dall'aneddoto del gesto napoletano, nonconfermato da Sraffa, quest'ultimo derivava le competenze linguisticheche gli permettevano di dibattere alla pari con Wittgenstein dai contattiavuti con il "glottologo" Gramsci sin dall'epoca della laurea a Torino

    (1920), quando cominciò a lavorare con lui alla redazione de "L'OrdineNuovo"; e siccome l'approccio storico-antropologico e contestualista allinguaggio era già tipico di Gramsci, influenzato soprattutto da Croce eMarx, per Sraffa era diventato una specie di "ovvietà" da trasmettere -

     praticamente senza accorgersene - al Wittgenstein del primi anni Trenta, alpunto da non riuscire in seguito a spiegarsi la riconoscenza dell'amico.Nelle parole di Sen (2003, p. 1243): «Was Sraffa thrilled by the impactthat his ideas had on, arguably, the leading philosopher of our times(...). Also, how did Sraffa arrive at those momentous ideas in the first

    place? I asked Sraffa those questions more than once in the regularafternoon walks I had the opportunity to share with him between 1958and 1963. I got somewhat puzzling answers. No, he was notparticularly thrilled, since the point he was making was “ratherobvious.” No, he did not know precisely how he arrived at those argu-ments, since - again - the point he was making was “rather obvious”».

    La questione, nei suoi aspetti essenziali e prendendo alla letterala testimonianza di Sraffa via  Sen, per molti versi potrebbe chiudersiqui. Volendo esprimerci utilizzando l'armamentario concettuale dellaMemetica, potremmo descrivere la situazione in termini tali darispettare la specificità dell'opera di contagio culturale esercitata daSraffa, il quale si è trovato nella situazione singolare di fare dainvolontario "traghettatore" (questa espressione metaforica compare neltitolo del primo capitolo del libro di Lo Piparo) di memi tra due deifilosofi più influenti e virali del Novecento. Essendosi formato in uncerto contesto culturale, animato da un gruppo di giovani intellettuali

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    italiani imbevuti di idee marxiste, socialdemocratiche, crociane ecc.,Sraffa aveva assorbito memi particolarmente attivi che avrebbe poitrasmesso a un interlocutore ricettivo e in qualche modocognitivamente predisposto come Wittgenstein (più avanti vedremo inche senso), per esempio attraverso il semplice gioco linguistico dellaconversazione tra amici e colleghi. Il flusso nel senso inverso, cioè daWittgenstein a Gramsci, risultava in gran parte bloccato per delleragioni specifiche. Tenendo conto della distanza enorme tra gli interessiscientifici di Sraffa e quelli di Wittgenstein (per tacere dei loro stilicognitivi pressoché incommensurabili), infatti, è prudente supporre chea Gramsci, via   Sraffa, siano arrivati memi wittgensteiniani di rilievo

    trascurabile, e più probabilmente nessuno. Sull'impermeabilità di Sraffaalle idee di Wittgenstein il carteggio fra i due offre un quadroinequivocabile, che lo stesso Lo Piparo (cfr. pp. 22-23) mette bene inevidenzia riportando alcune lettere di Wittgenstein, risalenti agli anni1934 e 1935 (cruciali per la tesi del libro), dalle quali risulta chiaramenteche, mentre il filosofo è impegnato a trarre nel corso delle conversazioniperiodiche il massimo dell'insegnamento dalle conoscenzedell'economista, quest'ultimo è totalmente disinteressato a quello chedice il filosofo, non collabora e mal sopporta il suo temperamento

    assillante. O almeno così sembra a Wittgenstein (cfr., in L 1911-1951, nn.169, 170, 195. Qui, a p. 513, è riferito un aneddoto secondo cui una voltaSraffa avrebbe urlato all'amico: "Non voglio essere vessato [bullied] date, Wittgenstein!". Citato anche da Lo Piparo a p. 24). E questa è unagrande ironia della storia, perché la vicenda di Wittgenstein, dal suoprimo arrivo in Inghilterra nel 1911 agli ultimi giorni di vita, è quella diuna personalità dominatrice e quasi ipnotica in grado di esercitare unfascino irresistibile non solo sugli allievi e gli amici più intimi mapersino sui suoi stessi maestri (si pensi a Russell e a Moore),trasformandoli in vettori potentissimi dei suoi memi.

    Secondo Lo Piparo, invece, una simile rappresentazione dellasituazione sarebbe del tutto insoddisfacente, perché a suo parere c'èmolto altro da scoprire sul "mistero" del triangolo Gramsci-Sraffa-Wittgenstein. Nel riconoscere a Sen - interessato nella circostanzaprevalentemente alle questioni di storia del pensiero economico - ilmerito di aver indicato una "pista" da seguire, Lo Piparo aggiunge che il

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    vero terreno che il filosofo-filologo deve esplorare è un altro, perché è lìche il tesoro è nascosto e aspetta di essere trovato con gli strumenti deldetective  che segue le tracce testuali e lavora sulla base di congettureardite: «In mancanza di documentazione solo un esame comparato efilologicamente accurato dei Quaderni e delle Ricerche può aprire unospiraglio. Documenteremo qui che Sraffa si avvalse direttamente delcontenuto dei Quaderni» (p. 12). La tesi di Lo Piparo, "Gramsci eWittgenstein si sono intellettualmente frequentati tramite Sraffa" (p. 37),è difesa nella sua versione più  forte , costituita dalla congiunzione delledue sotto-tesi seguenti:

    a) l'influenza è stata reciproca: da un lato Gramsci ha massicciamentecontagiato il "secondo Wittgenstein" nei suoi organi vitali, cioè nellenozioni, intese in chiave antropologico-culturale, di  praxis , regola,grammatica, gioco linguistico, certezza e forma di vita, e dall'altroWittgenstein ha molto probabilmente avuto un ruolo nella decisionedi Gramsci di scrivere di getto il quaderno 29 sulla grammatica nel1935 (cfr. ad es. pp. 36 e 157);

     b) la mediazione di Sraffa è stata intenzionale: l'economista italiano haletteralmente reindirizzato i pensieri dei due grandi filosofi

    facendoli interagire in modo indiretto e incidendo sul contenuto deiloro risultati estremi.

    I due punti della tesi di Lo Piparo meritano di essere discussi conattenzione, perché suscitano dei problemi interessanti. Cominciamo dalsecondo, dando momentaneamente per acquisito e vero   il primo.L'ipotesi che Sraffa abbia fatto da traghettatore consapevole  a un cosìpesante carico di memi in entrambe le direzioni suscita una domandanon da poco, che tuttavia Lo Piparo evita di discutere: perché lo ha fatto? Ricordiamo che la situazione testuale, almeno allo stato attuale delleconoscenze delle carte di Gramsci e Wittgenstein, è che in nessuno degliscritti dell'uno compare il nome dell'altro. Come interpretare questostato delle cose? Se Sraffa usava fare con l'uno il nome dell'altro, èdifficile spiegare il fatto che, a quanto pare, non sia rimasta alcunatraccia di questo modo di procedere. Eppure sia Gramsci cheWittgenstein erano pensatori che non avevano alcuna difficoltà ad

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    indicare fonti e a riconoscere debiti. Si pensi a Wittgenstein: perché maiavrebbe dovuto riconoscere il proprio debito nei confronti del soloSraffa, visto che questi per ipotesi trasportava merce dichiaratamentenon sua? Nei Pensieri diversi c'è un passo del 1931 (mai citato da LoPiparo, che pure trae da PD la prima citazione wittgensteiniana del suolibro: cfr. p. 3) in cui Wittgenstein elenca una serie di nomi da cuidichiara di aver preso qualcosa: «Io credo di non aver mai inventato uncorso di pensiero; al contrario, mi è sempre stato dato da qualcun altro.Io l'ho solo afferrato subito con passione per la mia opera dichiarificazione. Così mi hanno influenzato Boltzmann, Hertz,Schopenhauer, Frege, Russell, Kraus, Loos, Weininger, Spengler,

    Sraffa» (PD, p. 47. Il silenzio di Lo Piparo su questo passo si spiega forsecol fatto che la datazione mal si concilia con le corrispondenzetemporali su cui si basa la sua tesi). Poi, una mezza dozzina di annidopo, Wittgenstein scolpirà il nome di Sraffa sulla Prefazione di RF: maperché, se la fonte di Sraffa era Gramsci? Si deve supporre, allora, cheSraffa abbia ingannato   Wittgenstein, spacciando per sue le nozionigramsciane che andava seminando nella mente dell'amico, il quale,come ricorda anche Lo Piparo in apertura del libro, diceva di sé di averel'originalità del terreno, non del seme: «Getta un seme nel mio terreno e

    crescerà in modo diverso che in qualsiasi altro terreno» (PD, p. 76).Ma perché Sraffa avrebbe dovuto agire così? Lo Piparo non si ponemai domande come questa. Eppure nella biografia di Wittgenstein c'èun episodio che avrebbe dovuto rappresentare un boccone ghiottissimoper Lo Piparo, ma egli non vi fa mai cenno. Addirittura, nell'ipotesi diuno Sraffa traghettatore consapevole e ingannatore, l'episodio aprescenari romanzeschi affascinanti e inquietanti. Wittgenstein visitò laRussia di Stalin nel settembre del 1935, spinto da una serie di motivioscuri che egli stesso, in una lettera del 6 luglio 1935 a Keynes (il qualesi sarebbe adoperato per far riuscire il viaggio nel miglior modopossibile), definisce «in parte negativi e addirittura puerili ma è veroanche che dietro ci sono motivi profondi e anche positivi» (in L1911-1951, n. 191). I motivi profondi e positivi erano legati, a quantopare, al suo vago desiderio di stabilirsi in Russia e di trovarvi un lavorocome semplice operaio (la cui condizione, assai significativamente, egliassimilava a quella del soldato semplice, da lui stesso vissuta durante la

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    Grande Guerra). Questo desiderio, poi, scaturiva dal fatto che egli,come scrisse Keynes nella lettera di presentazione all'ambasciatoresovietico a Londra Ivan Maiskij, pur non essendo iscritto al Partitocomunista nutriva «forti simpatie per il modo di vivere a suo parererappresentato dal nuovo regime russo» (questa lettera venne acclusa daKeynes alla sua a Wittgenstein del 10 luglio 1935: cfr. L 1911-1951, n.192). Il progetto, comunque, fallì. Wittgenstein si vide offrire o cattedredi filosofia presso le università di Kaz'an e Mosca (tramite Sof'ja

     Janovskaja, docente di logica matematica all'università di Mosca, con laquale aveva stretto conoscenza), o in alternativa posti di lavoro comeoperaio specializzato (nel settore medico, per esempio), e non come

    manovale, com'egli avrebbe voluto, dal momento che l'unica cosa di cuila Russia di Stalin non necessitava era proprio la manodopera nonspecializzata.

    Ora, è davvero strano che in un libro sulle "vite parallele" diGramsci e Wittgenstein ("Due biografie speculari" è il titolo del primocapitolo della seconda parte), in cui per esempio veniamo a sapere cosafaceva esattamente Gramsci a Mosca mentre in Italia c'era la marcia suRoma (cfr. p. 144), non si trovi alcun riferimento a questo episodiorelativo a Wittgenstein, ampiamente scandagliato, per esempio, nella

     biografia di Monk, una fonte molto sfruttata da Lo Piparo. Nella suaminuziosa ricostruzione dei rapporti tra Sraffa e Wittgenstein, LoPiparo in una occasione sfiora l'episodio in modo così plateale da darel'impressione di averlo voluto ignorare deliberatamente. Alle pagine 22e 23 egli riporta per intero la lettera di Wittgenstein a Sraffa del 19 luglio1935, prelevandola da L 1911-1951. Qui la lettera (n. 195) comincia nellaparte bassa della pagina 215 dell'edizione italiana, per il resto occupatada tutta la lettera a Sraffa del 13 luglio. Ebbene, questa lettera, mai citatada Lo Piparo, comincia con una richiesta a Sraffa legata proprioall'imminente viaggio in Russia (di cui Wittgenstein parlafrequentemente con Keynes nelle lettere di quelle settimane: cfr. nn.190-193): «Caro Sraffa, volevo chiederti come si chiama quel preparatocontro le cimici di cui mi avevi parlato una volta. Mi pare avessi dettoche te l'eri portato in Russia...». Se, dunque, l'ipotesi di Lo Piparo è tutta vera, il viaggio in Russia nel 1935 di un Wittgenstein sedotto dallapropaganda che presentava l'Unione Sovietica come una sorta di

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    paradiso dei lavoratori (si vedano le parole ingenuamentetrionfalistiche con cui Gramsci salutava nel 1917 la rivoluzione

     bolscevica dalle pagine de «Il grido del Popolo», riportate da Lo Piparoalle pp. 140-141), diventa oltremodo interessante, perché si potrebbeinterpretare come l'esito dell'indottrinamento operato scientificamenteda Sraffa. Per quale motivo? Fantasticando dall'interno della tesi di LoPiparo, si potrebbe supporre che Sraffa, essendo Gramsci ormai fuoridal gioco, volesse usare cinicamente Wittgenstein, personaggiocarismatico e già allora una sorta di mito vivente per quelli che loconoscevano, come testimonial della propaganda sovietica in Occidente.A tal proposito, c'è una pagina di Monk che mette conto leggere

    estesamente: «[Tornato dal viaggio, Wittgenstein] espresse in piùoccasioni una certa simpatia per il regime sovietico aggiungendo che,dato il miglioramento delle condizioni materiali della gente, si erarafforzato e sarebbe difficilmente caduto. Espresse inoltre particolareapprezzamento per il sistema scolastico russo, osservando di non averemai visto gente tanto desiderosa di apprendere e tanto attenta a quantogli si insegnava. Probabilmente, però, la ragione principale della suasimpatia per il regime staliniano va individuata nel basso tasso didisoccupazione presente in Russia. Come ebbe a dire una volta a Rush

    Rhees, "La cosa di gran lunga più importante è che la gente ha lavoro".E quando si menzionava l'irregimentazione, oppure gli si facevapresente che gli operai erano sì occupati ma non disponevano dellalibertà di cambiare o lasciare lavoro, Wittgenstein non sembrava moltocolpito da questo genere di argomentazioni. Disse a Rush Rheesfacendo spallucce: "La Tirannia non suscita la mia indignazione".Suscitava invece la sua indignazione l'eventualità che il "governo della

     burocrazia" reintroducesse le differenze di classe in Unione Sovietica:"Se c'è una cosa che potrebbe far tramontare le mie simpatie per ilregime russo, sarebbe proprio l'instaurarsi delle differenze di classe".[...] Tuttavia, nonostante le purghe e i processi del 1936, ilpeggioramento dei rapporti tra Russia e mondo occidentale, il patto dinon aggressione con la Germania nazista, Wittgenstein continuò amanifestare le sue simpatie per il regime sovietico» (Monk 1990, pp.350-351).

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    Se poi si affiancasse tutto questo a una lettera da Mosca del 29marzo 1923, indirizzata al Comitato esecutivo del Partito comunista efirmata da Gramsci e da Egidio Gennari (Lo Piparo la riporta a p. 15), lavicenda rischierebbe di assumere i contorni della spy   story in salsacomplottista, perché in essa le ragioni addotte per un coinvolgimento diSraffa nel progetto di una rivista di respiro internazionale sono leseguenti: Sraffa è uno specialista di questioni bancarie che ha giàlavorato in Inghilterra per il Labour Party, da collaboratore di "Ordinenuovo" ha messo a disposizione materiale riservato attinto dai dossierdel padre, pezzo grosso della massoneria e della Banca Commerciale,ed è pure un comunista sotto copertura.

    Come si vede, da questo lato la tesi di Lo Piparo consente diimmaginare Wittgenstein come una sorta di clone ideologico di Gramscicreato da Sraffa per indottrinamento. È plausibile? Il secondo puntodella tesi, dunque, conduce in ogni caso a conseguenze problematiche.Vista dall'altro senso, la tesi di uno Sraffa traghettatore consapevole dimemi wittgensteiniani verso Gramsci non conduce molto lontano: daun lato, infatti, come abbiamo visto, Sraffa era piuttosto sordo alle ideedi Wittgenstein (come lo stesso Lo Piparo riconosce, il famoso "appuntodi Sraffa" sul linguaggio è a dir poco oscuro: cfr. p. 45, nota 3); dall'altro,

    il quaderno 29 non sembra contenere alcuna suggestionewittgensteiniana, visto che Gramsci prende le mosse dal suo tipicoorizzonte di problemi (lingua, società, nazione, storia, intellettuali,politica, ecc.) e riferimenti (Croce soprattutto), risalente agli anni dellasua formazione a Torino (per una ricostruzione alternativa della genesidel quaderno 29, si veda ad esempio Orlandi 2007). Lo stesso Lo Piparosi sofferma poco su questo aspetto della questione, limitandosi aipotizzare, come visto, che l'entità Sraffa-Wittgenstein abbia potutosemplicemente sollecitare la stesura del quaderno.

    Adesso possiamo tornare sul primo punto della tesi di Lo Piparoe metterlo in discussione sulla base dei problemi che esso solleva. Ilpiatto forte del lavoro filologico ed esegetico di Lo Piparo è costituitodal rinvenimento di quelli che egli presenta come veri e propri calchigramsciani nei passaggi-chiave del "secondo Wittgenstein". Si consideri,a tal proposito, il paragrafo intitolato "Gioco linguistico: un concettogramsciano". Qui troviamo un esempio paradigmatico del metodo di

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    lavoro di Lo Piparo. Dopo aver evidenziato che in Gramsci il linguaggioè concepito non come oggetto autonomo da indagare astrattamentecome puro sistema grammaticale ma come corpo vivo inserito in precisepratiche socio-culturali e, in ultima analisi, politiche, Lo Piparointroduce così un passo celebre di Wittgenstein sui giochi linguistici:«Nelle Ricerche ne dà una definizione che non esiterei a chiamaregramsciana: "chiamerò 'gioco linguistico' la totalità: il linguaggio e leattività (Tätigkeiten) con le quali il linguaggio è intrecciato" (RF, I, par.7)» (p. 66. A p. 78 il passo è nuovamente citato in questo modo ed èconsiderato ancora alla stregua di una definizione essenzialistica).

    Qui emerge chiaramente la strategia espositiva dell'autore,

     basata su una focalizzazione estrema che mira a costringere il lettore avedere  gramscismi disseminati ovunque nei testi wittgensteiniani. Seperò allarghiamo il quadro, vediamo subito che i nessi linguistico-concettuali individuati da Lo Piparo si indeboliscono e risultano menoconvincenti. Nel solo contesto del paragrafo 7, per esempio, quel passofinale ("Inoltre  chiamerò...", corsivo mio) chiude un piccolo elenco disensi vari in cui Wittgenstein dice che intende usare l'espressione "giocolinguistico": «Possiamo anche immaginare che l'intiero processo dell'usodelle parole, descritto nel § 2 [è il gioco tra il muratore e l'aiutante, su

    cui Lo Piparo si sofferma diffusamente alle pp. 81-84], sia uno di queigiuochi mediante i quali i bambini apprendono la loro lingua materna.Li chiamerò " giuochi   linguistici" e talvolta parlerò di un linguaggioprimitivo come di un giuoco linguistico. E si potrebbe chiamare giuocolinguistico anche il processo del nominare i pezzi, e quello consistentenella ripetizione, da parte dello scolaro, delle parole suggeritedall'insegnante. Pensa a taluni usi delle parole nel giuoco del giro-giro-tondo. Inoltre chiamerò...».

    È interessante osservare che l'insistente riferimento diWittgenstein al modo in cui i bambini apprendono la lingua materna ètotalmente ignorato da Lo Piparo, il quale, per esempio, non fa maialcun cenno al fatto che il cosiddetto "secondo Wittgenstein" esordisca testualmente, negli incipit  del Libro marrone e delle Ricerche,   con unriferimento esplicito al passo delle Confessioni (I, 8) in cui Agostinoracconta il modo in cui da bambino imparava a nominare le cose. Laragione di questo oblio è coerente con il metodo generale di Lo Piparo.

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    Egli, infatti, nel presentare e sviluppare la propria ipotesi sulla genesidel Wittgenstein antropologo non si confronta mai   con le ipotesialternative che da circa mezzo secolo popolano la sterminata

     bibliografia sul filosofo austriaco. Si consideri ad esempio il fatto che LoPiparo, pur facendo per sommi capi il dovuto riferimento al mero dato

     biografico dell'esperienza di Wittgenstein come maestro elementarenella prima metà degli anni Venti, non ritiene opportuno richiamare(anche solo per rigettarla) la copiosa letteratura che riconduce a questaesperienza una buona parte della successiva svolta antropologica, forseperché essa è troppo in contrasto con la sua tesi di fondo. Eppure, comeabbiamo visto, i riferimenti al mondo dei bambini sono lì, numerosi e

    pregnanti. La circostanza è tanto più significativa se si pensa che, afronte della continua insistenza di Lo Piparo sul Gramsci linguista eglottologo (nonché "maestro" e arguto pedagogista a Ustica nel breveperiodo del confino di polizia, dal 7 dicembre 1926 al 20 gennaio 1927:cfr. pp. 149-153), manca qualsiasi riferimento alla compilazione da partedel "maestro" Wittgenstein di un Dizionario per le scuole elementari ,pubblicato nel 1926, dove peraltro si trova anche il lemma die Praxis:circostanza, questa, che da sola indebolisce notevolmente l'ottavoparagrafo del secondo capitolo della prima parte del libro di Lo Piparo,

    intitolato "Praxis e gioco linguistico" e basato sul presupposto che«termine e concetto [di praxis] entrano nel lessico teorico di Wittgensteina partire dal 1936: vedervi un suggerimento, non solo terminologico, diSraffa-Gramsci ci sembra lecito» (p. 75). Com'è noto, si tratta dell'unicavera pubblicazione di Wittgenstein in vita dopo il Tractatus, se siescludono pochissime altre cose, e rappresenta una miniera d'oro perchi sostiene che la genesi del secondo Wittgenstein vada retrodatata ecollocata negli anni dell'insegnamento nelle scuole elementari (a talproposito, rimando al corposo saggio introduttivo di Dario Antiseriall'edizione italiana Armando del 1978).

    Nonostante il lettore non possa fare a meno di essere gratoall'acribia filologica di Lo Piparo, soprattutto laddove egli offre unquadro chiaro e rigoroso del pensiero sia dell'ultimo Gramsci chedell'ultimo Wittgenstein, il grado di plausibilità della tesi genealogicache la motiva sembra inversamente proporzionale all'ampiezza delcampo di osservazione. Se si alza lo sguardo dalla lente microscopica e

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     prima facie convincente fornita da Lo Piparo e si guarda dall'alto ilpaesaggio delle innumerevoli interpretazioni stimolate dal percorsopeculiare del pensiero di Wittgenstein, quella di Lo Piparo perde moltodella sua forza di persuasione.

    Al fine di illustrare con più precisione questa mia ipotesi dilettura della tesi di Lo Piparo, concluderò con due tipologie di esempimolto diverse tra loro. Non si tratterà di contrapporre a quella di LoPiparo tesi alternative considerate migliori e più fondate: basteràsemplicemente mostrare l'esistenza di approcci totalmente differenti benradicati nella vasta letteratura su Wittgenstein.

    I) All'inizio di pagina 55 Lo Piparo scrive: «Nella nota su Frazerscritta da Wittgenstein in una data posteriore al 1936 sembra di sentireun'eco della gramsciana filosofia spontanea contenuta nella lingua diciascun parlante: "Nel nostro linguaggio si è depositata un'interamitologia"». È di nuovo una   questione di focalizzazione: se si cercanoconferme di una tesi, se ne possono trovare ovunque e qui il lettore èindotto dall'autore a vedere il fantasma di Gramsci far capolino da ogniriga di Wittgenstein. Analogamente, se si esplora un volume di letterecome L 1911-1951 alla ricerca solo degli scambi epistolari con Sraffa, si

    può riuscire a indurre nel lettore la convinzione erronea che l'orizzontedegli scambi intellettuali di Wittgenstein fosse occupato quasiinteramente da Sraffa, o che questi vi occupasse comunque unaposizione privilegiata. Invece, proprio quel volume, tanto citato da LoPiparo, restituisce tutta la varietà e ricchezza delle sollecitazioni cuiWittgenstein fu esposto nei circa 40 anni della sua vita filosofica. In talsenso, vale la pena ricordare che sul passo delle Note a Frazer citato daLo Piparo c'è una letteratura alternativa che, con argomentazionifilologicamente robuste, sostiene una sua derivazione quasi letterale daNietzsche (per l'esattezza da Umano, troppo umano , II, II, af. 11, dove sitrova l'espressione eine philisophische Mythologie in der Sprache versteckt:per ulteriori dettagli bibliografici su questo punto, mi permetto dirimandare a Trainito 2000, p. 117, nota 121), un autore che Wittgensteinleggeva con attenzione sin dai tempi della vita al fronte.

    Tutto questo ci consente di rilevare il problema forse principaleche la tesi di Lo Piparo comporta. Il saggio, infatti, non si sofferma mai

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    su una evidenza cruciale: le questioni che Gramsci e Wittgensteinaffrontavano nei loro "quaderni" nel corso della prima metà degli anniTrenta, al di là di talune convergenze probabilmente casuali sutematiche linguistico-culturali, non solo erano assai diverse tra loro mafacevano capo a cornici concettuali e programmi di ricerca, potremmodire persino "giochi linguistici" (in un'accezione liberalizzata),radicalmente diversi tra loro. Se pure tramite Sraffa fossero pervenuti aWittgenstein memi o semi gramsciani, essi avrebbero trovato un sistemaculturale di riferimento nuovo, cioè nuove assegnazioni di ruoli efunzioni, ovvero, per dirla in modo gramsciano-wittgensteiniano (nelsenso tanto sottolineato da Lo Piparo), nuovi usi   e quindi nuovi

    significati (un quadro concettuale diverso ci consentirebbe di parlare conpiù precisione di exaptation  nel passaggio dei memi da un complessomemico a un altro: cfr. ad. es. Dawkins 1976, Speel 1995 e Blackmore1999). Lo Piparo trascura questo aspetto perché a lui interessasoprattutto trovare somiglianze. In questo modo, però, le differenze irriducibili tra i due paradigmi vengono letteralmente spianate.

    Emblematico, a tal proposito, è il modo in cui Lo Piparo in dueoccasioni usa un testo molto ampio, complesso e variegato come il BigTypescript (ben diverso dalle brevi Note a Frazer), inducendo nel lettore

    ignaro una rappresentazione a dir poco riduttiva dell'opera (o dellanon-opera, come vedremo). A pagina 60 egli introduce la citazioneintegrale di BT 90.17 dicendo sorprendentemente che in tale paragrafo«compare la distinzione gramsciana di grammatica normativa scritta enon scritta» (è una distinzione solo gramsciana?) e chiede: «Un'eco dellediscussioni con Sraffa-Gramsci?». Ma poi, pur dicendo che nelquaderno 29 Gramsci esprime "lo stesso concetto" di Wittgenstein, ècostretto a notare che, mentre l'uno parla di "selvaggi", l'altro parla dellemasse italiane analfabete, evitando di trarre la conseguenze più ovviada questa enorme differenza: in effetti, questo Wittgenstein è certamentesotto l'influenza di Frazer. Wittgenstein, infatti, che pure possedeva eusava per conto proprio l'editio minor in volume unico (uscito nel 1922),cominciò a leggere il Ramo d'oro insieme all'amico Maurice O'C. Drurypartendo dal primo dei 12 volumi dell'edizione maggiore (uscita tra il1911 e il 1915), preso in prestito dalla Cambridge Union Library tra il1930 e il 1931; la cosa, però, non andò avanti per molto, per via dei

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    continui commenti critici con cui Wittgenstein interrompeva la lettura(cfr. l'introduzione di Rhees a NF, pp. 11 e 13, e Monk 1990, p. 309). Ementre a Wittgenstein le suggestioni antropologico-culturali servivanoper una descrizione di modelli  di giochi linguistici e forme di vita,Gramsci rifletteva su questioni storico-culturali nazionali in relazione alruolo degli intellettuali e ai connessi problemi politici.

    Alle pagine 63-64, poi, Lo Piparo riporta integralmente il lungoBT 57.7 (incentrato sul diverso ruolo che le norme giuridiche e le leggifisiche connesse con la costruzione di un ponte giocano nelleespressioni linguistiche, nelle rappresentazioni mentali e nel modo diagire del costruttore) solo perché tale paragrafo è preceduto da "Sraffa"

    messo tra parentesi. E di nuovo, nonostante il passo sia da lui giudicatopoco chiaro, Lo Piparo vi scorge indizi sulla svolta antropologica che ilpensiero di Wittgenstein stava compiendo a causa di Gramsci-Sraffa.

    Tale modo di ingigantire il ruolo di Gramsci-Sraffa in questa fasedel pensiero di Wittgenstein, però, stride con il peso effettivo che questipassi hanno nell'ambito degli interessi di Wittgenstein. È tipico di moltaletteratura filosofico-linguistica su Wittgenstein, infatti, sottovalutarecampi di interesse, come ad esempio la filosofia della matematica e lafilosofia della psicologia, sui quali Wittgenstein ha speso la gran parte

    delle proprie energie. Lo si può mostrare attraverso una rapidadescrizione esterna del Big  Typescript , una quasi-opera dalla vicendaeditoriale tormentata e ancora poco esplorata rispetto ad altre.

    Il Big Typescript   è da sempre considerato dagli studiosi diWittgenstein, che hanno potuto visionarlo in microfilm prima della suapubblicazione in edizione critica nel 2000, il prodotto più compiuto esignificativo della travagliata fase di transizione dal cosiddetto "primo"al cosiddetto "secondo" Wittgenstein, che va dal 1929, anno deltrasferimento a Cambridge e del ritorno alla filosofia, a poco prima del1938, anno in cui egli stesso dichiara insoddisfacente il Big Typescript.Dettato nell'estate 1932 a un dattilografo sulla base di diversi volumimanoscritti, il grosso dattiloscritto era stato sottoposto a numerosecorrezioni, revisioni e vere e proprie riscritture a partire dal 1933 e inqualche caso persino nel corso della dettatura.

    La più notevole peculiarità esteriore del Big Typescript   èrappresentata dal fatto che esso, tra i numerosi scritti che costituiscono

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    l'opus postumum di Wittgenstein, è quello che più assomiglia a un libro.Circostanza più unica che rara nella babelica frammentarietà checaratterizza il Nachlass , il testo è infatti suddiviso in capitoli (19) eparagrafi (140) dettagliatamente titolati e preceduti da un sommariointroduttivo di ben 8 pagine, che vanno ad aggiungersi alle 768 deldattiloscritto. Questo è il motivo per cui esso è considerato il "terzo"libro vero e proprio che Wittgenstein (dopo il Tractatus e prima delleRicerche) pensò di pubblicare e per il quale concepì anche dei titoliprovvisori ("Osservazioni filosofiche", "Osservazioni sulla filosofia","Riflessioni filosofiche", "Grammatica filosofica"), rinvenuti neimanoscritti che ne costituiscono la fonte, finché, come detto, abbandonò

    definitivamente il progetto nel 1938 avendolo giudicatoinsoddisfacente. Non essendo possibile stabilire il titolo cheWittgenstein gli avrebbe dato se l'avesse pubblicato, questo scritto èrimasto noto presso gli studiosi come Big Typescript , che è l'espressionecon cui i tre esecutori testamentari del filosofo, Rush Rhees (executor ofthe will e literary executor), G.E.M. Anscombe e G.H. von Wright (questiultimi solo literary  executors), solevano riferirsi ad esso – per via dellamole considerevole – sin dal 1951, anno in cui, morto Wittgenstein,entrarono in possesso del Nachlass.

    Data la sua collocazione centrale nell'arco del peculiare percorsofilosofico di Wittgenstein, il Big Typescript   costituisce un mirabilecompendio di tutto il pensiero di Wittgenstein nel suo divenire econtiene tutte le sue molteplici articolazioni tematiche, dalla logica allafilosofia del linguaggio, dalla filosofia della matematica alla filosofiadella psicologia, dall'epistemologia alla fenomenologia. Per renderseneconto basta scorrere i titoli dei 19 capitoli che lo compongono: I. Capire.II. Significato. III. Proposizione. Senso della proposizione. IV. Lacomprensione istantanea e l'applicazione della parola nel tempo. V. Lanatura del linguaggio. VI. Il pensiero, il pensare. VII. Grammatica. VIII.Intenzione e raffigurazione. IX. Inferenza logica. X. Generalità. XI.Attesa, desiderio ecc. XII. Filosofia. XIII. Fenomenologia. XIV. Idealismoecc. XV. Fondamenti della matematica. XVI. Sui numeri cardinali. XVII.La dimostrazione matematica. XVIII. Dimostrazioni induttive eperiodicità. XIX. L'infinito in matematica; la concezione estensionale.

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    Alla luce di tutto ciò non si può non riconoscere, contrariamentea quanto sostiene Lo Piparo, che è davvero difficile, se non impossibile,al lettore di quest'opera sentire risuonare in essa echi gramsciani diqualche rilevanza, ammesso che ce ne siano.

    II) Nel § 2.V del già citato Trainito 2000, applicando aWittgenstein la teoria popperiana delle quattro funzioni del linguaggio,rilevavo incidentalmente che le funzioni del linguaggio coinvolte nelmetodo filosofico praticato e auspicato dal Wittgenstein antropologocorrispondono alle tre distinte da Bühler. Questo aggancio  prima facie 

    soltanto teorico-interpretativo potrebbe costituire un approfondimentoin chiave più tecnica del rapporto tra Wittgenstein e Bühler così come èstato messo in luce da William W. Bartley III (l'allievo e collega diPopper che, su incarico di quest'ultimo, all'inizio degli anni Ottanta delXX secolo ha curato i tre volumi del Poscritto alla Logica della scopertascientifica) nella sua discussa monografia dedicata al Wittgensteinmaestro di scuola elementare, un libro che al suo apparire, nel 1973,suscitò un vespaio di polemiche per via del disinvolto e oscuramentedocumentato racconto, nel primo capitolo, delle avventure omosessuali

    di Wittgenstein a Vienna all'epoca in cui studiava per l'abilitazioneall'insegnamento nelle scuole elementari. Com'è noto, Bartley sostenevache le vere ragioni del passaggio dal primo al secondo Wittgensteinandassero ricercate, più che in fatti occasionali e relativamente tardicome i colloqui con Ramsey e Sraffa a Cambridge, nell'influenza cheall'inizio degli anni Venti aveva esercitato su di lui il movimento diriforma della scuola austriaca, che aveva come leader politico eamministrativo il socialdemocratico Otto Glöckel e come  paradigma  leteorie psico-pedagogiche di Bühler, all'epoca molto influente a Vienna,come dimostra anche il caso di Popper (cfr. Bartley 1973, pp. 157-161).Questo già indicherebbe che Wittgenstein venne in contatto con certimemi, che Lo Piparo riconduce esclusivamente a Gramsci via  Sraffa,attraverso una fonte diversa e cronologicamente anteriore di almeno undecennio. E malgrado Wittgenstein nutrisse scarsa stima personale neiconfronti di Bühler, con cui si era anche incontrato nel 1927 a un pranzoa casa della sorella Margarete, tuttavia, osserva Bartley, è indubbio che

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    vi siano «similarità sorprendenti tra alcune delle principali idee diBühler e quelle del secondo Wittgenstein», similarità che egli sintetizzacosì: «(a) la loro opposizione all'atomismo psicologico e logico; (b) ilrimpiazzamento dell'atomismo con un contestualismo o configura-zionismo; (c) un convenzionalismo linguistico radicale costruito inopposizione alle dottrine essenzialiste; (d) l'idea di un 'pensiero senzaimmagine'» (p. 162). Ora, è sorprendente che il popperiano Bartley nontrovi significativo mettere a fuoco il ruolo chiarificatore di Popper nelgioco del rapporto tra Bühler e Wittgenstein, anche se nelle sue critichea Wittgenstein si serve (senza dichiararlo) di argomenti evidentementedesunti da Popper (cfr. ad es. Bartley 1973, pp. 91-92 con Popper [1934],

    1959, pp. XXXV-XXXVI e 1963, pp. 122-123; e Bartley 1973, pp. 99-100con Popper 1963, pp. 459-460). Egli, infatti, si limita a menzionare solodue volte il suo nome in due diversi piccoli elenchi di note personalitàdel mondo culturale viennese che entrarono nell'orbita rispettivamentedel movimento di riforma della scuola e dell'influenza di Bühler (p. 109e p. 161). Se invece diamo uno sguardo alle pagine dell'Autobiografia incui Popper, ricordando gli anni dell'Università, ricostruisce la storia deipropri rapporti con Bühler e con altri esponenti della scuola psicologicadi Würzburg, nonché le ragioni teoriche che lo spinsero ad andare oltre

    e a passare dagli interessi per la "psicologia della scoperta e delpensiero" a quelli per l'epistemologia, troviamo che il nostro incidentaleaccostamento tra Wittgenstein e la teoria bühleriana delle funzioni dellinguaggio, anche alla luce della tesi di Bartley, è del tutto naturale.Scrive infatti Popper: «Un ulteriore passo mi fece vedere che ilmeccanismo della traduzione di una dubbia dottrina logica [scil. quellaaristotelica di soggetto-predicato] in una presunta psicologia empirica[scil. quella atomistico-associazionistica di Locke, Berkeley e Hume] eraancora operante, e presentava i suoi pericoli, perfino in un pensatore ditanto spicco come Bühler. Nella Logica   di Külpe, infatti, che Bühleraccettava ed apprezzava moltissimo, le argomentazioni eranoconsiderate come giudizi complessi (e ciò è uno sbaglio, dal punto divista della logica moderna). Di conseguenza, non poteva darsi alcunadistinzione reale tra giudizio e argomentazione. Un'ulterioreconseguenza era che la funzione descrittiva del linguaggio (checorrisponde ai "giudizi") e la funzione argomentativa venivano ad

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    essere la stessa cosa. Bühler non riuscì quindi a vedere che queste duefunzioni potevano essere separate altrettanto chiaramente quanto le trefunzioni del linguaggio che aveva già distinto» (Popper 1976, p. 80).Popper, dunque, rimprovera a Bühler esattamente ciò che nel miovolume del 2000, sulla scorta anche dell'analisi di Diego Marconi, avevoattribuito a Wittgenstein, e cioè l'identificazione tra descrizione espiegazione, ovvero l'assorbimento della funzione argomentativanell'ambito di quella descrittiva, come conseguenza della confusione traargomentazioni e giudizi complessi. E, fatto oltremodo significativo,un'analoga confusione tra l'inferenza (implicazione logica) e l'assertocondizionale (implicazione materiale), rileva Popper in una nota

    relativa al passo citato, è operante anche in alcune parti dei Principia  Mathematica , cioè nel testo-chiave per la formazione del primoWittgenstein. In tal modo, prosegue Popper, Russell «mi disorientò pervari anni. Ma il punto principale – che un'inferenza è un insiemeordinato di asserti – nel 1928 mi era sufficientemente chiaro da poterneparlare con Bühler durante il mio esame (pubblico) per la laurea infilosofia. Egli ammise candidamente di non aver preso inconsiderazione la cosa» (p. 212, n. 93). Se la tesi di Bartley della grandeinfluenza esercitata da Bühler sul secondo Wittgenstein è plausibile, le

    osservazioni precedenti ci permettono di concludere che nel passaggiodalla fase logica, sotto l'influsso dei Principia  di Russell e Whitehead,alla fase antropologica, sotto l'influsso delle teorie psico-linguistiche diBühler, Wittgenstein rimase prigioniero di un'immagine gravementeriduttiva delle funzioni del linguaggio, con tutte le conseguenzepessimistiche sulle possibilità della conoscenza umana e dell'eserciziocritico-razionale della stessa filosofia che essa comporta.

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