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    Giovanni Piana

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    Il nostro linguaggio pu essere considerato come una vecchia citt

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    Il testo seguente riproduce materiali di lavoro predisposti per uncorso di commento alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein te-nuto nellanno accademico 197576 (Universit di Milano, In-segnamento di Filosofia Teoretica I). Per un commento di ampiorespiro vi ora il bellissimo volume di Paolo Spinicci, Lezionisulle Ricerche Filosofiche di Ludwig Wittgenstein, CUEM, Mi-lano 2002, reperibile anche in edizione digitale in Spazio Filo-

    sofico (http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico). Questo te-sto fornisce, oltre che una discussione particolarmente ricca, an-che indicazioni sulle tematiche che sono presupposte negliaspetti critico-polemici delle posizioni di Wittgenstein. Sulproblema del vedere come, presente nelle Ricerche Filosofi-che, ma con riguardo alle oss. 129 delle Osservazioni sulla filo-sofia della psicologia, si possono trovare vivaci spunti di rifles-sione in Paolo Bozzi, Vedere come, Guerini e Associati, Milano1998.

    LeRicerche Filosofiche sono citate nella traduzione di M.Trinchero, Einaudi, Torino 1967, i Pensieri diversi nella trad. it.

    di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1980. Variazioni eventuali ri-spetto alla traduzione italiana non vengono segnalate

    Di questo testo non esiste edizione a stampa.Edizione digitale: dicembre 2002.

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    Indice

    I.Gli enigmi della denominazione(Ric. Fil., oss. 135)

    1. Come abbiamo appreso il linguaggio2. Spunti per una critica3. Dal fruttivendolo4. Il linguaggio delle quattro parole5. Insegnamenti e giochi6. Linsegnamento ostensivo7. Giochi linguistici

    8. Leterogeneit dei modi del senso9. Proposizioni abbreviate e parole allungate10. Introspezione11. Nomi e concetti12. Intendere

    IITorniamo sul terreno scabro!(Ric. Fil., oss. 43107)

    1. Che cosa il significato di una parola2. Semplicit e composizione3. Tabelle e concetti4. La tabella perduta5. Una scopa nell'angolo6. Una grossa questione7. Somiglianze di famiglia8. Dubbi irragionevoli9. Torniamo sul terreno scabro!

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    IIIStrani processi(Ric. Fil., oss. 143219)

    1. Comprendere la legge di una successione2. Additare oltre lesempio

    IV.Comportamenti(Ric. Fil., oss. 243308)

    1. Comportamentismo e coscienzialismo2. Dare un nome ad una sensazione3. Gestualit corporea, espressivit e processi spirituali.

    V.Quando dico io(Ric. Fil., oss. 398465)

    1. Sullanima2. La vitalit dei segni3. Il vuoto e il pieno

    VI.Il linguaggio ed i linguaggi

    (Ric. Fil., oss. 487535)

    1. Lo scopo del linguaggio2. Pluralit dei linguaggi e linguaggio ordinario3. Espressione e contesto4. Il linguaggio e il metodo della filosofia

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    I.

    Gli enigmi della denominazione(Ric. Fil., oss. 135)

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    1. COME ABBIAMO APPRESO IL LINGUAGGIO

    Il passo di Agostino con cui si aprono le Ricerche Filosofichedeve essere considerato in tutte le sue pi piccole sfumature -ognuna pu essere importante ed accennare ad un problema

    Agostino descrive in breve in che modo si impara a parla-re. Egli pone le cose in stile autobiografico: quando ero un bam-bino e non sapevo ancora parlare, ho fatto cos e cos e cosfacendo ho imparato a parlare. Ma chi pu realmente essere ingrado di fare un simile racconto? Il ricordo non arriva sino alaggi. Possiamo soltanto cercare di immaginare come stiano le

    cose in proposito. Anche nella filosofia molto importante saperimmaginare.

    Ecco che cosa ne pensa il nostro santo. Il bambino non saparlare. Tuttavia osserva gli adulti, e questi parlano. Ma per ilbambino ci significa soltanto che essi proferiscono dei suoni - ementre lo fanno, fanno anche strane gesticolazioni: muovono ilcorpo verso qualcosa: corpus ad aliquid movebant. La vox la parola come semplice suono, accompagnata da certi gestiche accennano a qualcosa. Questa connessione deve essere oalmeno diventare a poco a poco evidente (aperiebatur), affinchil significato della parola possa essere appreso. Cos deve sussi-stere un linguaggio naturale di ogni gente, debbono esserci pa-role naturali che non sono affatto parole ma gesti, attraverso iquali, per chi guarda le cose dallesterno, e quindi anzitutto peril bambino che si trova ancora al di fuori del linguaggio possaapparire la connessione tra il suono che nomina e la cosa nomi-nata. I gesti sono ad esempio movimenti delle mani, ma ancheespressioni del volto, cenni degli occhi tutto ci con cui siesprimono le affezioni dellanimo e quindi eventualmenteanche lintenzione designativa del nome rispetto alla cosa. Leparole ricorrono spesso in contesti differenti fino a quando il

    rapporto designativo viene appreso ed io stesso bambino im-paro con questi segni a comunicare le mie volont.

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    cambia interamente le cose. In realt il bambino interamenteimmerso in un rapporto comunicativo gesti, movimenti, suoni e questo molto singolare per il fatto che dobbiamo anche dire

    che egli comunque fuori dal linguaggio a cui accede a poco apoco.

    Esaminiamo ora pi attentamente la spiegazione di Ago-stino. Si tratta di uneffettiva illustrazione di un processo di ap-prendimento, o non piuttosto della proiezione in termini di unaspiegazione sullapprendimento del linguaggio di una determi-nata immagine della natura del linguaggio stesso?

    La prima osservazione di Wittgenstein in effetti questa:Agostino propone una teoria che riguarda il linguaggio stesso.In breve essa la seguente: vi sono le parole e gli oggetti che es-se denominano le parole dunque sono in primo luogo nomi. Le

    parole entrano secondo regole nelle proposizioni pi varie (va-riis sententiis locis suis posita). Il significato della parola loggetto a cui la parola si riferisce. La parola, con il suo signifi-cato, sta al posto delloggetto. Loggetto lo possiamo indicarecon un dito e per questo il significato della parola pu essereappreso.

    La critica di Wittgenstein contro questa teoria forse tuttacontenuta in questo semplicissimo commento: Di una differen-za di tipi di parole Agostino non parla. La descrizione propostasi attaglia infatti abbastanza bene alle parole che sono appuntonomi di cose additabili tavole sedie armadi, Paolo Pietro Gio-

    vanni. Chi pensa che la natura del linguaggio possa essere de-scritta cos ha probabilmente in mente esempi di questo genere.Eppure tutti sappiamo che vi sono parole che non hanno un si-gnificato nello stesso modo in cui lo hanno i nomi in genere e inomi propri in particolare. Un verbo, ad esempio, qualche volta(ma non sempre) pu essere mostrato con un gesto ad esem-pio, il verbo camminare camminando. Ma gi una simile indi-cazione gestuale ha un carattere interamente diverso dalla desi-gnazione nel senso in cui se ne parlava poco fa. Ci sono terminiche indicano relazioni, ed anche le relazioni non sono indicabilinello stesso modo. Non posso mostrare a dito il fatto che una co-

    sa si trova alla sinistra di unaltra. Vi sono parole che significa-no numeri ed entit astratte in genere. Oppure stati interiori, co-

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    landamento di scene teatrali minime. Talvolta si tratta di accen-ni di favole o di pure fantasie. La piccola vicenda di cui ora sinarra rimanda invece ad situazione banalmente quotidiana. Si

    tratta di Tizio che va a comperare cinque mele da un fruttiven-dolo per ordine di Caio.

    Ma in che modo curioso questa vicenda viene rappresen-tata ! Tutto il succo della storia sta effettivamente nella singola-rit e nella stranezza della rappresentazione. Infatti non si dicesoltanto che Tizio per ordine di Caio si recato dal fruttivendoloed ha acquistato cinque mele rosse. Si dice invece che Caio con-segna a Tizio un biglietto con sopra scritto cinque mele rosse(scena prima); che Tizio si reca dal fruttivendolo e gli consegnail biglietto (scena seconda).

    Occorre poi immaginare e qui la faccenda diventa effet-

    tivamente un po strana che il negozio del fruttivendolo nonsia affatto come quelli che conosciamo, ma simile invece ad unufficio tutto pieno di cassetti contrassegnati da etichette, con so-pra scritto, mele, pere, ecc.

    La terza scena interamente occupata dai comportamentidel fruttivendolo il quale, afferrato il biglietto, comincia conlaprire il cassetto con sopra letichetta mele. Tra le attrezzatu-re di questo singolare negozio di frutta vi anche una grande ta-bella, simile a quella impiegata nei negozi di vernici. Il frutti-vendolo dunque utilizza un campionario di colori accanto adogni strisciolina colorata vi , anche in questo caso, un etichetta

    dove sta scritto rosso, verde, marrone, ecc. Egli cerca allora laparola rosso e guarda la strisciolina colorata che gli sta ac-canto. Guarda ancora nel cassetto e dice ad alta voce 1, 2, 3, 4,5 ed ogni volta tira fuori dal cassetto una mela di colore corri-spondente a quello del campione.

    In realt difficilmente si potrebbe riassumere tutto ci di-cendo che una comunicazione stata scritta su un biglietto e tra-smessa al fruttivendolo che, avendola compresa, si comporta diconseguenza. In effetti Wittgenstein evita una simile terminolo-gia, non parla di comunicazione, di significati messi per iscrittoe compresi nella lettura. E riesce a realizzare questa esclusione

    operando una sorta di straniamento della situazione quotidiana:come se tutto fosse compiuto da una macchina complessa, di cui

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    ognuno degli attori e delle cose impiegate rappresenta un conge-gno. E strano che nessuno dei commentatori di Wittgenstein,abbia pensato, che io sappia, ad un moderno calcolatore. Eppure

    tutto avviene come in un dialogo tra automi che dialogo non affatto, ma che funziona esattamente come se lo fosse. Noisiamo in grado di dare istruzioni ad un calcolatore, ed il calco-latore in grado di eseguirle correttamente, ma in ogni caso nonle comprende (Come puoi esserne cos certo? mi si potrebbechiedere).

    Si pu anche immaginare di disporsi verso quella situazio-ne nella forma di spettatori non partecipi: come se noi stessi fos-simo degli extraterrestri giunti da un altro pianeta che, appenasbarcati dalla nostra navicella spaziale, osserviamo di nascosto ilmodo di comportarsi di questi esseri semoventi del pianeta terra.

    Vediamo dunque che Caio scrive, Tizio porta il biglietto alfruttivendolo che lo legge, apre e chiude i cassetti, consultacampionari di colori, ecc., ma scrivere e leggere hanno peril visitatore extraterrestre il senso di puri movimenti, come apri-re un cassetto che ha sopra lo stesso disegno che compare nelfoglietto o estrarre da esso una mela, cos anche il senso di purisuoni le parole 1, 2, recitate dal fruttivendolo nellaperturadel cassetto.

    Sarei incline ad annoverare tra i metodi di Wittgensteinanche un simile effetto di straniamento: si guarda alla situazioneinibendosi ogni legame che in qualche modo ci renda in via di

    principio compartecipi ad essa. Ecco un esempio riguardante ilriso: Due ridono insieme per una battuta di spirito. Uno hausato certe parole abbastanza inconsuete e ora scoppiano en-trambi in una sorta di belato. Tutto ci potrebbe apparire moltostravagante a chi non sia di queste parti, mentre per noi deltutto ragionevole. Con un rimando autobiografico: Ho osser-vato questa scena poco fa in un autobus e ho potuto immedesi-marmi in uno che non vi fosse abituato. La cosa mi parsa allo-ra del tutto irrazionale, come le reazione di un animale a noisconosciuto (Pensieri diversi, p. 142).

    Questo effetto di straniamento serve soprattutto per mette-re in evidenza un problema l dove non se ne vedrebbe alcuno.

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    Se consideriamo lazione di compravendita secondo questa de-scrizione ci rendiamo subito conto che non possiamo affattoconcludere dal comportamento del fruttivendolo che egli ha

    compreso il significato della parola mela: infatti egli non faaltro che operare un confronto visivo tra un segno con un altrosegno. Ma lo stesso vale per la parola rosso: anche in questocaso egli mette a confronto due segni grafici, confrontando poi ilcolore mostrato dal campionario con i colori che egli vede quan-do guarda le mele del suo cassetto. Il fruttivendolo poi conta ve-ramente? Tutto ci che sappiamo appunto ci che udiamo: ilfruttivendolo che emette alcuni suoni accompagnati dal gesto diestrarre dal cassetto ogni volta una mela.

    Mentre partecipando allintera scena per noi ovvio checi che avviene sia una comunicazione autentica che richiede in

    particolare la mediazione di processi mentali come il compren-dere o il contare, non appena la poniamo a distanza mettendo inopera un effetto di estraneazione, appare chiaro, e nello stessotempo un poco inquietante, che tutto potrebbe funzionare esat-tamente nello stesso modo, che il problema della comprensionee del significato potrebbe anche non essere posto. I protagonistidella storia potrebbero essere automi, oppure ci potremmo trova-re in presenza di un unico automa nel quale allinizio fosse im-messo qualcosa di simile ad una scheda con dei segni sopra, epoi tutto va da s alla fine: ecco cinque mele rosse!

    E subito affiora un complesso di interrogativi rispondere ai

    quali non pi affatto ovvio. Che cosa significa leggere un mes-saggio, comprenderne il senso, in che cosa consiste propria-mente il significato di una parola e in che cosa il rapporto co-municativo?

    In una storia narrata cos, le parole intervengono comeparti di unazione complessiva, che potrebbe anche essere con-siderata come un meccanismo. Sembra allora che il problemadel significato non si ponga neppure. Ma si suggerisce anche cheil problema del significato deve essere posto proprio come unmomento interno che funziona dentro una situazione complessi-va che genera azioni e reazioni. Tuttavia non possiamo ancora

    trarre una conclusione. Le forbici del barbiere sono ancora inaria: Delle proposizioni che qui trascrivo solo una ogni tanto fa

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    un passo avanti: le altre sono come lo scatto delle forbici che ilbarbiere deve tenere in movimento per dare un taglio al mo-mento giusto (Pensieri diversi, p. 123).

    4. IL LINGUAGGIO DELLE QUATTRO PAROLE

    Una nuova riuscita sforbiciata ci porta ad unaltra piccola storia il cui attacco mette in questione leccessiva semplicit dellaconcezione di Agostino, il fatto che essa troppo primitiva ed

    inadeguata alla complessit del nostro linguaggio. Se cos pos-siamo immaginarci un linguaggio pi primitivo del nostro, unlinguaggio semplicissimo per il quale valga la descrizione da-taci da Agostino. Manco a dirlo, il linguaggio primitivo imma-ginato non si attaglia affatto letteralmente alla teoria di Agostinoma ha lo scopo esplicito di confonderla.

    Si tratta del linguaggio delle quattro parole mattone,pilastro, lastra, trave. Vi sono anche due attori, il muratore e ilsuo aiutante. E quando il muratore dice: lastra, il suo aiutantegli porge una lastra, quando dice mattone, gli porge un matto-ne, e cos per il resto.

    Anche in questo caso siamo di fronte ad una situazionequotidiana, in cui vi sono due persone che fanno qualcosa, e chefacendo qualcosa si parlano. Le parole sono poi anche qui partidi unazione complessiva e agiscono a loro volta allinterno diessa. Leffetto di straniamento viene ora ottenuto traducendo la-zione quotidiana in unimprobabile finzione, secondo la qualepotremmo considerare il linguaggio delle quattro parole comeun linguaggio completo, come se le quattro parole rappresentas-sero tutto il vocabolario di un linguaggio, ovvero, come si espri-me Wittgenstein, tutto il linguaggio di una trib. Si affacciaqui un altro dei metodi di Wittgenstein, che si trova peraltro in

    una certa connessione con leffetto di straniamento. Spesso ri-corrono esempi puramente immaginari relativi agli usi e costu-

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    6. LINSEGNAMENTO OSTENSIVO

    Ridurre linsegnamento ostensivo dei nomi allatto semplice delsegnare a dito, pone peraltro diversi problemi. Il bambino, comeabbiamo detto, non pu ancora chiedere il nome degli oggetti.Il bambino dunque non solo ignora il nome di questa o quellacosa, ma non ne sa nulla nemmeno dello stesso rapporto deno-minativo. Se egli potesse formulare la domanda Come si chia-ma questo o questaltro?, evidentemente si troverebbe gi den-tro il linguaggio, per lui si sarebbe gi costituito il rapporto di

    denominazione, cosicch anche lindice puntato insieme alla pa-rola avrebbe la portata di un gesto equivalente a quel rapporto epotrebbe essere compreso. Allinizio, non si tratta soltanto dimostrare il significato di una parola, ma anche che le parolehanno un significato.

    Il segnare a dito allora tuttaltro che un gesto chiaro e di-stinto. Puntiamo il dito sulla cosa ed emettiamo un suono: mache cosa mai pu capire il bambino? Deve forse ridere o piange-re? Il dito puntato non significa nulla se non so che i nomi sonodita puntate.

    Linsegnamento ostensivo non dunque soltanto un indi-

    care a dito come se la parola fosse definita mostrando la cosa.Io credo che Wittgenstein parli di insegnamento ostensivocontrapponendo questa espressione alla cosiddetta definizioneostensiva, credo anzi che vi sia una sottintesa e vivace polemi-ca contro questa associazione terminologica tra definire emostrare.

    Cerchiamo di comprenderne le ragioni. Quando non cono-sciamo il significato di una parola, ne cerchiamo appunto la de-finizione in un vocabolario. Naturalmente in esso noi troviamosempre dei sinonimi o dei giri di frase che hanno allincirca lostesso significato di quella parola. Se qualche espressione com-

    presa nella definizione non ci nota nel suo significato, alloraprocederemo esattamente nello stesso modo, ricercandone la de-

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    apprendere contestualmente il senso certamente pi aderentealle cose e pi ricca di pensiero.

    7. GIOCHI LINGUISTICI

    Tutti gli esempi, tutte le discussioni continuano a riproporre illinguaggio, le parole, in contesti di esperienza e di azione. Nellescene del fruttivendolo e del muratore si rappresentava un agirecon le parole. Ed un agire con le parole certo anche il rapportodel maestro con lo scolaro. Inoltre tutti questi esempi possonoanche essere intesi come giochi, assomigliano a giochi; e tutti

    questi giochi assomigliano al linguaggio stesso. Li chiamergiochi linguistici e talvolta parler di un linguaggio primitivocome di un gioco linguistico. E si potrebbe chiamare gioco lin-guistico anche il processo del nominare i pezzi, e quello consi-stente nella ripetizione, da parte dello scolaro, delle parole sug-gerita dallinsegnante. Pensa a taluni usi delle parole nel giocodel girogirotondo. Inoltre chiamer gioco linguistico anchetutto linsieme costituito dal linguaggio e dalle attivit di cui intessuto. Questo quanto si dice nelloss. 7, nella quale vieneintrodotto il concetto fondamentale delleRicerche Filosofiche, ilconcetto di gioco linguistico. Il modo in cui esso viene intro-

    dotto tuttavia sommesso, senza troppe spiegazioni, senza enfa-si. I nostri drammi minimi e in tedesco, la lingua in cuiWittgenstein scrive, dramma (rappresentazione teatrale) si diceanche Spiel cominciano a suggerire che cosa dobbiamo inten-dere con gioco linguistico (Sprachspiel), ma certo dovremoattendere ancora prima di saper trarre di qui un vero profitto.

    Intanto non perdiamo in ogni caso di vista la storia internadel problema. Nella prospettiva del Tractatus , nella quale si in-tendeva soprattutto mettere in evidenza una struttura logica pro-fonda del linguaggio aderente alla stessa essenza del mondo, aWittgenstein interessava soprattutto assicurare un vincolo tra

    linguaggio e realt e nello stesso tempo il fatto che il linguaggio una costruzione a partire da regole definite e concluse. Il lin-

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    guaggio anzitutto calcolo. Le letture logiciste del Tractatusnon si avvidero che in esso era fortemente attiva una istanzaformalistica che forse non era sfuggita a Russell nel suo giudi-

    zio quasi sprezzante sulla filosofia della matematica del Trac-tatus. Proprio allinterno del formalismo matematico si imponelanalogia con il gioco, come del resto si era imposta nella ri-flessione linguistica e filosofica (De Saussure, Husserl).

    Ma quale gioco? Questa precisazione assolutamente ne-cessaria. Si trattava regolarmente del gioco degli scacchi.Nelloss. 3 si dice: come se qualcuno spiegasse: il giococonsiste nel muovere cose su una superficie secondo certe rego-le e noi gli rispondessimo: sembra che tu pensi ai giochi fattisulla scacchiera: ma questi non sono tutti i giochi. Puoi renderecorretta la tua spiegazione restringendola espressamente a questi

    giochi.In effetti, se ci atteniamo allo spirito di una concezione

    formalistica il gioco degli scacchi ci interessa per almeno treaspetti che ci consentono di illustrare analogicamente la nozionedi calcolo:

    1. vi anzitutto quella che potremmo chiamare la chiusuradel gioco. Il gioco basta a se stesso come Wittgenstein dicevadella logica in genere cio non ha bisogno di nessun riferi-mento ad una realt esterna ad esso. In questo senso lo spaziodel gioco uno spazio rigorosamente chiuso, non ha alcuna re-lazione con lo spazio che sta intorno: nulla ha a che vedere la

    superficie della scacchiera con la superficie del tavolino su cuiessa poggia. Non vi nessuna strada che conduce dallunaallaltra. Il pezzo del gioco tale solo allinterno di questo spa-zio, sul tavolino una cosa come ogni altra.

    2. Negli scacchi i pezzi sono figure materiali, fatte di le-gno, di avorio o di altri materiali che nel loro nome o nella lorofattura rimandano a personaggi o a cose reali. Ma per quantoquesto nome o questa fattura abbiano importanza in rapporto alpiacere ed al fascino del gioco, essi sono del tutto indifferenti ai finidella sua realizzazione. I pezzi non solo si muovono secondo re-gole, ma sono anche niente altro che simboli di queste regole. La

    risoluzione del pezzo nella regola un altro elemento che pu esse-re considerato interessante allinterno di questo contesto.

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    3. Se i pezzi non sono altro che simboli delle regole, i gio-catori non sono a loro volta che strumenti di esse. Nel gioco de-gli scacchi si affaccia dunque lidea della deduzione formal-

    mente intesa, del calcolo nella sua accezione generale: vi in-fatti una disposizione iniziale dei pezzi della scacchiera ed ognialtra posizione acquisita per applicazione iterata di regole bendefinite. Il fatto che queste regole siano convenzionali assaimeno importante del fatto che chiunque voglia giocare a scacchi tenuto ad applicarle.

    Consideriamo ora lidea del linguaggio alla luce di questaimmagine. Il linguaggio formato di parole ma ci che im-porta non sono le parole in se stesse, nella loro materia grafica ofonica, ma regole dalla cui applicazione sorgono le proposizioni:le parole sono dunque simili ai pezzi del gioco, le proposizioni

    alle configurazioni raggiunte nel gioco attraverso lapplicazioneiterata delle regole. E come non abbiamo bisogno di stabiliredelle corrispondenze tra pezzi e configurazioni e qualcosa chesta al di fuori del gioco stesso, cos possibile una considera-zione puramenteformale (sintattica) del linguaggio, nella qualevengono messi da parte i riferimenti di senso delle formazionilinguistiche.

    notevole, a mio avviso, il fatto che il mutamento radi-cale della concezione di Wittgenstein sia guidato dalla stessaimmagine, dallo stesso riferimento illustrativo al gioco. Coglierecon chiarezza la componente formalistica allinterno del Trac-

    tatus importante anche ai fini di rendere conto degli sviluppisuccessivi del pensiero di Wittgenstein. Questo si sviluppa in-fatti proprio in una costante riflessione intorno al formalismo,che si esercita in una grande variet di forme sullesempio delgioco.

    Si comincia a prendere per buona questa analogia il lin-guaggiocalcolo e il gioco degli scacchi e ad elaborarla, perpoi estenderla ed ampliarla. Non si tratta pi soltanto del giocodegli scacchi, ma di questo gioco tra gli altri giochi possibili, deigiochi in genere. Nella filosofia possiamo proporre unimma-gine in due modi molto diversi: da un lato a scopi illustrativi, per

    dare immediatezza ed evidenza intuitiva ad unargomentazioneo ad un concetto astratto, dunque come ausilio alle nostre spie-

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    mento sconsiderato o imprudente? Suona strana la domandastessa. Oppure ci siamo da tempo immemorabile comportati cosperch si trattava soltanto di un gioco? Certamente no, perch

    anche in rapporto allaritmetica, solo in tempi molto recenti ilproblema di una prova della sua coerenza intrinseca diventatoimportante. Ma importante da che punto di vista? Non forsevero che anche nel caso del gioco aritmetico per secoli e secolinon ci si preoccupati affatto della sua possibile contradditto-riet, senza che ci impedisse il successo e il costante sviluppodi quella disciplina?

    Lanalogia con il gioco produce lo smontaggio del pro-blema della non contraddittoriet e la sua riconsiderazione daaltri punti di vista che non sia quello di ottenere garanzie e fon-dazioni assolute.

    Ci dobbiamo chiedere: che cosa potrebbe voler dire im-battersi in una contraddizione nel gioco degli scacchi? Oppure:come ci comporteremmo se ci imbattessimo in una contraddi-zione nel gioco degli scacchi? Ma poi anche: perch sempre emonotonamente il gioco degli scacchi? Non vi sono forse moltialtri giochi assai diversi da questo e che possono non meno diquesto insegnarci molte cose intorno al linguaggio? Perch nu-trirsi di questo unico tipo di esempi?

    Limmagine del gioco, liberamente sviluppata, apre nuovepossibilit. Essa non ci consente soltanto di proporre e nellostesso tempo di smitizzare il linguaggio come calcolo, ma di de-

    limitare un simile modo di considerare il linguaggio come unapossibilit tra altre. Limmagine del gioco pu anche richiamarela nostra attenzione sullintegrazione del linguaggio in un conte-sto di azioni. La concezione sintattica viene in certo modo anco-ra mantenuta, ma con la differenza che ora nella sintassi inter-vengono in un unico inviluppo gli attori del dramma e le cosesu cui agiscono. Il concetto di sintassi deborda dal piano lingui-stico a quello extralinguistico, o meglio: i limiti che separanolun piano dallaltro diventano indefiniti, e il momento del sensosi fa nuovamente avanti come parte del contesto complessivo.

    Muovendo da un presupposto formalistico e in certo modo

    con le sue stesse armi, ovvero seguendo gli sviluppi internidellimmagine del gioco, perveniamo ad una prospettiva intera-

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    mente diversa e per certi versi opposta. In una concezione for-malistica laspetto propriamente sintatticogrammaticale devesubito essere chiaramente distinto dallaspetto semantico. Anzi-

    tutto vi sono i segni, i pezzi del gioco, che non significano nullaal di fuori del gioco stesso, che hanno solo un significatodigioco, un significato che si risolve nella regola. Ad essi pos-siamo apporre una semantica, istituendoli come segni di qual-cosa daltro, come nomi.

    Nella nuova concezione il linguaggio appare invece findallinizio invischiato con la realt, e la realt stessa qualcosadi interamente diverso da un aggregato di oggetti a cui vanno adannodarsi le corde del significato. Proprio per questo occorreprestare attenzione allespressione gioco linguistico evitandoun fraintendimento: essa non deve essere intesa come se lag-

    gettivo linguistico delimitasse il tipo di gioco. Non si intendeun gioco fatto di parole: al contrario con quella espressione sivuole in primo luogo caratterizzare un punto di vista nel quale leparole stesse sono integrate in unazione pi ampia. Il filo rossoche giunge sino al fondo delle Ricerche Filosofiche e che co-mincia a snodarsi fin dalle primissime osservazioni lidea cheimmaginare un linguaggio significa immaginare una forma divita (oss. 19).

    8. LETEROGENEIT DEI MODI DEL SENSO

    Per non perdere il bandolo della matassa che Wittgenstein va orasbrogliando ora imbrogliando, certamente opportuno tentare dioperare dei raggruppamenti delle osservazioni, cercando di indi-viduare delle cadenze, dei respiri, dei punti di pausa e di sospen-sione. Una cesura pu essere certamente posta alla settima os-servazione proprio perch essa introduce il termine di giocolinguistico.

    Un nuovo raggruppamento potrebbe raccogliere insiemedalla proposizione ottava alla proposizione diciottesima. A suo

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    fetti diversi, e la locomotiva si muove nel gioco di tutte questediverse funzioni.

    Talvolta possiamo prestare attenzione alle somiglianze ed

    operare assimilazioni. Wittgenstein non dice mai che non sidebba fare questo. Ma laccento cade prevalentemente sul ri-schio che si corre nel compiere queste assimilazioni quando essecoprono nette differenze nel modo di impiego: assimilando intal modo luna allaltra le descrizioni degli usi della parola nonsi rendono per nulla simili questi usi (oss. 10). Ma con questaassimilazione dellespressione si sarebbe guadagnato qualcosa?(oss. 14).

    Anzi, non solo non si guadagna nulla, ma si rischia di ri-metterci: di introdurre la confusione, di far sorgere problemimale impostati e malamente risolti. Affiora cos il problema

    dellanalisi del linguaggio come metodo della riflessione filo-sofica: limpiego delle parole non ci sta davanti in modo evi-dente. E specialmente non, quando facciamo filosofia!. Di quiconsegue certamente che la chiarificazione intorno ai modi diimpiego delle parole fa parte dei metodi della filosofia. Essa non il metodo della filosofia, lunico metodo autentico idea findallinizio attribuita a Wittgenstein e che ha fatto scuola. Sitratta invece di unidea che a mio avviso, gli profondamenteestranea. In Wittgenstein vi una pluralit di metodi lo ab-biamo gi pi volte ribadito. E del resto anche lanalisi del lin-guaggio si situa qui ben oltre il piano di una questione pura-

    mente metodologica, per mettere in causa importanti aspetti dicontenuto.A questo proposito si possono raccogliere alcuni spunti

    cominciando dal problema dei numerali (oss. 9 e 10). Sullosfondo vi la questione di una illustrazione del concetto di nu-mero e di una teoria del numero che per quanto non sembri oc-cupare in questopera uno spazio significativo, continua tuttaviaad essere presente. Lesempio dei numerali non soltanto unapossibile illustrazione della variet dei modi della designazionegenericamente intesa, ma esso intende anche dire: se vuoi elabo-rare una giustificazione filosofica del numero non devi lasciarti

    guidare da considerazioni di filosofi che operano false assimila-zioni concettuali: seguendo questa via si potrebbe essere tentati

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    di considerare i numeri come entit a s stanti, come oggettivitin s, come mattoni eterei. Devi invece pensare allinsegna-mento ostensivo del numero, al modo in cui limpiago delle pa-

    role di numero viene mostrato ai bambini e da essi viene appre-so. certo infatti che anche qui, come nel caso dellintroduzioneprimitiva delle parole, si tratta anzitutto di mostrare qualcosa.Ma nemmeno in questo caso si tratta di un semplice mostrareindicativo, di un segnare a dito. Lindicazione pu valere forse! per i numerali pi piccoli, che potrebbero essere pre-sentati come nomi di gruppi di cose che possono essere affer-rati con lo sguardo (oss. 9). Ma ben presto lapprendimento do-vr legare il numero alla successione ad una successione reci-tata durante una determinata azione compiuta su cose.

    Se diciamo che i numerali designano numeri, allora sem-

    bra abbastanza inevitabile che i numeri siano concepiti comeentit che ci stanno di fronte esattamente come una lastra o unmattone. In questo caso il parlare di designazione suscita incer-tezze perch potremmo avere dubbi sul fatto che sia giusto con-cepire i numeri in questo modo; e del resto non vorremmo nem-meno essere costretti ad assumere che i numeri debbano essereconcepiti cos per il solo fatto che ci esprimiamo in questomodo.

    Pensando ad un possibile insegnamento ostensivo co-munque certo che non potremmo mostrare i numeri come og-getto di riferimento dei numerali. Non sapremmo infatti come

    dovremmo gesticolare. Eppure non vi dubbio che anzituttolinsegnamento dovr essere ostensivo. Si mostrano i numerali esi mostra il loro uso. Si potrebbe proporre ad un bambino il gio-co del fruttivendolo, invertendo di tanto in tanto le parti. In que-sto modo si insegna a fare qualcosa con i numerali e quanto alladesignazione, ci disinteressiamo del tutto della questione. Si in-segna dunque a compiere una certa azione, a dire, insieme ad es-sa certe parole, uno, due, ecc. E questo tutto. Lindicare unacosa unazione come il sollevarla o lo spostarla; ma vi evi-dentemente una differenza. Indicando una cosa non facciamoproprio nulla con essa. Sembra difficile mostrare il significato di

    un numerale senza manipolare cose, senza un fare in senso pro-prio.

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    Linsegnamento ostensivo procede in un modo se deve in-segnare il significato della parola lastra, in un altro se deve in-segnare il significato della parola cinque. Cos se diciamo che

    luna e laltra parola hanno un significato, dovremmo subito no-tare che non lo hanno nello stesso modo. Nulla ci impedisce pe-raltro di affermare che cinque designa un numero e lastrauna lastra. Possiamo essere consapevoli che il rapporto designa-tivo ha una molteplicit di aspetti differenti bench si corra ilrischio di false assimilazioni. La generalit del rapporto di desi-gnazione deve essere ricondotta alle particolarit dei modi diimpiego, e ci evidentemente fa tuttuno con lo spostare lotticadel discorso dal linguaggio ai giochi linguistici, entro i quali di-venta realmente visibile il modo di funzionare delle parole.

    Il riferimento allinsegnamento ostensivo ed allappren-

    dimento infantile della successione numerica ha, a mio avviso,anche una diversa inclinazione: non si tratta solo di attirarelattenzione sui modi di impiego, ma anche di suggerire che, aifini di una chiarificazione filosofica del concetto di numero, piche ad elaborate costruzioni logiche, dovremmo regredire ad unadimensione nella quale dellaritmetica e della logica non sap-piamo ancora nulla. Ed il modo e la maniera in cui si costitui-sce la parola numerica deve offrirci chiarimenti importanti sullanatura del concetto corrispondente. A me sembra di cogliere inquesto la possibilit di un punto di contatto ricco di senso con latematica fenomenologica relativa ad una chiarificazione dei

    concetti che regredisce al piano antepredicativo.

    9. PROPOSIZIONI ABBREVIATE E PAROLE ALLUNGATE

    Oggetto di problematizzazione sono anche le distinzioni gram-maticali correnti (oss. 1925). Si pensi alla distinzione tra pro- posizione dichiarativa e proposizione imperativa. O addiritturatra proposizioni e parole. In questultimo caso si potrebbe dire:la parola una parte della proposizione e la proposizione uncomplesso di parole. A questa distinzione si accenna gi nella

  • 8/3/2019 Piana G., Commenti a Wittgenstein

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    citazione di Agostino: in essa si parla infatti di verba in variissententiis locis suis posita: il verbum ci che occorre nellasententia, e precisamente disposta in essa nel luogo appro-

    priato.Tutto chiaro, a quanto sembra. Eppure nel gioco linguisti-

    co del muratore ci si pu chiedere Lastra! una parola o unaproposizione?.

    Supponiamo che qualcuno risponda: una parola, certa-mente non vi dubbio su questo punto.

    Netta, e suggestiva, lannotazione di Wittgenstein: se co-s allora deve trattarsi di una parola che ha un senso completa-mente diverso da quello che questa stessa parola ha nel nostrolinguaggio perch in quel gioco linguistico essa un grido. importante rammentare sempre che il linguaggio delle quattro

    parole stato assunto come un linguaggio completo e ci si-gnifica non solo che esso non possiede altre espressioni, ma an-che che non da intendere come se fosse una piccola parte delnostro linguaggio. Perci nel testo si parla non a caso di un gri-do, e non di un ordine: allinterno di quel linguaggio infatti cisono solo parole gridate e non mentre non vi sono proposizioniimperative e dichiarative. Naturalmente se, presupponendo ilnostro linguaggio, facciamo valere una simile distinzione, allorapotrebbe sembrarci pi giusto parlare di Lastra! come di unaproposizione imperativa abbreviata. Ci si potrebbe tuttavia an-cora chiedere che cosa sia propriamente quella espressione re-

    stando rigorosamente allinterno di quel linguaggio. Ma anchefacendo riferimento al nostro linguaggio, che Lastra! sia unaespressione abbreviativa della proposizione imperativa Portamiuna lastra! per Wittgenstein non affatto evidente. Ma perchnon dovrei dire, viceversa, che la proposizione Portami una la-stra! un prolungamento della proposizione Lastra!. Un ro-vesciamento del problema che ci coglie di sorpresa. Eppuremuterebbero di molto le cose se adottassimo questaltro punto divista?

    Si potrebbe ancora protestare: chi dice Lastra! intende inogni caso che gli si porti una lastra. E Wittgenstein di rincalzo:

    che cosa significa intendere in questo caso? Diciamo forse den-tro di noi la proposizione pi lunga? Certamente no. In realt

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    intendiamo che mi si porti una lastra appunto con il gridoLastra! e per intendere ci non vi bisogno della proposizionePortami una lastra e nemmeno di assumere che quel grido sia

    una sua abbreviazione. Gridando Lastra! voglio che mi si portiuna lastra, ma questo volere non consiste nel pensare, in unaforma qualsiasi, una proposizione diversa da quella che tu dici,e tu dici appunto niente altro che Lastra!.

    La messa in questione della distinzione tra proposizionedichiarativa e imperativa potrebbe anche presentarsi in questaforma: che cosa contraddistingue una proposizione (vogliamoconsiderarla tale) come cinque lastre per informare qualcunoche qui ci sono cinque lastre oppure quando la usiamo per farciportare cinque lastre? Nella scrittura in questo secondo casometteremmo un punto esclamativo, nel parlato probabilmente

    alzeremmo il tono della voce. Lunica differenza sembra consi-stere dunque in un modo diverso di emettere gli stessi suoni.

    Domande analoghe si potrebbero avanzare in rapporto alladistinzione tra proposizione dichiarative e interrogative. Del re-sto gi nelluso quotidiano ci sono ben note forme come: 1.Non meraviglioso il tempo oggi?. Domanda o dichiarazio-ne? 2. Vorresti far questo? Domanda, ma pu assumereforma di ordine. 3. Lo farai: potrebbe ben essere un modo diordinare a qualcuno di fare qualcosa una sorta di futuro impe-rativo (oss. 21). Tuttavia sarebbe erroneo che qui si voglia solomettere in evidenza lelasticit e la plasticit espressiva del di-

    scorso corrente. Vi sono anche esempi del tutto fittizi, comequando si ipotizza un linguaggio in cui ogni asserzione for-mulata nella forma di una domanda seguita da un si o da unno (Piove? Si, Piove? No) (oss. 22), il cui unico interesse,a quanto sembra sta proprio nellallontanare lidea che una si-mile riflessione riguardi usi consueti e comuni. A maggior ra-gione il caso di chiedersi: a che scopo un simile rimescola-mento delle carte?

    Intanto non vi dubbio che qui Wittgenstein miri anzituttoa confonderci. Ci che sembra si voglia mettere in dubbio cheil linguaggio abbia una struttura in qualche modo ben determi-

    nata. Di fronte alla chiara distinzione tra parola e proposizione,facciamo di tutto per renderla ambigua e controversa. E nellar-

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    gomentare non si rifugge dallassumere posizioni estreme. Si faavanti anche il sospetto di unoperazione puramente scettica. Ri-correndo ai mezzi pi vari non escluse argomentazioni che

    volentieri cercheremmo di respingere come puri sofismi sem-bra si persegua lo scopo puramente negativo di introdurre laconfusione dove cera prima nella nostra testa una passabilechiarezza. Se qualcuno sostiene di sapere distinguere tra cosacome interrogazioni, ordini, accertamenti, constatazioni gli sipropone subito un esempio critico tratto dal discorso corrente oanche liberamente inventato e che richiede improbabili contesti.

    Qualcuno ora grida Aiuto! (cfr. oss. 24), mentre sta an-negando nel fiume. Ed il filosofo seduto meditabondo sulla rivapassa in rassegna le varie possibilit. Si tratta forse anzitutto diunesclamazione. Quella parola la scriveremmo infatti con il

    punto esclamativo. Tuttavia non negheremmo certo che in quelgrido sia contenuto qualcosa di simile ad una domanda o ad unaimplorazione. Occorrer allora senzaltro introdurre un nuovotipo di proposizione implorativa? O forse dovremmo annove-rare questa parolaproposizione tra gli ordini, dal momento chesentiamo che ci viene detto in modo impellente di fare qualcosa?Infine non c dubbio che si fornisce anche una semplice infor-mazione: Io sto annegando.

    Di fronte al problema della distinzione tra le forme gram-maticali che naturalmente anzitutto un problema di una diffe-renziazione concettuale, sembra che si voglia alzare scettica-

    mente le spalle: fai come vuoi. Nel gioco del muratore puoi direche Lastra! una proposizione oppure che una parola. Puoiaddirittura dire che luna e laltra cosa insieme. Oppure che una proposizione abbreviata, ma puoi anche dire che la proposi-zione Portami una lastra una parola allungata. Ed infine puanche darsi che un simile problema non sorga nemmeno, chenessun si sogni di fare simili domande.

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    10. INTROSPEZIONE

    Questo andirivieni che sembra descrivere un andamento scetticosi ritrova qui, come ovunque nelleRicerche Filosofiche di Witt-genstein. Ma io credo si tratti di uno scetticismo orientato dal-lintenzione di portare chiarezza l dove la chiarezza solo ap-parente. Il compito preliminare dunque dunque quello di dis-solvere questa apparenza.

    A questo proposito occorre anche non lasciarsi fuorviaredal fatto che spesso ci che si suggerisce nel corso dellargo-

    mentazione proprio ci che si intende confutare. Talora si mi-mano infatti modi di rendere conto delle distinzioni contro cui inrealt Wittgenstein intende polemizzare. Ci vale in particolareper le spiegazioni introspettive che sono proposte come temiper una critica che qui comincia con laffiorare e che attraversatutte leRicerche Filosofiche.

    Potremmo dire in generale che ci troviamo di fronte ad unproblema affrontato mediante lintrospezione ogni volta cheesso venga proposto secondo la formula seguente: Che cosaavviene dentro di te (dentro la tua testa) quando(percepisci,ricordi, leggi, pronunci una proposizione, una certa parola,

    ecc.). Si tratta di una caratterizzazione troppo semplice, certa-mente ma essa coglie il punto essenziale che interessa le nostreconsiderazioni. Cos la problematizzazione della distinzione traproposizione dichiarativa ed imperativa indica in negativo chedi essa non si pu rendere conto attraverso considerazioni psi-cologizzanti. Non arriveremo da nessuna parte se ci chiediamoche cosa avviene dentro di noi quando diamo un ordine enemmeno se richiamando lattenzione sul fatto che la differen-za di tono nella voce indispensabile in molti casi a contraddi-stinguere lordine della constatazione proponessimo poi diistituire quella differenza proprio sul tono della voce. Cos i

    dubbi intorno alla nozione di proposizione ellittica, servono so-prattutto a chiarire che lespressione lastra! ellittica non

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    perch essa ometta qualcosa che intendiamo quando la pronun-ciamo, ma perch abbreviata rispetto ad un determinato mo-dello della nostra grammatica (oss. 20).

    Attraverso i dubbi si fanno avanti dei chiarimenti. La dif-ferenza tra uso descrittivo e luso imperativo di cinque lastrenon sta nel tono della voce, ma nella funzione che la stessaespressione assume in giochi linguistici diversi. Qui un ordine,l una constatazione (oss. 21).

    Una domanda pu essere posta nella forma di una consta-tazione. Ma ci non pu far s che i giochi linguistici differentisiano stati sovrapposti gli uni agli altri in modo da renderli indi-stinguibili.

    I percorsi argomentativi puntano altrove rispetto a ci chepoteva sembrare allinizio. Ora cominciamo con il renderci con-

    to che si mira proprio allistituzione di differenze. La stessa ado-zione del punto di vista dei giochi linguistici pu essere utiliz-zata come un metodo per mostrare differenze.

    Certo, lintera tematica deve mantenere una profonda mo-bilit. Ci sono molti tipi di proposizioni (oss. 23). Quanti? Di-ciamo che sono veramente molti, e per il resto non vogliamoimpegnarci. Questo, perch il linguaggio qualcosa che di con-tinuo si muove. Laccento che cade sulla differenza deve anchecadere sulla mobilit, su una sorta di incompletezza di principio:E questa molteplicit non qualcosa di fisso, di dato una voltaper tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici,

    come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono di-menticati. (Unimmagine approssimativa potrebbero darcela imutamenti della matematica). A quella piccola postilla in pa-rentesi occorre dare molta importanza. La stessa osservazionepotrebbe cominciare cos: Quanti tipi di numeri ci sono? Molti.E molti forse restano ancora da inventare.

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    11. NOMI E CONCETTI

    Lattribuire nomi alle cose potrebbe esser assimilato allattac-care alla cosa un cartellino su cui disegnato un contrassegno.Spesso, mentre filosofiamo, si rivela utile dire a noi stessi: de-nominare una cosa come attaccare ad un oggetto un cartellinoche reca il suo nome (oss. 15). Questa immagine sembra sugge-rire che i nomi da insegnare per primi siano quei nomi chechiamiamo normalmente nomi propri, perch questi sono in ef-fetti concepibili come contrassegni individuali, che spettano allacosa contrassegnata e solo a quella. I nomi comuni potrebberovenire insegnati in un secondo tempo sulla base di qualche ca-

    ratteristica comune degli individui gi denominati con nomipropri. In questa forma comincia ad affacciarsi una discussioneintorno a ci che nella filosofia si chiamano concetti.

    Questo inizio tuttavia non deve essere inteso come se giavessimo trovato una strada da imboccare a capofitto: si trattainvece di mettere alla prova questa teoria dei due tempi primai nomi propri, poi i nomi comuni, ovvero: prima gli individui,poi i concetti.

    Supponiamo dunque di imbatterciper la prima volta in uncane la prima esperienza senza un passato, di cui talvolta par-lano i filosofi empiristi. Sembra naturale ritenere che essa debba

    essere intesa come lesperienza di qualcosa assolutamente indi-viduale. Non abbiamo mai visto nulla del genere, e cos nonpossiamo denominarlo con un nome comune, dal momento chenon si ancora formato per noi un concetto sotto cui ricondurrequello strano individuo. Gli attribuiamo allora un nome proprioche contrassegna proprio lui e lui soltanto.

    In una breve novella di Kafka compare come protagonistauna sorta di strano rocchetto, un essere che non sapremmo direse animato o inanimato, che per alcuni aspetti ha il carattere diuna macchinetta, ma sembra anche muoversi di volont propria,e forse sa addirittura dire qualche parola. I concetti sotto cui po-

    trebbe essere sussunto non sono concordanti. Lo chiamiamo O-dradek, e questo sembra essere un nome proprio. Se incontras-

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    simo altri individui simili a questo, cio se incontrassimo altrecose che hanno qualche caratteristica comune con questa, potrrappresentare il concetto sotto cui Odradek sar sussunto.

    Unimmagine del linguaggio che attira lattenzione anzi-tutto sulla priorit dei nomi propri suggerirebbe una teoria delconcetto orientata in questa direzione. Ma non potrebbe darsiinvece che nellesperienza ipotizzata come primitiva di un ca-ne non fossimo colpiti anzitutto da una tipicit (ad es. quello chefa bau bau) e che gi da subito il cane venga inteso come indi-viduo allinterno di un genere di cui esso stesso ha suscitato ilpensiero?

    Conviene dunque rimettere nuovamente a fuoco la pro-blematica della denominazione. Come abbiamo visto, in rap-porto a certi giochi linguistici essa potrebbe non essere nemme-

    no proposta. Ad esempio, il chiedere come si chiama questonon unazione inclusa nel gioco del muratore o del fruttiven-dolo. Inversamente, potremmo immaginare un gioco linguisticoparticolare nel quale quella domanda abbia una parte. Possiamopensare ad un gioco di societ che potrebbe consistere nellin-ventare un nuovo nome per gli oggetti (oss. 27). Anche in que-sto caso le prime mosse mirano alla dissoluzione del problema.La questione della denominazione potrebbe essere tanto pocoimportante e tanto particolare quanto lo un gioco di societ.Lapprendere il linguaggio consiste nel denominare oggetti?Certamente no. E tanto meno la denominazione rappresenta una

    condizione per poter parlare delle cose.E per rendere controverso il problema della denominazio-ne si sollevano dubbi sulleffettivit della distinzione tra nomipropri e nomi comuni. Ma si tratta in realt di manovre per unamessa a fuoco.

    Cos si ammette senzaltro che possa essere insegnatoostensivamente non solo il nome di una persona che lesem-pio pi ovvio di definizione ostensiva ma anche di un colo-re, di una sostanza, di un numero, ecc. (oss. 28). Certo, conqualche complicazione: linsegnamento ostensivo deve essereinterpretato, il gesto inteso nel modo giusto.

    Questo si chiama due diciamo indicando due noci.Questo un modo perfettamente possibile di definizione osten-

  • 8/3/2019 Piana G., Commenti a Wittgenstein

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    siva del numero due (oss. 28). Ma lallievo potrebbe intenderedue in vari modi: ad esempio come il nome proprio delle noci;oppure come il nome di un numerale, come se le due noci fosse-

    ro un equivalente della cifra 2 tracciata su un foglio di carta.Cos se dico Questo si chiama seppia puntando il dito versoCaio potrebbe non essere chiaro se intendo seppia come nomeproprio di Caio oppure se voglio dare un nome al colore dellasua giacca.

    Le distanze rispetto alla concezione delineata allinizio simostrano sempre pi nette. Si prospetta anche la possibilit chela determinazione concettuale debba in qualche modoprecederela sua possibile specificazione (oss. 29). Si osserva cos che una considerazione alquanto astratta del linguaggio pensare cheanzitutto si istituisca il rapporto denominativo e poi la gramma-

    tica del nome, e cio il modo in cui viene usato.Attaccando un cartellino alla cosa ci si prepara alluso

    della parola.Ma a che cosa ci si prepara? (oss. 26). La portatadi questo interrogativo va chiaramente compresa. Con i nominoi facciamo qualcosa; mentre la denominazione non dice checosa dobbiamo fare con un certo nome: mostrando a qualcunoil pezzo che rappresenta il re nel gioco degli scacchi e dicendo-gli Questo il re non si spiega luso di questo pezzo (oss.31). Una cosa indicare come si chiama un pezzo degli scacchia qualcuno che non sa nulla sul gioco degli scacchi. Unaltra intendere il pezzo di legno gi come pezzo di quel gioco ed allo-

    ra la stessa indicazione ha un senso interamente diverso. Nelprimo caso ci troviamo di fronte alla denominazione come ungioco linguistico fine a se stesso e chiuso in se stesso, propriocome nel caso del gioco di societ che abbiamo inventato pocofa. Nel secondo caso invece la denominazione un gioco lingui-stico entro un gioco linguistico pi ampio nel quale sono gipresenti i modi di impiego della parola nuovamente introdotta.

    Di qui laffermazione, di cui si avverte ora tutta limpor-tanza, secondo cui chiede sensatamene il nome solo colui chesa gi fare qualcosa con esso (oss. 31). Si vuole cos sottolinea-re che un qualche apparato concettuale (e quindi linguistico) de-

    ve essere presupposto nel momento in cui introduco un nome.La funzione denominativa si trova gi dentro questo apparato.

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    La definizione ostensiva spiega luso il significato della pa-rola quando sia gi chiaro quale funzione la parola debba svol-gere, in generale, nel linguaggio (oss. 30). Ed ancora: Per es-

    sere in grado di chiedere il nome di una cosa si deve gi sapere(o saper fare) qualcosa (oss. 30).

    12. INTENDERE

    Anche parole che non sono nomi propri possono essere appreseostensivamente. Lo abbiamo gi detto. Ad esempio, la parolaazzurro.

    Abbiamo anche notato che non basta puntare il dito su una

    cosa azzurra e pronunciare questa parola. Lindicazione ostensi-va deve essere interpretata, e ci significa che deve essere coltalintenzione che fa corpo con il gesto dellindicazione. Il gestoindicativo non qualcosa di simile ad una freccia che istituisceuna sorta di raccordo tra una cosa (il segno) ed unaltra (ci cheil segno designa), per quanto limmagine della freccia possasembrare a tutta prima appropriata. Infatti la cosa che il segnodesigna pu essere un tavolo o una sedia, ma anche una loropropriet: la forma del tavolo o il suo colore. Questo si chiamacircolo, dico intendendo la forma circolare del tavolo e la se-gno a dito. Oppure: questo si chiama azzurro, intendendo il suo

    colore e lo segno a dito. Ma il cenno dellindicare segnando adito va sempre in direzione del tavolo in qual modo potrei nelgesto intendere ora la forma ora il colore?

    Sarebbe erroneo tuttavia ritenere che in osservazioni comequeste si tenda a mettere in risalto le possibili equivocit dellin-segnamento ostensivo. Di queste possiamo benissimo venire acapo in un modo qualunque. Le equivocit interessano in quantoattraverso di esse intravediamo dei problemi. Il problema quianzitutto che nellindicare ostensivo intrecciato un atto dellin-tendere, e nello stesso tempo che questo atto non pu essere ri-solto come si sarebbe subito tentati di fare in elementi psi-

    cologici che accompagnino lindicazione. La critica che stata

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    gi avviata di spiegazioni introspettive comincia a ricevere quiqualche sviluppo.

    In particolare va notato che il problema dellintendere, pur

    essendo introdotto nel quadro della problematica dellinsegna-mento ostensivo, tuttavia indipendente da esso e del resto credo di poter aggiungere da una considerazione tutta internaal problema del linguaggio. Ora guardo la forma del circolaredel tavolo o il suo colore in questo atto del percepire vi giun intendere. Che cosa guardi? Il colore del tavolo la rispo-sta. Questa risposta tuttavia non si presenta filosoficamentetroppo ovvia. Intanto non possibile che ci che vedo sia sol-tanto il colore. Potremmo dire: io vedo il tavolo nel suo insieme,e le cose che gli stanno intorno, ma ci che guardo quel colo-

    re. E preciso: ci a cuipresto attenzione. Ma allora il problemasemplicemente si sposta. Dobbiamo rendere conto di ci che si-gnifica questo prestare attenzione, e forse saremmo tentati diprocedere proprio in una direzione psicologizzante. Se vogliamosapere che ne di questo prestare attenzione dobbiamo forsestabilire che cosa avviene centro di noi quando abbiamo questaesperienza vissuta del guardare il colore, ovvero del prestare at-tenzione a questo piuttosto che a quello. Esperienza vissuta tra-duceErlebnis e compare per la prima volta nelloss. 34 nelle Ri-cerche Filosofiche: lo stretto legame con la problematica dellin-trospezione mostra che il termine viene impiegato in unac-

    cezione totalmente diversa da quella in cui essa compare per lopi nella fenomenologia di Husserl. In essa infatti Erlebnis lesperienza vissuta in quanto in via di principio analizzabilecome atto intenzionale. Le implicazioni di ordine propriamentepsicologico vengono messe da parte. Ma a parte questa differen-za nellimpiego del termine, anche Wittgenstein interessato aseparare lanalisi filosofica dallanalisi introspettiva: cosicch ilproblema dellintendere nel suo complesso viene affrontato se-condo uno stile prettamente fenomenologico.

    Gli spunti introspettivi hanno dunque carattere polemico.Che cosa significa prestare attenzione alla forma e non al colo-re? Per rispondere a questa domanda potremmo pensare di auto

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    osservarci per vedere che cosa accade mentre facciamo questo.Ognuna potr dire la sua, a questo proposito. Pu essere che av-vertiamo una sorta di movimento degli occhi che accennano a

    seguire il contorno della cosa; oppure qualcuno potrebbe parlaredi una sorta di curiosa spinta interione, una tentazione a seguireil contorno con un dito; ma per altri la tentazione sar forsequella di socchiudere gli occhi in un modo del tutto particola-re Ciascuno per proprio conto potr trovare qualche sensazio-ne interna caratteristica che interviene quando intende la formapiuttosto che il colore, o inversamente. Questa molteplicit cherischia di confondere lintero problema tuttavia una conse-guenza di una interpretazione psicologizzante del prestare at-tenzione proposto come un tentativo di illustrazione dell in-tendere. La risposta autentica alla richiesta di guardare dentro

    di noi per accertare che cosa accade quando sta nel rifiuto diconsiderare la questione da questo lato: oltre al fatto che inten-do la forma e non il colore, non accade nullaltro. O meglio an-cora: qualunque cosa accada oltre allintendere, del tutto in-differente e possiamo usare lespressione del prestare atten-zione al pi come sinonimo dellintendere, e non come unariconduzione dellintendere ad un contenuto psicologico identi-ficabile introspettivamente.

    Che cosa accade quanto intendo il re degli scacchi non picome un pezzo di legno, ma come un pezzo di gioco? Non acca-de nulla al di l del fatto che ora lo intendo cos (oss. 35).

    Questa posizione si fa valere nella problematica del signi-ficato, ma si apre ad una prospettiva molto pi ampia. Alla finedella oss. 35 in parentesi si suggeriscono parole come riconosce-re, desiderare, ricordarsi

    Si intravedono infatti subito analogie problematiche. Chedire, ad esempio, del desiderio? Se ci poniamo sulla via di una-nalisi introspettiva, dovremo interrogare Pietro o Paolo su checosa accade alluno o allaltro ogni volta che desidera qualcosa.Pietro ad esempio, se guarda dentro se stesso, avverte una miste-riosa sensazione che egli descrive dicendo che si tratta qualcosadi simile ad un sospiro inespresso. Si esprime proprio cos: Mi

    sembra che la mia anima sospiri. Tutto questo lo abbiamo sa-puto da lui. Paolo, pi concreto, sostiene invece di avvertire un

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    senso di mancanza, di vuoto, che assai simile alla fame. Chi sisentirebbe di contraddirli? Essi sono gli unici testimoni di sestessi. Quanto a noi potremmo a nostra volta proporre altre sen-

    sazioni e altre descrizioni,Ma il desiderio non lanima sospirante di Pietro e nem-

    meno la fame di Paolo.Wittgenstein coglie in modo assai netto lirriducibilit de-

    gli atti intenzionali a sensazioni soggettive accessorie ed questo appunto il tratto comune con un modo di pensare feno-menologico. Lapars destruens tuttavia prevale nettamente sullapars construens. La critica antipsicologistica non si traduce inuna proposta di analisi sistematica ed a tutto campo della varietdei modi di intendere e della loro struttura.

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    II

    Torniamo sul terreno scabro!(Ric. Fil., oss. 43107)

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    1. CHE COSA IL SIGNIFICAT O DI UNA PAROL A

    Alla concezione del linguaggio che d al rapporto tra nome e co-sa denominata unimportanza centrale, possiamo contrapporneunaltra che viene sintetizzata cos:

    Per una grande classe di casi anche se non per tutti i casi incui ce ne serviamo, la parola significato si pu definire cos: Ilsignificato di una parola il suo uso nel linguaggio. E talvoltail significato di un nome si definisce indicando il suo portatore(oss. 43).

    Questa osservazione pu essere considerata un primo importantepunto di arrivo. Se dovessimo fornire una rapida formulazionedella concezione di Wittgenstein del significato citeremmo pro-prio questa piccola frase: il significato di una parola il suouso nel linguaggio. Faremmo inoltre notare la stretta connes-sione tra questa definizione e ladozione del punto di vista deigiochi linguistici; ed anche la possibilit di riferirci a giochi lin-guistici che possiamo liberamente immaginare per operare chia-rimenti sui significati delle parole, sui concetti. La nozione digioco linguistico rimanda ad un tempo ad una filosofia del lin-

    guaggio ed a un metodo di chiarificazione filosofica.

    Quella frase tuttavia non deve essere intesa come se pro-ponesse una definizione realmente completa. Vi infattiquellinciso anche se non per tutti i casi: forse si allude an-cora ai nomi propri? Di fatto il dibattito sulla teoria della deno-minazione non si affatto concluso, nonostante il raggiungi-mento di un punto fermo.

    Dobbiamo ripensare ancora alle nostre considerazioni pre-cedenti su etichette e contrassegni. Limpiego di questa imma-gine suggerisce nuovi problemi. In generale, se debbo apporreuna etichetta, allora ci deve essere la cosa su cui letichetta deveessere apposta. Sarebbe assurdo ammettere che non esiste log-

    getto designato dal nome proprio; ed inversamente se loggettonon esistesse il nome proprio non sarebbe affatto un nome pro-

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    prio, ma un segno privo di significato. Limmagine delletichettaorienta i nostri pensieri in questa direzione.

    Si apre allora il problema, che ha tutta una storia prima di

    Wittgenstein ed anche dopo, una storia che sembra non finiremai, dei nomi propri di oggetti immaginari. La spada di Sigfridoha un nome proprio: essa si chiama Nothung. Ma siamo certiche essa sia veramente un nome proprio (prescindendo natural-mente dai significati inerenti al suo etimo)? Poich si tratta diuna spada mitica di un personaggio mitico, essa non esiste ecome potremmo su di essa apporre unetichetta o anche segnarlaa dito? Per introdurre questa espressione bisogna ricorrere aduna qualche determinazione attributiva, a ci che, seguendo unaterminologia proposta da Russell, viene di solito chiamatadescrizione. Stando allimmagine del nome come etichetta

    della cosa, la cosa non solo deve esistere, ma deve poter esisterequi ed ora di fronte a noi. Perci dovremmo arrivare a dichiarareche non solo Nothung ma anche Socrate un nome propriosolo in apparenza, ma non lo affatto nella sua essenza logica.

    Ma una volta che abbiamo imboccato una strada similedobbiamo seguirla fino in fondo. Di fronte a me vedo Pietro inpersona. Ma nulla mi garantisce che Pietro in persona ci sia real-mente, perch potrebbe trattarsi del fantasma di Pietro o di unamia allucinazione. Insistendo sullessenza logica del nome do-vremmo forse arrivare ad affermare che lunico nome propriocorrispondente a quellessenza sia la paroletta questo, per in-

    dicare qualcosa che mi sta di fronte, sia esso Pietro o il fantasmadi Pietro. Il qualcosa indicato dal questo, c senzaltro la con-dizione per lapposizione delletichetta viene allora rispettata. Ilquesto non pu mai essere privo di portatore (oss. 45).

    Una simile concezione del nome che riporta a quella diRussell, ma che ricorda anche in molti punti le tesi che Wittgen-stein stesso aveva sostenuto nel Tractatus viene attaccata conautentica aggressivit polemica.

    Che questo possa essere considerato un nome proprio,anzi il nome proprio per essenza, sembra essere considerato daWittgenstein poco meno che una che una pura e semplice cor-belleria. Egli, cos apparentemente propenso ad un atteggiamen-

  • 8/3/2019 Piana G., Commenti a Wittgenstein

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    to elastico nelle distinzioni e nelle classificazioni, oppone a que-sto proposito una recisa esclusione:

    Chiamiamo nome cose molto differenti: la parola nome

    caratterizza molti modi differenti tra loro variamente imparenta-ti di usare una parola; ma tra questi modi duso non si trovaquello della parola questo (oss. 38). Il nome proprio viene in-trodotto grazie al gesto ostensivo accompagnato dalla parolaquesto, che fa dunque parte dello stesso gesto ostensivo. Ecome introdurre allora ostensivamente la parola questo? (oss.38 e 45).

    La ragione di una presa di posizione tanto netta sta nelfatto che lobiettivo polemico oltrepassa il problema relativa-mente minuto in discussione, per colpire invece latteggiamentointellettuale da cui esso sorge: questa strana concezione ha in-

    fatti origine da una tendenza a sublimare, per dire cos, la logi-ca del nostro linguaggio (oss. 38). Si comincia con esempi dinomi propri a tutti familiari. Ma in luogo di avviare una rifles-sione su una possibile molteplicit del concetto di nome proprioche i differenti esempi che si possono addurre Pietro, No-thung, Socrate sembrano immediatamente suggerire, consi-derando i giochi linguistici tipici in cui essi si presentano, ci siinterroga sullessenza logica del nome, ammettendone che ve nesia una ed una sola. La domanda diventa allora: Che cosa ve-ramente un nome proprio?. Accezione corrente e accezione lo-gica si contrappongono luna allaltra. In questa contrapposizio-

    ne si annuncia una tendenza alla sublimazione che ci allontanadal terreno dei giochi linguistici, per elevarci al di sopra di essiverso la purezza di un pensiero non invischiato nei fatti delle-sperienza.

    Si badi tuttavia che per Wittgenstein non c da un lato lalogica e dallaltro i giochi linguistici, da un lato un uso correntee dallaltro un uso che non lo . Ogni uso corrente entro ungioco linguistico. Dunque anche ci che accade nella logica de-ve essere considerato alla luce dellidea del gioco linguistico.

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    2. SEMPLICIT E COMPOSIZIONE

    La spada Nothung ha tuttavia da insegnarci ancora qualcosa. Inparticolare intorno al tema della semplicit e della composizio-ne. Ecco una variante dellesempio: Nothung sia una spada rea-le, proprio di fronte a noi, che ad un certo punto va in pezzi.Loggetto che il nome designa ora non esiste pi come un inte-ro unitario. Ci che esiste sono solo le sue parti, ognuna dellequali potrebbe avere un nome. Cosicch Nothung potrebbe esse-re inteso come nome che raccoglie i nomi delle parti e chesolo a questi nomi spetta il carattere di nomi propri autentici

    con la condizione aggiuntiva che queste parti siano parti ultime,indivisibili. Altrimenti largomento pu essere ripetuto. Inquanto indivisibili, e quindi in quanto oggetti semplici, essi esi-stono necessariamente. Ogni processo di distruzione pu essereinteso come una scomposizione, e palesemente se qualcosa semplice, non vi sar nulla da scomporre. Ammesso che esistanooggetti semplici essi saranno indistruttibili (oss. 39) .

    Nomi autentici, dal punto di vista logico, saranno dunquesolo nomi che designano entit assolutamente semplici. Si ripre-senta qui dunque lidea che vi sia una essenza logica dei nomi, equesta teoria dei nomi come segni di semplici una variante

    della precedente che considerava questo come unico nomeautentico. Ci che entrambe hanno in comune naturalmente larichiesta di una garanzia dellesistenza delloggetto che porta-tore del nome, garanzia che nel caso precedente aveva una incli-nazione soggettiva, implicando un osservatore di fronte ad unoggetto osservato, mentre ora si tenta la via di una argomenta-zione oggettiva. Argomentazione che peraltro potrebbe non sod-disfarci pienamente e che non soddisfa affatto Wittgenstein, lacui reazione quasi irritata.

    Ma che faccenda mai questa dei nomi che designereb-bero propriamente il semplice? (oss. 46).

    Questa irritazione si abbatte contro gli individuals di Ber-trand Russell ed il suo atomismo logico; ma anche contro lau-

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    una qualunque sequenza di quelle lettere come una descrizioneesatta della disposizione dei quadrati, come una proposizione.

    La disposizione dei segni RRN rispecchia la disposizione

    degli oggetti:

    In questo caso la proposizione consta di nomi, e di nomi soltan-to, e rappresenta esattamente come stanno le cose nella realt.Nessun esempio si attaglierebbe meglio alla teoria dei nomi edelle proposizioni proposta da Wittgenstein nel Tractatus. Soloche nulla potrebbe sembrare pi stroncatorio del fatto che questo

    problema, che nel Tractatus aveva la pretesa di spingersi sinoalle dimensioni logicometafisiche del reale, viene ridotto inquesto modo alla dimensione minima di un gioco linguistico verrebbe anzi voglia di dire: di un giochetto escogitato ad hoc.

    3. TABELLE E CONCETTI

    Alla tematica dei concetti si gi accennato nella discussioneintorno ai nomi ed al rapporto di denominazione. Largomento

    tuttavia riceve realmente sviluppo solo nel gruppo di osserva-zioni 5064. In esse tuttavia questo termine non viene affattoimpiegato. Si parla invece di tabelle, campioni, modelli, para-digmi. Per di pi attribuendo a queste parole un significato con-cretissimo. Quando si dice tabella si intende proprio una tabella.

    Del resto tabelle e campionari non li incontriamo qui perla prima volta. Si rammenti che cosa fa il fruttivendolo di frontealla parola rosso: quindi cerca in una tabella la parolarosso e trova, in corrispondenza di essa, un campione di colo-re (oss. 1).

    Che cosa sono questi campionari, queste tabelle che ogni

    tanto qualcuno va misteriosamente consultando?Chiediamoci allora che cosa accade nella nostra testa

  • 8/3/2019 Piana G., Commenti a Wittgenstein

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    quando parliamo di un fiore rosso. Azzardiamo forse unanalisiintrospettiva? In realt potremmo limitarci non tanto a cercaresensazioni interne quanto piuttosto a ricorrere ad unimmagine:

    la nostra testa non potrebbe forse essere assimilata ad una gran-de stanza nella quale si vanno ad accumulare ogni sorta di og-getti fantomatici? Ed a queste immagini fantomatiche sono inqualche modo collegate le parole. La parola fiore ci ricordacose che abbiamo gi visto in passato, e cos anche per la qualitvisiva indicata dalla parola rosso. Ci ci orienta subito versolimmagine della tabella: come se fossimo in possesso di uncampionario sul quale cerchiamo la parola fiore e troviamoaccanto ad essa una certa figura; cerchiamo la parola rosso etroviamo una striscia colorata. Si potrebbe dire che qui questatabella si addossa la parte che in altri casi svolgono la memoria e

    lassociazione (oss. 53).I campioni di colore non sono parole, e quindi forse non

    fanno parte del linguaggio e tuttavia, in quanto criteri perlimpiego delle parole, possono essere detti strumenti del lin-guaggio (oss. 16). Essi sono regole per luso delle parole, si-tuandosi cos su un piano diverso da esso. Cosicch non avrsenso dire di un campione di colore che esso rosso, cos comenon ha senso dire del metro campione conservato a Parigi cheesso lungo un metro o meglio: di questo metro non ha senson affermare n negare che esso lungo un metro (oss. 50).

    Vi in realt qui qualcosa che ci riporta secondo unan-

    golatura diversa alla tematica della semplicit. Agli elementisemplici di cui si parla nel Teeteto platonico non si pu attribui-re n lessere n il non essere. Cos si argomenta in Platone: seha senso dire di un oggetto semplice che , allora avr senso direche non mentre sappiamo, almeno secondo la teoria dei nomicome segni di semplici, che lesistenza in certo senso un attri-buto interno delloggetto semplice. Qualora il significato delnome venga fatto coincidere con il portatore del nome, alloranon ha senso dire che N non esiste perch se il portatore delnome non esiste, allora nemmeno il nome ha un significato, e senon ha significato un elemento della proposizione non lo ha la

    proposizione intera. Daltro lato, in N esiste, se N ha signifi-cato, allora lesistenza gi posta dal nome e non ha bisogno di

  • 8/3/2019 Piana G., Commenti a Wittgenstein

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    essere detta. Essa inoltre, come gi sappiamo una esistenza ne-cessaria loggetto semplice indistruttibile.

    singolare ed anche caratteristico dei grovigli in cui

    Wittgenstein ama trascinare il suo lettore che considerazionicome queste vengano ora riprospettate proprio nel quadro dellatematica del concetto. Ad una tabella, quindi ad un apparatoconcettuale che si presenta in un certo gioco linguistico dobbia-mo attribuire il carattere dellesistenza necessaria. Del restolosservazione sul metro di Parigi di cui non si pu n dire nnegare che esso sia lungo un metro riecheggia la frase secondocui di ci che semplice non si pu dire n che n che non .

    4. LA TABELLA PERDUTA

    Eppure, le tabelle sono certo distruttibili. Il fruttivendolo po-trebbe perdere la sua tabella. Se questo avvenisse certe parolenon avranno pi applicazione entro quel gioco linguistico, oppu-re alla vecchia tabella se ne dovr sostituire unaltra. Lapparatoconcettuale che presiede al gioco linguistico in movimento.

    Poich abbiamo detto che la tabella si addossa la partedella memoria, ora diciamo che se dimentichiamo qual il

    colore che ha questo nome, il nome perde il suo significato pernoi; vale a dire, con quel nome non possiamo pi giocare undeterminato gioco linguistico. Ed allora la situazione parago-nabile a quella in cui il paradigma, che era uno strumento delnostro linguaggio, andato perduto (oss. 51).

    Si presti attenzione a come viene proposto il rapporto ta-bella/memoria. In precedenza abbiamo proposto la tabella comeuna sorta di deposito della memoria. Ma in questa immagine vo-gliamo giocarci dentro. La tabella ora qualcosa che attual-mente consultiamo, una tabella reale appunto che sta di fronte ainostri occhi. E la memoria invece nella nostra testa con tutti i

    suoi ricordi. Guardiamo la tabella e nello stesso tempo ricordia-mo si tratta degli oggetti fantomatici che stanno nella nostra

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    senso: bassamente quotidiano. Ad essi sfugge che Wittgensteinsta ironizzando sulla tendenza alla sublimazione e che cosavi di pi antisublime di una scopa che se ne sta in un angolo?

    E non basta: poich nella seconda formulazione si parladelle parti di cui composto loggetto di cui si parla nella primaformulazione, qualcuno potrebbe pretendere che quella sia unaanalisi di questa. Qui evidentemente Wittgenstein porta a con-seguenze palesemente grossolane lidea che lespressione lin-guistica non faccia altro che rispecchiare la natura degli oggetti;e nello stesso tempo che vi sia una forma superficiale della pro-posizione che sar per principio non analizzata in quanto pre-senterebbe la realt nelle sue mere apparenze, e ad essa si debbacontrapporre una forma profonda e nascosta che la seconda for-mulazione farebbe emergere, tanto pi se fossimo in grado di

    analizzare manici e spazzole sino ai sospirati e pretesi atomi lo-gici. La proposizione interamente analizzata dovrebbe constaredi parole riferite esclusivamente a oggetti semplici. E se rag-giungessimo un livello tanto profondo stringeremmo in pugno laproposizione nella sua essenza logica.

    Ormai non pi il caso di avviare una confutazione, ma sipu approfittare dellesempio per dare una svolta alla nostra di-scussione e portarla anzi ad una sorta di punto culminante. An-zitutto mettiamo in azione il punto di vista dei giochi linguistici.Potremmo prendere per buone luna e laltra formulazione eproporle in giochi linguistici differenti. Nelluno compare il

    termine di scopa, nellaltro manico e spazzola e lunofunziona forse altrettanto quanto laltro, genera nel mio interlo-cutore le stesse reazioni comportamentali (forse). Ma conquale diritto potremmo assumere che vi sia tra essi una sorta digerarchia, che luno sia pu fondamentale dellaltro? A partireda questa domanda ci possiamo liberare dai vincoli dellesempioe prospettare nuove domande, che finora non erano mai state po-ste: vi sono relazioni tra i giochi linguistici? Vi tra essi qualco-sa di simile ad un ordinamento gerarchico? E soprattutto: vi ungioco linguistico che sta alla base di tutti i giochi linguistici?

  • 8/3/2019 Piana G., Commenti a Wittgenstein

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    6. UNA GROSSA QUESTIONE

    Loss. 65 si apre cos: Qui ci imbattiamo in una grossa questio-ne che sta dietro tutte queste considerazioni.

    Tutte le discussioni precedenti sono nettamente distaccateda un simile inizio che propone di mettere finalmente in chiaroun presupposto ad esse soggiacente e che fino a questo puntonon era stato ancora messo a fuoco. In effetti le osservazioni cheseguono hanno unimportanza centrale per la comprensione di

    quanto precede, ma anche per le Ricerche filosofiche nel lorocomplesso. Per ci che riguarda uninterpretazione ed una valu-tazione complessiva dellopera molto dipende da queste pagine,dal capitolo che potremmo fare iniziare con loss. 65 e far con-cludere con loss. 78.

    anzitutto opportuno riprendere il tema del concetto conalcune considerazioni di carattere generale. Quando operiamolattribuzione di una qualunque propriet ad un oggetto adesempio quando diciamo che esso rosso, possiamo intenderequesta attribuzione come una classificazione delloggetto stesso,come una sorta di aggregazione ideale ad una determinata clas-

    se. Parlo di aggregazione ideale perch evidentemente non sitratta di disporre loggetto concreto in un insieme di oggetti chesi trovano concretamente di fronte a me. Inoltre, ai fini di questaaggregazione non basta lapercezione di un oggetto rosso, occor-re ilpensiero che gli attribuisce questa propriet, ovvero il giu-dizio come formazione linguistica La tal cosa rossa. Il giudi-zio stesso pu dunque essere inteso come una operazione diclassificazione. Vi una classe di cose che hanno una caratteri-stica comune esse sono tutte rosse. Ci che esse hanno in co-mune appunto il rosso. Il nesso predicativo pu dunque essere

    inteso come un rapporto di sussunzione di un oggetto sotto unconcetto e potremmo chiamare estensione di un concetto

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    non chiaramente delimitata non pu nemmeno chiamarsiunarea. E questo requisito sembra ovvio e naturale nella misu-ra in cui abbiamo a cuore la razionalit dei nostri discorsi: essa

    richiede (a quanto sembra) che si possano dare risposte rigoro-samente determinate al si ed al no alle nostre domande; richiedeche si dia un ordine, e lordine comincia l dove tracciamo chia-re linee di separazione, dove possiamo chiaramente separare echiaramente dividere, e dunque classificare, altrimenti tutto pre-cipita nella massima confusione.

    La grossa questione che deve essere finalmente portataalla luce riguarda proprio una critica di principio contro questomodo di presentare le cose, contro questo concetto del concetto,e quindi anche contro limmagine della razionalit che qui im-plicata.

    7. SOMIGLIANZE DI FAMIGLIA

    Questa critica comincia con il mettere in questione la rigorositdella nozione di gioco linguistico, quindi il possesso da parte diquesto concetto di quei requisiti che ogni concetto autentico de-ve possedere. Linterlocutore immaginario di Wittgenstein avan-za a questo punto la sua protesta: te la fai facile! Fai un gran

    parlare di giochi linguistici e non ci hai ancora detto che cosa ciconsente di affermare che qualcosa sia o non sia un gioco lingui-stico. Non hai fatto altro che indicare alcuni esempi. Ma nonpuoi pensare di cavartela in un modo cos indiretto ed impreciso.I concetti debbono essere rigorosamente introdotti e rigorosa-mente determinati. Da questa tua introduzione esemplificativaogni cosa viene lasciata nel vago. E tutto il tuo gran parlare digiochi linguistici si riduce a pura chiacchiera se non ti decidi adare di essi una definizione rigorosa.

    A queste obiezioni si risponde attaccando alla radice il

    modo di pensare che sta alla base di questa richiesta.Quando usiamo una parola pu essere che indichiamo cose

  • 8/3/2019 Piana G., Commenti a Wittgenstein

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    anche molto differenti che non hanno propriamente qualcosa incomune, ma che sono variamente imparentate luna con laltra.

    E proprio la parola gioco si presta a meraviglia a illu-

    strare questa situazione. Dovremmo forse dire che deve esserciqualcosa di comuni a tutti i giochi altrimenti non si chiamereb-bero giochi (oss. 66). Ebbene, se dici questo stai argomentan-do, ed invece di argomentare che deve esserci qualcosa di co-mune a tutti guarda se c.

    Non pensare, ma guarda (oss. 66).Denk nicht, sondern schau!

    difficile trovare una formulazione pi dura di contrap-posizione tra il pensiero e lintuizione! Ma questa formula-zione ha un contenuto ed un obiettivo polemico assai preciso.

    Guardando i giochi non certo facile cogliere qualcosa

    che sia realmente comune a tutti e che quindi corrispondaallessenza del gioco che giustifichi dunque lapplicazione delnome comune.

    Non sarebbe difficile svolgere le osservazioni di Witt-gernstein in un dialogo in stile platonico: la forma dialogica cgi. Tuttavia il Socrate wittgensteiniano nei suoi inseguimentidellinterlocutore, nel suo premerlo da vicino per metterlo con lespalle al muro, mirerebbe forse ad uno scopo ben diverso dalSocrate platonico. Il Socrate platonico porta ad oscurare, nelladialettica del dialogo, distinzioni che allinizio erano chiare, mainfine nelle intenzioni platoniche laffermazione recisa delle-sistenza di unidentit ideale ed assoluta che traluce attraverso lamolteplicit dei casi empirici. Wittgenstein mira invece a dissol-vere questo nucleo concettuale. Ogni identificazione di ci chesarebbe comune a tutti i giochi viene contrastata attraverso con-trapposizioni significative. Se dici che essenziale al gioco ildivertimento, citerei casi in cui parleresti di giochi esitando tut-tavia a caratterizzarli come divertenti. divertente del resto ilgioco degli scacchi? O la roulette russa? Se dici che essen-ziale al gioco il vincere o il perdere, non certo difficile citaregiochi in cui la competizione non ha nessuna parte. E cos via.

    Ci che invece si pu ammettere che tra un gioco elaltro vi siano somiglianze, e che ci che ci induce a chiamare

  • 8/3/2019 Piana G., Commenti a Wittgenstein

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    cose tanto disparate giochi sia una rete complicata di somi-glianze che si sovrappongono ed incrociano a vicenda(oss. 66).

    Naturalmente si tratta di qualcosa di totalmente diverso

    che ammettere qualcosa di comune nel senso che abbiamoprecedentemente illustrato. Si tratta appunto di una rete, di uncomplicato intreccio, di sovrapposizioni e di fusioni. Diaspetti che si richiamano lun laltro. Forse potremmo dire: lasomiglianza di cui si parla una somiglianza sfuggente. Per que-sto Wittgenstein per illustrare il modo in cui si parla qui di so-miglianza ricorre alle somiglianze di famiglia (Familienn-lichkeiten) (oss. 67). Anche se talora possiamo dire che cosa nelfiglio sia esattamente simile al padre o alla madre, non in rap-porto a questi pezzi il naso, il mento o il sopracciglio chesi parla di solito di somiglianza di famiglia: si tratta piuttosto di

    unaria di famiglia che manifesta lappartenenza ad essa attra-verso somiglianze sfuggenti.

    I giochi formano una famiglia essi sono processi varia-mente imparentati tra loro.

    E certamente qui si tratta di ben altro che di rivendicare laplasticit o addirittura la vaghezza del linguaggio corrente, ma-gari addirittura riproponendo di fronte a questa vaghezza il rigo-re di una autentica determinazione concettuale. Si tratta inve-ce, di fronte ad una concezione dove sono importanti le linee didemarcazione e le aree dai contorni chiaramente fissati, di farvalere le somiglianze sfuggenti ed i contorni sfumati non gi

    come limiti, ma come caratteri da rivendicare allinterno di unacorretta teoria del concetto. Limpegno di una simile presa diposizione lo si comprende meglio non appena dallesempio delgioco, che potrebbe essere di assai poco peso, mostriamo di vo-ler spericolatamente portare simili considerazioni allinterno dimondi per i quali sembra che debba valere obbligatoriamenteproprio lesatta determinazione dei contorni. I giochi formanouna famiglia e cos anche i numeri.

    Perch chiamiamo una certa cosa numero? Forse perchha diretta parentela con qualcosa che finora si chiamato nume-ro (oss. 67).

    Finora. Finora si sono chiamati numeri i numeri