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NUMERO 76 PREZZO 5,00 EURO ANNO 2016 DOVE I LUOGHI CHE STANNO CAMBIANDO IL MONDO EDIZIONE PRIMAVERA ATLANTE DELL’INNOVAZIONE

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N U M E R O

76

P R E Z Z O

5 , 0 0 E U R O

ANN O

2 0 1 6

D O V E

I L U O G H I C H E S T A N N O C A M B I A N D O I L M O N D O

E D I Z I O N E

P R I M A V E R A

AT L A N T E D E L L’ I N N O VA Z I O N E

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P R EFA Z IO N E / F E D E R IC O F E R R A Z Z A

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T M

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W I R E D / P R I M AV E R A 2 01 6

uesto volume di Wired nasce da una frase che ho sentito pronunciare da Fabiola Gia-

notti qualche mese fa. Lei è la direttrice del Cern di Ginevra, il centro di ricerca in cui

nel 2012 è stata provata l’esistenza del Bosone di Higgs (più conosciuto come “Parti-

cella di Dio”) e dove 21 anni prima, nel 1991, venne inventato il web dal fisico inglese

Tim Berners-Lee. La frase, dicevo: «La passione per la conoscenza è un valore univer-

sale che non conosce passaporti».

Non è un caso che a dirla sia stata Gianotti. Il Cern è infatti il più grande laboratorio di fisica del

mondo: lì ci lavorano circa tremila scienziati provenienti da tutto il pianeta, anche da paesi che sono

in guerra tra loro o che neanche si riconoscono. Eppure collaborano proficuamente tutti i giorni, an-

che se la materia del loro studio non è priva di criticità, visto che l’applicazione della ricerca nucleare

ha portato − nel secolo scorso − alla bomba atomica.

Di luoghi come il Cern ne esistono fortunatamente tanti. Non hanno in comune la fisica delle

particelle ma la passione per la conoscenza, per l’innovazione. In altre parole hanno in comune la

passione per un mondo migliore abbinata a quella sana ambizione personale di fare qualcosa di si-

gnificativo per la società.

L’obiettivo di questo numero di Wired è conoscere questi posti. Abbiamo così viaggiato in tutti

i continenti, raccontando laboratori scientifici, luoghi dove stanno nascendo nuove forme di intratte-

nimento e aziende che cambieranno per sempre l’economia e i nostri consumi. Tutte immagini di un

pianeta in costante comunicazione grazie a Internet, come racconta il fondatore di Wikipedia Jimmy

Wales nel prologo.

Il risultato è un “Atlante dell’Innovazione”. Una guida che mette insieme una scienziata dive-

nuta la prima presidentessa di una nazione africana di poco più di un milione di abitanti e un astro-

nauta italiano che ha passato sei mesi nello spazio e che ora si allena nelle profondità dell’Oceano

Atlantico; un laboratorio di un’università australiana che studia il preservativo del futuro e un mate-

matico laureato alla Scuola Normale di Pisa che sfrutta le onde del mare per soddisfare (parte) della

nostra necessità energetica.

In questa avventura abbiamo segnato oltre 50 puntini sul mappamondo, storie che racconta-

no un mondo in rapida trasformazione. Che dimostrano − ancora una volta − che l’innovazione e il

progresso scientifico non sono da temere ma da supportare. Perché se oggi viviamo indubbiamente

in un mondo migliore del passato (dalle qualità e durata della vita al livello culturale medio, fino alle

condizioni economiche), lo dobbiamo soprattutto alle persone con la passione per la conoscenza.

Buona lettura. E buon viaggio

Q

F E D E R I C O F E R R A Z Z A

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I N D E X

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C O R U Ñ O , S P A G N A SP O RT

L O N D R A , R E G N O U N I T O M U SICA

W E R L T E , G E R M A N I A EN ER GIA

C O P E N A G H E N , D A N I M A R C A A R C HI T E T T U R A

M O N A C O D I B A V I E R A , G E R M A N I A HI-T EC H

G I N E V R A , S V I Z Z E R A S CIEN Z A

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0 4 5

A L T A M U R A ( B A ) A R C HI T E T T U R A

B U D R I O ( B O ) SP O RT

G U A S T A L L A ( R E ) A R C HI T E T T U R A

P I S A S CIEN Z A

C I T T À D E L V A T I C A N O S CIEN Z A

V A R E S E VID EO G A ME

V I C E N Z A HI-T EC H

F A V A R A ( A G ) S O CIE TÀ

L O D I FO O D

T R A L’ A Q U I L A E T E R A M O S CIEN Z A

art: F E L I X P E T R U Š K A

Disegnatore con una passione non troppo velata per l’animazione

foto: B A R B A R A O I Z M U D

Fotografa e tatuatrice con una laurea in scenografia

foto: M A T T I A B A L S A M I N I

Nato a Pordenone nel 1987, da anni è un fidato fotografo per Wired

testo: J I M M Y W A L E S

Fondatore di Wikipedia, presiede Wikimedia e The People’s Operator,

gestore telefonico che dedica parte dei ricavi a cause sociali

testo: M A R C O M A L V A L D I

Chimico e scrittore pisano. In libreria c’è il suo ultimo

volume, L’infinito tra parentesi (Rizzoli editore)

testo: M A U R I Z I O P E S C E

Caposervizio di Wired, si occupa di tecnologia e social media. Nel 2015 ha raccontato in esclusiva l’arrivo di Netflix in Italia

testo: F E D E R I C O F E R R A Z Z A

direttore di Wired

EUROPAA . I . L I K E

P A R I G I , F R A N C I A

0 7 3

0 7 4

0 7 5

M O S C A , R U S S I A

B R A Y , R E G N O U N I T O

M O N S , B E L G I O

S O CIE TÀ

FO O D

S O CIE TÀ

P R E F A Z I O N E

P R O L O G O

ITALIAM O T O P E R P E T U O

M A R I N A D I P I S A ( P I )

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H A R G E I S A , S O M A L I L A N D

N A I R O B I , K E N Y A

N A I R O B I , K E N Y A

L A G O S , N I G E R I A

S I N T H I A N , S E N E G A L

A D D I S A B E B A , E T I O P I A

J O H A N N E S B U R G , S U D A F R I C A

0 9 4

1 2 0

foto: A L E S S A N D R O I M B R I A C O

Salernitano, conta più di 30 mostre, tra personali e collettive

testo: L U C A P A R M I T A N O

Astronauta Esa e tenente colonnello dell’Aeronautica.

È stato il primo italiano a fare una passeggiata nello Spazio

testo: S I L V I A B E N C I V E L L I

È scrittrice, autrice tv e conduttrice radiofonica. Fa parte dell’associazione di giornalisti

scientifici italiani Swim

AMERICA

L’ A C Q U A R I O S P A Z I A L E

K E Y L A R G O , F L O R I D A , U S A

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1 1 1

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1 0 8

F O R E S T A A M A Z Z O N I C A , B R A S I L E

P A L O A L T O , U S A

R I O D E J A N E I R O , B R A S I L E

B O S T O N , U S A

N O R T H L A S V E G A S , U S A

N E W Y O R K , U S A

A R I Z O N A , U S A

T O R O N T O , C A N A D A

M A U N A L O A , H A W A I I , U S A

A L T O S D E C A Z U C Á , C O L O M B I A

A M BIEN T E

T R ASP O RT I

SP O RT

CINEM A

FO O D

S O CIE TÀ

SCIEN Z A

AM BIEN T E

SCIEN Z A

AR CHI T E T T U R A

SCIEN Z A

AR CHI T E T T U R A

AFRICAI L P R E S I D E N T E B O T A N I C O

P O R T L O U I S , M A U R I T I U S

T R ASP O RT I

SCIEN Z A

HI-T EC H

T R ASP O RT I

SP O RT

D E S E R T O D E L M O J A V E , U S A

R I F L E S S I S O L A R I 0 8 2

foto: J A M E Y S T I L L I N G S

Nella sua trentennale carriera, ha girato documentari e scattato foto per la pubblicità, per giornali e riviste di tutto il mondo

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testo: C L I V E T H O M P S O N

Canadese classe 1968, è firma storica ed editorialista di Wired Us e del magazine settimanale

del New York Times

1 8 6

1 8 9

1 9 0

1 8 7

1 8 8

I S O L E T O N G A S O CIE TÀ

A N T A R T I D E S CIEN Z A

I S O L E K I R I B A T I A M BIEN T E

N E W P L Y M O U T H , N U O V A Z E L A N D A A R C HI T E T T U R A J A M E S T O W N , A U S T R A L I A EN ER GIA

1 7 6

N I C H O L A S D A V I D A L T E A

— si occupa di musica e social

D A N I E L E B E L L E R I

— ricercatore e designer

F E D E R I C O B O N A

— scrittore e giornalista

D O N A T A C O L U M B R O

— blogger amante dell’Africa

M A R C O C O S E N Z A

— giornalista tecnologico

E M I L I O C O Z Z I

— impallinato di videogame

P H I L I P D I S A L V O

— esperto di nuovi media

G I A N L U C A D O T T I

— giornalista scientifico

A N D R E A G E N T I L E

— caposervizio di Wired

F R A N C E S C O L I P A R I

— architetto

G A B R I E L E L I P P I

— cronista sportivo

V A L E R I O M I L L E F O G L I E

— scrittore e musicista

J A C O P O P A S O T T I

— giornalista ambientale

M A R I N A P I E R R I

— esperta di cinema e serie tv

F I L I P P O P I V A

— si occupa di lifestyle

M I C H E L E P R I M I

— scrittore e giornalista

S T E F A N I A V I T I

— appassionata di Giappone

foto: P E T R I N A H I C K S

La sua arte mixa un’estetica da still life e contenuti

provocatori

art: L A T I G R E

Le mappe dell’Atlante dell’Innovazione sono state

disegnate da La Tigre, studio creativo di Milano

testo: A L I C E P A C E

Vive tra Milano e Trieste ed è una giornalista scientifica. Per Wired.it si è occupata, tra l’altro, del caso Stamina

Il carattere tipografico “guest” di questo numero è l’Atlas

di Commercial Type, disegnato da Susana Carvalho, Kai Bernau

e Christian Schwartz

C O N T R I B U T O R S

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5

foto: Z A C H A R Y B A K O

Vive a Los Angeles e scatta soprattutto ritratti e reportage

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1 6 5

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1 6 2

T O K Y O , G I A P P O N E AG RIC OLT U R A

B A I K O N U R , K A Z A K I S T A N S CIEN Z A

A M M A N , G I O R D A N I A HI-T EC H

H A T Z E V A , I S R A E L E A M BIEN T E

B A N G A L O R E , I N D I A HI-T EC H

T E L A V I V , I S R A E L E HI-T EC H

H E N G D I A N , C I N A CIN EM A

S A G A R M A T H A N A T I O N A L P A R K , N E P A L S CIEN Z A

S U Z H O U , C I N A A R C HI T E T T U R A

OCEANIAA P R O V A D ’ O R G A S M O

W O L L O N G O N G , A U S T R A L I A

A T L A S

ASIAL A S I L I C O N V A L L E Y D ’ O R I E N T E

G U A N G Z H O U , C I N A

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PRIMAVERA 2016 - N°76 - ANNO 7

Direttore ResponsabileFEDERICO FERRAZZA

Art Director MASSIMO PITIS (Pitis e Associati)

Caporedattore Centrale OMAR SCHILLACI

Redazione GAIA BERRUTO (vicecaposervizio), ANDREA GENTILE (caposervizio), ALBERTO GRANDI, MAURIZIO PESCE (caposervizio), STEFANO PRIOLO (caposervizio)

Photo Editor FRANCESCA MOROSINI

Ufficio Grafico PITIS E ASSOCIATI

Segreteria di Redazione e Produzione PAOLA BONVINI (responsabile)

Hanno collaborato a questo numero: FABRIZIO AIMAR, NICHOLAS DAVID ALTEA, DANIELE BELLERI, SILVIA BENCIVELLI, FEDERICO BONA, FABIO CIARAVELLA,

DONATA COLUMBRO, MARCO COSENZA, EMILIO COZZI, PHILIP DI SALVO, GIANLUCA DOTTI, CLAUDIO FABBRO, GIAN MARIA FATTORE, FRANCESCO LIPARI, GABRIELE LIPPI, MARCO MALVALDI, FEDERICA MARZIALE IADEVAIA,

ALESSANDRO MELIS, VALERIO MILLEFOGLIE, ALESSANDRO ORSINI, ALICE PACE, LUCA PARMITANO, JACOPO PASOTTI, MARINA PIERRI, FILIPPO PIVA, MICHELE PRIMI, ALDO SOLLAZZO, CLIVE THOMPSON,

VITTORIO VITERBO, STEFANIA VITI, JIMMY WALES

Creative Consultant DAVID MORETTI

Fotografi ZACHARY BAKO, MATTIA BALSAMINI, MARCELLO BONFANTI, ALESSIO GUARINO, ERIK HERSMAN, PETRINA HICKS, ALESSANDRO IMBRIACO, BARBARA OIZMUD, JAMEY STILLINGS

Agenzie ALAMY/OLYCOM, GETTY IMAGES

Illustratori LA TIGRE, FELIX PETRUŠKATraduzioni MICHELE PRIMI

wwDirettore Editoriale FRANCA SOZZANI

Divisione GQ, L’UOMO VOGUE, WIRED, AD, TRAVELLERDirettore STEFANIA VISMARA

Advertising Manager NICOLÒ CAMILLO VANNUCCINI, EMMELINE ELIANTONIOMarketing Manager ANNALISA PROCOPIO

Special Projects Manager MARCO BERNARDINI

Direttore Vendite GIANCARLO ROPA

Agenzie e Centri Media Off Line: FRANCESCA GUICCIARDI, ALESSANDRA MANENTI, RAFFAELLA SPREAFICO, MARCO ZERBINI. Digital

Advertising e Grandi Mercati: ELIA BLEI Direttore. Centri Media Digital Lombardia: CARLO CARRETTONI Responsabile, MANUELA BONDIOLI, SIMONA DI LIDDO, LETIZIA MORELLI, GIOVANNI SCIBETTA, LISA SFORZINI. Grandi Mercati: GIOVANNI AZZIMONTI Responsabile, ELENA FAVETTO, SIMONA FEZZARDI, GIOVANNI LOMBARDI, LAURA MILANO, MASSIMO PALMARIELLO, SILVIA VIETRI, JESSICA ZOLLA Digital, PIETRO GIMMELLI Barter, MANUELA MIGLIOSI Responsabile Commerciale Eventi. Moda e Oggetti Personali: MATTIA MONDANI Direttore. ALESSANDRA ACTIS, MATTEO BARTOLUCCI, DANIELA DAL POZZO, ANGELA D’AMORE, ANTONIO D’ANGELO, GIORGIA GUAGLIUMI, SILVIA MONTESSORI, PIERLUIGI PASTRES, LUIGI PUGLIESE, SERGIO RUFFO. Beauty: MARCO RAVASI Direttore, MARGHERITA BOTTAZZI, LAURA GIOVANNOZZI, GIORGIA PONTIGGIA, ARIANNA RUBINI. Condé Nast Studio: ELIA BLEI Direttore Commerciale, FABIO LA MOTTA, FRANCESCA MAPELLI. Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta: MATTIA MONDANI Area Manager, SABRINA BADALAMENTI, ELIANA MONTICONE. Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia: SABRINA GRIMALDI Area Manager, PAOLA BANDINI, GABRIELE CURATO, GIULIA GHIDONI, ROSA LO CASCIO, RICCARDO MARCASSA, LARA MORASSUTTI. Emilia Romagna, Marche, Toscana, Umbria: GIANCARLO ROPA Area Manager. Emilia Romagna, Marche: DANILA ZOPPO MARTELLINI Coordinatore, DANIELA CALLEGARI, ENRICO CARFÌ, CATERINA CAVALLINI, RITA PADOVANO, ALESSANDRA ROSSI. Toscana, Umbria: ANTONINO ACANFORA Area Manager, SERENA MIAZZO, GIULIANA MONTAGNONI, VALERIA VICEDOMINI. Lazio e Sud Italia: ANTONELLA BASILE Area Manager, SILVIA BOCHICCHIO, CARLA LEVA, MARILENA LOFFREDO, PAOLA MAZZA, PAOLO STERMIERI, BARBARA VANNI, SALVATORE FASOLO (Na) CELL. 320 6219168, MARIA ROSARIA VECCHIONI (Na) CELL. 335 6450505, ANNA CAVALLO (Ba) CELL. 334 1699896, FRANCESCO SEMERARO (Ba) CELL. 348 3212118. Uffici Pubblicità Estero - Parigi/Londra: ANGELA NEUMANN, ADELINE ENCONTRE. New York: ALESSANDRO CREMONA. Barcellona: SILVIA FAURÒ. Monaco: FILIPPO LAMI.

Digital Marketing: MANUELA MUZZA. Social Media: ROBERTA CIANETTI.

EDIZIONI CONDÉ NAST S.p.A.

Presidente e Amministratore Delegato GIAMPAOLO GRANDIDirettore Generale FEDELE USAI

Vicedirettore Generale DOMENICO NOCCO

Vice Presidente GIUSEPPE MONDANI, Direttore Business Development MICHELE RIDOLFO, Direttore Digital MARCO FORMENTODirettore Comunicazione LAURA PIVA, Direttore di Produzione BRUNO MORONA, Direttore Circulation ALBERTO CAVARA

Direttore Risorse Umane CRISTINA LIPPI, Direttore Amministrativo ORNELLA PAINI, Controller LUCA ROLDIDirettore Tecnologie GIUSEPPE SERRECCHIA, Direttore Prodotti Digitali BARBARA CORTI, Direttore CN Studio ROBERTA LA SELVA

Direttore Creativo CN Studio CRISTINA BACCELLI, Direttore Branded Content RAFFAELLA BUDA

Sede: 20121 Milano, piazza Castello 27 - tel. 0285611 - telegr. NASTIT - fax 028055716. Padova, via degli Zabarella 113, tel. 0498455777 - fax 0498455700. Bologna, via Carlo Farini 13, Palazzo Zambeccari, tel. 0512750147 - fax 051222099 - Firenze, via Jacopo Nardi 6, tel. 0552638789 - fax 0552009540. Roma, via C. Monteverdi 20, tel. 0684046415 - fax 068079249. Parigi/Londra, 4 place du Palais Bourbon 75007 Paris - tel. 0033144117885 fax 0033145569213. New York, 125 Park avenue suite 2511 - New York NY 10017 - tel. 2123808236 - fax 2127867572. Barcellona, Passeig de Gràcia 8/10, 3° 1a - 08007 Barcelona - tel. 0034932160161 - fax 0034933427041. Monaco di Baviera, Eierwiese 5b - 82031 Grünwald - Deutschland - tel. 00498921578970 fax 00498921578973. Istanbul, Yenimahalle Tayyareci Fethi Sok. 28/7 Bakırkoy - 34142 Istanbul - Turkey - Cell: 0090-532-2614343 - email: [email protected]

Redazione: 20121 MILANO - Piazza Castello 21 - tel. 0285611 - 0285612377

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Molto più di un display curvo.

Molto più di uno Smartphone.

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D O V E

S A N F R A N C I S C O , U S A

C O O R D I N A T E

3 7 . 7 8 6 9 9 4 N , 1 2 2 . 3 9 9 6 1 7 O

A R T

F E L I X P E T R U Š K A

T E S T O R A C C O L T O D A

P H I L I P D I S A L V O

T E S T O D I

J I M M Y W A L E S

I N T E R N E T R I D I S E G N A I C O N F I N I G L O B A L I

P R O L O G O

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W I R E D / P R I M AV E R A 2 01 6

è una vibrante scena tecnologica alla periferia della città di Yaba, un sobbor-

go di Lagos, in Nigeria, fatta di spazi di co-creazione, laboratori e startup dove molti

giovani lavorano allo sviluppo di progetti interessanti. Non è l’unico posto che si po-

trebbe citare, ma è certo un eccellente esempio per dire che la prossima Silicon Valley

potrebbe essere africana.

La connessione globale a internet consentirà a molti luoghi del pianeta di vede-

re la nascita di idee innovative, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Sta già succedendo proprio

a Yaba − dove questo fermento ha non a caso assunto il nome di “Yabacon Valley” − e in altre parti del

mondo. Una volta che le persone sono online, per creare cose e far sì che diventino davvero grandi

e globali, a loro serve poco, nient’altro che un piccolo team di volenterosi. Credo sia assolutamente

plausibile immaginare che la prossima Instagram, oppure qualsiasi altra nuova invenzione dal suc-

cesso planetario, possa venire da zone di questo tipo.

Internet, che è riuscita a connettere quasi tutto il pianeta e ad accorciarne le distanze, è ormai

diventata il medium globale per eccellenza. Anche se il percorso verso una connessione universale

non è del tutto compiuto. Negli anni a venire vedremo andare online un miliardo (magari anche due)

di nuove persone, più rapidamente di quanto avremmo potuto aspettarci e grazie soprattutto ai di-

spositivi mobile. Siamo ancora ben lontani dall’aver connesso il mondo intero, insomma, però sono

certo che ci arriveremo molto presto.

I principali ostacoli tecnici alla costruzione di questa fondamentale connessione globale sono

già stati risolti. I segnali che vanno in questa direzione sono molti: nel giro di breve tempo verranno

lanciati smartphone ancora più economici e in grado di raggiungere utenti che, ora, si trovano molto

in basso nella scala economica. Lo stesso vale anche per le infrastrutture in tutto il mondo: servono

più cavi di fibra ottica che partano da zone del pianeta già ben connesse e più internet in mobilità e

telefonia mobile. Non ci sono però più limitazioni specifiche, in questo senso, e mi sembra ovvio che il

processo possa concludersi al massimo entro i prossimi cinque o dieci anni.

A parte gli aspetti tecnici, prima di poter garantire un vero accesso globale a internet dobbia-

mo comunque finire di superare alcune questioni sociali e politiche. Sappiamo fin troppo bene come

i governi di diversi paesi cerchino di far passare leggi che mirano a cancellare le garanzie di accesso

libero al web. La censura, per esempio, continua a porre dei problemi seri: se vogliamo assicurarci

questa connessione realmente planetaria, dobbiamo riuscire a risolverli. La mia speranza? È che si

stia andando verso un futuro con meno sanzioni sulla rete. Però dobbiamo essere consapevoli che i

pericoli non mancano. Nemmeno nelle democrazie più compiute.

C’

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W I R E D / P R I M AV E R A 2 01 6

Il Parlamento europeo dovrebbe rivedere il “diritto all’oblio” − la garanzia che prevede la non

diffondibilità e la rimozione di contenuti pregiudizievoli dagli indici dei motori di ricerca − dato che

dal punto di vista giuridico, essendo stato delineato in base a principi che esistevano ben prima della

nascita di Google, prevede insufficienti garanzie. Sono convinto, però, che gli estensori non abbiano

mai pensato o affermato che questa salvaguardia fosse da usare contro i giornali o le enciclopedie.

A proposito di enciclopedie, quest’anno festeggiamo il quindicesimo compleanno di Wikipe-

dia. L’obiettivo che ci siamo posti sin dall’inizio è intrinsecamente globale: da sempre invitiamo a

unirsi a noi persone di tutto il mondo e che parlano ogni lingua. La nostra missione è consistita e con-

siste nel fornire un’enciclopedia a tutti e nella loro lingua madre: oggi siamo un progetto che parla

più di 300 idiomi. Nel perseguire questo obiettivo abbiamo costantemente tenuto un approccio dav-

vero planetario, ma non l’abbiamo ancora raggiunto. Dobbiamo iniziare a pensare a lungo termine e

per questo stiamo per lanciare una nuova campagna mirata alla creazione di un Endowment Fund, un

“Fondo di dotazione”. Noi consideriamo Wikipedia un’istituzione culturale al pari di un’università o

di una biblioteca: perciò vogliamo raccogliere finanziamenti ulteriori da destinare a una governance

separata, per salvaguardarne il futuro e far sì che sopravviva per i prossimi cento anni.

Perché, per esempio, ci sono lingue che non abbiamo per ora coinvolto. Dobbiamo farlo, se vo-

gliamo essere davvero una rappresentazione globale della conoscenza. Al mondo esistono 330 idiomi

che vengono parlati da almeno una persona; su Wikipedia alcuni non sono per il momento del tutto

disponibili oppure hanno un numero di lemmi davvero ridotto. Dobbiamo quindi fare ancora tanto,

soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Infine, solo il 15% dei contenuti è in inglese. Credo si tratti di

un particolare molto significativo ed emblematico: la stessa internet, nella sua interezza, sarà sempre

meno inglese-centrica e dipendente dalle nazioni occidentali.

Anche se la maggior parte del web è oggi un territorio commercializzato, esiste ancora molto

spazio per progetti come Wikipedia. Noi abbiamo attivamente contribuito a costruire un’internet

diversificata, credo, e dobbiamo impegnarci a preservarla. Per riuscirci, abbiamo bisogno di persone

giovani che creino nuove cose basate sulla medesima etica. In questo modo, la geografia del web e

dell’innovazione verrà completamente riscritta.

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Marina di Pisa (Pi)

I T A L I A

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Altamura (Ba)

Città del Vaticano

Guastalla (Re)

Vicenza

Budrio (Bo)

Varese

Pisa

Favara (Ag)

Lodi

Tra L’Aquila e Teramo

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L U O G O

M A R I N A D I P I S A ( P I )

C O O R D I N A T E G P S

4 3 . 6 6 9 9 6 2 N , 1 0 . 2 7 5 2 7 2 E

F O T O D I

B A R B A R A O I Z M U D

T E S T O D I

M A R C O M A L V A L D I

C A P I T O L O 1

I T A L I A

Q U A D R A N T E M A P P A

K4

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M O T O P E R P E T U O

LE ONDE DEL MARE,

UNA FONTE INFINITA

DI ENERGIA CHE NESSUNO

AVEVA MAI CAPITO COME

SFRUTTARE. FINCHÉ UN

MATEMATICO NON SI

È INVENTATO UNA MACCHINA

PER TRASFORMARLE

IN ELETTRICITÀ

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W I R E D / P R I M AV E R A 2 01 6

isa, estate 2014. Ho da poco installato un meraviglioso impianto solare da 3 kiloWatt,

e ne vado molto orgoglioso. C’è solo un piccolo particolare: piove ininterrottamente

da un mese. Una volta avevo letto che la forma di energia più efficiente da convertire è

quella idrica: certo, necessita di grandi altezze (l’energia va come il quadrato dell’al-

tezza da cui casca l’acqua), ma in molti casi si riesce a convertire in elettricità circa

metà della potenza del moto. Se il risultato vi pare scarso, tenete conto che qualsiasi

conversione di energia termica al massimo può raggiungere il 33%, e che la vostra automobile a ben-

zina ha un rendimento di circa il 25%.

Per cui, per distrarmi, provo a calcolare quanta energia riuscirei a estrarre dalla pioggia, se

riuscissi a raccoglierla sul tetto e la facessi scorrere dalle grondaie da un’altezza di 10 metri. Il ri-

sultato non è troppo confortante: con un tetto da 100 metri quadrati, posto a un’altezza di 10 metri,

supponendo una pioggia da 30 millimetri all’ora (cioè, un nubifragio) ottengo in un giorno più o meno

l’energia necessaria per caricare il cellulare.

La quantità di energia portata dall’acqua dipende, è vero, dall’altezza da cui casca; ma dipen-

de, ancora di più, dalla sua densità. Ora, anche il più violento dei nubifragi ha una densità ridicola

rispetto all’acqua come sostanza pura. Con l’energia della pioggia non si va molto lontano, quindi.

Bisognerebbe sfruttare l’energia del mare. Delle maree, per esempio, o delle onde.

La stessa cosa che è venuta in mente, circa dieci anni fa, a Michele Grassi, matematico laureato

alla Scuola Normale Superiore di Pisa, osservando il rollio di una barca al largo. È un peccato che tut-

ta quell’energia, l’energia delle onde, vada sprecata. Ci deve essere un modo per sfruttarla, e Grassi

lo individua. Un’onda, a livello sottomarino, si traduce in una differenza di pressione: detto in parole

povere, un’onda è più alta del livello del mare davanti e dietro a sé, e quindi contiene più acqua. La

colonna d’acqua sotto l’onda ha un peso maggiore, e questo causa una pressione sottomarina.

Sfruttando l’effetto di questa pressione su un meccanismo mobile, si può pensare di convertire

l’energia meccanica in energia elettrica. Niente di difficile, e non c’è nemmeno da cercare troppo lon-

tano: il principio della dinamo è stato inventato proprio qui, dal fisico Antonio Pacinotti, all’incirca

un secolo e mezzo fa.

P

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C A P. 1 / I TA L I A

3 5

3 4

uello che succede dopo, in Italia, ha dell’incredibile. Grassi rinuncia al caro vecchio po-

sto fisso (all’Università di Pisa, non in fonderia) e si butta cervello e corpo nell’impre-

sa. Fonda una società, fabbrica prototipi, cerca collaborazioni. La prima arriverà con

Enel Green Power, che contribuirà a una parte delle risorse finanziarie necessarie per

l’installazione di un prototipo di R115 al largo di Punta Righini, vicino a Castiglioncel-

lo. La macchina necessita di un fondale profondo almeno 40 metri, e produce 100 kW

di potenza – il fabbisogno di 80 famiglie, detto in termini umani.

La cosa è migliorabile? Pare di sì. La prima macchina di Grassi, la R115, sfrutta la pressione

delle onde di alto fondale per produrre un moto circolare. Per questo, il dispositivo ha bisogno di una

profondità maggiore di quaranta metri. Ma una differenza di pressione come quella causata dall’on-

da, in basso fondale causa una spinta prevalentemente orizzontale: l’acqua sotto l’onda ha una di-

versa densità rispetto a quella davanti o dietro all’onda. Nasce così H24, un modulo lungo fino a ven-

tiquattro metri provvisto di una sorta di vela che l’onda di pressione sottomarina fa scorrere su un

binario. All’interno del modulo, dei meccanismi appositi trasformano l’energia cinetica (il moto della

vela) in energia elettrica. Tutto questo fornisce 50 kW di potenza a sei metri di profondità.

Sei metri è molto molto meno di quaranta. Più facile da installare (un piccolo pontone e una

coppia di sub lo posano in un paio d’ore) e soprattutto, più facile trovare posti in cui installarlo. La

potenzialità di questo modulo sta infatti nella sua estrema versatilità: H24 si può installare a poca

distanza dalla costa. Ora, l’Italia ha più di settemila chilometri di coste.

Supponendo di posare uno di questi oggetti ogni trentacinque metri (in realtà è possibile met-

terli parecchio più vicini senza interazioni) questi produrrebbero l’ammontare di circa 10 gigawatt di

energia. Dieci centrali nucleari di medio cabotaggio, più o meno. Appurate le possibilità, passiamo al

costo: un aspetto che quando si parla di energia non va troppo sottovalutato. La potenza nominale di

questo impianto è di 50 megawatt, e il suo costo al momento è di circa 200.000 euro (installato, chiavi

in mano), il che significa che ogni watt di potenza ha un costo di installazione di circa 4 euro. Un po’

meno dell’eolico domestico (6 €/W) ma parecchio di più rispetto al grande eolico a terra (i grandi

parchi eolici producono al costo di 1,5 €/W) e al solare.

Q

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W I R E D / P R I M AV E R A 2 01 6

Parliamo di potenza nominale, ovvero la massima potenza che l’apparato sprigiona in condi-

zioni di funzionamento ideale. Quello che bisogna considerare, però, è la potenza media. Un parco eo-

lico funziona quando c’è vento: duemila ore l’anno, nelle zone più sfigate d’Italia, cioè circa un quarto

del tempo. Peggio ancora il solare: l’efficienza media del pannello solare è circa del 16%.

Con le onde, invece, va meglio. Le fluttuazioni marine in grado di muovere l’apparecchio sono

molto più frequenti di quelle ventose, e non c’è bisogno di sole per riscaldarle e renderle pronte allo

sforzo. Si calcola che l’efficienza media del dispositivo sia circa del 30%, e se ho capito bene è una sti-

ma prudenziale. Paragonando i costi di installazione in euro per watt medio, un watt H24 verrebbe

prodotto al costo di installazione di 12 euro, mentre quello di un grande eolico ne costa 6 e quello di

un solare 8. Per non parlare dell’eolico domestico, che ne è costato 24.

L’eolico a terra è più conveniente, certo. Però un dispositivo come quello di Grassi si può in-

stallare ovunque. Non si vede e non ha impatto ambientale (è di vetroresina, ha lo stesso impatto di

una barca, anzi meno: ci sono varie certificazioni comprovanti, come vedremo). Un po’ meglio degli

ecomostri eolici, quindi.

iccome sono un rompicoglioni, e la cosa mi sembrava troppo bella per essere vera, ho

fatto a Grassi alcune domande. La prima domanda è semplice: questi oggetti sono sot-

tomarini, il che significa corrosione e arrugginimento. Di quanta manutenzione han-

no bisogno questi oggetti? Secondo Grassi, non molta. Il problema della corrosione si

ha in realtà quando un oggetto (tipicamente, un oggetto di metallo) viene continua-

mente immerso in acqua e tirato fuori. L’azione elettrolitica dell’acqua e quella chi-

mica dell’ossigeno, combinate, possono fare danni. Il modulo è fatto invece di fibra di vetro, che non

conduce e non arrugginisce, e sulla quale gli organismi marini sono in grado di allignare e crescere.

Da chimico, mi tocca dargli ragione. Uno a zero per lui.

La seconda domanda è un pochino più bastarda: un essere umano, un sub, o un povero delfino,

una di quelle tenere creature del cui destino ci preoccupiamo mentre trangugiamo un bel filetto di

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C A P. 1 / I TA L I A

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tonno, potrebbero rimanerci impigliati o incastrati, e lasciarci le penne. Anche qui, no. E non solo

secondo Grassi, visto che l’analisi dei rischi posti dal modulo ha ricevuto la certificazione Rina (Regi-

stro Italiano Navale), un ente noto per la sua particolare severità. Qui, da chimico, mi tocca fidarmi.

La terza domanda è fetente: in Portogallo pochi anni fa hanno costruito un oggetto simile, il

Pelamis Energy Wave Converter. Un mostro in grado di generare 750 kW. Sono falliti in pochi anni.

Certo che sono falliti, risponde Grassi. Pelamis era un mostro che solo di installazione costava 5,6

milioni di dollari. Il nostro modulo costa venti volte meno. È una spesa affrontabile da una piccola

comunità. Piccola comunità? Sì, la scommessa ulteriore di Grassi è questa.

l coronamento ideale del progetto di Grassi, che propone la possibilità di formare una

smart community, in cui una piccola realtà (come un paese di provincia, per esempio:

pare che in Italia abbondino) si fornisca di una serie di elementi per produrre da sola

la propria energia esclusivamente da fonti rinnovabili, coinvolgendo gli abitanti, i tu-

risti, gli utenti del porto tramite il crowdfunding. Se volete la mia opinione, questo è

un vero progetto.

Un progetto organizzativo, ma basato su solide innovazioni tecnologiche, non la solita aria frit-

ta in cui si presenta un progetto in cui si mescolano le due o tre cose che sappiamo fare con quelle che

sa fare il tizio che ci siamo trovati accanto a cena due sere prima, e speriamo che funzioni.

È solo la mia opinione. Spero di non confondere la speranza con la convinzione, ma sono con-

vinto che in questo ambito la mia opinione abbia qualche valore.

I

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C A P I T O L O 1

I T A L I A I M U R I D E L S U O N O

F A B I O C I A R A V E L L A ,

F R A N C E S C O L I P A R I

C A T E G O R I A

A R C H I T E T T U R A

P A R O L E C H I A V E

“ I L S E M E D E L T E M P O ” , K I N G C R I M S O N , P R O G R E S S I V E R O C K , S T U D I O G G - L O O P

C O O R D I N A T E G P S

4 0 . 8 2 2 3 9 1 N , 1 6 . 5 5 7 7 3 7 E

L U O G O

A L T A M U R A ( B A )

Cosa ci fa ad Altamura,

in provincia di Bari,

un edificio ispirato a

quella pietra miliare del

“progressive rock” che è

l’album − del 1969 − In the

Court of the Crimson King

dei King Crimson?

I cittadini se lo chiedono

ogni giorno attraverso

un dibattito sul rapporto

tra le rassicurazioni del

passato e il dovere di

immaginare la forma (e il

colore) del futuro. Questa

innovativa ristrutturazione

di un edificio d’angolo si

chiama The Seed of Time

(il seme del tempo) ed è

una recente (ottobre 2015)

realizzazione dello studio

italo-olandese GG-loop,

guidato da Giacomo

Graziano (classe 1981).

Il rosso cremisi e la

facciata hi-tech, combinati

in un “cappotto di design”

fatto di prismi

in bassorilievo, fanno

di The Seed of Time una

casa-museo con spazio

sculturale che richiama

il ritmo complesso di

quell’album dei King

Crimson (che nel ’69

contribuì a definire

la musica progressiva).

La sua architettura, infatti,

alterna momenti in cui

le superfici sono plastiche,

per richiamare

il succedersi asincrono

della batteria, e lisce,

quasi a evocare il suono

di chitarre elettriche

e melodie dolci.

L’edificio si divide in due

“movimenti”, come li

definisce lo stesso autore,

Giacomo Graziano:

«L’esterno si chiama

Gentle Genius e l’interno

The Infection». Il primo

comunica protezione,

il secondo richiama

la cura degli interni.

Questi due elementi

sembrano scontrarsi alla

ricerca di un equilibrio

− conscio e inconscio,

percezione e pensiero −

e ricordano la prospettiva

semiotica di Rudolf

Arnheim, nella quale «non

c’è alcuna differenza

tra quando una persona

osserva direttamente il

mondo e quando invece

siede con gli occhi chiusi

e pensa».

Dalle cene della borghesia

fino ai bar della periferia,

l’intera comunità

altamurana si è divisa

su un nuovo modo di

immaginare la città,

alimentando la propria

consapevolezza sulle

potenzialità innovative

anche dei luoghi quotidiani:

come quello in cui appunto

sorge l’edificio di GG-loop.

The Seed of Time

− e la filosofia che sottende

a questo progetto − ha

soprattutto un merito,

per i cittadini è diventato

un nuovo monito su uno

dei punti più deboli

e meno risolti della cultura

contemporanea nel

nostro paese: il rapporto

con l’innovazione e la

responsabilità dei singoli

nella definizione del futuro.

Costretta a prendere

posizione sull’opportunità

dell’intervento, la comunità

ha dovuto necessariamente

confrontarsi sia con

il contesto sia con

l’identità urbana; ma anche

occuparsi del rapporto

con la tradizione e la sua

possibilità di evoluzione.

Questo corollario è reso

ancor più significativo

e forte da un particolare

tutt’altro che trascurabile:

che tutto questo avviene

nel Meridione, in Puglia,

dove una provincia capace

di sentire il ritmo delle

forme si sta chiedendo

cosa sia il progresso.

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C A P I T O L O 1

I T A L I A

Q U A D R A N T E M A P P A

L6

Q U A D R A N T E M A P P A

O6

P A R O L E C H I A V E

A R T E , C O N S E R V A Z I O N E , G A L I L E O G A L I L E I

A L I C E P A C E

C O O R D I N A T E G P S

4 1 . 9 0 3 3 0 0 N , 1 2 . 4 5 3 3 0 0 E

L U O G O

C I T T À D E L V A T I C A N O

C A T E G O R I A

S C I E N Z A

L A S T O R I A S A LVATA D A L G R A F E N E

Siamo nel sottosuolo

del Cortile della Pigna,

nell’Archivio Segreto

Vaticano. Attorno a noi,

85 chilometri quadrati

di scaffali dove, catalogati

a uno a uno, poggiano

i registri, le buste, i faldoni

e le pergamene con

impresse le tappe fondanti

della nostra storia.

I più importanti sono

blindati in un bunker

a temperatura e umidità

regolate per mantenere

intatte le chiavi della

nostra cultura, come

i preziosi documenti

del processo a Galileo.

Eppure anche lì sotto,

secoli di parole, leggi

e decisioni rischiano

di sfaldarsi riducendo

in polvere i simboli del

nostro sapere. A tentare

di bloccare le lancette

dell’orologio sono alcuni

scienziati che, camice

bianco e dispositivi per

analisi portatili, si aggirano

per le sale. Una delle idee

più promettenti è venuta

a GraN Hub, startup che

intende fermare il tempo

usando un materiale

da Nobel: il grafene.

Questo elemento a base

di carbonio, sottile quanto

un atomo, ha dimostrato

di potersi comportare

come una spugna che

assorbe e neutralizza

gli inquinanti dannosi

per documenti e opere

d’arte. Grazie a piccoli

adattamenti chimici,

può persino essere

ingegnerizzato ad hoc per

intervenire su ogni singolo

tallone d’Achille, sia esso

una patina salina, un’alga

o il residuo tossico di

un restauro precedente.

Oltre a “curare”, potrebbe

funzionare da anti-aging,

cioè da trattamento

preventivo contro

l’invecchiamento di beni

storici e artistici.

Dopo aver restaurato

con il nanomateriale la

Chartula di San Francesco,

uno dei simboli più antichi

della dottrina francescana

e riportato alla luce

alcune pitture murali di

Ercolano, ora gli scienziati

sono impegnati in una

partnership con il Vaticano

per salvare manoscritti

autografati nientemeno

che dallo stesso Galileo

Galilei. Anche le vie della

scienza sono infinite.

©MICHAEL SIEBER

Page 46: Wired_Marzo 2016.pdf

C A P I T O L O 1

I T A L I A

Q U A D R A N T E M A P P A

K3

Ha vinto il premio speciale

di Legambiente, che

valorizza esperienze

e idee per generare nuova

bellezza: il Nido d’infanzia

Guastalla è oggi il fiore

all’occhiello dell’edilizia

scolastica italiana grazie

a un uso intelligente delle

tecniche costruttive in

legno e a un moderno

utilizzo degli spazi

didattici.

Il tutto all’interno di

un’architettura che si ispira

al ventre della balena

di Pinocchio.

È il 20 maggio 2012

quando l’Emilia viene

colpita duramente dalla

violenza di un sisma che,

nel silenzio della notte,

uccide 27 persone.

I danni interessano ben

59 Comuni e sono così

ingenti da modificare la

quotidianità di oltre un

milione di cittadini.

Nella sola Provincia

di Reggio Emilia viene

dichiarato inagibile il 13%

delle scuole, tra le quali

i due asili nidi comunali

dell’infanzia di Guastalla,

Pollicino e La Rondine,

che la nuova “balena”

ha adesso sostituito.

Nata dalla creatività dello

studio bolognese Mario

Cucinella Architects (Mca),

vincitore di una gara ad

evidenza pubblica indetta

dal Comune, la nuova

struttura educativa è

frutto di una progettazione

partecipata che ha incluso

anche pedagogiste ed

educatrici insieme ai

genitori dei bambini.

Richieste e consigli

legati all’esercizio della

quotidianità, infatti,

si sono tramutati nella

forma flessuosa degli

interni, nell’organizzazione

spaziale, nella scelta dei

materiali e nell’insieme

delle percezioni sensoriali

legate alla luce.

Progettato per valorizzare

al meglio l’aspetto

educativo e creativo, il

Nido, capace di accogliere

fino a 120 bambini da 0

a 3 anni, presenta soluzioni

tecnologiche e strutturali

di eccellenza che puntano

sull’utilizzo del legno

lamellare e su tecniche

di recupero energetico.

La configurazione

geometrica dell’asilo

si presenta come un

parallelepipedo a un piano

fuori terra lungo 78 metri

e profondo 18, scandito

da 50 telai portanti in

legno di abete − di forma

irregolare ed eseguiti

con macchine a controllo

numerico − che poggiano

su una fondazione a platea

“nervata” in calcestruzzo

armato. La coibentazione

dei fronti opachi nord, est e

ovest, abbinata all’impiego

di un vetrocamera ad alte

prestazioni sul fronte sud

e al recupero dell’acqua

piovana a fini scolastici,

nonché all’installazione in

copertura di un impianto

fotovoltaico, hanno

limitato il ricorso a sistemi

meccanici per soddisfare

il fabbisogno energetico

del Nido, consentendo

così all’edificio di essere

certificato in classe

energetica A.

U N N I D O A F O R M A D I B A L E N A

C O O R D I N A T E G P S

4 4 . 9 1 6 7 2 4 N , 1 0 . 6 6 6 7 1 2 E

P A R O L E C H I A V E

I N F A N Z I A , L E G N O , S O S T E N I B I L I T À

L U O G O

G U A S T A L L A ( R E )

F A B R I Z I O A I M A R ,

F R A N C E S C O L I P A R I

C A T E G O R I A

A R C H I T E T T U R A

©MORENO MAGGI

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C A P I T O L O 1

I T A L I A

Q U A D R A N T E M A P P A

L2

F I L I P P O P I V A

che prevede la fusione

di strati di polvere

per realizzare oggetti

tridimensionali) ottenuta

attraverso un processo di

atomizzazione delle leghe

metalliche.

Si tratta, in sostanza,

di microsfere d’argento,

di bronzo e soprattutto

d’oro giallo o bianco, a 18

carati, totalmente nichel

free. Vengono distribuite

a strati dalla stampante,

che poi fonde con un laser

solo e solamente le parti

necessarie alla creazione

del gioiello stesso.

«È un processo in continuo

miglioramento, applicabile

a una miriade di progetti

differenti», aggiunge

Andrea Friso.

«Abbiamo ricostruito

per esempio l’antico

“Gioiello di Vicenza”,

una riproduzione in scala

del centro cittadino

del 1578 che era andata

distrutta in epoca

napoleonica».

Il gioiello di circa 58

centimetri di diametro,

per un totale di 15 chili

di argento, è stato ricreato

in digitale, quindi stampato

in ogni sua parte

e riassemblato.

È stato esposto anche

a Expo, come prova delle

grandissime potenzialità

di questa tecnologia.

Dalla piccola bottega

artigianale alla grande

industria, nella zona di

Vicenza sono circa un

migliaio le aziende che,

in qualche modo, vedono

la propria attività legata

al mondo della gioielleria.

Per questo la città veneta

è conosciuta come uno

dei tre principali distretti

italiani dell’oro, insieme

a Valenza Po e Arezzo.

La sua fiera annuale,

“VicenzaOro”, è tra

gli appuntamenti più

importanti del settore

a livello internazionale:

il dominio è ancora

saldamente italiano in

quanto a stile e tendenze,

come del resto nel campo

dell’innovazione.

Perché la bellezza di

un gioiello potrà anche

essere eterna ma gli studi

su materiali e metodi

di produzione sono in

continua evoluzione.

La stampa in 3D, per

esempio, è una soluzione

molto interessante che

potrebbe facilmente

aggirare buona parte

dei limiti cui i processi

produttivi ancora oggi

utilizzati devono continuare

a sottostare. Si pensi alla

fusione a cera persa, che

porta alla costruzione di

uno stampo dentro cui

versare il metallo fuso:

è un metodo in uso sin

dalla notte dei tempi,

eppure ha ancora i suoi

vantaggi...

Ma quando si guarda alla

personalizzazione di un

prodotto? «È impensabile

creare uno stampo

differente per ogni minima

variazione», spiega Andrea

Friso, division product

manager di Legor Group,

azienda specializzata in

chimica e metallurgia.

«Al contrario, sarebbe

facilissimo modificare un

progetto digitale realizzato

con Cad o software

analoghi, quindi stampare

il tutto apportando le

modifiche desiderate».

Per questo Legor Group

ha investito nella ricerca

di soluzioni per

perfezionare la stampa in

3D dei gioielli e ha lanciato

sul mercato Powmet,

una polvere metallica per

additive manufacturing

(un processo produttivo

1 8 C A R AT I I N 3 D

C A T E G O R I A

H I - T E C H

P A R O L E C H I A V E

G I O I E L L I , M I C R O S F E R E , O R E F I C E R I A .

C O O R D I N A T E G P S

4 5 . 5 4 6 7 2 0 N , 1 1 . 5 4 7 5 0 0 E

L U O G O

V I C E N Z A

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C A P I T O L O 1

I T A L I A

A poco più di 20 chilometri

a est di Bologna c’è un

luogo in cui le persone

che hanno subito

un’amputazione tornano

a camminare. Non solo,

qualche volta riescono

ad andare così veloci che

finiscono per qualificarsi

ai Giochi olimpici.

Il polo Arte Ortopedica

di Budrio, infatti, raccoglie

alcuni dei centri più

importanti d’Italia per

le protesi e segue atleti

di altissimo profilo.

Qui, per esempio,

hanno trovato il modo

di restituire a Beatrice

Vio il suo fioretto.

Colpita da meningite acuta

quando aveva 12 anni,

la giovanissima

campionessa paralimpica

è oggi la prima persona

al mondo a tirare

di scherma, nonostante

le amputazioni alle gambe

e degli avambracci.

La protesi che glielo

permette si innesta sul

moncone con una cuffia

imbottita e con un perno

di ancoraggio; inoltre ha

un’invasatura in cui si

inserisce direttamente

il fioretto.

Beatrice detta Bebe

è così forte che, quando

aveva appena 15 anni,

le sue rivali internazionali

hanno provato a fermarla:

sostenevano che quella

stessa protesi

le concedesse un

vantaggio nella presa

sull’arma e chiedevano

− ma senza successo −

che venisse inserita nella

categoria C, quella in cui

competono le persone con

invalidità meno gravi.

A 19 anni ha già vinto tutto:

un campionato mondiale,

un europeo e ogni singola

competizione disputata

nel 2015. Ora punta decisa

all’oro paralimpico.

Accanto a lei, Arte

Ortopedica segue anche

altri ragazzi del team

di Art4Sport, la onlus

fondata dai genitori

di Bebe per permettere

a bambini e ragazzi

con disabilità di svolgere

attività sportiva:

fra l’altro, finanzia

carrozzine e protesi

che non sono passate

dalla mutua. Tra loro c’è

anche Veronica Plebani,

canoista e snowboarder

di vent’anni che, dopo

aver partecipato ai Giochi

invernali di Sochi 2014

in Russia, ora è pronta a

partire per quelli estivi

di Rio 2016.

Punta al podio più alto

anche Martina Caironi,

venticinquenne di Alzano

Lombardo amputata

all’altezza del femore

sinistro dopo un incidente

stradale e seguita dal

Centro Inail di Vigorso

di Budrio; già oro nei 100

metri T42 alla Paralimpiade

P R O T E S I D A R E C O R D

P A R O L E C H I A V E

G I O C H I O L I M P I C I , O R T O P E D I A , P A R A L I M P I A D I , P E R S O N A L I Z Z A Z I O N E

C A T E G O R I A

S P O R T

L U O G O

B U D R I O ( B O )

C O O R D I N A T E G P S

4 4 . 5 3 7 7 5 5 N , 1 1 . 5 3 4 5 7 3 E

Page 49: Wired_Marzo 2016.pdf

C A P I T O L O 1

I T A L I A

Q U A D R A N T E M A P P A

I2

Q U A D R A N T E M A P P A

L3

Ma veramente l’industria

dei videogame in Italia

è pressoché inesistente

e le poche realtà che la

rappresentano sono un

esempio dell’arretratezza

economica e digitale del

paese? A guardar bene

sorgono dei dubbi.

Studi come Milestone,

Ovosonico, Forge Reply

e Digital Tales oggi

aumentano organici

e produzione. L’Università

Statale di Milano inaugura

il terzo anno di laurea

magistrale in Game

Design. Da citare poi

il finanziamento privato

(1,44 milioni) di Digital

Bros a Ovosonico, che

consentirà allo studio

varesino di annunciare,

quest’anno, il successore

del videogame Murasaki

Baby e gestire più progetti

mantenendo l’autonomia

creativa.

Il pessimismo della stampa

spesso delinea un quadro

negativo ma dimentica per

esempio i tutorial musicali

dei nostri sviluppatori in

cui si distruggono città

come Tonzilla di Krur;

o i simulatori di rivolte

che sono osservatori

antropologici quale Riot,

di Leonard Menchiari,

pronto per questa estate.

Accanto a Milestone,

che può permettersi

di (far) giocare insieme

a Valentino Rossi

attraverso il suo videogioco

ufficiale, spuntano

manifesti “extra-ludici”

come Progetto Ustica,

simulazione

in realtà virtuale del volo

IH870. Finanziato in

crowdfunding e sviluppato

in collaborazione con

l’Associazione Parenti delle

Vittime della Strage di

Ustica, è la testimonianza

di come il gioco possa farsi

strumento di impegno

civile e di memoria.

Chiaro, della maggior

parte di tanti progetti

è impossibile prevedere

il successo, di alcuni è

difficile anche garantire

l’uscita. Ma sull’impegno

di tutti ad accrescere

l’industria del Game in

Italy, oggi si può giurare.

di Londra e al Mondiale

di Doha 2015, è tuttora

detentrice del record del

mondo nei 100 e nei 200.

Insieme a lei, oltre agli

undicimila pazienti trattati

ogni anno dal Centro,

ci sono anche altri atleti

che puntano

alle Paralimpiadi.

Come il “lunghista”

Roberto La Barbera

(già argento del salto

in lungo ad Atene 2004

e pronto a una nuova

avventura a 49 anni),

Claudio De Vivo (argento

italiano nei 60, 200

e 400 metri) e Monica

Contrafatto, soldatessa

che nel 2012 ha perso

una gamba in un attentato

in Afghanistan e che ora

sogna di staccare il pass

paralimpico nei 100 metri

dopo aver corso la finale

mondiale a Doha accanto

a Martina Caironi.

Grazie ai sofisticati

dispositivi brevettati

e costruiti dalle

multinazionali del settore

come Ottobock e Össur

(anch’esse presenti

a Budrio con le rispettive

sedi italiane) i centri

sviluppano soluzioni

personali e su misura.

E i risultati − sempre

più esaltanti per lo sport

italiano − si vedono.

E M I L I O C O Z Z I

P A R O L E C H I A V E

I N D U S T R I A , U N I V E R S I T À , U S T I C A

C O O R D I N A T E G P S

4 5 . 8 1 9 4 4 5 N , 8 . 8 2 2 4 1 2 E

C A T E G O R I A

V I D E O G A M E

L U O G O

V A R E S E

G I O C A N D O I N C A S A

G A B R I E L E L I P P I

Page 50: Wired_Marzo 2016.pdf

C A P I T O L O 1

I T A L I A

Q U A D R A N T E M A P P A

K4R O B O T, M A N I E T E N TA C O L I

Libri di fantascienza a

parte, replicare ciò che

esiste in natura è un’arte:

un’arte che si impara

alla Scuola Superiore

Sant’Anna di Pisa, a

contatto con i progetti

di replica più evoluti del

mondo. Dove neanche

il gesto più scontato, sotto

quest’ottica, resta privo

di complessità e

meraviglia. Per esempio,

chi sa quanta scienza

bisogna scomodare per

riprodurre artificialmente

una stretta di mano?

Perché proprio la mano,

qui, è la protagonista

indiscussa, visto che

l’obiettivo è realizzarne

la replica perfetta,

nell’aspetto e nelle

capacità, per quanti hanno

subito un’amputazione.

In questi laboratori c’è

tutta la storia che ha

portato a dita artificiali

sempre più flessibili

e libere di muoversi,

a prese sempre più

calibrate, a materiali

sempre più leggeri e,

negli ultimi anni, a mani

robotiche comandate

dal pensiero. Non solo.

Nei modelli recenti è

presente anche il senso

del tatto: chi li indossa

può percepire forma e

consistenza di ciò che

stringe. Nuovi software

in grado di codificare in

modo sempre più raffinato

le sensazioni permettono

di distinguere la ruvidità

delle superfici che toccano

e classificarne il materiale,

siano esse lisce o irregolari,

di vetro oppure velluto.

Non è solo l’essere umano

la creatura da replicare.

L’ultima frontiera dello

sviluppo, alla Sant’Anna,

si ispira a organismi meno

antropomorfi: come i

molluschi, privi di scheletro

e con motilità lontana dalla

nostra. È il mantra della

soft robotics, la robotica

morbida che attraverso

materiali elastici, gommosi

e deformabili converte in

nuove tecnologie i principi

fondamentali della natura

e scardina le regole in

un processo che, per

creatività, fa nuovamente

pensare all’arte.

L’ultimo prototipo è un

grosso polpo animato

in silicone, realizzato dopo

mesi trascorsi a studiare

tentacoli e ventose dei

nostri cefalopodi:

un essere, tra i più

sofisticati mai progettati

finora, che farà forse

da apripista a una

nuova specie di creature

subacquee in grado

di esplorare fondali,

recuperare oggetti,

prestare soccorso quando

per l’uomo è impossibile.

E che, perché no, presterà

uno dei tentacoli alla

medicina fino a evolversi

in uno strumento

chirurgico più delicato,

intuitivo e sicuro di

quelli tradizionali.

A L I C E P A C E

C A T E G O R I A

S C I E N Z A

L U O G O

P I S A

C O O R D I N A T E G P S

4 3 . 7 2 1 4 3 9 N , 1 0 . 4 0 2 4 3 2 E

P A R O L E C H I A V E

P O L I P O , S A N T ’ A N N A , S E N S I B I L I T À , T A T T O

©PRENSILIA.COM

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C A P I T O L O 1

I T A L I A

Q U A D R A N T E M A P P A

M9

P A R O L E C H I A V E

A R T E , C E N T R O S O C I A L E , T U R I S M O , U T O P I A

C A T E G O R I A

S O C I E T À

L U O G O

F A V A R A ( A G )

F R A N C E S C O L I P A R I

I L F U T U R O P A R T E D A S E T T E C O R T I L I

C O O R D I N A T E G P S

3 7 . 3 1 3 5 0 4 N , 1 3 . 6 5 8 1 7 6 E

Il 25 giugno 2010 sulla

cittadina di Favara, a pochi

minuti dalla meravigliosa

Valle dei Templi di

Agrigento, si abbatte

il progetto “Farm Cultural

Park”. Una “deflagrazione

buona”: in appena

duemila giorni produrrà

un cambiamento così

intenso, all’interno di

uno dei contesti siciliani

più dilaniati da cemento

e mafia, da essere

paragonato alla somma

delle metamorfosi

avvenute nell’intera

provincia in un ventennio.

Farm Cultural Park è

l’innovazione territoriale

del notaio Andrea Bartoli

e della moglie Florinda

Saieva, che decidono di

acquistare alcune casette

fatiscenti nel centro storico

e costruirci un sogno.

Stanca di attendere

che le promesse altrui

si realizzassero, la coppia

siciliana ha deciso di non

trasferirsi in una capitale

europea, ma di restare

e donare la loro visione

a 32mila fortunati cittadini,

realizzando tra i vicoli

di matrice araba della città

il loro pezzo di mondo

nuovo. Una scelta in

apparenza folle che,

in realtà, porta i due

visionari a realizzare

un’utopia: trasformare

il centro storico della città

nella prima attrazione

turistica contemporanea

dell’intera Sicilia.

La Farm, come ormai tutti

la chiamano, ha ristabilito

nei suoi abitanti quello che

in un progetto chiamato

“La Città Emozionale”

è stato definito “Status

Emotivo Minimo” (Sem):

la condizione minima

(e necessaria) affinché

i cittadini possano sentirsi

sicuri in un personale

recinto abitativo.

Negli anni, il progetto Farm

Cultural Park si è allargato

− da piccolo centro

culturale di appena 300

metri quadri, racchiuso

in sette cortili −

a complessa e

articolata unità minima

di urbanizzazione di

1700 metri quadrati,

consentendo a Favara di

passare da zero visitatori

a quasi 40mila turisti.

All’interno, si susseguono

mostre inedite, workshop

su cibo e tecnologia,

talk e presentazioni,

concorsi e installazioni

d’arte e architettura

contemporanea. Nei suoi

spazi si sono avvicendati

artisti, architetti, creativi

e innovatori di tutto il

mondo che insieme

– e lavorando con chi del

progetto ne consente

la reale sopravvivenza,

cioè i vecchi residenti

dei sette cortili – stanno

contribuendo a definire

un nuovo ecosistema

territoriale di riferimento

per i centri storici

di un’intera regione.

©FARM CULTURAL PARK

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C A P I T O L O 1

I T A L I A

Q U A D R A N T E M A P P A

J2

F I L I P P O P I V A

P A R O L E C H I A V E

B I O T E C N O L O G I A , D N A , O G M , P T P

C A T E G O R I A

F O O D

I L P A R C O H I -T E C H D E L L’A G R I C O LT U R A

C O O R D I N A T E G P S

4 5 . 3 0 3 5 7 2 N , 9 . 4 7 8 7 0 5 E

L U O G O

L O D I

L’autunno del 2005 ha

visto a Lodi la nascita del

Parco Tecnologico Padano:

una realtà interamente

dedicata a ricerca e

innovazione, all’interno

della quale si guarda al

futuro dell’agroalimentare,

della bioeconomia e delle

scienze della vita, con un

particolare focus sui temi

dell’alimentazione e della

produzione di cibo.

«Il tema del food, ai nostri

giorni, è diventato un perno

fondamentale attorno a cui

gira una serie di tematiche

importantissime», spiega

il direttore generale del

Parco Gianluca Carenzo.

«Quelle economiche, certo,

ma anche altre legate alla

salvaguardia dell’ambiente,

al rapporto tra cibo e

salute, alla prevenzione

delle malattie». Legate a

doppio filo alla genomica

e alle tecnologie inerenti,

esse animano le attività

quotidiane dei 9mila metri

quadrati del complesso

lodigiano, che oltre ai

laboratori del Cnr e

dell’Università degli Studi

di Milano ospita alcune tra

le più innovative startup

italiane del settore.

«Il Ptp si muove

sostanzialmente su tre

linee: la prima è la ricerca

applicata a temi che

spaziano dalla genetica

vegetale al riciclo, fino alle

agroenergie. La seconda

è quella dei servizi b2b,

business-to-business,

con progetti pensati per

le imprese che si trovano

ad affrontare nuove sfide

legate alla tecnologia

alimentare, dai prodotti

Ogm alla tracciabilità del

cibo. Infine c’è la nostra

attività di incubatore di

impresa, attraverso cui

forniamo spazi, consulenza

e supporto alle startup

legate all’agro-bio-food».

Così trova spazio per

esempio Italbugs,

la prima azienda italiana

specializzata in processi

di allevamento di insetti

per l’alimentazione.

Non basta. Tra i successi

del Parco Tecnologico

Padano ci sono anche un

progetto di coordinamento

delle ricerche internazionali

sull’evoluzione del dna

delle capre in relazione

alle condizioni

geoclimatiche del loro

habitat (presentato al

G8 dell’agricoltura di

Washington lo scorso

aprile con il nome di Goat

AdaptMap); e il più recente

DemoField, che durante

il periodo dell’Expo ha

trasformato un ettaro

di terreno, nelle immediate

adiacenze del parco,

in un laboratorio a cielo

aperto per sperimentare

e illustrare le più recenti

innovazioni agrotecniche

nell’uso efficiente

dell’acqua e nella gestione

integrata delle colture.

«Guardando al futuro

del cibo, la parola chiave

non può che essere

sostenibilità: sia per

i prodotti sia per i processi

produttivi».

«Per questo, al Parco

Tecnologico Padano

crediamo nell’importanza

assoluta della ricerca su

biotecnologie, bioeconomia

ed economia circolare,

con l’obiettivo di coniugare

le produzioni e il rispetto

per il territorio».

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C A P I T O L O 1

I T A L I A

Q U A D R A N T E M A P P A

M5

G I A N L U C A D O T T I

I Laboratori Nazionali

del Gran Sasso sono un

centro di ricerca costruito

per trovare e studiare

l’inafferrabile. Per questo

è sepolto nelle viscere

della montagna a 1400

metri di profondità, dove

persino i raggi cosmici ad

altissima energia riescono

a malapena a penetrare.

Ideati più di trent’anni

fa e gestiti dall’Istituto

Nazionale di Fisica

Nucleare, i Laboratori

si raggiungono solo

percorrendo il traforo

autostradale che attraversa

il più grande massiccio

montuoso dell’Italia

centro-meridionale.

La temperatura naturale

è di 6 gradi; per tutto l’anno

l’umidità sfiora il 100%.

Lì sotto oggi lavorano circa

750 scienziati, impegnati

in una quindicina di

esperimenti che indagano

i meccanismi di produzione

di energia nelle stelle

e i decadimenti rari.

Ma, soprattutto, la fisica

dei neutrini e la ricerca

dell’elusiva materia oscura.

Anche se ogni secondo

il nostro corpo è

attraversato da miliardi

di neutrini, lo studio

di queste particelle è

sempre stato complicato

dalla scarsa capacità

di interagire con la materia.

Sull’esistenza non ci sono

più dubbi, né sul fatto

che possiedano una massa

piccola ma misurabile:

il risultato ha meritato

il premio Nobel per la

fisica 2015, assegnato

per la dimostrazione

sperimentale della

cosiddetta “oscillazione

del neutrino”, ossia quella

peculiare capacità di

cambiare identità.

Al successo hanno

contribuito anche

i Laboratori del Gran Sasso

con gli esperimenti

Gallex, Macro e Opera.

Ma la ricerca non è finita:

in fase di assemblaggio

c’è il rivelatore Cuore

(Cryogenic Underground

Observatory for Rare

Events). Ha l’ambizioso

obiettivo di stabilire se

le particelle abbiano

le proprietà previste

da Paul Dirac o quelle

teorizzate 80 anni fa da

Ettore Majorana, secondo

cui il neutrino potrebbe

spiegare perché l’universo

è costituito quasi tutto

di materia e le tracce

di antimateria sono così

sfuggenti. I fisici

sperano di osservare

un rarissimo decadimento

nucleare del tellurio,

il doppio-beta senza

emissione di neutrini.

Darebbe ragione a

Majorana ma richiede

temperature più basse

del punto più freddo

dell’universo e una

schermatura con piombo

antico ottenuto dalle

mattonelle di una nave

di epoca romana

affondata duemila

anni fa. In un’altra sala

si va invece a caccia

di materia oscura con

un rivelatore di xenon

liquido da sette tonnellate:

i primi risultati sono attesi

per questa primavera.

C A T E G O R I A

S C I E N Z A

P A R O L E C H I A V E

G R A N S A S S O , F I S I C A N U C L E A R E , M A J O R A N A

L U O G O

T R A L ’ A Q U I L A E T E R A M O

C O O R D I N A T E G P S

4 2 . 4 1 9 7 7 5 N , 1 3 . 5 1 6 8 7 4 E

D E N T R O L A M O N TA G N A D E I N E U T R I N I

©KAI FREUND/UNIVERSITY OF TÜBINGEN

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Ci accontentiamo semplicemente del meglio e creiamo i migliori prodotti editoriali. Per questo abbiamo Vanity Fair,

il settimanale leader in Italia, L’Uomo Vogue il mensile più autorevole e GQ il mensile maschile più letto. Per questo

siamo l’editore italiano più seguito sui social. Per questo ogni mese oltre 6 milioni di uomini scelgono i nostri siti.

Tradotto in una parola, Qualità. In due parole, Condé Nast.

#CONDENASTQUALITY

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Parigi

E U R O P A

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Coruño

Copenaghen

Werlte

Ginevra

Londra

Monaco di Baviera

Mosca

Bray

Mons

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9

1 0

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A

I

L I K E

LUOGO

PARIGI, FRANCIA

COORDINATE GPS

48.883527 N, 2.302269 E

FOTO DI

MATTIA BALSAMINI

TESTO DI

MAURIZIO PESCE

CAPITOLO 2

EUROPA

QUADRANTE MAPPA

G6

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5 7

5 6

IN UN ANONIMO UFFICIO

FACEBOOK STA INSEGNANDO

AI COMPUTER COME

PREVEDERE I BISOGNI

DEGLI UTENTI.

SIAMO ENTRATI PER PRIMI

E VI SVELIAMO I SEGRETI

DELL’INTELLIGENZA

ARTIFICIALE DESTINATA

A RIVOLUZIONARE

I SOCIAL NETWORK

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W I R E D / N. 2 / P R I M AV E R A 2 01 6

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C A P. 2 / E U R O PA

5 9

5 8

utti gli operatori sono occupati, attendere in linea per non perdere la priorità acqui-

sita. Lo sappiamo perfettamente com’è stare al telefono per minuti e minuti nell’at-

tesa di poter ascoltare una voce amica e accedere al servizio richiesto. Presto tutta

questa inutile perdita di tempo, energie e soldi sarà un lontano ricordo. Non appena

Facebook avrà finito la fase di sperimentazione di M, il suo nuovo assistente virtuale

integrato nella chat Messenger. A M si potrà chiedere aiuto per organizzare una cena

di compleanno, per trovare l’auto sotto casa o per prenotare un tavolo al ristorante. Immaginate di

chattare con un amico e di parlare di uno show musicale: durante la conversazione M sarà in grado di

chiedervi se volete acquistare un biglietto o di proporvi quali altri concerti ci sono nella stessa sera.

All’inizio gli assistenti virtuali avevano funzioni limitate, ed erano in grado di rispondere solo

a poche richieste precise: che tempo farà oggi? Quali sono le ultime notizie? Mostrami le indicazioni

stradali per tornare a casa. Tutto è cambiato quando hanno cominciato a comprendere il linguaggio

naturale, integrandosi ai servizi e offrendo assistenza anche per acquisti e prenotazioni. A fare la

differenza oggi è un tocco più “umano”, quell’abilità di utilizzare tutte le informazioni disponibili

per suggerire diverse soluzioni. Per rendere a portata di smartphone questo livello di complessità,

però, serviranno ancora anni di ricerca e sviluppo degli algoritmi dell’intelligenza artificiale. Una

ricerca già iniziata: decine di scienziati infatti sono in questo momento al lavoro dentro il Facebook

Artificial Intelligence Research (Fair).

entro, il Fair non è molto diverso da un ufficio qualsiasi: non ci sono ologrammi, robot

che si aggirano né gente che smanaccia comandi gestuali in aria o che indossa visori.

Solo scrivanie piene di computer che si susseguono negli open space. Il progetto che si

porta avanti qui è invisibile, concentrato sull’obiettivo di dare alle macchine l’abilità

di apprendere senza essere state esplicitamente programmate per farlo. Nessuno ha

un mandato per lavorare su un’area specifica: si studia il riconoscimento del linguag-

gio naturale, la comprensione e interpretazione di immagini e video e, in ultima battuta, l’apprendi-

mento automatico delle macchine. Si guarda al futuro a 10 anni da oggi, anche se capita spesso che gli

avanzamenti vengano testati e utilizzati nei prodotti strada facendo.

L’ufficio parigino di Facebook è piccolo, troppo piccolo per ospitare un laboratorio di ricerca

importante come quello dedicato all’intelligenza artificiale: a 9 mesi dalla sua inaugurazione, nel

giugno dell’anno scorso, ci lavorano già 15 persone provenienti da tutta Europa e altre sono attese

nei prossimi mesi. La sede locale del Fair è stata aperta lo scorso giugno per rispondere alla necessità

di allargare il team senza rinunciare a quei ricercatori che non volevano trasferirsi negli Stati Uniti,

a Menlo Park o New York. La scelta di Parigi è stata facile, dicono in Facebook, perché gli scienziati

francesi sono riconosciuti tra i migliori del mondo e perché qui è stato possibile fare un accordo con

l’Inria, l’Istituto Nazionale di Ricerca in Informatica e Automatica francese, che garantirà una serie

di opportunità a ricercatori e studenti coinvolti nel programma di Facebook. Dopo l’estate si uniran-

no al team altri ricercatori, compresi tre provenienti dalla Russia, dal Senegal e dall’Italia.

I risultati della ricerca condotta fin qui hanno già avuto impatto su Moments, l’applicazione di

Facebook per le foto: ora riconosce le facce degli amici nella galleria fotografica dello smartphone, in FL

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W I R E D / P R I M AV E R A 2 01 6

base alla geolocalizzazione le raccoglie in album dedicati a singoli eventi e permette di condividerle

automaticamente sul social network solo con i contatti presenti nella foto stessa. L’altro prodotto che

utilizza intelligenza artificiale, come abbiamo detto, è M: in questo caso, la chat è portata avanti dagli

algoritmi, assistiti da un team dedicato al dialogo che insegna a comprendere la conversazione, aiuta

a rispondere alle domande degli utenti e suggerisce come sviluppare ulteriormente il discorso in base

agli interessi manifestati dalle persone proprio su Facebook.

E poi, ovviamente, c’è la timeline: fin dal suo lancio del 2006, l’algoritmo è stato interamente

basato sull’intelligenza artificiale, per stabilire quali delle decine di aggiornamenti delle centinaia di

contatti mostrare di volta in volta. Per esempio, maggiore è il numero di interazioni con una persona,

maggiore è la probabilità di vedere un suo post nel News Feed, così come di vedere più foto o più video

se si dimostra interesse verso un particolare tipo di format. Il prossimo passo sarà spingere l’analisi

del contenuto fin dentro le immagini, per arrivare a raffinare le proposte anche in base al loro conte-

nuto. Non solo genericamente foto o video, ma foto e video di qualcosa in particolare: gatti, bambini,

sport, cibo o altro ancora. «La cosa che più mi colpisce è la velocità di sviluppo della ricerca sull’intel-

ligenza artificiale», dice Florent Perronnin, direttore del Fair di Parigi. «Non solo oggi siamo arrivati

a un punto impensabile solo pochi anni fa, ma ormai bastano appena due settimane da quando otte-

niamo un risultato per vederlo integrato nei prodotti».

n altro progetto che Facebook sta sviluppando si chiama “Embed the world” (includi

il mondo) e punta a migliorare al massimo i suggerimenti di amici da aggiungere o

contenuti da visualizzare a seconda delle interazioni con tutti i post passati in timeli-

ne: like, foto e video. È una sfida enorme che richiede tutta la potenza di calcolo dei tre

centri di ricerca per essere realizzata al meglio. Si basa contemporaneamente su rico-

noscimento testuale, logica computazionale e computer vision. Basti pensare che ogni

giorno vengono processati i dati di 800 milioni di nuove foto caricate sulla piattaforma e 2 miliardi di

video riprodotti dagli utenti di tutto il mondo.

L’obiettivo del social network è garantire la serendipità: non quindi usare l’intelligenza arti-

ficiale per segnalarti quello che già ti interessa, ma sfruttarla per predire e raccomandare qualcosa

che è probabile che ti piacerà nel futuro. «Uno dei progetti che stiamo sviluppando a New York punta

a modificare i suggerimenti che Facebook ti dà rispetto alle storie che leggi o condividi, proponendo

non altre fonti della stessa notizia, ma diversi punti di vista per approfondirla», racconta Perronnin.

I protocolli su cui si basano le raccomandazioni attuali sono basati sul cosiddetto reinforced

learning e sono solo la ciliegina sulla torta dell’intelligenza artificiale: gustosi, ma del tutto margina-

li. I ricercatori sono già al lavoro sulla glassa, che rappresenta il supervised learning, mentre la torta

vera e propria l’avremo quando le macchine saranno in grado di apprendere ed evolversi in perfetta

autonomia, anche se c’è più di qualche timore per un futuro governato dai computer. Secondo un son-

daggio realizzato lo scorso dicembre dall’Ifop, l’Istituto Francese per l’Opinione Pubblica, il 65% dei

cittadini è preoccupato dalla crescente autonomia delle macchine.

Calma. «Innanzitutto, siamo lontani diversi decenni dal costruire macchine davvero intelli-

genti: ci sono principi basilari dell’apprendimento autonomo che ancora non abbiamo capito. E poi

non abbiamo computer abbastanza potenti per la quantità di calcolo che andrebbe processata, quindi

U

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C A P. 2 / E U R O PA

6 1

6 0

dobbiamo comunque aspettare un miglioramento della tecnologia per poter proseguire», dice Yann

LeCun, da due anni alla guida del programma Fair. Informatico, ha pubblicato contribuiti su machine

learning, computer vision, robotica e neuroscienze computazionali, è docente alla New York Universi-

ty e da quest’anno anche al Collège de France. «Creare macchine intelligenti è troppo complicato per

gli ingegneri, quindi non possiamo far altro che programmarle per imparare e poi trovare il metodo

migliore per insegnare loro a studiare da sole», aggiunge.

L’apprendimento supervisionato è simile a quello che si tenta con i bambini piccoli quando si

fanno vedere immagini di cose o animali pronunciandone il nome. Le macchine sono come i bambi-

ni. Si mostrano loro migliaia di foto e si lascia che l’intelligenza artificiale sistemi i parametri fino

a produrre la risposta corretta. «Questa parte funziona molto bene ed è efficace per riconoscere e

organizzare immagini: su Facebook viene utilizzata per proporti il tipo di foto a cui hai mostrato più

interesse nel News Feed. È l’approccio che usano anche altre aziende, come Google, Flickr, Microsoft

e Ibm». L’algoritmo utilizzato è in giro da diversi anni: viene usato per il riconoscimento automatico

di oggetti, facce e loghi e per l’analisi di documenti. È la stessa tecnica su cui LeCun ha sviluppato un

modello di apprendimento grazie al quale oggi oltre l’80% degli assegni degli Stati Uniti sono proces-

sati automaticamente. Il problema è che per sfruttare questo metodo c’è bisogno di tanti dati, perché

la macchina imparerà solo quello che le mostri ed è quindi obbligatorio elaborare singolarmente tutte

le informazioni necessarie.

n altro tipo di apprendimento è quello rinforzato e assomiglia agli addestramenti degli

animali da circo, che vengono premiati quando rispondono a uno stimolo nel modo

corretto», spiega Perronnin. «In questo caso, le macchine sono costruite per massi-

mizzare la ricompensa e quindi tenteranno risposte diverse per capire quale sia la ri-

sposta più appropriata quando si dovesse ripetere quella situazione». Questo genere

di insegnamento è molto lento, richiede diversi tentativi e funziona bene con i giochi,

perché la macchina può avere un quadro completo di tutte le opzioni disponibili entro poche ore. Un

buon esempio è Deep Blue, il computer di Ibm che nel 1996 vinse la prima partita di scacchi contro il

campione del mondo in carica, Garry Kasparov. Qualche settimana fa, DeepMind è stata la prima mac-

china in grado di battere un campione a Go, antico gioco orientale simile agli scacchi. Per program-

marla, i risultati dell’apprendimento supervisionato sono stati raffinati con l’apprendimento rinfor-

zato, raggiungendo un livello insperato solo due anni fa, quando si era ipotizzato servissero ancora

una decina d’anni di ricerca per arrivare a una vittoria del computer contro un umano.

Poi c’è l’apprendimento non supervisionato, che è quello che fa più paura, perché suona come

se le macchine, senza controllo, potessero decidere di conquistare il mondo. «In realtà si tratta di un

metodo simile a quello con cui gli umani capiscono come funziona il mondo semplicemente osservan-

dolo», se la ride LeCun. «Ti basta guardare per sapere che un libro in bilico su una scrivania cadrà se

qualcuno urterà la scrivania. Non abbiamo ancora davvero capito come applicare questo ragionamen-

to alle macchine. Qui a Parigi stiamo provando con la programmazione neurolinguistica, che funzio-

na abbastanza bene: sottoponiamo pezzi di testo alle macchine e chiediamo cosa succederà dopo».

Ma questo metodo non funziona con i video.

Lo stato delle macchine, oggi, è come quello di un neonato che riconosce le immagini, ma ha

«U

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W I R E D / P R I M AV E R A 2 01 6

L’APPRENDIMENTO DELLE

MACCHINE OGGI È COME

QUELLO DI UN NEONATO:

SE UN OGGETTO ESCE

DAL CAMPO VISIVO,

SMETTE DI ESISTERE “G

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C A P. 2 / E U R O PA

6 3

62

un’esperienza limitata. Così come per i bambini quello che non vedono non esiste (ed ecco perché si

divertono tanto a fare “bubu settete”), anche i computer non sono in grado di considerare elementi

diversi da quelli del calcolo a cui stanno lavorando. «Dopo pochi mesi l’uomo è perfettamente in grado

di capire che, se una persona lascia la stanza, continua a esistere al di fuori di essa. Una macchina non

lo sa ancora». Se un computer analizzasse il video di un oggetto in movimento, nel momento in cui

passasse dietro un altro oggetto più grande verrebbe considerato assente anziché nascosto. Questa

analisi è importante anche per insegnare alle macchine la dimensione del tempo, anche se ancora

non è stato trovato un metodo adatto per farlo. «Al momento non sappiamo nemmeno come porre il

problema correttamente: potrebbero volerci anni, decenni», ammette LeCun.

ppure il timore di un’intelligenza artificiale cattiva è già reale, tanto che il fisico Ste-

phen Hawking, il co-fondatore di Apple Steve Wozniak e il boss di Tesla e SpaceX Elon

Musk si sono uniti a centinaia di altri esperti nel firmare una lettera aperta che chiede

lo sviluppo dell’intelligenza artificiale solo a fin di bene e di bandirne l’utilizzo bellico.

«Le macchine sono specializzate, sono costruite per uno scopo e miglioreranno da sole

solo per il compito per cui sono programmate: se è stata creata per guidare guiderà,

non avrà mai l’idea di ribellarsi e investire passanti», dice il capo del programma Fair. Ci vengono

in mente Person of Interest e la battaglia tra Samaritan e The Machine: è possibile un futuro in cui

due intelligenze artificiali combatteranno tra loro? «È possibile, come già oggi ci sono già macchine

che combattono contro altre macchine: hacking scripts e virus da una parte, crittografia e antivirus

dall’altra. Ma è comunque sempre l’uomo a manovrarle. Chiedersi se l’intelligenza artificiale avrà i

nostri stessi valori morali è una domanda filosofica: l’etica delle macchine è lontana ancora diversi

decenni, ma è qualcosa a cui dobbiamo cominciare a pensare oggi, così come ci siamo interrogati per

tempo sull’etica della biologia o sul dna».

E

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C A P. 2 / E U R O PA

6 5

6 4

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©ELCHINO POMARES

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C A P I T O L O 2

E U R O P A

Q U A D R A N T E M A P P A

E8

G A B R I E L E L I P P I

P A R O L E C H I A V E

E V E N T I , R I Q U A L I F I C A Z I O N I U R B A N E , S K A T E B O A R D

C A T E G O R I A

S P O R T

C O O R D I N A T E G P S

4 3 . 4 2 4 1 8 6 N , 5 . 8 3 3 3 9 6 O

L U O G O

C O R U Ñ O , S P A G N A

L O S K AT E P A R K I N C H I E S A

La chiamano la chiesa

maledetta, ma nessuno ci

ha mai visto o sentito un

demone. Sotto le sue volte

si aggirano solo

fuoriclasse dello

skateboard. Il fenomeno

più paranormale cui si

possa assistere è qualche

trick di difficile esecuzione.

A Coruño, vicino a Oviedo,

in Spagna, una chiesa

sconsacrata è diventata

skatepark. Sulle volte e sui

muri non ci sono affreschi,

ma graffiti dai colori

fluorescenti. L’abside non

ospita un altare, ma una

rampa, e piegarsi sulle

ginocchia non è un gesto

volontario di chi intende

pregare, ma il principio

di un dolore molto fisico

e poco spirituale.

Questa bizzarra

trasformazione

è solo l’ultimo atto

di una storia nata più

di cento anni fa.

Finita di costruire nel

1912, la chiesa doveva

essere inclusa nella

cittadella riservata agli

operai della fabbrica

di polvere da sparo Santa

Bárbara. Durante la Guerra

civile, ossia tra il 1936 e

il 1939, fu occupata dai

franchisti che piazzarono

un loro cecchino sulla torre

campanaria. E per questo

fu bombardata. Negli

anni Sessanta l’intero

villaggio fu acquistato

da una società privata,

che trasformò l’area in un

poligono industriale. Tutti

gli edifici precedenti furono

abbattuti, tranne la chiesa,

che fu però abbandonata al

suo destino. Fino al 2007,

quando fu comprata da

un’impresa familiare. L’idea

era farne una struttura

polivalente, con uffici

e negozi da affittare, ma

il sopraggiungere della

crisi fece finire in soffitta

il progetto. È stato a

quel punto che Jernest,

agente commerciale con

la passione dello skate, ha

avuto una brillante idea:

trasformare la struttura in

uno skatepark e fondare

la Church Brigade, la

crew di skateboarder

che ora si occupa della

gestione autofinanziandosi,

nell’attesa che qualche

grossa marca del settore

si accorga del potenziale

dello spazio e decida

di sponsorizzarlo.

Dal 2012 la chiesa ospita

eventi, feste, concerti,

piccole competizioni.

Partiti con una rampa,

e costantemente alle prese

con i controlli

di polizia e comune,

gli organizzatori sono

riusciti a trasformare

l’edificio in uno skatepark

sempre più attrezzato,

anche grazie alla

collaborazione di alcuni

sponsor. Ora la navata

centrale è occupata da

una grande rampa che

fa compagnia a quella

più piccola presente

nell’abside. E non è ancora

finita: perché l’idea è quella

di migliorare ulteriormente

le strutture. Chiunque può

entrare a curiosare

e fare un po’ di skate.

Basta cercare su Facebook

La Iglesia Skate e prendere

un appuntamento.

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C A P I T O L O 2

E U R O P A

P A R O L E C H I A V E

C A N C R O , N O R D A R C H I T E C T S , S A N I T À , V E R D E

F R A N C E S C O L I P A R I

C A T E G O R I A

A R C H I T E T T U R A

C O O R D I N A T E G P S

5 5 . 6 9 5 6 7 2 N , 1 2 . 5 6 1 2 5 7 E

L U O G O

C O P E N A G H E N , D A N I M A R C A

U N O S P E D A L E I N I N C O G N I T O

In che modo l’architettura

può influire positivamente

sulla degenza dei pazienti

di un ospedale? Come

trasformare un luogo di

sofferenza in uno spazio

che invogli le persone

a condividere esperienze?

Sono le domande da cui

sono partiti gli architetti

dello studio Nord

Architects progettando

il Centre for Cancer

and Health (Cch) di

Copenaghen.

Concepito sul modello

dei britannici Maggie’s

Centres, innovativi centri

di supporto per i malati

di tumore che tra le

loro strutture sanitarie

annoverano anche un

progetto di Zaha Hadid,

il Centre for Cancer and

Health pone al centro della

sua architettura la nuova

identità che il paziente

inevitabilmente acquisisce

a causa della malattia

che lo ha colpito. Il centro

danese riesce a dimostrare

come una efficace scelta

di materiali, spazi, colori

e profumi possa produrre

effetti positivi sulla

capacità del degente

di combattere la malattia

e avere così più possibilità

di sconfiggerla.

«Se vogliamo che i

pazienti stiano meglio,

è necessario che la

struttura sanitaria sia

accogliente e soprattutto

de-istituzionalizzata»,

sostengono i progettisti,

«che sia un luogo dove

stai meglio, diventi

consapevole della tua

condizione e, per quanto

possibile, ti diverti pure».

L’edificio ha una struttura

in calcestruzzo e legno

e facciate di metallo

bianco. È diviso in piccole

case indipendenti, dove

vivono i pazienti e i loro

famigliari, collegate fra loro

da un tetto che richiama

la tradizione giapponese

degli origami di carta.

«Spacchettando l’edificio

in unità più piccole

creiamo una struttura più

invitante. Volevamo che

l’effetto fosse quello di una

casa in cui ci si può sentire

a proprio agio», spiegano

gli architetti.

Secondo un dettame

tipico dell’architettura

scandinava, il centro

è concepito come

unione di due luoghi

apparentemente opposti:

l’ospedale e la casa.

La semplice combinazione

di funzioni e spazi, uniti

a un’altissima cura del

verde, permette a questo

complesso ospedaliero

di appena 2250 metri

quadrati di diventare

un’area altamente

confortevole e familiare,

che concede la giusta

riservatezza, grazie alla

suddivisione in casette con

balconi separate, ma

facilita la socializzazione,

in virtù del cortile e delle

sale comuni. Una grande

cucina è stata pensata

per imparare a preparare

insieme cibi sani, mentre

alcune aree sono state

riservate a coloro che non

vogliono rinunciare a un

po’ di sport e all’orticoltura.

Una caffetteria permette

di non isolare i pazienti dal

resto della città.

Anzi: gli incontri con

gli psicologi sono aperti

a tutta la cittadinanza.

Anche gli interni,

in cui si trovano mobili

contemporanei, opere

d’arte e tanta vegetazione,

sono stati oggetto di cure

particolari da parte

dei progettisti.

«All’interno del Centre

for Cancer and Health

di Copenaghen, il paziente

è il baricentro di un

insieme di spazi concepiti

attorno a lui», ribadiscono

gli architetti.

Insomma, se è vero

che avere un giardino

terapeutico fa comodo

a tutti, pare proprio che

sia ancora meglio se di

terapeutico c’è l’intera

architettura.

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C A P I T O L O 2

E U R O P A

Q U A D R A N T E M A P P A

H5

Q U A D R A N T E M A P P A

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P A R O L E C H I A V E

A U T O E L E T T R I C H E , E C O L O G I A , G A S

C A T E G O R I A

E N E R G I A

I L C O M B U S T I B I L E D E L F U T U R O

C O O R D I N A T E G P S

5 2 . 8 5 6 1 0 0 N , 7 . 6 9 3 9 0 0 E

L U O G O

W E R L T E , G E R M A N I A

M I C H E L E P R I M I

In un paese della Bassa

Sassonia si sta realizzando

il combustibile del futuro.

È la rivoluzione energetica

portata avanti da Audi

nello stabilimento di Werlte

ed è basata su un processo

che, mettendo insieme

acqua, diossido di carbonio

ed energia elettrica “verde”

proveniente da fonti

rinnovabili (in questo caso

le pale eoliche), produce

un composto di idrogeno

e metano sintetico

chiamato e-tron. Così la

casa automobilistica da

consumatrice diventa

produttrice di energia,

inventando un sistema

chiamato Power-to-Gas:

ogni impianto industriale

è in grado di scomporre

l’acqua tramite elettrolisi

e produrre idrogeno che

potrebbe alimentare

le future autovetture

ecologiche. A Werlte

si fa anche un processo

chiamato “metanazione”,

ovvero la reazione

dell’idrogeno con l’anidride

carbonica per creare

un metano sintetico che

funzioni sulle automobili

a gas. Non solo, il calore

residuo sviluppato durante

il processo viene usato

per alimentare l’impianto

di biogas che fornisce

l’anidride carbonica.

Un circolo produttivo in

cui non si butta via niente

e che non si ferma mai.

©ADAM MØRK

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C A P I T O L O 2

E U R O P A

Q U A D R A N T E M A P P A

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P A R O L E C H I A V E

B O S O N E , F I S I C A , F A B I O L A G I A N O T T I

G I A N L U C A D O T T I

L A M A C C H I N A D E L C E R N

C O O R D I N A T E G P S

4 6 . 2 3 4 9 8 8 N , 6 . 0 5 6 3 6 9 E

L U O G O

G I N E V R A , S V I Z Z E R A

C A T E G O R I A

S C I E N Z A

A guidare il Cern di

Ginevra, dall’inizio

dell’anno, è una donna

italiana. Il testimone

di direttore generale è

passato a Fabiola Gianotti

dopo 14 mesi dalla

nomina formale e, per

la terza volta, a capo del

laboratorio internazionale

di fisica delle particelle c’è

uno scienziato del nostro

paese: prima di lei avevano

già ricoperto lo stesso

ruolo il premio Nobel Carlo

Rubbia e Luciano Maiani.

Poco dopo lo storico

annuncio della scoperta del

bosone di Higgs, arrivata

nel luglio del 2012, il Cern

ha sospeso per due anni

le collisioni ad altissima

energia, per affrontare un

ulteriore potenziamento

dell’acceleratore Large

Hadron Collider (Lhc).

E ne ha approfittato per

battere qualche record,

come quello del campo

magnetico più intenso

mai creato dall’uomo,

di 16,2 tesla. L’energia

a cui ciascun protone viene

accelerato lungo l’anello

di 27 chilometri è

passata dai vecchi 3,5

Teraelettronvolt agli

attuali 6,5: ciò significa

che ora è possibile far

scontrare fasci a 13 TeV

e quindi andare a caccia

di particelle ancora

più pesanti. L’attesa

riaccensione di Lhc

è arrivata nell’aprile 2015

dopo qualche piccolo

intoppo ai supermagneti

che devono curvare i fasci

di particelle. Questa volta,

però, non si tratta di un

risveglio qualunque: il Cern

ora è come una nave che

salpa senza nemmeno

saperequale sarà la sua

rotta. Qualche risultato

è già arrivato: la scoperta

di una particella esotica

mai individuata prima e

composta di cinque quark.

Ma c’è grande attesa

per gli esperimenti che

ripartono a marzo, dopo

il tradizionale letargo

invernale. I quasi 15mila

scienziati al lavoro si

aspettano di fare ulteriore

luce sul meccanismo di

Higgs, ma anche di svelare

alcuni grandi misteri della

fisica moderna: la vera

natura della materia oscura

che, seppur così sfuggente,

rappresenterebbe il 90%

della massa dell’universo,

e dell’energia oscura,

l’origine di quella

forza di repulsione

che giustificherebbe

l’espansione sempre più

rapida del cosmo.

Si tratta insomma di

indagare quelle aree

grigie della fisica che

il modello standard non

riesce ancora a spiegare,

come l’antimateria,

o quelle teorie alternative

come la supersimmetria,

secondo cui a ogni

particella conosciuta

corrisponderebbe una

particella partner, che però

nessuno ha mai visto.

Non sappiamo quali

sorprese ci riserverà il

nuovo Lhc, ma basterebbe

una sola risposta per

giustificare l’investimento

di quasi un miliardo

di euro all’anno e per

dare lavoro alle nuove

generazioni di fisici.

©MICHAEL HOCH/CERN

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C A P I T O L O 2

E U R O P A

Q U A D R A N T E M A P P A

F5

P A R O L E C H I A V E

N A V E , S A L A D I R E G I S T R A Z I O N E

N I C H O L A S D A V I D A L T E A

C A T E G O R I A

M U S I C A

Q U A N D O L O S T U D I O È I N B A R C A

C O O R D I N A T E G P S

5 1 . 5 0 8 4 5 3 N , 0 . 0 0 9 1 5 1 O

L U O G O

L O N D R A , R E G N O U N I T O

Ben Phillips, ingegnere

londinese, non riusciva a

trovare uno spazio adatto

per creare il suo studio di

registrazione. Gli serviva

un edificio diverso, in forte

contrasto con ciò che

già esisteva. L’aveva

cercato per quattro

anni, senza successo.

Mettici la difficoltà

di trovare ampi spazi

a Londra a prezzi umani,

le infinite limitazioni

imposte da progettisti

e autorità e tutto era

ancora più difficile.

Sarebbe potuto sorgere

in una vecchia sede di una

casa d’aste, in un obitorio

del diciannovesimo secolo

o in una chiesa. Nulla di

tutto questo. Il colpo di

fulmine avvenne, nel 2006,

per una rossa avvenente

di 550 tonnellate, che se

ne stava lì, attraccata e

inutilizzata sulle rive del

fiume Medway, nel Kent.

Si chiamava Lightship95

ed era una nave-faro

d’acciaio rivettato del 1939,

resistente a qualunque

condizione atmosferica.

Gli ampi spazi erano quelli

di cui Ben necessitava.

I lavori per la conversione

sono durati quasi due

anni e sono stati eseguiti

principalmente mentre

la nave era attraccata

sul Medway. Uno dei

primi provvedimenti

è stato rimuovere oltre

20 tonnellate di ferro

che avrebbero reso la

progettazione degli spazi

difficoltosa. Quella che

è diventata la control room,

ossia la regia dello studio,

ampia 28 metri quadrati

e dotata di luce naturale,

era in precedenza un

serbatoio con fondo piatto

che ospitava passerelle,

tubazioni e il motore

che comandava l’argano

idraulico. Dove una volta

c’era la sala macchine,

sorge ora la sala per la

registrazione, grande

più di 46 metri quadrati,

con camere di riverbero

e una cabina di isolamento.

Il pavimento è fluttuante,

le pareti sono sostenute

tutto intorno da supporti

in neoprene che si

uniscono alle costole

della nave, con

risultati eccellenti per

l’abbattimento delle

vibrazioni sia meccaniche

sia di risonanza.

Il ponte superiore

è destinato alle aree

ricreative, relax e cucina,

oltre ad avere uno

spazio all’aperto

sul ponte esterno.

C’è la possibilità di salire

sul faro e ammirare

la splendida visuale

portuale circostante

sul Tamigi, oppure,

tramite un ponte levatoio,

scendere sulla terraferma

e visitare l’area di Trinity

Buoy Wharf, zona dell’ex

stabilimento Trinity House

nel borgo Tower Hamlets

(East London), dove

il canale Bow Creek si tuffa

nel Tamigi. Senza questo

intervento ingegneristico,

la Lightship95 sarebbe

diventata una delle tante

navi-museo. Invece,

adesso, è uno degli studi

di registrazione più

richiesti di Londra.

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Q U A D R A N T E M A P P A

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C A P I T O L O 2

E U R O P A

P A R O L E C H I A V E

A I , I B M , S U P E R C O M P U T E R

M I C H E L E P R I M I

C A T E G O R I A

H I - T E C H

C O O R D I N A T E G P S

4 8 . 1 3 5 1 2 5 N , 1 1 . 5 8 1 9 8 1 E

L A C A S A D I W AT S O N

L U O G O

M O N A C O D I B A V I E R A , G E R M A N I A

Le chiamano le HighLight

Towers, sono due torri

gemelle di 32 e 27 piani

e, dal dicembre scorso,

ospitano la nuova casa del

supercervellone Watson.

Lì dentro mille persone,

fra ricercatori, sviluppatori

e designer, aiutano

il computer a diventare

sempre più potente,

portando avanti diversi

progetti di Internet

delle cose di Ibm.

La promessa è stupire

ancora, dopo aver lasciato

tutti a bocca aperta cinque

anni fa, quando Watson

partecipò al quiz

televisivo Jeopardy.

Usando 200 milioni

di pagine di informazioni,

3mila chip, 16 terabyte

di memoria

e 6 milioni di regole

logiche, il computer

sconfisse gli umani in gara.

Era la sfida definitiva dopo

la vittoria del computer

Deep Blue sul campione

di scacchi Garry Kasparov

nel 1997. Le implicazioni

filosofiche sono molteplici:

in molti si sono chiesti se

Watson sia effettivamente

in grado di pensare o solo

di manipolare dei simboli

senza comprenderne

il significato. Ma al di

là di questo, l’obiettivo

principale del progetto

resta quello di avere

un computer in grado

di interagire con gli

umani e fornire risposte

in un linguaggio a loro

comprensibile. Per poi

agire in modo significativo

in tutti i settori in cui

è necessario gestire

grandi quantità di dati:

il cervellone è stato testato

nelle telecomunicazioni,

nei servizi finanziari e nella

sanità. Per questo il passo

successivo non poteva che

essere l’Internet delle cose.

Dopo la vittoria a Jeopardy,

Watson è rimasto in

silenzio per tre anni,

durante i quali ha imparato

il giapponese, l’arabo,

lo spagnolo e il portoghese

(a breve si butterà anche

sull’italiano) e ad applicare

i suoi algoritmi a 17 settori,

dalle automobili alle

assicurazioni, ai beni

di consumo elettronici.

Il quartier generale

di Monaco di Baviera

funziona come

un acceleratore

dell’intelligenza artificiale,

con lo scopo di stare dietro

attraverso il suo “sistema

cognitivo” e le sue 28

nuove Api (interfacce di

programmazione) ai dati

prodotti dalla tecnologia

e alla trasformazione della

società moderna

in un insieme sterminato

di codici software: 100

milioni per un’automobile,

14 milioni per un Boeing

747, 4,7 milioni per un

semplice lettore dvd.

In pratica Watson non

vuole solo generare

risposte a problemi

numerici, ma vuole

interagire, ragionare

su ipotesi e opzioni ed

estrarre conoscenza dal

mare dei dati (che presto

arriveranno per il 90%

dall’Internet delle cose).

Ma soprattutto vuole

continuare a imparare.

Page 77: Wired_Marzo 2016.pdf

C A P I T O L O 2

E U R O P A

Q U A D R A N T E M A P P A

N4

P A R O L E C H I A V E

E V E N T I , R E M K O O L H A A S , S T R E L K A , S P A Z I C O M U N I

D A N I E L E B E L L E R I

Le città europee si fondano

su un’idea precisa: quella

di bene comune.

Ma nella Mosca

post-sovietica, reduce

da oltre mezzo secolo

di lavaggio del cervello

sui valori collettivi,

quel concetto era dato

per morto.

Così negli anni Novanta

e Duemila, la capitale russa

si era presa la sbornia

opposta, trasformandosi

in uno spaventoso

monumento all’egoismo

e alla ferocia urbana.

Le strade gigantesche

del comunismo si erano

riempite di aggressivi

fuoristrada dai vetri

oscurati, di commercio

abusivo e di crimine

e corruzione a ogni livello.

L’istituto Strelka è

arrivato nel 2009 con

l’obiettivo di riconsegnare

la capitale russa a una

nuova dimensione di

vivibilità, condivisione dello

spazio pubblico e spirito

cosmopolita. La definizione

ufficiale è quella di istituto

di ricerca multidisciplinare,

ospitato in un’ex fabbrica

di cioccolato su un’isola

fluviale nel cuore della

metropoli. Ma per

i moscoviti il nome Strelka

evoca soprattutto uno

spazio di straordinario

successo, culturale

e mondano. Sin dalla

sua apertura, Strelka ha

organizzato centinaia

di conferenze e incontri,

gratis e senza selezione

all’ingresso (scelte

rivoluzionarie, al tempo),

da cui è transitato il gotha

del mondo del progetto.

In parallelo, il bar

dell’istituto è diventato

uno dei locali più alla

moda, anche grazie al suo

spettacolare affaccio sulla

Moscova, che quando

non è trasformata in una

distesa di ghiaccio è

attraversata da assurde

navi-discoteche.

L’attività didattica, gestita

per qualche anno dallo

studio d’architettura Oma

di Rem Koolhaas e oggi

centrata su un programma

che indaga i legami

tra tecnologie digitali

e condizione urbana,

consiste di un master

annuale in inglese, con una

quarantina di studenti che

arrivano da tutto il mondo.

Architetti e designer

lavorano insieme

a programmatori,

giornalisti, sociologi, artisti,

geografi, economisti.

A sette anni dalla sua

nascita, si può dire che

Strelka sia riuscito nel suo

obiettivo di cambiare

il panorama fisico

e culturale delle città

russe? Per quanto la

nazione abbia preso, dal

2013 in poi, una direzione

politica conservatrice,

Mosca svela oggi un’anima

più accogliente che mai.

I casi di successo ci sono:

il parco Gorky, il museo

Garage, fino al futuro

parco Zaryadye dietro

al Cremlino. Sotto questi

e molti altri esempi (come

lo straordinario padiglione

Fair Enough alla Biennale

di Venezia del 2014)

c’è lo zampino, diretto

o indiretto, di Strelka.

La prossima avventura

è ancora più ambiziosa:

questa volta il focus si

allarga alle metropoli

instabili dei paesi in via

di sviluppo, includendo

anche Cina, Sudafrica,

India. Contesti lontani tra

loro ma pure con qualcosa

in comune: un dinamismo

che rende la vita in quei

luoghi allo stesso tempo

frenetica, difficile

e avventurosa.

C A T E G O R I A

S O C I E T À

L U O G O

M O S C A , R U S S I A

C O O R D I N A T E G P S

5 5 . 7 4 2 5 2 3 N , 3 7 . 6 0 9 1 1 6 E

L E Z I O N I D I A C C O G L I E N Z A

Page 78: Wired_Marzo 2016.pdf

C A P I T O L O 2

E U R O P A

Q U A D R A N T E M A P P A

F5

P A R O L E C H I A V E

AZOTO, CUCINA MOLECOLARE, THE FAT DUCK

F I L I P P O P I V A

C O O R D I N A T E G P S

5 1 . 5 0 7 8 1 5 N , 0 . 7 0 1 8 0 7 O

A C E N A C O N L A M U S I C A

C A T E G O R I A

F O O D

L U O G O

B R A Y , R E G N O U N I T O

Gli ospiti del ristorante

The Fat Duck lo sanno

bene: nel locale di Bray,

a una cinquantina di

chilometri da Londra,

non si prenota soltanto

una cena, ma un viaggio

stravagante, fatto di piatti

accompagnati da auricolari

per la musica, caramelle

frizzanti, azoto liquido e

gelato con crostacei.

Dietro a un menù

composto da alcuni dei

piatti più divertenti che

il mondo culinario abbia

mai visto, c’è la mente

creativa di Heston

Blumenthal, riconosciuto

a livello internazionale

come uno dei principali

esponenti della cucina

molecolare. Nato nel

1966 nella contea del

Buckinghamshire,

Blumenthal arriva fino

alla terza stella Michelin

partendo da autodidatta:

un percorso lungo e

tortuoso, il suo, fatto

di lavoretti saltuari tra

i quali incastrare lezioni

di gastronomia e tentativi

ai fornelli. Poi l’incontro

con il libro che gli cambia

la vita, Il cibo e la cucina.

Scienza e cultura degli

alimenti di Harold McGee,

e l’apertura del suo locale

nel 1995. La location?

Un pub fatiscente che

lo chef rimette a nuovo

e ribattezza The Fat Duck,

l’anatra grassa. Il bistrot

inizia da subito a proporre

piatti sofisticati che

sembrano voler giocare

con la fisica e la tecnologia,

tutti improntati alla

multisensorialità.

La prima portata

a suscitare lo scalpore

della critica è un gelato

al granchio, servito con

un risotto ai crostacei.

Il responso dubbioso dei

clienti si trasforma in

ovazione, quando lo chef

decide di mettere in pratica

un piccolo trucchetto:

cambiare il nome alla

pietanza. Così il gelato

si trasforma sulla carta

in una bisque (brodo)

e conquista anche i palati

più difficili: un esempio

dello stretto legame

tra sensi e psicologia

che Blumenthal ha

ampiamente esplorato

durante la sua carriera.

Qualche anno più tardi,

nel 2004, lo chef crea

la Delizia di Cioccolato,

includendo nel dolce

minuscole caramelle

frizzanti e fornendo

a ogni cliente una coppia

di auricolari. Obiettivo:

far sentire a ogni boccone

il suono amplificato delle

piccole esplosioni di gusto

nella bocca.

Il rapporto tra sapori

e udito ritorna anche

in una delle sue creazioni

più celebri, il piatto Sound

of the Sea: tre pezzi di

sashimi serviti su un letto

di sabbia fatta con tapioca

e anguille fritte, ricoperti

di schiuma preparata con

brodo di alghe. Il tutto,

ovviamente, si gusta

mentre si ascoltano

i rumori del mare, le onde

che si infrangono contro

gli scogli e i gabbiani che

stridono in lontananza.

Dopo un trasferimento

temporaneo a Melbourne,

causa ristrutturazione

necessaria, The Fat Duck

riapre i battenti a Bray

alla fine dello scorso

anno, con una proposta

totalmente rinnovata.

Il menù si trasforma

quasi in un itinerario:

ogni piatto diventa un

appuntamento, una tappa

enogastronomica alla

scoperta del Paese delle

Meraviglie dei sapori.

A partire da un cocktail

in camicia, trasformato

in meringa ghiacciata con

l’ausilio dell’azoto liquido.

Page 79: Wired_Marzo 2016.pdf

C A P I T O L O 2

E U R O P A

Q U A D R A N T E M A P P A

G6

V A L E R I O M I L L E F O G L I E

C A T E G O R I A

S O C I E T À

P A R O L E C H I A V E

A R C H I V I O , F O T O , L I B R I , W E B A N A L O G I C O

G O O G L E D I C A R TA

C O O R D I N A T E G P S

5 0 . 4 5 7 1 8 2 N , 3 . 9 5 6 7 1 5 E

L U O G O

M O N S , B E L G I O

Nel 1934 un biografo

belga di nome Paul Otlet

pubblica il Trattato di

documentazione.

La sua idea è questa:

ogni cosa creata dall’uomo

può essere archiviata

in appositi schedari.

Con Henri La Fontaine,

premio Nobel per la

pace nel 1913, immagina

un’immensa città archivio,

la Città Mondiale.

Già dal 1918, i due studiosi

raccolgono documenti

di ogni tipo e creano

12 milioni di schede,

classificate secondo uno

specifico sistema inventato

da Otlet. Questa mole

fisica d’informazioni trova

una prima sistemazione

a Bruxelles, in quello

che chiamano il Palazzo

Mondiale. Le foto

dell’epoca mostrano

ambienti in bianco e nero,

lunghi corridoi e sale in

cui altissimi schedari di

legno, austeri e imponenti,

raggiungono il soffitto,

togliendo la vista a ogni

finestra. In ogni scomparto

sono custoditi e classificati

scampoli di umanità:

siamo davanti al Repertorio

Bibliografico Universale.

Il Palazzo Mondiale viene

smantellato durante

l’occupazione tedesca

agli inizi degli anni

Quaranta per far posto

a un’esposizione sull’arte

del terzo Reich. Quello che

rimane oggi di ciò che è

stato ribattezzato il Google

de papier si trova a Mons,

a circa settanta chilometri

da Bruxelles, e prende

il nome di Mundaneum.

Un museo dove si può

trascorrere un’intera

giornata navigando sul

web analogico: mettendo

in fila tutti i documenti

si camminerebbe per

sei chilometri. Tre i temi

dominanti: pacifismo,

anarchia e femminismo.

Si potrebbe entrare la

mattina e cominciare

leggendo la posta, magari

la lettera della moglie

di Otlet all’architetto

Le Corbusier, che era

rimasto folgorato dal

progetto di archiviazione.

Poi si potrebbe continuare

guardando le foto della

riunione dell’esecutivo

del Consiglio

internazionale delle

donne nel 1913. Più tardi

si potrebbero leggere

i documenti del Congresso

universale della Pace di

Ginevra, concludendo

la visita sfogliando le

foto profilo di donne

americane del 1902.

Insomma, trovereste la

memoria di un bel pezzo

di umanità, archiviata

secondo la volontà dello

studioso belga. Paul Otlet

muore, sconosciuto ai

più, nel 1944. In una foto

dell’ultimo periodo di vita

è ritratto con le braccia

conserte in maniera

impacciata, la barba

lunga bianca, un paio

di occhialini tondi che

lo fanno lontanamente

somigliare a Freud.

L’epitaffio sulla sua lapide

recita: “Non sarebbe stato

nulla senza il Mundaneum”.

©MUNDANEUM-FÉDÉRATION WALLONIE/BRUXELLES

Page 80: Wired_Marzo 2016.pdf

C O N N E C T E D W E L L N E S S : L A R I V O L U Z I O N E D I T E C H N O G Y M

-

Technogym App

Per vivere

un’esperienza di

wellness on the

go: tiene traccia

del movimento

giornaliero,

organizza gli

obiettivi, offre

programmi

personalizzati

e integra

l’allenamento in

palestra con quello

outdoor.

MyWellness

La prima

piattaforma

cloud aperta

del settore, che

mette in contatto

operatori e clienti.

Aiuta a preparare

l’allenamento,

monitora i progressi

e permette di

creare schede

personalizzate.

Unity

L’interfaccia

interattiva più

avanzata sul

mercato.

Il touchscreen

consente di

modificare e

organizzare in

maniera intuitiva

il programma

di allenamento,

unendo

motivazione e

divertimento.

MyRun

Il tapis roulant

interattivo

che migliora

la corsa, fornendo

continui feedback

all’utente.

Si integra con

il tablet e

seleziona le

migliori canzoni

dalla playlist in

base al ritmo

della corsa.

Il wellness ci accompagna in ogni momento della nostra vita, grazie all’ecosistema per il lifestyle management di Technogym, che sa

sfruttare al meglio l’innovazione tecnologica. L’azienda offre da sempre la più ampia gamma di attrezzi professionali per l’allenamento

in palestra, ma anche una serie di soluzioni di design per tenersi in forma a casa. Ora, grazie alla Technogym App e alla piattaforma cloud,

possiamo coordinare le nostre attività in qualsiasi istante della giornata e in ogni luogo: l’app permette di pianificare e gestire anche

l’allenamento outdoor, grazie al GPS e all’accelerometro dello smartphone. Inoltre ci segue in viaggio o al lavoro, fornendo consigli,

programmi e contenuti per l’esercizio, lo sport, l’alimentazione e la salute. Una vera e propria agenda del wellness, utile anche

quando andiamo dal medico, che può facilmente valutare il nostro stile vita.

Page 81: Wired_Marzo 2016.pdf

T E C H N O G Y M V I L L A G E :I L C U O R E D E L L’ I N N O V A Z I O N E

-

La sede di un’azienda spesso ci racconta molto della filosofia e della mission di un brand.

Il Technogym Village è l’incarnazione del “Connected Wellness”, il luogo dove le idee più innovative

prendono vita e un punto di riferimento globale per il settore.

Ecco un breve tour alla scoperta del quartier generale di Technogym.

P E R T E C H N O G Y M

T-Wellness CentreTM

Un laboratorio progettato per testare prodotti e programmi e per formare esperti

nel campo del wellness.

T-Wellness Store & Showroom

Uno spazio in cui scoprire e provare i

prodotti Technogym, con la possibilità di

avere una consulenza professionale su

misura.

T-Wellness Science Centre

In questa struttura i più recenti

risultati scientifici si trasformano in

soluzioni concrete per il wellness.

T-Research & Development

In quest’area l’innovazione non si

ferma mai: Technogym cerca sempre di superare i limiti

attuali del design e dell’ergonomia dei

prodotti.

Technogym University

Offre corsi di formazione online e

offline, con l’obiettivo di condividere idee, progetti e scoperte

scientifiche.

T-Factory

Tutti i processi produttivi sono

concentrati qui per ottimizzare costi,

efficienza energetica, qualità e affidabilità

dei prodotti.

T-Wellness Garden

Un’area all’aperto dedicata ai

collaboratori, che possono praticare

i loro sport e le loro attività fisiche

preferite.

Ristorante T-Wellness

Offre un menù a base di prodotti locali,

dando importanza alla relazione tra attività

fisica e alimentazione.

www.technogym.com

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Deserto del Mojave

A M E R I C A

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Key Largo

Foresta Amazzonica

North Las Vegas

Rio de Janeiro

Arizona

Palo Alto

New York

Boston

Toronto

Mauna Loa

Altos de Cazucá

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R I F L E S S I S O L A R I

L U O G O

D E S E R T O D E L M O J AV E, U S A

C O O R D I N A T E G P S

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F O T O D I

J A M E Y S T I L L I N G S

P A R O L E C H I A V E

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A M E R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

G 2

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Mai visto nulla di simile. La centrale termica a concentrazione solare

più grande del mondo − l’Ivanpah Solar Electric Generating System −

è a 65 chilometri da Las Vegas, nell’area più rovente del deserto del

Mojave. Occupa 14 km quadrati, è composta da 173.500 eliostati con

347mila specchi che seguono il Sole e ne riflettono i raggi su tre enormi

caldaie poste in cima ad altrettante torri alte 140 metri. Produce qua-

si 400 megawatt di energia (cioè soddisfa i bisogni di 140mila case) e

risparmia alla Terra 400mila tonnellate di anidride carbonica. Di pro-

prietà di BrightSource, Bechtel e Google, è costata circa 2,2 miliardi di

dollari. Il fotografo americano Jamey Stillings le ha dedicato due pro-

getti, Evolution of Ivanpah Solar I e II, in cui documenta la costruzione

e lo sviluppo della centrale dal 2010 a oggi.

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LUOGO

KEY LARGO, FLORIDA, USA

COORDINATE GPS

24.950118 N, 80.453422 O

CAPITOLO 3

AMERICA

QUADRANTE MAPPA

K3

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RACCOLTO DA

ANDREA GENTILE

FOTO PER GENTILE CONCESSIONE DI

NASA

TESTO DI

LUCA PARMITANO

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AL LARGO DELLA FLORIDA

C’È UN LABORATORIO

DI RICERCA ANCORATO

AL FONDALE MARINO.

PER 14 GIORNI È

DIVENTATO LA PALESTRA

DELL’ASTRONAUTA

DELL’AGENZIA SPAZIALE

EUROPEA LUCA PARMITANO

E DEI SUOI COLLEGHI.

OBIETTIVO: PREPARARSI

A UN FUTURO STELLARE

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L’A C Q U A R I O S P A Z I A L E

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W I R E D / P R I M AV E R A 2 01 6

quasi dieci chilometri dalla costa di Key Largo, in Florida, quattro acquanauti pron-

ti all’immersione galleggiano vicino alla barca di supporto dentro alle mute bianche.

Insieme a me, ci sono altri due astronauti, Serena Auñón dell’Agenzia spaziale sta-

tunitense e Norishige Kanai di quella giapponese. Ad accompagnarci nell’avventura

anche un ingegnere, David Coan, esperto di attività extraveicolare (Eva) per la Nasa.

Attendono il mio segnale per scendere in profondità. Faccio loro un cenno e mi immer-

go, fermandomi dopo qualche metro, per controllare che tutti stiano procedendo senza difficoltà. La

visibilità non è ottima ma riesco a intuire il laboratorio sottomarino, un’informe massa giallastra.

Ecco come è cominciata, il 20 luglio 2015, la ventesima missione del programma Nasa Extreme Envi-

ronment Mission Operations, più conosciuta come Neemo 20.

È un ambiente che la Nasa conosce bene: da oltre 15 anni gli astronauti si immergono nelle ac-

que a largo delle isole Keys per testare nuove apparecchiature ideate per lo spazio, simulare ambienti

estremi e addestrarsi in condizione di assenza di peso. Per 14 giorni l’Aquarius Reef Base, un labora-

torio di ricerca gestito dalla Florida International University e ancorato sul fondale marino a dician-

nove metri di profondità, è diventato la nostra casa. L’Aquarius è un grande cilindro di tre metri di

diametro, lungo 14 metri e diviso in più compartimenti. L’entrata all’habitat avviene dal wet porch,

un compartimento pressurizzato che non fa parte della struttura ma è un cubo bullonato al cilindro

principale, una specie di camera stagna che funziona da ingresso e uscita. Lì ci sono i nostri caschi e

le mute, l’equivalente delle tute spaziali, da indossare prima di immergerci attraversando l’apertura

posta sul pavimento. Il wet porch non è ventilato e la sua temperatura dipende da quella dell’Oceano:

a luglio fa un caldo tropicale e l’umidità sfiora il 100%.

Da lì si passa all’entry lock, la prima sezione del cilindro principale della base, dove per for-

tuna abbiamo ventilazione e aria condizionata. Le pareti curve e gli oblò spessissimi ci ricordano

all’istante dove ci troviamo: a diversi metri di profondità. È qui che hanno installato la stazione di

comunicazione radio e i computer per tenerci in contatto con la superficie, oltre al necessario per

fare esperimenti e controllare il funzionamento della base. Superata una porta a tenuta stagna, ecco

invece il main dock, il cuore dell’Aquarius: ci sono un tavolo, diventato subito il punto di raccolta

dell’equipaggio, un lavello con l’acqua calda per preparare il cibo liofilizzato, la cambusa, un frigo. E

un enorme, ipnotico oblò che si apre sul mondo sottomarino. Attraverso una tenda si passa nell’ulti-

mo compartimento, la sleep zone, che contiene sei minuscoli letti. Grandi (o piuttosto piccoli) come

quelli del vagone letto di un vecchio treno notturno.

La struttura della base Aquarius ricorda molto le stazioni spaziali russe degli anni Settanta

e Ottanta, come la Salyut o i primi componenti della Mir. In effetti sono molti gli aspetti della vita

sottomarina che fanno pensare a quella in orbita, tanto che la Stazione spaziale internazionale (Iss)

e l’Aquarius Reef Base vengono considerati “analoghi” dalla Nasa: tra loro sono molto diversi, ma le

somiglianze consentono di migliorare l’addestramento degli astronauti come me. Per questo motivo

andiamo sott’acqua con le spedizioni Neemo.

La tipica giornata nella base Aquarius comincia con un primo contatto remoto: in realtà, noi

non parliamo direttamente con i nostri controllori che stanno all’asciutto, ma simuliamo di essere

a venti minuti di distanza radio dal centro di controllo. È come se noi acquanauti fossimo su Marte,

e il controllo fosse invece qui, sulla Terra. Nei messaggi registrati ci vengono descritti i compiti di

giornata e le eventuali variazioni al programma. Dopo la colazione, comincia la fase di lavoro vero

e proprio: due membri dell’equipaggio si preparano alle escursioni sottomarine esterne alla base

A

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C A P. 3 / A M E R IC A

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L

(Eva), mentre gli altri due hanno un ruolo di supporto, leggono le procedure agli acquanauti in im-

mersione, gestiscono le comunicazioni con il Mission Control Center e pilotano il minisottomarino.

Oppure svolgono una serie di esperimenti all’interno della base. Le Eva ci impegnano fino al primo

pomeriggio; tra vestizione e svestizione occupano un totale di circa sei ore. Il resto della giornata è

dedicato al debriefing: parliamo dell’esecuzione dei vari compiti, commentiamo l’efficacia degli stru-

menti su cui abbiamo lavorato all’esterno e ci prepariamo alla giornata successiva e a una nuova at-

tività extraveicolare.

a più grande differenza tra il lavoro in orbita e quello nell’Aquarius riguarda il peso: a

bordo della Iss gli astronauti sono liberi dagli effetti gravitazionali, dentro e fuori dal-

la stazione. Stare in assenza di peso significa aggiungere una dimensione al normale

modo di vivere e cambiare la nostra abituale prospettiva: il fatto di potersi spostare in

tutte le direzioni ti fa vedere il mondo in modo diverso. Questo fattore manca all’inter-

no di Aquarius, un ambiente puramente gravitazionale: abbiamo un pavimento, delle

pareti, spazi molto ristretti che sfruttiamo seguendo le nostre abitudini. Eppure uscendo dalla base

sottomarina tutto cambia, perché possiamo riprodurre una gravità parziale o una microgravità.

Durante le immersioni non è come essere in orbita ma allo stesso tempo l’esperienza è molto

diversa dalle esercitazioni nel Neutral Buoyancy Lab di Houston, la grande piscina dove gli astronau-

ti si allenano con l’assenza di peso. Gestire il proprio corpo in tale situazione non è affatto sempli-

ce; soprattutto perché molti degli attrezzi di lavoro, agganciati a un’imbracatura con moschettoni,

non sono stati progettati per essere usati nelle profondità marine. Eppure uscire dall’Aquarius per le

esercitazioni può aiutarci a simulare le attività sulla superficie di vari corpi celesti, a sperimentare

come spostarci, ancorarci e lavorare su di essi.

Nel secondo giorno di missione, per esempio, abbiamo fatto finta di trovarci su un asteroide

posizionato da un’ipotetica missione robotica in orbita cislunare (che è al di qua della Luna, rispetto

alla Terra, quindi praticamente senza ritardi nelle comunicazioni). Un asteroide è un ambiente in mi-

crogravità, senza appigli naturali da usare per esplorare la superficie. Per facilitare la ricognizione,

quindi, saranno necessari strumenti che non esistono ancora. Bisogna inventarli e, una volta creati,

servono test per capire come modificarli perché funzionino al meglio.

Qui entrano in gioco gli acquanauti. Approfittando dell’ambiente sottomarino, abbiamo prova-

to a raccogliere campioni di suolo e rocce in assenza di peso, sfruttando prima un mini braccio robo-

tico, poi un body restraint tether (un arto articolato simile a quello delle tute spaziali Emu della Nasa)

e infine il Microspine, uno strumento inventato per aggrapparsi alle rocce e rimanere fermi. Per i

campionamenti abbiamo usato altri apparecchi ancora, creati apposta e mai sperimentati prima.

Microspine, per esempio, era stato pensato per ancorare dei piccoli oggetti ma abbiamo verifi-

cato che non è in grado di resistere alle forze generate da un uomo adulto: durante l’esercitazione, s’è

staccato all’improvviso (mentre io ero ancora agganciato). Se fossi stato nello spazio, su un asteroide,

mi sarei perso in modo irrecuperabile: cioè l’incubo peggiore di chi fa il mio mestiere. Ecco perché

sperimentiamo, proviamo e riproviamo.

Per questo l’Aquarius Reef Base è così importante. Si tratta dell’unico habitat sottomarino

permanente che esista al mondo. Realizzato nel 1993, è utilizzato dalla Nasa per le missioni di adde-

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C A P. 3 / A M E R IC A

1 0 1

10 0

stramento in ambienti estremi dal 2001. Ma non è utile solo agli astronauti. Trovandosi nel mezzo

del Florida Keys National Marine Sanctuary, infatti, è una base sempre attiva per studiare la salute

dell’ambiente marino. Ricercatori e acquanauti possono rimanere in profondità anche per un mese:

l’Aquarius, infatti, ha un’enorme boa di supporto che pompa aria e riscaldamento sott’acqua, permet-

tendo inoltre collegamenti internet, radio e telefonici.

È il vantaggio di trovarsi sulla Terra, perché in orbita tutto deve essere contenuto all’interno

della Stazione spaziale: riserve di acqua, di aria, sistemi di miscelazione, quelli per eliminare l’ani-

dride carbonica… Dentro Aquarius, invece, possiamo avere tutta l’aria che vogliamo, perché viene

pompata dalla superficie. Dobbiamo solo preoccuparci di eliminare l’eccesso di anidride carbonica,

grazie ai filtri ad assorbimento che poi vengono regolarmente sostituiti.

a non è solo questa la ragione che rende l’Aquarius così importante. Tutte le volte che

ci immergiamo sott’acqua, infatti, andiamo incontro alla saturazione dell’azoto, un

gas contenuto nell’aria che respiriamo e che di solito non ci dà alcun problema. A causa

della maggiore pressione subacquea, però, questo gas si dissolve nel sangue e nei tes-

suti, pronto a trasformarsi in bollicine nel momento della risalita. Come all’apertura

di una bottiglia di acqua frizzante, queste bolle si espandono nel corpo umano quando

la pressione diminuisce, con il rischio di embolie molto dolorose o addirittura mortali. Per passare

molto tempo sott’acqua, quindi, durante la risalita si devono prendere precauzioni allungando enor-

memente i tempi di ritorno in superficie.

Per questo motivo i subacquei di solito portano con sé tabelle che indicano esattamente quanto

devono impiegare a risalire, a seconda della profondità e del tempo trascorso. Aquarius, invece, per-

mette di rimanere in immersione e tornare all’asciutto restando alla stessa profondità ed evitando

tutte queste limitazioni. L’unica accortezza che dobbiamo avere è una lunga decompressione di circa

17 ore l’ultimo giorno, così da eliminare tutto l’azoto con l’espirazione prima di risalire.

È proprio ciò facciamo l’ultimo giorno della missione Neemo 20, il 2 agosto, al termine della no-

stra avventura sottomarina. E l’ultima sera, prima di risalire, ho voluto lasciare il mio saluto a questo

straordinario ambiente, scrivendo queste parole: «Siamo venuti qui nell’Aquarius per studiare il fu-

turo, per cambiarlo, per migliorarlo. Con mente e cuore aperti, pronti a essere trasformati dall’espe-

rienza. Siamo arrivati da stranieri, viandanti temporanei, costretti ogni sera nel nostro rifugio me-

tallico. Ma le mute che ci ricoprono non sono riuscite a tenere lontana la salsedine dalla nostra pelle.

L’acqua che ci circonda non è dissimile da quella che anima le nostre cellule, dove la chimica

della vita si rigenera e si annienta. Persino i nostri pensieri nuotano da un neurone all’altro, attraver-

so gli elettroliti sciolti nell’acqua in cui sono immersi. Il liquido amniotico dove nuotiamo nell’oscu-

rità dei primi mesi del nostro viaggio terreno altro non è che un nostro personalissimo mare, di cui

ricordiamo per sempre il respiro, il battito, il calore. Il mare scorre nelle nostre vene, il nostro cuore

batte al ritmo delle sue onde. Siamo venuti qui, nel mare, ma dal mare non siamo mai andati via».

© ESA/Luca Parmitano

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©JÜRGEN KESSELMEIER

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A M E R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

N7

3 2 5 M E T R I S O P R A L A F O R E S TA

P A R O L E C H I A V E

C I C L O D E L L ’ A C Q U A , E F F E T T O S E R R A , M E T E O R O L O G I A

L U O G O

F O R E S T A A M A Z Z O N I C A , B R A S I L E

G I A N L U C A D O T T I

Più alta della torre Eiffel

ma costruita nel cuore

della foresta amazzonica,

tra serpenti, giaguari e

alberi giganti, la torre

climatica del progetto

Atto (Amazon Tall Tower

Observatory) è stata

concepita per tenere sotto

controllo i cambiamenti

chimici dell’atmosfera

in uno dei luoghi più

inaccessibili del pianeta

e meno contaminati

dall’attività umana.

Non poteva esserci

collocazione migliore che

al centro del polmone

terrestre, dove viene

prodotta più della metà

dell’ossigeno mondiale

e dove possono essere

studiati direttamente

il trasporto delle masse

d’aria, la formazione delle

nubi, la stratificazione

dell’atmosfera, il ciclo

dell’acqua e i cambiamenti

climatici. Letteralmente

da una prospettiva nuova

e unica al mondo.

Inaugurata nell’agosto

del 2015 dopo un anno di

lavori, la torre con il suo

imponente telaio metallico

svetta nel cielo sopra

la giungla e sostituisce

le vecchie torrette alte

appena 80 metri, che in tre

anni avevano permesso

le indagini preliminari.

Con i suoi 325 metri di

altezza, è la costruzione

più alta di tutto il Sud

America ed è in grado

di captare il respiro della

foresta, raccogliendo dati

su gas serra, sostanze

inquinanti e condizioni

meteo su un’area di cento

chilometri quadrati di

foresta pluviale tropicale.

La base della nuova

costruzione è quadrata

con lati di appena tre

metri, è sorretta da 26

chilometri di cavi d’acciaio

e ha installati decine di

sensori all’avanguardia per

misurare con precisione le

concentrazioni di metano,

ossidi di azoto e anidride

carbonica. L’impianto di

raccolta dati registra anche

la temperatura del suolo

e della foresta, la

luminosità, i venti in

quota e i profili di umidità

dell’aria, a dimostrazione

dell’enorme quantità di

informazioni necessarie

per migliorare i modelli

di evoluzione climatica.

A gestire il progetto,

nato nel 2009, è una

collaborazione tra Brasile

e Germania, che hanno

anche equamente diviso

l’investimento di circa

otto milioni di euro.

Ricercatori dell’università

di Manaus e dell’Istituto

nazionale brasiliano per la

ricerca amazzonica (Inpa)

affrontano spedizioni

nella foresta alla Indiana

Jones e le altezze dei

1500 elementi metallici

prefabbricati della torre,

insieme ai colleghi

tedeschi degli istituti Max

Planck per la chimica

e la meteorologia. Gli

stessi che ormai da dieci

anni studiano il clima

anche da un altro punto

di vista estremo: quello

della taiga siberiana.

Alla base delle analisi

c’è la necessità di

comprendere più a fondo

quei meccanismi che solo

nell’ultimo decennio hanno

portato il Brasile a dover

fare i conti con due pesanti

inondazioni e altrettante

gravi siccità, responsabili

di un perenne stato di

emergenza che

ha coinvolto oltre

300mila persone.

È però un progetto di

interesse mondiale, che

affronta concretamente

il problema globale del

cambiamento climatico

indotto dall’attività umana,

e che tocca temi come

la deforestazione, la

biodiversità e il rilascio

di grandi quantità

di energia da parte

dell’atmosfera, tramite

eventi meteorologici

sempre più violenti.

C O O R D I N A T E G P S

2 . 1 4 6 0 0 1 S , 5 9 . 0 0 5 6 5 0 O

C A T E G O R I A

A M B I E N T E

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A M E R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

F2

M A R C O C O S E N Z A

C A T E G O R I A

T R A S P O R T I

P A R O L E C H I A V E

E L O N M U S K , H Y P E R L O O P , S U P E R S U O N O

Elon Musk è una specie

di re Mida della tecnologia:

ovunque metta mano,

da PayPal a Tesla,

fino a SpaceX, sgorga

innovazione. Anche nel

deserto, non ultimo quello

del Nevada, dove una

startup californiana (Ht),

ispirata dalle idee del

magnate sudafricano,

ha deciso di posare le

fondamenta, o meglio

i tubi, della sua ultima

trovata: Hyperloop.

È un treno supersonico,

privo di rotaie, che

promette di collegare

San Francisco e Los

Angeles (o Roma e Milano

se preferite) in soli 30

minuti. I 600 chilometri

che le separano verrebbero

percorsi nella metà del

tempo di un volo aereo,

bypassando tra l’altro il

problema del traffico, degli

scali lontani dal centro

o dei costi (8 miliardi di

dollari quelli previsti per

la tratta, solo 20 per il

prezzo del biglietto).

Come è possibile?

Attraverso un tubo

“sottovuoto” in cui capsule

a levitazione magnetica

da 6-8 passeggeri partono

ogni 30 secondi e vengono

sparate a destinazione

come proiettili. La velocità

massima attesa è di 1200

km/h e la sensazione

quella di sentirsi su un’auto

più che sulle montagne

russe, assicurano i

progettisti. Il sistema

funziona grazie a pannelli

fotovoltaici incaricati

di raccogliere energia

lungo tutto il percorso,

il resto lo fa la mancanza

di attrito. La struttura

si reggerebbe inoltre

su pilastri antisismici

oppure potrebbe correre

sottoterra, riducendo

i problemi di sicurezza

e minimizzando l’impatto

in termini di traffico e

occupazione del suolo.

Convinta del potenziale

rivoluzionario per i

trasporti di domani è anche

un’altra compagnia (Htt),

che sta sperimentando la

tecnologia a Quay Valley,

a nord di Los Angeles.

Il loro prototipo, 8

chilometri di pista in scala

naturale costruita lungo

l’autostrada I5, sarà pronto

nel giro di 3 anni. Nel 2020,

Hyperloop potrebbe quindi

tramutarsi da visione

in realtà, cambiando

per sempre i concetti di

pendolarismo, mobilità

e urbanizzazione. Ne è

convinto il vicepresidente

della società, l’italiano

Gabriele “Bibop” Gresta,

così come lo sono gli

studenti di ingegneria di

Pisa che hanno preso parte

alla SpaceX Hyperloop Pod

Competition, il concorso

indetto per la realizzazione

del design delle capsule.

Tra oltre mille partecipanti,

il progetto della Scuola

superiore Sant’Anna è

entrato in finale, sostenuto

da super-sospensioni

attive capaci di adattarsi

al tracciato: un aspetto

fondamentale, viste le

velocità vertiginose.

Intanto l’area di test

in Nevada punta al

collaudo su un tracciato

di 5 chilometri all’interno

dell’Apex Industrial Center,

15 miglia a nord-est di

Las Vegas, già entro fine

anno, per raggiungere poi

la piena operatività nel

2017. C’è chi lo definisce

un azzardo, ma esiste

forse luogo migliore della

capitale dei casinò per

smentire gli scettici?

L U O G O

N O R T H L A S V E G A S , U S A

C O O R D I N A T E G P S

3 6 . 2 4 5 0 2 1 N , 1 1 5 . 0 7 2 4 1 7 O

I L T R E N O S O T T O V U O T O

©HYPERLOOP TRANSPORTATION TECHNOLOGIES

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A M E R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

P10

C O O R D I N A T E G P S

2 2 . 9 0 8 2 5 3 S , 4 3 . 2 1 9 6 1 0 O

P A R O L E C H I A V E

L A B O R A T O R I O A N T I D O P I N G , O L I M P I A D I , W A D A

C A T E G O R I A

S P O R T

L U O G O

R I O D E J A N E I R O , B R A S I L E

G I O C A R E P U L I T O

G A B R I E L E L I P P I

Stadi, palazzi dello sport,

piscine olimpiche. La corsa

del Brasile ai giochi di Rio

2016 è stata caratterizzata

da una lunga lista di

impianti da realizzare.

Ma tra arene da 60mila

posti e infrastrutture, una

delle sfide più impegnative

riguarda un edificio che

pochi turisti vedranno ma

che sarà fondamentale per

la riuscita dell’Olimpiade.

Il laboratorio antidoping

di Rio de Janeiro − nella

cittadella dell’università

federale sull’isola artificiale

di Fundão, a due passi

dall’aeroporto Galeão −

è costato 30 milioni di euro

ed è il fiore all’occhiello

della candidatura

brasiliana ai Giochi.

Realizzarlo in modo

che soddisfacesse tutti

gli standard fissati dalla

Wada (World Anti Doping

Agency) è stata una corsa

contro il tempo. Il vecchio

centro analisi della città

brasiliana, ormai non più

in grado di sostenere i

nuovi controllie e privo

dei fondi per aggiungere

personale e attrezzature,

ha perso l’accreditamento

nel 2013: durante il

Mondiale di calcio del

2014, il Brasile ha dovuto

infatti spedire a Losanna,

in Svizzera, i campioni

prelevati agli atleti, perché

venissero testati.

Reggere un’Olimpiade

in quel modo sarebbe

stato impensabile. Così

il governo ha deciso di

dar fondo alla cassa e

costruire un nuovo centro

in grado di competere

con i migliori al mondo.

Lo staff è stato ampliato

e conta un centinaio

di impiegati, le

apparecchiature sono

state aggiornate e,

dopo un periodo di

assestamento di nove

mesi, a maggio 2015

è arrivato l’accreditamento

da parte della Wada.

Ma non basta. Durante

i Giochi occorrerà eseguire

almeno sei mila diversi

test per identificare

dieci classi di sostanze

proibite: il lavoro di un anno

concentrato in 20 giorni.

Quindi serve un ulteriore

sforzo: il personale sarà

rafforzato da 60 volontari

brasiliani addestrati e da

100 specialisti di calibro

internazionale, tra cui

anche dieci italiani richiesti

dal comitato organizzatore

alla nostra Federazione

medico sportiva.

Dopo lo scandalo che

ha coinvolto l’atletica

russa, oltre ai sospetti

su Francia e Spagna

sollevati dalla Wada,

i fari saranno puntati

ancora di più sui risultati

dei test di Rio 2016.

Pass di sicurezza e

controlli biometrici

agli accessi serviranno

a evitare il rischio di

intrusione da parte

di esterni, mentre sono

stati varati nuovi test per

intercettare i casi di doping

del sangue come auto

ed etero emotrasfusioni.

Riuscirà Rio de Janeiro a

vincere la sua sfida pulita?

GENTILE CONCESSIONE DEL MINISTERO DELLO SPORT BRASILIANO

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C A P I T O L O 3

A M E R I C A

P A R O L E C H I A V E

A R C O L O G I A , A R C O S A N T I , G E O R G E L U C A S , P A O L O S O L E R I

Immaginate l’utopia di

una città interamente

autosostenuta, creata per

avere il minore impatto

possibile sulle risorse del

pianeta e ospitare 5mila

persone su circa 350 ettari

di deserto sovrastati da

edifici che sembra siano

stati partoriti dal più

visionario dei romanzi di

fantascienza. Immaginate

una città avveniristica,

costruita dalla comunità

che la abita e che essa a

sua volta nutre e riscalda

grazie a un’intricata rete

di riciclaggio energetico.

Ecco, quella città esiste.

È Arcosanti, esperimento

dell’architetto torinese

Paolo Soleri − il cui illustre

mentore era stato Frank

Lloyd Wright − che non

si è limitato a coniare il

concetto di “arcologia”

(una crasi tra architettura

ed ecologia) ma è anche

riuscito a trasformarlo

in realtà. Una realtà

imperfetta, certo, però

funzionale e funzionante.

Fondata negli anni ‘70

e rimasta incompiuta

(fatta eccezione per

alcune abitazioni, un

anfiteatro, una panetteria,

una caffetteria, una

piscina e una fonderia

dedicata alla creazione

di campane di bronzo),

Arcosanti rappresenta

un’avanguardia vittima

della sua stessa ambizione.

Una vittima, tuttavia, che

non si lascia macinare

da condizioni così

difficili e resta straniante

per chiunque desideri

sperimentare lo stile di vita

frugale che essa impone.

Perché è vero che, nel

2016, l’arcologia è abitata

da soli sessanta ricercatori

e sognatori (assai meno

di quanto sognava Soleri,

scomparso tre anni fa);

ma è anche vero che quella

presenza nel selvaggio

deserto di Sonora è stata

sufficiente affinché

George Lucas, regista

e creatore della saga

Star Wars, con una delle

sue intuizioni immaginasse

due dei luoghi popolati

dai cittadini del suo

universo mitologico: il

pianeta Tatooine dove

sono cresciuti Anakin e

Luke Skywalker (visti negli

episodi I e IV della serie)

e la luna di Endor, che

avrebbe fatto da casa

ai pelosi guerrieri Ewok.

C O O R D I N A T E G P S

3 4 . 3 4 3 1 0 9 N , 1 1 2 . 1 0 2 5 7 5 O

C A T E G O R I A

C I N E M A

L U O G O

A R I Z O N A , U S A

U N S O G N O I TA L I A N O N E L D E S E R T O D I S TA R W A R S

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J E F F B E Z O S , P I Z Z E R I A , M A R K Z U C K E R B E R G

C A T E G O R I A

F O O D

C O O R D I N A T E G P S

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L U O G O

P A L O A L T O , U S A

F I L I P P O P I V A

«Se apri un ristorante a Los

Angeles, è facile che entri

qualche attore famoso.

Nella Silicon Valley è lo

stesso ma le star sono

dell’hi-tech: magari capita

un cliente che ti dice di

aver appena inaugurato

una startup e nel giro di

qualche mese lo ritrovi su

Forbes». A parlare è Maico

Campilongo, imprenditore

Made in Calabria che ha

portato a Palo Alto la vera

pizza napoletana.

Con il fratello Franco e il

socio Kristyan D’Angelo,

è il proprietario di Terún,

rifugio per tecnoleggende

in crisi d’astinenza da

mozzarella e pomodoro.

«Prima facevo il cameriere

al Caffè del Doge, un locale

di Palo Alto. Tra i colleghi

c’era un ragazzo gentile,

gran lavoratore ma con la

testa sempre fra le nuvole:

si chiamava Kevin Systrom,

nel 2010 ha fondato

Instagram». Maico intanto

apre Terún e inizia a servire

al gotha della Silicon Valley

la migliore pizza della

zona. «Una volta è passato

Mark Zuckerberg, che di

solito preferisce un vicino

ristorante messicano:

ama più i tacos della

pizza», ride Campilongo.

«È venuto anche il

co-fondatore di Google

Larry Page, amico di una

nostra cliente: adora

la pizza napoletana».

L’album del locale è una

raccolta di aneddoti sugli

imprenditori informatici

più celebri del mondo.

«Anche Jeff Bezos,

il fondatore di Amazon,

ha mangiato qui.

Non l’avevo riconosciuto,

gli ho solo chiesto se era

un fan della bicicletta».

Poi gli italiani dell’hi-tech,

che hanno lasciato cuore

e palato al paese. Come

Pierluigi Zappacosta,

uno dei fondatori di

Logitech; o Federico

Faggin, capoprogetto

dell’Intel 4004, il primo

microprocessore della

storia. «Quando Federico

parla dei suoi progetti

è illuminante. Beve un

espresso e ti spiega

perché un computer

non potrà sostituire

l’uomo. Sembra banale:

ma se a dirlo è l’inventore

del microprocessore,

vi assicuro che assume

tutto un altro spessore».

L’ I N N O VA Z I O N E È U N A P I Z Z A

M A R I N A P I E R R I

Basta dare un’occhiata ai

suoi grandi archi, del resto,

per restarne affascinati

e voler trascorrere almeno

qualche giorno in una

delle case (i prezzi vanno

dai 50 ai 100 dollari

a notte) che guardano

le distese sconfinate

di sabbia e cactus, in

modo da vivere la magia

extraterrestre del luogo.

E avere la sensazione

che forse, con il passare

del tempo e il progredire

della scienza applicata

a tecniche sostenibili

− al momento i cittadini

di Arcosanti sono costretti

a ricevere provviste da

un supermercato, per

esempio − il sogno di

Soleri e dei suoi seguaci

potrebbe ancora

concretizzarsi.

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C A P I T O L O 3

A M E R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

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N I C H O L A S D A V I D A L T E A

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A R T E , C I B E R N E T I C A , N E I L H A R B I S S O N , M U L T I S E N S O R I

I L C I R C O L O D E I C Y B O R G

C O O R D I N A T E G P S

4 0 . 7 4 7 3 2 0 N , 7 3 . 9 8 8 1 8 4 O

C A T E G O R I A

S O C I E T À

L U O G O

N E W Y O R K , U S A

L’uomo da sempre cerca

di spingersi oltre i propri

limiti fisici, di superarli

migliorando le prestazioni

e raggiungendo nuovi

obiettivi. È il caso della

Cyborg Foundation.

Perché l’organizzazione

no-profit nasce proprio

da un limite, o meglio,

dal deficit che affligge il

fondatore Neil Harbisson,

da quando a 11 anni gli

è stata diagnosticata

l’acromatopsia. Questa

totale incapacità di vedere

i colori e di guardare

il mondo in bianco e

nero (e in tutte le possibili

scale di grigio) per 21 anni

gli ha reso la vita meno

piacevole di quella degli

altri. Ma ha anche spinto

l’artista, nato a Belfast ma

spagnolo d’adozione,

a sviluppare un modo

per esaltare le proprie

doti da compositore,

pittore e fotografo.

L’incontro con Adam

Montandon nell’ottobre

del 2003 a una conferenza

sulla cibernetica al

Dartington College of

Arts di Dublino, è stato

l’inizio della creazione e

della sperimentazione

dell’eyeborg: l’antenna

dotata di occhio

elettronico, montata

sulla testa di Neil per

captare i colori, convertire

ciascuno in un suono

diverso e ben riconoscibile,

e inviarli al suo cervello

tramite la conduzione

ossea del cranio.

Dal 2004 in poi, questa

cibernetica estensione

sensoriale è stata

perfezionata. Nel 2007,

con l’aiuto del

programmatore sloveno

Peter Kese, è migliorato

il riconoscimento anche

delle tonalità. Poi, nel

2009, Matias Lizana,

uno studente spagnolo,

è riuscito a diminuirne

l’ingombro, riducendo il

congegno a un semplice

chip in grado persino di

percepire un’ampia fascia

di colori invisibili all’occhio

umano, dall’infrarosso

all’ultravioletto.

Dopo i primi mesi, quando

il software e il cervello

erano ormai perfettamente

sintonizzati, l’apparecchio

è diventato parte del suo

corpo, non più semplice

estensione dei sensi.

In quel momento Neil

Harbisson si è sentito a

tutti gli effetti un cyborg

(è riuscito anche a ottenere

un passaporto con una foto

in cui indossa l’eyeborg).

Insieme alla coreografa

e attivista cyborg Moon

Ribas, nel 2010 ha fondato

la Cyborg Foundation con

sede al Tecnocampus,

parco scientifico di

Mataró, in provincia di

Barcellona (oggi è a New

York). L’obiettivo? Aiutare

le persone a diventare

cyborg ampliando i

propri sensi con questi

particolari dispositivi. C’è

poi un risvolto sociale non

indifferente: difendere

i diritti dei cyborg,

diffondendo sempre più

questo movimento artistico

e di ricerca tecnologica.

Non esiste solo l’eyeborg,

infatti è possibile cercare

di capire la velocità degli

oggetti con lo speedborg

e ristabilire la sensibilità

tattile con il fingerborg.

Insomma, L’uomo da sei

milioni di dollari non è solo

una vecchia serie tv.

©DAVID VINTINER/GETTYIMAGES

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C A P I T O L O 3

A M E R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

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P A R O L E C H I A V E

C H A R L E S S T A R K D R A P E R , I N T E R D I S C I P L I N A R I T À , M I T

A L I C E P A C E

Proprio a due passi

dall’edificio centrale del

Massachusetts Institute of

Technology (Mit), negli anni

Trenta, il professor Charles

Stark Draper allestiva un

piccolo laboratorio per

consentire agli studenti

di familiarizzare con

l’aeronautica, in particolare

con gli strumenti per guida

avanzata e navigazione.

Le occasioni di fare le cose

in grande si presentarono

subito: grazie alla

collaborazione sia con il

dipartimento della Difesa,

che con la Nasa. I ragazzi

di “Doc Draper”, infatti, da

una parte misero le mani

sui missili sottomarini

più precisi di quell’epoca,

dall’altra progettarono

e realizzarono l’Apollo

Guidance Computer,

il sistema di guida

spaziale che portò i

primi astronauti della

missione Apollo sulla Luna

e che poi li ricondusse

sani e salvi sulla Terra.

Oggi, a proposito di

organizzazione per la

ricerca e lo sviluppo,

il Draper Laboratory pensa

ancora più in grande:

«Pionieri nell’applicazione

di scienza e tecnologia

nell’interesse nazionale»,

è il loro slogan. Si va dalla

micro-elettronica alla

salute, dall’osservazione

spaziale alla sicurezza

per scavalcare, a colpi di

ingegneria, i principali

limiti tecnologici del

pianeta, con uno sguardo a

360 gradi tra le discipline.

Anche dal punto

di vista dello spazio, gli

ingegneri percorrono le

scale nanometriche come

gli anni luce, ragionano

sulle profondità del mondo

sottomarino e sugli aerei

ad alta quota e progettano

soluzioni in orbita,

lontanissime dalla terra.

Il Draper Lab è un

crocevia di conoscenze

cui hanno attinto (e ancora

attingono) grandi industrie,

importanti accademie

e governi: una sorta di

base d’appoggio per chi si

muove tra le tappe di quasi

un secolo di tecnologia e

da lì prova a immaginare

il futuro. Un domani i

farmaci non saranno

più semplici compresse,

bensì minuscole capsule

intelligenti in grado di

colpire in modo selettivo

i bersagli all’interno

del nostro corpo.

E magari le malattie

neuropsichiatriche

potranno essere curate

direttamente nel cervello,

attraverso lo stimolo di

micro-dispositivi elettronici

sempre più avanzati.

Un futuro, cioè, in cui

il cyberterrorismo sarà

stato annientato da

software sempre più

blindati; un tempo in

cui, per ragionare sulle

policy, sarà fondamentale

comprendere le culture

e i popoli (perché no?)

sfruttando anche i dati

raccolti dai satelliti.

C O O R D I N A T E G P S

4 2 . 3 6 4 5 4 3 N , 7 1 . 0 9 0 5 2 2 O

L U O G O

B O S T O N , U S A

C A T E G O R I A

S C I E N Z A

D O C D R A P E R E I T E C N O P I O N I E R I

©MIT MUSEUM

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C A P I T O L O 3

A M E R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

K1

P A R O L E C H I A V E

C L I M A , C A P A C I T À D I R I P R E S A

D A N I E L E B E L L E R I

Prima che l’uragano Sandy

mettesse k.o. Manhattan,

nell’autunno 2012, pochi

conoscevano il termine

“resilienza” applicato alla

vita urbana. Da allora, però,

è diventato uno dei criteri

con cui valutare la qualità

della vita nelle metropoli,

in base a uno standard che

considera gli interessi di

tutti i cittadini e non solo

di piccoli gruppi

privilegiati. Resilienza

è la capacità di una città

di scongiurare gli eventi

negativi e, soprattutto,

di rimettersi in piedi dopo

di essi: considera variabili

climatiche, economiche,

demografiche e di

coesione sociale.

Secondo uno studio

del 2014 di Grosvenor,

multinazionale

dell’immobiliare, sono

all’avanguardia i centri

del Nord America.

In particolare il Canada,

che conquista l’intero

podio delle metropoli

mondiali più resilienti

con Toronto, Vancouver,

e Calgary.

Visto il testo dell’accordo

internazionale per limitare

gli effetti del cambiamento

climatico, firmato a Parigi

a fine 2015, la prima spicca

come modello per qualsiasi

amministratore pubblico.

Sebbene protetta da una

conformazione geografica

favorevole (distante dal

mare e a basso rischio

sismico), il capoluogo

dell’Ontario non è immune

da episodi drammatici:

a partire dall’uragano Hazel

(1954) fino alle tempeste di

neve e blackout nel 1998,

2003 e 2013, passando

attraverso i frequenti

straripamenti del fiume

Don, senza dimenticare

però varie minacce globali

come la sindrome SARS,

nel 2003. Ma, nel corso

dei decenni, Toronto ha

imparato a fare i conti

con la propria vulnerabilità,

anche in previsione di

estati sempre più calde

e di una popolazione

sempre più vecchia.

Si è così sviluppata

una solida capacità

di adattamento che

scaturisce da molti

livelli: da istituzioni

capaci di investire sulle

infrastrutture e, allo stesso

tempo, di avviare un

rapporto di fiducia con

i cittadini, da un costante

progresso tecnico (ricerca

universitaria e utilizzo

dei big data), da una

pianificazione puntuale

e dalla cruciale capacità

di attrarre fondi (ogni

catastrofe ambientale

è anche una colossale

operazione assicurativa).

Toronto si fa apprezzare

ancora di più se

paragonata ad altre città

del mondo: per esempio

a Londra, dove a turbare

l’equilibrio sociale è la

scarsità di alloggi a prezzi

accessibili, oppure alle

metropoli di Africa, Sud

America e Asia, dove

la crescita demografica

sarà maggiore nei prossimi

decenni. Tutti luoghi

che soffrono di livelli di

resilienza pericolosamente

bassi.

Q U E S T I O N E D I R E S I L I E N Z A

C O O R D I N A T E G P S

4 3 . 7 1 6 6 4 3 N , 7 9 . 3 4 0 5 7 9 O

C A T E G O R I A

A M B I E N T E

L U O G O

T O R O N T O , C A N A D A

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C A P I T O L O 3

A M E R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

B5

P A R O L E C H I A V E

D E S E R T O , M I S S I O N E H I - S E A S I V , N A S A

L U O G O

M A U N A L O A , H A W A I I , U S A

M A R C O C O S E N Z A

«Non fosse per il cielo

azzurro invece che rosso

o blu, lo scenario è molto

“marziano”», spiega Kim

Binsted, professoressa

dell’università delle

Hawaii che studia il

comportamento umano

in missioni spaziali di

lunga durata: «È un luogo

talmente isolato...».

Non è un caso se la Nasa

ha scelto quelle isole degli

Stati Uniti come palestra di

allenamento per l’arrivo su

Marte. Proprio l’isolamento

le rende particolarmente

adatte all’analisi delle

reazioni e delle dinamiche

tipiche dei viaggi nello

spazio. Qui infatti, pacifico

come l’Oceano che lo

circonda, un equipaggio

− tre uomini e tre donne −

simula avvicinamento ed

esplorazione del “Pianeta

Rosso” per 365 giorni.

La missione Hi-Seas IV

(Hawaii Space Exploration

Analog and Simulation)

si concluderà nell’estate

2016. Nel frattempo un

esobiologo francese,

una fisica tedesca

e i loro quattro colleghi

statunitensi (una geologa,

un pilota, un architetto,

una neuroscienziata-

giornalista) continueranno

a dividersi spazi e compiti

all’interno di una speciale

struttura: un modulo a

cupola con diametro di

11 metri, altezza di 6 e una

superficie a disposizione

di circa 90 metri quadrati,

da cui possono uscire

solo occasionalmente

ma indossando la propria

regolare tuta spaziale.

Dodici mesi avari d’aria

fresca, di cibi freschi

e privacy, con una dispensa

piena di alimenti in scatola

o in polvere, nonché di

un segnale Internet che

viaggia in costante ritardo

di 20 minuti, come se si

trovassero davvero nei

pressi di Marte.

Lo stress, fisico e mentale,

può essere elevato perché

si creano situazioni in cui

vengono testate a fondo

le capacità di cooperazione

e resistenza dei singoli,

ma anche dell’intero

gruppo. Il periodo

d’addestramento

è doppio, rispetto ai

semestri standard delle

missioni sulla Stazione

Spaziale Internazionale;

ma la durata di una vera

spedizione su Marte è

stimata in un periodo

compreso tra uno e tre

anni, quindi fare altrimenti

era difficile.

Il programma Hi-Seas

è finanziato dalla Nasa

con 1,2 milioni di dollari

e nei prossimi anni prevede

altri due camp da 8 mesi

ciascuno. «L’investimento

può sembrare ingente

ma è molto, molto più

economico della spesa

necessaria a condurre una

ricerca simile nello spazio»,

assicura Binsted.

L’obiettivo è di raggiungere

Marte nel 2035, quando

al posto del robot

Curiosity potrebbe esserci

un equipaggio di veri

astronauti. Addestrati

alle Hawaii, naturalmente.

C O O R D I N A T E G P S

1 9 . 4 7 3 2 5 6 N , 1 5 5 . 5 9 0 8 5 3 O

C A T E G O R I A

S C I E N Z A

S U L P A C I F I C O M A R T E

©CYPRIEN VERSEUX

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C A P I T O L O 3

A M E R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

L6

L U O G O

A L T O S D E C A Z U C Á , C O L O M B I A

P A R O L E C H I A V E

A L B E R I , G I A N C A R L O M A Z Z A N T I , S H A K I R A

I B O S C H I D E L L A S P E R A N Z A

C A T E G O R I A

A R C H I T E T T U R A

C O O R D I N A T E G P S

4 . 5 8 7 2 4 4 N , 7 4 . 1 8 5 6 7 4 O

F R A N C E S C O L I P A R I ,

A L E S S A N D R O O R S I N I

Innovare è sicuramente

un fatto complesso.

Soprattutto in un momento

storico come l’attuale,

in cui gli architetti sono

concentrati sull’uso degli

strumenti digitali come

unico veicolo creativo.

Alcuni professionisti,

per fortuna, all’uso

smodato della tecnologia,

preferiscono un approccio

olistico in cui gli elementi

che compongono lo spazio

si trovano in simbiosi,

non scissi come atomi

di materia. Tra loro

c’è Giancarlo Mazzanti,

architetto colombiano

di nascita ma italiano

di formazione, avvenuta

per la precisione a Firenze.

La sua filosofia ha come

oggetto l’umanità

e il miglioramento della

condizione sociale in cui

il progetto opera (spesso si

tratta di territori e tessuti

urbani disconnessi).

Cioè, «un’architettura

da vivere e non solo

da osservare». Tra le sue

opere più riuscite c’è

“Bosque de la Esperanza”

(Bosco della speranza):

un centro sportivo

realizzato in Colombia,

nel distretto di Soacha

− alla periferia di Bogotá

− chiamato Altos de

Cazucá, un’area depressa

che accoglie persone

fuggite da fame e guerra.

A renderlo possibile è

stata la “Fundación Pies

Descalzos”, organizzazione

no profit − fondata dalla

cantante Shakira − che

si occupa di bambini

maltrattati provenienti

da famiglie poverissime,

insieme all’Ong spagnola

“Ayuda en Acción”.

Il centro sportivo Bosque

de la Esperanza occupa

una superficie orizzontale

di 1744 metri quadrati

con una copertura

tridimensionale di 700.

Quest’ultima, realizzata

con pilastri in acciaio

a inclinazioni variabili

ed elementi modulari

poliedrici rivestiti da mesh,

è l’assoluta protagonista

del progetto: quasi uno

shadescape, o “paesaggio

d’ombra”. Con i suoi

moduli colorati di verde

evoca gli alberi locali

contribuendo a formare

uno spazio calmo,

dinamico. Per gli abitanti

di Altos de Cazucá

rappresenta un simbolo

di unione e speranza.

L’approccio progettuale

di Giancarlo Mazzanti

aspira a ciò che

l’architettura sa produrre

quando è contestualizzata

e inserita con sapienza

nei tessuti urbani in cui

opera, quando cioè riesce

a configurarsi come

elemento di cucitura

ma anche di coesione

dell’ambiente, fisico e

sociale, circostante.

Page 117: Wired_Marzo 2016.pdf
Page 118: Wired_Marzo 2016.pdf

Automatic.

Libera l’ambiente

da odori, sostanze

inquinanti ed

eccessi di umidità.

Monitora la

temperatura

e regola il flusso

di aria in uscita

in maniera

automatica.

“ C o n q u e s t o p r o g e t t o

v o g l i a m o a p r i r c i

a l l ’ e r a d e l l ’ I n t e r n e t

o f T h i n g s p o r t a n d o

i l n o s t r o k n o w - h o w n e l

t r a t t a m e n t o d e l l ’ a r i a . ”

F r a n c e s c o C a s o l i ,

P r e s i d e n t e d i E l i c a

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P E R E L I C A

S N A P B Y E L I C A : O R A L A Q U A L I T À D E L L ’ A R I A S I C O N T R O L L A C O N U N ’ A P P .

La qualità dell’aria che respiriamo è un tema sempre rilevante, ma

tutta l’attenzione è spesso concentrata sull’inquinamento esterno.

Recenti studi hanno invece dimostrato che in ambienti chiusi

non adeguatamente ventilati l’aria può essere fino a 5 volte più

inquinata di quella esterna. Per aiutarci a vivere in un ambiente

sano, è nato Snap, il primo Air Quality Balancer, creato da Elica

con la collaborazione di IBM e Vodafone. La storica azienda

italiana prosegue così il suo percorso di specialista del trattamento

dell’aria e si apre all’Internet of Things, con un prodotto che unisce

innovazione e connettività a un design di altissimo livello.

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riciclo dell’aria,

riducendo la

possibilità di

formazione di

muffe ed evitando

l’odore di chiuso.

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Libera l’ambiente,

dialoga con le

informazioni

ricevute dalle

cappe Sense di

Elica e interviene

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Port Louis

A F R I C A

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Hargeisa

Sinthian

Nairobi

Johannesburg

Nairobi

Addis Abeba

Lagos

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8

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I L P R E S I D E N T E B O TA N I C O

L U O G O

P O R T L O U I S , R E P . D I M A U R I T I U S

C O O R D I N A T E G P S

2 0 . 1 6 6 6 6 7 S , 5 7 . 5 1 6 6 6 7 E

F O T O D I

A L E S S A N D R O I M B R I A C O

T E S T O D I

S I L V I A B E N C I V E L L I

C A P I T O L O 4

A F R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

M9

AMEENAH GURIB-FAKIM,

PRIMO CAPO DI STATO DONNA

DI MAURITIUS E SCIENZIATA

CHE STUDIA LA BIODIVERSITÀ,

STA CAMBIANDO LA NATURA

DEL SUO PAESE.

E DELL’INTERO CONTINENTE

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Mauritius, anzi la Repubblica di Mauritius, è uno Stato grande una

volta e mezzo il Comune di Roma, che si trova su un’isola dell’Oceano

Indiano 550 chilometri a est del Madagascar. Altri 550 più a est, la

piccola isola vulcanica di Rodrigues segna il punto più orientale del

continente africano. Mauritius, insomma, è un frammento di Africa

che sa di Asia ma un po’ anche d’Europa. Gli abitanti (circa un milione

e trecentomila) sono di origine indiana, africana, francese, cinese:

una metà è induista, un terzo è cristiano, gli altri musulmani.

Abitano qui (o meglio vanno e vengono da qui) dall’inizio del Sette-

cento, cioè da quando l’isola divenne possedimento francese. Era nota

da secoli ad arabi e malesi. Nel corso del Cinquecento e del Seicento

erano arrivati anche portoghesi e olandesi. Ma tutti l’avevano tro-

vata inospitale e se n’erano andati in fretta, senza grossi rimpianti.

Nessun rimpianto nutrivano certo per il dodo, l’uccello columbiforme

che qui si è estinto per cause umane intorno al 1681.

Dopo i francesi sono arrivati gli inglesi, che sono stati proprietari

dell’isola fino all’indipendenza, concessa nel 1968. Da allora la Repub-

M

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C A P. 4 / A F R IC A

1 2 5

1 24

blica di Mauritius è una repubblica, appunto, e una tra le più stabili

di tutta l’Africa. Vive di agricoltura, industria e turismo, ha il secon-

do reddito pro-capite del continente. Un’unica autostrada la taglia da

nordovest a sudest; più o meno a un terzo si trova la settecentesca

residenza presidenziale di Réduit con il grande parco che, da mag-

gio dell’anno scorso, ha un angolo profumato, coltivato a giardino di

piante rare e medicinali. A piantarlo è stata la nuova presidentessa

della Repubblica, Ameenah Gurib-Fakim.

Scienziata, musulmana, 56 anni, Gurib-Fakim il 5 giugno 2015 si è

sentita proporre dal Parlamento di sostituire il dimissionario Kaila-

sh Purryag. Ha accettato e, proprio nella residenza di Réduit, in uno

studio con le pareti blu e grandi porte-finestre aperte sul giardino,

ha incontrato Wired e spiegato perché la protezione della biodiversi-

tà sarà il motore dello sviluppo del piccolo Paese africano, perché il

dodo è il passato e perchè quel giardino profumato è il futuro.

Un futuro da costruire nel rispetto della scienza, dell’innovazione

e di un’approfondita conoscenza dell’ecologia.

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o cominciato a coltivare l’interesse per la scienza fin da piccola, e credo di esservi stata

indirizzata in particolare da alcuni eventi. Prima di tutto a scuola, ho incontrato pro-

fessori molto motivati, in grado di mostrare a noi alunni che la scienza è dappertutto

e che è materia viva. Ma c’è stato anche l’allunaggio del 20 luglio 1969, che qui a Mau-

ritius abbiamo potuto vedere in diretta tv. E più tardi la nascita di Louise Brown, la

prima bambina concepita grazie alla fecondazione artificiale. Tutti avvenimenti che

mi hanno fatto capire che la scienza ci cambia davvero la vita.

Quindi, appena ho finito le scuole, sono partita per studiare Chimica organica all’Università del

Surrey, in Gran Bretagna. Una delle ragioni per cui ho scelto quella contea è che dava la possibilità di

fare uno stage in azienda: quell’esperienza l’ho fatta all’interno di una grande compagnia chimica,

nel dipartimento in cui si faceva ricerca sui pesticidi – a partire soprattutto da sostanze naturali.

Poi ho preso il dottorato in Chimica organica all’Università di Exeter, lavorando sempre su molecole

naturali. A quel punto, ero pronta a partire per gli Stati Uniti, dove avrei fatto un master di specializ-

zazione. Ma i miei genitori mi hanno convinta a tornare a Mauritius ed eccomi di nuovo qua.

Ho ottenuto un posto all’università. Be’, mi sono subito resa conto della differenza. A Mauritius

non potevi fare ricerca come in Gran Bretagna, perché non c’erano mezzi né strutture. Ma siccome

avevo ancora una grande passione per la chimica, cui non volevo assolutamente rinunciare, sono

“caduta nel pentolone delle piante”! Cioè, ho cominciato a conciliare chimica e botanica. Perché le

piante? Perché Mauritius è un punto di riferimento per la biodiversità planetaria. Ma anche perché

quando sei un accademico hai bisogno di pubblicare ricerche scientifiche originali. Così ho capito che,

se volevo cominciare a studiare le piante, ero nel posto ideale per trovare molecole nuove.

Sono partita da un progetto della Commission de l’Océan Indien sullo studio delle piante offi-

cinali, grazie al quale, dal 1990 al 1995, ho lavorato all’inventario delle specie aromatiche e medici-

nali di Mauritius e Rodrigues: quando l’ho completato, mi sono resa conto che ci sono molte verità in

quello che dicevano le vecchie “maghe” di paese. Perciò ho cominciato a riorientare i miei studi sulla

validazione scientifica dei dati tradizionali: cioè a prendere le “ricette”, a studiarle, a verificare se

fossero davvero efficaci e per quali ragioni. Considerate che, negli anni in cui facevo l’università, que-

sti temi venivano percepiti come estremamente marginali, quasi delle stregonerie. Ma le cose sono

cambiate: l’anno scorso, il Nobel per la medicina è andato alla cinese Tu Youyou, che ha fatto tesoro di

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1 2 7

1 2 6

M

informazioni tradizionali sulla cura della malaria e, con quelle, ha prodotto il farmaco che ha deciso

la guerra del Vietnam, l’artemisinina.

Intanto io, nel 2001, vincevo la cattedra di Chimica organica e diventavo la prima insegnante

donna dell’Università di Mauritius. Nel 2004 sono stata nominata preside della facoltà di Scienze e

prorettore dell’ateneo. Nel 2007 ho ricevuto il premio “L’Oréal-Unesco per le Donne e la Scienza”. Poi

ho cambiato strada. Nel 2009 sono diventata amministratore delegato del Cidp (Centre International

de Développement Pharmaceutique) Research & Innovation, perché nel mondo accademico non c’e-

rano mezzi per tradurre la ricerca in business, ma di molecole naturali per l’industria farmaceutica e

cosmetica c’è gran richiesta. Insomma: sono diventata imprenditrice. Per me è un esempio di come la

protezione della biodiversità dia anche vantaggi economici a una regione e di quanto sia necessario

che, come stabilito da molte convenzioni internazionali, i paesi regnino sovrani sulla propria.

a facciamo un passo indietro. Nelle società arcaiche l’uomo si considerava parte in-

tegrante dell’ambiente. In alcune di quelle asiatiche, ai tempi dei faraoni, quando si

andava nella foresta a tagliare un albero si chiedeva il permesso alla natura. Oppure

agli spiriti. Poi l’uomo ha avuto la pretesa di diventare un dominatore, di sfruttare le

altre specie e ha perso il rispetto per le cose. Solo che questo non può durare a lungo.

Anzi, proprio adesso serve un cambiamento rapido del modo di pensare, una presa di

coscienza del fatto che è dalla biodiversità che dipende la nostra vita: per biodiversità non intendo

soltanto le piante, ma anche i microbi terrestri e marini, gli animali e le interazioni tra tutti loro.

È una vera questione di sopravvivenza, sia chiaro. Qui siamo oltre l’aspetto morale, etico e

anche economico. Adesso è la sopravvivenza dell’umanità che dipende dalla sopravvivenza della bio-

diversità. Prima ci comportavamo come se dovessimo fare un favore alla natura difendendola, adesso

invece sappiamo che si tratta del contrario: è lei che difende noi, che per evitare il peggio dobbiamo

leggere i sintomi del suo malessere. Parlo di fenomeni come le tempeste di neve negli Stati Uniti, le

inondazioni in Gran Bretagna, l’acqua che si alza nelle città costiere. Come per esempio nella vostra

Venezia. O qui, nelle nostre isole: Mauritius è classificata fra le zone ad alto rischio del World Risk Re-

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port e le Maldive sono direttamente minacciate dall’innalzamento dei mari. Si tratta di cambiamenti

brutali dell’ambiente; i più evidenti sono gli estremi climatici sempre più frequenti.

Non solo: dobbiamo anche capire che è giunta l’ora di superare le divisioni fittizie tra nord e sud

del mondo. Tutti dobbiamo fare la nostra parte. E se è vero che le nazioni del nord del pianeta hanno

più colpe etiche, morali, sociali, economiche di quelle del sud, ora è tempo di superare anche questo.

Continuare a parlare di responsabilità serve a poco, soprattutto ai paesi africani che presto inizie-

ranno a soffrire delle conseguenze dei cambiamenti climatici. È già il momento di agire.

Ci saranno sempre più “rifugiati climatici”, grandi movimenti di popolazioni che fuggono da

carestie, siccità. Ma anche più problemi di salute, per tutti. Il virus Zika oggi ce lo sta dimostrando:

era diffuso solo in Uganda, dove la gente ci convive da lustri, poi ha cambiato territorio. Ma tante altre

malattie cambieranno distribuzione: prima fra tutte la malaria, che si sta spostando dai paesi caldi

e umidi del sud verso quelli del nord. Ci saranno impatti enormi anche sulla sicurezza alimentare:

l’Africa possiede il 60% delle terre agricole del pianeta e molte sono occupate da colture di base, come

il mais. Ma nel 2030 il 40% di queste aree potrebbe non essere più coltivabile visto che il continente

sarà diventato iperurbanizzato. Che conseguenze avrà tutto ciò per la nostra alimentazione? Riu-

sciremo a trasferire nei paesi africani le tecnologie per la cosiddetta “smart agricolture” ed evitare

di perdere quest’immensa risorsa? Insomma: bisogna guardare al problema con un occhio globale,

senza più pensare a un pianeta diviso.

uanto a noi, Mauritius è considerato uno degli hotspot della biodiversità terrestre. Su

tutto il pianeta ne esistono una trentina: coprono solo l’1,4% della superficie totale del-

la Terra ma contengono il 35% delle specie di piante. Per questo ci stiamo spendendo

tanto – forse molto più degli altri – per la salvaguardia del nostro ambiente. Il 60%

delle specie vegetali che si trovano qua è esclusivo del posto. Quindi ci tengo a dire

che più che l’isola del dodo vogliamo essere l’isola del gheppio: il gheppio di Mauritius,

un piccolo falco che siamo riusciti a salvare dall’estinzione una ventina di anni fa. A questo punto, il

ruolo della scienza è evidente. In Africa abbiamo bisogno di scienza, ma anche di scienziati: invece

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C A P. 4 / A F R IC A

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13 0

ogni anno perdiamo un gran numero di laureati, che emigra verso i paesi ricchi. Non amo parlare di

“fuga dei cervelli”: preferisco usare il termine “circolazione dei cervelli”. Guardiamo a nazioni come

Cina, Corea, India e Brasile, che sono riuscite a emergere fino a diventare vere potenze. Eppure anche

loro hanno sofferto la diaspora degli scienziati ma sono riusciti, poi, a farli rientrare. E ci sono riusciti

non solo dando loro i necessari mezzi tecnici e tecnologici, ma anche creando ambienti favorevoli alla

ricerca. I salari per gli scienziati sono secondari, rispetto alla possibilità di lavorare bene. Bisogna

fare uno sforzo in questo senso, sapendo che è uno sforzo che viene ripagato presto. Adesso è arrivato

il momento che ci si metta anche l’Africa.

Attenzione però: l’Africa non è un paese, è un continente. Infatti fra gli argomenti che sono oggi

in discussione nell’Unione africana c’è proprio questo: ogni singolo Stato deve assumersi l’impegno

di investire una certa percentuale del Pil in strutture da dedicare alla scienza. Consideriamo che

l’Africa ha un vantaggio sul resto del mondo: è l’unico continente “giovane”, quello in cui l’età media

è più bassa (23 anni!). Significa che abbiamo un vivaio di talenti da allevare. Che abbiamo una nuova

collettività che si sta mettendo all’opera. Come dico spesso: il potenziale dell’Africa non si limita alle

risorse minerarie, è soprattutto nel capitale umano.

L’Africa però ha anche uno svantaggio: da quando è stata colonizzata, si è scelto di formare am-

ministratori senza pensare di investire nell’educazione degli scienziati. Ma anche in questo campo

sta a poco a poco avvenendo una presa di coscienza, perché si è capito che servono persone capaci di

dirigere le imprese, per esempio. Anche i politici hanno cominciato a capire che, se bisogna prendere

decisioni basate su dati credibili, è sulla credibilità scientifica che si deve puntare.

Anche perché, all’inizio, le priorità politiche sono sempre spinte dai bisogni. Ma non si può

pensare di fronteggiare solamente le emergenze: bisogna comunque guardare al futuro. In Africa

abbiamo investito tanto sulla salute, sulle malattie – soprattutto quelle trasmissibili. E ci sono sta-

ti molti finanziamenti dall’estero, come quelli della fondazione Gates o della Wellcome Trust. Se si

guardano le università africane, infatti, si vede benissimo che le tematiche sanitarie sono state pri-

vilegiate rispetto alle altre. Ma i bisogni sono e saranno sempre di più legati all’agricoltura e alla

sicurezza alimentare come l’acqua, lo sviluppo energetico pulito. Si dovrà investire, più in generale,

sulla produzione di conoscenza, perché non possiamo più continuare a dipendere dalla conoscenza

prodotta altrove. Insomma: bisognerà puntare sempre di più sull’innovazione».

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A F R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

J5

M A R C O C O S E N Z A

La scarsità d’acqua è una

piaga e, se combinata con

la crescita costante della

popolazione, può avere

effetti drammatici.

Al punto che la

sopravvivenza stessa

diventa a rischio. Se infatti,

come indicano le stime,

si superassero i 9 miliardi

e mezzo di individui nel

2050, per rispondere alla

domanda globale di cibo

la produzione agricola

dovrebbe crescere del

60% entro la metà del

secolo. Il tutto complicato

dal fatto che l’apporto

di nascite maggiore

verrebbe dall’Africa, dove la

malnutrizione è già oggi

un problema concreto.

Questo significherebbe

quindi non solo

intensificare o modificare

geneticamente alcune

colture, ma anche essere

in grado di sfruttare ogni

centimetro di terreno

disponibile. Anche quello

più arido o impervio.

All’identikit risponde

sicuramente il Somaliland:

una lingua di terra che

si stende a sud del Golfo

di Aden, una delle zone più

calde del pianeta e un’area

semi-desertica in cui

abbonda l’acqua salata

ma scarseggia quella

dolce. Per questo la

compagnia britannica

Seawater Green house,

in collaborazione

con i ricercatori della

Aston University di

Birming ham e della

locale Gollis University

di Hargeisa, ha sviluppato

delle serre-oasi capaci di

“riciclare” l’acqua marina

per alimentare l’agricoltura.

«Il principale problema

del Corno d’Africa è

che l’evaporazione

supera di gran lunga

le precipitazioni»,

spiega Charlie Paton,

l’amministratore delegato

di Seawater Greenhouse.

«La nostra tecnologia

supera lo scoglio

utilizzando l’acqua

del mare per produrre

aria più pura e fresca».

Il contributo decisivo

arriva da altri due elementi

di cui la zona è ricca: sole

e vento. Il primo scalda

i pannelli fotovoltaici

che producono l’energia

necessaria a pompare

l’acqua e il secondo la

incanala in particolari

strutture reticolate.

Così, desalinizzata

attraverso un processo

di osmosi inversa, l’acqua

viene usata sia per irrigare

i campi sia per creare una

brezza umida che riduce

la traspirazione delle

piante. Il sale e le alghe

estratti possono essere

utilizzati il primo per

cucinare e conservare i

cibi, mentre le seconde

come fertilizzanti.

Nulla, insomma, va

sprecato. E non potrebbe

essere altrimenti in una

regione in cui solo l’1,5%

dei terreni è adatto alla

coltivazione. La media

è di 0,5 tonnellate di

raccolto per ettaro ogni

anno, rispetto alle 300

delle serre ad acqua

marina (e alle 700

di quelle classiche):

un incremento che

estenderebbe la sicurezza

economica e alimentare

al 75% degli abitanti.

Il progetto, finanziato

dal Dipartimento per

lo Sviluppo Internazionale

del governo inglese e dal

fondo Agri-Tech Catalyst

di Innovate Uk, ha raccolto

700mila sterline che gli

assicureranno almeno

una durata triennale.

L E S E R R E C H E S F I D A N O I L D E S E R T O

C A T E G O R I A

S C I E N Z A

P A R O L E C H I A V E

A C Q U A , A G R I C O L T U R A , D E S A L I N I Z Z A Z I O N E , E N E R G I A S O L A R E

C O O R D I N A T E G P S

9 . 5 6 2 0 6 0 N , 4 4 . 0 3 8 3 9 2 E

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H A R G E I S A , S O M A L I L A N D

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A R T E , C O M U N I T À , T H R E A D C E N T E R

C O O R D I N A T E G P S

1 5 . 5 1 0 5 6 9 N , 1 3 . 2 6 8 7 5 9 O

C A T E G O R I A

A R C H I T E T T U R A

U N A R E S I D E N Z A P E R A R T I S T I

L U O G O

S I N T H I A N , S E N E G A L

La routine uccide la

creatività. Ecco perché

se sei un artista dovresti

provare a vivere qualche

mese nel Thread Center

a Sinthian, un villaggio

remoto del Senegal al

confine con il Mali, nella

regione di Tambacounda.

Nel mondo dell’arte, da

molti anni esiste una

pratica di residency

istituzionalizzata, per

permettere agli artisti

di essere ospitati in

luoghi destinati a dare

impulso alle ricerche e alla

creazione di opere. Con un

doppio scopo: fuggire dalla

frenesia della quotidianità

e ritrovare l’ispirazione in

contesti diversi dal proprio,

lasciandosi contaminare

dall’ambiente circostante.

Questa è stata l’idea

alla base dell’iniziativa

culturale lanciata e gestita

dalla Fondazione Josef

e Anni Albers, una non

profit con sede negli Stati

Uniti che mira a diffondere

nel mondo una visione

umanistica legata all’arte

e al progresso sociale.

Il direttore Nicholas Fox

Weber si è interessato

al Senegal nel 2003,

dopo un incontro con un

dottore franco-senegalese,

Magueye Ba, che da Dakar

si era trasferito nell’area di

Tambacounda per portare

aiuti alla popolazione

locale, realizzando un

centro medico. Weber

ha fondato la non profit

American Friends of

Le Korsa per aiutare

Ba a sostenere le sue

attività e ha cominciato

ad approfondire la sua

conoscenza della regione.

Da lì il sogno e la visione

di un luogo che potesse

aiutare gli artisti a ritrovare

il senso del servizio alla

comunità, attraverso le

loro opere ma anche la loro

presenza in loco.

Il progetto, selezionato

anche alla Biennale

di Venezia 2014,

è stato affidato allo

studio dell’architetto

newyorchese Toshiko

Mori, che ha realizzato

il centro insieme ai suoi

studenti di Harvard,

con l’obiettivo di costruire

una struttura residenziale

ma anche di uso pubblico.

Thread ha aperto un anno

fa, nel marzo del 2015,

ospitando i primi gruppi

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A F R I C A

Q U A D R A N T E M A P P A

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Q U A D R A N T E M A P P A

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D O N A T A C O L U M B R O

di artisti, tra cui danzatori,

coreografi, designer

e fotografi selezionati

dalla Fondazione, in

collaborazione con il

curatore d’arte Koyo

Kouoh, che vive a Dakar.

La struttura è disegnata

in modo tale da poter

essere sfruttata non

solo durante i periodi

di residency, ma tutto

l’anno. La popolazione

locale, infatti, la usa come

luogo di mercato, sede

di corsi di lingua e riunioni.

Si è cercato di coinvolgere

la popolazione fin

dall’inizio: la mediazione

del dottor Ba ha aiutato

gli abitanti di Sinthian

a capire il tipo di struttura

che stava nascendo

nel loro villaggio e come

dare il proprio contributo

per costruirla, e ha anche

accompagnato l’architetto

Mori nella progettazione,

tenendo conto della

dimensione, del contesto

e dei materiali disponibili.

Tra quelli usati: bambù,

paglia e terra battuta.

Merita attenzione

particolare la struttura

del tetto: è anche

un sistema di raccolta

di acqua piovana,

destinato a conservare

il 30 per cento del

fabbisogno di acqua

dell’intero villaggio.

L U O G O

N A I R O B I , K E N Y A

P A R O L E C H I A V E

G O O G L E M A P S , M A T A T U , S M A R T P H O N E

C O O R D I N A T E G P S

1 . 2 9 2 4 7 3 S , 3 6 . 8 2 6 1 6 6 E

C A T E G O R I A

T R A S P O R T I

I M I N I B U S C O N N E S S I

Prendi una città da 3

milioni e mezzo di abitanti,

riempila di centinaia

di minibus privati,

ciascuno con i propri,

imperscrutabili, percorsi

e fermate, e otterrai un

sistema di trasporto

regolato dal caos, eppure

utilizzato per spostarsi

dal 70% della popolazione.

Questa era Nairobi nel

2012 e il fatto che i matatu,

i minibus in questione,

sparassero musica a tutto

volume mista a colpi di

clacson e fossero decorati

con scintillanti palle a

specchi da discoteca,

contribuiva semplicemente

a rendere folcloristica

l’idea di caos.

A mettere fine a questa

situazione sono state

Sarah Williams e

Jacqueline Klopp, due

ricercatrici della Columbia

University, con l’aiuto di

Adam White, cofondatore

di Groupshot, società

specializzata in progetti

all’incrocio tra innovazione,

impegno sociale e sviluppo

globale. Nasce dal loro

impegno Digital Matatus,

il progetto grazie al quale

oggi 130 percorsi di

minibus e 3000 fermate

sono disponibili su Google

Maps, consultabili da tutti

con il cellulare e stampati

in una mappa cartacea

precisa e coloratissima,

che non ha nulla da

invidiare a quella delle

reti di trasporti pubblici

di Londra o Parigi.

Realizzarla non è stato

facile: il comune aveva sì

notizie su circa il 75% dei

tragitti, ma si limitavano

ai punti di partenza e

arrivo. La soluzione? Dieci

studenti universitari locali,

dotati di smartphone e

di una speciale app per

annotare nome, luogo e

coordinate gps di ogni

percorso e di ogni stop,

si sono imbarcati per mesi

sui matatu. O, nei quartieri

più pericolosi, a bordo di

auto che seguivano i bus.

Una volta raccolti, i dati

sono stati aggregati in

un formato compatibile

con Google Maps e gli

ingegneri di Mountain

View hanno adattato

i propri standard a un

sistema continuamente

variabile di orari, tragitti

e fermate.

F E D E R I C O B O N A

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A N T R O P O L O G I A , A R C H E O L O G I A , H O M O N A L E D I , T O M B E

G I A N L U C A D O T T I

Dai primi ritrovamenti

fossili del 2013 fino

all’annuncio ufficiale

arrivato nel settembre

2015, la cosiddetta Culla

dell’umanità − in Sudafrica,

vicino a Johannesburg,

patrimonio dell’Unesco

− ci ha riservato un’altra

sorpresa: una nuova specie

del genere Homo. La

grande famiglia dell’essere

umano si è allargata con

Homo naledi, che deve il

nome alla Camera delle

stelle sotterranea (Dinaledi

nella lingua locale) in cui

erano conservati i suoi

resti fossili. Il gruppo

di scienziati guidato da Lee

R. Berger dell’università

di Witwatersrand a

Johannesburg è riuscito

a riportare alla luce i resti

di quasi una ventina di

individui, tra bambini,

adulti e anziani. Si tratta

di una delle più importanti

scoperte scientifiche

dell’anno scorso e

probabilmente della più

rilevante del secolo in

antropologia, dal momento

che gli oltre mille fossili

recuperati sono un tesoro

senza eguali per ricostruire

un’immagine completa

di una specie di ominide.

Sull’età di questo nostro

antenato sappiamo per

ora pochissimo, tanto

che potrebbe risalire

a 3 milioni di anni fa ma

anche avere 100mila

anni. Una difficoltà nella

datazione che non potrà

essere risolta prima del

2017, causata sia dalla

mancanza di resti animali

nella caverna, sia dal

gran numero di reperti

di epoche differenti

ritrovati nello stesso luogo.

La posizione dei resti,

nella zona più remota

della caverna e a trenta

metri di profondità nel

sottosuolo, ha indotto

diversi antropologi

a pensare che questi

ominidi lasciassero

i morti in aree volutamente

poco accessibili.

Nonostante la sua età

incerta, di Homo naledi

abbiamo già un identikit

piuttosto preciso:

il maschio adulto era

alto circa un metro

e mezzo e particolarmente

snello (arrivava a stento

a 45 chilogrammi);

il suo cervello aveva

una forma poco evoluta

e dalle caratteristiche

primitive, grande appena

la metà rispetto a quello

dell’essere umano

moderno. Le mani

somigliavano a quelle

dell’Homo habilis ed erano

molto ricurve, suggerendo

che il nostro antenato

avesse eccezionali abilità

da arrampicatore ma anche

la capacità consolidata di

utilizzare degli strumenti.

Le altre caratteristiche

sono una singolare

mescolanza di tratti

primitivi e moderni:

la forma delle spalle

e le ossa del bacino,

per esempio, ricordano

quelli di scimmie

e australopitechi e hanno

un aspetto poco evoluto,

mentre le mascelle e i piedi

sono identici a quelli della

nostra specie e dimostrano

che Homo naledi era quasi

sicuramente in grado

di reggersi in piedi sulle

sue gambe affusolate.

E forse anche in grado

di camminare in posizione

eretta per lunghe distanze.

C O O R D I N A T E G P S

2 5 . 9 2 9 4 7 5 S , 2 7 . 7 6 7 1 3 3 E

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S C I E N Z A

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J O H A N N E S B U R G , S U D A F R I C A

L A C U L L A D E L L’ U M A N I TÀ

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B R C K , E N E R G I A S O L A R E , I N T E R N E T , R O U T E R , S C U O L A , W I - F I

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N A I R O B I , K E N Y A

I L K I T C H E C O N N E T T E L’A F R I C A

C A T E G O R I A

H I - T E C H

C O O R D I N A T E G P S

1 . 2 9 8 7 5 2 S , 3 6 . 7 9 0 7 5 2 E

“Connettere l’Africa”.

Dove l’abbiamo già

sentito? È uno dei progetti

più ambiziosi di Mark

Zuckerberg, che con

l’iniziativa Internet.org

vuole portare online − con

servizi di base che passano

dal suo social network − i

due terzi del mondo che

ancora sono offline. Attivo

già in alcuni paesi africani

come Zambia, Kenya e

Tanzania, lo scorso anno

è stato lanciato anche

in India. Poi c’è Google,

con il suo Project Loon,

progetto di ricerca e

sviluppo per portare la rete

in zone remote del pianeta

grazie all’uso di palloni

aerostatici. Ma “connettere

l’Africa” è anche l’idea che

sta alla base di un progetto

molto più piccolo e non

per questo meno

efficace: è Brck, modem

e router wi-fi senza fili

che può connettere fino

a 20 dispositivi, con

un’autonomia di 8 ore

senza essere collegato

alla corrente elettrica.

Lo hanno inventato in

Kenya alcuni membri

del team di Ushahidi,

l’applicazione di

crowdmapping più usata

al mondo, che ha sede

nell’iHub di Nairobi,

incubatore di startup

e spazio di coworking con

più di 16mila iscritti, cuore

pulsante dell’innovazione

tecnologica del continente

africano. Proprio negli

uffici di iHub, al fondatore

di Brck Erik Hersman, è

venuta l’idea di realizzare

un gadget che potesse

garantire la connessione

a internet in mancanza

di energia elettrica. In

un paese come il Kenya,

anche nella capitale, le

interruzioni di corrente

sono frequenti e, per chi

lavora nel mondo della

tecnologia, questo può

diventare un incubo. In

più, al di fuori delle aree

urbane le infrastrutture

per la rete veloce non sono

garantite, quando invece

l’accesso a internet può

essere proprio un punto

di forza e rilancio per

l’economia e l’occupazione.

Brck si pronuncia “brick”,

come mattone in inglese,

perché lo è sia dal punto

di vista del design che

della concezione: può far

parte di un sistema più

complesso, per esempio

diventando un mini

server quando connesso

a un computerino come

Raspberry Pi. Può

funzionare ovunque

ci sia una rete mobile,

essere ricaricato tramite

pannelli solari e ha fino

a 16 gigabyte di spazio,

utili per i backup di rete.

Dal 2013 a oggi sono più

di 2500 i pezzi venduti

in 54 paesi del mondo.

Brck è nato grazie a una

campagna di crowdfunding

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F E D E R I C O B O N A

D O N A T A C O L U M B R O

F . E R I K H E R S M A N

che ha raccolto 172mila

dollari da più di mille

donatori, ma può vantare

anche un investimento

di 3 milioni di dollari,

che lo mette nella top 5

delle startup africane più

amate dagli investitori.

A settembre, il team di

Erik Hersman e Juliana

Rotich, anche lei tra le

fondatrici di Ushahidi e

membro del consiglio di

amministrazione di iHub,

ha lanciato Brck Education:

un kit dedicato alle scuole

che contiene il modem

Brck, 40 tablet super

resistenti all’acqua e agli

urti, già pieni di ebook

e materiali di formazione

cui si può accedere

tramite una rete locale

installata offline e un

caricatore a pannelli solari.

Tutto questo permette a

qualsiasi insegnante

di creare una classe

digitale in pochi minuti.

Da una sperimentazione

in una prima scuola di

Nairobi, ora il kit Brck

Education è arrivato

in Tanzania, e, con l’aiuto di

fondazioni come la African

Wildlife Foundation,

il progetto sbarcherà

anche nelle scuole delle

aree rurali di Etiopia,

Repubblica democratica

del Congo e Uganda.

P A R O L E C H I A V E

E N E R G I A , M A D E I N C H I N A , T R A F F I C O

R I V I N C I TA M E T R O P O L I TA N A

C O O R D I N A T E G P S

8 . 9 8 0 8 6 6 N , 3 8 . 7 5 7 7 3 7 E

C A T E G O R I A

T R A S P O R T I

L U O G O

A D D I S A B E B A , E T I O P I A

Trentaquattro chilometri

e duecentocinquanta metri:

tanta è la distanza coperta

dalla nuova metropolitana

leggera di Addis Abeba,

la prima di tutta l’Africa

sub-sahariana. Composta

da 39 stazioni è stata

realizzata in appena 3 anni.

È divisa in due linee: la blu,

inaugurata il 20 settembre

2015, che collega zona

industriale del sud della

città a piazza Menelik II,

al centro, e la verde, che

ha debuttato il 9 novembre

2015 e corre da est (Ayat)

a ovest (Tor Hailoch). Un

capolavoro di tecnologia

ed efficienza, reso possibile

dalla combinazione tra

un’economia, quella etiope,

che corre a tassi di crescita

intorno al 10% ormai

da quasi un decennio,

e grandi investimenti

cinesi. L’intera opera,

infatti, è stata realizzata

dalla China Railway

Engineering Corporation

e i 475 milioni di dollari

necessari sono stati

garantiti per l’85% dalla

Export-Import Bank of

China. Anche la gestione

delle linee e dei servizi,

per i primi tre anni e

mezzo, sarà tutta cinese:

la Shenzhen Metro Group

ha già inviato il proprio

personale, che avrà il

compito, durante questo

periodo, di istruire

e addestrare manager

e tecnici locali.

La sfida tecnologica più

importante? Garantire

i 160 megawatt di energia

elettrica necessari al

servizio, grazie a una

rete dedicata che

prevede quattro snodi

agli estremi delle linee.

Non per niente,

l’Etiopia sta lavorando

intensamente per

integrare le proprie risorse

energetiche e, dopo

il parco eolico di Adama,

inaugurato l’anno scorso,

è stato il turno della

centrale idroelettrica

Gibe III, che ha quasi

raddoppiato la potenza

disponibile per il

paese. L’impatto della

metropolitana è stato

positivo: nel primo mese,

circa 200mila passeggeri

al giorno sono saliti su

uno dei 41 treni, pagando

un biglietto che costa

6 birre (circa 0,26 euro)

e decongestionando

il traffico.

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Q U A D R A N T E M A P P A

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P A R O L E C H I A V E

A K O N , C A L C I O , E N E R G I A C I N E T I C A , S H E L L

G A B R I E L E L I P P I

Provate a far rotolare un

pallone e vedrete che la

gente gli correrà dietro.

Pensate ora di poter

utilizzare tutto quello

sforzo per illuminare

un campo, una strada,

magari un intero quartiere.

Ora lasciate da parte la

fantasia, perché qualcosa

del genere esiste già.

Si trova in Nigeria,

all’interno del Federal

College of Education di

Akoka, a Lagos, ed è un

campo da calcio che riesce

a combinare l’energia

solare a quella cinetica.

In tre hanno contribuito

alla sua realizzazione:

il gigante energetico

Shell, la star dell’hip hop

Akon (americano ma

di origini senegalesi) e

Pavegen, una startup

britannica non nuova a

questo genere di imprese,

che già nel 2012 riuscì a

garantire l’illuminazione

di un marciapiede a

Londra attraverso l’energia

prodotta da chi

ci camminava sopra.

Agli ormai tradizionali

pannelli solari si

aggiungono un centinaio

di piastrelle posizionate

sotto il manto erboso,

piazzate nelle zone

strategiche in cui è più

frequente il passaggio

dei giocatori in azione,

capaci di trasformare i

movimenti dei calciatori

in corrente elettrica,

producendo fino a 7

watt per ogni passo.

Il risultato è un campo

in grado di garantire

l’illuminazione stradale per

24 ore o immagazzinare

energia per usi futuri.

La scelta del luogo non

è stata casuale, ma

mirata alla realizzazione

di un progetto sociale.

La comunità di Akoka,

infatti, non ha luce né

luoghi di aggregazione e

socializzazione notturna.

Si tratta solo di un primo

passo, perché se il risultato

su un campo da calcio può

sembrare straordinario,

non è difficile immaginare

l’efficacia che la stessa

tecnologia potrebbe avere

se applicata ai marciapiedi

e ai pavimenti di scuole

e centri commerciali

delle metropoli.

L’Unione africana ha già

previsto investimenti da

venti milioni di dollari per

le energie rinnovabili nel

prossimo decennio e lo

sviluppo di questa nuova

tecnologia potrebbe

rappresentare un ulteriore

passo avanti. «Il progetto

mostra come il futuro delle

rinnovabili sia combinare

il potere dell’energia

cinetica e di quella solare»,

ha spiegato il fondatore

di Pavegen, Laurence

Kemball‑Cook.

L’iniziativa ha però

sollevato diversi dubbi:

la quantità di elettricità

prodotta sarà sufficiente

a compensare i costi della

tecnologia utilizzata?

E quelli per il suo trasporto

sul luogo? Non è forse

meglio puntare su energie

rinnovabili già collaudate

e avanzate come il solare

e l’eolico? La startup

inglese ha già risposto

ad alcune delle critiche,

affermando che il prezzo

delle piastrelle è già stato

abbassato notevolmente,

e se prima era il 500% in

più rispetto a quello del

normale pavimento di

un centro commerciale

africano, ora è superiore

di appena il 20%. Un

investimento che, dunque,

potrebbe davvero avere

un senso.

L U O G O

L A G O S , N I G E R I A

C O O R D I N A T E G P S

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U N C A M P O C H E P R O D U C E E N E R G I A

C A T E G O R I A

S P O R T

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BEVI DIPLOMATICO RESPONSABILMENTE

IMPORTATO DA COMPAGNIA DEI CARAIBI

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Non è solo un’altra stampante laser monocromatica:

Maggiori possibilità, maggiori profitti. Documenti di alta qualità, bassi

costi di manutenzione e una velocità di stampa e scansione che arriva a 50 pagine per minuto: la nuova gamma professionale Brother di

stampanti laser monocromatiche apre opportunità enterprise prima

impensabili. Brother, da sempre all’avanguardia nel mercato delle

laser monocromatiche, ha progettato la linea secondo un nuovo modo

di pensare il business delle aziende: abbassare i costi mantenendo volumi elevati di stampa e qualità senza compromessi, e rendendo

ogni operazione facilmente gestibile dai gruppi di lavoro. Per fare

della stampante, la spina dorsale degli uffici di grandi dimensioni,

uno strumento in grado di generare nuovi profitti. Sono tredici i modelli della gamma, tutti dotati delle soluzioni tecnologiche Brother

più avanzate in fatto di stampa, scansione, copia e fax. L’affidabilità certificata e la possibilità di creare soluzioni di stampa esclusive, grazie a una piattaforma software a interfaccia aperta, rendono possibile

una maggiore produttività e un controllo totale sul flusso di lavoro. Brother non produce solo stampanti, ma si propone come partner

per sviluppare progetti e soluzioni ad hoc e fornire servizi di assistenza

tecnica, garantendo un supporto completo alle aziende per una

migliore gestione dei processi di stampa.

è un nuovo modo di pensare.

AFFIDABILITÀ A LUNGO TERMINE

Le nuove laser

mono, dalla

qualità costruttiva

ancora migliorata,

sono garantite

per prestazioni

ottimali più

durature, con un

volume di stampa

mensile massimo

di 150.000 pagine.

STAMPA MOBILE

PrintSmart Mobile, soluzione basata su

cloud, offre la possibilità

di stampare da qualsiasi

dispositivo mobile in modo

rapido e sicuro, un sistema

ideale per le aziende con

personale in movimento.

NFC, utilizzabile anche

per la stampa diretta da

dispositivi mobile Android

compatibili.

www.brother.it

FACILITÀ D’USO

I nuovi pannelli

touch a colori

da 12,3 pollici

aumentano

le possibilità

di controllo

dei processi

di stampa.

L’interfaccia BSI (una novità in

questa classe

di stampanti)

permette

una facile

implementazione

di software

su misura e la

distribuzione

su una ampia

gamma di

dispositivi. E la

tecnologia NFC,

solitamente

impiegata per

uffici di livello superiore, è ora

alla portata di

tutti.

ALTA PRODUTTIVITÀ

Il nuovo

processore

Cortex-A9 a

800 MHz, con

memoria da 1

GB, permette un

tempo di stampa

della prima pagina

inferiore ai 7,5

secondi e una

elevata velocità di

stampa fino a 50 pagine al minuto.

La capacità di

carta in ingresso

arriva a 2650 fogli

e quella in uscita

a 1050, grazie

all’unità mailbox

opzionale.

SICUREZZA

Per soddisfare le

esigenze aziendali

sui massimi livelli

di sicurezza,

Brother ha

integrato i sistemi

Active Directory,

Secure Function Lock 3.0 e Internet

Protocol, oltre

alla connettività

NFC per

l’autenticazione e

l’accesso sicuro

degli utenti.

FLUSSO DI LAVORO MIGLIORE

I gruppi di lavoro dagli

elevati volumi di attività

possono trarre vantaggio

dal supporto ai diversi

formati, dalla scansione

fronte-retro ad alta velocità,

dalla connessione ai

servizi basati su cloud

(Microsoft SharePoint) e dai report professionali e

personalizzabili.

COSTO DI GESTIONE CONVENIENTE

La nuova gamma

Brother lavora

con toner ad

altissima capacità

(20.000 pagine),

tamburo da

50.000 pagine e

fusore da 200.000

pagine. Il software

PrintSmart offre

una visibilità

completa del

comportamento

degli utenti

aziendali, per il

contenimento

dei costi e una

migliore efficienza operativa.

Page 147: Wired_Marzo 2016.pdf

Con Brother al vostro fianco, le possibilità sono infinite.

P E R B R O T H E R

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Guangzhou

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Tel Aviv

Sagarmatha National Park

Hengdian

Suzhou

Tokyo

Amman

Hatzeva

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Bangalore

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TESTO DI

CLIVE THOMPSON

CAPITOLO 5

ASIA

QUADRANTE MAPPA

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BASTA IMITARE L’OCCIDENTE: IN CINA DECINE

DI MIGLIAIA DI GIOVANI INNOVATORI

E IMPRENDITORI NON CERCANO PIÙ LAVORO

IN GOOGLE O APPLE MA VOGLIONO CREARE

LA PROSSIMA GOOGLE E LA NUOVA APPLE

LUOGO

GUANGZHOU, CINA

COORDINATE GPS

23.141117 N, 113.275889 E

TRADUZIONE DI

MICHELE PRIMI

FOTO DI

ZACHARY BAKO

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o Wengang, un giovane programmatore, ha un’idea e tutti pensano che sia matto. Ap-

pena uscito dal college, ha trovato lavoro a Guangzhou, l’enorme città sul delta del

Fiume delle Perle, in una società chiamata YY: vanta oltre cento milioni di utenti che,

ogni mese, trasmettono in streaming o seguono le trasmissioni di altri mentre canta-

no, giocano ai videogame e conducono talk show dai loro appartamenti di Pechino. Il

pubblico interagisce con messaggi vocali o scritti.

Anche se YY funziona bene, Mo pensa che sia il momento di provare qualcosa di nuovo, di usa-

re quell’efficiente tecnologia streaming per un servizio di dating. Dovrà funzionare come uno show

televisivo: il conduttore crea un salotto virtuale poi invita dei single e li convince a scambiarsi infor-

mazioni per trovare, forse, un partner. I suoi superiori sono dubbiosi: «L’amministratore delegato ha

quasi cestinato l’idea», dice il chief financial officer Eric Ho nel suo ufficio nella sede della YY, un edifi-

cio a tre piani pieno di ingegneri e designer che digitano furiosamente codici su codici. «Sei sicuro di

volerlo fare?», chiede al ragazzo. «A me pare una cosa stupida, non credo che alla gente piacerà». Mo

Wengang però è convinto e insistente, quindi gli dicono di provare.

In Cina, fino a dieci anni fa, impiegati così non esistevano. Gli osservatori tecnologici, non a

caso, lamentavano nel Paese la mancanza di innovatori coraggiosi. C’erano società che facevano otti-

mi profitti, com’è ovvio, ma raramente osavano correre rischi e provavano a essere creativi. Si limi-

tavano a imitare la Silicon Valley: Baidu era una copia di Google, Tencent di Yahoo, JD una versione

cinese di Amazon. La preparazione e le capacità dei programmatori cinesi non erano seconde a quelle

di alcuno, ma nessuno aveva la spinta innovativa di un Mark Zuckerberg o di uno Steve Jobs. Quel

mantra così West Coast, «sbaglia in fretta e sbaglia spesso», che li aveva guidati nella creazione di

prodotti sempre migliori, era del tutto estraneo e considerato un gravissimo pericolo da intere ge-

nerazioni di giovani formati in un rigido sistema educativo, basato su apprendimento mnemonico e

punizione severa degli errori.

laureati cinesi aspiravano a un posto di lavoro in una grande, solida azienda. Il loro

obiettivo era la stabilità. Le città erano appena uscite da decenni di povertà e la cam-

pagna perlopiù doveva ancora farlo. Meglio tenere la testa bassa, non rischiare. Un

atteggiamento che oggi sta cambiando, spazzato via da un aumento della prosperi-

tà che ha alzato il livello di consapevolezza e coraggio tra i giovani urbani esperti di

tecnologia. Nel 2000, solo il 4% dei cinesi apparteneva alla classe media (cioè con un

reddito annuo compreso tra 9 e 34mila dollari); nel 2012 la percentuale è salita a due terzi della popo-

lazione. Anche l’istruzione di livello secondario è cresciuta al ritmo di 7 milioni di diplomati all’anno.

Risultato: è emersa una generazione creativa e allo stesso tempo pronta a correre dei rischi.

«Ci sono ragazzi di appena vent’anni che fondano aziende. Alcuni sono appena usciti dal college, altri

nemmeno hanno completato gli studi», dice il venture capitalist Kai-Fu Lee, un veterano di Apple,

Microsoft e Google che nel corso dell’ultimo decennio ha attraversato il Paese in lungo e in largo per

sostenere le giovani imprese. Oggi le maggiori città della Cina sono piene di ambiziosi innovatori e

imprenditori che si riuniscono negli hackerspace e negli acceleratori. Giovani che non cercano più

lavoro da Google o Apple: vogliono creare la prossima Google e la prossima Apple. Chiunque abbia

un’idea promettente e un po’ di esperienza, trova i fondi necessari a realizzarla. L’anno scorso nelle

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startup cinesi è stata pompata la cifra record di 15,5 miliardi di dollari; gli imprenditori sono lette-

ralmente coperti di denaro, mentoring e consigli da parte di investitori milionari (anche se è solo

una piccola fetta della torta del venture capital americano, arrivata nel 2014 a 48 miliardi di dollari,

a essere destinata alla Cina).

Persino il governo di Pechino, molto diffidente verso la rete e a capo di un vasto apparato di

censura online, ha creato un fondo di 6,5 miliardi per le startup; visto il rallentamento della crescita

economica dopo quasi due decenni di espansione vertiginosa, il Partito cerca opportunità per creare

nuovi posti di lavoro. Il settore tecnologico serve perfettamente il bisogno. Il nuovo boom comprende

sia i servizi online che la produzione di hardware. Recenti successi come Xiaomi, la compagnia tele-

fonica mobile della capitale, o WeChat, l’app di social networking di Tencent che sta conquistando il

mondo, funzionano da apripista. Le società cinesi godono di vantaggi evidenti rispetto a quelle stra-

niere, quali la familiarità con i gusti e le abitudini locali, per esempio; o la possibilità di collegamento

a un sistema produttivo di primo livello (creato per soddisfare proprio le esigenze delle compagnie

occidentali) e la vicinanza con i mercati che nel mondo crescono più velocemente, come l’India e il Sud

Est asiatico. Questa combinazione di fattori le mette in condizione di battere l’Occidente sul suo stes-

so campo. Non a caso, l’anno scorso Xiaomi è stata la compagnia di telefonia mobile che ha venduto di

più al mondo, subito dopo Samsung, Apple e Huawei.

er YY, tollerare l’intraprendenza del giovane programmatore è stata una decisione

azzeccata. Il servizio di dating, lanciato nel corso del 2014, è stato un sorprendente

successo e produce notevoli profitti. Il colosso di Guangzhou non ha pubblicità, genera

entrate solo quando gli utenti comprano oggetti virtuali (pagati con soldi veri) da re-

galare ai broadcaster che mettono in streaming la loro vita: i più celebri guadagnano

veramente tanto, al punto di riuscire a mantenersi grazie a YY che, da parte sua, si

tiene il 60% di ogni acquisto e versa al beneficiario il resto in contanti.

Osservo il laptop di Eric Ho e vedo come si sviluppa un incontro. I soldi volano, mentre l’uomo

e la donna si scambiano regali virtuali: anelli (1 dollaro e 55 centesimi), baci (16 centesimi) e lettere

d’amore (5 centesimi). Ci sono anche doni più costosi: per circa mille dollari puoi regalare a qualcuno

una Lamborghini virtuale. Nei primi nove mesi, nelle casse di YY sono entrati 16 milioni di dollari,

somma che cresce rapidamente. L’intera società ha guadagnato 580 milioni, e tre anni dopo essere

stata quotata al Nasdaq il valore di mercato supera i 3 miliardi, nonostante gli sbalzi subiti dal mer-

cato nel corso del 2015. La prossima Silicon Valley è arrivata, e si trova in Oriente.

Il boom tecnologico di fine anni ’90 ha regalato alla Cina il suo web 1.0: motori di ricerca, stru-

menti per la comunicazione via email e blog, nuovi portali e l’enorme sito di ecommerce Alibaba. A

quel tempo, Pechino aveva bisogno di creare copie pressoché esatte delle grandi società america-

ne perché per le aziende straniere operare nel paese era tutt’altro che facile, visto che il governo

bloccava i siti esteri usando un complesso sistema di filtri noto come “Il Grande Firewall cinese”. Le

imprese locali, inoltre, avevano un vantaggio: comprendevano le particolari esigenze dei “digerati”

(digital+literati, termine con cui John Brockman, nel libro omonimo, indica l’élite della computer in-

dustry e delle online community, ndr) cinesi dei primi anni del terzo millennio, quando l’accesso alla

rete era ancora scarso.

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Un esempio: dieci anni fa eBay ha provato a conquistare la Cina e ha fallito, anche perché molte

attività locali (che in altri paesi avrebbero usato eBay per vendere nel mondo) non avevano la con-

nessione a internet. Nemmeno un computer, a volte. Il fondatore di Alibaba, Jack Ma, l’ha capito e ha

creato una forza vendita sparsa su tutto il territorio per insegnare a ogni singolo venditore come con-

nettersi; poi ha surclassato il sistema PayPal, usato da eBay, con il suo Alipay, che tiene il pagamento

in garanzia finché il compratore non ha ricevuto la merce e si è dichiarato soddisfatto. Mossa che ha

contribuito a creare fiducia nel sistema degli acquisti online.

Cavalcando l’onda, Baidu e Alibaba sono diventati i “grandi dragoni” cinesi e hanno creato una

miriade di milionari, come già aveva fatto Microsoft negli Anni ’90. Poi, dal 2000 in poi, il successo

delle aziende-fotocopia ha aperto la strada ai “piccoli dragoni”, società creative del web 2.0 venute

fuori dal nulla. Le prime, dunque, hanno fornito un modello di riferimento e, più importante, hanno

costruito le infrastrutture cruciali per il boom tecnologico, tra cui i servizi di cloud che permettono a

qualsiasi ventenne di lanciare un’attività da un giorno all’altro e iniziare subito a fatturare.

eituan è fra le realtà di maggior successo di questa seconda ondata. È diventata un

gigante dell’ecommerce perché ha saputo dare ai piccoli commercianti − se registrati

sul suo sito o attraverso una app mobile − la possibilità di mandare offerte ai compra-

tori più vicini. Il quartier generale di Pechino sembra una foresta tropicale, con gran-

di piante verdi fra le postazioni di lavoro e condizionatori che muovono lentamente

nuvole d’aria umida. C’è un profondo silenzio, girano tanti soldi. Sulla testa di decine

di programmatori, uno schermo grande come un tavolo segna 8309, cioè il numero di affari conclusi

solo oggi. Nei primi cinque anni di vita, le statistiche di Meituan sono balzate alle stelle: nel 2014 ha

processato transazioni del valore di 7 miliardi di dollari per i suoi 900mila partner, ed entro la fine

del 2015 conta di raggiungere quota 18,5 miliardi.

Wang Xing, il cordiale ed elegante amministratore delegato, è un imprenditore esperto che ha

seguito da vicino il cambiamento creativo delle startup cinesi. Aveva già lavorato alla realizzazione

di cloni di Facebook e Twitter, poi nel 2008 ha notato l’ascesa rapida di Groupon: «Ci ha influenzato,

senza dubbio», ammette. Era già abbastanza esperto da notare i difetti di quel modello di business,

che tratteneva per sé larga parte del ricavo di ogni transazione, lasciando insoddisfatti i venditori: a

ragione, visto che perdevano soldi a ogni offerta. Ma stringevano i denti sperando – perlopiù invano

– che il sistema procurasse loro clienti fissi. A Wang, invece, interessava che Meituan diventasse per i

piccoli commercianti il modo più facile per trarre profitto dai clienti e rimanere in contatto con loro;

quindi ha fissato la percentuale di profitto al 5%, in modo che comunque guadagnassero.

Ha anche iniziato a sviluppare una tecnologia proprietaria per l’ecommerce; sul cellulare, mi

mostra alcuni esempi. I suoi uomini hanno raggiunto i cinema di tutto il paese e collegato a Meituan il

sistema di prenotazione dei biglietti; oggi il pubblico può non solo comprarli sul sito della società, ma

anche scegliersi il posto. Clicca su Lo Hobbit: «Non devi aspettare in coda, non sei costretto a parlare

con qualcuno: ti avvicini alla macchina e scansioni il codice». Elegante, semplice. Oggi un terzo di

tutti i biglietti vengono acquistati su Meituan, pari al 10% del fatturato 2014.

Una mossa astuta, visto che oggi la classe media cinese ha crescenti necessità di servizi e ri-

sparmio. Sono persone, vestite all’ultima moda europea, che estraggono costosi cellulari per fare

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praticamente qualsiasi cosa: pagare con Alipay il taxi fino a un festa in una zona bohémienne della

periferia di Pechino, indicare su WeChat la propria posizione in modo che gli amici possano raggiun-

gerli, postare selfie su Meitu, un servizio di condivisione foto con filtri di bellezza incorporati. Nel

2013, questa borghesia ha destinato ai servizi il 44% delle proprie spese annuali, quota che secondo

gli esperti di McKinsey salirà al 50 entro il 2022.

I giovani abitanti delle città useranno i telefonini per fare spese folli e comprare qualsiasi cosa,

dai massaggi al cibo a domicilio, dalle sedute dal parrucchiere a quelle nei beauty salon. Anche il crol-

lo di mercato del 2015 non sembra aver frenato i consumi. A ottobre durante la festa nazionale della

“Settimana d’oro”, in cui i cinesi per tradizione vanno tutti in vacanza, le prenotazioni sono salite del

70% rispetto all’anno precedente e a parere degli analisti di Merrill Lynch e Bank of America i viaggi

all’estero sono aumentati del 36,6.

ecommerce, già piuttosto forte in Cina, ha possibilità di crescita impressionanti, an-

che perché un numero enorme di servizi non è ancora in rete. Un esempio? Solo un

quinto delle stanze d’albergo viene prenotato online. La gente desidera l’ecommerce

non solo per la convenienza, ma anche perché è più trasparente e meno corrotto delle

attività legate a strutture aziendali fisiche. Kai-Fu Lee sottolinea che queste ultime

sono, per gli standard americani, infestate dall’inefficienza e da una politica di vendita

da imbonitori d’assalto: «Negli Stati Uniti, secoli di concorrenza leale hanno dato vita a un sistema di

commercio onesto, limpido», ma in Cina non è così. «Se vuoi vendere una proprietà immobiliare non

c’è trasparenza. Se vuoi comprare un’auto di seconda mano, non trovi consulenti come Ralph Nader

o servizi come Consumer Report...». Eliminando gli intermediari e creando un sistema basato sulla

reputazione, le aziende di ecommerce rendono le transazioni più sicure: «E una soluzione basata sulla

tecnologia mobile sarebbe addirittura migliore», aggiunge Lee.

La corruzione è solo una delle grandi sfide che la Cina deve affrontare e vincere. Gli investitori

sono costretti a vedersela anche con un sistema bancario non trasparente, con garanti delle leggi cor-

rotti, con un inquinamento dilagante, un recente giro di vite sul dibattito politico e una popolazione

rurale desiderosa di trovare lavoro in città. Il Partito comunista sarà in grado di risolvere tutti questi

problemi? Non è chiaro a tutt’oggi. Nel breve periodo, comunque, la febbre dell’oro tecnologico ha

creato una competitività feroce: appena si inaugura una nuova categoria di prodotti, l’offerta si spar-

ge a macchia d’olio e istantaneamente fra decine − spesso centinaia − di imprenditori. In confronto,

quella in America è minima. Un esempio? Ci sono solo due società, Uber e Lyft, che fanno a botte per

contendersi il settore dell’autonoleggio.

Lee stima che Meituan abbia dovuto combattere contro almeno tremila concorrenti sparsi per

tutto il paese: chi riesce a rimanere in piedi, come Wang, diventa più agguerrito. A metà strada fra

la vecchia e la nuova guardia, si è trasformato anche lui in un investitore alla ricerca di giovani con

idee coraggiose da trasformare in nuovi “piccoli dragoni”. Una delle società su cui sta investendo si

chiama eDaijia: è un servizio che consente di trovare qualcuno che guidi la tua auto quando hai bevu-

to troppo. «Sono già una potenza qui da noi e l’anno scorso si sono allargati a Seoul», mi dice con una

risata. «Pare sia la città al mondo in cui la gente si ubriaca di più». La Cina dunque vive un notevole

boom dei servizi via web, ed è in vantaggio rispetto all’America anche dal punto di vista dell’hardwa-

L’

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re. Negli ultimi 30 anni è diventata il centro manifatturiero del mondo: oggi città della costa come

Shenzhen e Guangzhou traboccano di attività legate all’elettronica, dai piccoli negozi gestiti da tre

persone allo stabilimento Foxconn, in cui 30mila dipendenti producono gli iPhone. Gli imprenditori

locali hanno una profonda competenza sulla realizzazione di oggetti di ogni tipo, conoscono il mer-

cato dell’elettronica e vivono vicino alle fabbriche: sono i primi a scoprire nuovi trend. Per esempio,

se è in arrivo un sensore che permette di raccogliere diversi tipi di dati o se il costo di un altro crolla

fino a un centesimo, finendo per spargersi ovunque come polvere.

n Cina è più facile che altrove perché c’è Shenzhen», mi dice Robin Han, co-fondatore

di Zepp Labs. È una startup di Pechino adorata dagli sportivi. Produce un sensore che

traccia il vostro colpo (di mazza da golf e da baseball o di racchetta da tennis), poi usa

un’app dell’iPhone che vi consente di migliorarlo.

La febbre dell’imprenditoria l’ha conquistato cinque anni fa mentre, termina-

to il dottorato di ricerca, lavorava alla sede di Microsoft nella capitale. La vita nelle

grandi aziende è sicura e stabile, ma rischi di passare anno dopo anno a elaborare e a perfezionare

progetti che potrebbero non diventare mai dei prodotti. «Il successo è comunque fuori dalla tua pos-

sibilità di controllo», mi dice, mentre dietro a lui due dozzine di programmatori e designer digitano

sulle tastiere. Han aveva previsto che i giroscopi usati nei telefoni Htc e Hp, oltre che nelle console

Nintendo Wii, sarebbero scesi di prezzo dato che le grandi aziende continuavano a inserirli nei loro

prodotti. Quindi ha intravisto un potenziale.

Lui e il suo amico Peter Ye (oggi capo del dipartimento ricerca e sviluppo della Zepp) sono ap-

passionati di sport e hanno subito pensato a un sensore con cui i giocatori fossero in grado di analiz-

zare i propri movimenti per confrontarli con quelli dei professionisti; e i trainer potessero esaminare

anche a distanza la preparazione di un’intera squadra. Hanno iniziato dal golf, immaginando che

i più incapaci sarebbero stati disposti a spendere molto per un sensore che consentisse loro di mi-

gliorare. Mi portano nel sotterraneo, dove hanno costruito una grande gabbia da pratica: «Qui sotto

abbiamo passato ore e ore a perfezionare i sensori e a fare pratica», dice Han. Le pareti sono costellate

dai segni dei colpi sbagliati.

Il prototipo funzionava talmente bene che ha attirato l’attenzione di un rappresentante di Ap-

ple che girava in lungo e in largo la Cina alla ricerca di nuovi prodotti. Per soddisfare i precisi canoni

estetici della casa di Cupertino, però, Han e Ye hanno dovuto raffinare il design e fare altri 14 proto-

tipi, ma alla fine lo sforzo è stato ripagato: da quando, nel 2012, sono usciti nell’Apple Store in tutto il

mondo, Zepp ne ha attivati circa 300mila.

Han e Ye hanno fatto partire Zepp Labs con un investimento di 1,5 milioni di dollari da parte

dell’investitore “informale” Xiao Wang e hanno sfruttato i loro contatti per scovare una buona fab-

brica in cui creare il prototipo e attivare la produzione di massa. Quest’ultimo passo − trovare un’in-

dustria al livello di Foxconn − in Cina è da sempre un problema; negli ultimi anni però la situazione

è migliorata grazie a una serie di intermediari che si sono attivati per chiudere il gap. Il programma

Highway1, per esempio, lanciato dal gigante manifatturiero Pch, sceglie in tutto il mondo i migliori

inventori di gadget e trova fabbriche di alto livello disposte ad assumersi il rischio di costruire i pro-

dotti creati da questi sconosciuti talenti emergenti.

«I

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C A P. 5 / A S I A

1 5 9

15 8

Poi ci sono gli hackerspace. Il primo, chiamato XinCheJian, è nato a Shanghai nel 2010. L’im-

prenditore David Li l’ha fondato dopo che la riduzione dei prezzi degli strumenti di prototipazione

aveva permesso a tutti gli inventori amatoriali di creare campioni di qualità sempre più alta. Ora

arrivano da tutta la Cina e si mischiano con altri rientrati da esperienze all’estero. L’imprenditore

organizza anche visite nelle fabbriche per aiutarli a capire il funzionamento dell’ecosistema locale.

È come una palestra: i soci di XinCheJian pagano una quota mensile per avere accesso agli

strumenti dell’hackerspace e, cosa più importante, al network. «Mi piace incoraggiare le persone:

create il vostro prototipo in fretta, cercate dei produttori che entrino in società con voi e portate a

termine la campagna su Kickstarter», mi dice Li, seduto davanti a un frigorifero su cui campeggia

un adesivo con scritto: «Fate stronzate epiche». Le stanze di XinCheJian sono piene di torni per me-

tallo, parti elettriche e file di stampanti 3D. Le cuffie Wearhaus, che consentono di inviare musica in

streaming dal proprio cellulare ad amici, compagni di studio o colleghi, sono un prodotto di successo

emerso recentemente proprio da qui. La prima fornitura di tremila pezzi è andata esaurita, una se-

conda più consistente è già in produzione.

l vertice del boom del settore tecnologico cinese risiede in quattro torri di uffici alla

periferia di Pechino, che incombono su una distesa di condomini. È il quartier gene-

rale di Xiaomi, azienda fondata nel 2010 e diventata celebre per aver creato telefonini

comparabili all’iPhone (con processori molto veloci, schermi di grandi dimensioni e

un impeccabile sistema operativo chiamato Miui) che però costano la metà. È famosa

anche per aver scelto di vendere soprattutto online e per la crescita esplosiva: l’anno

scorso ha venduto 61 milioni di apparecchi e, per buona parte del 2015, è stato il marchio di telefonia

mobile leader in Cina. Secondo gli investitori, l’anno scorso valeva 45 miliardi di dollari.

È il perfetto esempio di azienda privata nata dall’esperienza di un imprenditore che dieci anni

fa ha potuto commettere i suoi primi errori e su quelli creare una fortuna. Lei Jun, amministratore

delegato di Xiaomi, aveva creato e poi venduto ad Amazon un rivenditore di libri online chiamato

Joyo; quindi è diventato un investitore e ha scommesso sulla prossima generazione di innovatori,

stringendo contatti con i più brillanti giovani designer e ingegneri del paese.

Nel 2010, quando già si era affermato un nuovo modello di vendita nel settore della telefonia

mobile, ha creato Xiaomi, ha arruolato un team di talenti, ha prodotto in breve tempo un bellissimo

sistema operativo e ad agosto l’ha messo in rete. Gli appassionati di tecnologia l’hanno subito amato,

ma solo i nerd avevano voglia di scaricare l’ennesimo sistema operativo, potenzialmente insidioso,

sui loro apparecchi: quindi Xiaomi ha capito di dover produrre e vendere i propri telefoni. Si è appog-

giato a Foxconn e nel frattempo ha messo a punto un sistema di vendita molto efficace: ogni nuovo

modello viene messo in vendita in quantità limitate, tipo 50mila unità, con una flash sale settimanale

sul sito dell’azienda. L’esclusività fa impazzire gli appassionati; i pochi fortunati che riescono a pro-

curarselo lo mostrano agli amici hipster invidiosi mentre Xiaomi ne ha già lanciato sul mercato un

altro, per soddisfare la domanda generale.

Il suo ufficio è luminoso e decorato con grandi quadri. C’è anche un cane randagio adottato dai

dipendenti, che dorme in una cuccia al primo piano. Una rampa di scale più in alto, gli operatori del

customer service cercano di risolvere i problemi di utenti sparsi in tutto il mondo. Perché il mercato

I

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W I R E D / P R I M AV E R A 2 01 6

RO

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XIAOMI, FONDATA NEL 2010, HA PRODOTTO

TELEFONINI COMPARABILI ALL’IPHONE. NEL 2015

HA VENDUTO 61 MILIONI DI PEZZI: SECONDO GLI

INVESTITORI, VALE 45 MILIARDI DI DOLLARI

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C A P. 5 / A S I A

1 6 1

16 0

più importante di Xiaomi è la Cina, ma nel 2013 l’azienda ha assunto Hugo Barra, ex product manager

di Google e Android, per gestire l’espansione globale. «Questi sono i cellulari di una generazione che

non avrà mai accesso a un computer e che scopre internet attraverso il telefono», spiega. Il vantag-

gio di Xiaomi, aggiunge, consiste nel produrre in continuazione nuovi aggiornamenti. «Costruiamo

hardware con un approccio software e aggiorniamo il software ogni settimana». Per esempio ren-

dendo visibili i feedback dei fan più appassionati: ogni post lanciato dal team sui forum dell’azienda

può ricevere fino a 100mila risposte, con interminabili discussioni sulle ultime modifiche del sistema

operativo. La disponibilità a comunicare con i clienti è un fattore cruciale per capire le esigenze dei

più giovani e coltivarne la devozione maniacale.

Xiaomi, che vende i propri telefoni praticamente a prezzo di costo, guadagna grazie ad accesso-

ri come le cuffie, il contapassi da polso o le interfacce grafiche del sistema operativo vendute nell’app

store. La speranza è che altre entrate arrivino dalle transazioni di utenti che comprano qualsiasi

cosa, dai pasti ai biglietti aerei, ai vestiti. Ma per scoprire la visione del futuro dell’azienda bisogna

scendere al piano di sotto, nel sobrio ed elegante showroom pieno di gadget della internet of things,

tutti utilizzabili in remoto, che l’azienda immette sul mercato. Una piccola lampadina, una webcam

connessa, una bilancia, una televisione, una presa di corrente multipla e un depuratore d’aria, sem-

pre più fondamentale in una nazione dove l’inquinamento è fuori controllo. Se acquisti uno di questi

prodotti, dice Barra, comprerai anche gli altri, perché lavorano benissimo insieme. «Il gioco, in Cina,

è costruire giardini recintati e poi fare in modo che la gente venga nel tuo giardino».

Xiaomi non ha progettato e prodotto tutto questo hardware da sola. I dirigenti sono andati a

caccia delle startup più innovative del paese, hanno investito e richiesto che producessero con un

design al livello di quello di Apple. È sorprendente vedere come questo ecosistema si espanda: il ter-

mostato con telecamera incorporata Nest, primo tentativo di Google di entrare nella internet delle

cose, sembra di un’altra epoca. In altre parole: la nuova generazione di creativi cinesi ha dimostrato

di essere pronta a competere con i marchi più importanti. «Apple e Samsung fanno bene a essere

preoccupati», dice l’hacker Nunie Huang. Infatti la quota di Samsung nel mercato globale degli smar-

tphone è calata dal 32,2% del 2012 al 21,4 del secondo quarto del 2015.

uando si parla di hardware, gli inventori cinesi beneficiano della vicinanza con la base

di consumatori più grande del mondo, in rapida crescita. La prima espansione all’este-

ro di Xiaomi è stata verso l’India, più grande e più povera degli Usa: nella seconda par-

te del 2014 ha venduto un milione di telefoni. Se metti insieme Cina e India, hai un ter-

zo dell’intero pianeta e gli Stati Uniti, pieni di cellulari, sembrano un piccolo mercato.

La Cina, insomma, diventa la destinazione preferita da persone con idee. Come

la Silicon Valley, una generazione fa. L’ho visto con i miei occhi quando sono passato dall’hackerspace

XinCheJian di David Li, che stava incontrando una startup formata dall’italo-olandese Lionello Lu-

nesu, che vive in Cina da otto anni, e dal sudamericano Berni War. Esaminavano un prototipo appena

arrivato: un piccolo dispositivo che rimanda i messaggi dal computer o dal telefono, come un Apple

Watch che sta sulla scrivania invece che al polso. «Per David non siamo abbastanza veloci», dice Lu-

nesu. Li prende in mano il gadget e lo tocca ai lati: «Questa è la stessa plastica dell’iPhone 5c». I due

giovani imprenditori sorridono: non esistono opportunità simili negli States. Ecco perché sono qui.

Q

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C A P I T O L O 5

A S I A

Q U A D R A N T E M A P P A

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F E D E R I C O B O N A

P A R O L E C H I A V E

BATTERIE, REALTÀ VIRTUALE, VIBER, WAZE

L A C A P I TA L E D E L L E S TA R T U P

C A T E G O R I A

H I - T E C H

C O O R D I N A T E G P S

3 2 . 0 8 5 5 6 8 N , 3 4 . 7 8 1 7 0 4 E

L U O G O

T E L A V I V , I S R A E L E

Israele si è guadagnata da

tempo il soprannome di

“Startup Nation” e la sua

capitale, in questo senso,

è senza dubbio Tel Aviv. Il

segreto? L’internazionalità:

ben 90 aziende israeliane

sono quotate al Nasdaq

di New York, per un valore

che supera i 40 miliardi

di dollari. Nel frattempo,

incubatori e acceleratori

si sono diffusi a macchia

d’olio: il primo risale al

2011, ora sono già oltre

200. Quindi Tel Aviv, con

una densità di startup che

viaggia intorno a una ogni

mille abitanti, in questa

categoria batte tutte le

nazioni europee.

Reti di comunicazione

e sicurezza sono

tradizionalmente la

specialità delle imprese

locali, grazie anche alla

collaborazione con le

forze armate, che in questi

ambiti sono sempre

all’avanguardia; ma la

scena sta cambiando

con rapidità e le nuove

scommesse promettono

soluzioni di ultima

generazione in moltissimi

settori. Sì, perché se Waze,

la app di navigazione

basata sulle informazioni

messe a disposizione

dai suoi stessi utenti

(nata nel 2009 sulla

base di una community

locale e acquistata da

Google nel 2013), oppure

Viber, la piattaforma

di instant messaging e

comunicazione, lanciata

nel 2010, sono già storia, la

lista dei debutti col botto

in Borsa è in continuo

aggiornamento: Wix, la

piattaforma cloud per

sviluppare siti web che

nel 2013 ha raccolto 750

milioni di dollari nel giorno

dell’esordio al Nasdaq, ne è

un buon esempio. Le nuove

società da tenere d’occhio?

StoreDot, per esempio,

che potrebbe risolvere d’un

colpo i problemi di “carica”

che affliggono smartphone

e auto elettriche visto che

promette batterie, basate

su molecole organiche

sintetizzate in laboratorio,

che si ricaricano a fondo in

30 secondi nel primo caso

e in 5 minuti nel secondo,

per un viaggio di oltre 450

chilometri.

Oppure Consumer Physics,

che ha costruito un

sensore poco più grande

di una chiavetta usb che,

grazie alla spettroscopia

molecolare, è in grado di

elencare la composizione

di qualsiasi oggetto verso

il quale viene puntata.

Dovrebbe debuttare sul

mercato quest’autunno, a

un prezzo compreso tra i

250 e i 300 euro, dopo aver

raccolto su Kickstarter ben

2 milioni 700mila dollari.

Ma non mancano realtà

che puntano sui big data.

Come Zebra Medical

Vision, che ha realizzato

un software in grado di

leggere e interpretare

radiografie e diversi tipi di

diagnostica per immagini.

Oppure, a proposito di

realtà virtuale, come Magic

Leap, che si è assicurata

un finanziamento da

542 milioni di dollari da

parte di Google e che

conta di rivoluzionare una

tecnologia ancora giovane

come questa con la sua

Cinematic Reality.

Perché il nuovo limite, a

Tel Aviv, è solo la fantasia.

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C A P I T O L O 5

A S I A

Q U A D R A N T E M A P P A

I7

A L I C E P A C E

P A R O L E C H I A V E

C N R , E V O L U Z I O N E C L I M A T I C A , F I S I O L O G I A , O S S E R V A T O R I O

No, non è Parigi; no, non

è la piramide del Louvre.

Questa architettura in

vetro, acciaio e alluminio

è il Pyramid International

Laboratory, il laboratorio

scientifico più in alto di

tutto il pianeta – a 5050

metri di quota, sul versante

nepalese dell’Everest.

In funzione dal 1990,

è nato dalla volontà di

dare una “casa” a tutti gli

esploratori e ricercatori

che, pur di proseguire gli

studi legati all’altitudine,

erano costretti a lavorare

nel freddo delle proprie

tende, con generatori di

energia precari, scollegati

dalle comunicazioni e

spesso a rischio della

vita. Rappresenta un

solido rifugio per chi vuole

addentrarsi nell’ecosistema

dell’Himalaya e compiere

rilevamenti, indagare le

dinamiche dei ghiacciai,

raccogliere campioni

per l’analisi di rocce e

organismi; ma è anche e

soprattutto un luogo dove

assorbire e processare

nuove conoscenze sull’alta

montagna, direttamente in

situ e in tempo reale.

Costituisce anzitutto

un nodo essenziale per

il monitoraggio meteo,

dei livelli di ozono e

della composizione del

particolato atmosferico,

essenziale per arrivare

al cuore dell’evoluzione

climatica. Ma funziona

anche come osservatorio

a 360 gradi della natura

circostante, perché fa

perno (a dispetto delle

inevitabili difficoltà

logistiche) su una vasta

gamma di strumenti: da

semplici apparecchiature

per la geologia a una vera

e propria stazione sismica,

dai materiali necessari

all’analisi chimica a quelli

per biologia e biodiversità.

Non basta. In analogia

con la trasparenza

della costruzione, la

piramide non intende solo

indirizzare lo sguardo

verso l’esterno, ma anche

fornire un’autentica lente

d’ingrandimento degli

effetti sul corpo umano

dell’alta montagna. Per

questo, gli ospiti diventano

spesso protagonisti

di esperimenti sulla

fisiologia in alta quota,

dove gli sbalzi termici

e l’aria rarefatta alterano

la respirazione, l’apparato

cardio-circolatorio, il

metabolismo e addirittura

il sistema immunitario.

Infine la struttura in sé,

riscaldata e illuminata

esclusivamente attraverso

pannelli solari e del tutto

autosufficiente dal punto

di vista energetico: un

gioiello tecnologico che

è anche orgoglio italiano,

poiché − in collaborazione

con la Nepal Academy

of Science and Technology

− è gestito in larga parte

dall’Associazione

Ev-K2, che conta

sull’appoggio del Consiglio

nazionale delle ricerche.

C A T E G O R I A

S C I E N Z A

U N A P I R A M I D E S U L L’ E V E R E S T

C O O R D I N A T E G P S

2 7 . 8 8 3 0 3 7 N , 8 6 . 7 3 5 7 6 9 E

L U O G O

S A G A R M A T H A N A T I O N A L P A R K , N E P A L

©MARCO FERRAZZOLI/CNR

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C A P I T O L O 5

A S I A

Q U A D R A N T E M A P P A

N7

M A R I N A P I E R R I

P A R O L E C H I A V E

J A C K I E C H A N , S T U D I O S , X U W E N R O N G

B E N V E N U T I A C H I N A W O O D

C A T E G O R I A

C I N E M A

C O O R D I N A T E G P S

2 9 . 1 5 1 3 1 3 N , 1 2 0 . 3 1 7 0 2 9 E

L U O G O

H E N G D I A N , C I N A

Lo studio cinematografico

più grande del mondo − più

della somma di Universal

e Paramount Studios −

non a caso si è meritato il

soprannome “Chinawood”.

Chi da Shanghai guida

per circa cinque ore in

direzione sudovest, inizia a

vedere in lontananza gli alti

e regali palazzi della Città

Proibita di Pechino alzarsi

all’orizzonte: a ospitarne

la riproduzione sono

proprio gli Hengdian World

Studios. Hanno eretto

quel gigantesco set per il

cinema orientale, in veloce

evoluzione, ma ormai funge

anche da monumento

alla splendida crescita

dell’industria di settore.

Estesi su oltre mille ettari

di terreno, gli studios

hanno prodotto più di 500

film e serie televisive: oltre

alla Città Proibita, infatti,

accolgono il più grande

Buddha (all’interno) del

mondo, cento abitazioni

fluviali della dinastia Ming

spedite dal sud del paese

e il palazzo imperiale della

dinastia Qin (visto in Hero

di Zhang Yimou). C’è anche

un vulcano che erutta

realmente e, per soli 23

dollari, offre un variopinto

spettacolo di danza. Né

mancano repliche di

strade di Hong Kong e

Guangzhou, un perfetto

delta del fiume Yangtze

e la Pure Moon Festival

Riverside Scenic Zone,

ricostruita su un dipinto

del pittore Zhang Zeduan

nel rispetto delle tradizioni

della dinastia Song.

Ma gli Hengdian World

Studios non si limitano

a fare da sfondo alle

più grandi produzioni

cinematografiche cinesi:

ormai fanno parte delle

istituzioni vitali del Paese.

Con sette milioni di turisti

all’anno, provenienti da

tutto il mondo, sono

divenuti l’arteria attraverso

cui passa il benessere sia

dell’economia nazionale

che di quella locale.

Come si apprende da

I Am Somebody, un

documentario del 2015,

la cittadina rurale di

Hengdian è passata in

pochi anni da 19 a 70mila

abitanti, attratti dalla

possibilità di un lavoro non

agricolo: i World Studios

impiegano circa tremila

comparse, che gravitano

attorno a un colossale

business creato proprio da

un ex contadino.

Xu Wenrong (oggi un

multimiliardario di 80

anni), possiede anche il

cosiddetto Vip Hotel, che

ospita stelle del calibro

di Jet Li e Jackie Chan.

Si tratta solo di uno dei

molti, lussuosi alberghi

ancorati agli Hengdian

World Studios, progettati

per ospitare ogni notte

ottomila persone, fra

quelle accorse nel

parco a tema (c’è anche

quello), che assicura ore

di divertimento in un

ambiente fantastico.

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C A P I T O L O 5

A S I A

Q U A D R A N T E M A P P A

N6

M A R C O C O S E N Z A

P A R O L E C H I A V E

E C O L O G I A , L E G O , S T A M P A 3 D , W I N S U N

C A T E G O R I A

A R C H I T E T T U R A

C O O R D I N A T E G P S

3 1 . 3 0 4 0 8 0 N , 1 2 0 . 5 9 5 3 8 0 E

L U O G O

S U Z H O U , C I N A

U N A C A S A I N 2 4 O R E

Chiunque abbia giocato

con i mattoncini Lego

ha provato a costruire

una casa. Ma chiunque

abbia provato a costruire

una vera casa, sa che

impastare il calcestruzzo

non è semplice come

impilare mattoncini

colorati.

Tutto ciò era valido, però,

solo prima dell’avvento

della stampa 3D. L’azienda

cinese WinSun ha infatti

messo a punto una

particolare stampante

tridimensionale lunga 40

metri, larga 10 e alta 6,

in grado di completare

un’abitazione nel giro di

24 ore, utilizzando una

combinazione di materiali

riciclati e rifiuti industriali,

a base di cemento, di

acciaio e di fibra di vetro.

«Abbiamo acquistato gli

elementi della stampante

all’estero e l’abbiamo

assemblata in uno

stabilimento a Suzhou»,

spiega Ma Yihe, Ceo di

WinSun. «Le strutture

ottenute sono ecologiche

ed efficienti». I singoli

moduli sono realizzati in

fabbrica grazie a una pasta

a presa rapida simile a

dentifricio; poi vengono

montati sul posto per

ricomporre l’abitazione

come fosse una torta a più

strati, diminuendo scarti,

inquinamento e costi di

trasporto e manodopera.

A essere ridotti al minimo

sono anche i tempi: ciò

potrebbe renderla la

soluzione ideale in caso

di emergenze come

inondazioni e terremoti, o

di ambienti inospitali quali

per esempio le superfici

della Luna e di Marte.

L’idea originaria, in realtà,

è frutto di uno studio

approfondito dell’edilizia

cinese, divisa in due

tra una spinta costante

all’urbanizzazione e

l’ombra lunga di bolle

speculative che costellano

il mercato immobiliare e

ne drogano le quotazioni.

Grazie a simili soluzioni, i

costi sarebbero contenuti

e accessibili – non solo

per l’Asia, come dimostra

il recente accordo firmato

con il governo egiziano per

la costruzione di 20mila

unità abitative nel deserto.

L’evoluzione intanto non si

ferma. Nel 2014, l’azienda

con base a Shanghai ha

completato in un solo

giorno 10 abitazioni di

circa 200 metri quadrati

ciascuna, con una spesa

inferiore a 4500 euro per

ciascuna; nel 2015 invece

ha realizzato, all’interno

del Suzhou Industrial Park,

una palazzina di 5 piani

e una villa di 1100 metri

quadrati, ultimata da 8

operai in un mese, al costo

di 140mila euro (rispetto

alle 30 persone per 3 mesi

che servirebbero di norma).

Quest’anno, per superarsi,

WinSun ha in mente di

portare a termine i locali

degli uffici adiacenti

al prossimo Museo del

Futuro di Dubai − che verrà

inaugurato nel 2017 − con

una stima di costi inferiore

del 50-80% rispetto ai

metodi tradizionali e con

un calo degli scarti del

30-60. L’obiettivo per i

prossimi 5 anni è, infine,

l’espansione in venti paesi

e l’apertura di 100 nuovi

impianti in Cina.

Anche la Grande Muraglia,

d’altra parte, è stata eretta

una pietra alla volta.

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C A P I T O L O 5

A S I A

P A R O L E C H I A V E

C H I L O M E T R O Z E R O , C O L T U R E S E N Z A S O L E , V I T A M I N E

“Zinnia L., 1759”, originaria

del Messico, ha aperto i

suoi petali color arancio lo

scorso 15 gennaio: così il

mondo ha potuto celebrare

l’eccezionale fioritura

di una pianta all’interno

della Stazione spaziale

internazionale.

Ma sono decenni che

gli scienziati studiano

lo sviluppo di vegetali

in assenza di terreno e

luce solare. «Pochi forse

sanno che il sistema

idroponico è nato una

ventina di anni fa come

esperimento per provare a

coltivare vegetazione nello

spazio», racconta Hiroyuki

Watanabe dell’Università

di Tamagawa, vicino a

Tokyo, uno dei massimi

centri di ricerca del

Giappone. «Poi però ci

siamo resi conto che

il peggioramento delle

condizioni del pianeta e

la costante diminuzione

della superficie coltivabile

imponevano una soluzione

immediata: il sistema

idroponico potrebbe

esserlo, e abbiamo iniziato

a svilupparlo a terra».

Da sempre il Giappone

deve affrontare gravi

problemi di densità di

popolazione nei grandi

centri urbani: non stupisce

che l’autosufficienza

alimentare di metropoli

come Tokyo o Osaka

rappresenti uno dei

principali casi da risolvere.

Lo stesso, ma in scala

minima, che gli scienziati

devono affrontare nella

stazione spaziale, che pure

potrebbe presto diventare

incredibilmente autonoma

anche dal punto di vista

alimentare.

«Le ultime ricerche si

basano sull’uso delle luci

led», continua Watanabe,

«con l’obiettivo di far

crescere verdura e piante

nutrienti. Ma anche buone,

belle e, soprattutto, senza

malattie». Ecco perché,

osservando fotografie di

ambienti in cui viene usato

il sistema idroponico,

notiamo quasi sempre

luci colorate. Sebbene

non esista una regola

generale, e non tutte le

piante reagiscano allo

stesso modo, si può dire

che i vegetali esposti al

colore blu sviluppano

antiossidanti e sono

ricchi di vitamine C, E e

A. Ponendoli invece sotto

una luce rossa, si stimola

la fotosintesi clorofilliana

e si velocizza la crescita.

C A T E G O R I A

A G R I C O L T U R A

C O O R D I N A T E G P S

3 5 . 5 6 7 0 3 5 N , 1 3 9 . 4 6 8 4 5 0 E

L U O G O

T O K Y O , G I A P P O N E

L’ I N S A L ATA D E L F U T U R O S A R À I D R O P O N I C A

Page 171: Wired_Marzo 2016.pdf

C A P I T O L O 5

A S I A

Q U A D R A N T E M A P P A

A6

Q U A D R A N T E M A P P A

P6

S T E F A N I A V I T I

F . A L E S S I O G U A R I N O

F R A N C E S C O L I P A R I ,

A L D O S O L L A Z Z O

P A R O L E C H I A V E

A C C O G L I E N Z A , M E D I C I N A , S C U O L A

T E C N O L O G I A P E R R I F U G I AT I

Migliaia di disperati in fuga

da guerre e conflitti, finiti

in paesi poco ospitali o in

campi profughi: oggi la

startup giordana Refugee

Open Ware (Row) cerca

per loro un futuro migliore,

mettendo a disposizione

le ultime tecnologie e

consentendo a queste

comunità, intrappolate in

un limbo, di sentirsi ancora

una volta collegate alla

vita, di tornare a sperare.

Tra i tanti servizi offerti

ci sono stampa 3D,

fabbricazione digitale

e internet delle cose, che

si sommano all’assistenza

medica di base. Come nel

caso di Ahmad, un profugo

siriano cieco cui è stato

impiantato un dispositivo

di eco-localizzazione per

aiutarlo a individuare gli

ostacoli come muri e porte.

E Zain, yemenita di sei anni

che ha perso una mano, ora

ha una protesi stampata

in 3D progettata anche

per emulare Ben 10, il suo

supereroe preferito.

L’iniziativa mira a creare

una rete di centri per

l’innovazione in Medio

Oriente e in Europa, spazi

dotati dei macchinari

digitali più avanzati.

Secondo Row, offrire

un’educazione avanzata e

competenze legate a nuove

tecnologie − che creeranno

posti di lavoro − consentirà

a comunità locali, governi

e rifugiati di ritrovare

speranza e dignità.

Asem, rifugiato siriano

mutilato di guerra, ha

imparato a utilizzare

una stampante 3D

in tre settimane e

a programmare un

microprocessore Arduino

in tre giorni. Se un pezzo

di protesi si rompe,

lo sostituisce con uno

nuovo: in 20 minuti lo

progetta e in e ore lo

stampa in 3D, con una

riduzione dei costi del 95%.

Oggi Asem è un volontario

Row e aiuta le persone

che gli stanno intorno.

C A T E G O R I A

H I - T E C H

C O O R D I N A T E G P S

3 1 . 9 4 9 4 5 4 N , 3 5 . 9 3 2 9 1 3 E

L U O G O

A M M A N , G I O R D A N I A

L’utilizzo dello spettro

luminoso varia comunque

in base a numerosi fattori,

come la temperatura

e il tempo di esposizione.

Gli studi di Hiroyuki

Watanabe hanno varie

finalità, fra cui l’utilizzo

delle piante per scopi

medici – in particolare

l’abbassamento del

colesterolo. A sostenere

la ricerca, in Giappone,

concorrono anche grandi

gruppi privati come

Panasonic, Toshiba,

Nec, Fujitsu e Mitsubishi

Chemical Corporation,

che diversificano le proprie

attività investendo nella

ricerca e nello sviluppo

del sistema idroponico.

In alcuni casi, i centri di

studio sono stati ricavati

riconvertendo edifici

dismessi in “fabbriche

di piante”: è il caso della

Toshiba Clean Room Farm

Yokosuka, vicino a Tokyo,

dove si calcola siano stati

recuperati circa duemila

metri quadrati di spazio.

La prima ad aver destinato,

anni fa, una parte dei

propri edifici cittadini alla

coltura di vegetali è stata

Pasona, la più grande

azienda giapponese di

recruiting: in Giappone,

l’autosufficienza delle città

ottenuta sfruttando spazi

urbani − il futuro della

produzione a chilometro

zero – è quasi una realtà.

Page 172: Wired_Marzo 2016.pdf

GENTILE CONCESSIONE DI NASA

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C A P I T O L O 5

A S I A

Q U A D R A N T E M A P P A

F4

A L I C E P A C E

P A R O L E C H I A V E

C O S M O D R O M O , S A M A N T H A C R I S T O F O R E T T I , E X O M A R S , S O Y U Z

L U O G O

B A I K O N U R , K A Z A K I S T A N

C A T E G O R I A

S C I E N Z A

C O O R D I N A T E G P S

4 5 . 6 2 8 2 0 0 N , 6 3 . 3 0 4 6 0 0 E

Brulla, piatta, grigiastra.

Una steppa anonima

e deserta che sembra

immersa in un eterno

“dietro le quinte”, dove lo

spettacolo dura il bagliore

dell’accensione di qualche

razzo in partenza per lo

spazio, per poi tornare,

a riflettori spenti, nel

silenzio. È il cosmodromo

di Baikonur, da qualche

parte in Kazakistan,

la prima base di lancio

della storia. Oggi è gestito

dall’agenzia spaziale

russa Roscosmos e

la sua enorme ellisse,

che scalfisce la terra

per quasi 90 chilometri

da ovest a est e 85 da

nord a sud, è forse la

più grossa impronta

lasciata dalla Space

Race quando Baikonur

(Unione Sovietica) e Cape

Canaveral (Stati Uniti) si

contendevano la Luna,

Marte e il sistema solare.

Yuri Gagarin, il primo

essere umano a volare

in orbita, nell’aprile del

1961 partì da qui; come lui

anche Valentina Tereškova,

la prima donna ad andare

nello spazio, due anni

più tardi. Dopo di loro,

dalle stesse rampe sono

decollate generazioni di

cosmonauti russi, tutti gli

equipaggi (e i rifornimenti)

destinati alla Stazione

spaziale internazionale

e, appena qualche mese fa,

anche Luca Parmitano

e Samantha Cristoforetti.

Già: su questo palco sono

andate in scena pagine

tra le più importanti

dell’esplorazione spaziale.

Il copione per il futuro,

del resto, non è male.

Quest’anno salperà

da qui la prima sonda

dell’attesissima ExoMars,

la missione robotica che

porterà anche l’Europa a

caccia di vita su Marte,

in collaborazione con

l’agenzia spaziale russa.

Il razzo spingerà dentro

l’atmosfera del Pianeta

Rosso un rilevatore

orbitante, che avrà il

compito di “annusare”

le molecole lì disperse

per captare eventuali

tracce di metano, possibile

indizio della presenza

di organismi viventi.

Contemporaneamente,

recapiterà anche un

vero e proprio lander

sull’arida superficie del

pianeta, con l’obiettivo

di testare la dinamica di

atterraggio e soprattutto

per un sopralluogo in

attesa dell’arrivo del rover

definitivo: che, invece,

è in calendario per il 2018

e costituirà il vero cuore

dell’impresa scientifica.

Nel frattempo, da qui

sono previsti tutti i lanci

della capsula Soyuz e

dei vettori Proton, per il

dispiegamento attorno

alla Terra di nuovi satelliti,

con cadenza quasi mensile.

Basta pensare agli

enormi hangar dove i

razzi, assieme al proprio

“bagaglio”, vengono

custoditi, ai massicci

binari lungo i quali

vengono trasportati e alle

impalcature mobili che li

issano in verticale come

le lancette di un orologio,

per rendersi conto che

il countdown, in fondo, è

solo la scintilla di un’opera

davvero molto complessa.

E, se possibile, ancora più

affascinante.

I N P A R T E N Z A P E R L’ I N F I N I T O

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C A P I T O L O 5

A S I A

Q U A D R A N T E M A P P A

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F I L I P P O P I V A

P A R O L E C H I A V E

A C Q U A S A L A T A , G A Z A , I R R I G A Z I O N E

Tutto nasce da una

necessità di base, trovare

il modo per coltivare riso,

patate e mais anche in

aree pressoché desertiche,

dove il clima è tutt’altro

che mite e le risorse idriche

scarseggiano: ecco la

genesi del progetto Oasis

− fortemente sostenuto dal

mecenate svizzero Sam

Josefowitz − poi confluito

nell’attuale progetto

Agrisol, che finirà nel 2017.

Protagonista della

ricerca è l’Università

Ben-Gurion del Negev,

al fianco di altre realtà

israeliane come l’ateneo

di Haifa e la Central and

Northern Arava Research

& Development; ma anche

del National Center for

Agricultural Research and

Extension della Giordania

e dell’Environmental

Protection and Research

Institute di Gaza.

La piantagione pilota

dello studio si trova nel

sud di Israele, non lontana

dalla Yair Experimental

Station di Hatzeva, nel

Wadi Araba. Qui le piogge

sono decisamente scarse,

la temperatura media ad

agosto sfiora i 40 gradi

e le uniche risorse idriche

nelle vicinanze, oltre al

Mar Morto, sono falde

acquifere salmastre

− dunque piuttosto salate −

a diverse centinaia di metri

di profondità.

«La sfida del nostro

progetto consiste proprio

in questo: riuscire a

utilizzare anche l’acqua

salmastra per irrigare

le coltivazioni nelle

zone aride», spiega

Rami Messalem, senior

research scientist dello

Zuckerberg Institute for

Water Research presso

l’Università Ben-Gurion

del Negev. «A tal fine

abbiamo sviluppato

e testato un sistema

di nanofiltrazione,

alimentato interamente

a energia solare: l’acqua

viene passata attraverso

una membrana che

trattiene la maggior parte

del sale, ma permette

di conservare una certa

quantità di magnesio,

di calcio e di tutte le altre

sostanze importanti per

lo sviluppo della pianta.

Si tratta di un sistema

innovativo che richiede

decisamente meno energia

di quello a osmosi inversa,

che per giunta toglie

all’acqua quasi tutto, anche

i minerali più utili».

Le prime sperimentazioni

hanno già dato i loro frutti,

in tutti i sensi. Così il

progetto si è ampliato fino

a coinvolgere un nuovo

terreno, questa volta nella

zona (sempre desertica)

di Neot HaKikar; presto

arriverà anche in Giordania,

con una nuova piantagione

che verrà realizzata nei

pressi della Karama

Agricultural Station.

«La crescente domanda

di cibo richiede ai sistemi

agricoli di essere più

efficienti nella gestione

delle risorse naturali,

come terra e acqua»,

dice Andrea Ghermandi

dell’Università di Haifa.

«In Medio Oriente, per

esempio, la mancanza di

acqua fresca costringe a

sfruttare i bacini di quella

salmastra ma, spesso,

questo utilizzo si dimostra

scarsamente sostenibile».

Il progetto Agrisol, invece,

sembra dimostrare che

una soluzione efficace,

efficiente e replicabile

al problema è possibile.

C A T E G O R I A

A M B I E N T E

C O LT I VA Z I O N I I M P O S S I B I L I

C O O R D I N A T E G P S

3 0 . 7 6 7 9 4 2 N , 3 5 . 2 7 8 4 9 8 E

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H A T Z E V A , I S R A E L E

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F E D E R I C O B O N A

P A R O L E C H I A V E

P U B B L I C I T À I N T E R A T T I V A , S T A R T U P , V I D E O G A M E

O P E R A Z I O N E S O R P A S S O

C A T E G O R I A

H I - T E C H

C O O R D I N A T E G P S

1 2 . 9 8 3 3 4 3 N , 7 7 . 5 8 3 1 2 8 E

L U O G O

B A N G A L O R E , I N D I A

L’anno, non troppo lontano,

è il 2020: secondo i dati

in possesso di Srivatsa

Krishna, sottosegretario

all’Information Technology

del governo dello stato

indiano di Karnataka, in

quella data la capitale

Bangalore supererà la

Silicon Valley e diverrà il

luogo al mondo con il più

alto numero di lavoratori

nell’hi-tech. Due milioni.

Ma non è solo questione di

numeri assoluti. Qualcosa

sta cambiando anche nella

qualità del lavoro e delle

figure impiegate.

Fin dagli anni Ottanta,

infatti, a Bangalore è

esploso il settore dei

servizi informatici − noto

non certo per il tasso

di innovazione − e varie

multinazionali hanno

assunto centinaia di

migliaia di giovani tecnici

e ingegneri per le attività

in outsourcing. Ora, al

contrario, ad attrarre i

migliori studenti sono

proprio le aziende locali.

Alcune sono di livello

mondiale, a partire dalla

pionieristica Infosys,

con i suoi quasi 200mila

dipendenti; ma sono

moltissime le startup nate

e cresciute negli ultimi

anni. Secondo una recente

ricerca di Compass, quelle

attive nella zona sono

quasi 5mila.

La stessa indagine

rivela che l’età media

dei fondatori, 28 anni

e 6 mesi, è la più bassa

di tutto il mondo.

Fra l’abitudine a lavorare

nel settore, i capitali

attratti e il basso costo di

vita e lavoro, Bangalore

ha inaugurato una nuova

stagione fatta di idee e

capacità imprenditoriali.

Gli esempi migliori?

Il colosso dell’ecommerce

Flipkart, fondato nel 2007

con appena 8mila dollari

da due colleghi di Amazon

dallo stesso cognome,

Bansal, che da allora ha già

raccolto finanziamenti per

oltre 3,4 miliardi di dollari.

Oppure InMobi, nata

anch’essa nel 2007, la

piattaforma di pubblicità

“mobile” che ha superato

il miliardo di utenti al mese

ed è ormai la terza realtà

al mondo nel settore, dopo

Google e Facebook. L’anno

scorso InMobi ha lanciato

una nuova tecnologia,

chiamata Miip, pensata

per fornire pubblicità più

interattive, più divertenti

e, soprattutto, più adatte

al gusto e alle esigenze di

ogni singolo cliente.

Né mancano realtà più

recenti. Come Zovi, ideata

nel 2011 per vendere abiti

e accessori, che offre ai

clienti un camerino virtuale

e che, di recente, si è

allargata all’arredamento.

O come MadRat Games,

creata nel 2010 per

sviluppare giochi educativi

per bambini: con successo,

visto che ne ha venduti

oltre mezzo milione.

Forse è arrivato il tanto

atteso momento in cui

l’India spiccherà il volo.

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FIRA, Fondazione Italiana per la Ricerca sull’Artrite, è una ONLUS che, senza alcuno scopo di lucro, persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale. L’obiettivo principale è quello di sostenere la ricerca medico-scientifica nel campo della cura e dello studio delle malattie reumatiche. Per raggiungere il suo scopo, che significa soprattutto maggiori possibilità di prevenzione, diagnosi sempre più precoci e cure più efficaci e meglio tollerate, FIRA ONLUS promuove la raccolta di fondi da destinare alla ricerca.

Codice Fiscale FIRA ONLUS: 97424570154.

ONLUS

per

DONA IL 5X1000 A FAVORE DELLE MALATTIE REUMATICHE.

CODICE FISCALE FIRA ONLUS: 97424570154.

Si ringrazia Carla Fracci per aver aderito all’iniziativa.

5X1000

fondamentale

quotidiano

1XTUTTIè un gesto

è un gesto

quest’anno

allaDONALO

contro

le malattie

reumatiche

Il tuo 5x1000

ricerca

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Wollongong

O C E A N I A

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Isole Tonga

Isole Kiribati

Antartide

New Plymouth

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W O L L O N G O N G , A U S T R A L I A

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F O T O D I

P E T R I N A H I C K S

T E S T O D I

A L I C E P A C E

C A P I T O L O 6

O C E A N I A

Q U A D R A N T E M A P P A

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ROBUSTISSIMO EPPURE COSÌ

IMPALPABILE E PERFETTO

DA ESSERE PARTE DEL

PIACERE STESSO: NASCE

GELDOM, IL PROFILATTICO

A BASE DI ACQUA.

INDOSSARLO NON SARÀ

PIÙ SOLO UN DOVERE

A P R O V A D ’ O R G A S M O

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W I R E D / P R I M AV E R A 2 01 6

Qui si inventa il profilattico del futuro. Leggerissimo, invisibile, così

accogliente che verrà voglia di indossarlo. Così scivoloso da miglio-

rare il sesso. Così perfetto che usarlo sarà puro piacere. Irromperà a

breve sulla scena. Pronto a stravolgere le regole di oltre un secolo di

lattice. Ci sposterà dalla condizione di doverlo usare a un’altra del

tutto inedita: proveremo il desiderio di sentirlo addosso.

Il nome del progetto? Geldom, esplicita fusione tra “condom” e “gel”,

la sostanza bagnata, molle e trasparente con cui si intende plasmarlo.

La location? I laboratori dell’Università di Wollongong, in Australia,

nell’ambito di una collaborazione con la Bill & Melinda Gates Founda-

tion mirata a portare l’innovazione nella sfera del sesso e, in partico-

lare, promuovere l’adesione a quello protetto.

Il profilattico, d’altronde, è il protagonista indiscusso quando si parla

di protezione, prevenzione, controllo delle nascite. Ma è anche sino-

nimo di interruzione, pur solo per qualche secondo, di un momento in

cui chiediamo soltanto di non doverci frenare. Lo stesso lattice di cui

nella stragrande maggioranza dei casi è costituito non ha mai fatto

Q

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C A P. 6 / O C E A N I A

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breccia nei nostri sensi, che lo percepiscono gommoso, opaco, artifi-

ciale. Nonostante lo spessore sia più sottile di quello di un capello, la

mente lo associa spontaneamente a un possibile calo della sensibi-

lità, dell’attrito: di quelle sfumature, insomma, che ci fanno sentire

davvero completo il rapporto. Di fatto, per frenesia o per diffidenza,

la maggioranza delle volte finisce per rimanere in tasca oppure ab-

bandonato in un cassetto.

Certo, pure il condom del futuro ci ruberà qualche istante per essere

indossato, anch’esso impedirà il contatto diretto tra le carni e fun-

gerà da barriera fisica contro la trasmissione sia di germi che dello

sperma. Tuttavia, pur di uscire dal cassetto, proverà a far scattare gli

istinti primordiali del corpo e a smuovere un pretesto il più possibile

travolgente per essere indossato. Non farà leva, insomma, sul nostro

senso di responsabilità, bensì punterà diritto al fulcro del desiderio:

quell’incastro perfetto, il pieno contatto, la percezione del calore del

partner. In questo modo la protezione c’è ma rimane dietro le quinte

ed evita di rubare la scena al piacere.

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l punto di partenza? La materia prima, assolutamente. Niente più tentativi di assotti-

gliare, di elaborare il lattice o simili: stavolta gli scienziati hanno fatto punto e a capo,

a caccia dell’accordo perfetto fra molecole studiate a tavolino e le parti più delicate del

nostro corpo. «Ci siamo lasciati ispirare dai tessuti umani per provare a ricreare in

laboratorio qualcosa di altrettanto morbido, umido e viscoso», spiega Robert Gorkin,

ingegnere biomedico e leader del progetto.

Da subito, l’attenzione si è focalizzata sugli idrogel, letteralmente gel a base d’acqua: cioè mi-

croscopici reticoli tridimensionali in grado di inglobare e trattenere all’interno delle proprie maglie

quantitativi enormi di molecole del fluido. Fino al 99% del volume, o anche di più. Già presenti in molti

prodotti commerciali (un esempio su tutti: le lenti a contatto), non erano mai stati presi in considera-

zione per un potenziale ruolo di barriera biologica poiché, sebbene fortemente biocompatibili, sono

in genere molto fragili dal punto di vista meccanico.

È proprio qui che al team di scienziati di Gorkin è riuscito il salto di qualità. Hanno formulato

matrici di polimeri sempre nuove, hanno provato a trasformarle in film sempre più sottili, hanno

scartato via via le varianti meno resistenti: ed ecco, per la prima volta, una selezione di idrogel sì mor-

bidi e flessibili ma allo stesso tempo estremamente robusti, in grado di deformarsi e tendersi per ol-

tre mille volte la superficie iniziale. Degli involucri trasparenti, quando non addirittura invisibili, in

cui le molecole d’acqua sono talmente coese le une alle altre da non consentire il passaggio di alcuna

forma di materiale biologico, che si tratti di un getto di cellule spermatiche, di una colonia di batteri

o del più microscopico virus esistente. Una pellicola così impalpabile da non appiattire nemmeno le

più piccole pieghe naturali della pelle; ma, allo stesso tempo, una protezione pronta ad assorbire for-

tissime pressioni e più resistente agli strappi di una gomma. Nonché, al tatto, estremamente naturale

e simile al rivestimento delle superfici intime.

Ma come decidere qual è la formula perfetta? Niente di meglio che interrogare i nostri stessi re-

cettori sensoriali. Nell’ambito di una collaborazione con un gruppo di neuroscienziati dell’Università

di Swinburne, anch’essa in Australia, i ricercatori hanno perciò avviato una serie di test per la valu-

tazione di alcuni dei materiali sintetizzati utilizzando macchine in grado di fornire una mappatura in

tempo reale dell’attività nervosa. Quelle tipiche dei reparti di neurologia, per intenderci.

L’azione, in questo caso, consisteva nello scorrere le dita, bendati, su diversi campioni di idro-

gel e, per contrasto, di lattice, anche con gradi di lubrificazione differenti. «Le risposte raccolte fino-

ra, visibili attraverso set di elettroencefalogrammi, hanno confermato che il contatto con i nostri

idrogel suscita una sensazione più piacevole rispetto a quelli convenzionali», spiega Gorkin. In parti-

colare, testimoniano gli scienziati, solo con i nuovi materiali si è registrata un’attività elettrica molto

forte a carico della corteccia frontale del cervello, segno che potrebbero davvero riuscire a scatenare

reazioni nuove e inaspettate rispetto a quelli impiegati finora. Il prossimo passo, cui ora sono impe-

gnati i ricercatori, è lo sviluppo di prototipi, cioè di condom delle dimensioni e delle forme desiderate,

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da mettere alla prova grazie a coppie campione − cioè persone disposte a indossarli durante i rapporti

sessuali e a fornire un feedback. Ma non basta.

Oltre a un miglioramento delle sensazioni, dai profilattici del Terzo Millennio ci si aspetta an-

cora qualcosa in più. Come per esempio i lubrificanti integrati da far sgorgare automaticamente, e

solo in caso di necessità, dalle maglie della matrice. Oppure altre sostanze che, una volta sprigionate

direttamente in loco, potrebbero rendere più sicuro, più prolungato o anche solo più piacevole il rap-

porto sessuale. Via libera, quindi, all’assorbimento di farmaci e altre molecole funzionali; magari

quelle che aiutano a mantenere l’erezione, i ritardanti, gli stimolanti.

a ricerca sul fronte dei profilattici, in ragione di un mercato globale di oltre cinque

miliardi di dollari l’anno, è certo un terreno molto vivace e pervaso, dal punto di vi-

sta tecnologico, di idee spesso visionarie: è in via di sviluppo un profilattico a base di

grafene, nanomateriale composto da un singolo strato di atomi di carbonio, di cui si

intende assimilare la resistenza estrema in vista di un sistema al 100% antirottura.

Ma si lavora anche a preservativi dotati di sistemi di srotolamento rapido, che siano in

grado di dispiegarsi e di avvolgere le superfici in una frazione di secondo. E ancora, a formule spray;

in tal caso lo strato protettivo si concretizza all’istante, con un semplice spruzzo.

È sempre più chiaro, comunque, che il limite cui ci si trova di fronte non è tutto tecnologico. Per

questo il team di ricercatori − che immagina il proprio condom sul mercato entro i prossimi tre, mas-

simo cinque anni − investe molto anche nella cooperazione con i sistemi e le organizzazioni sanitarie.

In particolare quelle di realtà in via di sviluppo, come le regioni dell’Africa subsahariana e del Sudest

Asiatico, oltre che con alcune comunità di immigrati. «Il nostro è anche un lavoro di educazione e cul-

tura sanitaria», spiega Gorkin. «Ma comprendere i gusti, addentrarsi nelle tradizioni che esistono in

luoghi completamente diversi del mondo, è una ricerca difficile quanto quella scientifica». Perché, di

fatto, il cuore della rivoluzione non è solo un prodotto chiamato Geldom, ma il nostro atteggiamento

nei suoi confronti. Il nuovo condom, insomma, dovrà funzionare prima di tutto nel cervello.

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O C E A N I A

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G E N D E R , O R I E N T A M E N T O S E S S U A L E , T R A D I Z I O N I , T R A N S

F A K A L E I T I , I L T E R Z O S E S S O

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L U O G O

I S O L E T O N G A

Si chiamano “fakaleiti”,

che tradotto letteralmente

significa “come una

donna” e, in un secolo che

mette l’identità di genere

al centro delle proprie

riflessioni, rappresentano

un’avanguardia dalle

origini antichissime.

Inedita, poco nota e

decisamente esemplare.

Sì, perché in uno Stato

monarchico estremamente

conservatore, anche perché

mai colonizzato da un’altra

nazione e sparpagliato su

oltre 170 isole nel mezzo

del Pacifico, nessuno ha

mai pensato di mettere

in relazione il loro sesso,

chiamiamolo così, “sociale”

con il loro orientamento

sessuale.

Un fakaleiti altri non è

che un bambino maschio

cresciuto come una

femmina da una famiglia

che non ha avuto bambine,

una decisione che viene

assunta come necessaria

e che è concessa

dalla cultura locale:

attualmente si contano

circa 300 fakaleiti su una

popolazione complessiva

di oltre 120mila persone.

In pratica, un fakaleiti

viene educato a rivestire

compiti tradizionalmente

femminili come cucinare,

fare le pulizie e prendersi

cura dei genitori anziani;

durante l’adolescenza può

stare in compagnia delle

ragazze, quando i maschi

non sono autorizzati

neppure ad avvicinarsi.

Veste indifferentemente,

e secondo preferenze

personali, abiti femminili,

maschili o neutri, salvo

nelle occasioni ufficiali

e cerimoniali, dove sono

richiesti vestiti da donna.

Nelle città, i fakaleiti adulti

svolgono professioni come

segretarie, domestiche,

parrucchiere dato che

in tutto e per tutto si

considerano − e vengono

considerati − donne.

Allo stesso tempo,

trattandosi di un genere

imposto socialmente

fin dalla nascita ma non

il frutto di una scelta

individuale, non esiste

una correlazione con

l’orientamento sessuale.

Certo, spesso accade che

i fakaleiti abbiano rapporti

sessuali e relazioni con

altri uomini che a loro volta,

e altrettanto logicamente,

non vengono considerati

omosessuali. Esistono però

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C A P I T O L O 6

O C E A N I A

Q U A D R A N T E M A P P A

O1

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P A R O L E C H I A V E

A T O L L I , G L O B A L W A R M I N G , M A R E E

J A C O P O P A S O T T I

F E D E R I C O B O N A

F . M A R C E L L O B O N F A N T I

C O O R D I N A T E G P S

1 . 3 2 7 8 7 5 N , 1 7 2 . 9 7 6 6 4 9 E

C A T E G O R I A

A M B I E N T E

L E I S O L E C H E S C O M P A I O N O

L U O G O

I S O L E K I R I B A T I

Una manciata di atolli

in mezzo all’oceano

Pacifico, 33 isolette,

perlopiù rappresentate

nelle carte da un punto,

giusto per segnalarne

l’esistenza. Intorno, la linea

del cambiamento di data

fa un’ansa di migliaia di

chilometri perché gli atolli

hanno deciso di mantenere

la stessa data della Nuova

Zelanda mentre invece

le Hawaii, poco a nord,

hanno quella degli Stati

Uniti: vicini di casa, ma

con un giorno di differenza.

È il classico arcipelago

tropicale, laguna, coralli,

palme, sole, mare

cristallino. Che sale anno

dopo anno, inesorabile.

Sì, perché a proposito del

cambiamento climatico

su una cosa gli scienziati

non hanno dubbi:

il livello marino sale,

e rapidamente. Secondo

l’Intergovernmental

Panel on Climate Change

(IPCC) si è alzato di

3,2 millimetri all’anno

durante l’ultimo decennio

ed entro fine secolo

potrebbe salire di 52-98

centimetri; riducendo

(e molto) le emissioni

globali crescerebbe tra

28 e 61. Quanto basta

a sommergere Kiribati,

100mila anime. La metà

dell’intera superficie non

raggiunge i due metri

sopra il livello marino.

Kiribati ha fatto notizia

anni fa quando il

cittadino Ioane Teitiota

ha chiesto asilo in Nuova

Zelanda. È stato il primo

rifugiato climatico della

storia. Il termine diverrà

comune anche se, per la

Convenzione per i Rifugiati

delle Nazioni Unite, quella

figura non esiste (ma si

inizia a parlarne). Teitiota

non intende tornare per

non mettere a rischio la

vita sua e della famiglia:

lì, dice, non c’è futuro.

Il 10% della popolazione

mondiale vive in regioni

costiere, a meno di 10

metri sul livello del mare.

Per loro l’aumento degli

eventi meteorici estremi,

l’erosione della costa,

la risalita del livello del

mare (e l’invasione delle

acque salate nelle falde

acquifere) sono una

minaccia seria: famiglie

e comunità intere

dovranno spostarsi.

fakaleiti che si sposano

con donne e hanno figli.

Com’è naturale, non

sempre le situazioni

sono così limpide,

specie sull’onda recente

dell’influsso dei costumi

e delle categorie del

mondo occidentale,

che per esempio hanno

forzato all’interno

di questa condizione

identità omosessuali

e transgender. Ma, in

linea di massima, i fakaleiti

restano un universo a sé,

che permette loro di essere

più spudorati di una donna,

alla quale si richiede

convenzionalmente

grande riservatezza,

e meno formali di un

uomo: stereotipi, entrambi,

messi in ridicolo durante

la tre giorni del concorso

di Miss Galaxy che,

ogni luglio nella capitale

Nuku’alofa, elegge

il fakaleiti dell’anno.

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O C E A N I A

Q U A D R A N T E M A P P A

F10

A L I C E P A C E

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A S T R O F I S I C A , A T M O S F E R A , G H I A C C I O

L U O G O

A N T A R T I D E

L A B A S E C O N I L P O L O I N T O R N O

C A T E G O R I A

S C I E N Z A

C O O R D I N A T E G P S

9 0 . 0 0 0 0 0 0 S , 1 3 9 . 2 6 6 6 6 7 O

Freddo, molto freddo.

Questa è una delle zone

più aride, ventose e

inospitali del mondo, dove

durante i mesi invernali

le temperature possono

sprofondare a -80 gradi

centigradi e, nel resto

dell’anno, innalzarsi fino

a un massimo di -20.

È l’Antartide, a pochi passi

dal Polo Sud, dove l’asse

terrestre buca, invisibile,

la superficie di questo

deserto di ghiaccio.

Proprio qui, a 2835 metri

di altitudine sul livello del

mare, sorge la Amundsen-

Scott South Pole Station.

Il laboratorio di

osservazione e ricerca

scientifica più meridionale

della terra, che prende

il nome dai primi

coraggiosi esploratori

giunti alla conquista del

Polo: il norvegese Roald

Amundsen nel 1911 e

l’inglese Robert Scott,

che vi giunse 33 giorni

dopo ma finì per perdervi

la vita. Incastonata in uno

spessore di ghiaccio di

migliaia e migliaia di metri

cubi in lentissimo − ma

inesorabile − slittamento,

avvolta da inarrestabili

raffiche di vento e bufere,

la base ha un’architettura

che rappresenta già di per

sé una sfida tecnologica

ai limiti del possibile.

Ciononostante la stazione,

il primo insediamento

permanente al Polo

Sud, può accogliere

contemporaneamente

al suo interno da 50 a 200

scienziati, impegnati

in varie discipline: biologia,

astrofisica, geologia,

scienze del clima.

Cosa li spinge laggiù?

Cosa c’è di così imperdibile

da investigare nel bel

mezzo di un'immensa,

desolante e desolata

distesa congelata?

Il ghiaccio, prima di tutto.

In profondità, sotto forma

di vecchie precipitazioni

e bolle d’aria, conserva

intrappolato, strato sotto

strato, un archivio di oltre

un milione di anni di storia

climatica del pianeta.

Poi l’atmosfera: è un

habitat così remoto e

scollegato dal resto del

mondo che vi si respira

l’aria più incontaminata

che si possa immaginare.

L’analisi della miscela di

molecole che la formano

fornisce un vero e proprio

bollettino dello stato di

salute della terra: non

solo per quanto riguarda

l’inquinamento ma anche

sul versante climatico,

dove il monitoraggio

costante delle condizioni

meteo integra in modo

sostanziale lo studio

del cambiamento e del

riscaldamento globale.

Non basta. Grazie alla

bassissima umidità e

all’atmosfera rarefatta,

il cuore dell’Antartide

è un luogo privilegiato

anche per l’astrofisica

e l’osservazione di

importanti fenomeni

elettromagnetici.

Si pensi alle aurore

visibili nell’oscurità

dell’interminabile notte

polare, oppure alle galassie

lontanissime che solo

il South Pole Telescope,

un radiotelescopio

sensibile alla radiazione

cosmica di fondo,

è in grado di vedere.

Ed è proprio qui, a una

manciata di metri dal

Polo Sud, che il rilevatore

IceCube è riuscito per

primo a captare i cosiddetti

neutrini, le particelle

subatomiche ad altissime

energie che potrebbero

un giorno contribuire

a svelarci i misteri più

profondi sui buchi neri

e, forse, sull’origine stessa

della materia oscura.

GENTILE CONCESSIONE DI NATIONAL SCIENCE FOUNDATION

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O C E A N I A

Q U A D R A N T E M A P P A

M7

F R A N C E S C O L I P A R I ,

A L E S S A N D R O M E L I S

P A R O L E C H I A V E

L E N L Y E , S O S T E N I B I L I T À , T R A D I Z I O N E P O L I N E S I A N A

Mentre la tradizione

edilizia oceanica, insieme

a quella della West Coast

americana, continua a

essere caratterizzata

soprattutto da sistemi

timber-frame (detti anche

a telaio in legno), un

nuovo trend celebra l’alta

tecnologia dell’industria

siderurgica locale

attraverso l’uso di strutture

inossidabili.

Fra queste architetture

il nuovo Len Lye Centre

di New Plymouth

nell’area del Taranaki

(in Nuova Zelanda) −

progettato da Patterson

Associated − offre al

territorio una prospettiva

nuova e internazionale:

è considerato un museo

unico e innovativo,

esattamente quanto lo

era stato Len Lye (1901-

1980), filmmaker e scultore

cinematico che l’edificio

vuole celebrare.

Commissionato dal

District Council di New

Plymouth e finanziato dal

governo neozelandese

con un'estesa raccolta

fondi, è concepito come

un tempio antropomorfo

della tradizione polinesiana

della Wharenui (la Casa

delle riunioni) e sfrutta

la massiccia scocca in

cemento armato per

contenere massa termica

utile al sostentamento

energetico. Il complesso

è la prova che strategie

passive a basso costo

e un design più cosciente

(quando le condizioni

climatiche lo consentono)

possono portare a risultati

migliori dell’impiego di

dispositivi tecnologici.

All’esterno, attraverso una

originale sovrapposizione

in facciata di setti a forma

di “S”, Patterson crea delle

sinuose aperture verticali

che consentono l’ingresso

della luce indiretta e

diffusa, permettendo in tal

modo a elementi altamente

performanti di diventare

la loro stessa matrice

estetica. Nonostante

i costi elevati, l’involucro

cromato assume una forza

comunicativa unica nel

panorama neozelandese;

è infatti diventato un

potente strumento di

marketing territoriale

della regione del Taranaki,

che fa dell’avanzato livello

tecnologico dell’industria

siderurgica uno dei suoi

grandi punti di forza.

La luce è ancora

protagonista nello spazio

interno, dove riesce

a ricreare un’esperienza

sensoriale tale da far

sentire il visitatore

all’interno di un vero

e proprio tempio religioso,

qui dedicato all’arte.

«Lye era affascinato

dai templi e noi abbiamo

progettato il suo museo

ispirandoci ai principi

del mondo classico

e alle forme polinesiane»,

ha spiegato Andrew

Patterson. «Dopotutto

il nostro committente,

indirettamente, era lui».

C O O R D I N A T E G P S

3 9 . 0 5 8 6 4 2 S , 1 7 4 . 0 7 0 2 6 6 E

C A T E G O R I A

A R C H I T E T T U R A

U N M U S E O I N O S S I D A B I L E

L U O G O

N E W P L Y M O U T H , N U O V A Z E L A N D A

©PATRICK REYNOLDS

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O C E A N I A

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G6

P A R O L E C H I A V E

N A N O T E C N O L O G I E , P A N N E L L I S O L A R I

M A R C O C O S E N Z A

Quando nel 1840 i primi

coloni si stabilirono nel

Mid-North, al centro

dell’attuale distretto della

South Australia, il sole era

un problema. Coltivare

campi riarsi e muoversi

tra i cunicoli delle miniere

con 40 gradi all’ombra

è proibitivo sia per l’uomo

sia per animali e vegetali.

Oggi, a quasi due secoli

di distanza, i giacimenti

di rame non si sono ancora

esauriti e il sole continua

a battere imperterrito sui

vigneti, gli allevamenti di

pecore, le infinite distese

di grano e frumento

della regione. Con una

importante differenza:

quei raggi, da avversari,

si sono trasformati

in alleati. La società

specializzata in energie

rinnovabili Infratech

Industries Inc. ha infatti

sviluppato − insieme

al Dipartimento di

nanotecnologie della

Flinders University −

e installato a Jamestown,

129 miglia a nord di

Adelaide, un parco solare

dalle caratteristiche

uniche. Contrariamente

a quanto si potrebbe

pensare, «i pannelli solari

non danno il meglio

quando sono esposti ad

alte temperature», spiega

Felicia Whiting, direttrice

di Infratech. La soluzione?

Immergerli nell’acqua su

speciali zattere, unendo

l’impianto fotovoltaico a

quello di depurazione delle

acque reflue: in tal modo

i pannelli, galleggianti

e naturalmente refrigerati,

si sono rivelati del 57%

più efficienti rispetto ai

cugini da terra o da tetto.

Gli effetti positivi, inoltre,

comprendono anche la

riduzione degli sprechi.

«Questa tecnica, oltre

ad aumentare la longevità

degli apparecchi, migliora

la conservazione delle

acque», prosegue Whiting.

I pannelli infatti schermano

la luce, così limitando

sia la dispersione da

evaporazione (fino al 90%)

sia la fotosintesi, causa

della diffusione di alghe

nocive e cianobatteri.

Una speciale copertura

previene corrosione e usura

dei materiali: «Per ogni

stazione da un megawatt

si risparmiano 700mila

ettolitri d’acqua all’anno».

L’impianto − tre anni di

lavori e una spesa di 12

milioni di dollari − è il primo

completato in Australia;

ora la tecnologia si prepara

a sbarcare in una terra

caratterizzata dalle stesse

scarsità idrica e fame

di tecnologia: la California.

Dal quartier generale

di Sydney, Infratech

porterà entro fine 2016

a Holtville, a pochi passi

dal confine col Messico,

3576 pannelli, 276 zattere

e 12 pompe, per generare

più energia pulita e ridurre

l’impiego di sostanze

chimiche come il cloro.

Ma anche per “tagliare

le gambe” ai combustibili

fossili, alla siccità, alla

bolletta, e per traghettare

la California verso il target

del 50% di rinnovabili che

si è prefissata per il 2030.

Z AT T E R E C O N T R O L A S I C C I TÀ

C A T E G O R I A

E N E R G I A

C O O R D I N A T E G P S

3 3 . 3 0 9 6 5 7 S , 1 3 8 . 5 9 6 3 9 2 E

L U O G O

J A M E S T O W N , A U S T R A L I A

GENTILE CONCESSIONE DI INFRATECH INDUSTRIES

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