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^ ^ C D Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom E così vivremo, e pregheremo, e canteremo, e ci racconteremo antiche storie, e sorrideremo alle farfalle dorate. William Re Lear Estratto della pubblicazione

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C D

Cura e introduzione di Gabriele Baldini

Con un testo di Harold Bloom

E così vivremo, e pregheremo, e canteremo, e ci racconteremo antiche storie, e sorrideremo

alle farfalle dorate.

William

Re Lear

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Opere

William

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Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico

letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di

Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma.

La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici

in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilie-

vo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di

una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare,

in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate

(Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro

inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizio-ne letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –,

le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Ma-nualetto shakespeariano.

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WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE

Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera

© 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano

Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli

ISBN 97888

Proprietà letteraria riservata

© 1963-2012 RCS Libri S.p.A., Milano

Titolo originale dell’opera:

Traduzione di Gabriele Baldini

Per il testo di Harold Bloom tratto da Shakespeare. L’invenzione dell’uomo© 2001 RCS Libri S.p.A.

Titolo originale dell’opera:

Shakespeare: the Invention of the Human© 1998 by Harold Bloom

Traduzione di Roberta Zuppet

Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

via Sol erino 28, 20121 Milano

Sede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano

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Prima edizione digitale da edizione LLIAM SHA ESPEARE - OPERE WI2012 2012K

8 – Re Lear

King Lear

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e note

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PRESENTAZIONEdi Harold Bloom

Insieme ad Amleto, Re Lear sfugge a qualsiasi commento. Tra i drammi di Shakespeare, questi due presentano un’estensione infinita che trascende forse i limiti della letteratura. Come il testo yahwista (il primo del Pentateuco) e il Vangelo se-condo Marco, le due tragedie annunciano l’inizio e la fine della natura e del destino umano. Pur suonando esagerata, tale affermazione è corretta; l’Iliade, il Corano, la Commedia di Dante e Paradiso perduto di Milton sono le uniche opere che possano reggere il confronto con questi due drammi in quella che possiamo ancora chiamare tradizione occidentale. In altre parole, Amleto e Re Lear rappresentano una sorta di Scrittura secolare o di mitologia, un destino bizzarro per due opere teatrali che sono sempre state dei successi commerciali.

In particolare, la lettura di Re Lear ha un che di misterio-so. Ci sentiamo allo stesso tempo estraniati e a nostro agio; almeno per quanto mi riguarda, nessuna esperienza solitaria è simile a questa. Sottolineo l’importanza della lettura perché ho assistito a varie rappresentazioni della tragedia e sono sem-pre rimasto deluso. I nostri attori e registi vengono sconfitti dal dramma, e comincio mio malgrado a essere d’accordo con Charles Lamb, secondo cui dovremmo continuare a rileggere Re Lear evitandone le parodie teatrali. Tale idea mi contrap-pone alla critica del nostro secolo e a tutti gli appassionati di teatro che conosco ma, in questa situazione, opposizione è sinonimo di vera amicizia. Su un piano puramente teorico, la parte di re Lear dovrebbe essere interpretabile; se non riu-sciamo a recitarla, la colpa è nostra e del totale declino della nostra cultura cognitiva ed erudita. Preso d’assalto dai film,

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dalla televisione e dai computer, il nostro orecchio interio-re ed esteriore non riesce a seguire il filo dei pensieri shake-speariani sfuggiti alla mente. Poiché La tragedia di Re Lear può essere considerata l’apice dell’esperienza letteraria, non possiamo permetterci di perdere la nostra capacità di affron-tarla. I tormenti di re Lear hanno una grande importanza per noi, quasi per tutti noi, perché il dolore dei conflitti genera-zionali è per forza di cose universale.

Qualcuno ha evidenziato un parallelo tra le sofferenze di Giobbe e la prova cui Lear viene sottoposto; un tempo ero d’accordo con questo luogo comune della critica, ma oggi lo giudico poco convincente. Nonostante la sua reputazione teologica, il paziente Giobbe non è, in realtà, molto paziente, e Lear è l’incarnazione dell’impazienza sebbene giuri il con-trario e usi parole toccanti per esortare alla pazienza l’accecato Gloucester. La differenza pragmatica tra l’angoscia di Giobbe e quella di Lear è notevole, almeno fino all’assassinio di Cor-delia. Credo che Shakespeare si sia ispirato a un altro modello biblico: re Salomone. Non mi riferisco a Salomone nel suo momento di gloria (nel Libro dei Re, nelle Cronache e, in modo indiretto, nel Cantico dei Cantici), bensì all’anziano monarca, saggio ma inasprito, giunto alla fine del suo regno, al presunto predicatore dell’Ecclesiaste e del Libro della Sa-pienza negli apocrifi nonché l’autore putativo dei Proverbi. Da piccolo Shakespeare aveva sentito leggere la Bibbia ad alta voce e da grande l’aveva letta per conto proprio. Poiché il drammaturgo scrisse Re Lear mentre lavorava al servizio di Giacomo I, che era conosciuto come lo stolto più saggio del cristianesimo, forse la figura del protagonista fu influenzata dall’ammirazione che il sovrano nutriva per Salomone, il più saggio tra i re. Ammetto che non sono molte le persone che individuano un legame immediato tra Salomone e Lear, ma il testo dimostra che Shakespeare intravide questa associazione. Fece infatti in modo che Lear accennasse al seguente passo del Libro della Sapienza, 7,1-6:

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Sum quidem et ego mortalis homo, similis omnibus,Et ex genere terreni ilius qui prior factus est;Et in ventre matris figuratus sum caro,Decem mensium tempore coagolatus sum in sanguine.Ex semine hominis, et delectamento somni conveniente.Et ego natus accepi communem aerem;Et in similiter factam decidi terram,Et primam vocem similem omnibus emisi plorans.In involumentis nutritus sum, et curis magnis:Nemo enim ex regibus aliud habuit nativitatis initium.Unus ergo introitus est ominibus ad vitam,Et similis exitus.

[Biblia vulgata]

[Io pure sono mortale e uomo come tutti gli altri, e sono nato da colui che per primo fu creato dalla terra.E nel ventre di mia madre fui plasmato in dieci mesi per essere carne: fui coagulato nel sangue dal seme dell’uomo e dal piacere che deriva dal sonno.E quando nacqui, ricevetti la comune aria e caddi sulla terra, che è di natura affine, dapprima piangendo e gemendo come tutti gli altri.Fui avvolto in fasce e nutrito con grande cura.Nessun re ha avuto altro inizio di nascita.Tutti gli uomini entrano nella vita e similmente ne escono.]

È questo l’inconfondibile riferimento dello straziante sermo-ne di Lear a Gloucester:

Lear. Se è sulla mia sorte che vuoi piangere, prenditi i miei occhi. Io so bene chi sei: ti chiami Gloucester. Devi avere pazienza; gemendo, siamo venuti al mondo. Tu sai che quando per la prima volta annusiamo l’aria ululiamo e gemiamo. Voglio farti la predica, sta’ attento.Gloucester. Ahimè, giorno nefasto!Lear. Quando si nasce, si piange perché ci si ritrova su questo enorme palcoscenico di matti.

[IV.vi.174-181]

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Dopo la morte di Salomone, il regno fu diviso, come avviene nel caso di Lear. Non credo tuttavia che Shakespeare si sia ispirato al vecchio Salomone per via delle catastrofi dei re-gni. Shakespeare cercava quello che oggi tendiamo a ignorare quando commentiamo Lear: il paradigma della grandezza. Quando spiego il dramma, comincio insistendo sul fatto che il foregrounding di Lear va rintracciato nello splendore, perché i miei studenti non se ne rendono conto subito, visto che ora la sublimità patriarcale non è più molto in voga. Lear è insieme padre, re e una sorta di dio mortale: è l’immagine dell’autorità maschile, forse la rappresentazione suprema del maschio europeo bianco morto. Salomone regnò per cin-quant’anni e, anche se la sua passione per le donne non lo accomunava all’ambiguo Giacomo, era l’archetipo sognato dal sovrano inglese: glorioso, saggio e ricco. Lear non è affatto un ritratto di Giacomo; con ogni probabilità, il regale pro-tettore di Shakespeare provava simpatia ma non empatia per Lear, colpevole dello smembramento del regno. La grandezza di Lear avrà però fatto certamente colpo su Giacomo: an-che quest’ultimo si considerava un re da capo a piedi. Penso che abbia riconosciuto nell’anziano Lear l’anziano Salomo-ne, entrambi uomini di oltre ottant’anni, entrambi bisognosi d’amore ed entrambi degni d’amore.

Quando spiego Re Lear, devo iniziare ricordando agli stu-denti che, per quanto sia detestabile nei primi due atti, il protagonista è molto amato da Cordelia, dal Matto, dal duca di Albany, dal conte di Kent, da Gloucester e da Edgar (vale a dire da tutti i personaggi positivi del dramma) ed è odiato e temuto da Goneril, Regan, dal duca di Cornovaglia e da Oswald (cioè dai cattivi secondari del dramma). Il grande cattivo della tragedia, il superbo e inquietante Edmund, è glaciale, indifferente verso Lear quanto lo è verso il padre Gloucester, il fratellastro Edgar e le amanti Goneril e Re-gan. Il genio di Shakespeare fa in modo che Edmund e Le-ar non si rivolgano una sola parola nell’intero testo, perché

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questi due personaggi sono antitesi apocalittiche: il re è tutto sentimento, ed Edmund è privo di qualsiasi sentimento. Il fore grounding fondamentale del dramma, se mai sia possibile comprenderlo, consiste nel fatto che Lear è amabile, amore-vole e molto amato da chiunque sia degno del nostro affetto e della nostra approvazione.

Naturalmente, chiunque può essere amato e amorevole e chiedere sempre di più. Se si è re Lear e non si conosce se stessi salvo che a un grado minimo, si esigerà l’amore a livello apocalittico, soprattutto da Cordelia, la figlia che si ama maggiormente. Il foregrounding del dramma comprende non solo la benevolenza di Lear e il risentimento di Goneril e Regan, stanche di essere messe in secondo piano a causa della sorella, ma soprattutto l’esitazione di Cordelia di fronte alle incessanti richieste di un amore totale che supera persino la sua sincera stima per il suscettibile genitore. La rude perso-nalità di Cordelia è una sorta di reazione al soffocante amore paterno. Mediante una delle numerose peculiarità del duplice intreccio shakespeariano, Cordelia, nonostante la sua impor-tanza assoluta agli occhi di Lear, svolge un ruolo molto meno importante rispetto a quello di Edgar, la sua figura parallela. Shakespeare tralascia vari regni intermedi per consentire a Edgar di succedere a Lear in veste di sovrano britannico. La leggenda, ancora in voga all’epoca di Shakespeare, attribuiva a Edgar il triste merito di aver liberato la Gran Bretagna dai lupi, che avevano invaso l’isola dopo la morte di Lear.

Sebbene gran parte delle rappresentazioni del dramma non lo mettano in evidenza, nella Tragedia di re Lear vi sono quattro grandi ruoli. Nonostante tutto il suo pathos, Cordelia non è tra questi, e nemmeno le parti di Goneril e Regan han-no una superiorità drammatica paragonabile a quella di Lear e del Matto. Questi ultimi richiedono attori abili e comuni-cativi come quelli destinati a interpretare Edmund ed Edgar, fratellastri antitetici. Ho visto qualche Edmund azzeccato, e il migliore è stato Joseph Wiseman, che, recitando questa parte

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molti anni fa a New York, salvò una tremenda produzione in cui Louis Cahern, nei panni di Lear, si dimostrò molto meno abile di quanto fosse stato nel ruolo dell’ambasciatore Trentino in Duck Soup dei fratelli Marx. Wiseman interpretò Edmund come un misto tra Lev Trockij e Don Giovanni, ma quello stra-tagemma funzionò benissimo, e nel testo del dramma vi sono molti elementi che alludono a questa curiosa miscela.

Molti lettori e spettatori rimangono ammaliati da Ed-mund quanto da Iago, ma Edgar, esitante e represso, è l’enig-ma principale dell’opera ed è così difficile da interpretare che non ne ho mai visto uno accettabile. Il frontespizio della prima edizione in quarto di Re Lear attribuisce al suo perso-naggio un’importanza che la critica riconosce solo di rado:

Di William Shakespeare: cronaca autentica della vita e della morte di re Lear e delle sue tre figlie. Insieme alla vita misere-vole di Edgar, figlio ed erede del duca di Gloucester, e come avesse assunto l’umore scontroso di Tom di Bedlam…

Nella produzione shakespeariana, l’aggettivo «scontroso» è le-gato alla melanconia e alla depressione, una forma di follia da cui Edgar finge di essere affetto quando si traveste da Tom di Bedlam. Il conte di Kent veste i panni di Caio per servire Lear. In una fuga parallela, Edgar rinuncia al proprio status, caden-do ancor più in basso del gradino più umile della scala sociale. Perché Edgar sceglie questo travestimento? Vuole punire se stesso per la propria credulità, per aver ereditato l’incapacità paterna di intuire gli astuti inganni di Edmund? In tutto il dramma, l’abnegazione di Edgar ha qualcosa di così incom-mensurabile da costringerci a vedere in lui un’esitazione simile ma di gran lunga superiore a quella di Cordelia. A prescindere dal fatto che scelga di vestire i panni di un pazzo o di un po-vero contadino, Edgar rifiuta la propria identità per obiettivi che non sono solo pratici. La più straordinaria manifestazione di tale rifiuto è rappresentata dal fatto che non intende rivelare

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la propria identità a Gloucester, suo padre, nemmeno quando lo salva dall’assassinio da parte del deplorevole Oswald e dal suicidio dopo la sconfitta di Lear e Cordelia. Solo quando sta per riconquistare il proprio rango, poco prima di sfidare Edmund a un combattimento mortale, Edgar dice la verità a Gloucester in modo da ottenere la benedizione paterna per il duello. L’incontro del riconoscimento, che segna la morte di Gloucester, è una delle grandi scene non scritte di Shake-speare, poiché si riduce al racconto di Edgar ad Albany dopo che Edmund ha ricevuto la ferita mortale. Perché Shakespeare decise di non drammatizzare l’avvenimento?

Dal punto di vista teatrale, si potrebbe rispondere dicendo che le complessità del duplice intreccio apparivano già così numerose da indurre il drammaturgo a non rischiare ulte-riori complicazioni. L’audacia shakespeariana è tuttavia tanto vasta che dubito di questa risposta. Lear si desta e rinsavisce per riconciliarsi con Cordelia, una scena di cui tutti gioiamo. Benché l’emozione uccida l’anziano accecato, la riconciliazio-ne tra Edgar e Gloucester avrebbe potuto essere un momento altrettanto commovente. Anche se di solito diamo maggiore importanza al Matto o allo spaventoso e seducente Edmund, il sottotitolo del dramma ci guida giustamente verso Edgar, che erediterà il regno distrutto. L’autonegazione drammatica di Shakespeare nell’omettere la scena della rivelazione di Ed-gar a Gloucester pone prima l’accento su Edgar, che racconta la storia, e poi su suo padre. Sulla personalità e sul carat-tere di Edgar sappiamo più di quanto saremmo riusciti ad apprendere se avessimo visto quella scena, anche se, a causa delle esigenze dell’intreccio shakespeariano, conosciamo già abbastanza bene un ruolo che incarna il pathos e il valore dell’amore filiale molto più di quanto faccia quello di Corde-lia. Ritorno pertanto all’immersione volontaria nell’umilia-zione che Edgar infligge a se stesso.

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Se fosse possibile parlare di un centro poetico anziché di un centro drammatico della tragedia, potremmo scegliere l’in-contro tra l’impazzito re Lear e l’accecato Gloucester nell’atto IV, scena vi, versi 80-185. Sir Frank Kermode osserva giusta-mente che, pur costituendo l’apice dell’arte di Shakespeare, l’incontro non spinge in avanti l’intreccio. I lettori e gli spet-tatori si concentrano su Lear e Gloucester, ma Edgar è il coro dell’interludio e ha impostato la tonalità dell’atto IV, in cui i versi iniziali culminano nella frase «I cambiamenti davvero lamentevoli sono dal meglio; dal peggio si ritorna alla risata». L’ingresso dell’accecato Gloucester oscura quella disperata consolazione, costringendo Edgar a correggersi come segue: «Il peggio non è peggio finché si può ancor dire: “Questo è il peggio”». Il peggio arriverà quando «il peggio» sarà già mor-to nel nostro cuore. Gloucester, accecato e abbandonato, è un’immagine paterna abbastanza suggestiva da gettare nuova luce persino sulla follia da reietto di Lear. La pazzia e la cecità diventano un duetto molto simile alla tragedia e all’amore, il duetto che tiene insieme l’intero dramma. Pazzia, cecità, tragedia e amore si amalgamano in un’enorme confusione.

«Ma che accadrebbe se un eccesso d’amore / li confondes-se fino alla morte?» chiede Yeats in Pasqua, 1916. Qualunque cosa significasse in relazione a MacDonagh e MacBride e a Connolly e Pearse, questa domanda si adatta anche a Lear. Dal punto di vista pragmatico, l’amore, sia esso quello di Lear per Cordelia o di Edgar per il padre Gloucester e il patrigno Lear, è uno spreco nella più tragica fra le tragedie. La lussu-ria non ottiene risultati migliori; quando, in punto di mor-te, Edmund afferma che c’era qualcuno che l’amava, la sua improvvisa capacità di provare affetto ci sorprende, anche se sceglieremmo un verbo diverso da «amare» per descrivere la passione omicida di Goneril e Regan.

Come nel dramma di Macbeth, in quello di Amleto vi è una coscienza centrale. Nel dramma di Otello, vi è come minimo un nichilista dominante. Ma il dramma di Lear è

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organizzato in maniera bizzarra. Prima che Lear impazzisca, la sua coscienza va oltre la comprensione immediata: il fatto che Lear non conosca se stesso, unito alla sua spaventosa autorità, rende il personaggio inconoscibile ai nostri occhi. Da quel momento in poi, Lear, sconcertato e sconcertante, assomiglia meno a una coscienza che a una divinità in declino, salomo-nica nel suo senso di gloria perduta, simile a Yahweh nella sua irascibilità. Per forza di cose, la coscienza centrale del dramma è quella di Edgar, che pronuncia più versi di qualunque al-tro personaggio ad eccezione di Lear. Edmund, più brillante persino di Iago, meno improvvisatore e più stratega del ma-le, sprofonda nel nichilismo più di quanto faccia l’alfiere, ma nessuno, sia esso un eroe o un cattivo, può predominare nella tragedia di Lear. Al contrario di quanto dicono gli storici della vecchia e della nuova guardia, Shakespeare sfonda ogni con-testo, e più che mai in questo dramma. La figura dell’eccesso e del rovesciamento non abbandona mai il testo shakespearia-no; ad eccezione di Edmund, tutti amano o odiano troppo.

Edgar, il cui pellegrinaggio dell’abnegazione culmina nella vendetta, viene sopraffatto dall’impotenza del proprio amore, un amore che cresce sempre più in vastità e intensità, con la conseguenza pragmatica di causargli ulteriori sofferenze nel momento in cui viene incoronato re. Edmund, che cerca di compiere una buona azione nonostante quella che continua a definire la propria natura, muore fuori scena senza sapere se Cordelia sia stata salvata o meno. So che nessun formalista o storicista troverà accettabile la domanda: in che misura Ed-mund conosce se stesso poco prima di morire? Il suo senso di identità, che rimane solido finché Edgar lo sconfigge, vacilla per tutta la lunga scena della morte. Lear ed Edgar sono ac-comunati da evidenti confusioni dell’identità, che sembrano essere ulteriori manifestazioni di un amore eccessivo. Shake-speare ci insegna che il vero amore è solo quello tra genitori e figli, ma la principale conseguenza di tale sentimento è la di-struzione. Nessuna delle due concezioni antitetiche della na-

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tura presenti nel dramma, quella di Lear e quella di Edmund, riesce a superare un attento esame dei cambiamenti che i pro-tagonisti subiscono negli atti IV e V. Il «Tutto sta nell’esser maturi» di Edgar viene frainteso se lo interpretiamo come una forma di conforto stoico, per non dire di consolazione cristia-na. Shakespeare riprende volontariamente l’«essere pronti è tutto» di Amleto, che a sua volta è un capovolgimento ironico della sonnolenza di Simon Pietro, all’origine della reazione di Gesù: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Se dobbia-mo sopportare la nostra uscita dal mondo come la nostra ve-nuta, la frase «Tutto sta nell’esser maturi» indica quanto poco sia quel «tutto». Come osserva W.R. Elton, Edgar ci dirà ben presto che «la sopportazione e la maturità non sono tutto». La sua battuta finale consiglia di gravarci «del peso di questo triste tempo», un aggravio che prevede la sua riluttante accettazione della corona e della terrificante missione storica di liberare la Gran Bretagna invasa dai lupi.

L’amore, disse una volta Samuel Johnson, è la saggezza dei folli e la follia dei saggi. Il più illustre critico della no-stra tradizione non si riferiva alla tragedia di Lear, anche se avrebbe potuto farlo, perché la sua affermazione è insieme shakespeariana e prudente e illumina le limitazioni dell’amo-re nel dramma. Alla fine dell’opera, Edgar diventa saggio, ma l’amore continua a essere la sua follia perché genera il suo dolore inconsolabile per i due padri. Al termine del dramma, sul grande palcoscenico dei folli rimangono solo tre soprav-vissuti: Kent raggiungerà ben presto il suo padrone, Lear, mentre Albany, traumatizzato, abdica in favore di Edgar. Il matrimonio con Goneril sarebbe stato più che sufficiente per ridurre allo stremo un personaggio più forte di Albany, e Kent è soltanto un sopravvissuto. Edgar è il centro, e possia-mo domandarci perché impieghiamo tanto tempo per capire che, se escludiamo Lear, questo è, dopo tutto, il dramma di Edgar. L’eccessivo amore di Lear per Cordelia cerca in tutti i modi di controllare la giovane finché l’immagine dell’autorità

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viene mandata in frantumi, e non redenta come sostengono i cristianizzatori di questo dramma pagano. L’amore fedele trasforma Edgar in un inarrestabile vendicatore nei confronti di Edmund e in un monarca adatto ai periodi difficili, ma lo schema dell’opera prevede che l’amore di Edgar sia catastro-fico quanto quello di Lear. Nella Tragedia di re Lear, l’amore non è un mezzo di salvezza, anzi è la causa di tutti i problemi e diventa esso stesso tragedia. Gli dei di Re Lear non uccidono gli uomini e le donne per divertimento; infliggono a Lear ed Edgar un eccesso d’amore e a Goneril e Regan i tormenti della lussuria e della gelosia. La natura, invocata da Edmund come una dea, distrugge questo personaggio attraverso la vendetta naturale del fratello, poiché Edmund è immune all’amore e dunque ha scelto la divinità sbagliata.

Il dottor Johnson diceva di non poter sopportare l’atto V perché offendeva la giustizia divina e dunque la sua moralità, ma il grande critico ha forse mal interpretato la propria rea-zione. Quello che il dramma di Re Lear offende davvero è la nostra universale idealizzazione del valore dell’amore familia-re, vale a dire il valore personale e il valore sociale dell’amore. Il dramma esprime una profonda angoscia per la sessualità uma-na e una compassionevole disperazione per la natura distrut-tiva dell’amore paterno e di quello filiale. L’amore materno viene escluso dalla tragedia, come se l’amore naturale nella sua forma più vigorosa fosse troppo difficile da sopportare persino per questa sublimità negativa. A meno che non fosse la moglie di Giobbe, che consiglierebbe al re in tono laconico di maledi-re gli dei e morire, la regina di Lear aggiungerebbe un fardello intollerabile a un dramma già estremamente straziante.

Hazlitt sostiene che sia impossibile descrivere il dramma e l’effetto che esso esercita sulla mente. Pronunciando un’affer-mazione inaspettata per un critico psicologico tanto brillante, Hazlitt osserva: «Tutto ciò che possiamo dire non riuscirà a esprimere il tema e nemmeno l’idea che ce ne siamo fatti». Hazlitt pone l’accento sull’aspetto più inquietante di Lear:

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quel che pensiamo della tragedia rimane fuori della portata dei nostri mezzi espressivi. Credo che tale effetto derivi dalla ferita universale che l’opera infligge al valore dell’amore fa-miliare. Discutere questo punto è doloroso, ma in Lear tutto è doloroso. Per citare Nietzsche, il dolore non è significativo, ma in questo dramma il significato diventa doloroso. For-muliamo un giudizio errato se affermiamo che le permuta-zioni di Lear hanno il carattere di una redenzione; non può infatti esservi alcuna rigenerazione quando l’amore coincide con il dolore. Ogni tentativo di mitigare l’atmosfera cupa di quest’opera è un’involontaria bugia critica. Quando, parlan-do di Lear, Edgar dice: «Lui ha contro le figlie, io il padre», la tragedia viene condensata in sole otto parole.

Cercate di sbrogliare questa matassa gnomica e che cosa ricavate? Non un parallelo tra due innocenze (quella di Lear e quella di Edgar) e due colpe (quella delle figlie maggiori di Lear e quella di Gloucester), perché Edgar non conside-ra colpevole il padre. «Lui ha contro le figlie, io il padre» non contiene alcun riferimento a Goneril e Regan, ma solo al parallelo tra Lear-Cordelia ed Edgar-Gloucester. Tra questi quattro personaggi vi è amore, e solo amore, eppure vi è an-che tragedia e solo tragedia. In maniera sottile, Edgar indica il legame tra la sua aspra esitazione e quella di Cordelia. Senza l’iniziale esitazione di Cordelia, non vi sarebbe stata alcuna tragedia, ma in quel caso Cordelia non sarebbe stata Corde-lia. Senza la caparbia sopportazione e abnegazione di Edgar, l’angelo vendicatore che abbatte Edmund non avrebbe avuto origine da un credulone innocente. Possiamo meravigliarci per la profondità e la durata dell’autoumiliazione, ma senza di essa Edgar non sarebbe stato Edgar. Non vi è inoltre alcu-na ricompensa; Cordelia viene uccisa, ed Edgar si rassegna disperato a portare il fardello della regalità.

I critici hanno dato un’interpretazione più ottimista, so-stenendo l’idea dell’amore come redenzione e della giustizia approssimativa che colpisce tutti i cattivi del dramma. I mo-

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stri fanno la fine che meritano: Edgar bastona Oswald fino ad ammazzarlo; mentre cerca di difendere Gloucester, il servo ferisce mortalmente il duca di Cornovaglia; Goneril avvelena Regan e poi si suicida con una pugnalata al cuore; Edgar ucci-de Edmund, e il pubblico sa che è questo il suo destino. Non proviamo tuttavia alcuna soddisfazione di fronte a questo massacro dei malvagi. Ad eccezione di Edmund, queste figure sono troppo barbare per poterle tollerare, e anche Edmund, per quanto sia affascinante, meriterebbe come tutti gli altri di essere accusato di crimini contro l’umanità. Queste morti sono prive di significato… anche quella di Edmund, perché il suo tardivo cambiamento non riesce a salvare Cordelia. La morte di Cordelia, che per noi è oltremodo dolorosa, acqui-sta però significato solo grazie a quel dolore. È sorprendente notare che Lear e Gloucester muoiono più di gioia che di dolore. La gioia che uccide Lear è illusoria: il protagonista sembra delirare e guarda Cordelia come se non fosse morta o se fosse risorta. La gioia di Gloucester ha un fondamento concreto, ma dal punto di vista pragmatico gli estremi della felicità e dell’angoscia che lo uccidono sono indistinguibi-li. «Lui ha contro le figlie, io il padre»: Lear e Gloucester vengono ammazzati dall’amore paterno, dall’intensità e dalla sincerità di quell’amore. Una guerra tra fratelli; il tradimento dei padri da parte delle figlie e di un figlio naturale; un figlio leale e una figlia devota che non vengono compresi da nobili patriarchi; i rapporti sessuali considerati lussuriosi: che cosa ereditiamo da questa tragedia, soggetta alle nostre incessanti moralizzazioni? Esiste una e una sola forma d’amore valida: quella che emerge alla fine tra Lear e Cordelia e tra Gloucester ed Edgar. Il suo valore, che accantona le irrilevanti moraliz-zazioni trascendentali, non è poi così negativo: sa essere più forte della morte ma conduce solo alla morte o a una morte nella vita per lo straordinario Edgar, il sopravvissuto dei so-pravvissuti shakespeariani.

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Nessuno considererebbe La tragedia di Re Lear un’aberra-zione shakespeariana: il dramma prende spunto da alcuni aspetti di Amleto, Troilo e Cressida, Misura per misura e Otello ed è chiaramente un preludio ad alcuni elementi di Macbeth, Antonio e Cleopatra e Timone d’Atene. Fra i drammi, soltan-to Amleto sembra essere più importante per Shakespeare di quanto lo sia Re Lear, e, nelle loro implicazioni fondamenta-li, le due opere si intrecciano. Quando muore, Amleto ama qualcuno? L’aura trascendentale evocata dal momento della sua morte, la nostra sensazione di libertà carismatica, si basa proprio sul fatto che il principe si è liberato di ogni affettività oggettuale, sia essa rivolta al padre, alla madre, a Ofelia o al povero Yorick. Nell’atto V, Amleto pronuncia una sola volta la parola padre e solo per riferirsi al sigillo paterno, usato per mandare a morte Rosencrantz e Guildestern. L’unico rife-rimento alla persona del padre si trova quando il principe parla di Claudio dicendo che questi ha ucciso «il mio re» e trasformato sua madre in una sgualdrina. L’addio di Am-leto a Gertrude è il non molto affettuoso: «Infelice regina, addio». Vi è naturalmente Orazio, che l’amore per Amleto spinge sull’orlo del suicidio, da cui il principe lo salva, ma solo affinché il sopravvissuto lavi il suo nome offeso. Nulla di quanto accade nella tragedia Amleto offre all’amore qual-cosa più di un nome offeso. Più di qualsiasi altro autore, Shakespeare tramuta l’amore in tutte le sue forme (familia-re, erotico o sociale) nel più grande tra i valori drammatici ed estetici. Più di qualsiasi altro autore, Shakespeare spoglia tuttavia l’amore dei suoi valori presunti.

La critica implicita all’amore da parte di Shakespeare non può essere definita puro scetticismo. Come ho appreso dal dottor Johnson, la critica letteraria è l’arte di rendere espli-cito l’implicito, e corro il rischio di insistere su un punto che, se invitati a riflettervi, molti giudicheranno ovvio. «Non possiamo scegliere chi siamo liberi di amare», un famoso verso di Auden, fu forse influenzato da Freud, ma, come

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hanno dimostrato le vendette del tempo, Sigmund Freud non è altro che un tardivo William Shakespeare, «l’uomo di Stratford», come amava chiamarlo lo psichiatra per difende-re il genio defraudato del conte di Oxford. Esiste un amo-re che può essere evitato, ed esiste un amore più profondo, inevitabile e terribile, molto più importante per l’invenzione shakespeariana dell’umano. Mi sembra giusto chiamarla co-sì anziché reinvenzione, perché, come dice Wallace Stevens, l’epoca precedente a quella in cui Shakespeare esercitò tutta la sua influenza su di noi fu anche l’«epoca precedente a quella in cui diventammo del tutto umani e imparammo a conoscere noi stessi». L’amore irreparabile, che distrugge qualsiasi altro valore, era ed è un’ossessione romantica. La rappresentazione dell’amore, in e da parte di Shakespeare, fu tuttavia la maggiore contaminazione letteraria da cui scaturì il Romanticismo.

Più di qualsiasi altro critico novecentesco, A.D. Nuttall ha chiarito alcuni dei paradossi fondamentali della rappre-sentazione shakespeariana. Mi tornano sempre in mente due delle sue osservazioni: Shakespeare è molto più avanti di noi e illumina le nostre ultime mode intellettuali molto più di quanto queste ultime riescano a illuminare lui, e Shakespeare ci consente di vedere realtà che forse esistevano già ma che non avremmo potuto vedere senza di lui. Gli storicisti (vec-chi, nuovi e in via di sviluppo) non sono d’accordo quando aggiungo ai commenti di Nuttall una terza affermazione: in misura sorprendente, la differenza tra quanto sapeva Shake-speare e quanto sappiamo noi è costituita dallo stesso Shake-speare. Lui è quel che sappiamo perché noi siamo quel che lui sapeva: lui aveva contro i figli, noi i padri. Se Shakespeare, come tutti i suoi e i nostri contemporanei, è solo un’entità sociale, istrionica e fittizia, e quindi non un autore indipen-dente, tanto di guadagnato. Forse Borges aveva in mente un paradosso chestertoniano, ma rivelò una verità più letterale che figurativa: Shakespeare è tutti e nessuno. Anche noi, ma

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